martedì 21 febbraio 2012

il Riformista 21.2.12
Per passione e per politica Le due vite di Joyce Lussu
Portrait. L’autobiografia della nobildonna fiorentina che da moglie di un fascista passerà alla militanza antifascista e a quella femminista ed entrerà nella direzione del Partito Socialista Italiano
di Flavia Piccinni

Ci sono donne che lasciano alle loro spalle un alone di mistero. E altre che fanno di tutto per svelarli, i segreti della loro vita, e per raccontare le rispettive esistenze attraverso parole e, a volte, bugie. Le biografie sono un tema spinoso e, senza arrivare agli eccessi di Flush storia del cocker della poetessa inglese Elizabeth Barrett Browning a firma di Virgina Woolf, proposto adesso da nottetempo con un’intelligente introduzione di Chiara Valerio con Portrait (Asino D’Oro, pp. 145) Joyce Lussu firma un intenso ritratto per fotografie della sua lunga e travagliata vita, fatta più di ombre che di luci. Almeno fino ad adesso.
Nata a Firenze da un conte marchigiano e una nobildonna
inglese l’8 maggio di esattamente cento anni fa, Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti ha fatto della sua vita un manifesto politico caratterizzato da una rara determinazione: ha amato la politica quasi quanto i viaggi, non ha mai rinunciato a una battaglia, non ha mai rifiutato di seguire l’istinto e il cuore.
Ha conosciuto bene tanto l’Europa quanto l’Africa, e per amore ha vissuto due volte. Prima come pacata e tranquilla moglie del possidente fascista di Tolentino Aldo Belluigi, poi come passionaria e irrequieta compagna di mister Mill, nome con cui era conosciuto durante i tempi della Resistenza Emilio Lussu. Ed è con Lussu che questa nobile fiorentina dai grandi occhi nocciola diventa antifascista e clandestina. Ed è sempre con Lussu che Joyce alimenta quel senso della politica che è sempre stato germe in lei, e che l’accompagnerà anche durante gli anni della maturità e della vecchiaia. Dalla fine degli anni Quaranta, sarà sempre in prima fila in mille battaglie, di cui non è possibile dimenticare la lunga, intensa, parentesi femminista durante la quale si fa promotrice dell’Unione Donne Italiane. Come non è possibile dimenticare la sua sfiancante militanza nel Partito Socialista Italiano, che nel 1948 la fa entrare eccezione più unica che rara nella direzione. Portrait, che inaugura la collana di narrativa “Omero” curata da Maria Gozzetti, è il racconto diretto e appassionante della vita di una donna fuori dal tempo. Il racconto della vita di una donna coraggiosa e instancabile, desiderosa, prima di tutto, di raggiungere la verità. Una verità che è tutta racchiusa, come spiega Giulia Ingrao nella prefazione al testo, in «pane e lardo, col quarto di vino attorno a cui si discute di politica». Tutto il resto, sono camicine di lino sottile e parole. Tante, bellissime, sincere, parole.

l’Unità 21.2.12
Per tagliare i diritti non usare le encicliche
di Domenico Rosati, già presidente delle Acli


Fa una certa impressione constatare come si vada estendendo (anche su l’Unità) il dibattito sul pensiero sociale della Chiesa in collegamento con le più acute questioni d’attualità, articolo 18 incluso. Il fatto in sé è positivo perché mette in circolazione concetti in genere più elevati di quel che passa il convento. Ma la sua diffusione suggerisce qualche cautela per evitare alcuni effetti collaterali che i fruitori cattolici della dottrina ben conoscono e non sempre riescono a schivare.
Si tratta della tentazione di acquisire le indicazioni del magistero a supporto di tesi o posizioni politiche, in modo da farle apparire come le più conformi o le meno distanti dal magistero stesso. Il corollario è in genere quello della captazione del “consenso cattolico”. Abitudine antica. Ai tempi della riforma agraria i fautori del diritto di proprietà (ogni epoca ha le sue certezze non negoziabili) lanciavano anatemi contro quei cattolici che avevano una concezione più flessibile e ritenevano che, per un fine superiore di giustizia sociale, una parte almeno del latifondo potesse essere espropriata a vantaggio dei contadini senza terra. I fondamentalisti della dottrina, un po’ come certi «sfogliabibbie» del Mid West giungevano persino a scoprire in essa i criteri per quantificare in ettari la superficie delle quote da assegnare. Ma non fu una disputa inutile. Servì a dimostrare, empiricamente, che alla dottrina della Chiesa si possono chiedere indicazioni sull’orientamento da seguire e sulla meta da raggiungere, ma non le opzioni strumentali (tecniche si diceva, ma erano politiche) da adottare per compiere l’opera.
A guardar bene la lezione è valida anche per l’oggi sia per chi si lascia guidare da un’ispirazione religiosa sia per chi cerca, nell’insegnamento della Chiesa una traccia di umanità di valore universale. Ma la tentazione di combattere la guerra delle citazioni resta forte e non è agevole schivarla perché gli esperti del prontuario sono sempre all’opera. Volendo, ad esempio, asserire che esiste il diritto di lavorare, ma non il diritto al posto di lavoro (distinzione tutta teorica perché in genere chi ne ha bisogno si mette in cerca del “posto”) si evoca il numero 48 dell’enciclica Centesimus annus: e lo si fa per sostenere che se lo Stato garantisse per tutti un posto di lavoro ne deriverebbe una limitazione della libertà e della creatività delle persone. Vai a controllare i testo e trovi che l’esplicita preferenza per l’economia di mercato è bilanciata da un robusto catalogo di compiti affidati allo Stato, tra i quali quello di «assecondare l’attività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimolandola dove essa risulti insufficiente e sostenendola nei momenti di crisi». Tutto ciò ad esplicita confutazione della tesi di chi sostiene che lo Stato non abbia alcuna competenza in economia «come hanno affermato i sostenitori di un’assenza di regole nella sfera economica».
E qui va opportunamente ricordato che proprio attorno alla Centesimus annus si è consumato il disegno di una lettura mercatista della dottrina e ciò è avvenuto anche in Italia sulla scia della teoria del «capitalismo democratico» che fa capo a Michael Novak. Si è operata, infatti, un’indebita divisione in due di un paragrafo (il 42) enfatizzando la prima parte, secondo la quale il capitalismo è cosa buona se realizza «la libera creatività umana nell’economia» e dimenticando la seconda, in cui se ne nega la bontà se manca «un solido contesto giuridico che metta l’attività economica al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà». Si è trattato di una scissione concettuale paragonabile, se è consentito, all’operazione con cui Berlusconi (mimato ultimamente da Celentano) enfatizzava l’articolo 1 della Costituzione là dove proclama che «la sovranità appartiene al popolo» e lo ignorava per la seconda parte, dove precisa le modalità e i limiti d’esercizio del potere sovrano.
Partendo da tale sdoppiamento teorico si è giunti persino a fissare uno spartiacque tra una vecchia e una nuova dottrina: quella sostanzialmente anticapitalista, questa esplicitamente procapitalista. Una forzatura che non sempre è stata segnalata e le cui tracce sono evidenti anche in alcune delle elaborazioni attuali. In realtà, se si tiene ferma la bussola sul principio fondante del pensiero cristiano la dignità della persona molte scorie si perdono per via e con esse gli argomenti a supporto di questa o quella soluzione di problemi specifici. Si può insomma essere a favore o contro il mantenimento dell’articolo 18 senza scomodare la dottrina; che però non si può eludere quando domanda se una determinata scelta accresca o depauperi il tasso di sviluppo umano nella società. Ed è in questo spazio che si esercita la responsabilità del discernimento politico.

l’Unità 21.2.12
dalla intervista di Simone Collini a Rosy Bindi


Nel Pd si è aperta una discussione anche sul contributo del pensiero cattolico: può aiutare a vincere il liberismo, dice Fassina; non va letto in chiare antiliberista, ha replicato Ceccanti richiamando i documenti della settimana sociale dei cattolici sulla flexicurity. La sua opinione? «Intanto, inviterei entrambi a non tirare dalla propria parte autorevoli pronunciamenti di Benedetto XVI o del cardinale Bagnasco e la dottrina sociale della Chiesa, che non può essere considerata né un punto d’appoggio per rinvigorire il pensiero socialdemocratico né l’ispiratrice del blairismo o del cosiddetto riformismo di sinistra. Io sono abituata a trattare la dottrina sociale della Chiesa e gli interventi del magistero con molto più rispetto. Più che chiamarli a sostegno delle nostre teorie dovremmo ispirarci ad essi per trovare soluzioni ai problemi del tempo che stiamo vivendo».
Fassina e Ceccanti sbagliano entrambi?
«Hanno fatto discorsi un po’ strumentali. Bene invece se il Pd intende aprire una seria riflessione su questo tema. In questo momento c’è bisogno di rilanciare l’autorevolezza della politica. E il Pd, che è un partito pluralista e quindi deve avere un pensiero pluralista, può trovare anche nella dottrina sociale della Chiesa un’ispirazione per trovare soluzioni politiche ed economico-sociali capaci di combattere la crisi ma soprattutto di aprire un nuovo modo di concepire lo sviluppo, la redistribuzione della ricchezza e perfino la democrazia». Dice Veltroni che con alcuni giudizi critici si rischia di consegnare il governo alla destra: lei cosa dice?
«Che questo governo noi lo abbiamo voluto, non subìto, e lo stiamo sostenendo convintamente. Ha ridato decoro e dignità a questo Paese, e siamo disponibili a un sostegno anche solo per questo, perché si tratta del presupposto perché l’Italia ce la possa fare. Però io non ho paura di consegnare questo governo ad altri. Può anche fare molte cose che faremmo noi, ma non è il nostro governo. Ed è anche bene che non lo sia».

