lunedì 20 febbraio 2012

Primarie Pd
Prime stime sull’affluenza: oltre 110mila votanti nel Lazio

“Oggi, domenica 19 febbraio 2012, oltre110mila persone hanno votato nei 563 seggi aperti in tutta la regione per le Primarie per la segreteria regionale del Pd Lazio. Secondo le prime stime, nella città di Roma i votanti sono stati oltre 40mila. Nella provincia di Roma, i votanti sono stati circa 38mila. Nella provincia di Frosinone, circa 13mila. In provincia di Viterbo, circa 10mila. Nella provincia di Latina, circa 8mila. Nella provincia di Rieti, circa 2500. Le cifre definitive verranno diffuse nelle prossime ore. Entro 48 ore, le commissioni provinciali per il Congresso certificheranno i dati”. Lo rende noto Francesco D’Ausilio, coordinatore della Commissione regionale per il Congresso del Pd Lazio.
Numeri «importanti» ma comunque assai distanti dalla performance registrata nel 2009, quando in 200mila si recarono a votare
da pdlazio.it

l’Unità 20.2.12
Per il segretario Cgil sono molti i nodi irrisolti della trattativa. Oggi nuovo incontro al ministero
Camusso teme sorprese al tavolo
«L’articolo 18 norma di civiltà»
Il segretario della Cgil, Susanna Camusso, ieri è intervenuta alla trasmissione “Che tempo che fa”, condotta da Fabio Fazio ed ha difeso la cassa integrazione e l’articolo 18 («Una norma di civiltà»).
di Giuseppe Caruso


«Una norma di civlità». Non ha dubbi Susanna Camusso, intervistata da Fabio Fazio a Che tempo che fa, quando parla di articolo 18. Il segretario della Cgil ha espresso il suo parere ieri, il giorno prima di un nuovo incontro al tavolo aperto dal governo per discutere di mercato del lavoro. Questo pomeriggio infatti sindacati ed esecutivo riprenderanno a cercare un punto di intesa. Anche se a riguardo la Camusso si è mostrata molto prudente: «È un po’ presto per dire che siamo vicini».
TEMPO
Il segretario della Cgil ieri da Fazio ha illustrato le sue idee su lavoro, governo e ruolo dei sindacati. Ricordando per esempio come l’articolo 18 sia «esistito per tanti anni, anche di crescita, e nessuno aveva mai sollevato il problema. Che ci sia in questo momento un carico del tutto ideologico nella questione, è fuori discussione, ma non si può cambiare l'articolo 18 nella sua sostanza, perché non si può licenziare se non c'è un giustificato motivo».
Secondo il segretario Cgil si tratta di «una norma di civiltà ma soprattutto una norma deterrente, visto che il contenzioso giudiziario sull'articolo 18 è basso, non ha numeri infiniti. Questa norma non si può indebolire, perché il messaggio che verrebbe ricavato non è di una maggiore efficacia economica ma piuttosto un “potete fare quello che volete” che porterebbe ad una forma di servitù. Bisognerebbe cambiare qualcosa d’altro: un procedimento giudiziario per un licenziamento dura sei anni, questa è un'incertezza eccessiva sia per il lavoratore che per l'impresa. In questo caso il problema non è cambiare l'articolo 18 ma trovare procedure per risolvere contenziosi in tempi più rapidi».
La Camusso si è nuovamente espressa anche in difesa della cassa integrazione: «Quando la ministra del lavoro, Elsa Fornero, dice con troppa scioltezza che la Cigs si può eliminare, dice una cosa non vera. I sussidi non bastano, perché l'indennità di disoccupazione ha due fondamentali difetti: dura 8/10 mesi per il 60% dell'ultima retribuzione. quindi molto meno della cassa integrazione. Non è uno strumento universale e dura di meno».
SERVONO RISORSE
«Se bisogna trovarlo, questo strumento universale» ha continuato la Camusso «servono le risorse. Dove le troviamo? In parte dalla contribuzione, in parte dalla cassa retribuzione in deroga, in parte bisogna servirsi delle risorse che sono state utilizzate per gli ammortizzatori straordinari. In tal senso si potrebbe pensare poi ad un'imposta patrimoniale progressiva, alla lotta all'evasione. I soldi si può e bisogna trovarli».
Per quanto riguarda poi l’incontro di oggi con il governo, la Camusso si è detta convinta della «necessità che il Paese abbia un intervento sul mercato del lavoro e credo sia necessario farlo con il contributo delle parti sociali. Ma per dire che siamo vicini, è un pò presto».
Quindi una proposta: «Penso che le pensioni e le retribuzioni sopra un certo reddito, per una quota, dovrebbero essere pagate in titoli di stato. Questo vuol dire riportare il debito nel nostro Paese, non darlo alla speculazione e dire alle banche di investire i soldi che hanno nell'economia reale. Io vedo soprattutto una cosa da fare in questa fase: sollecitare le banche a dare credito alle imprese e alle famiglie».
LE REAZIONI
La presenza del segretario della Cgil alla trasmissione di Fabio Fazio, non è piaciuta a tutti. La Cisl, che oggi siederà accanto alla Cgil al tavolo, su Twitter ha attaccato Fabio Fazio per la scelta di invitare la Camusso ed al contempo per «l' esclusione scientifica e reiterata del nostro sindacato. Fabio Fazio è il conduttore più pagato e più settario della Rai».
Il segretario della Cisl però ieri, nelle sue dichiarazioni, è apparso piuttosto vicino alla collega della Cgil: «Parlare di rimuovere i sostegni, come la cassa integrazione, significa buttare un cerino in un bidone di benzina. Il Paese aspetta una rassicurazione su questo ed inoltre il governo deve capire che se per il lavoro è importante la riforma, la cosa più importante è come si lavora. Senza una buona economia non c'è lavoro».
«Non vorrei» ha aggiunto Bonanni «che tutto ciò nascondesse l'intenzione di rimuovere la Cassa in deroga per risparmiare. Noi possiamo anche essere disposti ad incontrare il governo a mezza strada, ma il governo deve incontrare a mezza strada no. Ci vuole buona volontà da parte di tutte le parti in causa».

l’Unità 20.2.12
L’ex segretario Pd apre al governo sul mercato del lavoro. «Non regaliamo Monti alla destra»
«Basta tabù sull’articolo 18»
Veltroni apre la sfida nel Pd
Fioroni: «Da irresponsabili mettere ostacoli al nuovo Patto sociale»
Fassina: «Nel partito è stata votata un’altra posizione».
Caro Walter, così ci arrendiamo al pensiero unico
di Stefano Fassina


Caro Walter, ti scrivo dopo aver letto la tua intervista oggi a Repubblica, senza alcuno spirito polemico, soltanto nel tentativo di evitare valutazioni politiche fact free.
Primo, «la patrimoniale» esiste soltanto nel linguaggio dei media. Al Lingotto non fu proposta una imposta patrimoniale ordinaria universale (su tutte le famiglie) ad aliquota minima e finalizzata a ridurre l’indebitamento netto, come le imposte patrimoniali introdotte dal governo Monti (...). Al Lingotto fu proposta, seppur in termini generici, un’imposta patrimoniale straordinaria, ad aliquota elevata, sul famoso 10% più ricco delle famiglie italiane, finalizzata ad abbattere il debito pubblico di decine di punti percentuali di Pil (...). La corrispondenza tra quanto approvato dal Parlamento a dicembre scorso è come tra il giorno e la notte. Perché il Lingotto viene, ancora una volta, presentato come precursore dell'intervento di Monti? (...) Secondo, le imposte patrimoniali ordinarie universali introdotte dal governo Monti e da te particolarmente apprezzate consistono sostanzialmente di Ici (ora denominata Imu). Dei circa 12 miliardi all’anno raccolti dalle imposte patrimoniali ordinarie approvate, oltre 11 derivano dall’Ici, ossia imposte sulla casa, su tutte le case(...) Sicuro che un governo progressista non avrebbe potuto fare meglio?
In generale, caro Walter, per valutare il tasso di riformismo del governo Monti, dovremmo ricordare che il Decreto «Salva Italia», oltre al brutale ed iniquo intervento sulle pensioni di anzianità, in particolare delle donne, ha introdotto maggiori imposte per circa 40 miliardi all’anno. Oltre all’Ici, si tratta di imposte sui consumi (Iva e accise), Tarsu ed addizionali regionali all’Irpef, le quali, come noto, sono proporzionali, non progressive, sulle relative basi imponibili, quindi colpiscono in misura più consistente i redditi più bassi e medi. A Varese, all’assemblea nazionale di ottobre 2010, all’unanimità abbiamo votato le proposte della segreteria del Pd che, in quanto progressive (e progressiste), vanno in direzione opposta. A proposito, di riforma della politica, la prima regola per un dirigente nazionale sarebbe quella di affermare la posizione del partito di cui è parte. La posizione del Pd sul mercato del lavoro e sull’art.18 è diversa dalla tua, ovviamente legittima, ma minoritaria nel partito (...).
Infine, senza nulla togliere alla funzione positiva finora svolta dal governo, gli esempi da te ricordati soltanto in Italia sono considerati «riformisti». In qualunque altro Paese civile, la lotta all’evasione, la ricostruzione di un decente servizio pubblico radiotelevisivo, l’applicazione senza distorsioni dell’Imu sugli immobili ad uso commerciale delle chiese, sono denominatore comune dell’arco costituzionale. Se il programma del governo Monti è l’orizzonte di una forza progressista come il Pd, allora delle due l’una: o il PdL, che insieme a noi sostiene il governo Monti, è diventato un partito progressista, oppure la tua valutazione è sbagliata. Se fosse giusta, dovremmo essere conseguenti. Alle prossime elezioni il Pd dovrebbe presentarsi insieme al PdL, oltre che al Terzo Polo: una sorta di partito unico del pensiero unico. La fine della politica, non solo della democrazia dell’alternanza.

Repubblica 20.2.12
La partita Pd per la premiership spunta la corrente dei "montiani"
Casini difende Veltroni. Tensione anche nel Pdl
L’eventuale corsa di "SuperMario" sul tavolo del vertice dei berlusconiani a Villa Gernetto
di Francesco Bei


ROMA - C´è qualcuno che già lavora per candidare Monti nel 2013? Ecco, siamo di nuovo lì. A quella prima pagina del Manifesto del ‘95, governo Dini, quando la sinistra si chiedeva «Baciamo il rospo?». Quindici anni dopo c´è Mario Monti a dividere il campo, a destra ma soprattutto a sinistra. Il Pd è attraversato da sospetti, acuiti dall´intervista rilasciata ieri da Walter Veltroni a Repubblica. Il governo ha un profilo «riformista» e sarebbe «un grave errore» regalare Monti alla destra, ha detto l´ex segretario. Attirandosi una violenta scomunica di Stefano Fassina, membro della segreteria e vicino alle posizioni della Cgil. Eppure Veltroni tocca un nervo scoperto. «Ha messo il dito nella piega - ha commentato Casini con i suoi dopo aver letto l´intervista - anche se è più facile parlare quando sei un battitore libero: Bersani, da segretario, deve conciliare le due anime del partito».
Che sia questa - Monti o non Monti nel 2013 - la questione centrale lo dimostra del resto la dichiarazione di sostegno arrivata da Enrico Letta, un altro sponsor del Professore: «Berlusconi tenta di berlusconizzare Monti? Chissà. Nel dubbio fa bene Veltroni a ribadire che non dobbiamo cedere Monti alla destra». Il Pd è chiamato a scegliere, tanto che inizia a farsi strada l´ipotesi di anticipare il congresso - previsto nell´autunno 2013 - a una data più ravvicinata, per sciogliere il nodo delle alleanze e dell´identità del partito. Certo l´ala bersaniana inizia a vivere con una crescente insofferenza la posizione troppo montiana dei veltroniani. Fassina si rivolge a Veltroni senza diplomazia: «Se la tua valutazione fosse giusta alle prossime elezioni il Pd dovrebbe presentarsi insieme al Pdl, oltre che al Terzo Polo». Dalla segreteria di Bersani anche Roberta Agostini dà voce ai sospetti su Veltroni. Baciare il rospo? «Noi - dice Agostini - siamo con Monti ma oltre Monti. Non penso che il Pd possa candidarlo e, se qualcuno lo pensa, sbaglia i propri conti. Sarebbe una scelta suicida. Fassina interpreta un sentimento di malessere che c´è nel paese per i sacrifici non sempre equi imposti da Monti».
Bersani e l´ala sinistra del Pd temono anche la concorrenza sempre più aggressiva di Sinistra e Libertà. Domani a Roma Nichi Vendola aprirà la direzione di Sel in una settimana decisiva per la trattativa sul lavoro. E le premesse vanno tutte in una direzione, tanto che il presidente della Puglia ha già minacciato una «reazione durissima» se il governo intendesse «stracciare il fondamento della civiltà del lavoro» rappresentato dall´articolo 18. Di fronte a una probabile manifestazione targata Fiom-Sel contro il governo cosa faranno nel Pd?
Ma la verità è che la possibile candidatura di Mario Monti e la sua investitura a premier oltre il 2013 minacciano di far saltare anche gli equilibri dentro il Pdl. «Quel che dice Veltroni - ammette Osvaldo Napoli - ha una sua logica. Ma anche nel centrodestra c´è paura che Monti se lo prenda la sinistra. La realtà è che hanno tutti paura di lui». E allora, con Pd e Pdl bloccati, ad avvantaggiarsene potrebbe essere il terzo incomodo. «Non vorrei - osserva infatti Veltroni - che Casini, mettendosi nella scia di Monti, facesse un grande partito di centro, prendendosi anche un pezzo del Pdl e diventando a quel punto il primo polo. A noi ci schiaccerebbero nella foto di Vasto e faremmo la fine della macchina da guerra del ‘94».
Se il Pd può almeno consolarsi con sondaggi positivi, nel Pdl la questione «Monti sì-Monti no» s´intreccia invece con l´incubo della piena in arrivo con le amministrative di maggio. Che potrebbero far deflagrare definitivamente il partito. L´allarme rosso suonerà stasera alla cena organizzata a villa Gernetto da Berlusconi. Il Cavaliere è il primo a rendersi conto che la situazione è difficile, tanto da non aver ancora programmato alcun comizio in giro per l´Italia proprio per non firmare con il suo nome una sconfitta. Nei suoi piani, oltre alla presentazione di liste civiche, è tornata persino la vecchia idea di recuperare il simbolo di «Forza Italia» per le prossime politiche. Con buona pace dei mal di pancia che questo potrebbe provocare negli ex An.

Corriere della Sera 20.2.12
Quel duello su come attirare i cattolici
di Dario Di Vico


Per la gioia dell'editore Carmine Donzelli, il libro di Stefano Fassina («Il lavoro prima di tutto») non è ancora approdato in libreria ma già fa discutere. Nel testo anticipato dal Corriere sabato 18, il responsabile economico del Pd, bersaniano doc e neolaburista, per rinnovare la sinistra propone di puntare sul cattolicesimo sociale e sui testi di papa Ratzinger e del cardinale Bagnasco, giudicati il miglior antidoto contro ogni riproposizione del liberismo individualista e americaneggiante. Proprio mentre la congiuntura mette il Pd di fronte a scelte difficili sull'articolo 18, il gruppo dirigente spinge lo sguardo più in là e cerca un posizionamento vincente (anche elettorale). E che questa sia una delle chiavi per interpretare le riflessioni di Fassina lo dimostra lo spazio che ieri l'Unità ha riservato a un articolo del teologo Gianni Gennari («Pensiero cattolico contro liberismo? Al Pd serve eccome»). Secondo Gennari i democratici hanno bisogno dei cattolici non solo per combattere la battaglia di civiltà contro il liberismo ma «per vincere» tout court e così «realizzare un disegno politico più giusto per l'Italia». Insomma, se il Pd si muove bene, può pescare ampiamente dal voto cattolico che a Gennari risulta essere «in evidente disagio con tutti i partiti». La svolta fassiniana, sia essa centrata sul medio o sul breve termine, non è piaciuta però a tutti nel Pd. A stroncarla ci ha pensato sul quotidiano Europa il politologo Stefano Ceccanti che contesta filologicamente la stessa interpretazione data dall'autore del libro all'enciclica papale. «Nella "Caritas in veritate" non c'è quella lotta senza quartiere al liberismo che sostiene Fassina. Così come non c'era nella "Centesimus annus". È vero che nel mondo cattolico esistono posizioni di quel tipo ma sono di settori fortemente minoritari». Secondo Ceccanti, poi, quando il pensiero cattolico ha incontrato in Europa il laburismo ciò è avvenuto su posizioni simil-blairiane e favorevoli alla riforma del welfare, non estreme e ideologiche. «E anche quando si sostiene, come fa Gennari, che in Italia in nome della lotta al liberismo si possono guadagnare voti cattolici, si fa della fantapolitica. I cattolici praticanti negli ultimi anni hanno votato per Berlusconi e voglio vedere come fa il Pd con una piattaforma alla Fassina a intercettare il voto bianco del Veneto! Anche da un punto di vista sociologico è un'ipotesi che non sta in piedi».

l’Unità 20.2.12
Intervista a Piero Fassino
«Il Pd è l’unico partito che può dare risposte alla crisi della politica»
Il sindaco di Torino: «La lista civica nazionale? È una strada. Ma sarebbe
un errore enfatizzare ed esaltare tutto ciò che ai cittadini appare antipolitica»
di Simone Collini


È evidente che in una fase di crisi della politica molti pensano di poter colmare lo spazio che si apre tra partiti e cittadini. Qualcuno potrà farlo in chiave esplicitamente antipolitica, qualcun altro più in chiave civica. Spetta ai partiti non essere passivi e inerti. E soprattutto il Pd deve sentire la responsabilità di riformare radicalmente il modo di essere dei partiti e della politica. Allora anche un’eventuale lista civica nazionale assumerebbe un altro significato». Piero Fassino è l’esempio di come possano essere deboli certe letture sulla delegittimazione della classe politica, sul primato della società civile o sulla rottamazione. L’ex segretario Ds e ex ministro ha vinto le primarie e poi al primo turno le comunali di Torino. E oggi non si soprende né della tentazione di alcuni sindaci di dar vita a una lista civica nazionale per le prossime politiche né di quanto accaduto alle primarie di Genova. Dove, dice il primo cittadino del capoluogo piemontese, «a pesare nel giudizio degli elettori è stata la credibilità dei candidati, non il loro numero».
Emiliano, De Magistris e altri suoi colleghi stanno lavorando a una lista civica nazionale per raccogliere consensi tra quel 40 per cento di indecisi registrati dai sondaggi: che ne pensa sindaco Fassino?
«Che ci sia un rapporto critico tra cittadini e politica, e in particolare tra cittadini e partiti, è sotto gli occhi di tutti. Ad alimentare la disaffezione c’è anche un uso demagogico del tema della “casta” e il modo di rappresentare tutta la politica con un’immagine deformata. Tuttavia sarebbe sciocco, di fronte a questo, alzare semplicemente le spalle. Se i cittadini manifestano un disagio, un malessere, una delusione nei confronti della politica e dei partiti, occorre chiedersi perché e dare delle risposte».
E la lista civica nazionale è la risposta giusta?
«È una delle risposte, ma non l’unica e neanche la principale. Sarebbe un errore pensare di uscire dalla crisi della politica delegittimando i partiti. Ma naturalmente questa strada può essere evitata soltanto se i partiti escono dalla loro autoreferenzialità, si aprono alla società, cambiano radicalmente la loro organizzazione e il loro linguaggio. Viviamo una fase in cui formalmente i partiti continuano a pensarsi come si pensavano nel 900, mentre nei fatti viviamo in una società molto diversa. Quelli che erano fattori di forza nel rapporto tra partiti e società si sono oggi molto indeboliti. In questa epoca le forze politiche hanno una capacità di rappresentanza più ridotta rispetto al secolo scorso. E anche la capacità di elaborazione e di avanzare proposte è largamente inadeguata. Sono questi i nodi da sciogliere. E questo è un compito che non va delegato ad altri, come se i partiti fossero irriformabili e quindi non resti che affidarsi a qualcosa d’altro. Ed è naturale che questo compito lo debba svolgere innanzitutto il Pd».
Perché è il partito che più avrebbe da perdere se entra in campo “qualcosa d’altro”?
«Perché è l’unico vero grande partito in questo momento in campo. Il Pdl è in profonda crisi. È nato, vissuto, si è rappresentato avendo come unico elemento costitutivo l’identità del suo leader, Berlusconi. Nel momento in cui esce di scena, e qualunque cosa dichiari Berlusconi è ormai fuori scena, il Pdl deve ritrovare una ragione di identità che oggi non ha. Non è azzardato pensare che nei prossimi mesi assisteremo a dei fenomeni sia di implosione che di disarticolazione e frammentazione su quel fronte, mentre il Pd si sta dimostrando una forza dall’identità chiara, riformista, progressista, di centrosinistra, con un radicamento sociale ed elettorale reale, che ha responsabilità di governo locale diffusissimo e che costituisce il punto di forza vero dell’attuale governo. Per questo spetta in primo luogo al Pd affrontare il tema della crisi dei partiti e offrire ai cittadini un’idea della politica credibile e convincente».
Il messaggio è rivolto a Bersani?
«Cambiare il modo di essere della politica richiede certamente segnali forti e anche atti di rottura da parte del gruppo dirigente nazionale. Ma c’è una responsabilità non meno rilevante dei dirigenti locali. Se in questo o quel territorio il Pd si presenta agli occhi dei cittadini come un partito chiuso, rissoso, lontano dalla società, quell’immagine pesa molto di più di quanto possa incidere l’immagine e l’iniziativa del partito a livello nazionale».
Viene in mente il nome di una città: Genova...
«In queste settimane si sono svolte primarie non solo a Genova e in mol-
ti casi con più di un candidato del Pd. D’altra parte le primarie per definizione sono aperte e non sono una competizione tra partiti, come finirebbe per essere se ogni forza politica si presentasse con un solo candidato. Quel che conta non è il numero dei candidati, né la loro singola appartenenza, ma la loro credibilità. Perché quando gli elettori partecipano alle primarie scelgono il candidato che gli appare più in grado di ricoprire il ruolo a cui sarà chiamato. Il problema perciò è come candidati e forze politiche si mettono in sintonia con le aspettative e le esigenze di una comunità, che si tratti di una città, una regione o del paese intero». Questo cosa dice a proposito del rapporto tra Pd e un’eventuale lista civica nazionale, per tornare al tema di partenza?
«Che se il Pd mette in campo iniziative, proposte, candidati credibili, non è un problema se gli si affianca una lista civica nazionale. Sarebbe un supporto in più, per il campo progressista. Se invece la lista civica nazionale rimanesse la sola proposta di apertura alla società, presentata come alternativa ai partiti, avrebbe un significato profondamente diverso, e non è neanche detto che raccoglierebbe il consenso necessario per vincere. Come sempre il destino di ciascuno di noi dipende da noi stessi, non da altri. E questo vale anche per il Pd».
Il Pd, nel momento di massima crisi di Berlusconi, non ha spinto sulle elezioni e ha lavorato per la formazione del governo Monti.
«E ha fatto la scelta giusta, perché questo ha consentito di superare definitivamente Berlusconi e soprattutto ha dato al paese un governo che sta mettendo mano a riforme che ci consentono di non essere travolti dalla crisi e di recuperare la credibilità internazionale, come si è visto con la visita di Monti a Obama, l’accoglienza al Parlamento europeo e il protagonismo che il presidente del Consiglio e l’Italia hanno nel difficilissimo dibattito in seno all’Unione. Naturalmente, nel sostenere il governo, il Pd mantiene un suo profilo, esprimendo anche valutazioni che possono essere talvolta differenti sulle singole misure. Ma la sintonia col governo rimane perché abbiamo l’obiettivo comune della rinascita del paese».