l’Unità 21.2.12
Chi controlla il capitalismo
di Alfiero Grandi


Vincenzo Visco ha ripreso, sull’Unità, la discussione sulla crisi del capitalismo: crisi non vuol dire crollo ma incapacità di rispondere agli obiettivi di una società moderna. Il capitalismo ha preteso di essere il supporto economico della democrazia. Oggi è in corso un pericoloso divorzio: la democrazia non è più un obbligo, come dimostra la malcelata invidia verso l’autoritarismo cinese. Vengono proposti commissari che dovrebbero sostituirsi a governi legittimi. Va di moda il governo dei tecnici che non risponde agli elettori ma presume di sapere cosa è bene per loro. La crisi del capitalismo si scarica sulla democrazia. La delegittimazione della politica, se non trova alternative positive, può aprire scenari preoccupanti. Per questo occorre ricostruire le ragioni della sinistra partendo dalla crisi.
Viene sottovalutata la dimensione dei problemi finanziari. La crisi del 1929 aveva una dimensione finanziaria incomparabilmente inferiore. La massa di capitali che si muovono oggi è tale che, senza argine, può travolgere Stati e forse continenti. Il rapporto tra la massa dei prodotti finanziari e il Pil mondiale è almeno 10 a 1. A questo si è arrivati anche perché alcune delle regole auree adottate dopo la crisi del 1929 sono state abbandonate e per di più la Sec ha concesso ai derivati piena libertà. Le banche, che oggi possono fare tutto, raccolgono il denaro dei cittadini per finanziare le speculazioni. Se va male lo Stato deve intervenire per evitare conseguenze sull’economia. Non ha paragoni neppure la dimensione di massa degli interessi coinvolti, basta pensare ai fondi pensione che partecipano allegramente a questo casinò. Alla finanza si affiancano grandi soggetti economici negli armamenti, nell’energia, ecc. che vogliono mano libera. Finanza e lobbies economiche bloccano ogni tentativo di ragionamento collettivo sul futuro. Il guadagno a breve e ad ogni costo non ha bisogno di regole democratiche ma solo della certezza di incassare i guadagni. Solo il progetto è a medio/ lungo periodo e richiede regole democratiche per il suo raggiungimento.
Pensare di tornare a prima della crisi è un errore. Questa non è una pausa. La situazione sarà comunque molto diversa. Ne sono un preannuncio le sofferenze imposte alla Grecia che ormai ha assunto il ruolo di untore. La divaricazione sociale è destinata a battere ogni record, tanto più che i vari manager hanno ripreso allegramente ad aumentarsi il reddito. La crisi non è un fenomeno naturale inevitabile, ma occorre porsi il problema di un sistema di regole per controllare, scoraggiare, vietare, prima che sia troppo tardi.
Torna il bisogno di un’area di definizione pubblica delle regole, che non può essere modellata solo sui vecchi Stati. Anche Obama ha fatto approvare una normativa interessante sulla finanza (poco attuata) ma riguarda solo gli Usa, non i mercati mondiali, sui quali anzi i capitali con base negli Usa si sono sentiti liberi di agire. La Cina ha posto il problema di una nuova moneta internazionale per gli scambi, ora di fronte al silenzio punta ad un patto a 2 tra il grande debitore e il grande creditore.
L’Europa è stata afona. Ora si riparla di Tobin tax che è uno strumento necessario per controllare e disincentivare le speculazioni, per far pagare il conto anche alla finanza. Ma la Tobin non basta, occorre che le banche tornino al loro mestiere e va definito un quadro di regole e divieti che diano la certezza dei prodotti finanziari incapsulati in un titolo. Altrimenti avremo ancora crisi finanziaria, intervento degli Stati, attacco ai debiti sovrani, conseguenze scaricate sulle popolazioni sempre più impoverite e schiacciate tra rivolta e rassegnazione. Le ricette neoliberali oggi dominanti sono dello stesso segno di quelle che hanno portato alla crisi.
La sinistra deve offrire un’altra via d’uscita dalla crisi, partendo dall’analisi della crisi del capitalismo, indicando una società e un’economia più giuste, solidali e rispettose dell’ambiente, respingendo le derive totalitarie e contrastando i focolai di guerra.

Repubblica 21.2.12
Bersani stoppa Veltroni: il tema non è Monti
Ma per l´ex leader Pd è il vero nodo. Prodi: "Walter agghiacciante"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Monti di destra o di sinistra? E con chi starà il Partito democratico quando le elezioni saranno vicine? Walter Veltroni spiega che in fondo la questione è tutta qui. «Sull´articolo 18 ho detto cose che Bersani ha ripetuto mille volte. Il punto è il sostegno al governo Monti». Ma Bersani non può e non vuole aprire oggi un confronto su questo tema. Recita il ruolo del segretario che deve tenere unite le varie anime del partito. Quella sulla collocazione del premier dunque è «una discussione fuorviante», dice, perchè il problema non è «se il governo Monti sia di destra o di sinistra, ma come far uscire l´Italia dalla crisi». Certo, il modo non «è martoriarsi sui licenziamenti. La prima sfida è combattere la precarietà», spiega. Ma il futuro del Pd, le sue alleanze e l´atteggiamento verso l´esecutivo sono ormai un tema aperto. Già oggi, nella riunione del gruppo parlamentare convocata per discutere di legge elettorale, potrebbe esserci una coda di scontro interno.
L´intervista dell´ex segretario democratico a Repubblica apre però anche una polemica sul passato, su come Veltroni e D´Alema hanno gestito la vita dei governi Prodi. E soprattutto la loro fine. L´ex premier ulivista è tornato ieri dalla Cina. Ha letto, con stupore, un passaggio dell´intervista. «Con D´Alema si discuteva di cose serie, se fondare un partito democratico o puntare sul modello della socialdemocrazia, se far vivere o morire il governo Prodi», ha ricordato Veltroni. Frase «ambigua», che dimostra «come non tutti nel Pd avessero a cuore la sorte del governo Prodi», attaccano i prodiani Zampa, Santagata e Soliani. Ma il Professore è molto più amareggiato di così. È furibondo per essere stato tirato in ballo in questo modo. «Quel passaggio - dice al telefono da Bologna - è letteralmente agghiacciante». Lascia intravedere manovre poco trasparenti intorno ai suoi governi. E l´ex premier si riferisce con tutta evidenza sia al ‘98 sia al 2008. «Veltroni sostiene che parlavano di cose serie? Beh, mi viene da dire: era meglio, molto meglio se scherzavano», chiosa Prodi.
Ma oggi il Pd è alle prese con Monti. Bersani fa sapere che presto partirà un suo giro d´Italia nei distretti produttivi, vale a dire nella crisi profonda dei lavoratori e delle imprese. Un modo per dire che nonostante i successi dell´esecutivo siamo ancora in difficoltà. E per affrontare anche le contestazioni al governo sostenuto dal Pd «con lealtà e fino alla fine». «Dove non va Monti, vado io. E ci metto la faccia», spiega il segretario. Questo è il suo sostegno concreto a Palazzo Chigi. Ma il tema posto da Veltroni è sul tavolo. L´alleanza con Sel e Idv dev´essere mandata in soffitta, Monti è la nuova stella polare. Una rotta condivisa da Enrico Letta, Francesco Boccia, Marco Follini che ieri hanno difeso l´ex segretario dagli attacchi. Mentre sull´altro fronte i bersaniani come Matteo Orfini chiedono al segretario di rompere gli indugi e dopo le amministrative convocare un congresso per fare la conta. Un assaggio del confronto potrebbe avvenire già stasera al gruppo parlamentare.

La Stampa 21.2.12
Anche il Pd si spacca Ma il vero nodo è il sostegno al premier
Bersani: non staccheremo mai la spina
di Carlo Bertini


ROMA Può sembrare prematuro, ma la domanda che già circola nel Pd è: cosa faremo se il governo andrà avanti sulla riforma del lavoro anche se non fosse raggiunto un accordo con le parti sociali? Un giro di boa che è già all’orizzonte, visto che il premier ha assunto l’impegno di portare a termine in ogni caso entro marzo anche questo compito gravoso. Uno scenario da incubo per il segretario del Pd quello di una riforma non sostenuta da tutti i sindacati. Reso ancora più spaventoso dalle crescenti tensioni sociali raccontate con esempi concreti dai segretari regionali ieri a conclave a Largo del Nazareno; e dalle barricate in difesa dell’articolo 18 che alleati come Vendola sono pronti a innalzare alla vigilia delle amministrative. Non a caso il giorno di lotta convocato dalla Fiom per il 9 marzo ha fatto già partire un nuovo tormentone nel Pd su chi sarà in piazza a fianco dei lavoratori e chi no.
Come suo solito, Bersani prova a fare il pompiere per sedare la polemica scatenata dall’intervista di Veltroni a sostegno di Monti su «Repubblica», il cui titolo «Basta tabù sull’articolo 18» è solo un corollario. Perché come dice l’ex leader, il problema non è questo «ma il giudizio sul governo». Che molti ex diessini, tra le fila del segretario, considerano al massimo «un governo amico», una parentesi da superare presto; mentre i sodali di Veltroni e del vicesegretario Enrico Letta amano definirlo «il nostro governo». Con tutto quel che ne consegue sulla partita per la premiership per il 2013, che molti della minoranza Pd, senza dirlo apertamente, affiderebbero nuovamente a Monti. E siccome non è un mistero che anche a destra c’è chi comincia ad accarezzare analogo disegno, sembra scattata una gara a piantare una bandiera sulla prosecuzione di questa esperienza di governo in altre forme (centrosinistra o centrodestra) dopo il 2013. Quindi l’apertura delle ostilità su una riforma epocale come quella del lavoro, con un premier in testa agli indici di popolarità, può comportare per il Pd il rischio di finire in una trincea di opposizione da cui è difficile uscire. E’ questo il nodo capace di dividere un partito, «dove la discussione è molto concreta sull’atteggiamento verso il governo oggi e nella prossima legislatura», nota Paolo Gentiloni.
«E’ inutile che il Pd dibatta sulla collocazione del governo Monti a destra o a sinistra, noi non staccheremo mai la spina ma vogliamo che sia attaccata meglio», è il modo usato da Bersani per ribadire il suo sostegno «leale e critico» al governo. «Piuttosto il partito deve offrire contributi su temi concreti». E stare come ama dire Bersani «con l’orecchio per terra» in contatto col Paese. Tanto che a giorni verrà annunciata la campagna «Destinazione Italia» in cui il leader del Pd sceglierà una serie di luoghi simbolo, della crisi ma anche dell’eccellenza produttiva italiana, per far vedere che la vicinanza con i problemi reali resta la carta preferita da giocarsi in tempi di elezioni. Nella vana speranza che si spenga la querelle su quale debba essere il rapporto da tenere con questo governo: sul sito dell’Unità molti elettori si sono schierati con Stefano Fassina che ha sferzato Veltroni al grido «tanto vale allearsi con Pdl e Terzo polo». Il veltroniano Verini si domanda invece come possa esser definito di destra un governo che ha tolto l’esenzione Ici alla chiesa, ridotto le spese militari sugli aerei da guerra e si appresta a tagliare le tasse ai redditi più bassi. Ma a mettere il dito nella piaga è la senatrice Magda Negri, chiedendo che sia convocata la Direzione «per dire in che misura il partito si riconosca nelle politiche del governo e non solo si limiti a votarle passivamente, per forza e con un mal di pancia crescente».