l’Unità 20.2.12
Il Pd resta primo partito
Ma l’area del non voto batte tutte le coalizioni
Dal 2008 il Pdl ha perso oltre 14 punti, Democratici in testa col 27 per cento Ma c’è un calo di consensi alle principali forze politiche che non si compensa all’interno dello stesso schieramento né si orienta sul campo opposto
di Carlo Buttaroni, Presidente Tecné


Asentire i protagonisti di ieri, che calcano le scene di oggi, sembra che nulla sia accaduto. Invece tutto è già successo. Senza una trascinata agonia, come accadde nel passaggio tra la prima e la seconda repubblica, e con una velocità che non ha precedenti nella storia recente. Un’accelerazione che ha imprigionato i partiti in una terra di mezzo, dove ciò che era prima non c’è più e dove ancora manca un indizio che parli al futuro. E’ vero che, in termini relativi, il Pd si conferma prima forza politica con il 27% e il Pdl scende al 23%, con una perdita di oltre 14 punti rispetto alle politiche del 2008. Ma è un dettaglio rispetto a quanto sta accadendo nelle dinamiche più generali che riguardano la struttura del sistema politico nel suo complesso. In termini assoluti (cioè considerando tutti gli elettori) sta prendendo corpo qualcosa di più profondo rispetto alle dinamiche osservabili in superficie, testimoniato proprio dai dati dell’indagine realizzata da Tecné.
Innanzitutto, i due principali partiti hanno perso, rispetto a quattro anni fa, il 30% dei consensi. Oggi, la somma dei voti che otterrebbero insieme è pari al 27,7% degli aventi diritto, rispetto al 54,7% del 2008.
In secondo luogo la perdita di consenso dei due principali partiti non si compensa all’interno dello stesso schieramento, né si orienta verso il campo opposto, ma si dispone verso l’area dell’astensione. Se si votasse oggi, infatti, sceglierebbero un partito di centrodestra o uno di centrosinistra, solo il 42,6% degli elettori, mentre, nel 2008, l’area del consenso, polarizzato all’interno delle due principali coalizioni, riguardava 7 elettori su dieci.
Terzo aspetto: l’area del non voto è salita al 44,6%, superando, per la prima volta, l’insieme dei consensi convergenti su opzioni alternative rispetto al governo del Paese. Un rovesciamento dei rapporti che indica che si è fortemente ridotta la capacità attrattiva dei due principali partiti e, conseguentemente, delle due principali opzioni politiche. Una forza di gravità che, fino a qualche anno fa, i partiti erano in grado di esercitare nei confronti degli elettori, orientandoli e attivando consensi rispetto a ipotesi alternative di governo.
Ma se è sbagliato pensare di interpretare i sondaggi, come una bocciatura o una promozione, altrettanto sbagliato è interpretare il calo della partecipazione come il manifestarsi di un diffuso sentimento di antipolitica.
Sembra emergere, invece, una forma di apatia verso le tradizionali espressioni della politica, dovuta non tanto alla distanza dai luoghi istituzionali ma al declino di una cultura dell’impegno che aveva segnato profondamente il secolo scorso. Nel calo della partecipazione tradizionale non c’è, infatti, il segnale di un rifiuto, quanto di una trasformazione delle modalità che danno corpo ad atteggiamenti e comportamenti nuovi. Un processo che corrisponde a un cambio di prospettiva, che non parla solo italiano: i cittadini delle società contemporanee sono sempre meno favorevoli a sostenere le gerarchie istituzionali e le grandi organizzazioni come i partiti di massa, perché vogliono incidere direttamente nella cosa pubblica. E vogliono farlo in forme non tradizionali. Questa spinta ha portato verso un cambio dei paradigmi riconducibili all’impegno politico tradizionale, particolarmente visibile nelle nuove generazioni, più esposte ai processi di cambiamento valoriale e al post-materialismo.
I cittadini non sono distaccati dai valori civili e democratici, non sono disimpegnati. Al contrario, diventano sempre più competenti, interessati, e si mobilitano prevalentemente in forme non convenzionali, all’interno di piccole organizzazioni e gruppi, spesso informali. La partecipazione oscilla da forme più impegnate a forme più leggere, con modalità di mobilitazione più discrete, dove manca un carattere ideologico strutturato, tanto che i cittadini faticano a definirsi “politicamente attivi”. Un impegno che corrisponde a un’articolazione multi-dimensionale della società e della politica, dove le attività sono ispirate da motivazioni differenti e persino divergenti all’interno dello stesso ambito.
Se si assiste a un progressivo indebolimento della fedeltà di partito è perché il focus dell’impegno si è spostato progressivamente da azioni partecipative dentro i partiti, ad azioni auto-dirette all’interno dei nuovi ambiti in cui si articola la società.
Per ricucire il legame con i nuovi cittadini, meno sensibili al richiamo ideologico, occorre rovesciare i paradigmi che hanno ispirato le scelte dei partiti negli ultimi anni, puntando sulla realizzazione di reti orizzontali piuttosto che su intelaiature verticali, portando la politica nei luoghi, anziché i luoghi alla politica. Non è sufficiente utilizzare i social network per essere al passo con i tempi. I tentativi, anzi, appaiono persino goffi. C’è un’inflazione di partiti e di politici che occupano la rete in modo improprio e con linguaggi inadeguati, che ritengono internet un nuovo “strumento” per raccogliere adesioni da contabilizzare con i vecchi metodi, quando, invece, internet è un “luogo”, dove le idee e i progetti possono prendere forma e maturare in una dimensione politica veramente nuova, senza per questo sovrapporsi o necessariamente intrecciarsi con il vecchio. Innovare usando facebook e gli altri social come fossero sedi di partito virtuali, o twitter come un ufficio stampa più fashion, è solo il segno dell’incapacità di leggere il mondo e i suoi fenomeni.
Occorre esplorare strade nuove. Questo è l’obiettivo che il sistema politico deve porsi per frenare l’erosione della partecipazione e per trasformare un’azione, come quella del voto, in partecipazione piena e consapevole. E per farlo deve ritornare a pensare dal basso perché, per quanto paradossale possa sembrare, le grandi sfide trovano risposte soltanto in un sistema diffuso di governo della società, dove la Polis ha una dimensione politica e non solo amministrativa. Le riforme istituzionali, comprese quelle elettorali, possono fare molto ma non sono sufficienti se non s’innestano positivamente con una cultura capace di recuperare una dimensione partecipativa che non si è indebolita, ma ha assunto soltanto nuove forme di espressione.

Repubblica 20.2.12
Una terza Repubblica contro i partiti?
di Ilvo Diamanti


Non è facile prevedere che ne sarà dei partiti e del sistema partitico italiano, dopo il governo Monti. (Mi accontento di prevedere il passato. E non sempre mi riesce bene.) Tuttavia, mi sentirei di avanzare un´ipotesi. Facile. Nulla resterà come prima. L´esperienza del governo tecnico, infatti, sta mettendo a dura prova la tenuta dei principali partiti, ma anche – soprattutto – delle alleanze e delle coalizioni precedenti.
Oggi, d´altronde, appare in crisi la legittimazione stessa dei partiti in quanto tali. La fiducia nei loro confronti è, infatti, scesa a livelli mai toccati in passato (4%: Demos, gennaio 2012). D´altronde, non può essere privo di conseguenze, il fatto che la gestione della crisi sia stata affidata a un governo di "tecnici". Segno dell´incapacità dei partiti di assumere responsabilità – di governo ma anche di opposizione – di fronte agli elettori.
Da ciò deriva la "popolarità" di questo governo (una settimana fa l´Ipsos la stimava intorno al 60%), in grado di prendere decisioni "impopolari". Mentre i partiti sostengono le decisioni del governo tecnico – oppure vi si oppongono – al "coperto". Dietro le quinte. In Parlamento. Nulla resterà come prima, nei partiti e nel sistema partitico, dopo Monti. Perché questa fase di "sospensione" ne accentua le difficoltà.
Quanto alla dimensione organizzativa e al rapporto con la propria base, basti osservare quel che sta succedendo nei principali partiti – Pdl e Pd. Il Pdl ha avviato una fase congressuale per affrontare il dopo-Berlusconi. Ma ciò che sta avvenendo in numerose province – sia del Sud che del Nord (in Veneto e a Vicenza, ad esempio) – dimostra quanto il partito sia esposto alle pressioni – non sempre lecite – di lobby locali. Non a caso il segretario del partito, Angelino Alfano, alcuni giorni fa, ha dovuto precisare – e minacciare – che «non faremo svolgere i congressi se si riscontrano situazioni gravi, nelle quali non vediamo chiaro».
D´altra parte, nel Pd, le tensioni e le divisioni, a livello nazionale e locale, sono diffuse ed evidenti. E hanno prodotto effetti non desiderati – per quanto prevedibili. Soprattutto nella selezione dei candidati alle prossime elezioni amministrative, mediante le "primarie". Le quali continuano ad essere utilizzate "à la carte". Talora a livello di partito, altre volte di coalizione. Con il risultato, in alcuni casi, da ultimo a Genova (e prima in Puglia, a Milano e a Cagliari), di favorire il candidato di un altro partito (seppure alleato). Da ciò il paradosso. Le primarie, "mito fondativo del Pd", secondo Arturo Parisi (forse il primo a concepirle), hanno legittimato leader di altri partiti – alleati ma anche concorrenti. E indebolito, di conseguenza, la leadership del Pd nel Centrosinistra. Locale e nazionale.
Ma altrettanto critica appare la questione dei rapporti e delle alleanze tra i partiti. Nell´attuale maggioranza, solo l´Udc e il Terzo Polo appaiono "organici" al governo Monti. Voluto e imposto dal Presidente Napolitano. I principali partiti della maggioranza, Pdl e Pd, considerano questa coabitazione "necessaria", quasi "coatta". Ma incoerente con la loro base elettorale e con la loro storia politica.
Elettori e dirigenti del Pdl, in particolare, vedono il governo Monti come il soggetto che ha "scalzato" il Centrodestra, guidato da Berlusconi. Per questo stesso motivo il governo Monti piace agli elettori del Pd. I quali, tuttavia, ne avversano alcune importanti scelte – dalle pensioni al mercato del lavoro e all´art. 18. Le considerano coerenti con le politiche del Centrodestra. Pdl e Pd, inoltre, si vedono "sfidati" dai loro tradizionali alleati – la Lega a centrodestra, Idv e Sel, a centrosinistra. I quali, a loro volta, da soli, rischiano di divenire periferici. Alle elezioni amministrative che incombono. Tanto più in quelle politiche, del prossimo anno.
Da ciò emerge una serie di conseguenze rilevanti, in prospettiva futura.
1. Se i partiti della Seconda Repubblica si sono personalizzati, la leadership personale dei partiti si sta rapidamente indebolendo. L´unico leader che mantenga un alto livello di consensi, tra gli elettori, infatti, è Monti – intorno al 60%. Tutti i leader di partito, da metà gennaio ad oggi, hanno, infatti, perso consensi e si posizionano molto più in basso.
2. Anche i partiti maggiori, però, hanno perduto consensi. Il Pdl, in particolare, ridotto al 22%. Mentre il Pd, da gennaio (quando aveva superato il 29%), sta declinando, seppure lentamente.
3. Se si valuta la posizione degli elettori sullo spazio politico, però, emerge con chiarezza come la struttura delle coalizioni non sia cambiata. In particolare, la distanza tra gli elettori del Pdl e del Pd si è allargata, per reazione alla coabitazione "coatta".
Tuttavia, i giudizi sulle specifiche questioni politiche e sulle scelte politiche del governo appaiono meno condizionate dall´appartenenza di partito e più dettate dal merito. Quindi meno distanti fra loro.
4. In altri termini, l´esperienza del governo Monti ha ridimensionato la frattura pro-antiberlusconiana. (Anche perché Berlusconi, per ora, se ne sta sullo sfondo.) Ma sta delineando una nuova frattura, o meglio, "distinzione". Pro-antimontiana. Che sta indebolendo i partiti maggiori a favore degli alleati di ieri – oggi all´opposizione. Peraltro, incapaci, da soli, di costruire una vera alternativa.
Da ciò la tentazione del Pd e del Pdl: difendersi dalla concorrenza degli alleati – oggi all´opposizione – con una legge elettorale che renda loro difficile correre da soli. Tuttavia, se i partiti – di maggioranza e opposizione – non dessero soluzione al loro deficit di rappresentanza sociale e di leadership, difficilmente potrebbero – potranno – riprendere la guida del Paese. Andare oltre l´emergenza.
Soprattutto se il governo Monti ottenesse i risultati sperati, dal punto di vista economico e istituzionale. Se svelenisse davvero il clima sociale e d´opinione. Allora fra un anno diverrebbe un "soggetto politico" forte. E potrebbe coltivare l´idea di proseguire l´esperienza "in proprio". Oppure, qualcun altro potrebbe occuparne lo spazio, raccoglierne l´eredità. Tecnica ed extra-politica. Cercando autonomamente il consenso elettorale, con il sostegno di una parte, almeno, dell´attuale maggioranza. Dove non mancano coloro a cui non spiacerebbe continuare questo esperimento.
In un Paese che ha conosciuto 50 anni di democrazia bloccata, intorno alla Dc e ai suoi alleati. E che arranca da vent´anni, inseguendo un bipolarismo sin qui ir-realizzato. Si tratterebbe di una Terza Repubblica che, per alcuni aspetti, rammenta e ridisegna la Prima. Con una differenza importante. Non sarebbe fondata "da" e "su", ma "contro" i partiti.

Repubblica 20.2.12
I difetti di un mercato che privilegia l’uomo
di Chiara Saraceno


Investire nelle donne converrebbe alla società, dal punto di vista dello sviluppo economico, del bilancio fiscale, dell´utilizzo pieno di tutte le risorse umane disponibili. Ma per investire nelle donne e favorirne una partecipazione al mercato del lavoro adeguata alle loro capacità e competenze, sono molte le cose che dovrebbero cambiare nell´organizzazione del mercato del lavoro, nell´offerta di servizi e nella divisione del lavoro tra uomini e donne in famiglia. Gran parte del benessere familiare è infatti a carico del lavoro gratuito delle donne.
E l´assenza di servizi di cura, non solo per i bambini, ma per le persone non autosufficienti, è compensata solo dal lavoro gratuito di mogli, madri, figlie, nuore, nonne.
Già ora le donne stanno salvando, se non l´Italia, gli italiani, tramite il loro lavoro gratuito quotidiano - che non viene meno neppure quando hanno un lavoro per il mercato e che la crisi ha in molti casi intensificato. Senza questo lavoro gratuito, le famiglie sarebbero molto più povere e molti bisogni di cura rimarrebbero insoddisfatti. Esso andrebbe meglio e più equamente ridistribuito, tra uomini e donne, tra famiglia e società. E l´organizzazione del mercato del lavoro dovrebbe meglio riconoscerne la necessità, per le donne e per gli uomini.
Come è stato ricordato di recente agli Stati generali sul lavoro delle donne organizzati presso il Cnel, le lavoratrici italiane che hanno una famiglia lavorano complessivamente, tra lavoro pagato e non pagato, oltre un´ora in più al giorno dei loro compagni. Tuttavia guadagnano sostanziosamente meno dei loro colleghi; perciò accumulano anche una minore ricchezza pensionistica. La loro capacità di guadagno, infatti, è compressa due volte. La mancata condivisione del lavoro familiare da parte degli uomini, unita ad una bassa offerta di servizi di cura accessibili e di buona qualità, vincola il tempo che possono dedicare al lavoro remunerato.
A ciò si aggiungono le discriminazioni nel mercato del lavoro - nelle possibilità di carriera e nelle retribuzioni orarie, a parità di qualifiche - che, come segnalano anche i dati di Almalaurea per quanto riguarda le giovani laureate, iniziano prima ancora che le donne formino una famiglia. Se poi sono lavoratrici "flessibili", si trovano spesso costrette a considerare una possibile gravidanza come un rischio professionale che non possono permettersi.
Molte donne ancora oggi abbandonano il lavoro per motivi familiari, perché non ce la fanno a tenere il ritmo del doppio lavoro, spesso accompagnato da pressioni e vessazioni più o meno sottili sia in casa (perché "trascurano la famiglia") sia sul lavoro (perché "hanno la testa altrove"). Soprattutto se sono a bassa qualifica e vivono al Sud, la maggior parte delle donne, anche giovani, non entra neppure nel mercato del lavoro, o viene scoraggiata presto dal presentarsi. Costituiscono la stragrande maggioranza dei "Neet": dei giovani che né studiano né lavorano per il mercato.
Costituiscono anche la grande maggioranza sia dei lavoratori scoraggiati sia dei disoccupati invisibili: di coloro che vorrebbero lavorare, ma non cercano più, e di coloro che, pur dichiarandosi non forze di lavoro, di fatto si arrabattano tra un lavoretto e l´altro. Un rapporto Svimez uscito in questi giorni stima che queste due figure coinvolgono oltre un milione di donne nel Mezzogiorno, portando il tasso di disoccupazione femminile effettivo al 30,6%, il doppio di quello ufficiale.
L´Italia è uno dei paesi sviluppati con un divario di genere tra i più alti a tutti i livelli: nei tassi di partecipazione al mercato del lavoro, nel divario salariale a parità di titolo di studio e di mansione, nelle possibilità di carriera, nella presenza nei luoghi di presa di decisione, quindi nel potere, nella divisione del lavoro familiare.
È un divario aggravato dalle disuguaglianze sia territoriali che di istruzione. Anche questo è uno spread di cui ci si dovrebbe preoccupare ai fini non solo dell´equità, ma dello sviluppo. Credo che i suoi effetti negativi siano almeno altrettanto gravi, se non peggiori e con effetti di più lungo periodo, di quelli dello spread con i bond tedeschi.

Repubblica 20.2.12
Perché conviene investire sulle donne
di Cinzia Sasso


Da Bankitalia all´Ocse il coro è unanime: il lavoro femminile è un "tesoretto" da scoprire e sfruttare Una ricerca del Mulino rivela: se le occupate fossero sei su dieci il nostro Pil aumenterebbe del 7 per cento. E contro la crisi c´è chi fa un appello ai governi: è il momento di lanciare un "pink new deal"
Dopo anni di conquiste, la marcia verso la parità sembra essersi arrestata
Il part time, nato come aiuto, si è trasformato in una trappola che blocca le carriere
"Crescerebbero le entrate fiscali e previdenziali, e si stimolerebbe la domanda interna"

L´uovo di Colombo sta lì, nascosto nei testi che riempiono gli scaffali delle librerie e che finalmente sono usciti dalle loro nicchie protette per finire nelle vetrine: fate lavorare le donne e metterete le ali al Paese. Sta nelle ricerche e nei numeri che prestigiose istituzioni - prima fra tutte la Banca d´Italia - ripetono: se quel famoso impegno preso a Lisbona, il 60 per cento delle donne occupate, diventasse realtà, in Italia il Pil salirebbe del 7 per cento. Sta nei titoli dei convegni ai quali partecipano con convinti cenni di assenso ministre e ministri.
L´ultimo, a Roma, quello dell´associazione Valore D che nella promozione delle donne ai più alti livelli di responsabilità ha coinvolto oltre cinquanta grandi aziende e che instancabilmente batte il chiodo sui benefici della diversity.
E se qualcuno prova a contrastare l´inesorabile avanzata delle donne al lavoro sventolando la triste bandiera della crisi economica, ecco pronta la risposta: abbiate coraggio e lanciate il pink new deal. Sono tre donne, Daniela Del Boca, Letizia Mencarini e Silvia Pasqua - autorevoli studiose di economia e demografia - a confezionare l´ultima provocazione sotto forma di un libro dal titolo inequivocabile: «Valorizzare le donne conviene», edizioni Il Mulino. Propongono una versione riveduta e corretta del roosveltiano New Deal, il piano che permise all´America sfiancata dalla grande depressione di tornare a essere la guida del mondo. Scrivono: un maggior numero di occupate aumenterebbe le entrate fiscali e previdenziali; la crescita dell´occupazione femminile stimolerebbe una maggiore domanda di servizi con un effetto sul prodotto interno lordo; più donne al lavoro ridurrebbe il rischio di povertà delle famiglie. Insomma, l´uovo di Colombo.
Solo parole? No. La questione è sotterrata di numeri. Per ogni cento posti di lavoro affidati a una donna, si metterebbe in azione un circuito virtuoso che crea 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi. Se la percentuale di donne impiegate raggiungesse quella degli uomini (dunque oltre il 60% dell´obiettivo di Lisbona), una ricerca della Goldman Sachs sostiene che gli aumenti del Pil arriverebbero fino al 13% nell´Eurozona, fino al 16% in Giappone e fino al 22% nella nostra piccola Italia. A parere della Business School dell´università di Leeds, invece, se c´è almeno una donna in un consiglio di amministrazione, le probabilità che l´impresa sia posta in liquidazione forzata diminuiscono del 20%. E nel suo Women Matter, la McKinsey calcola che nel 2040 mancheranno all´appello 24 milioni di posti di lavoro e che se le donne saranno assunte la cifra scenderà a 3.
Il fatto è che le donne trovano ancora sulla loro strada ostacoli insormontabili. Anzi: la marcia verso la parità nel mondo del lavoro sembra inceppata, se è vero che dal 2000 ad oggi, complice la congiuntura economica, la percentuale di donne occupate è diminuita di 2 punti, passando dal 48 al 46. Come se quella che è una questione fondamentale per il Paese fosse invece ritenuta una robetta da donne. Il fatto è che in Italia, la rivoluzione silenziosa delle donne è anche una rivoluzione tradita. Dice Letizia Mencarini: «Rispetto al resto d´Europa, l´Italia negli ultimi quindici anni si è come fermata. Spagna, Francia, Germania, hanno visto le donne guadagnare posizioni, noi invece abbiamo di fronte una doppia strettoia». Difficile, tanto più oggi, in tempi cupi, entrare nel mercato del lavoro; e difficile, oggi come ieri, conciliare i ruoli familiari e quelli lavorativi.
In Italia succede ancora che, se anche cresce il lavoro, non si salgono i gradini della carriera; che l´aumento del part time, invece che in una facilitazione, si trasformi in una trappola che ti inchioda a ruoli marginali; che il primo impegno resti comunque quello casalingo. Del Boca la chiama «segregazione verticale» e dice che tipici esempi sono i settori della sanità e dell´istruzione. Nel 2009, nel Servizio Sanitario Nazionale, il 63 % degli occupati erano donne, ma tra i medici erano il 37 e il 77 del personale infermieristico. Nella scuola le donne erano il 78 % (con punte che sfioravano il 90 nelle scuole d´infanzia) e però le dirigenti poco più del 37. Perché, se pure le donne ormai si laureano di più e prima degli uomini, quello che rimane fermo - salvo interessanti ma rari casi che fanno notizia - è l´equilibrio dei ruoli interno alla famiglia. E la mamma, nel vissuto italiano, è sempre la mamma. L´unica in grado di occuparsi dei figli, di riempire il frigo e di preparare il risotto. Quasi incredibile, eppure il 76 % degli uomini (e il 74 delle donne) ritiene che un bambino piccolo soffra se la mamma lavora. In Svezia sono il 25 %.
A proposito di rivoluzioni interrotte: se la prima, quella dell´istruzione, è quasi pienamente compiuta; la seconda, quella del lavoro, negli ultimi vent´anni si è inceppata; la terza, quella culturale, è tutta da compiere se è vero resistono pregiudizi del tipo che le donne che lavorano sono madri peggiori, che i loro figli vanno peggio a scuola, che le stesse, schiacciate dal doppio ruolo, sono infelici. Assunta Sarlo, fondatrice del movimento Usciamo dal silenzio, vede chiari e scuri: «Da una parte c´è un Paese, ancora fortemente influenzato dalla Chiesa cattolica, che resiste al cambiamento; dall´altra c´è uno straordinario impegno delle donne nel rompere gli schemi». E così, sabato, a Milano, centinaia di donne si sono ritrovate a parlare della rivoluzione possibile e il 3 e 4 marzo, a Bologna, il network di Se non ora quando, discuterà di «Vita, lavoro, non lavoro» delle donne. Tanto da far dire a Lea Melandri, 40 anni di femminismo alle spalle, che «c´è davvero qualcosa di nuovo».
Ci sarebbero anche, scrivono le autrici di «Valorizzare le donne conviene», delle cose concrete da fare. Perché fin qui, nemmeno il nuovo governo ha mosso passi decisi nella direzione del pink new deal. E, per cominciare, invece che aiutare, ha penalizzato le donne. Dunque, proprio all´Università di Torino, la stessa del ministro (o bisogna dire ministra?) Fornero, hanno elaborato una lista di interventi da fare. Dall´indirizzare le donne verso studi scientifici con borse di studio dedicate, come accade in America (e anche nella Regione Toscana) a favorire dal punto di vista fiscale chi assume le donne. Dall´incentivare l´offerta di lavoro femminile, così come raccomandato da Mario Draghi, quand´era governatore della Banca d´Italia a cancellare la norma sulle dimissioni bianco (che colpisce soprattutto le mamme) a trasformare il part time e la flessibilità in un´occasione per tutti, dipendenti e aziende. Dallo studiare politiche di conciliazione aziendale all´investire - e non tagliare - nei servizi di cura per i bambini.
E ancora: introdurre un credito di imposta per le retribuzioni più basse (che sono quasi sempre quelle delle donne); far comprendere alle imprese che la maternità è un costo irrisorio e che quindi non c´è da averne paura. Poi: prevedere sgravi fiscali per chi assume personale femminile, concedere incentivi all´imprenditoria in rosa, prevedere le quote di genere ai vertici delle aziende, far diventare obbligatorio il congedo di paternità. Agire, insomma, sulle leve fiscali, sulle quote riservate e sulla cultura. Un programma realistico, in un momento di tagli e di crisi? Di più: indispensabile per aiutare l´Italia a risalire la china. Mencarini e Del Boca non hanno dubbi: «Queste misure sono un investimento per il futuro, perché valorizzare le donne conviene a tutti».

La Stampa 20.2.12
Mamme tunisine in cerca dei loro desaparecidos
Sono 800 i migranti scomparsi dopo essersi imbarcati per l’Italia
di Laura Aniello


Sono detective a caccia di fantasmi. E quei fantasmi sono i loro figli, nipoti, fratelli. «Il mio Mohamad, 19 anni, è partito a marzo dopo essere stato colpito da una pallottola a una gamba durante la rivoluzione. I suoi cugini in Germania l’hanno riconosciuto in un filmato televisivo a Lampedusa», dice Mahrzia Raufi mostrando la foto di un ragazzo sorridente. Il velo bagnato dall’acqua che viene giù dal cielo, gli occhi fissi sul portone del consolato tunisino di Palermo, al collo l’appello alle autorità: «Aiutateci a trovarli».

Sono i nuovi desaparecidos, inghiottiti nel vortice delle rivolte arabe, delle migrazioni, degli assembramenti sui barconi, dei respingimenti in mare. Tutti partiti l’anno scorso, la gran parte spariti tra gennaio e marzo. I fantasmi del Mediterraneo: finiti in un Cie, in un carcere, in un bassifondo di qualche città o - peggio - negli abissi di quel grande cimitero che è il canale tra la Sicilia e il Maghreb. O forse ancora nascosti da una nuova identità (etiope, eritrea, palestinese) dichiarata per ottenere il permesso d’asilo. In Tunisia ne mancano all’appello 800 - trecento dei quali solo nella capitale - quasi la metà dei 1.500 partiti dal Nord Africa che anche l’Alto commissariato delle Nazioni unite qualifica come «missing».

Perduti, scomparsi nel nulla. Sei di quelle famiglie che protestano laggiù da mesi sono venute a Palermo con le fotografie dei loro ragazzi nelle mani per poi bussare alle porte dell’ufficio migrazioni di Agrigento - quello da cui dipende Lampedusa - e per andare infine a Roma, dove domani saranno ricevute al nostro ministero degli Interni. Tutti aggrappati a una voce smozzicata sentita sopra a un barcone - «Mamma, sono partito, ci sentiamo quando arrivo, evviva la libertà» - al fotogramma confuso di qualche tv, alle immagini pubblicate dai giornali. «Non c’è dubbio, guardate - dice Mahrzia - quello è sicuramente mio figlio, non si può sbagliare. Magari non può telefonare, non ha i soldi, è prigioniero. Non sa che sua madre è qua e che non si rassegnerà mai». Accanto a lei c’è Imed Soltani, che cerca i suoi due nipoti, Slim e Belahsen. «Hanno pagato mille ciascuno per imbarcarsi, sono arrivati sicuramente in un gommone con 22 persone a Linosa il 2 marzo, lo hanno confermato i carabinieri» spiega Adel Laid, dell’associazione Arca, che segue da vicino il caso insieme con Zaher Darwish della Cgil immigrazione, l’anima dei senza diritti di Palermo. Noureddine M’Barki è qui per il figlio Karime, vent’anni. «Era su un barcone arrivato a Lampedusa insieme con tanti altri, ho la foto. È vivo». Chiedono, i genitori dei desaparecidos, un confronto tra impronte digitali: quelle impresse in Tunisia dai ragazzi al momento del rilascio delle carte d’identità, e quelle rilevate all’arrivo nei Centri di identificazione e di espulsione. Una petizione che ha raccolto oltre 1.500 firme e ottenuto un’interrogazione parlamentare di Livia Turco e Gianclaudio Bressa. Dopo giorni di silenzio, il governo tunisino ha battuto un colpo, aprendo uno spiraglio di dialogo. Ma restando irremovibile sulla chiusura dei cordoni della borsa per quel che riguarda le spese di ospitalità. «I primi giorni ha pagato l’albergo - racconta Zaher Darwish - poi hanno dormito in una moschea e nelle case di amici». Nadia Ajmi, che ha visto il figlio di 21 anni, Rami Ghrissi, vendere prima il computer e poi la moto per pagarsi il biglietto per Lampedusa. Lì, in Tunisia, adesso spera come Sameh, che l’ultima volta ha sentito la voce di suo figlio già in mare: «Mamma, siamo partiti da un’ora, chiamami domani», e poi per giorni, per mesi, è impazzita dietro al messaggio automatico del telefono staccato. Nessuno vuole pensare a tutti quelli che sono partiti senza mai arrivare, alle tombe dei senza nome a Lampedusa, se tomba è una gettata di calce bianca con la scritta: extracomunitario. Nessuno vuole pensare ai naufragi che si susseguono anche in questi giorni. Perché a poche miglia di distanza da quell’isola dove i migranti sono al centro della campagna elettorale per il nuovo sindaco, si muore ancora. Il 14 gennaio - racconta Fortress Europe, il blog che tiene la conta delle vittime quattro imbarcazioni sono salpate dalla costa a est di Tripoli, due sono state salvate dalla guardia costiera maltese, una dai militari italiani. La quarta, che era partita carica di 55 uomini, è stata ritrovata alla deriva con un solo passeggero a bordo. Morto. «L’altro giorno - racconta Darwish - a un anziano in Tunisia è arrivata la notizia che suo figlio fosse tra le vittime. Lui non ha retto al dolore ed è morto sul colpo. L’indomani abbiamo saputo che il ragazzo era vivo».

La Stampa 20.2.12
“Ma per molti di loro non c’è speranza“
Intervista a Fulvio Vassallo
di L. An.


Non creiamo false aspettative, credo che gran parte degli ottocento migranti che mancano all’appello siano finiti in fondo al mare, a marzo 2011 ci furono almeno tre naufragi di barconi partiti dalla Tunisia». Non è ottimista Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto d’asilo all’Università di Palermo, avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione e rappresentante del Forum antirazzista di Palermo.
Ma alcuni di questi genitori sostengono di avere le prove dell’arrivo in Sicilia dei loro figli…
«E questa è l’altra storia. Che è l’esito dell’assoluta situazione di incertezze che si determinò perché i migranti non venivano identificati immediatamente con le impronte digitali: questo avveniva più tardi, a Lampedusa o nei Cie dove venivano successivamente portati. Aggiunga pure che i primi sbarchi avvennero il 7 febbraio, ma la richiesta di protezione internazionale fu accordata dall’Italia soltanto il 5 aprile. Molti fuggirono dai Centri senza neanche essere ancora stati identificati».
Perché non chiamare a casa per dire: sono vivo?
«Qualcuno può avere dato false generalità e può essere stato arrestato. In questo caso ha paura di scoprirsi, di rischiare un’altra condanna o di essere rimpatriato, anche perché - dopo la caduta di Ben Alì - il trattamento per chi è emigrato clandestinamente non è molto sereno. Il periodo di detenzione in Italia, per quelli trovati senza documenti, nella maggioranza dei Paesi europei è da sei mesi a un anno: quindi aspettano di uscire».
Perché non avviare il confronto delle impronte, di fronte all’ansia di centinaia di madri?
«Il canale di dialogo si è appena aperto, ma è ancora tutta da verificare la disponibilità della Tunisia. Le autorità italiane, dal canto loro, si erano dette disponibili a verificare le impronte che avrebbe ricevuto, ma intanto nel frattempo non ha neanche fatto un controllo negli archivi del Paese».
Con la primavera, si aprirà una nuova stagione di sbarchi?
«Ne dubito fortemente. La Libia vive una situazione di controllo tribale: chi ha la pelle nera, se non ha un libico che garantisca per lui, è un uomo morto. È diventata un tappo per i migranti africani, tanto che adesso abbiamo notizia di somali in Ucraina, di eritrei bloccati in Sinai, in mano a predoni e trafficanti di organi. Per quel che riguarda la Tunisia, la situazione è fluida, e anche questa storia dei desaparecidos è stata utilizzata per dire: avete visto che succede se fate partire i vostri figli? Non c’è la guerra, non si vedono chiaramente le opportunità della partenza. Potranno arrivare nell’ordine di tre o quattromila, ma l’esodo dei 60 mila dell’anno scorso non lo vedremo».

Corriere della Sera 20.2.12
Il fornaio Khader digiuna in cella. L'ira dei palestinesi
Il jihadista ha perso 30 chili
di F. Bat.


GERUSALEMME — Il Bobby Sands della Palestina, oggi, sarà al giorno 65 di sciopero della fame. 30 chili di meno. Ammanettato a un letto d'ospedale. Descritto senza capelli e coi muscoli atrofizzati: «In pericolo di vita». Adnan Khader riceve familiari, deputati e Croce Rossa, ma non molla: ha rifiutato le cure a base di potassio, non vuole esami del sangue e dell'urina. Accetta solo zuccheri e sali, in minime dosi che lui decide. Se gl'israeliani non annullano la sua «ingiusta detenzione», se la Corte Suprema giovedì non lo lascerà uscire, a 33 anni Adnan promette di diventare il primo martire per fame della storia palestinese. Come l'uomo dell'Ira che trent'anni fa si consumò in un carcere inglese. Gli manca poco: dopo 66 giorni, Bobby Sands morì.
Se nei proverbi palestinesi è febbraio il più crudele dei mesi, quella di Khader è la più cruda delle proteste. Colpisce Israele al suo tallone d'Achille giudiziario, le «detenzioni amministrative» che consentono d'infliggere semestri di carcere per semplici sospetti, spesso senz'accuse specifiche o interrogatori di garanzia. Il panettiere di Kabatia fu arrestato a Jenin il 17 dicembre.
Portavoce di Jihad islamica, movimento che vuole la distruzione d'Israele, è dal '99 che entra ed esce di prigione, dove ha già fatto sei anni. Stavolta ha deciso d'opporsi all'«umiliazione cui sono sottoposti centinaia di palestinesi»: 310 per l'esattezza, uno dei quali detenuto da oltre 5 anni, una ventina imprigionati da più di due. La sua battaglia sta scaldando le piazze: da Gaza, sono stati lanciati i Qassam; altri detenuti hanno cominciato lo sciopero della fame; 5 mila persone hanno manifestato a Jenin; ci sono stati disordini sulla Spianata delle moschee. Per Khader ha lanciato un appello Catherine Ashton, responsabile esteri dell'Ue. E un funzionario dell'Onu l'ha detto chiaro: «Se quest'uomo muore, rischiamo la terza intifada». Le autorità di polizia non vogliono cedere, per evitare un precedente: la Corte suprema stabilì già nel 2002 che queste carcerazioni preventive, teoricamente rinnovabili all'infinito, rispettano le convenzioni internazionali. Scrive un giornale vicino al premier Netanyahu: «Questa Guantanamo non piace a nessuno. Ma dobbiamo anche ricordarci che cos'è la Jihad». Aggiungendo che, per evitare un nuovo Bobby Sands, l'unica è l'alimentazione forzata: «Perché in Israele non abbiamo un'Iron Lady».

Arrestati i due marò Tensione India-Italia
Roma: atto unilaterale. Delhi: li processiamo. Rischiano la pena capitale
l’Unità 20.2.12
Il gigante indiano che oggi alza la voce
di Ugo Papi


L’uccisione dei pescatori indiani da parte di militari italiani riaccende i riflettori su una delle nuove potenze mondiali. I tassi di crescita straordinari hanno imposto da anni l’India alla ribalta internazionale e ci si interroga sul peso che il sub continente indiano avrà nei nuovi scenari della geopolitica e dell’economia globale.
A seguito delle liberalizzazioni degli anni Novanta, nell’ultimo decennio il tasso di crescita è stato vicino all’8%, facendo rientrare a pieno titolo l’elefante indiano nel novero delle potenze in rapida crescita, a fianco del gigante cinese. Questo sviluppo impetuoso, oltre che maggiore ricchezza, ha anche messo in luce le forti criticità del sistema economico indiano e le enormi disparità sociali. Nell’arretrato settore agricolo è ancora impiegato il 50% della forza lavoro. Il settore industriale rappresenta solo il 16 % dell’economia. È cresciuto il terziario, dove a fianco dei ben pagati ingegneri informatici si annida anche una sacca di lavoro informale,senza protezione sociale. Ma il confronto con il Dragone cinese non è certo lusinghiero se si guarda alle aspettative di vita, alla mortalità infantile e all’alfabetizzazione, senza parlare del peso ancora importante delle differenze di casta.
Sul piano internazionale l’India non sembra ancora pronta a giocare un ruolo globale, ma la sua sfera di interesse si allarga progressivamente. Rispetto alla autoritaria Cina, l’India gode di una straordinaria immagine positiva che deriva dall’essere la culla di importanti tradizioni religiose e oggi la più grande democrazia del mondo. La preoccupazione prima della politica estera indiana resta il Pakistan e la minaccia che rappresenta nel conteso Kashmir. Tre guerre e continue crisi di frontiera non hanno risolto il problema. Per questo negli anni passati, i due Paesi si sono dotati di armi nucleari. A complicare le cose ci sono i ripetuti attentati terroristici in India, spesso compiuti da gruppi legati al Pakistan, ma anche i tentativi indiani di allargare la propria influenza in Afghanistan.
La seconda direttrice della politica estera indiana è la relazione con l’America, sempre più buona dopo gli anni della guerra fredda. Dopo il 2005 sono stati siglati importanti accordi nel campo della difesa e degli armamenti. Gli Usa hanno perdonato all’India la dotazione nucleare, facendola di fatto entrare nel club dei grandi, sperando così di portare il gigante indiano ad un accordo strategico. Ma l’India vuole tenersi le mani libere. La terza preoccupazione di Delhi sono infatti i rapporti con Pechino. L’espansione economica e politica della Cina nei paesi del sub continente indiano, dal Pakistan alla Birmania, fanno del Dragone un avversario strategico dell’India che aspira, per ora, ad essere solo una grande potenza regionale.

l’Unità 20.2.12
Non sapevamo chi siamo, e adesso?
La scomparsa del «capo» e l’«italianità» perduta. In un libro ebook sette studiosi si confrontano sul tema urgente dell’identità nazionale
e sui cambiamenti profondi del nostro Paese, la crisi e la forza dell’Italia
di Enrico Pozzi, psicologo


Orfani di un «patriarca» che ha dato mille facce al Sistema Paese
La sfida. Uscire dall’eternità magica e entrare nella storia, collettivamente

Il volume da oggi scaricabile gratuitamente
Viaggio in Italia. Alla ricerca dell’identità perduta, Aa.Vv. , A cura di Giulia Cogoli e Vittorio Meloni pagine 144
Oggi si presenta «Viaggio in Italia. Alla ricerca dell’identità perduta» (perFiducia, Intesa Sanpaolo), un libro che raccoglie le riflessioni di Aime, Dalla Zuanna, De Biase, Diamanti, Natoli, Pozzi e Zoja: sette studiosi si confrontano sull’identità degli italiani, i cambiamenti profondi del nostro paese, la crisi e la forza dell’Italia dei nostri giorni. Scarcabile gratis su www.perfiducia.com

Esistono due problemi diversi collegati all’identità. Il primo è il paradosso costitutivo dell’identità quando essa si applica ad attori dinamici, e soprattutto a soggetti viventi. Il secondo è: cosa sta avvenendo alla identità italiana in questo momento e quale rapporto intercorre tra le difficoltà identitarie percepite dai soggetti collettivi e individuali nel nostro paese e la crisi della leadership carismatica che stiamo vivendo? (...)
Dalla fine degli anni Ottanta, per una serie di motivi, la società italiana è entrata in una crisi anomica accentuata, in una perdita crescente di elementi vitali della sua coesione sociale che hanno prodotto un’angoscia talvolta evidente in alcuni segnali statistici, talvolta più incerta e sfuggente. Il nostro sistema sociale è entrato in un panico anomico, prima strisciante poi esplosivo, che si è tradotto in una domanda altrettanto panica di coesione magica del Sistema Paese. Qui il richiamo è a Max Weber: l’anelito al ripristino della coesione si è espresso in una domanda diffusa di leadership carismatica. Le pagine straordinarie di Weber sul carisma e sul potere carismatico stanno in parti diverse del postumo Economia e società. Occorre leggerle tutte per capire la ricchezza multidimensionale del tipo ideale che propone. Un aspetto le accomuna: la indifferenza di Weber per la dimensione psicologica. Salvo che in un punto: caratteristica del capo carismatico è il possedere qualità straordinarie, ma come mai la gente pensa che un determinato individuo abbia effettivamente delle qualità straordinarie? Questa frasetta pone il problema cruciale del consenso al carisma. La principale risposta è da ricercare, secondo me, nel panico anomico, e nella sofferenza psichica che l’anomia grave genera nell’io e nella identità dei membri di un gruppo sociale (nazione, organizzazione, famiglia ecc.).
Ma cosa c’entra il carisma con la coesione sociale? In che senso può agire come una «cura» per l’anomia? Osserviamo il frontespizio della prima edizione del Leviatano di Hobbes. Si tratta di una straordinaria visualizzazione della funzione coesiva della leadership carismatica o del corpo del sovrano. Riportando questa immagine al momento in cui è stato scritto il testo una guerra civie, il massimo dell’anomia e dell’homo homini lupus -, abbiamo il Re a mezzobusto nella pienezza dei suoi regalia (spada, globo ecc.) collocato sullo sfondo di un paesaggio che condensa il suo regno fisico. Ma il corpo de Re è fatto dalle teste dei suoi sudditi. Corpo metonimico, al tempo stesso individuale e collettivo, che contiene nel suo Body Natural il suo Body Politic, secondo il modello classico di Ernst Kantorowicz. Nel corpo fisico/ politico del Re, necessariamente tutt’uno come ogni corpo vivente, si ricompone magicamente il corpo lacerato del sociale. Nella persona mixta del sovrano si ripristina la coesione sociale perduta o minacciata, si placa l’angoscia anomica e trova risposta la domanda sociale di coesione del Noi, che è anche domanda di coesione dell’io e della identità individuale. In Hobbes sta la risposta alla domandina di Weber, cioè il modello di base del consenso al potere carismatico.
L’analisi freudiana del rapporto capo-folla traduce tutto questo in una dinamica direttamente psicologica. Nella sua ipotesi, il capo diventa il modello interiorizzato comune a ciascuno dei membri del gruppo: nella folla, ognuno si mette dentro, come parte della propria identità, il pezzetto di immagine di capo che è conforme ai suoi bisogni, aspettative o terrori. Lo stesso individuo il Capo è uno, nessuno e centomila, e raccoglie in sé quei seguaci che, ciascuno a proprio modo, si rispecchiano in lui. Il Capo come collante coesivo psichico del Noi, denominatore comune condiviso dagli individui del gruppo che lo riconosce come capo.
Il Berlusconi trionfante l’imprenditore, il presidente operaio, lo sportivo, il cabarettista, il ricco, Priapo, il presunto vincitore del Certamen capitolinum, il guaritore ecc. tra il ’94 e il ’96 si è presentato come le mille facce del Sistema Paese in cui ognuno poteva riconoscersi, identificarsi e sentirsi compreso, ma nel senso fisico: compreso nel corpo del sovrano, nel corpo metaforico di Berlusconi. Quel Berlusconi ha rappresentato la risposta transitoriamente adeguata, da un lato a un panico sociale duraturo, alla domanda angosciata
di una coesione sociale antianomica; dall’altro, a una domanda di semplificazione cognitiva di una realtà percepita come eccessivamente complessa. Il capo carismatico come un riduttore di complessità: invece del caos locale e globale, il riordinamento del mondo nella semplicità cognitivamente accessibile di un individuo. Una persona come mediatore e traduttore delle troppe cose che accadono intorno a me, la complessità riassunta e sussunta in lui, in una dimensione personale che io pover’uomo sento di poter ancora capire. Ma da anni ormai il Body Natural del leader carismatico sta chiedendo il conto al suo Body Politic. Le virtù straordinarie del carisma non trovano più nelle cose e nella sua persona quella continua prova di verità e verifica alla quale il capo carismatico è tenuto.
La funzione coesiva si è progressivamente indebolita, la terapia antinomica di tipo magico che il capo carismatico incarnava perde efficacia, il panico anomico collettivo e individuale riprende lentamente, poi sempre più in fretta, il sopravvento.
Non senza contraccolpi, il consenso si sfalda, e l’angoscia sociale cerca nuove risposte: talvolta, poveramente, nuovi capi; talaltra, in modo più maturo ma pur sempre incerto, nuove procedure e modalità di esercizio della sovranità.
Gabriel García Márquez ha scritto, con L’autunno del patriarca, una delle più potenti rappresentazioni narrative delle logiche, delle grandezze e delle molte miserie del potere carismatico in salsa sudamericana. Poi un giorno il dittatore muore, e c’è la chiusa bellissima del libro: ... perché noi sapevamo chi eravamo mentre lui restò senza saperlo per sempre col dolce sibilo della sua ernia di morto vecchio, troncato di netto dalla stangata della morte, (...) estraneo ai clamori delle folle frenetiche che scendevano nelle strade cantando gli inni di gaudio della notizia gaudiosa della sua morte ed estraneo per sempre alle musiche di liberazione e ai razzi di gioia e alle campane di giubilo che annunciarono al mondo la buona novella che il tempo incalcolabile dell’eternità era finalmente terminato.
La società italiana, in tutte le sue articolazioni, trova adesso davanti a sé l’opportunità di uscire dalla eternità magica del sole carismatico e di entrare di nuovo nella storia, nella collaborazione, nel compromesso, nel difficile negoziato tra le diversità: in altri termini, nella realtà e nel progetto di una identità collettiva tornata a essere dinamica, forse. La stessa opportunità si offre parallelamente alle identità individuali, sottratte allo «io sono come sono» della paura di vivere. Nessuno può dirsi certo che questa doppia opportunità venga colta, e che non si preferisca invece tornare nei porti tranquilli e mortiferi della regressione, del pensiero paranoico e delle aspettative magiche.