il Riformista 21.2.12
L’amalgama non riuscito del Pd
di Massimo Salvadori


Caro Reichlin,
l’interessante scambio di lettere tra te e Macaluso mi induce a chiedere ospitalità a Il Riformista per cercare di dare un contributo alle vostre riflessioni sullo stato della politica italiana e sul ruolo del Partito democratico.
E parto dalla conclusione della tua lettera, secondo cui, quali che siano “tutti i limiti enormi del Pd», dal momento che questo è oggi il primo partito italiano, non si vedono “altri luoghi” ovvero altri soggetti in grado di assicurare una guida alle “forze progressiste”.
Vorrei fare presenti quali sono a mio giudizio i maggiori problemi di un Pd che appunto dando fede ai sondaggi (da prendere con le dovute cautele in relazione tanto all’assai elevata percentuale di elettori indecisi o orientati all’astensione, quanto alle turbolenze di un sistema partitico in fase di accelerato cambiamento e aperto a probabili significativi rimescolamenti negli schieramenti) sembra essere il partito singolarmente maggioritario. Primo problema. Essere tale non ha mai significato possedere di per sé la qualità che più conta: la capacità di guidare un paese.
Fino a ieri il Pdl era il soggetto dominante, ma non deteneva questa capacità; e per ciò è entrato in crisi organica. Secondo problema. Credo di dire cosa vera osservando che il Pd è recentemente cresciuto più per i vizi e i difetti del berlusconismo che per virtù propria. Terzo problema. Mentre si è trovato rafforzato dall’opposizione ad un Pdl sempre più screditato, il Pd ha offerto e sta offrendo scarsa prova di essere in condizione di presentare una leadership incisiva per quel che concerne vuoi il programma vuoi le caratteristiche del suo gruppo dirigente, diviso nelle varie correnti di cui l’energico Veltroni ora invoca lo scioglimento in nome dell’allineamento alle sue posizioni.
Quasi ogni volta che il Pd deve pronunciare dei sì in tema di alleanze per il governo, candidatura alla premiership, politiche economiche e sociali, diritti civili, questioni etiche, laicità, ecco emergere le difficoltà legate alla sua origine: l’essere nato da un amalgama di componenti che, non approdato a una positiva dialettica pluralistica, provoca contrasti non risolti, veti e controveti, la mancanza di strategie condivise, alimenta minacce di nuovi scollamenti (dopo quelli dell’ex Margherita e dei teodem). L’esito delle primarie a Milano, Napoli, Cagliari e Genova costituisce un’ulteriore spia della debolezza della leadership esercitata dal Pd. Quarto problema. Per quanto attiene alla cultura politica in conseguenza delle difficoltà derivanti dal compromesso mal riuscito della componente di matrice ex comunista con quella ex democristiana il Pd si è affidato alla anodina categoria del “progressismo”, respingendo quell’approdo alla socialdemocrazia che pure, come ha ricordato Macaluso, dopo la fine del Pci era stato il fine, perseguito in vero senza energia e in maniera assai ondivaga, di D’Alema, di Fassino e, persino, nella variante del socialismo liberale, di Veltroni. Va bene essere fautori del progresso, ma in politica occorre far comprendere che cosa significhi in termini di linee concrete e di schieramenti. In Europa il Pd intende collaborare con la socialdemocrazia, ma non aderirvi.
Sarebbe positivo per tutti che il Pd spiegasse che cosa nel modo di essere e negli obiettivi dei partiti socialdemocratici costituisce il fondamento del suo non possumus (che mostra una continuità con l’eurocomunismo). C’è bisogno di questo chiarimento. Tu, Reichlin, sostieni che la globalizzazione dell’economia ha spazzato via le basi della socialdemocrazia, ma ti fermi a invocare un riformismo posto “su basi nuove” (ma quanta indeterminatezza copre il ripetuto ricorso all’aggettivo “nuovo”!), di cui sarebbe invece attivo interprete il Pd; sennonché bisognerebbe spiegare quali siano i suoi tratti peculiari e in cosa costituiscano ostacolo non superabile rispetto al riformismo socialdemocratico.
Ultimo problema. In nome del realismo, inviti a tener conto che, essendo il Pd il partito più forte, è con esso che, piaccia o non piaccia, nel nostro paese bisogna misurarsi, abbandonando i velleitarismi critici. Giusto, ma allora il ragionamento è rovesciabile: dal momento che in Europa (lo spazio che davvero conta) la socialdemocrazia resta il soggetto di gran lunga più consistente dello schieramento riformista, allora è ad essa che tocca in primo luogo affidarsi, dappoiché svanita come passeggera nuvola l’ambizione veltroniana di fare dei “democratici” italiani le guide del rinnovamento mondiale stando ai rapporti di forza non si vedono nel continente “altri luoghi”.
A me pare che il nodo non sciolto dal Pd sia questo: che, mentre in effetti costituisce l’asse del riformismo italiano, parla un linguaggio troppo confuso e agisce in maniera assai inadeguata. È così che esso può essere al tempo stesso materialmente forte, ma politicamente non all’altezza dei compiti della leadership trainante di cui l’Italia necessita.

il Riformista 21.2.12
«Un viaggio nell’Italia della crisi» Bersani forza sulla premiership
RETROSCENA. Il segretario, furibondo per l’intervista di Veltroni su Monti, prepara un tour per rendere esplicita la sua candidatura nel 2013. «Andiamo dove il governo non va». S’avanza il fantasma della scissione


Forse l’intervista rilasciata domenica da Veltroni a Repubblica in cui l’ex leader dei Democratici ha praticamente esplicitato l’ipotesi di replicare lo schema Monti anche nel 2013, oltre ad “aprire” alle modifiche dell’articolo 18 sarà ricordata come l’«incidente di Sarajevo» che darà il la all’ultima guerra mondiale del Pd. Anche perché ormai dietro le quinte è rimasto ben poco. È tutto sulla scena. Bastava vedere la prima pagina dell’Unità di ieri, con quel titolo a caratteri cubitali, «Duello nel Pd». Oppure studiare come la mappa dei poteri interni al partito s’è modificata. Bersani, i suoi fedelissimi, probabilmente Rosy Bindi, quelli del Pd «modello Pse», insomma, da un lato. Walter Veltroni, Enrico Letta e i sostenitori del «progetto Monti bis», dall’altro. E in mezzo quell’enorme zona grigia di chi per i motivi più disparati da Dario Franceschini a Massimo D’Alema, fino a Matteo Renzi sta aspettando il momento giusto per posizionarsi sulla scacchiera.
Bersani non ha intenzione di farsi logorare. Perché sa benissimo, come ha sottolineato Veltroni via Twitter, che «il problema non è l’articolo
18». Il problema è «il giudizio su Monti». E il giudizio che dà «Pier Luigi» dell’esperienza dei Professori è molto diverso da quello di «Walter» o «Enrico». Infatti domenica, dopo aver smaltito la collera che gli derivava dalla lettura dell’intervista veltroniana, il segretario ha rotto gli indugi. «Qualcuno non s’è reso conto che questo Paese è ancora nei guai. Siamo in piena emergenza», è stato il ragionamento svolto prima di “autorizzare” la piccata replica di Stefano Fassina a Veltroni. E ancora: «Altro che modifiche all’articolo 18. Al di là di quanto dicono alcuni dei nostri», secondo riferimento alle parole dell’ex sindaco di Roma, «la situazione non è migliorata. Da una crisi del genere non si esce mica in tre mesi».
Da qui l’idea di passare dalle parole ai fatti. Di passare dal dibattito interno alimentato a colpi di documenti o interviste a una vera e propria campagna elettorale. Questione di ore, forse di giorni: sta di fatto che prima del week-end Bersani annuncerà le tappe di un suo «viaggio in Italia», che potrebbe cominciare già la settimana prossima. Chi ha visto i suoi appunti anticipa che il leader del Pd andrà di persona «nei luoghi della crisi»: dai paesini colpiti dalla recente alluvione in Liguria alle città più sensibili all’emergenza economica (Piombino, Torino, Venezia), passando per le industrie che rischiano la chiusura. Il senso della missione, che dice molto del giudizio che il leader del Pd dà dell’operato del governo Monti, è più o meno questo: «Andrò dove l’esecutivo non s’è fatto mai vedere».
Il «viaggio in Italia» di Bersani non è una semplice marcia d’avvicinamento alle amministrative di quest’anno o alle politiche dell’anno prossimo. No. Si tratta della mossa con cui il leader del Pd renderà evidente oltre ogni ragionevole dubbio la sua intenzione di correre alla guida del centrosinistra alle elezioni del 2013. «E coi galloni di candidato premier», sottolineano i suoi. Una mossa che, ovviamente, è destinata a scatenare un putiferio.
Perché basta vedere l’incendio innescato dal botta e risposta Veltroni-Fassina su Monti e l’articolo 18 per comprendere il livello di tensione che c’è nel partito. Il deputato-economista lettiano Francesco Boccia, che teoricamente starebbe nella maggioranza bersaniana, difende «Walter»: «Gli attacchi di Fassina e Vendola a Veltroni sono stati indecenti. Questo significa giocare sporco, provare a estremizzare il conflitto sociale. Un esercizio molto pericoloso». «Il partito di Monti si farà, con o senza Monti», mette a verbale Beppe Fioroni. «Concordo con Veltroni: il punto cruciale è l’appoggio a Monti», ha commentato Marco Follini. Altro che «scricchiolii», come li chiama Pier Ferdinando Casini. Perché, spiega un membro della segreteria del Pd, «se in Parlamento arriva una riforma del welfare non sottoscritta pure dalla Cgil, in quel caso molti dei nostri non
la voterebbero nemmeno con la fiducia». Se mai questo momento arrivasse, un minuto dopo al quartier generale del partito il dibattito sarebbe monopolizzato da un concetto molto semplice. Che non è «articolo 18». Ma «scissione».

Repubblica 21.2.12
L’eutanasia della sanità
di Adriano Prosperi


Per giorni sul letto senza sponde legata con delle lenzuola, in attesa di essere ricoverata "da un minuto all´altro": il caso della signora dell´Umberto Primo di Roma ci richiama rudemente alla realtà incivile delle strutture essenziali del nostro paese. Un caso eccezionale? Al contrario: un caso ordinario, ripetitivo, una regola.
Càpita spesso, ha detto Carlo Modini, il dirigente del dipartimento di emergenza del Policlinico; e quanto spesso e quanto diffusamente potrebbe dirlo ogni normale utente dei servizi ospedalieri sulla base della propria personale esperienza. La vicenda romana rientra nella regola generale della drammatica inadeguatezza delle strutture e dei servizi di emergenza italiani: quei servizi che hanno a che fare con i malati, con i poveri, con i carcerati e con tutte le categorie umane di cui può capitare a chiunque di far parte. Si chiamano servizi: la parola ha un senso profondo che richiede di essere considerato e tutelato perché non si rovesci nell´ironia e nel sarcasmo. La dedizione straordinaria con cui infermieri e medici fanno argine alle carenze strutturali dei nostri ospedali nasce da qualcosa che merita davvero il nome di spirito di servizio. Fu San Camillo De Lellis, l´eroe eponimo di un altro ospedale romano, che volle chiamare se stesso e i suoi seguaci col nome di "servitori degli infermi". Quando una piaga incancrenita lo sottrasse alla sua professione di soldataccio romano, l´esperienza dell´ospedale lo spinse a dedicare la sua vita all´aiuto di chi vi si ricoverava. Era, la sua, una carità elementare: voleva praticare un´assistenza ai corpi malati e bisognosi di cure, di cibo e di letti puliti, di presenza umana soccorrevole e fraterna. Queste erano le cose che gli ospedali di cinque secoli fa offrivano ai bisognosi: e lo facevano a un tale livello di qualità da lasciare ammirati i visitatori stranieri. Ancora oggi ci sono studiosi specialisti fuori d´Italia che dedicano agli ospedali italiani del Rinascimento volumi bellissimi, come quello che ha pubblicato di recente il professor John Henderson di Cambridge. Dunque anche in questo caso abbiamo, come direbbe Joyce, un grande avvenire alle spalle.
Oggi sono ministri del governo quelli che si occupano della materia della sanità. E la dedizione agli infermi è messa in ombra e penalizzata dalla trasformazione del servizio sanitario nazionale in una gigantesca macchina capace di attirare più di ogni altra la fame di potere e di danaro dei partiti e delle corporazioni. La canalizzazione dei finanziamenti in una direzione o nell´altra è stato il grande affare che ha impegnato i poteri maggiori del Paese fin da quando i finanziamenti americani per la ripresa degli ospedali nell´Italia liberata furono la materia governata da due fratelli della famiglia bresciana dei Montini, uno per la Chiesa e l´altro per lo Stato. Ma è il passato recente quello che soprattutto pesa sul nostro presente: pensiamo alle cronache tragiche e indegne degli anni in cui il clamore delle crociate scatenate dai fanatici del partito della vita coprì le follie più sgangherate, quelle che oggi sono riassunte dalla parabola umana ma anche e soprattutto politica di un don Verzé. Meglio dimenticarli, forse: ma bisognerà per dovere civico ricordare che quei clamori fecero passare inosservata la realtà dell´affondamento del sistema sanitario pubblico a colpi di tagli lineari: una vera e propria "eutanasia di Stato", come l´ha giustamente definita la senatrice Livia Turco.
È in un clima diverso che dobbiamo oggi fare l´inventario del disastro e pensare a come risalire la china. Che il contesto sia mutato lo dice in fondo il fatto stesso dell´eco immediata suscitata dall´episodio verificatosi al pronto soccorso dell´Umberto Primo. Fino all´altro ieri la cronaca dei disservizi ospedalieri sembrava capace solo di inchiodarci a un sentimento di vergogna e di impotenza, mentre all´ombra delle megalomanie del San Raffaele e delle cattedrali della sanità privata si svolgeva l´agonia degli ospedali italiani. Attenderemo con fiducia l´esito dell´ispezione e dei provvedimenti promessi dal ministro della Salute Renato Balduzzi. Anche perché siamo ancora in attesa che dopo i sacrifici arrivi l´equità promessa da questo governo. E non c´è dubbio che il luogo elementare e primario dove ciascuno può misurare quale sia il livello dell´equità offerta dalle strutture di un Paese è quello dell´ospedale come luogo della precarietà fisica, della malattia e della sofferenza.