Corriere della Sera 20.2.12
Segreti e bugie del cervello
di Chiara Lalli


Il costo complessivo di una racchetta e una pallina da ping-pong è di un euro e 10 centesimi. Se la racchetta costa un euro più della pallina, quanto costa quest'ultima? Siete convinti della risposta che v'è venuta in mente? Come mai siamo così sicuri delle nostre testimonianze oculari, nonostante siano fallaci (l'analisi del Dna ha scagionato centinaia di persone condannate negli Stati Uniti)? E ancora, perché cadiamo tanto facilmente nelle trappole dei rimpianti e delle occasioni perdute, cioè in una ricetta quasi perfetta per l'infelicità?
Sono solo alcune delle questioni che Massimo Piattelli Palmarini raccoglie in Chi crediamo di essere (Mondadori, pp. 216, 18), domande che la nostra mente può trasformare in veri e propri rompicapo, in cul de sac cognitivi di cui faremmo meglio ad essere consapevoli. Spesso gli errori e gli inganni mentali causano imprecisioni, pronunce sbagliate, inferenze funamboliche — magari una figuraccia, ma nulla di catastrofico. A volte però le conseguenze sono ben più gravi: come nei casi in cui le interpretazioni unilaterali e viziate portano a uccidere il presunto fedifrago o a scatenare una guerra. L'ostinata e cieca gelosia, fomentata per confermare i nostri sospetti (Otello è l'esempio letterario più celebre, ma quanti veri drammi della gelosia potremmo elencare?), o la guerra in Iraq iniziata in nome della necessità di difendersi da armi di distruzione di massa. Non tutte le menzogne sono intenzionali o completamente tali, esistono sincere promesse di qualcosa che non manterremo mai, convinzioni fallaci ma apparentemente credibili e intuitive. Tanto più pericolose quanto più verosimili e facilmente comprensibili.
Piattelli Palmarini offre ai lettori — come scrive nell'introduzione, il libro è destinato ai non esperti — uno spiraglio attraverso il quale sbirciare nell'affascinante mondo delle neuroscienze e delle scienze cognitive. La nostra mente è un terreno ancora in gran parte misterioso. Rispetto ad alcuni anni fa abbiamo acquisito molte informazioni, ma gli enigmi della nostra coscienza, della correlazione tra mente e cervello e della sovradeterminazione causale non sono affatto risolti.
Autoinganni, controfattuali miopi e realtà alternative popolano la nostra vita. Alcuni di questi sono estremamente seduttivi: la donna che avremmo potuto incontrare sarebbe più soave di quella con cui viviamo, il libro che avremmo potuto scrivere più bello di quello appena pubblicato, e la vita che avremmo condotto più avventurosa e felice di quella che stiamo vivendo. Se solo quella volta avessimo cambiato strada...
Uno degli avvertimenti più utili è quello che riguarda l'autorità e la gregarietà: siamo irrimediabilmente portati a fidarci di chi ricopre posti di potere, di chi insegna, di chi scrive o è autorevole in qualche campo del sapere. È facile confondere l'autorevolezza con l'autorità e impedirsi di mettere in dubbio qualche affermazione in base a chi l'ha fatta. Alcune storpiature linguistiche sono talmente assurde da far ridere: Piattelli Palmarini ricorda il caso dei cartelloni pubblicitari Alitalia. A lettere cubitali affermavano: «The time has flown», con un articolo di troppo e senza essersi curati di consultare un dizionario o una persona madrelingua.
Un'altra tentazione molto umana è quella di attribuire un senso dove non c'è che una serie di avvenimenti slegati. La tendenza a disegnare finalità e a cercare una volontà superiore per fatti che non siamo in grado di giustificare: il destino è un'illusione che molti preferiscono al peso della casualità. L'invito di Piattelli Palmarini potrebbe essere sintetizzato così: attenzione alle giustificazioni e alle argomentazioni che ascoltiamo — o che scegliamo di usare —, «soppesare sempre il significato dei dati forniti, porsi sensati problemi e cercare altri dati, cosa oggi molto agevole via Internet, è compito civile doveroso». Con la consapevolezza che il nostro sapere è fallibile, limitato e minacciato da infinite trappole cognitive. A proposito: la pallina da ping-pong non costa 10 centesimi — come molti tendono a rispondere — perché la racchetta dovrebbe costare un euro e 10 centesimi, quindi il costo complessivo sarebbe di un euro e 20.

Corriere della Sera 20.2.12
Ricerca trascurata, futuro a rischio
Un manifesto degli scienziati italiani
di Giovanni Caprara


Ci siamo dimenticati il valore dei «beni immateriali» frutto della scienza. Una protratta negligenza politica e culturale verso di essi costituirebbe uno dei peggiori segni di decadenza del Paese. Se la politica continua a trascurare la crescita di questi beni vuol dire che si tende consapevolmente ad un rovesciamento dei valori: superate le soglie di irreversibilità si cadrebbe nel sottosviluppo.
L'analisi emerge da un rinnovato appello contenuto in un manifesto diffuso da una delle istituzioni scientifiche italiane più antiche, la Società italiana per il progresso delle scienze (Sips). Fondata addirittura 172 anni fa, oggi è presieduta da due illustri scienziati, il fisico Carlo Bernardini e l'ingegnere nucleare Maurizio Cumo. L'Unità era ancora lontana e il Paese era tagliato dai confini e da interessi contrastanti ma i soci-scienziati avevano il coraggio di riunirsi per la prima volta a Pisa nel 1839 al fine di stimolare un futuro con radici nella scienza, considerandola indispensabile anche alla politica. Il seguito della storia ha prodotto alcuni risultati ed eccellenti cervelli, ma oggi non si può dire che lo spirito dei fondatori della Sips, dopo quasi due secoli, si sia concretizzato come avevano sognato.
La crisi economica in cui l'Occidente è precipitato non favorisce certo le scelte ma la Penisola brillava anche prima della grave contingenza per il suo distacco dalla ricerca, frutto di una cultura inadeguata e arretrata che influenza la politica quanto la vita civile in generale.
Bisogna reagire alla sommersa involuzione — invita giustamente il Manifesto — e il governo sostenga enti di ricerca e università affinché diventino centri di attrazione dei giovani arrestando la loro fuga. Con il rigore che la scienza stessa impone valutandone il lavoro e valorizzando le idee. Condividiamo qualche segnale positivo che l'Europa sta lanciando, salvaguardando anche una ricerca libera e non totalmente piegata ai piani delle finalità pubbliche. Un giusto equilibrio, insomma. Come ignorare l'appello se si ha a cuore un ragionevole futuro o, meglio, la sopravvivenza?

La Stampa 20.2.12
Intervista
“L’Orso d’oro ai carcerati li fa uscire dall’isolamento”
L’uomo che lavora con loro: “Il film corona un’esperienza unica”
di Fulvia Caprara


«CESARE DEVE MORIRE» «I Taviani folgorati dall’incontro tra quest’umanità reietta e l’altissimo valore della poesia»

Dietro il film che ha riportato l’Italia sul palcoscenico del cinema internazionale, c’è «la testardaggine di due grandi autori», ma anche l’impegno appassionato di un regista che, nel carcere romano di Rebibbia, lavora da 10 anni, mettendo in scena classici di Dante, Pirandello, Skakespeare, perché, dice, «le parole creano la realtà, e la realtà diventa ricca se esse lo sono». Per Fabio Cavalli, genovese, 53 anni, l’Orso d’oro a Cesare deve morire è il coronamento di un’«esperienza straordinaria, di un progetto in cui non credeva nessuno. Il film non si riusciva a fare, sono anche andato in giro a cercare sponsor ma, appena sentivano la parola detenuti, fuggivano tutti». Poi è successo che i fratelli Taviani siano andati a vedere l’«Inferno» di Dante: «Li ha folgorati l’incontro tra quest’umanità reietta e l’altissimo valore della poesia».
Che cosa significa recitare, per i detenuti?
«Significa aprirsi finalmente al mondo, avvicinarsi a quella cultura che, sui banchi di scuola, avevano rifiutato, vivere una seconda possibilità, accostarsi al sapere attraverso il piacere dell’immaginazione, ma anche identificarsi nei personaggi che interpretano e capire meglio quello che sono. Pronunciare le battute di Macbeth, per una persona che ha commesso certi reati, è molto diverso che per un normale attore».
Lei come è entrato in contatto con questa realtà?
«Faccio il regista, un amico mi disse che c’erano dei detenuti che stavano tentando di mettere in scena Napoli milionaria, ma non ci riuscivano. Andai a vedere, mi ritrovai davanti a 20 attori che, in uno spazio di 7 metri per 5, provavano e riprovavano. Era una specie di caos organizzato, alla napoletana, quella volta ho perso la mia verginità di borghesuccio, e ho capito subito che bisognava solo regolare i toni, un po’ come i pulsantini di una consolle».
Oggi il teatro è diventato, in carcere, una presenza fissa, eppure se ne parla poco.
«A Rebibbia i detenuti coinvolti sono un centinaio, si sono formate tre compagnie, che si esibiscono in un teatro di 400 posti, perfettamente attrezzato, con una sua stagione, come tutti gli altri. Negli ultimi 5 anni abbiamo avuto 22mila spettatori, e ora stiamo per entrare nel curcuito ufficiale dei teatri di Roma».
Da chi è composto il vostro pubblico?
«Lavoriamo con gli assessorati, per lo più vengono studenti, minorenni, che dopo aver visto uno spettacolo, tornano sempre».
In carcere maschi e femmine sono separati, come si fa con le opere in cui sono presenti i due sessi?
«Abbiamo fatto una versione del Candelaio di Giordano Bruno en travesti, ma ci sono anche tante attrici che collaborano abitualmente con noi».
Il film mostra come, in certi particolari momenti, dirigere una compagnia di detenuti non sia affatto semplice. Che tipo di problemi le è capitato di affrontare?
«Lavorare con loro significa fare i conti con gente che sta male e soffre, la mancanza di libertà è terribile, chi non la prova, non può capire. Mi è successo di assistere alla notifica di una condanna di ergastolo, oppure di vedere la scena di un recluso a cui viene data la notizia inattesa della liberazione... Ho imparato, per esempio, che non posso mai fissare le prove nei giorni dei colloqui. Se l’incontro con un parente va male, nessun detenuto ha più voglia di recitare».
Che cosa ha imparato?
«In carcere bisogna dire sempre la verità, spesso si ha a che fare con persone abituate a comandare, se non sanno bene chi hanno davanti, non si affidano, non delegano».
Che cosa rappresenta, per tutta questa realtà, l’Orso d’oro della Berlinale?
«È il segno di un vento di rinnovamento, che riguarda tutto il Paese. In Gomorra si raccontava quello che accade prima, fuori dal carcere. Adesso è arrivato il tempo di parlare del dopo».

domenica 19 febbraio 2012

l’Unità 19.2.12
Lazio, il giorno delle primarie

Dopo il rinvio imposto dalla emergenza neve, si vota oggi nel Lazio per eleggere il segretario regionale del Pd con le primarie. Alla consultazione possono partecipare tutti, iscritti e non: basta che abbiano compiuto sedici anni, «si riconoscano nella proposta politica del partito». E, stranieri o meno, siano residenti nel Lazio (per i fuori sede il termine per registrarsi era il 15 febbraio).
I seggi saranno i 500 circoli aperti per l’intera giornata, dalle 8 del mattino alle 20 di sera. Per trovare il proprio basta andare su www.pdlazio. it e inserire il proprio numero di tessera elettorale.
Durante la prima fase elettorale riservata agli iscritti Enrico Gasbarra, il favorito, ha incassato 16.452 voti, pari al 70%, Marta Leonori 3.214 voti, pari al 13,7%, Giovanni Bachelet 1.994 voti, pari all’8,5%.

La sfidante
Basta conformismo Serve una politica forte e autorevole
di Marta Leonori


La crisi aumenta ogni giorno di più. Dobbiamo reagire: occorrono determinazione, fantasia, onestà. Il conformismo non basta più, ammesso e non concesso che sia mai servito a qualcosa.
Proveniamo da una serie di sconfitte sistematicamente rimosse. Sconfitte spesso maturate nonostante fossero conseguenti a scelte assunte in un clima perfettamente unitario, almeno all’apparenza, almeno nel gruppo dirigente.
Nelle comunali di Roma del 2008 e nelle regionali del 2010 il mancato coinvolgimento degli iscritti e la rinuncia alle primarie hanno prodotto candidature fallimentari. Dopo, nessuno ha voluto riconoscere le proprie responsabilità.
Dobbiamo dirci la verità: questo partito deve cambiare. Se davvero vogliamo costruire una società più giusta e umana, un modello di sviluppo sostenibile e innovativo, abbiamo bisogno di un partito diverso e di una classe dirigente migliore, soprattutto nel Lazio.
La crisi incide su un bilancio regionale già prosciugato da sprechi e inefficienza, quindi riduce la capacità della politica di organizzare una risposta all’altezza della condizione drammatica che vivono milioni di persone ogni giorno. La destra, quella di Storace prima, di Alemanno e Polverini oggi, costituisce ormai una garanzia: se c’è la possibilità di peggiorare la situazione, lo faranno.
Ma un’opposizione puntuale e sistematica oggi non basta: la sfiducia nei confronti delle istituzioni e della politica è aumentata più dello spread; occorrono risposte credibili, lontane tanto dalla demagogia quanto dall’accettazione passiva dell’impotenza dello Stato di fronte alla recessione. Serve una politica forte, consapevole, autonoma.
È necessario riorganizzare l’assetto istituzionale, dando un senso all’iter di Roma Capitale, affrontando il nodo della riforma delle province e restituendo dignità ed efficacia alla Regione. Bisogna intervenire subito sui veri costi della politica: trasparenza nelle nomine, negli appalti e nelle aziende partecipate, oltre a un taglio drastico di tutti i privilegi, a partire dai vitalizi degli assessori e dalla riduzione delle commissioni da 20 a 8. Una cosa dovremmo averla imparata tutti: non si è sconfitti solo quando si perdono le elezioni, ma anche quando non si riesce a governare il cambiamento. Un partito feudale non può che subire il cambiamento, ed è destinato alla sconfitta.
Vogliamo un partito che sia un soggetto pensante, capace di ccostruire programmi e progetti; un partito che non sia arrogante né assente; un partito che sappia rispondere al bisogno e interpretare la speranza.
Per questo ho deciso di metterci la faccia, insieme a tanti altri, soprattutto giovani e donne: perché sentiamo che non si può più attendere, non si può più delegare. È giunto il tempo di unirsi e di assumere responsabilità: gettiamo i semi di un risveglio della politica, con l’umiltà e il coraggio che servono per cambiare davvero.

il favorito
La sfida è contro la destra: oggi può partire la riscossa
di Enrico Gasbarra


Oggi il Pd elegge, attraverso le primarie, l’Assemblea regionale e il nuovo segretario del Lazio. Una sfida a cui ho deciso di partecipare anche io in prima persona perché è il momento dei passi avanti, è il momento di scendere in campo per fermare la crisi e la destra.
So bene quanto siano complessi e difficili i mesi che stiamo vivendo e quanto la mala-politica sia riuscita a rendere ancora più grigia la vita di questo Paese.
Il governo Berlusconi è finalmente caduto, ma i danni che ha prodotto hanno trascinato il Paese ad un passo dal fallimento. Nel Lazio la destra è invece ancora alla guida di molte Amministrazioni ma non ha saputo mettere in campo un piano straordinario di sostegno e di rilancio. La disoccupazione è al 10%, la criminalità imperversa, le imprese sono lasciate sole e le banche riducono il credito anche alle famiglie. La Regione taglia i servizi socio-sanitari, chiude 22 ospedali, alza le tasse locali portandole al livello più alto d'Italia però trova il modo di dare il vitalizio agli assessori. Insieme, uniti possiamo fermare questa destra.
C’è bisogno di interventi anti-crisi non di chiacchiere; c’è bisogno di chiedere ai grandi patrimoni di dare di più; c’è bisogno che il Pd spinga l'azione del governo Monti sempre più verso l'equità sociale e la crescita; c’è bisogno di dare diritti ai cittadini stranieri nati in Italia; c’è bisogno di un Pd unito che lanci subito un piano regionale innovativo in grado di affrontare la crisi sostenendo chi è più fragile, chi lavora e chi da lavoro; c’è bisogno di un Pd coeso per sconfiggere la destra di Alemanno e Polverini, per offrire ai cittadini del Lazio una nuova prospettiva di vita.
Oggi, quindi, dopo 500 giorni di commissariamento, potete possiamo essere protagonisti del cambio di passo del Pd del Lazio e far partire la grande riscossa.
Ho 49 anni e con il voto diretto dei cittadini ho avuto l’onore di servire le istituzioni della mia comunità, ma non ho mai guidato un partito. Il Pd deve garantire al suo popolo l’unità: per ricostruire il Paese, la Regione, le nostre città e non c’è più posto per i personalismi e le inutili divisioni sul nulla. Voglio costruire un partito moderno capace di rinnovare la classe dirigente e di dialogare direttamente con i movimenti, le associazioni, le esperienze civiche e con coloro che invocano nuovi diritti. Un partito che difende i più deboli, i giovani, gli studenti, le donne, i precari, i lavoratori e i pensionati. Voglio che l’impegno politico torni ad essere servizio e non privilegio: taglio dei costi della politica, dimezzamento dei parlamentari, fuori la politica dai consigli di amministrazione, abolizione delle poltrone e degli enti inutili, trasparenza e lotta senza timidezze alle illegalità. Voglio che il vento riformatore che anima l’azione di tanti democratici onesti e capaci, come dimostrano le straordinarie esperienze di buon governo di Rieti con Melilli e di Roma con Zingaretti, si estenda in tutto il Lazio.
La partecipazione alle primarie è essenziale per curare la politica malata e dare al Pd del Lazio un passo nuovo e vincente.

l’Unità 19.2.12
All’assemblea delle donne Pd il segretario avverte: siamo in recessione, rischioso ridurre i diritti
La leader Cgil: «Sugli ammortizzatori il governo decida le risorse. Cancellare le dimissioni in bianco»
«Salvare le tutele dei lavoratori»
Bersani e Camusso, alt a Fornero
di Simone Collini


«Non c'è dubbio che sarebbe positiva un'evoluzione in senso universalistico, generale, del sistema degli ammortizzatori, ma aggiungo: vedere cammello». Pier Luigi Bersani è preoccupato per la piega che rischia di prendere la discussione sul mercato del lavoro. Primo, perché «si sta girando ancora un po' attorno a quello che è il tema vero, cioè come creare più occupazione». E secondo, perché il moltiplicarsi di annunci, ipotesi, proposte più o meno realistiche rischia di appesantire un confronto che invece deve essere chiuso in tempi rapidi e con il consenso tra le parti: «Il paese ha problemi serissimi e non possiamo permetterci il lusso di aprire conflitti. C'è il 'salva-Italia' ma l'Italia la salviamo tutti insieme».
APPLAUSI SULL’ARTICOLO 18
Il leader del Pd parla all'assemblea organizzata a Napoli dalle Democratiche. Su tutte le prime pagine dei giornali sono riportate le parole della ministra Fornero sulla possibilità di rivedere la cassa integrazione straordinaria, per estendere le tutele a chi oggi ne è privo. Bersani, intervistato da Lucia Annunziata e ascoltato con attenzione da Susanna Camusso che siede in prima fila, sottolinea il rischio che il principio, giusto di per sé, mal si concili con la realtà dei fatti. «Siamo in recessione, prima di mollare via strumenti che servono alla bisogna ci penserei molto bene. E poi come si finanzierebbe il nuovo sistema? In Europa non hanno l'anello al naso, non puoi dire che fai il modello danese e poi non dici come lo paghi».
Le donne del Pd arrivate a Napoli da ogni regione applaudono il passaggio, come gli altri sull'articolo 18, che «ha poco o nulla a che fare con i problemi che ha il mercato del lavoro». Non sono tutte dipendenti o elette o funzionarie di partito. A riempire la sala Galatea della Stazione marittima, a parlare della que-
stione tutta da risolvere della rappresentanza di genere ma soprattutto di come riscattare il Mezzogiorno, ci sono molte libere professioniste e anche imprenditrici. Raccontano le loro storie, le difficoltà che incontrano. Di tanti problemi parlano, e l'articolo 18 non è tra questi. «Non ho mai trovato un imprenditore che mi abbia detto: mi fermo ad investire per l'articolo 18», dice Bersani pur ammettendo che qualche «aggiustamento», una «manutenzione» dal punto di vista «giurisdizionale» si potrà fare («Il reintegro dopo 7 o 8 anni ha poco senso»).
Il leader del Pd non è interessato ad aprire un duello a distanza con Berlusconi, che pure in quegli stessi minuti rilancia la necessità di modificare l'articolo 18 («io ho tolto Berlusconi dal mirino»). Piuttosto, Bersani vuole sollecitare il governo ad «avere una sua autonomia». «Ci sono dei palloni ideologici che per i mercati diventano più duri del cemento, non per il merito ma perché vogliono verificare se il governo ha la capacità di prendere di petto i problemi. Ma noi abbiamo visto ad altezza degli occhi questi famosi mercati e sappiamo come stanno le cose. A furia di dar retta ai mercati siamo finiti contro un muro».
Ecco perché il governo Monti, che pure Bersani sa non essere «di sinistra» («ma non è neanche di destra») deve dimostrare di sapersi muovere in autonomia. Così come lo farà il Pd, che pure «non intende far cadere il governo», in Parlamento quando verrà discussa la riforma del mercato del lavoro. «Se al tavolo tra governo e parti sociali si giunge a un accordo condiviso bene. Se non ci sarà giudicheremo il problema nel merito alla luce delle nostre proposte e ci comporteremo in Parlamento di conseguenza». Ancora applausi arrivano dalla platea delle Democratiche, quando il segretario del Pd affronta la questione della rappresentanza femminile nel partito e nelle istituzioni, e spiega: «Abbiamo troppi sensi di colpa, non saremo perfetti ma siamo più avanti di altri, ma serve una legislazione ad hoc perché la parità non si fa in un partito solo».
Applausi anche per Susanna Camusso, che si mostra critica con la proposta lanciata da Fornero: «In una stagione difficile è prioritario mantenere gli ammortizzatori che abbiamo. Sull'ammortizzatore universale serve che il governo decida quali risorse rendere disponibili perché sia finanziato, altrimenti è solo una riduzione delle tutele e non un ampliamento». E poi, «a chi si agita sull'articolo 18» il segretario della Cgil manda a dire che la prima grande norma da fare è «il ripristino della legge sulle dimissioni in bianco». Norma voluta dall'ultimo governo di centrosinistra. L'esperienza dell'Unione, per Bersani, non va ripetuta, ma nel 2013 si dovrà compattare un «centrosinistra di governo che faccia un accordo di legislatura con le forze moderate». E la destra? E le operazioni al centro?«Considero poco probabile un'evoluzione europea del centrodestra dalle ceneri del berlusconismo. E novità potranno arrivare non da movimenti di centro, ma da espressioni di disaffezione della politica».

l’Unità 19.2.12
Allarme Cgil: cala il numero dei cassintegrati ma ciò indica la definitiva uscita dal processo produttivo
Meno Cig, più disoccupati
di Marco Tedeschi


Scende la cassa integrazione, ma aumenta la disoccupazione. È un quadro a tinte fosche quello presentato dall'osservatorio cig del dipartimento settori produttivi della Cgil nazionale.
Nel rapporto di gennaio si mette in luce come la cassa integrazione abbia iniziato il 2012 con un calo significativo, segnale però di «una progressiva transizione verso la disoccupazione». Del resto le 54.981.196 ore registrate a gennaio segnano un discesa sul mese precedente del -9,58%, mentre sullo stesso mese dell'anno scorso la flessione è stata dell'8,46%. numeri che «nascondono» 312 mila lavoratori coinvolti nei processi di cassa, con un taglio netto del reddito per circa 211 milioni di euro, pari a circa 675 euro per ogni singolo lavoratore. Tutti questi dati sono frutto delle elaborazioni effettuate sulle rilevazioni Inps.
E che trovano conferme in uno studio realizzato da Confcommercio sul clima di fiducia delle imprese nel nostro Paese. Dai dati raccolti, emerge come per il 76,2% delle imprese interpellate, appartenenti al ramo del commercio, del turismo e dei servizi, l'economia italiana è in deciso peggioramento nel quarto trimestre del 2011 (erano il 58,9% nel trimestre precedente) e questo pessimismo rimane per oltre il 40% delle imprese anche nelle previsioni per il primo trimestre del 2012.
Peggiora anche l'andamento economico delle stesse imprese (segnalato dal 43,9% del campione rispetto al precedente 30,6%) e rimane elevata (21,6%) la quota di imprese che prevede un analogo risultato anche nel primo trimestre dell'anno in corso. In aumento anche le imprese che registrano un calo dei ricavi e un aumento dei prezzi praticati dai fornitori. E sono oltre la metà (il 56,4%) le imprese esposte verso la pubblica amministrazione che registrano un aumento dei ritardi di pagamento.
A livello geografico sono le imprese del Mezzogiorno a registrare le maggiori percentuali relative al peggioramento di tutti gli indicatori. Insomma, il deciso deterioramento del clima di fiducia e degli indicatori congiunturali delinea un quadro che, in qualche caso, ci riporta indietro ai livelli della fine del 2008, quando il nostro paese fu investito dalla crisi economica.
Tornando ai dati raccolti dalla Cgil, il segretario confederale del dipartimento settori produttivi, Vincenzo Scudiere, sottolinea come ci si trovi di fronte ad «una situazione che non consente ottimismi in un paese entrato nell'incubo della recessione. Alla riduzione della cassa c'è un contestuale aumento del livello di disoccupazione e di mobilità, così come il calo di quella in deroga: è il segno della conclusione o della mancata approvazione dei finanziamenti delle regioni».
«Siamo in piena emergenza», aggiunge Scudiere «e per questo dobbiamo occuparci delle criticità dettate dalla crisi: dal garantire gli strumenti di tutela al dare risposta agli oltre 70 mila »esodati« che si trovano in una situazione disperata: senza lavoro e senza futuro».
Nel dettaglio dell'analisi della Cgil, il ricorso alla cassa integrazione ordinaria (cigo) frena a gennaio la sua riduzione e si attesta a un -1,41% sul mese precedente per un monte pari a 20.298.430. Sullo stesso mese del 2010 invece si registra un aumento del +11,08%. Per quanto riguarda la cassa integrazione straordinaria (cigs) le ore registrate a gennaio sono 21.401.025 per un -9,14% su dicembre mentre la riduzione tendenziale è del -9,92%. Infine, recita il rapporto Cgil, la cassa integrazione in deroga (cigd) con le sue 13.281.741 ore di gennaio diminuisce sul mese precedente del -22,94% e del -26,34% sullo stesso mese del 2011.

La Stampa 19.2.12
Fassina, responsabile economico del Pd
“Una corsa al ribasso sulle condizioni del lavoro”
di Francesca Schianchi


«Ora si chiede di abolire l’art. 18, poi si dirà che la compensazione monetaria va ridotta, e così via». Su come invece vada rimessa al centro «la persona che lavora», Stefano Fassina, responsabile economico Pd, ha appena dedicato un libro. Perché oggi, sospira, «sull’arretramento delle condizioni lavorative si rischia una corsa al ribasso senza fine».
E’ una visione pessimista...
«In Spagna, dove non c’è l’articolo 18, la compensazione monetaria era pari a 45 giorni per ogni anno lavorativo: è stata ridotta pochi giorni fa a 33. In Portogallo è stato superato il contratto nazionale di lavoro, mettendo i lavoratori in competizione al ribasso. In Grecia il salario minimo è passato da 750 a 600 euro».
Quindi sull’art. 18 non si può mollare di un millimetro?
«Si possono fare miglioramenti nelle procedure, perché è vero che l’incertezza della durata delle cause crea problemi. Ma non si può negare un diritto che invece va tutelato».
Senza un accordo condiviso il Pd potrebbe arrivare a votare contro la riforma?
«Non vedo perché un governo responsabile, con interlocutori responsabili come i sindacati, non debba riuscire a trovare un accordo condiviso».
Che ne pensa dell’idea di togliere la cassa straordinaria e estendere la disoccupazione?
«La cassa straordinaria in questi anni ha avuto utilizzi impropri, bisogna intervenire su quello, ma è importante mantenere uno strumento che sostenga il reddito dei lavoratori durante la fase di ristrutturazione delle imprese».
La sua posizione è condivisa da tutto il Pd? Al suo libro il senatore Ceccanti ha dedicato un articolo di critica.
«L’analisi che propongo è larghissima maggioranza nel Pd. Ceccanti mi critica sull’uso che faccio delle riflessioni della Chiesa: ma né io né lui disponiamo dell’interpretazione autentica della dottrina sociale della Chiesa... ».

l’Unità 19.2.12
Pensiero cattolico contro liberismo? Al Pd serve eccome
di Gianni Gennari


«Il pensiero cattolico può aiutare il Pd a vincere il liberismo». Manca un punto interrogativo, quindi è questa la convinzione di Stefano Fassina in vista dell’iniziativa del primo marzo per una crescita politico culturale dell’attuale Pd con la sua storia complessa, carica di un passato non tutto morto e ideologico, ma anche fatto di valori che hanno presente e futuro. Questo mi pare importante non solo per vincere il liberismo, cioè primato della forza, del denaro, dei pochi su tutto il resto, ma anche semplicemente per «vincere», in termini di consenso, e quindi realizzare un disegno politico, istituzionale e culturale più giusto per l’Italia: giustizia sociale, giovani, donne, lavoro, solidarietà, non discriminazione, accoglienza, rispetto delle regole, sobrietà.
Ho l’età per ricordare alcuni momenti anni 70 in cui ho toccato con mano la vicinanza dei valori della fede cattolica, alla luce del Concilio e di alcuni testi papali del tempo (Pacem in Terris di Giovanni XXIII, Ecclesiam suam e Populorum Progressio di Paolo VI, per esempio) anche alla vita di quella che allora era la base operaia italiana, con l’allora Pci che cercava di liberarsi dell’ideologia che veniva dall’esperienza sovietica... Poi ucciso Moro e morto Berlinguer tutto parve cambiare. Sul piano dei rapporti con «il pensiero cattolico» c’è stata una lunga nottata. È finita la Dc, è finito il Pci, è finito anche il sogno socialdemocratico, che da noi non ha mai convinto le masse, sono venute a galla tante cose pesanti e negative, che hanno imperversato per tanti anni, e ora siamo come all’inizio di una fase nuova.
Il mondo cattolico è molto vasto, in Italia, e se si guarda agli attuali partiti, è in evidente disagio con tutti. Per quanto riguarda l’attuale Pd, almeno in
quella sua parte che non si è fatta colonizzare in tutto dal pensiero radical/relativista molto diffuso purtroppo in genere libertario e liberista, ma spesso fornito della vecchia prepotenza totalitaria che vede sempre e solo Chiesa e cattolici come nemico implacabile e necessario per sentirsi vivi e in azione, esso può includere cattolici autentici, quindi coerenti con i principi di questa identità, e convinti dei valori che vengono anche da una piena professione di fede?
A me pare, e lo penso da decenni, che la risposta debba essere positiva. Ciò che serve a questo scopo è che nessuno l’ideale sarebbe che la cosa riguardasse tutta la società, ma quieorasiparladelPdediciò che è ancora autenticamente popolare e vivo socialmente anche alla sua sinistra pretenda di fare bandiera di programma obbligatorio, di partito o di coalizione, quanto è direttamente opposto ai valori e ai principi coessenziali con la professione di fede cristiana e cattolica. E quali sono, questi? Qui i punti che finora appaiono dolenti: vita e famiglia, certamente, ma anche accoglienza, scelta degli ultimi, giustizia sociale concreta e solidarietà. Meno ostacoli, in apparenza, per altri punti ugualmente essenziali: eguaglianza vera tra uomini e donne, sobrietà di stile, rifiuto di ciò che è solo brillante e appariscente, ma implica il disprezzo degli altri, consumismo e frou frou elevati a ideale, ideale di denaro e potere sugli altri...
Questo vuol dire che il Pd deve diventare un partito cattolico? No! Personalmente non ho mai approvato un partito cattolico come tale, neppure quando era reale e al potere, per tanti anni. L’identità cattolica, l’appartenenza alla Chiesa, la fedeltà al Vangelo sono realtà tali che è blasfema l’identificazione con una qualsiasi parte politica, che suppone sempre un pragmatismo pesante, il rischio di servirsi del Vangelo senza servirlo, l’eventualità di confondere le convinzioni vere con le convenienze di parte.
E allora? Allora, attualmente, molta attenzione a non ripresentare vecchi schemi democristiani, doroteisticamente vissuti, come ricetta del nuovo. Debbo dire che qualcuno in giro riesco a vederne anche attualmente... Chiarezza di distinzioni: nel partito dato che si parla di questo alla pari tutti, con le loro convinzioni ideali, e quando queste sono inevitabilmente diverse, per questioni di principio di ciascuno, tutti ugualmente liberi in coscienza di essere fedeli ad esse: in democrazia ci si confronta, si dialoga, e se non si riesce a mettersi d’accordo si rispetta la libertà di tutti. Senza drammi: se su un punto si è diversi in molti non si impegna su di esso il programma come tale, ma ciascuno nella società democratica avrà la possibilità di scegliere al voto secondo la propria convinzione. Un cattolico serio non è sempre e come tale costretto a dire no, quando sono in ballo certi valori, ma di fronte alla realtà concreta può non opporsi a ciò che gli appare moralmente un male, ma in concreto un male minore.
Pensiero un po’ malinconico: questo oggi è pacifico anche ufficialmente per la nostra Chiesa. Se fosse stato così anche nel 1974 e nel 1981 la storia del rapporto tra cattolici e società italiana sarebbe stata diversa. Su queste basi mi pare possibile, anzi necessario, il grande «aiuto» del «pensiero cattolico», singoli e anche Chiesa, per «superare il liberismo» e tutto ciò che in Italia impedisce il bene autentico, e non solo della sinistra.

il Fatto 19.2.12
L’Ici e il nipote del Cardinale
Nella trattativa con il governo il Vaticano ha un dirigente del Tesoro di fiducia
di Marco Lillo


Quando si dice la persona giusta al posto giusto. Si chiama Enrico Martino ed è il direttore generale per i rapporti internazionali del Dipartimento Finanze, cioé l’uomo che dovrebbe curare gli interessi dello Stato italiano nella partita dell’Ici sugli immobili della Chiesa. Questo 46enne esperto di fisco però è anche il nipote del cardinale Renato Raffaele Martino, fino al 2009 Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e dal 2010 Gran Priore del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio.
MARTINO JR ovviamente non cura solo le questioni fiscali tra Italia e Santa Sede ma tutte le trattative tra il nostro Paese e quelli stranieri. Per esempio nel novembre del 2009 ha partecipato agli incontri con la delegazione panamense per il trattato contro la doppia tassazione tra Italia e Panama, del quale Il Fatto si è occupato perché era stato seguito con grande apprensione anche dall’amico dei due presidenti firmatari (Berlusconi e Martinelli): Valter Lavitola. Quel trattato, molto utile a Panama per uscire dalla lista dei paradisi fiscali, fortunatamente non è mai stato ratificato dal Parlamento italiano. Intanto l’ufficio diretto da Martino continuava a occuparsi della trattativa con il Vaticano per l’Ici. E per questo il suo nome è citato in una lettera confidenziale scritta dal presidente dello Ior, la banca del Vaticano, Ettore Gotti Tedeschi, e indirizzata il 30 settembre scorso al Segretario di Stato del Vaticano, il Cardinale Tarcisio Bertone. Nella lettera, mostrata velocemente in tv durante la trasmissione Gli Intoccabili, Gotti Tedeschi delinea la strategia concordata con l’allora ministro dell’economia Giulio Tre-monti per limitare i danni per Italia e Vaticano dall’azione europea sul fronte dell’Ici.
“Su denuncia del mondo radicale”, scrive il banchiere al cardinale, “la Comunità Europea viene spinta a contestare l’esenzione Ici sugli immobili della Chiesa non utilizzati per fini religiosi (....) nel 2010 la CE avvia una procedura contro lo Stato italiano per ‘aiuti di stato’ non accettabili alla Chiesa Cattolica. Detta procedura evidenzia oggi una posizione di rischio di condanna per l’Italia e una conseguente imposizione di recupero delle imposte non pagate dal 2005. Dette imposte [parliamo di centinaia di milioni di euro ed è questo il punto delicato della questione secondo Gotti Tedeschi, ndr] deve pagarle lo Stato italiano che si rifarà sulla CEI (si suppone) ma non è chiaro con chi per Enti e Congregazioni”. Il banchiere spiega poi a Bertone quali sono le mosse concordate con Tremonti (allora ministro) per evitare che Stato italiano chieda indietro l’Ici sugli anni 2005-2011: “Modificare la vecchia norma che viene contestata dalla Comunità Europea per produrre una nuova norma che definisca una categoria per gli edifici religiosi e crei un criterio di classificazione e definizione della natura commerciale (secondo superficie, tempo di utilizzo e ricavo) ”. In pratica Gotti Tedeschi perora un compromesso onorevole che eviti guai peggiori. La rinuncia concordata al regime attuale più favorevole frutterebbe alla Santa Sede una sorta di sanatoria per il periodo che val dal 2005 al 2011. Però, aggiunge il banchiere, bisogna sbrigarsi perché l’Unione Europea, dopo quasi due anni di procedura, ha finito la sua pazienza: “Il tempo disponibile per interloquire è molto limitato. Il responsabile della Cei (Conferenza episcopale italiana) che finora si è occupato della procedura è monsignor Mauro Rivella. Ci viene suggerito di incoraggiarlo ad accelerare un tavolo di discussione conclusiva dopo aver chiarito la volontà dei vertici della Santa Sede. L’interlocutore all’interno del Ministero (in realtà Dipartimento Ndr) Finanze - prosegue Gotti Tedeschi nella lettera a Bertone - è Enrico Martino (nipote del Cardinale Martino) ”. Perché il banchiere vaticano senta il bisogno di ricordare la parentela tra il dirigente che segue la pratica per conto dello Stato italiano e il cardinale resta un mistero. Una cosa è certa, anche se Martino è certamente un tecnico di alto livello (è stato assunto dall’Agenzia delle Entrate ai tempi del centrosinistra e proveniva da una società di consulenza dove era senior manager) non si può fare a meno di notare che quella citazione in una lettera riservata al capo del governo vaticano, non è per lui un buon biglietto da visita nella trattativa tra Italia e Santa Sede.
PROBABILMENTE il gettito che potrebbe arrivare dalla modifica dell’Ici per gli immobili della Chiesa non è così alto come favoleggiano i comuni (l’intera Ici rende solo 9 miliardi e la previsione di incasso di 600 milioni per gli immobili commerciali della Chiesa è fuori dalla realtà) ma sicuramente si tratta di una questione delicata. Anche perché la soluzione delineata dal presidente Ma-rio Monti il 15 febbraio scorso (“esenzione limitata alla sola frazione nella quale si svolga l’attività di natura non commerciale e introduzione di un meccanismo di dichiarazione vincolata a direttive rigorose stabilite dal ministro dell’Economia circa l’individuazione del rapporto proporzionale tra attività commerciali e non commerciali esercitate all’interno di uno stesso immobile”) sembra ricalcare proprio quanto auspicato dal Vaticano nella lettera segreta del settembre scorso.

il Fatto 19.2.12
Ecco chi sceglie il prossimo Papa
di Marco Politi


Curiale, italiana, bianca. L’immagine di Chiesa riflessa dai ventidue nuovi cardinali, cui Benedetto XVI ha imposto ieri la berretta rossa nel corso di una cerimonia solenne in San Pietro, è talmente occidentale da risultare imbarazzante. Non è questione delle singole persone. Tolti i quattro cardinali ultraottantenni honoris causa fra cui l’insigne studioso di antropologia religiosa, il belga Julien Ries, la mappa degli altri diciotto porporati destinati ad entrare nel futuro conclave è totalmente squilibrata a favore della Chiesa di un tempo: eurocentrica con le sue propaggini nelle Americhe.
Dei diciotto nuovi cardinali 8 sono membri della Curia, 7 italiani e 16 euro-americani. Solo uno è cinese, il vescovo di Hong Kong John Tong Hon, e l’altro è indiano: l’arcivescovo maggiore dei cattolici siro-malabaresi George Alencherry. Difficile dire se l’impostazione sia frutto di una scelta di Benedetto XVI o di pressioni del Segretario di Stato Bertone. Alla fine ha poca importanza. Il risultato è un collegio di elettori del futuro pontefice nel quale gli italiani hanno trenta esponenti, un quarto del totale – quasi rappresentassero trecento milioni di cattolici – e l’Europa ha di nuovo saldamente la maggioranza: sessantasette su centoventi. Quando invece il fulcro del cattolicesimo è ormai nell’America del Sud e in Africa.
Sette anni dopo il suo avvento al trono papale Benedetto XVI costruisce dunque un collegio cardinalizio decisamente in controtendenza rispetto all’universalismo della Chiesa cattolica. Quando si tratterà di scegliere il successore, gli uomini di Curia e gli italiani costituiranno la forza determinante. Curiali ed ex curiali saranno nel futuro conclave ben quarantaquattro.
È il segno di una involuzione generale, che sembra caratterizzare l’attuale pontificato. Il fatto non ha provocato solo stupore e sgomento tra chi teme una fossilizzazione dell’istituzione ecclesiale, ma persino in quel cattolicesimo popolare moderato che ammira la spiritualità di Ratzinger.
Esiste in Italia un blog influente di ammiratori e difensori ad oltranza di Benedetto XVI, che denuncia quotidianamente le cosiddette aggressioni alla Chiesa e al Papa. Si chiama “Il blog degli amici di Papa Ratzinger”. Ecco come la sua animatrice “Raffaella” ha commentato l’elenco dei neoporporati: “Troppi italiani e soprattutto troppi curiali! Sono molto delusa di non vedere porpore assegnate all'America Latina e soprattutto all'Africa, il continente in cui la fede è viva. Perchè non concedere il cardinalato ad arcivescovi meritevoli e far saltare qualche turno alla Curia? … Non vorrei che passasse il messaggio che per diventare cardinali bisogna passare dalla curia perché sarebbe un ritorno indietro”. C’è un filo che lega i monsignori, che per protestare contro la cattiva gestione mandano all’esterno documenti riservati, e il fortissimo disagio che anima i cattolici delle parrocchie. C’è un filo che lega i gridi di allarme, racchiusi in libri dove si parla di “mal di Chiesa” o del fatto che “manca il respiro”. È il malessere per una direzione di marcia, che non funziona.
I cardinali giunti a Roma da tutto il mondo per una riunione straordinaria sulla “nuova evangelizzazione”, che si è svolta venerdì, sanno che la presenza internazionale della Santa Sede ha drammaticamente perso di peso. Al punto che alcune ambasciate di paesi non cattolici (senza alcuna intenzione polemica) riflettono sull’utilità di conservare una residenza presso il Vaticano.
I cardinali sanno che il dialogo ecumenico e interreligioso ristagna e che l’attenzione dei media internazionali per il Papa e il Vaticano è crollata. Si parla di “nuova evangelizzazione”, ma non si affrontano problemi strutturali come la crescita sistematica delle parrocchie prive di preti. Sotto-traccia si sta verificando anche un salasso dell’impegno delle donne cattoliche negli ordini religiosi. Tra il 2004 e il 2009 vi è stato un calo di ben quarantamila unità nelle congregazioni religiose femminili. Tutto questo non viene affrontato. Prima della sua elezione Joseph Ratzinger aveva delineato una Chiesa non governata “in modo monarchico”. La promessa è stata tradita.
IL COLLEGIO cardinalizio non viene riunito per partecipare realmente alle decisioni strategiche del pontificato. L’effetto è una grande stagnazione. Velata da dibattiti molto generali. Alla riunione cardinalizia di venerdì il neo-cardinale Timothy Dolan di New York ha suscitato applausi esortando a mostrarsi “sicuri sì, trionfalisti mai” e proponendo di “evangelizzare con il sorriso”. Sono intervenuti ventisette cardinali. Si è parlato un po’ di tutto: dalla Cina alla povertà dell’India, dall’America latina alla secolarizzazione in Europa.