il Fatto 21.2.12
Nove suicidi tra le sbarre: anno nuovo, stessi problemi
di Andrea Managò


Sabato scorso Alessandro Gallelli, 21 anni, ha scelto un modo diverso di evadere dal carcere milanese di San Vittore: si è impiccato con una felpa nella cella del reparto psichiatrico del penitenziario dove era recluso. Era in carcere da ottobre dello scorso anno, accusato di violenza sessuale e stalking, il Tribunale del Riesame aveva respinto la richiesta di concedergli gli arresti domiciliari. Il giorno prima della sua morte, il Gup di Milano, Paola Di Lorenzo, aveva disposto una perizia psichiatrica per accertarne lo stato di salute mentale.
Con lui sale a 9 il conto dei detenuti che si sono suicidati dietro le sbarre dall’inizio del 2012, la maggior parte di loro sceglie di impiccarsi. Ma il bollettino di questa strage silenziosa non si ferma qui: dal primo gennaio nelle carceri italiane ci sono stati anche 5 decessi per cause naturali. In altri 23 casi gli agenti della Polizia penitenziaria sono riusciti ad intervenire appena prima che i detenuti si togliessero la vita. Per una triste coincidenza sabato scorso ha scelto di togliersi la vita, impiccandosi nel bagno di casa, anche un assistente capo della Polizia penitenziaria.
AVEVA 48 ANNI, prestava servizio nel carcere romano di Rebibbia e suonava nella banda musicale del corpo. Due giorni prima un altro agente si era sparato. Negli ultimi anni il numero dei suicidi tra i baschi azzurri ha subito un’escalation impressionante: 88 dal 2000 ad oggi, di cui 38 solo negli ultimi quattro anni. “Il nostro organico è ridotto all’osso, abbiamo 6.500 unità in meno rispetto agli effettivi necessari” spiega Eugenio Sarno, segretario generale della Uil penitenziaria “lavoriamo in condizioni al limite della legalità”. Poi incalza: “Senza voler strumentalizzare, ma due suicidi in meno di 48 ore non possono non essere oggetto di attenzione verso il malessere del personale, invece non vediamo atti concreti da parte di chi detiene responsabilità politiche ed amministrative”. Le carceri italiane scoppiano, strette tra sovraffollamento, strutture fatiscenti e lentezza della macchina giudiziaria, con il 42% dei detenuti in attesa di giudizio. Le ultime statistiche del ministero della Giustizia parlano chiaro: al 31 gennaio i detenuti erano 66.973, oltre 22 mila in sovrannumero rispetto alla capienza regolamentare prevista. Numeri che aiutano a comprendere meglio perché, in un anno, circa 500 agenti penitenziari abbiano riportato ferite con diagnosi superiori ai 5 giorni a seguito di aggressioni da parte dei detenuti.
PER ALLEGGERIRE la situazione nei giorni scorsi il Parlamento ha varato il cosiddetto decreto ‘svuota carceri’ approntato dal governo Monti. Il provvedimento prevede la possibilità che una persona fermata per reati non gravi venga trattenuta, per le prime 48 ore, agli arresti domiciliari, poi nelle celle di sicurezza delle Questure e solo come estrema ratio nei penitenziari. In sostanza interviene sul sistema delle porte girevoli, che ogni anno vede transitare in cella oltre 20 mila persone per periodi compresi tra due e cinque giorni. Un meccanismo che crea sovraffollamento. “Non è né un indulto mascherato, né una resa dello Stato alla delinquenza” ha tenuto subito a precisare il Guardasigilli Paola Severino. Contestualmente ha annunciato 11.500 nuovi posti nelle carceri.
“Questo decreto è un passo in avanti che va nella giusta direzione, ma va ripensata la politica della pena” commenta il segretario generale aggiunto del Sappe Roberto Martinelli “ad esempio per i tossicodipendenti, che sono circa il 30% della popolazione carceraria”. Secondo il Sappe “In una comunità di recupero potrebbero essere assistiti meglio ed avrebbero maggiori possibilità di reinserimento sociale. Il carcere non sia l’unica risposta che lo Stato da per garantire la sicurezza dei suoi cittadini”. Con l’attuale sistema della pena, lo scorso anno 61 detenuti si sono suicidati in carcere.

il Fatto 21.2.12
Detenuto in Israele
Adnan, 66 giorni senza cibo, il Bobby Sands palestinese
di Francesca Borri


Di Khader Adnan, che adesso che leggete potrebbe essere già cadavere, sappiamo tutto, ormai. Ha 33 anni, studia Economia all'Università di Birzeit e vive a Arabeh, vicino Jenin. Lavora come panettiere e ha una moglie, Randa, 31 anni e una laurea in Giurisprudenza sotto il velo integrale. Ha anche due figlie, Ma'ali di 4 anni, Bissan di 18 mesi. E un terzo bambino in arrivo. Attivista della Jihad islamica, è stato in carcere già altre 8 volte, per un totale di 6 anni. Ma mai per atti di violenza - a lungo, in fondo, è stato reato anche solo sventolare una bandiera palestinese.
SAPPIAMO TUTTO anche del suo arresto. Di quando la notte del 17 dicembre, alle 3, decine di soldati israeliani hanno circondato la sua casa, puntato le mitragliatrici alla testa di Ma'ali e Bissan. Khader è stato trascinato fuori ammanettato e incappucciato, e picchiato e insultato già sulla jeep, mentre veniva trasferito nel carcere di Ofer, vicino Gerusalemme. E lì, per i primi 18 giorni, è stato interrogato, legato con le mani dietro la schiena su una sedia alta 50 centimetri, 7 ore di domande una di pausa, poi altre 7 ore e un'altra ora; e via così. Per 18 giorni. Da allora, non ha mai potuto né lavarsi né cambiarsi. E anche ora che è in una stanza di ospedale, è incatenato al letto, le due caviglie e un polso. Randa ha avuto sue notizie solo il 30 dicembre, e ha potuto incontrarlo solo il 7 febbraio per 15 minuti. Ha commentato solo: traumatico. L'8 gennaio è stato condannato a un mese di reclusione, prolungata poi per altri tre mesi. Fino all'8 maggio.
L'unica cosa che ancora non sappiamo, di Khader Adnan, è di cosa sia accusato. In Cisgiordania il decreto militare 1651 del 1970 autorizza ogni comandante dell'esercito, per non meglio precisate “esigenze di sicurezza”, ad arrestare chiunque nell'area di sua competenza. Mentre il fermo di un israeliano deve essere convalidato da un giudice entro 12 ore, un palestinese può rimanere in detenzione amministrativa, e cioè in carcere senza accusa e senza processo, fino a 6 mesi. Prorogabili di altri 6 mesi, e poi altri 6 mesi - all'infinito. Al momento, secondo i calcoli di Amnesty International, sono in detenzione amministrativa 307 palestinesi, tra cui 21 deputati.
Il 13 febbraio, il giudice Moshe Tirosh ha rigettato l'appello dei difensori di Khader. Le informazioni in suo possesso, ha detto, coperte da segreto, sono sufficienti a tenerlo in carcere. E comunque, “le sue condizioni di salute dipendono dalla sua libera scelta non nutrirsi”.
L'avvocato Jawad Boulos chiede semplicemente che sia processato. Si è rivolto ora direttamente in Corte Suprema, e l'udienza è fissata per giovedì. Una risposta che equivale però a una condanna a morte: perché oggi sono 66 giorni che Khader Adnan è in sciopero della fame - quanto Bobby Sands quando morì. Non è possibile resistere oltre i 70, e già oltre i 55 i danni fisici e mentali sono irreversibili. Khader è alimentato solo da una flebo di soluzione salina, integrata con glucosio e vitamine. Ma i suoi muscoli, cuore incluso, sono ormai atrofizzati, e in via di decomposizione. Interrompere lo sciopero della fame è per lui pericoloso quanto continuarlo.
SULLA STAMPA israeliana il primo articolo è comparso una settimana fa, per il progressista Ha'aretz. Riferisce genericamente che “un tribunale militare lunedì ha rigettato l'appello di un palestinese in sciopero della fame da 58 giorni per ottenere una riduzione della pena”. Ancora più istruttivi, come sempre, i commenti dei lettori. “Israele è una democrazia, ognuno ha il diritto di morire”. Anche perché “è un terrorista in meno”, spiega Aron, “meglio uccida sé stesso che gli altri”. Fino a Mordechai: vorrei sapere chi gli paga le cure, le mie tasse?, chiede.
Ma a colpire, piuttosto, è l'indifferenza palestinese. Mai nessuno ha resistito a lungo quanto Khader, qui, ma “Fatah e Hamas sono impegnate nella formazione di un governo per uno stato che non esiste, e in negoziati che non hanno la minima possibilità di ottenere la fine della detenzione amministrativa di 3,5 milioni di palestinesi”, scrive Ali Abunimah. Statunitense, è il fondatore del sito di controinformazione Electronic Intifada: e l'animatore, su Twitter, di una campagna in sostegno di Khader che è da giorni al numero uno tra gli argomenti più discussi. Ma la solidarietà internazionale sembra più forte di quella palestinese, limitata a poche e rade manifestazioni fuori dal carcere di Ofer. Persino da al-Azhar, dagli ulema del Cairo, è arrivata una fatwa che ricorda come lo sciopero della fame sia una forma di suicidio, contraria dunque al Corano.
Per il resto, l'unico, laconico comunicato stampa è stato quello di Catherine Ashton, responsabile della politica estera dell'Unione europea. Chiede a Israele di tutelare la salute di Khader Adnan. Anche se non è quello che chiede lui, che si sta battendo non per la sua salute, specifica Randa, ma per la sua dignità e libertà. È ancora cosciente. Ha dichiarato solo: muoio perché viviate.

Repubblica 21.2.12
Cina
Nel partito comunista è guerra senza esclusioni di colpi tra riformisti e conservatori per il controllo del Paese
Il futuro leader Xi Jinping è all’estero per essere riconosciuto Guida in Patria: portando i liberali verso la vittoria
di Giampaolo Visetti


Mercato, Borsa e Hollywood l´assalto alle stanze del potere dei nuovi padroni di Pechino
Ora si posizionano le pedine della grande successione decennale fissata in autunno