Corriere della Sera 19.2.12
I sotterranei del Vaticano
di Massimo Franco


Nei giorni che dovrebbero dimostrare il primato degli italiani fra i cardinali, è difficile sfuggire alla sensazione che la loro consistenza numerica ne esalti, per paradosso, la debolezza. Lo sforzo di mostrare una Chiesa cattolica unita e di esorcizzare i conflitti e i veleni degli ultimi mesi è meritorio. E il tentativo di archiviare lo scontro sordo fra Segreteria di Stato e Cei è stato esplicito, nelle parole con le quali il cardinale Tarcisio Bertone ha esaltato la «sinergia» con i vescovi: la sua è una disdetta delle ambizioni di guida espresse nel 2007, e motivo di tanti malintesi.
Eppure perfino quel gesto è parso tardivo, arrivando nel bel mezzo di una guerra dei dossier combattuta nei recessi più opachi del Vaticano. Insomma, se c'è una tregua in incubazione, più che l'inizio di una nuova fase sembra la coda di una faida interna sfibrante e senza vincitori. Dalle parole anche drammatiche pronunciate ieri al Concistoro nel quale ha nominato ventidue nuovi cardinali, si intuisce che Benedetto XVI ha una lucida consapevolezza di quanto si agita nelle viscere della sua Chiesa. E si intravede la volontà di correggere una deriva sfuggita al controllo di tutti. Ma il tormentato limbo degli ultimi anni ha lasciato un segno profondo.
È vero, il Vaticano ha i suoi tempi. Una saggezza ultramillenaria lo ha abituato ad agire quando i clamori si sono attenuati, i riflettori spostati, gli animi placati. Ma la domanda è se oggi quel metodo non rischi di diventare l'alibi per velare un difetto di governo. Anche perché nessuno è in grado di scommettere su una fine ravvicinata delle manovre di discredito in atto. In qualche caso il clamore che provocano sarà anche frutto di un'ostilità preconcetta contro la Chiesa; ma è figlio soprattutto di un pregiudizio positivo.
L'eco viene amplificata dall'incredulità di un'Italia che chiede punti di riferimento e si sorprende perché le gerarchie cattoliche si mostrano divise e in lotta fra loro; e quasi imitano alcune tendenze della nomenclatura politica, che gli italiani hanno messo in mora. I cardinali venuti da tutto il mondo chiedono conto delle logiche di Curia, mentre non si fermano le voci sul futuro di Bertone: a conferma che il segretario di Stato è diventato il simbolo e il parafulmine di quanto non funziona nei sacri palazzi. È anche possibile, come insistono a dire i suoi avversari, che sia indotto a fare un passo indietro prima della fine del 2012.
Rimane da capire se le sue eventuali dimissioni basterebbero a fermare la macchina del fango in azione dentro il Vaticano. All'ombra degli intrighi curiali, c'è chi lavora per il prossimo Conclave anche in questi giorni di Concistoro. E forse ha già raggiunto lo scopo di far ritenere che difficilmente uno dei cardinali italiani potrà unificare la Chiesa. Il comportamento di alcuni di loro allunga ingiustamente un'ombra su tutti. La conseguenza potrebbe essere quella di alimentare negli altri episcopati un sentimento «anti italiano», riflesso di quello «antiromano», tanto comprensibile quanto gravido di incognite.

Repubblica 19.2.12
Faccia a faccia /1
Hitchens. La fede ci rende cattivi
di Christopher Hitchens


La fine della civiltà Fa compiere cose cattive alle persone buone e fa dire cose stupide alle persone intelligenti La religione è il vero pericolo per la sopravvivenza della civiltà
Da una parte il giornalista scomparso pochi mesi fa, ateo militante. Dall´altra il politico liberal, convertito al cattolicesimo. Al centro una domanda da un milione di dollari: la religione ci fa migliori o peggiori di quello che siamo? è una "dittatura" o una "liberazione"? In un libro ora pubblicato anche in Italia la cronaca di un confronto che ha fatto storia

Ho con me un testo del cardinale Newman. Il cardinale Newman è stato beatificato recentemente ed è ormai ben avviato verso la canonizzazione. La sua Apologia pro Vita Sua ha spinto molti anglicani a rimettere in discussione la fedeltà alla loro chiesa e a unirsi alla chiesa cattolica romana, ed è considerato, a mio avviso giustamente, un grande pensatore cristiano. Il testo recita: «Per la chiesa cattolica sarebbe meglio che il sole e la luna cadessero dal cielo, che la terra fosse distrutta, e che con essa milioni di persone perissero in una terribile agonia, piuttosto che una sola anima, non dico venisse persa, ma commettesse anche un solo peccato veniale, o dicesse intenzionalmente una bugia, o rubasse uno spicciolo senza giustificazione». Voi forse penserete che quel che vi ho letto risenta dello stile aulico e apologetico dell´epoca e dell´autore. Per me, invece, quello che vi ho letto è un distillato di tutto ciò che può esserci di contorto e immorale nella forma mentis di chi crede.
Questo breve testo è l´essenza del fanatismo, quel fanatismo che considera la natura umana come "materia bruta" e che nutre l´ossessione per la purezza. Quando si accetta l´esistenza di un creatore e di un piano superiore, accade poi che gli esseri umani siano ridotti a oggetti di un esperimento crudele: quasi fossero degli esseri creati malati con l´imperativo di provare a guarire. Lo ripeto: esseri creati malati che ricevono un´intimazione a guarire. Ci sarebbe infatti una sorta di "dittatura celeste" posta sopra di noi per controllare che la guarigione avvenga, una specie di divina Corea del Nord. Avida e intransigente. Una dittatura che pretenderebbe adorazione incondizionata dall´alba al tramonto, sempre pronta a punire "peccati originali" che con tanto amore ci ha elargito fin dall´inizio come "difetto di fabbricazione". A questa "malattia congenita", a questo "difetto di fabbricazione", ci sarebbe però un rimedio. La dittatura celeste ci offre una via d´uscita: la salvezza. E la redenzione si può ottenere a un modico prezzo: quello di abdicare per sempre alle proprie facoltà mentali.
Bisogna ammettere che la religione fa promesse straordinarie. E io sono del parere che promesse straordinarie richiedano prove altrettanto straordinarie a loro sostegno, mentre purtroppo accade, e in un modo alquanto bizzarro, che la religione non fornisca affatto dimostrazioni, neppure lontanamente ordinarie, per le sue straordinarie asserzioni sul soprannaturale. Perciò, potremmo cominciare chiedendoci se sia un bene per il mondo fare appello alla credulità del genere umano anziché alla sua capacità critica. Se sia un bene per il mondo adorare una divinità che si schiera nelle guerre e nelle vicende umane e instilla paura e senso di colpa. È un bene che si faccia appello al nostro terrore della morte? Predicare colpa e vergogna riguardo all´atto sessuale e ai rapporti carnali è un bene per il mondo? E nel frattempo c´è da chiedersi se non sia una responsabilità della religione, e io ritengo che lo sia, quella di terrorizzare i bambini con l´immagine dell´inferno e della punizione eterna, destinata non tanto a loro quanto ai loro genitori e a coloro che amano. La cosa peggiore di tutte, a mio parere, è considerare le donne come creature inferiori. È un bene per il mondo, questo? E riuscite a citarmi una religione che non l´abbia fatto? E infine: è un bene continuare a predicare la bufala del mito della creazione che per secoli ha negato l´evoluzione in contrasto con tutte le prove scientifiche esistenti?
La religione fa compiere cose cattive alle persone buone e fa dire cose stupide alle persone intelligenti. Quando prendete per la prima volta fra le braccia un bambino appena nato non vi viene certo in mente di pensare: «Bello. Quasi perfetto! Ma adesso per favore passami il coltello di pietra per i suoi genitali così che io possa portare a termine il lavoro del Signore». No. Come sostiene molto opportunamente il grande fisico americano Steven Weinberg, nell´universo morale comune i buoni fanno del loro meglio, i cattivi fanno del loro peggio, ma se volete che le persone buone facciano cose crudeli, ci vuole la religione.
Ora vi dirò perché credo che questo sia di per sé evidente nel nostro mondo materiale. Permettete che lo chieda a Tony Blair, perché il luogo in cui sta cercando di favorire il processo di pace, il Medio Oriente, è il luogo in cui sono nati i monoteismi, e per questo dovrebbe essere un luogo luminoso, spirituale, vibrante di amore e di pace. Tutti nel mondo civilizzato - compresa la maggioranza degli arabi, degli ebrei e della comunità internazionale - sono d´accordo in linea di massima sul fatto che ci dovrebbe essere spazio sufficiente per due Stati, per due popoli nello stesso territorio. E allora perché non si riesce a realizzare questo progetto? L´Onu, gli Stati Uniti, i Quattro Grandi, l´Olp, il parlamento israeliano non ci riescono. Non si può fare perché i "partiti di dio" non lo vogliono. A causa delle presunte "sacre promesse" fatte in quella terra, non ci sarà mai pace, non si troverà mai alcun compromesso. Ci sarà invece miseria, vergogna, tirannia, e ciascun popolo ucciderà i figli dell´altro, perché così vogliono i libri antichi, le grotte e le reliquie... A questo punto pretendo: si alzi chi ha il coraggio di dire che questo è un bene per il mondo. E questo è solo il primo esempio.
Avete considerato ciò che potrebbe accadere se dei fanatici entrassero in possesso di un´arma apocalittica? Stiamo per scoprirlo dal momento che la Repubblica islamica dell´Iran e i suoi alleati Hezbollah (Partito di Dio) si stanno preparando a farlo. Non avete notato la recente rinascita dello zarismo nella Russia di Putin, dove la leadership incappucciata e nerovestita dell´ortodossia accompagna un regime sempre più xenofobo, tirannico, espansionista e aggressivo? Non avete osservato negli ultimi tempi come l´educazione religiosa in Africa provochi conseguenze devastanti a causa di una chiesa che afferma che l´Aids è un male, ma non così terribile quanto il preservativo?

Repubblica 19.2.12
Faccia a faccia /2
Blair. Ma è il bene la sua vera essenza
di Tony Blair


Il secolo delle ideologie Tutto il Novecento è stato segnato da ideologie centrate proprio su una visione atea del mondo Una prospettiva che ci ha portato Hitler, Stalin e Pol Pot

Comincio con una constatazione: è indubbiamente vero che esistono persone che commettono azioni turpi in nome della religione, ma è altrettanto vero che c´è gente che compie atti straordinari a servizio del bene comune ispirati dalla religione stessa. Quasi metà dell´assistenza sanitaria in Africa è assicurata da organizzazioni confessionali che stanno salvando milioni di vite. Un quarto delle cure per l´Hiv e l´Aids in tutto il mondo è fornito da fondazioni cattoliche. Un lavoro inimmaginabile viene svolto da associazioni umanitarie musulmane ed ebraiche. Enti e ordini religiosi si occupano di malati di mente, di disabili, di poveri e bisognosi. Per cui mi permetto di ribattere che l´affermazione secondo la quale la religione è veleno puro è insostenibile. La religione può essere distruttiva in alcuni casi, ma può anche contribuire a creare un´enorme bacino energetico di compassione, un giacimento eccezionale a cui attingere. E dobbiamo ammettere che nella maggioranza dei casi ci riesce.
La seconda constatazione è che sovente le persone sono ispirate a fare del bene da ciò che mi pare essere la vera "essenza della fede" che è - insieme alla dottrina e al patrimonio di riti di ciascun credo - una base comune a tutte le grandi religioni, ovvero: servire e amare Dio servendo e amando i propri simili. Questo si evince, per esempio, dalla vita e dall´insegnamento di Gesù, testimonianza di amore, altruismo e sacrificio. Risulta però anche evidente dal famoso episodio del rabbino Hillel, sfidato un giorno da un tizio che disse che si sarebbe convertito all´ebraismo solo se il maestro si fosse dimostrato capace di recitare tutta la Torah stando su una gamba sola. Il rabbino allora si alzò in piedi su una gamba e disse: «Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te. Questa è tutta la Torah, il resto è commento». Altri esempi illustri si trovano negli insegnamenti del profeta Maometto, per cui salvare una vita è come salvare l´umanità intera; oppure nell´esaltazione induista dell´altruismo e del non-danneggiamento; o ancora nei concetti buddisti di karuna, mudita, e metta, che invitano a convertire tutti i desideri egoistici tramutandoli in slanci di amore e di cura verso il prossimo; o anche l´insistenza della religione sikh sul rispetto di coloro che hanno un altro credo. Queste manifestazioni, a mio avviso, sono il vero volto della fede.
E i valori che si distillano da questa "essenza di fede" offrono a tanti uno schema orientativo efficace, che sprona a vivere la propria vita nel quotidiano perseguendo il bene, lavorando per il progresso collettivo, cercando percorsi di umanizzazione e disciplinando la tendenza all´avidità e alla cattiveria. La fede non si riduce a essere pura consolazione nei momenti difficili, per quanto talvolta possa esserlo, e neppure l´eredità di tradizioni irrazionali, e ancor meno una superstizione. Al contrario, risponde a una profonda esigenza spirituale; è qualcosa che sentiamo istintivamente dentro di noi. È percepire una presenza spirituale - più grande, più importante e più significativa di noi - che ha un potere ben distinto dal nostro e che, anche se le scoperte e i progressi dell´uomo continuano a stupirci, ci educa a inginocchiarci con umiltà e a non gloriarci delle nostre azioni. Se la fede è concepita in questo modo, allora scienza e religione non sono incompatibili o destinate a combattersi l´un l´altra fino a che la fredda razionalità non spegnerà le fiamme del fanatismo religioso. Al contrario, scienza e fede sono complementari: una ci spiega come funziona il mondo fisico, l´altra ci apre la mente al fine ultimo della scienza, ci orienta ai valori che dovrebbero ispirare il suo utilizzo e ci aiuta a essere consapevoli dei suoi limiti. Scienza e tecnica possono rendere la nostra vita più ricca sul piano materiale, ma non sono in grado di arricchirla sul piano dello spirito.
E ora, immaginate un mondo senza fede religiosa - non solo senza luoghi di culto, senza preghiere, senza scritture - ma senza uomini o donne che, spinti dalla loro religione, si prodigano per gli altri, dedicando la propria vita a opere di bene e mostrando compassione per i più deboli e gli indifesi, nella convinzione che anche gli ultimi degli ultimi hanno i loro diritti perché figli della stessa umanità creata da Dio.
E sì, sono d´accordo sul fatto che in un mondo senza religione ci sarebbe meno fanatismo religioso, ma vi chiedo: siamo sicuri che scomparirebbe ogni tipo di fanatismo? Dobbiamo inoltre renderci conto che una prospettiva come questa non è nuova. Il Ventesimo secolo è stato segnato da ideologie centrate proprio su una visione atea; un orizzonte senza Dio che ci ha portato Hitler, Stalin e Pol Pot.
Quindi non nego neppure per un istante che la religione possa essere uno strumento a servizio del male, ma sostengo che quando lo diventa, ciò avviene essenzialmente per una perversione della fede. E affermo altresì che la religione può essere una forza che opera per il bene, e quando lo è diventa espressione autentica di ciò che considero l´essenza della vera fede. Aggiungo, infine, che un mondo senza fede religiosa sarebbe più povero sotto il profilo spirituale, etico e culturale.
Quindi, so benissimo che si possano fare - e giustamente Christopher lo fa - molti esempi di casi in cui la religione è stata usata per fare cose terribili che hanno reso peggiore il mondo. Tuttavia, vi chiedo di non giudicare tutte le persone di fede da questi esempi, così come non giudichiamo tutta la politica dai cattivi politici o tutto il giornalismo dai cattivi giornalisti. La vera domanda è: oltre a tutte le cose che non vanno, c´è qualcosa nella religione che aiuta il mondo a essere migliore e le persone a fare del bene? Io sono del parere che c´è.
Traduzione Bruno Ballardini © 2011 Aurea Foundation.
Published by arrangement with House of Anansi Press, Toronto, Canada

Repubblica 19.2.12
“Monti è un riformista non lasciamolo alla destra. Basta tabù sull’articolo 18"
Veltroni: nel Pd ricette vecchie, stop alle correnti
intervista di Curzio Maltese


ROMA - Sciogliere tutte le correnti del Pd, a cominciare dalla sua. Rilanciare l´iniziativa politica del partito sulle riforme, la lotta alla criminalità e alla corruzione politica, mettendo a frutto il riformismo di Monti per avvicinare la "rivoluzione democratica" che deve essere l´obiettivo del Pd. Cambiare subito la Rai ed escludere i partiti da tutte le nomine degli enti pubblici. Le proposte di Walter Veltroni sono sassi lanciati nello stagno della politica commissariata dal governo dei tecnici, destinate a far discutere anzitutto un Pd ancora imbambolato dalla batosta delle primarie genovesi.
Veltroni, non è un po´ eccessivo definire riformismo la stagione di Mario Monti?
«No. Sono bastati tre mesi per capire che non si tornerà indietro. Circola nel Pd, ancor più nel Pdl, l´idea che questo sia solo un governo d´emergenza, una parentesi dopo la quale si tornerà ai riti e ai giochi della seconda repubblica o peggio della prima. Qualcuno dà giudizi tali da rischiare il paradosso di consegnare al centro o al nuovo centro destra il lavoro del governo. È un errore grave. Questo governo tecnico ha fatto in tre mesi più di quanto governi politici abbiano fatto in anni. Ha dimostrato non solo di voler risanare i conti, ma di voler cambiare molto del paese e vi sta riuscendo, con il consenso dei cittadini e dell´opinione pubblica internazionale. La copertina di Time o l´ovazione al Parlamento europeo sono un tributo ad un paese che solo qualche mese fa era guidato da Berlusconi e deriso».
È d´accordo con il governo anche sull´articolo 18?
«Sono d´accordo col non fermarsi di fronte ai santuari del no che hanno paralizzato l´Italia per decenni. Il nostro è un paese rissoso e immobile e perciò a rischio. Credo che finora il governo Monti stia realizzando una sintesi fra il rigore dei governi Ciampi e Amato e il riformismo del primo governo Prodi».
Non risponde sull´articolo 18.
«Totem e tabù si intitolava un libro di Freud. Ed è perfetto per definire gran parte del discorso pubblico in Italia. Bisogna cambiare un mercato del lavoro che continua a emarginare drammaticamente i giovani, i precari, le donne e il Sud. Ci vogliono più diritti per chi non ne ha nessuno. Questa è oggi una vera battaglia di sinistra».
Quindi, figurarsi se non è d´accordo con la lotta all´evasione, la revisione delle spese militari, l´Ici alla Chiesa.
«Si diceva che questo era il governo delle lobbies e del Vaticano. Come se queste non pesassero nei governi politici. Fatto sta che Monti ha deciso bene sull´Ici per gli immobili della chiesa, sugli F 35, sta facendo bene nella lotta all´evasione, che potrà portare ad una riduzione di pressione fiscale. I blitz a Cortina, Portofino, Sanremo sono segnali forti e chiari. Come lo è stato far pagare per 16 miliardi i possessori di patrimonio. Devo ricordare che quando al Lingotto proposi la patrimoniale nel mio stesso partito ci fu chi si precipitò a dire che non era la posizione del Pd».
Che cos´altro si aspetta dal metodo Monti?
«La sua sfida è la crescita, uno sviluppo di qualità sociale, culturale e ambientale. E poi che consideri priorità la lotta alla mafia, che si sta mangiando mezzo paese, dalla Sicilia a Bordighera, da Reggio Calabria a Milano. Bisogna intervenire subito e stroncare le complicità con una nuova e durissima legge contro la corruzione. Il secondo campo è la Rai. Lo dico dal 2008: la Rai deve avere un amministratore delegato e un cda che si riunisce tre volte l´anno. Sento che ora si vuole limitare il numero dei consiglieri d´amministrazione a cinque, ma con alcuni sempre di nomina parlamentare. È sbagliato. I partiti devono smetterla di nominare persone agli enti pubblici, sia la Rai o l´ultima Asl. I partiti servono a fare proposte e programmi, non nomine. Via dai consigli d´amministrazione».
Chi dovrebbe nominare il prossimo consiglio Rai?
«I presidenti di Camera e Senato, scegliendo fra personalità dell´impresa e della cultura con requisiti adeguati. In questo momento c´è bisogno di un servizio pubblico vero, meno show di quart´ordine e più produzione dell´industria culturale nazionale. E più intelligenza, se la parola qualità spaventa».
Ma se Monti e i suoi professori sono tanto bravi, allora lei, voi, il Pd, i partiti in generale, che ci stanno a fare?
«Il Pd ha il merito di aver fatto nascere questo governo. Ora dovrebbe sfruttare questa immensa occasione per rilanciare un grande programma riformista. Dire agli italiani che non torna nulla del passato, compresi i governi rissosi dell´Unione. Ma il riformismo radicale, la modernità equa che devono affrontare una recessione pericolosa dal punto di vista sociale e democratico».
E invece il Pd che sta facendo?
«Si discute di liberismo e di ritorno al socialismo. Invece siamo fuori dal Novecento. Siamo in un passaggio storico inedito. E tornano vecchie ricette e coperte apparentemente rassicuranti. Si parla poco della disperazione sociale e troppo delle alleanze future. Sento dire che dopo Monti si potrà tornare finalmente al tempo dei partiti. Ma quel tempo gli italiani l´hanno conosciuto già. O la politica riforma se stessa e ritrova le sue grandi missioni e il respiro dei "pensieri lunghi" e la coscienza dei limiti ai quali si deve arrestare o prevarranno populismo e tecnocrazia. E poi ci si divide, come si è visto a Genova, col risultato di allontanare i cittadini e di perdere le primarie»
L´invito all´unità del partito non risulta un po´ paradossale da parte di uno che litiga con D´Alema da trent´anni?
«Potrei risponderle che con D´Alema si discuteva di cose serie, se fondare un partito democratico o puntare sul modello della socialdemocrazia, se far vivere o morire il governo Prodi. Non litigavamo sulle nomine. Ma lasciamo perdere, quel tempo è passato. Oggi sono il primo a chiedere di sciogliere le correnti, tutte, compresa la mia. Che non si è mai formata per la mia conosciuta idiosincrasia al tema. I partiti devono essere luoghi aperti, non trincee di strutture che diventano pure macchine di potere. Ci vuole più pluralismo e meno correnti. La discussione politica è vitale e bella ma nel Pd le correnti, comprese le numerose componenti della maggioranza di Bersani, stanno allontanando persone che vogliono far vivere le loro idee senza sentirsi chiedere "con chi stai". Fu questa una delle ragioni delle mie dimissioni, proprio tre anni fa´».
Alle elezioni manca ancora un anno. Quali rischi corre il Pd da qui al voto?
«Io vedo le possibilità. La fine del Berlusconismo libera energie e apre spazi immensi. Il profilo di un partito riformista, innovatore, aperto, unito può raccogliere il lavoro di questi mesi e presentarsi come il soggetto di un tempo nuovo. La foto di Vasto fu scattata quando c´era Berlusconi. Ora pensiamo a noi. Non vorrei che Casini facesse, in un nuovo centro destra, l´operazione che noi avevamo immaginato per il centro sinistra e che noi si rifluisca, come nel 94. Perderemmo così un´altra occasione, forse l´ultima, di far conoscere all´Italia una vera e profonda stagione di riforme».

Repubblica 19.2.12
L’autocritica della Rossanda "Non possiamo più dirci comunisti"
 

ROMA - Perché non possiamo più dirci comunisti. È la critica, e l´autocritica, di Rossana Rossanda che in un editoriale sul manifesto spiega perché il quotidiano è in crisi. Una crisi, scrive, che non nasce solo e tanto dal calo delle vendite. Anche se, conteggia, la diffusione è andata giù da otto anni a questa parte: «La media dei primi trent´anni era circa di trentamila copie, una nicchia ma solida e rispettata. Ora è circa la metà». Ma il punto è che nel mondo, da quel lontano 1971, è cambiato quasi tutto «ma noi non ne abbiamo tratto ed esplicitato le conseguenze». Da qui la domanda: possiamo ancora dirci comunisti, come recita la testata del giornale? La risposta della Rossanda è no, «io credo che almeno nei tempi brevi non si possa più dirlo».

il Riformista Ragioni 19.2.12
Atene & Dintorni
Perché non possiamo non dirci socialisti
Quelli che, nella crisi, cercano la via di possibili compromessi tra demo- crazia e capitalismo su scala europea, un nome ce l’hanno: socialisti
di Giuseppe Provenzano


il Riformista Ragioni 19.2.12
Destra e sinistra una questione di stile


il Riformista Ragioni 19.2.12
Gramsci e Turati Due sinistre diverse un’unica sconfitta?
di Tomaso Greco


il Riformista Ragioni 19.2.12
Cari politologi, fate più attenzione ai microclimi sociali
“Gramsci, Manzoni e mia suocera” (Il Mulino), l’ultimo libro di Ilvo Diamanti: a concentrarsi troppo sulle dinamiche macro, si perdono di vista le metamorfosi della politica
di Federico Fornaro


il Riformista Ragioni 19.2.12
Socialismo
di Mario Ricciardi

qui
http://www.scribd.com/doc/82083490

il Fatto 19.2.12
Ad Auschwitz col “Foglio”
di Furio Colombo


Caro Colombo, provo disagio e imbarazzo per l'articolo che ho letto su “Il Foglio” (9 febbraio) dal titolo “Memoria orwelliana. Se i viaggi ad Auschwitz per gli studenti servono la propaganda e occultano la verità”. Quale verità si può occultare ad Auschwitz, quale propaganda si può fare sui forni ?
Michele

HO LETTO l'articolo, attratto dal bizzarro titolo e (alla riga 17) dalla citazione – invocazione di Orwell: “Chi controlla il passato controlla il presente”. Poiché qui si parla della Shoah, ho trovato di rado frasi più sprezzanti perché, in questo uso stralunato di una frase che definiva un regime, la citazione qui significa: “Chi controlla la memoria della Shoah, controlla il nostro presente”. Ovvero la memoria della Shoah usa chi ci casca come burattini per le trame ebraiche che continuano dal passato e ci raccontano il passato come vogliono. L’articolo, a pag. 2   de “il Foglio”, definisce “orwelliano” tutto ciò che diciamo della Shoah e i viaggi ad Auschwitz ovvero un falso. A meno che non si conformi a certe condizioni. Vediamole. Primo, non ci deve mai essere un accompagnatore che sia iscritto alla Cgil o abbia memoria personale o acquisita della Resistenza. Motivo? “Sono tutti nostalgici del fulgido colore rosso”. Quanto ai politici, l’articolista è convinto che, non siano accompagnatori adatti alla verità storica. Sentite la ragione: “Non sono disinteressati”. Disinteressati sulla Shoah? Precisa l’autore: “Sono capaci di non pronunciare mai la parola ‘comunista’”. Sulla Shoah? E invece non sanno (questi accompagnatori interessati e comunisti), che “il nazismo era un miscuglio di tutte le moderne dottrine anti-cristiane (...) Sì, in Italia è tabù raccontare i fatti come sono andati”. Come sono andati? Continua l’incredibile autore, rivolto ai ragazzi dei viaggi della Memoria: “Il vostro viaggio ad Auschwitz sarebbe stato un viaggio utile se gli accompagnatori vi avessero ricordato che poco più in là di Cracovia (dove si trova Oswiecym ovvero Auschwitz-Birkenau, il più grande campo di sterminio del mondo concentrazionario, ndr) ci sono stati i terribili misfatti di Katyn. E vi avessero detto che il terribile e satanico dominio nazista fu presto sostituito dal bolscevismo omicida, dalla tirannia di Mosca e della Stasi...”. Parlando di Shoah? L’autore dell’articolo che stiamo con tristezza commentando si chiama Francesco Agnoli, purtroppo fa l’insegnante e mostra di non sapere che le leggi razziali che hanno consentito l’espulsione di tutti gli ebrei italiani da ogni diritto, dalla cittadinanza, dal lavoro, dalle case, dalle cattedre e persino dalle onorificenze militari, e poi la loro deportazione nei campi di sterminio, è una legge italiana (1938), non comunista, approvata all’unanimità sia nell'aula di Montecitorio sia a Palazzo Madama, al grido di “viva il Duce” (non viva Stalin) a 500 metri dal Vaticano, non dal Cremlino. La parola “ebreo” non compare in tutto l’articolo. Dal testo del prof. Agnoli non si dice mai se gli ebrei siano stati vittime di qualcosa.

il Fatto 19.2.12
Lesti contro i pensionati Lenti contro i corrotti
di Paolo Flores d’Arcais


Non ci piacciono le manette, proprio per nulla, e “giustizialisti” è solo l’etichetta che i tifosi della criminalità impunita affibbiano a noi garantisti coerenti, solo perché prendiamo sul serio la “legge eguale per tutti”, e quindi esigiamo che il politico ladro venga punito come lo scippatore di strada (in genere il primo ruba mille o diecimila volte di più), anziché ossequiato con una cuccia dorata in Parlamento. Che però ci sia un’alternativa alle manette, dipende solo davoi, signori delle tessere e degli inciuci, soloni delle nomenklature, sepolcri imbiancati di una politica che avete infangato a cricca e menzogna.
In Germania un presidente della Repubblica si dimette per un prestito a tasso agevolato (di cui si dichiara innocente), il più potente dei ministri lo aveva preceduto per qualche pagina di tesi di laurea plagiata, negli Usa era accaduto per i contributi non versati a una colf, in Inghilterra per un rimborso spese non giustificato, e si potrebbe continuare con una litania di “peccati veniali” che nelle democrazie non berlusconizzate sono considerati invece vulnus capitale, da dimissioni immediate. Lo aveva fatto anche Helmut Kohl, che pure la storia ricorderà per aver riunificato le Germanie.
L’alternativa alle manette c’è, esimi Alfano, Casini, Bersani e altri Bossi o Maroni, si chiama “sanzione dei propri pari”, se scatta pronta e automatica come un riflesso pavloviano rende il “giustizialismo” superfluo, batte in breccia ogni “sconfinamento” della magistratura (altra leggenda), sana la questione morale prima che nasca. L’avete mai praticata, questa virtù altrove considerata un ovvio abc dell’attività politica? Si è mai udito dal colle più alto un “alto monito” che la imponesse? Ecco perché restano solo le manette. A causa del vostro ottuso “perseverare diabolico” nella melma della reticenza omertosa, che vivete come melassa di privilegio: “Cane non morde cane”.
Vent’anni fa “Mani Pulite” scoperchiava la cloaca di Tangentopoli. Avete combattuto i magistrati anziché i vostri colleghi collusi e gli imprenditori della corruzione sistemica. Il risultato è che la Corte dei Conti (non esattamente un soviet insurrezionale) l’altro giorno ha solennizzato che ogni anno gli italiani vengono derubati di 60 miliardi percorruzione e 120per evasione fiscale. Una ricchezza gigantesca, rapinata ai cittadini onesti per vostra opera od omissione.
Un governo appena decente, soprattutto se è stato più lesto di Speedy Gonzales nel togliere il companatico ai pensionati, considererebbe questa l’unica vera emergenza. Invece traccheggia. Usque tandem?

l’Unità 19.2.12
Costituzione, la spinta propulsiva non si è esaurita
di Antonio Ingroia


La sinistra ha davvero smarrito la cultura della Costituzione, così determinando un arretramento complessivo della cultura politico-istituzionale del Paese, come qualche giorno fa osservava su queste stesse pagine, con spietata lucidità, Massimo Luciani?
È vero che uno degli effetti più negativi del ventennio berlusconiano è stato quello di avere determinato una generale subalternità culturale su alcuni principi fondamentali della nostra vita pubblica? Difficile non condividere le considerazioni di Luciani che elenca incontestabili esemplificazioni di gravi arretramenti di una cultura istituzionale sempre più incentrata su governabilità e legittimazione diretta degli esecutivi. E si potrebbe ricordare anche il parallelo processo di riassetto degli equilibri istituzionali in favore della verticalizzazione del potere e della mortificazione di ogni forma di controllo. Analoghe considerazioni induce la deriva della cultura economica prevalente, tutta sbilanciata su posizioni liberiste e parimenti dimentica della lezione della Costituzione, che vorrebbe l'esercizio della libertà di iniziativa economica privata subordinata al rispetto dell'utilità sociale e della dignità umana. E a un magistrato viene facile aggiungere una lista di altre esemplificazioni evidenziando i sensibili passi
indietro fatti in questi venti anni sul terreno della difesa dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura, arretramenti spesso giustificati con il malinteso "primato della politica", spesso interpretato come subordinazione della magistratura alla politica (a volte richiamando addirittura l'immagine baconiana di una magistratura sottoposta alla politica come i leoni sotto il trono...).
Da dove ripartire allora? Giustamente, Luciani richiama i principi di solidarietà e utilità sociale consacrati nella Costituzione ed ultimamente dimenticati, se non addirittura mortificati. Ma come, realisticamente, seguire questa via? Un primo esempio concreto mi pare quella che da qualche tempo viene con tenacia suggerito dal nuovo corso della Confindustria Siciliana sul terreno dell'antimafia della convenienza, che Antonello Montante ha illustrato anche su queste pagine. Percorrere sino in fondo la via di una lotta alla mafia che esca definitivamente dalle secche della mera repressione, destinata a non intaccare in profondo il fenomeno, per contrastare lo sviluppo malato dell'economia criminale con lo sviluppo dell'economia della legalità. Innanzitutto rendendo conveniente l'antimafia, ed è strategica la proposta del "rating antimafia" per premiare le imprese che adottano codici e progetti di legalità e anticorruzione. E su questa linea si può ancora fare molto.
Più in generale, quello di cui il Paese ha bisogno in questa fase di tregua politico-istituzionale è un rinnovato dialogo tra le forze più sensibili ed interessate all'applicazione dei valori propulsivi della Costituzione. Serve un nuovo costituzionalismo progressivo e propulsivo che ci faccia recuperare quella cultura della Costituzione che pare effettivamente smarrita.
Detto per inciso, era proprio quello che ho detto nell'ottobre scorso al congresso del partito dei comunisti italiani, manifestando analoghe preoccupazioni rispetto a quelle di Luciani, nel contempo dichiarandomi, con intenzionale enfasi, "partigiano della Costituzione" in tempi in cui la cultura della Costituzione sembra infatti da troppi dimenticata. Un'esternazione che, come è noto, ha determinato un intervento del Consiglio Superiore della Magistratura, conclusosi, almeno per il momento, con una delibera che qualche politico e qualche testata giornalistica ha definito una "bacchettata" nei miei confronti. Ma non posso certamente ipotizzare che un intervento del genere possa avere davvero originato in un così autorevole consesso l'intenzione di bacchettarmi. Ho l'obbligo di credere che non sia così. Ho l'obbligo di credere che l'arretramento di questi anni non abbia potuto determinare il convincimento che per scongiurare le polemiche spesso strumentali contro certa magistratura ci si debba rassegnare ad un modello di magistrato burocrate, senza idee e senza il diritto di partecipare al dibattito politico-culturale in tema di cultura della Costituzione. Spero proprio non sia così. Altrimenti le fondate preoccupazioni per il presente ed il futuro dei valori più alti della nostra Costituzione dovrebbero crescere di molto.

l’Unità 19.2.12
Indignazione cresce in Cisgiordania. Abu Mazen e Catherine Ashton (Ue) chiedono: rivedete il caso
Senza processo come migliaia di prigionieri nelle carceri israeliane da ieri in sciopero della fame
Khader, il «Bobby Sands» dei palestinesi: da 63 giorni in cella senza cibo
Da oltre due mesi ha intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione amministrativa. Sta morendo. Il suo nome è Adnan Khader e nei Territori è diventato il «Bobby Sands» palestinese.
di U.D.G.


Ha deciso di usare il suo corpo come strumento di denuncia. Fino all’estreme conseguenze. Il suo nome è Adnan Khader. È il «Bobby Sands» palestinese. Due mesi dopo aver intrapreso uno sciopero della fame per protesta contro il suo arresto, lo sceicco Khader Adnan, un militante della Jihad islamica, è in condizioni gravissime, in pericolo di vita.
SIMBOLO
L'avvertimento è giunto dalla organizzazione dei Medici per i diritti umani, che lo ha vistato cinque volte durante la sua detenzione in Israele. Un appello urgente è stato sottoposto alla Corte suprema di Israele, affinché ordini la sua immediata liberazione. Adnan è stato arrestato a Jenin (Cisgiordania) il 17 dicembre e successivamente una Corte militare ha stabilito nei suoi confronti quattro mesi di «arresti amministrativi», per ragioni di sicurezza che non sono state illustrate all'interessato. Malgrado l'uomo fosse in condizioni fisiche molto degradate, gli arresti sono stati confermati una seconda volta il 7 febbraio scorso. In questo periodo Adnan (33 anni) ha perso 30 chili. Secondo la organizzazione Medici per i diritti umani, «tutti i suoi muscoli, compreso il cuore e lo stomaco, rischiano di disintegrarsi» e il sistema immunitario «potrebbe essare di funzionare in qualsiasi momento».
Negli ultimi giorni ha accettato di assumere alcuni sali minerali e glucosio, ma egualmente viene ritenuto in pericolo di vita. La sua lotta viene seguita con grandissima partecipazione e commozione dalla popolazione palestinese nei Territori, con frequenti aggiornamenti sulla stampa e sui mezzi di comunicazione. Manifestazioni di protesta e di sostegno alla famiglia di Khader Adnan si sono moltiplicate negli ultimi giorni. Anche in Israele la sua lotta sta ricevendo crescente attenzione dopo che il romanziere Sami Michael ha scritto al ministro della Difesa Ehud Barak per convincerlo a «sottoporre Khader a un regolare processo, se ci sono accuse fondate nei suoi confronti, oppure a liberarlo incondizionatamente».
SOLIDARIETÀ
Decine di palestinesi reclusi nel carcere israeliano di Ashqelon, a sud di Tel Aviv, rifiutano da ieri il rancio in solidarietà con Adnan. L'avvocato di Adnan ha formalizzato ieri l'annunciato ricorso alla Corte suprema israeliana contro la detenzione del suo assistito. L’altro ieri manifestazioni popolari di sostegno e denuncia sono state organizzate dalla Jihad Islamica sia a Jenin sia nella Striscia di Gaza, al termine delle preghiere del venerdì. Ma la solidarietà verso Adnan sta superando i confini della fazione d'appartenenza. Lo stesso presidente moderato dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen (Mahmud Abbas), ha rivolto un appello alla comunità internazionale affinché faccia pressione su Israele. Appello raccolto fra gli altri da Catherine Ashton, responsabile della politica estera dell'Ue, la quale in una nota ha sollecitato ieri le autorità israeliane a rivedere il caso.
Richard Falk, Osservatore speciale per le Nazioni Unite per i Diritti umani dei palestinesi scrive: «Il caso di Khader Adnan rappresenta un microcosmo che descrive da solo l'insopportabile crudeltà (a cui sono sottoposti i palestinesi), conseguenza del prolungato stato di occupazione. Mette in evidenza il contrasto tra la dignità a cui ha diritto un prigioniero israeliano e l'irriducibile rifiuto a prestare attenzione all'abuso subito da migliaia di palestinesi lasciati a marcire nelle prigioni israeliane per detenzione amministrativa o sentenza della Corte. Ma non abbiamo ancora raggiunto un livello di maturità nel nostro riconoscimento dei diritti umani tale da dichiarare senza riserve illegale un tale stato di barbarie? Ci auguriamo che la terrificante esperienza di Khader Adnan non si concluda con la sua morte e che possa innescare una protesta a livello mondiale sia contro la "detenzione amministrativa" che contro gli abusi subiti dai prigionieri. Il popolo palestinese ha già sofferto più che abbastanza».

l’Unità 19.2.12
Pechino in campo pieno sostegno
al raìs di Damasco
Spara sulla folla che partecipa a un funerale a Damasco e intanto incassa il rinnovato sostegno della Cina. Bashar al-Assad non allenta la presa e incurante degli appelli internazionali insiste nel pugno di ferro
di  U.D.G.


Il bagno di sangue continua. Navi militari iraniane ormeggiate nel porto siriano di Tartus, aerei Usa senza pilota che sorvolano i cieli della Siria, un inviato cinese a colloquio a Damasco col presidente Bashar al Assad: la dimensione internazionale avvolge ormai talmente il dramma siriano, che persino l'attrice e regista americana Angelina Jolie, ambasciatore di buona volontà dell'Alto commissariato Onu, si è sentita ieri di dire la sua su quanto accade nel martoriato Paese arabo, alleato dell'Iran e solo formalmente nemico di Israele, dove secondo attivisti sono morte più di 8.000 persone dal 15 marzo 2011. Sul sito di Documentazione delle violazioni in Siria (http://vdc-sy.org/) si contano i nomi di 8.311 persone, di cui 6.529 civili e 1.765 militari tra disertori e governativi. I bambini e gli adolescenti uccisi dal 15 marzo ad oggi, secondo il bilancio aggiornato a ieri sera, sono 559. Le donne sono 257.
Alla vigilia della giornata di «disobbedienza civile» indetta dai militanti anti-regime a Damasco, è proprio la capitale a esser teatro del più importante sviluppo sul terreno: circa 30.000 persone, residenti nel quartiere benestante di Mezze, nella parte nord-occidentale di Damasco, hanno sfilato in un corteo funebre, per i tre uccisi l’altro ieri, che si è ben presto trasformato in un corteo di protesta.
PROVA DI FORZA
Su Youtube ci sono numerose testimonianze video dell'ampiezza della manifestazione (http://youtu.be/ LonLYe99lgY; http://youtu.be/ pXl63dimQTc), svoltasi per la prima volta in modo così massiccio alle porte della residenza presidenziale, a due passi da piazza degli Omayyadi teatro dei raduni lealisti, vicino all' ambasciata iraniana e al circolo degli ufficiali e luogo di residenza di numerosi alti ufficiali del regime.
Le forze di sicurezza non hanno esitato a sparare ferendo un numero imprecisato di persone e, secondo il bilancio dei Comitati di coordinamento locali degli attivisti, uccidendo almeno una persona, Samer al Khatib. Su Internet è disponibile il video (http://youtu.be/ GunmpruJs6I) del cadavere di Khatib, sull'asfalto in una pozza di sangue. Questo mentre la tv di Stato siriana diffondeva le immagini in diretta della forte nevicata che si è abbattuta stamani sulla capitale. Il sito del Centro di documentazione delle violazioni in Siria ha riferito ieri pomeriggio il bilancio provvisorio della repressione odierna: 12 uccisi compreso quello di Mezze tra Homs, Hama, Idlib, Dara.
PECHINO RILANCIA
Sul piano politico, mentre le opposizioni all'estero ripongono speranze nella riunione del 24 febbraio prossimo a Tunisi degli «Amici della Siria», il governo di Damasco annuncia che al referendum popolare indetto per il 26 del mese per confermare la nuova costituzione, sono attesi più di 14 milioni di siriani (su una popolazione totale di 22 milioni). Nella capitale ieri mattina è andato in scena l'incontro tra il presidente Bashar al-Assad e il sottosegretario agli esteri cinese, Zhai Jun, che ha ribadito l'invito di Pechino «a tutte le parti a metter fine alle violenze». Zhai ha anche chiesto che venga ripristinata il più presto possibile la stabilità della Siria e ha assicurato Assad che la Cina, dopo essersi opposta assieme alla Russia alla risoluzione Onu di condanna della repressione, appoggia la politica di riforme di Damasco.
Il rais dal canto suo ha ribadito che la Siria è vittima di tentativi di dividerne il territorio per indebolire il suo peso geopolitico regionale. L'appello e la visita ufficiale del ministro cinese, che arrivano dopo i veti posti da Pechino all'Onu a qualsiasi tentativo di condanna di Assad, sembrano lasciare indifferenti la dissidenza, determinata a boicottare il voto diretto sulla nuova carta, programmato dal regime il 26 febbraio prossimo.

l’Unità 19.2.12
La silenziosa invasione dei cinesi. Così la Siberia si allontana dalla Russia
Terra un tempo solo di nevi e zibellini oggi è sempre più una «colonia» di Pechino Moderne ferrovie la collegano alla Manciuria, nuovi insediamenti si popolano
di genti con feste e lingue dell’ex Celeste impero. Russi solo diamanti, armi e petrolio
di Gianni Sofri