Il nuovo imperatore della Cina ha lasciato gli Stati Uniti ed è volato in Europa senza l´ossessione di sedurre l´Occidente. La missione di Xi Jinping, fisico, sorriso e modi alla Mao Zedong ma testa, storia e progetti alla Deng Xiaoping, oggi è infatti conquistare i cinesi. Come già dieci anni fa con Hu Jintao, in America e nella Ue va in scena la liturgia delle presentazioni: il prossimo leader di Pechino, ieri a Dublino e domani a Istanbul, deve accreditarsi statista internazionale per essere riconosciuto guida in patria. La vera partita si gioca però nei palazzi a ridosso della Città Proibita, nelle caserme e nelle regioni più remote della nazione. E´ qui che la Cina posiziona in queste ore le pedine della grande successione decennale del potere, fissata in autunno.
Fino a pochi giorni fa tutto appariva deciso: Xi Jinping presidente al posto di Hu Jintao, Li Keqiang successore del premier Wen Jabao e i neomaoisti rossi di Bo Xilai, star nazionalista esplosa a Chongqing, a cinturare i riformisti di Wang Yang, governatore illuminato del Guangdong. A sorpresa è invece esplosa la «bomba di Chengdu» e la trasferta di Xi Jinping rivela il suo significato più profondo: chiarire ai cinesi perché, con la prima generazione di leader comunisti cresciuti dopo la morte di Mao, la svolta riformista e capitalista della Cina sarà irreversibile. L´effetto politico del mistero di Wang Lijun è dirompente. L´ex capo della polizia di Chongqing, braccio armato di Bo Xilai, è scomparso dopo essersi rifugiato per un giorno nel consolato Usa. Da allora foto e notizie su Bo Xilai, eroe populista della nostalgia rivoluzionaria, sono state bandite dai media di Stato. Una rivelazione e una consuetudine che spaventano i cinesi. Wang Lijun si è rifugiato dagli americani per evitare di essere catturato dallo stesso Bo Xilai, di cui avrebbe rivelato abusi e corruzione. Solo una volta certo di essere sotto la protezione degli avversari del suo capo, inviati da Pechino, ha rinunciato alla fuga negli Usa.
La consuetudine riguarda proprio Bo Xilai: ignorato da stampa, partito e governo, è riapparso solo ieri per proclamare vanamente la propria innocenza ricorrendo alla metafora del fiore di loto, non inquinato dal fango su cui cresce. Wang Lijun in «vacanza rieducativa», protetto dai riformisti, e Bo Xilai nell´oblìo dell´epurazione, dato in pasto ai conservatori. È sopra questo shock che scorre la missione all´estero di Xi Jinping, per chiarire che non sarà il leader di una tecnocrazia risucchiata nel passato maoista. Lo stop a Bo Xilai equivale infatti al via libera a Wang Yang, leader del ricco Guangdong delle industrie: aperture, affari, mercato e controllo del quoziente del benessere al posto di campagne patriottiche, lotta alla ricchezza, stato di polizia e nazionalizzazioni. Xi Jinping fotografato al fianco di Obama e Bo Xilai cancellato dalle foto con il premier canadese Harper: un minaccioso ko che rivoluziona gerarchie e corsa ai nove posti che contano, a Pechino e nel mondo, nel prossimo decennio. Perché anche nella sempre più potente Armata di liberazione del popolo si consuma una decisiva resa dei conti. Il generale Liu Yuan, altro «principe rosso» riformista, ha estromesso il suo rivale conservatore Gu Jushan, umiliato con l´accusa di una maxi-truffa. In una Cina anchilosata sull´eterno referendum pro o contro Mao Zedong, emerge dunque con chiarezza che ceto medio e nuovi ricchi sono decisi a voltare pagina, frenando i restauratori di Bo Xilai e appaltando la sostenibilità della crescita ai capitalisti di Wang Yang. I maoisti avevano tentato di abbattere il modello-Guangdong diffodendo rivolte operaie e contadine, facendo scoppiare la ribellione a Wukan e sollevando lo scandalo Foxconn-Apple. Al foto-finish i denghiani hanno calato l´asso di Chengdu e chiarito il futuro della nuova super-potenza economica, proiettata a conquistare il mondo piuttosto che roccaforte ideologica impegnata a rinchiudersi nell´autoritarismo. Xi Jinping ha così potuto compiere il suo simbolico pellegrinaggio personale tra Usa ed Europa, che riscrive il passato nazionale per scongiurare rigurgiti rivoluzionari. Un viaggio anti-maoista sulle orme di stesso, di suo padre Xi Zhongxun, riformatore epurato dal Grande Timoniere, e del suo maestro Hu Yaobang, accantonato alla vigilia del massacro di piazza Tiananmen e appena riabilitato da Wen Jiabao. Ma pure una missione per rilanciare globalmente la visione di Deng Xiaoping, riapparso sul giornale del partito che dopo uno strano silenzio ne ha celebrato a sorpresa il ventesimo dalla morte. Nella Cina che deve convertirsi dall´export al consumo cresce la paura di un´altra Rivoluzione Culturale. Per questo le élites sommerse degli affari stoppano Bo Xilai, canzoni patriottiche e Libretto rosso, per puntare su Wang Yang, indici di Borsa e Audi nere. E il nuovo imperatore Xi Jinping, figlia a Yale e moglie pop-star, può concedersi match dei Lakers, Studios di Hollywood e maglietta con l´autografo di Beckham. La guerra di Pechino non è finita: ma i prìncipi liberali che vogliono imporre il modello-Cina al resto del pianeta, sembrano a un passo dalla vittoria.

La Stampa 21.2.12
Nuovi giochi di guerra tra Pechino e Mosca
La Cina raddoppierà le spese militari in tre anni e sogna la Luna
di ilaria Maria Sala


A Est, è corsa agli armamenti: tanto la Cina quanto la Russia hanno annunciato incrementi sostanziali ai bilanci militari, e danno mostra di voler regalare ai loro eserciti tanto le armi più aggiornate quanto ricerca e tecnologia.
La Cina, che da più di venti anni aumenta in modo costante il budget militare, prevede di raddoppiarlo di qui al 2015 – arrivando, secondo le analisi di IHS Jane’s (pubblicazione di intelligence militare e analisi di sicurezza e difesa) a 238 miliardi di dollari l’anno. Numero due per le spese militari nella regione è il Giappone, con appena 64 miliardi l’anno. Per un Paese che nessuno sta minacciando, si tratta di una cifra ragguardevole, e gli esperti puntano a tre principali aree che spingono la Cina a tanta preparazione (se non altro come deterrente militare). La prima è Taiwan, contro cui Pechino si è sempre riservata la possibilità di procedere ad una «riunificazione» con la forza. L’altra area dove Pechino vuole mostrarsi capace di prove di forza invece è di più complessa gestione: di nuovo i Mari del Sud, ma quelli che bagnano il Vietnam e le Filippine, che contestano alla Cina la sovranità sulle isole Spratleys e le Paracelse. Poco più in là, le isole che il Giappone chiama Senkaku, e la Cina chiama Diaoyutai: terre contese disabitate, ma che oltre a sedere su giacimenti di gas, si trovano nel mezzo di uno dei corridoi marittimi più trafficati.
Parte del budget militare andrà al programma spaziale, sempre più ambizioso, che dovrebbe vedere prossimamente un cinese sulla Luna, per non parlare degli investimenti per una possibile «guerra asimmetrica», con in prima fila gli attacchi hacker. Un particolare, però, va tenuto in conto: dal 2011 Pechino spende più per la sicurezza interna che per la difesa.
Poi, invece, c’è la Russia: il primo ministro Putin proprio ieri ha rivelato in un articolo che nei prossimi dieci anni conta di spendere 770 miliardi di dollari per più di 400 missili balistici intercontinentali, 600 aerei da combattimento, decine di sottomarini, carri armati e navi militari. Per Putin, questo è reso indispensabile da una minaccia costante da parte di chi «vuole impossessarsi delle nostre risorse», per quanto non abbia specificato di chi si tratti (l’imputato numero uno sembrano essere gli Stati Uniti, che vorrebbero una Russia «indebolita»). Quello che turba Mosca, ormai da diversi anni, è tanto l’avanzare della Nato, che ha sottratto alla sfera di influenza russa alcuni partner storici, che lo «scudo di difesa» che gli Usa, fin dai tempi di George W. Bush, hanno deciso di mettere a punto, ufficialmente contro una possibile minaccia iraniana. Mosca, invece, si sente direttamente offesa, e nell’articolo di Putin si parla di sviluppare armi capaci di penetrarlo.
Ma quando incominciano a parlare di armi, molti Stati hanno la tendenza a lasciarsi un po’ trasportare dall’enfasi: così la Russia dovrebbe mirare ad altissime tecnologie per i prossimi «30 o 50 anni», per poter rispondere alle minacce che verranno dall’affilarsi tecnologico altrui. E dunque, ecco promesse di investimenti nell’industria militare, con l’obiettivo di modernizzare tutto quello che di obsoleto pesa ancora sulla macchina da guerra russa. Vero è che l’America ha promesso di voler tornare sulla scena asiatica, e in particolar modo quella estremorientale, con l’apertura di nuove basi militari in Australia: il settore militare, a quanto pare, non conoscerà momenti di crisi.

Repubblica 21.2.12
Il rebus del tiranno siriano
di Moises Naim


È la domanda che il tiranno siriano probabilmente si pone ogni giorno. Si parla molto delle opzioni a disposizione delle democrazie mondiali per fermare il massacro, ma non si parla altrettanto delle opzioni ancora a disposizione di Assad. Me lo immagino a riflettere sulle sue possibilità mentre contempla due fotografie dell´anno scorso. Una ritrae la sua bella sposa Asma in un servizio elogiativo della rivista Vogue, l´altra è quella del cadavere di Muhammar Gheddafi. La prima gli ricorda una vita e delle alternative che ormai non possiede più, la seconda mostra quale potrebbe essere il suo destino. La speranza – simboleggiata dall´articolo di Vogue – che Assad potesse riformare la brutale dittatura ereditata da suo padre, ormai non la nutre più nessuno: le migliaia di innocenti assassinati bloccano quella via d´uscita. Ma se questa e altre porte sono chiuse, quali rimangono aperte?
1) Uccidere. Assad può continuare, come ha fatto finora, a uccidere i rivoltosi e le loro famiglie. È quello che ha cercato di fare Gheddafi. Il dittatore libico è stato fermato dalla Nato, ma il dittatore siriano sa che le potenze occidentali non scenderanno in guerra contro il suo Paese; e ogni volta che gli impongono nuove sanzioni, Assad alza il livello dei massacri. Ma sa anche che la repressione da sola non è la via d´uscita, che non la può portare avanti a tempo indefinito, che troppi Paesi stanno armando e appoggiando gli insorti, le cui file crescono di giorno in giorno, e che in qualsiasi momento una fazione importante delle sue forze armate potrebbe voltargli le spalle; e Cina e Russia anche. Uccidere non basta.
2) Negoziare. Il problema è: con chi? L´opposizione è un amalgama in perenne mutamento di gruppi non coordinati tra loro, accomunati solo da un´irrinunciabile volontà di rovesciare Assad. L´altra alternativa è negoziare con gli stranieri: l´Onu, la Lega araba, l´Unione Europea, gli Stati Uniti e così via. Assad potrebbe promettere, in cambio della mediazione internazionale (invio di caschi blu?), una serie di riforme politiche che comportino una parziale rinuncia al potere. Ma sarebbe ingenuo presupporre che gli stranieri gli crederanno o che non esigeranno garanzie forti. E nemmeno Assad stesso ci crede. Sa bene che cedere un po´ di potere fa aumentare di parecchio la possibilità di perderlo completamente (vedere Mubarak, Hosni). L´ostinato rifiuto di fare concessioni da parte di Gheddafi era basato su questa convinzione. Ma, si starà domandando il leader siriano, se Gheddafi avesse saputo dove lo avrebbe portato la sua intransigenza, avrebbe tenuto duro comunque su quella linea? Alla fine Gheddafi e i suoi figli hanno cercato disperatamente la maniera di negoziare una tregua che potesse garantirgli di restare al potere, anche se con maggiori limiti, ma ormai era troppo tardi. La lezione della Libia è che bisogna negoziare prima di essere sconfitti. La lezione dell´Egitto, della Tunisia e dello Yemen è che nei regimi autoritari non esiste il concetto di condividere «un po´» il potere. O tutto o niente.
3) Fuggire. L´esilio è meglio della morte. O del carcere. Sicuramente la pensano così i familiari di Mubarak, Hussein e Gheddafi, per citarne alcuni. E oggi la qualità di vita dell´haitiano Baby Doc Duvalier è migliore di quella di Seif al-Islam Gheddafi. Anche la famiglia Assad deve essersi posta il problema. Dove andare, però? In Europa li aspetta la Corte penale internazionale e centinaia di organizzazioni che hanno documentato le atrocità commesse da Assad e dai suoi familiari. Un´altra possibilità è l´Iran, o anche la Cina e la Russia. Il grande problema è: chi altri far salire a bordo dell´aereo che li condurrà in esilio? Il fratello del presidente dirige l´apparato repressivo del regime e la sorella è indicata come una delle fautrici più agguerrite del pugno di ferro. E poi ci sono i generali, i capi degli organismi di sicurezza, i loro soci e altri collaboratori stretti; e rispettive famiglie. Gira voce, ed è abbastanza plausibile, che gli accoliti di Assad abbiano creato una rete molto efficace per impedire al dittatore di fuggire, nel caso si decidesse per l´esilio.
La fine della sanguinaria dinastia siriana si avvicina, ma nessuno sa se sarà una questione di giorni, settimane o mesi. Come abbiamo visto, le opzioni ancora disponibili per Assad sono poche e poco invitanti. È vero che i grandi leader riescono ad aprire strade nuove verso scenari che nessun altro aveva immaginato, ma è altrettanto vero che Bashar al-Assad non è un grande leader. Forse l´unica speranza che rimane è che sua moglie, che prima dei massacri la rivista Paris Match aveva definito «un elemento di luce in un Paese pieno di ombre», possa illuminare la strada per salvare migliaia di vite; compresa quella di suo marito.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

l’Unità 21.2.12
L’io «super» di Dante, non solo autore anche personaggio
In un corposo saggio di Marco Santagata un’interpretazione dell’opera del sommo poeta tra storia, testi e autobiografia
di Carlo Albarello


Focus sulla «tessitura» dantesca
L’io e il mondo Un’interpretazione di Dante di Marco Santagata pagine 448 euro 36,00 Il Mulino
Un’interpretazione complessiva dell’opera di Dante che mette in luce i tratti essenziali, la raffinata tecnica di costruzione dei personaggi e la fitta trama di rimandi tessuta dal poeta. E soprattutto l’io dantesco, autore, narratore e personaggio insieme.

Se l’uomo per Dante è un essere singolare, libero nelle sue scelte e nei suoi giudizi, non meno lo è Dante per Marco Santagata. Uso a significative incursioni nelle belle lettere italiane, con L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante (Il Mulino), Santagata offre un singolare esempio di come si possano offrire nuove prospettive di lettura su un monumento della letteratura universale, ribadendone l’attualità. E diciamo subito che sarebbe ingiusto mettere in ombra di questo professore, che insegna letteratura italiana all’Università di Pisa, l’attività di scrittore e tra parentesi anni di lavoro dedicati al Canzoniere di Petrarca. Ma la verità è che il personaggio Dante è, di tutte le sue ricerche, almeno in un senso ideale, il naturale esito.
UNA FIGURA PREMODERNA
In effetti, Santagata ha composto questo volume curando parallelamente l’edizione delle Opere dell’Alighieri (Rime, Vita Nova, De vulgari eloquentia), il cui primo volume è tra i «Meridiani» (2011). Chi guardi oggi al tracciato di quelle pagine, può ristabilire in essenza, per quel tanto di fedeltà alle date di composizione che Santagata talora respinge, i tratti di un progetto unitario, un tutto coerentemente svolto, «imperniato su Dante stesso, sulla sua straordinaria autostima o, quanto meno, sulla sua convinzione di essere l’unico in grado di formularlo e di sostenerlo».
L’opera di Santagata restituisce così, in senso diagnostico, un Dante costantemente attento al proprio io e al mondo, scelti emblematicamente come titolo: una «figura premoderna» dalla «mente sistematica», ossessionato dall’idea di far tornare i conti del proprio personaggio. Da queste premesse derivano la predilezione per il contesto biografico e storico-culturale in cui nascono le opere, che anticipano il sacrato poema e le strette relazioni di continuità nell’ideale dantesco. Forte di anni di letture dantesche, l’autore svela le astuzie di Dante, attento a costruire i propri miti, Beatrice in primis. La Commedia, infatti, non è ancora all’orizzonte, Dante è semplicemente un poeta d’amore ma già è diverso dai rimatori coevi; ha «visioni, sogni, fantasticherie»: le propone come folgorazioni crisi epilettiche secondo l’autore che diventano segni di predestinazione dell’amore per una Beatrice «letteraria». Nella Vita nova «costantemente in bilico tra verità e menzogna» decide di raccontarne i momenti più significativi, piegando a questa bella invenzione rime scritte per altre. Ma anche se non avesse scritto la Commedia, Dante sarebbe passato alla storia per il progetto contenuto nel De vulgari eloquentia di fare, del volgare una lingua di cultura capace di infrangere il monopolio del latino.
Il continuo muoversi di Santagata tra storia, testi e autobiografia restituisce perfettamente anche il clima di quella stagione cruciale di impegno politico per Dante, che scrisse secondo lo studioso i primi canti della Commedia a Firenze per poi riprenderne la composizione nel 1306-07. Anche la Commedia è percepita come un organismo saldo, dal messaggio universale, percorso al suo interno da forti tensioni contingenti. Valga per tutte l’incontro con il capo indiscusso dei ghibellini, Farinata degli Uberti nel X canto dell’Inferno e quel «dialogo teso, a botta e risposta», per fare capire ai ghibellini di Firenze che la sua posizione politica nei loro confronti era cambiata.
Se i campioni minimi che abbiamo scelto sono scelti bene, dedurremo l’entusiasmo genuino con cui abbiamo scorso questo libro di Marco Santagata, che consente di leggere con luce nuova pagine di vita e di poesia che parevano acquisite e di non avanzare troppo larvati, ma con carte scoperte, anche nei territori di quell’«ultimo miracolo della poesia mondiale», quale è secondo Montale la Commedia, con nome e cognome dell’autore, ora disvelati: l’io e il mondo.

Corriere della Sera 21.2.12
Heidegger: «La collocazione nei musei appiattisce i capolavori»
di Armando Torno


Martin Heidegger prima di morire dispose che una serie di piccole pubblicazioni sparse, scritte nell'arco di 66 anni, fossero raccolte nel XIII volume della sua opera (Gesamtausgabe). Stando alla testimonianza dell'erede Hermann Heidegger, lasciò anche il titolo: Aus der Erfahrung des Denkens. E ora questa singolare Dell'esperienza del pensiero vede la luce in italiano (traduzione di Nicola Curcio, il Melangolo, pp. 216, 20). Che cosa si cela in tali pagine? A dire il vero, un po' di tutto.
C'è, per esempio, un primo articolo che lo studente di teologia Martin Heidegger pubblicò il 27 agosto 1910 sul settimanale «Allgemeine Rundschau» per l'inaugurazione di un monumento ad Abraham di Sancta Clara, predicatore e scrittore austriaco conosciuto al secolo come Johann Ulrich Megerle (morì nel 1709), dal quale trasse spunto anche Schiller. Heidegger ne richiama le opere, augurandosi che «diventino moneta corrente»; evoca quell'indomabile spirito ancora in grado di offrire «balsamo di salvezza all'anima del popolo». Oppure ritrovate poesie giovanili. Una intitolata Sfarzo morente del 1910, uscita sulla medesima rivista, rivela un suo tormento: «Piangendo chiamavo: mai invano/ Il giovane mio essere/ Stanco di lamento/ Solo confidò nella "grazia" dell'angelo».
Non mancano sorprese. Una, datata 1943, riguarda il Coro dell'Antigone di Sofocle che Heidegger aveva presentato nel corso di lezioni del semestre estivo 1935, conosciuto come Introduzione alla metafisica. Aveva poi rielaborato, ripensato a fondo la traduzione per farla stampare in una piccola edizione privata: l'avrebbe dedicata alla moglie Elfride per il suo cinquantesimo. Invece le pagine che danno il titolo alla raccolta, Dell'esperienza del pensiero, risalgono al 1947 e contengono altre poesie. Di esse il filosofo realizzò una prima edizione privata in 50 esemplari. Sono versi percorsi da lampi: «La più antica di tutte le cose viene, nel nostro pensiero,/ da dietro di noi eppure verso di noi». E ancora: ecco un breve manoscritto che consegnò nel 1954 alla rivista scolastica «Welt der Schule» per rispondere alla domanda «Che cosa significa leggere?».
Da ricordare, inoltre, un contributo Sulla Madonna Sistina del 1955, che pone questioni sulla collocazione dei capolavori. «Trasformata — scrive Heidegger — nella sua essenza in opera d'arte, l'immagine va errando in realtà che le sono estranee. La presentazione museale, che può vantare una sua peculiare necessità storica e una sua legittimità, ignora tale estraneazione. La presentazione museale appiattisce tutto nell'omogeneità dell'"esporre". In questo c'è solo il porre, senza luogo». Né manca una paginetta che risponde a un'altra domanda: «Che cos'è il tempo?». È del 1956. Il quesito gli giunse dal settimanale «Die Zeit» e il filosofo, tra l'altro, rispose: «Si potrebbe credere che l'autore di Essere e tempo dovrebbe saperlo. Ma non lo sa, sicché oggi lo domanda ancora. Domandare significa: ascoltare ciò che ci rivolge la parola».
L'ultimo scritto, dopo altri dedicati a Hebel o a Ortega y Gasset, si intitola Saluto di Martin Heidegger. Risale al 1976. È di pochi giorni prima della sua morte. In esso, una dozzina di righe, si chiede se nell'epoca «dell'uniforme civilizzazione tecnica» sia ancora possibile parlare di «terra natia».

Corriere della Sera 21.2.12
Il nazismo e le sue vittime, come si uccide una democrazia
risponde Sergio Romano


Perché i nazisti se la presero così tanto solo contro gli ebrei? Ci sarà un perché? E perché nessuno storico o filosofo o Google risponde o sa rispondere a questa domanda? Lei me lo può spiegare?
Rimo Dal Toso, Padova

Caro Dal Toso,
La sua lettera mi ha ricordato una conversazione di molto tempo fa (era la metà degli anni Cinquanta) con Carlo Calenda, uno dei migliori diplomatici italiani della sua generazione. Il napoletano Calenda aveva lavorato lungamente all'ambasciata italiana di Bonn, dove era allora la capitale della Repubblica federale, ed era circondato da un gruppo di giovani colleghi che gli chiedevano notizie e impressioni sulla Germania postnazista. Quando uno di essi, in particolare, osservò che la Germania, a differenza dell'Italia, non aveva conosciuto il fenomeno della resistenza al regime, Calenda rispose che l'eliminazione dei partiti antinazisti, immediatamente dopo la conquista del potere, era stata rapida e spietata. Ne avevano fatto le spese soprattutto i comunisti e i socialisti, ma anche militanti del Zentrum (il partito cattolico) e di altre formazioni politiche liberaldemocratiche. Ancora prima di servire all'internamento degli ebrei, i lager si erano riempiti di oppositori che il regime trattò come altrettanti prigionieri di guerra.
Lo sterminio degli ebrei, iniziato dopo la conferenza di Wannsee del gennaio 1942, fu un sistematico genocidio, programmato per la distruzione dell'intero ebraismo europeo. Ma gli ebrei non furono le sole vittime di Hitler. Insieme ai socialisti e ai comunisti, le SS arrestarono e imprigionarono gli zingari, gli omosessuali e un numero considerevole di evangelici che il regime riteneva potenzialmente pericolosi.
Non è tutto. Dopo l'invasione dell'Unione Sovietica, nel giugno 1941, le SS e alcuni reparti speciali della Wehrmacht s'impegnarono in una sorta di «caccia al commissario» e si proposero l'eliminazione dell'apparato politico del partito comunista sovietico. Anche ai prigionieri dell'Armata rossa nei campi di concentramento tedeschi furono riservate condizioni «speciali». Malnutriti, addetti ai lavori più logoranti e frequentemente puniti, i russi furono trattati come esseri sub-umani. Nel futuro sognato da Hitler le grandi pianure dell'Europa orientale sarebbero state riservate ad agricoltori di stirpe germanica, e le popolazioni slave avrebbero avuto una condizione simile a quella dei servi della gleba prima della loro emancipazione. L'instaurazione del regime nazista fu possibile, secondo Calenda, anche e soprattutto per il modo in cui Hitler aveva schiacciato e soffocato tutto ciò che apparteneva alle grandi tradizioni democratiche e civili della storia tedesca.