I mutamenti sempre più rapidi della geopolitica mondiale negli ultimi decenni fanno entrare in crisi quanto meno alcuni capitoli delle tradizionali teorie del colonialismo e dell’imperialismo. Si pensi agli acquisti di terreni coltivabili, o comunque utilizzabili economicamente, in Paesi diversi dal proprio. Negli anni successivi alla fine dell’Unione Sovietica una rivista russa pubblicò una vignetta nella quale Hitler guardava verso est e pensava: «Questo spazio avrei fatto meglio a comprarlo». Ma quello stesso spazio, o per lo meno la sua parte più estesa, la Siberia, è protagonista di un altro fenomeno in atto. Riassumiamolo così: è possibile che il colore di questo immenso territorio nelle carte geografiche cambi entro un numero non elevato di anni.
I russi cominciarono a esplorare la Siberia nella prima metà del Seicento. Nel 1639 un cosacco arrivò per primo sulle rive del Pacifio, e nove anni dopo venne raggiunto lo stretto di Bering. L’Alaska fu conquistata dai russi tra Sette e Ottocento, ma venduta agli Stati Uniti nel 1867 per poco più di 7 milioni di dollari. Entro il 1860 (che è anche l’anno della fondazione di Vladivostok) fu completata l’occupazione russa della Siberia nei suoi confini attuali. Indebolito all’interno e all’esterno da numerosi elementi di crisi, l’impero cinese poté solo opporre dei freni all’espansione russa in un territorio che, pur non appartenendogli, aveva conosciuto una sua secolare presenza.
Per moltissimo tempo la Siberia fornì all’impero zarista soprattutto pellicce di zibellini, ermellini e castori, molto apprezzati, e non meno pregiato legname. Chi ha visto il film di Kurosawa Dersu Uzala ricorderà questo magnifico continente di nevi e foreste. L’utilizzazione economica moderna della Siberia (miniere, soprattutto) appartiene agli anni staliniani. Ed è durante la seconda guerra mondiale che una parte dell’apparato industriale sovietico viene dislocato, per proteggerlo, anche in questa regione. Della quale però, a guerra finita, comincia presto il declino.
Le industrie tornano a ovest, e con loro gli uomini e le donne, specie giovani. Tra il 1990 e il 2010 la popolazione della parte orientale della Siberia l’Estremo Oriente ruso -, già in precedenza indebolita, scende ancora da 9 a 5 milioni, su un territorio che corrisponde al 37% dell’intera Federazione.
Parallelamente, 100 milioni di cinesi si accalcano, affamati di terra e di occasioni di lavoro, lungo il confine meridionale della Siberia, nella Mongolia Interna e soprattutto in due delle tre province che costituivano un tempo la Manciuria. Epurati e cacciati in età staliniana, i cinesi della Siberia hanno cominciato a tornare, silenziosamente, nel dopoguerra, dedicandosi in prevalenza al piccolo commercio (si può dire che la Siberia abbia più rapporti commerciali, legali o illegali, con la Cina che con il resto della Russia). Non si sa quanti siano oggi i cinesi in Siberia: la cifra che viene più ripetuta è quella di 300mila, ma c’è chi arriva a parlare di più di un milione e mezzo.
La vera svolta si verifica a partire dalla perestrojka in Russia e dall’avvio della scelta capitalista in Cina. Raggiunge il suo culmine nel settembre 2009, quando i due Paesi firmano accordi per un programma di cooperazione fino al 2018, che prevede 205 grandi progetti comuni.
L’idea di fondo di questi accordi è quella di uno scambio tra materie prime russe e tecnologie e capitali (ma anche manodopera) cinesi. Si cedono alla Cina, in pratica, i giacimenti minerari di circa la metà del territorio russo, con l’unica eccezione dei diamanti della Jakuzia. E per le zone in cui non ci sono abbastanza cinesi si prevedono nuovi insediamenti, nuove linee e mezzi di trasporto per raggiungerli.
Attraverso feste, consumi, spettacoli, cresce anche l’influenza culturale della Cina, mentre la Russia, la cui relativa arretratezza è evidente anche nel campo della ricerca scientifica, appare sempre più come una grande neo-colonia: una situazione assolutamente rovesciata rispetto a quella degli anni Cinquanta tra la Cina di Mao e lo “Stato guida” sovietico. Nel bilancio commerciale della Russia con la Cina, solo una voce, quella della vendita di armi, è in attivo. E nell’insieme delle risorse siberiane, ciò che sembra interessare ai russi è solo il controllo del settore petrolifero, per loro vitale (tuttavia la Cina è uno dei principali azionisti del gigante Lukoil). Molti russi che non sono ancora partiti, o che non ne hanno la possibilità, non riescono ad adattarsi a questi mutamenti sempre più rapidi: «Ci hanno venduti alla Cina», dicono.
Negli anni Novanta si discusse a lungo del futuro della Siberia. Si prospettarono soluzioni separatiste o favorevoli alla formazione di più repubbliche, corrispondenti alle diverse popolazioni. Ma questa discussione tramontò lentamente, a dimostrazione dell’assenza di una vera e propria identità nazionale siberiana. Oggi ci si chiede cosa possa accadere il giorno in cui pochi isolotti di cultura russa finiscano per perdersi in un oceano di cinesi. Difficile pensare a una vera e propria annessione, con il passaggio di un così vasto territorio da un impero a un altro. Più probabili formule miste, come una sorta di condominio russo-cinese. Meglio, però, non sbilanciarsi, in un’epoca di accelerazione della storia contemporanea che moltiplica il rischio delle previsioni. E tuttavia, che possano esserci abbastanza presto nuovi colori nelle carte geografiche è tutt’altro che da escludere.

Repubblica 19.2.12
Iperbole
di Piergiorgio Odifreddi


Ogni quattro anni, a Olimpia, la fiamma che verrà portata dai tedofori fino allo stadio in cui si terranno i giochi viene accesa dai raggi del Sole, che convergono nel punto focale di un braciere parabolico. La cerimonia rinnova una tradizione millenaria, che era usata anche per il rinnovo annuale del fuoco perenne nel tempio di Vesta. Dunque, le proprietà della parabola sono note da millenni.
La loro prima testimonianza storica risale al 350 prima della nostra era, quando un certo Menecmo le usò, insieme a quelle dell´iperbole, per risolvere il famoso problema della duplicazione del cubo. Menecmo scoprì le due curve sezionando un cono con un coltello: se la lama lo taglia parallelamente al bordo, si ottiene una parabola, appunto. Se il coltello è un po´ meno inclinato del bordo, si ottiene invece un´ellisse. E se un po´ più, un´iperbole. La stessa cosa succede se si punta una torcia elettrica, che produce appunto un fascio conico di luce, verso un muro.
Le tre curve appartengono dunque alla famiglia delle cosiddette "sezioni coniche". La loro generazione mostra che, mentre di parabola ce n´è sostanzialmente una sola, di ellissi e di iperboli ce ne sono infinite. E il fatto che esse si ottengano con un difetto o un eccesso di inclinazione, rispetto al bordo del cono, fece sì che le tre curve fossero prese nell´antichità come metafore dei modi di espressione: ellittici, quando si mantengono sotto l´equilibrio, iperbolici, quando lo superano, e parabolici, quando lo raggiungono.
Le proprietà dei fuochi delle sezioni coniche furono scoperte poco dopo da Aristeo, e studiate un secolo dopo da Apollonio. E dopo quasi duemila anni furono usate da Keplero e Newton per descrivere le orbite dei pianeti e delle comete attorno al Sole. Un bell´esempio, questo, di come anche le ricerche più astratte finiscano, prima o poi, per produrre applicazioni concrete e inaspettate.
Archimede riuscì a calcolare l´area dell´ellisse e dei segmenti di parabola: la prima fa intervenire il pi greco, e i secondi soltanto dei numeri razionali. Ma anche il suo genio si arenò di fronte ai segmenti di iperbole. Con buone ragioni, perché la matematica non era ancora matura per arrivarci: sorprendentemente, infatti, l´area dell´iperbole è legata ai logaritmi, che non furono scoperti che nel Seicento.
Questo nuovo concetto permise a Gregorio di San Vincenzo di scoprire nel 1647 che il logaritmo è l´integrale dell´iperbole, e l´iperbole è la derivata del logaritmo. Diversamente dall´ellisse e dalla parabola, dunque, l´iperbole si ritrovò a essere al centro dei nuovi sviluppi dell´analisi infinitesimale. A dimostrazione, questa volta, della profonda unità delle varie aree della matematica.

Repubblica 19.2.12
Amori e tradimenti degli artisti tedeschi in fuga da Hitler
di Vanna Vannuccini


Più di mezzo milione di tedeschi andarono in esilio quando Hitler arrivò al potere nel 1933. Tra di loro migliaia di scrittori, scienziati, artisti, musicisti, gente di teatro, giornalisti: un dissanguamento senza precedenti nel mondo culturale di una nazione. Anna Funder, la scrittrice australiana che già ha dedicato un libro a un pezzo di storia tedesca (C´era una volta la Ddr, Feltrinelli), qualche anno fa conobbe Sydney Ruth, una vecchia signora che insieme a un gruppo di ebrei tedeschi, intellettuali e politici, aveva vissuto in esilio a Londra negli anni 30. La Gran Bretagna dava in quel periodo agli esuli dalla Germania una protezione condizionata all´impegno di non fare attività politica, e questo per loro significava dover scegliere tra il rischio dell´espulsione e l´urgenza morale di aiutare chi era rimasto in Germania e far capire a un mondo ignaro o indifferente la vera natura del male che sarebbe venuto da Hitler per l´Europa.
Del gruppetto faceva parte Ernst Toller, in quegli anni il più famoso drammaturgo tedesco, più rappresentato di Bertolt Brecht. Oggi il suo teatro espressionista, direttamente legato alle vicende della Repubblica di Weimar, è pressoché dimenticato (anche se resta viva l´autobiografia, Una gioventù in Germania), ma allora il suo Oplà noi viviamo, messo in scena da Erwin Piscator, aveva avuto un successo straordinario a Berlino (finché i nazisti non chiusero il teatro, bruciarono i suoi libri e confiscarono i suoi beni). Toller aveva scritto quella pièce in carcere, come tante sue altre opere, dopo essere stato condannato a cinque anni di prigione per alto tradimento (una pena relativamente mite, grazie all´aiuto di amici come Max Weber, che testimoniò in suo favore in tribunale): era stato con Kurt Eisner uno degli organizzatori della repubblica bavarese, nata sul modello sovietico e annientata in poche settimane nella primavera del 1919. L´altra figura principale del gruppo era l´attivista politica Dora Fabian, che era riuscita a nascondere gli scritti di Toller e a portarglieli in Svizzera. Il libro di Anna Funder Tutto ciò che sono è un´esplorazione dei rapporti tra persone che in patria erano abituate al successo e in esilio si confrontano con la perdita totale di status, economico e sociale, disillusioni e rivalità. La morte misteriosa di Dora, in un appartamento londinese, fa da catalizzatore all´intreccio di amori, amicizie, frustrazioni, e tradimenti. Dora rifiutava di sottostare ai divieti delle autorità britanniche e continuava l´attività politica passando informazioni ai deputati britannici; Ruth l´aiuta ma il marito di lei, che a Berlino era stato un giornalista brillante, potrebbe essere una spia. La storia è narrata alternativamente da Ruth nel suo letto d´ospedale a Sydney e da Toller, che nella stanza d´albergo di New York, dove morirà suicida alla fine degli anni 30, mette insieme le sue memorie. Funder lascia imprecisato il confine tra fonti documentarie e invenzione e questo le permette di dare più spazio alle emozioni, anche se nel lettore resta la voglia di sapere quali siano i fatti veri e quali quelli inventati.

Repubblica 19.2.12
Lo scrittore ventiseienne tra i berberi della Cabilia Un viaggio che rivela un popolo ai limiti della sopravvivenza
L’umanità nei reportage di Camus
di Emanuele Trevi


«Sempre un progresso viene realizzato ogni qualvolta un problema umano prende il posto di un problema politico». Al termine del suo splendido reportage dedicato alla Miseria della Cabilia (a cura di Laura Barile, Aragno) il giovane Albert Camus si dimostra già in grado di giungere a una delle sue sintesi memorabili. È la prospettiva di pensiero dell´uomo libero, del pensatore solitario quella che lo induce a privilegiare il "problema umano" sul "problema politico". Jean-Paul Sartre, l´eterno nemico di Camus, avrebbe aborrito una tale conclusione. Ma Camus appartiene a un´altra razza: quella di George Orwell, di Simone Weil. Spiriti anarchici che hanno attraversato epoche terribili (ma quale epoca, in fondo, non lo è?) senza doversi periodicamente vergognare di ciò che avevano scritto, e senza mettere in imbarazzo i posteri.
Nel giugno del 1939, quando pubblica su un quotidiano di Algeri gli sconvolgenti risultati del suo viaggio in Cabilia, Camus ha ventisei anni. Stretta tra il Mediterraneo e i picchi innevati della catena del Djurdjura, la Cabilia è una terra abitata da tribù di berberi fieri della loro lingua e delle loro tradizioni. Già i Romani temevano le rivolte dei Cabili. E per venire ai nostri giorni, i fatti della cosiddetta Primavera Nera del 2001 hanno portato all´attenzione del mondo intero le rivendicazioni di giustizia e dignità di un popolo stufo di subire le angherie dei gendarmi e la discriminazione culturale. Ma quella che Camus percorre in lungo e in largo nella tarda primavera del 1939 è una terra in cui è la fame a dettare la sua legge. Nemmeno quell´odio per l´ingiustizia subita che innesca ogni forma di protesta è possibile là dove sembra dilagare una specie di universale sfinimento. «Un certo grado di miseria fisiologica», osserva giustamente Camus, «priva perfino della forza di odiare». Quasi come se si vergognasse del suo talento di scrittore, e ci tenesse a sbattere in faccia ai lettori la nuda eloquenza dei fatti, Camus svolge il suo compito di reporter verificando tutte le affermazioni, non disdegnando le statistiche, mirando al concreto. A lungo si sofferma, per esempio, sulla tremenda penuria della dieta ordinaria dei Cabili, che consiste in una minuscola focaccia d´orzo e di una minestra di gambi di cardo e radici di malve. Quanti lettori dei suoi reportages, domanda Camus, sarebbero capaci di reggere anche solo qualche giorno mangiando così poco? E come è possibile lavorare in queste condizioni? Per una sorta di tragico circolo vizioso o "logica abietta", gli stipendi sono del tutto irrisori, più insulti che compensi: «un uomo è senza forze perché non ha da mangiare e lo si deve pagare meno perché è senza forza».
Più di una volta Camus è tentato di rendere più leggera la sua materia, ricorrendo alla meraviglia del paesaggio cabilo, con le sue montagne e le sue valli coperte di fiori. Ma glielo impedisce un senso morale determinato a scuotere le coscienze, a sbattere in faccia ai lettori e alle autorità coloniali francesi una condizione umana intollerabile. La miseria, per questo giovane scrittore che si trasforma in giudice e in testimone, non è un tema di meditazione morale, o uno dei tanti colpi ad effetto di un giornalismo a caccia di facili emozioni. Semplicemente, dice Camus, «essa è. Grida e dispera». E soprattutto, dove c´è lei non c´è nient´altro, poiché la miseria erode ogni significato possibile della vita, ogni prospettiva affacciata sul futuro, e addirittura «getta un interdetto sulla bellezza del mondo». E che spazio vitale rimane, a uno scrittore privato della bellezza del mondo? Proprio qui risiede il paradosso più affascinante di queste pagine: perché il momento stesso in cui lo scrittore decide di spogliarsi di ogni orpello e privilegio, è quello in cui deve fare ricorso a tutto il suo talento. La miseria, infatti, non può essere solo evocata, va rappresentata, deve diventare un fantasma efficace nella mente dei lettori. Le fotografie che accompagnano gli articoli potranno servire, ma l´essenziale deve essere veicolato da una prosa capace di far vedere ciò di cui parla. Il terribile stato di derelizione e sporcizia dei villaggi, per esempio, dove «tutte le vie sono fogne», che trasportano di casa in casa «una mota nerastra e violacea in cui marciscono galline morte e rospi dalla pancia enorme». In tutte le scuole di giornalismo dovrebbero essere studiati testi come questi reportages di Camus. Essi insegnano che dire l´indicibile non è una petizione di principio, una nobile aspirazione, ma una tecnica, una ricerca del massimo possibile di efficacia, uno sfruttamento intensivo del particolare rivelatore. Così, quei rospi dalla pancia enorme alla deriva in un canale di scolo sono più eloquenti e memorabili di un intero libro di statistiche.
E nello stesso tempo, per Camus la descrizione non si accompagna necessariamente alla rassegnazione, come troppo spesso oggi siamo indotti a credere. È sempre possibile immaginare qualcosa di meglio di quello che si vede. «Ho scritto non per un partito, ma per degli uomini», dichiara alla fine del suo lavoro. Questi uomini, i miserabili Cabili, erano destinati a una vita fondata sull´equilibrio del lavoro e della contemplazione. Non conoscevano né la disperazione della fame, né «la febbre e il bisogno di potere» che sono caratteristiche dei colonizzatori e qualità «naturali per i mediocri». È da questi esempi di empatia umana e profondità filosofica che comprendiamo come la Cabilia fu un tassello fondamentale dell´apprendistato di Camus, e in tutti i sensi un´iniziazione. I libri che ne hanno fatto un grande dovranno ancora aspettare qualche anno, a partire dallo Straniero, uscito nel 1942. Ma sulle strade impervie e polverose della Cabilia è già nato quell´indomabile ribelle, quel custode della verità, quel carattere fraterno e appassionato che ancora oggi ha così tanto da insegnarci.

Repubblica 19.2.12
Dove sono finiti gli adulti
Una drammatica divisione tra coloro che assumono il peso dei loro atti e quelli che invece vogliono continuare a giocare con la vita come se fosse una playstation
di Massimo Recalcati


I genitori sembrano essersi smarriti nello stesso mare dove ogni giorno si perdono i loro figli senza più nessuna distinzione generazionale
È sempre più difficile crescere in un mondo che sogna l´eterna giovinezza Dai videogame ai social network si è diffuso un modello di società a "responsabilità zero"

Il film americano intitolato Young Adult di Jason Reitman sembra darci – già solo nel titolo – la temperatura della strana febbre che sta colpendo il cosiddetto mondo degli adulti.
Il fenomeno è accecante nella sua evidenza: gli adulti si sono persi. In questo film la loro scomparsa viene celebrata come un miraggio di rigenerazione; l´adulterazione dell´adulto consisterebbe nella sua regressione ad una immaturità testarda, al recupero (impossibile) del tempo passato, ad un rifiuto della responsabilità. La trama è eloquente: una ex-scrittrice divorziata ritorna nel suo paesino del Minesota per riprendere il suo fidanzatino del liceo che nel frattempo si è sposato e ha un figlio senza tener conto in nessun modo della irreversibilità del tempo.
Cosa sta accadendo? Se un adulto è qualcuno che prova assumere le conseguenze dei suoi atti e delle sue parole – è una definizione che mi sento di proporre al di là della sua descrizione anagrafica – , non possiamo che constatare un forte declino della sua presenza nella nostra società. Pensiamo a tutti coloro che investiti di incarichi istituzionali perseguono accanitamente i loro interessi personali anziché servire quelli comuni. Alle figure di Puer che spesso ci hanno governato e che sono diventati dei modelli per l´immaginario. Oppure a quei genitori che anziché sostenersi tra loro nel compito educativo che li impegna lo disertano mostrandosi sempre pronti a difendere le ragioni inconsistenti dei loro figli di fronte agli insegnanti o di fronte alle prime difficoltà che la vita impone. Gli adulti sembrano essersi persi nello stesso mare dove si perdono i loro figli, senza più alcuna distinzione generazionale. La celebre distinzione tra le età della vita che in passato bollava come immaturi anche quei comportamenti che manifestavano semplicemente lo slancio vitale della giovinezza, oggi è saltata: possiamo vestirci a 60 anni come a 30, sognare le stesse cose, consumare gli stessi prodotti, parlare quasi la stessa lingua. A questo appiattimento delle differenze generazionali contribuisce anche un certo uso dei socialnetwork dove i legami che si creano sono spesso a responsabilità zero. L´amicizia è ottenuta attraverso un click; la sua moltiplicazione diviene segno di distinzione. La cultura del videogame ci introduce in un mondo parallelo, artefatto, ad una sorta di oppiaceo tecnologico che confonde l´esistenza con la simulazione. Non è difficile incontrare adulti che come certi adolescenti si mantengono in uno stato di perenne «connessione» con la rete. Senza questa «connessione» la loro vita perderebbe di senso. Per loro la disconnessione – anziché essere una pausa necessaria e salutare – rivela il vuoto di una vita sostenuta da legami artificiali.
Questo nuovo ritratto dell´adulto esalta il mito immortale di Peter Pan, il mito della giovinezza perenne, la retorica di un culto dell´immaturità che propone una felicità spensierata e priva di ogni responsabilità. È una cifra del nostro tempo: «Mio padre – mi confidava desolata una giovane ragazza figlia di genitori separati – non fa altro che correre dietro alle mie amiche e poi chiede di potersi confidare con me!». Insomma, non è che i veri bamboccioni siano gli adulti di oggi più che i loro figli? In questo senso il dialogo di Schettino con il Comandante de Falco ha il valore di un vero e proprio paradigma; non racconta solo uno scontro drammatico tra due uomini in una situazione di grande tensione e pericolo, ma ci segnala una divaricazione interna alla generazione degli adulti tra coloro che assumono il peso dei loro atti e coloro che invece vogliono continuare a giocare con la vita come se fosse una playstation.
Gli esempi potrebbero evidentemente moltiplicarsi ma essi convergono tutti a sottolineare un fatto: la solitudine delle nuove generazioni – che su questo giornale avevo una volta ho paragonato a quella di Telemaco in attesa del ritorno del padre – deriva innanzitutto dalla difficoltà che gli adulti hanno nel sostenere il loro ruolo educativo.
Una giovane paziente mi ha aiutato a intendere meglio quello che ci sta accadendo. Mi racconta della sua tendenza irresistibile a rubare nei supermercati. I suoi furti non ruotano attorno al valore di ciò che ruba di cui si disfa subito e con totale indifferenza. Questa giovane non sta semplicemente frodando la Legge o godendo del brivido per la sua trasgressione. In un modo paradossale sta facendo proprio il contrario; sta cercando di essere vista, di essere notata dalla Legge, cioè di fare esistere una Legge. Qualcuno mi vede? Qualcuno mi può aiutare a non perdermi, a non smarrirmi? Esiste da qualche parte una Legge, o, più semplicemente, un adulto che può rispondermi, che può accorgersi della mia esistenza? La domanda dei nostri giovani insiste e ci mette con le spalle al muro: esistete ancora? Esistono ancora degli adulti? Esiste ancora qualcuno che sappia assumersi responsabilmente il peso della propria parola e dei propri atti?
Nella cleptomania di questa ragazza possiamo cogliere tutta la cifra del disagio della giovinezza contemporaneo. Al centro non è più il conflitto tra le generazioni, il conflitto tra la Legge e la sua sovversione trasgressiva, ma la solitudine di una generazione che si sente lasciata cadere, abbandonata, che cerca il confronto con il mondo degli adulti ma non lo trova, nel senso che fa fatica a trovare degli adulti coi quali misurare il proprio progetto di mondo. La grande crisi attuale dell´economia capitalista e il rischio reale di un immiserimento materiale e mentale di noi tutti amplifica e rende questo dato ancora più decisivo. Quale mondo stiamo consegnando in eredità alle nuove generazioni? Cosa possiamo fare per ridare speranza a un Telemaco affranto? Come possiamo mostrare alla giovane cleptomane che esiste una Legge affidabile, uno sguardo capace di vedere e di riconoscere la sua esistenza? Qualcuno in grado di leggere nella sua trasgressione l´insistenza di una domanda di riconoscimento? Non è questo, in fondo, che ci chiedono i nostri figli? Se il luogo dell´adulto resta vuoto, sarà difficile per le nuove generazioni sentirsi riconosciute, sarà difficile potersi sentire davvero figli. Figli di chi? Di quale genitore, di quale adulto? Di quale testimonianza di vita?
L´adulto non è tenuto ad incarnare nessun modello di perfezione. Anzi tra i suoi esemplari peggiori dobbiamo proprio catalogare quelli che si offrono come modelli ideali agli occhi dei giovani. L´esperienza clinica ce lo insegna ogni giorno. Ad un adulto non si deve chiedere di rappresentare l´ideale di una vita compiuta, ma di dare peso alla propria parola, il che significa innanzitutto provare ad assumerne tutte le sue conseguenze. Non è questo che può salvare dalla solitudine e dall´abbandono? Non è questo che anima la speranza di Telemaco? Questo nel nostro tempo manca inesorabilmente e questo bisognerebbe poter ricostruire individualmente e collettivamente.