Corriere della Sera 21.2.12
L'altro Aretino, religioso per soldi
Le storie dei santi, scritte con impegno, ma su commissione
di Giuseppe Galasso


L' ultimo da cui, nell'Italia del suo tempo, ci si poteva aspettare che vestisse i panni di un pio biografo di santi era, di certo, Pietro Aretino (1492-1556). Ma da sorprendersi c'è poco; e lo conferma il secondo volume delle sue Opere religiose (nelle eleganti edizioni Salerno), che raccoglie le vite di Maria Vergine, di Santa Caterina d'Alessandria e di San Tommaso d'Aquino, a cura di Paolo Marini, in un testo e con un commento inappuntabili.
A queste e a precedenti opere religiose l'Aretino si dedicò per tutto un decennio, 1534-1543. Le vite di questo volume gli furono commissionate da Alfonso d'Avalos, il grande capitano di Carlo V, vincitore nel 1525 a Pavia, dove catturò Francesco I di Francia, e poi governatore dello Stato di Milano. Il d'Avalos aveva di mira la celebrazione del suo alto lignaggio. Avendo sposato Maria d'Aquino, pensava di congiungere attraverso di lei, quale discendente di Tommaso, la gloria del suo casato a quella del santo, che proprio allora diventava il maggiore riferimento filosofico della Chiesa. Avere un santo, e un così grande santo, in famiglia rientrava nei canoni di glorificazione della più alte aristocrazie e case regnanti d'Europa, e dava una dimensione di sacralità alla loro gloria terrena, con un grande ritorno di prestigio e di forza politico-sociale.
All'Aretino la commessa interessava per il guadagno, scopo perenne del suo scrivere, ma anche perché aveva composto le sue precedenti opere religiose col preciso scopo di ottenere la nomina a cardinale. Non vi riuscì. Sarebbe stato un po' duro fare un cardinale dell'uomo che ostentava la sua omosessualità e, al tempo stesso, aveva dalle sue amanti tre figlie, mentre, a riprova del suo mai smentito spirito temerario, negli stessi anni dei suoi «cristiani libri» l'Aretino compose pure i Ragionamenti, ossia quei «dialoghi puttaneschi», ai quali è più legata la sua grande fama di scrittore osceno.
Mancato il cardinalato, e intascati i suoi compensi, le note della pietà religiosa scomparvero dalla sua attività. Una parentesi, dunque dal chiaro senso pratico, e non dovuta, come si suole dire, soltanto a un orgoglioso provarsi a scrivere in qualsiasi genere di scrittura, o al gusto perverso di tutto dissacrare e profanare.
Quale interesse, allora, possono offrire «opere religiose» di questa fatta? L'interesse è evidente. Esse segnano, anzitutto, un momento in cui già si percepiva quanto nelle lotte religiose fra protestanti e cattolici allora all'inizio potevano contare la letteratura di parte, l'exemplum etico-religioso, la formazione di un'opinione ampiamente ragguagliata sui suoi modelli di fede e di pietà, la percezione della densità psicologica e morale del credo che si sosteneva, se la si rappresentava non per astratti principi, ma per figure emblematiche e complesse così da renderne vivo e limpido il messaggio.
Tutto ciò è chiarissimo nelle opere di pietà di quel formidabile peccatore, che, diceva il De Sanctis, «aveva la logica del male e la vanità del bene». Gli si fa, però, troppo onore a definirlo (come anche fa il De Sanctis) «la coscienza e l'immagine del suo secolo». Egli rappresentava, invero, se stesso, ed è in quanto tale che rivela esigenze e particolarità, anche di primaria importanza, del suo tempo. Ma l'Italia di allora e il Rinascimento, che ne videro le fortune, non erano in tutto dello stampo di questo impudente e grandioso mestatore, e spesso accattone, che, scoperte le possibilità propagandistiche ma anche ricattatorie della stampa, ne profittava per vendere al meglio i suoi scritti (mi si paghi, diceva, «almen per caritade», evitando che «la mia lingua ritorni nella libertà delle sue licenze per sì ignobil cagione»).
L'Aretino, però, «non è meno importante come scrittore» (è ancora De Sanctis a dirlo), che «ha tanta forza e facilità di produzione e tanta ricchezza di concetti e d'immagine che tutto esce fuori con impeto e per la via più diritta». Perciò egli può scrivere quel che vuole di ciò che vuole, in una prosa ridondante e grandiosa come il suo modo di vivere. In queste vite trasforma, poi, la sua materia fino a costruire lui la valenza sacra delle vite dei santi di cui scriveva, e lo confessava. Della Vita di santa Caterina diceva che «si sostiene quasi tutta sul dosso della invenzione», e che «l'opera in se stessa è poca», e «sarebbe nulla senza l'aiuto che io le ho dato meditando». Ma non se ne faceva scrupolo, anzi piamente diceva che «ogni cosa che risulta in gloria di Dio è ammessa».
Certo la sua «invenzione» è prodigiosa, e nelle sue vite, che non a torto alcuni giudicano veri romanzi, nulla si risparmia di leggendario o di incredibile per colpire fantasie e sentimenti del lettore. Poi, però, qui come quasi sempre, l'Aretino entra nel suo stesso gioco, ne è preso, partecipa e risente profondamente di ciò che dice. L'intenzione strumentale diventa sia un molto serio gioco ed esercizio di letteratura, sia un testo di pietà. Diventa vera la sua affermazione che «ogni cosa pensata, detta e scritta in lode del Signore è autentica» e legittima «ogni sorta di parole atte a ringrandire il religioso de le meditazioni». E così anche il «gran leggendario de i Santi» viene a dimostrare «quella abbondanza del proprio dire, di che miracolosamente volse dotarlo Natura», senza che mai egli dimentichi i suoi fini pratici, venali e non. Quei «libri religiosi», quei «libri sacri» gli erano costati molte «cristiane vigilie» di lavoro. Se non gli si fanno avere dei soldi, minaccia a un certo punto, dedicherà le sue vite al sultano, Solimano il Magnifico, anche se aggiunge che quelle vite erano così cristianamente concepite da far sperare che il sultano ne fosse indotto «a lasciare la Moschea per la Chiesa». E chissà che non lo credesse davvero.
In fondo, nel rapporto tra una impudenza e spregiudicatezza spesso ignobili e le ragioni di una fede al di fuori della quale non si sapeva concepire la vita, uno spirito così singolare, chiuso in un super-ego che non escludeva complessi e paure, poteva trovare possibilità di convivenza difficili da intendere, ma effettive; e in questo, sì, l'Aretino poteva rappresentare il suo tempo rinascimentale, in cui simili convergenze costituirono, a nostro avviso, una dimensione inesplorata, o quasi, ma di estremo interesse storico.

Corriere della Sera 21.2.12
«Io mi chiamavo Marina Cvetaeva»
 Nei suoi versi c'era «un abisso di purezza e di forza» Toglievano il respiro a Pasternak, ma non la salvarono
di Chiara Mariani


«Spesso Marina inizia una poesia con un do di petto». Così Anna Achmatova descrive l'impeto creativo di Marina Cvetaeva, che non si esauriva nell'attacco ma si manteneva intatto nel corso del componimento quasi ignorasse persino l'eventualità di modulare la furia del suo verso. La sua vita coincise con il timbro tragico della sua voce. Nata nel 1892 a Mosca, inizia a scrivere versi a sei anni, per quanto la madre musicista la spinga ossessivamente verso il pianoforte e le neghi persino la carta destinata alla scrittura. A cavallo del secolo, nascono i fiori dell'età d'argento della letteratura russa, quando il Paese sembra beneficiare di uno scherzo benevolo della natura, decisa a riversarvi innumerevoli talenti letterari, in particolare poetici: Alexander Blok, Andrej Belyj, Vladimir Majakovskij, Boris Pasternak, Anna Achmatova, Osip Mandel'štam, Sergej Esenin...
L'oro era riservato al secolo di Alexander Pushkin, il sole delle lettere russe, tramontato in duello troppo presto, ma sempre allo zenit nel cuore dei compatrioti. Gli eredi di Pushkin si apprestavano ad affrontare un tempo dominato dagli slogan di un potere livellatore dove l'individuo era solo parte della massa e il poeta un pericoloso parassita.
Prima della rivoluzione, Marina, caparbia e ribelle sin dall'infanzia, elude i diktat materni e a 18 anni pubblica (1910) Album Serale, la prima raccolta di componimenti, dopo aver trascorso lunghi periodi a Parigi e aver frequentato la Sorbona. È l'esordio di una poetessa prolifica, nata bella, ricca, intelligente e audace che avrà al suo attivo centinaia di poesie, diciassette poemi, otto drammi in versi, opere di narrativa e saggistica oltre ad un vastissimo scambio epistolare con Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak, suo grande amore impossibile, rimasto platonico, nonostante lo slancio passionale: i due non si scambiarono nemmeno un vero bacio. La natura di questa donna, condannata alla poesia quanto all'infelicità, irruente e ribelle fu una delle cause del suo isolamento anche durante l'esilio a Parigi. Proprio Pasternak, comunque, le regala nella sua Autobiografia il riconoscimento più alto: «La verità è che bisognava leggerla attentamente. Quando lo feci rimasi senza respiro per l'abisso di purezza e forza che si spalancava... In breve non è un sacrilegio dire che ad eccezione di Annenskij, Blok e con qualche riserva Andrej Belyi, la Cvetaeva prima maniera era precisamente ciò che avrebbero voluto essere e non furono tutti gli altri simbolisti messi insieme».
Nessun critico, neppure il più spregiudicato e a lei più ostile, riesce mai a ricondurre la sua arte a un'etichetta, per quanto in un tempo così intellettualmente vivace le definizioni si sprecassero: simbolisti, acmeisti, cubo futuristi, poeti contadini... Lei è una poetessa concreta. Il ricorso alle allusioni e ai sottintesi è ridotto. Affronta ogni tema esistenziale, rivisita la storia. Si appropria del reale quotidiano e lo trasforma in poesia sfruttando la dialettica tra le radici dei vocaboli, creando un contrappunto semantico incalzante che diventa la sua miniera inesauribile.
«Sul piano formale è considerevolmente più interessante di tutti i sui contemporanei, compresi i futuristi, e le sue rime sono più inventive di quelle di Pasternak» (Iosif Brodskij, Il canto del pendolo). Nello scrivere, crea una sorta di partitura con tratti che ne suggeriscono la lettura. Anticipa ai suoi lettori: «Il mio libro deve essere eseguito come una sonata. I segni sono le note. Sta al lettore realizzare o deformare». Nel 1911 sposa il coetaneo Sergej Efron a cui fa una promessa che purtroppo manterrà nonostante i suoi amori collaterali etero e saffici: «Ti seguirò come un cagnolino».
Nel 1912 esce la seconda raccolta, Lanterna magica, e nel 1913 Da due libri. Nel 1917 inizia la rivoluzione, Efron si arruola tra le guardie bianche e sparisce. Marina perde tutto, subisce il saccheggio della propria casa, accetta ogni tipo di umiliazione fino ad elemosinare il cibo per sé e le due figlie Alja e Irina che muore a due anni in un orfanatrofio per denutrizione. Nel 1922 fugge a Praga per raggiungere il marito. Nasce il terzo figlio, della cui paternità si dubita e al quale lei si lega morbosamente. Avrebbe voluto chiamarlo Boris e invece per insistenza di Efron lo chiamano Georgij detto Mur. A Praga scrive molte opere importanti: Dopo la Russia, L'accalappiatopi, Il poema della montagna e Il poema della fine. Nel '25 la famiglia è a Parigi dove vivono di stenti sorretti unicamente dal lavoro di Marina, che sbriga lavori domestici presso varie famiglie fino a consumarsi le mani.
Il fatale Efron si unisce a insaputa di lei ai servizi segreti russi ed è accusato di aver partecipato ad un omicidio. Fugge a Mosca con la figlia Alja che condivideva i principi rivoluzionari. Risuona la sua antica promessa: «Ti seguirò come un cagnolino» e nel 1939, due anni dopo la partenza dei suoi cari, Marina li raggiunge a Mosca con Mur. In tempo per salutarli poco prima che siano arrestati e affidati alle mani roventi di Lavrentij Berija, salito al vertice della polizia segreta di Stalin nel 1938.
Da quel momento Marina invia nei campi di concentramento dove si trovano il marito e la figlia lettere e pacchi con stivali, berretti, scialli, carote essiccate: «a immergerle nell'acqua bollente rinvengono, Alja ricordati che contengono vitamine». Inizia la guerra, i nazisti invadono la Russia, Marina con il figlio nel 1941 sono evacuati a Elabuga, nella Repubblica autonoma di Tataria dove vivono momenti di disperazione. Fa domanda per ottenere un posto di lavapiatti in un mensa del Fondo letterario e non lo ottiene. Domenica 31 agosto 1941 rimasta sola a casa, sale su una sedia e si impicca a una trave. Ha 49 anni. Lascia un biglietto d'addio e d'amore profondo: per Mur che la disprezzava per la sua sciatteria e perché la sua reputazione lo penalizzava; per il marito che a insaputa di lei era già stato fucilato; per Alja che dopo sei anni di gulag trascurerà il suo spiccato talento di pittrice per dedicarsi alla memoria e agli scritti della mamma.
L'epitaffio era già stato scritto, autografo, il 3 maggio 1913 a 20 anni. Immaginandosi sottoterra si rivolge a un passante: «... Leggi — di ranuncoli/ e papaveri colto un mazzetto —/ che io mi chiamavo Marina/ e quanti anni avevo... Solo non stare così tetro,/ la testa china sul petto./ Con leggerezza pensami,/ con leggerezza dimenticami».

Corriere della Sera 21.2.12
Tutti gli Stati limitarono l'immigrazione ebraica
di Paolo Milei


In principio furono gli assiri, repressori di intere popolazioni nell'età antica. Ma anche Roma fece la sua parte nel disperdere popoli, ad esempio dopo la distruzione di Cartagine (146 a.C.) e a conclusione della guerra giudaica (70 d.C.). Espulsioni di comunità ebraiche si ebbero dall'Inghilterra nel 1290, dalla Francia nel 1306, nel 1322 e nel 1394, dal Portogallo tra il 1496 e il 1507. La più consistente fu quella dalla Spagna (e dall'Italia meridionale) nel 1492: 40 mila ebrei rifiutarono di convertirsi al cattolicesimo, furono costretti a vendere le loro proprietà e dovettero abbandonare la loro terra. Stessa sorte toccò agli islamici: all'inizio del XVII secolo, Filippo III di Spagna ordinò l'espulsione dei moriscos, discendenti dei musulmani costretti a farsi cattolici al momento della reconquista, conclusasi nel 1492 con la distruzione dell'emirato di Granada da parte di Ferdinando il cattolico; tra il 1609 e il 1614 quasi 300 mila persone (più o meno il 4 per cento dell'intera popolazione) furono obbligate a lasciare la Spagna per trasferirsi in Africa settentrionale.
Nel 1633 60 mila puritani inglesi, nel timore di essere perseguitati allorché William Laud divenne arcivescovo di Canterbury, emigrarono in America. Nel 1685 200 mila ugonotti fuggirono dalla Francia di Luigi XIV dopo la revoca dell'editto di Nantes con il quale, 87 anni prima Enrico IV aveva concesso la libertà religiosa. Trasferimenti tragici che coinvolsero decine, centinaia di migliaia di persone. Ma quello che va dalla guerra di Crimea alla morte di Stalin (1853-1953) è stato un secolo sotto questo profilo davvero eccezionale. Un secolo caratterizzato dallo spostamento non volontario di milioni di essere umani: 30 per l'esattezza. Il più grande esodo coatto della storia europea. Anzi della storia di tutta l'umanità, scrivono Antonio Ferrara e Niccolò Pianciola nell'assai interessante L'età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953 che il Mulino si accinge a mandare in libreria.
La maggior parte dei trasferimenti di popoli — secondo due studi editi di recente: La politica dell'odio. La pulizia etnica nell'Europa contemporanea di Norman M. Naimark (Laterza) e Il lato oscuro della democrazia. Alle radici della violenza etnica di Michael Mann (Egea) — si concentrò nel periodo di crisi iniziato con le guerre balcaniche e terminato otto anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale con la morte del dittatore georgiano. Tra la guerra di Crimea e le guerre balcaniche (1853-1913) le migrazioni forzate coinvolsero circa un milione e 200 mila persone; durante il primo conflitto mondiale e nei tempi immediatamente successivi (1914-1923) furono deportati o espulsi circa sette milioni e 300 mila individui; nel periodo tra le due guerre in Unione Sovietica furono «spostati» due milioni e 600 mila esseri umani; che in epoche successive, quelle del secondo conflitto mondiale, crebbero, in tutta Europa, a 20 milioni per via del progetto imperiale nazista, delle deportazioni sovietiche subito prima, durante e subito dopo la guerra, degli scambi di popolazione tra gli Stati satellite della Germania e delle politiche contro le popolazioni tedesche successive alla sconfitta hitleriana. Si è trattato in molti casi di vera e propria «chirurgia demografica» (o «demotomia» secondo la recente proposta terminologica di Andrea Graziosi). La parte principale dell'«età delle migrazioni forzate» in Europa è concentrata tra le guerre balcaniche (1912-1913) e il consolidamento del potere sovietico nei territori conquistati con il secondo conflitto mondiale. La stagione, per intenderci, che fa da sfondo a Tutto scorre… di Vasilij Grossman (Adelphi). Non va inclusa, invece, nella categoria delle migrazioni forzate la massiccia emigrazione ebraica dall'Impero russo tra il 1881 e la prima guerra mondiale — quasi due milioni di persone, il 78,6 per cento dei quali si diresse verso gli Stati Uniti — nonostante fosse causata «in non piccola misura da pogrom e discriminazioni» e nonostante «fosse vista con soddisfazione da parti importanti dell'amministrazione zarista, soprattutto dal ministero degli Interni», e «agli israeliti fosse fatto divieto, una volta usciti, di tornare in Russia».
Va poi notato come i casi di migrazione forzata si siano verificati soprattutto «in Stati retti da regimi in senso lato rivoluzionari, spesso emersi da conflitti bellici, intenti a rimuovere gruppi di popolazione percepiti come ostili». In alcuni casi «le motivazioni furono dettate da una volontà di vendetta, cercata collettivamente contro intere categorie etniche e/o sociali, in nome di passate oppressioni come avvenne in particolare nell'Europa centro-orientale dopo il 1945 nei confronti delle popolazioni tedesche dell'Est». Regimi «nati da rivolgimenti interni e da conflitti esterni, dunque bisognosi di legittimazione, e, quasi per definizione, insicuri». La radicalizzazione delle misure violente contro intere categorie di popolazione da parte delle autorità ottomane durante la Prima guerra mondiale, ha scritto Donald Bloxham in Il grande gioco del genocidio. Imperialismo, nazionalismo e lo sterminio degli armeni ottomani (Utet), «è il caso più emblematico di violenza mossa soprattutto da una percezione soggettiva di insicurezza».
Ferrara e Pianciola osservano a questo punto che «sotto l'influenza delle guerre di secessione jugoslave degli anni Novanta del Novecento la categoria di "pulizia etnica" è stata estesa a indicare in modo quasi indifferenziato tutti i casi di migrazione forzata in epoca contemporanea costruendo un continuum che procederebbe almeno dall'esodo dei musulmani balcanici nel corso dell'Ottocento». Lo ha notato Christian Gerlach: i trasferimenti di masse di popolazione sono stati chiamati «etnici» in misura crescente, all'interno di una generale «etnicizzazione della Storia» delineatasi negli ultimi due decenni. Così va a finire che l'analisi delle «migrazioni forzate» tende a rientrare nell'ambito dei cosiddetti genocide studies proprio per la contiguità dei concetti di pulizia etnica e di genocidio.
È stato Norman Naimark, nel libro citato all'inizio, a sottolineare come sia difficile porre un confine tra le due categorie, pulizia etnica e genocidio: «All'atto pratico, la prima sfocia di fatto nel secondo allorché per liberare il territorio da una data popolazione si ricorre all'omicidio di massa… Anche quando la deportazione forzata non ha intenti genocidi, spesso lo diventa di fatto». E quando gli intenti genocidi sono presenti, si combinano spesso a misure di deportazione: sia nel caso dello sterminio armeno sia in quello ebraico le misure iniziali furono di deportazione e concentrazione in aree delimitate del territorio sotto controllo ottomano e nazista, «sebbene nel caso armeno le misure di deportazione fin da subito coprissero lo sterminio, mentre la popolazione ebraica dell'Europa nazista fu invece inizialmente concentrata in ghetti della Polonia occupata». Inoltre, come ha ricordato Michael Mann nell'altro libro citato all'inizio, «nella maggior parte dei casi di sterminio i perpetratori non arrivarono alle pratiche genocide partendo da un piano prestabilito in anticipo, ma tramite la successiva radicalizzazione di misure che comprendevano anche politiche di migrazione forzata».
Proprio Michael Mann ha stabilito la «modernità» della «pulizia etnica», definendola «il lato oscuro della democrazia». In che senso? «La democrazia», scrive Mann, «contiene in sé la possibilità che la maggioranza possa tiranneggiare le minoranze, e questa possibilità provoca le conseguenze più sinistre in determinati tipi di ambienti multietnici… La pulizia etnica omicida è un rischio connaturato all'età della democrazia, perché in condizioni di multietnicità l'ideale del potere del popolo iniziò a intrecciare il demos con l'ethnos dominante, generando concetti organici di nazione e di Stato che incoraggiarono l'eliminazione delle minoranze». E qui i due autori si soffermano su un libro di Amedeo Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell'Italia musulmana (Laterza), che si occupa della deportazione (da parte dello svevo Federico II) di migliaia di islamici siciliani a Lucera in Puglia, tra il 1222 e il 1243. Per oltre cinquant'anni i 40 mila musulmani di Lucera, sia pure in condizioni di lavoro servili, furono liberi di professare la propria fede. Finché nell'agosto del 1300 Carlo II d'Angiò eliminò quell'enclave di seguaci di Maometto. Feniello definisce pulizia etnica sia l'iniziativa di Federico II che quella di Carlo II. Ferrara e Pianciola gli replicano bollando quella definizione come «anacronistica».
Altra importante questione è quella della decisione dei trasferimenti. Rogers Brubaker, in Cittadinanza e nazionalità in Francia e Germania (Il Mulino) sostiene ad esempio che l'uso della categoria di migrazione forzata per definire l'esodo tedesco e ungherese dopo la Prima guerra mondiale è «improprio, dato che una forte componente di volontarietà fu presente in entrambe le migrazioni». Perciò l'emigrazione tedesca e ungherese di quegli anni va collocata nella categoria di «esodo», un esito in cui la componente della decisione da parte di chi si trasferiva fu molto importante, anche se è doveroso tenere conto del ruolo giocato dalle violenze e dal clima di paura provocato da chi incoraggiò quei popoli a «decidere» di abbandonare la loro terra.
Ma torniamo al secolo nero delle migrazioni forzate. La stagione più tragica iniziò a seguito dei patti Molotov-Ribbentrop dell'agosto-settembre 1939, che sancirono la spartizione della Polonia e di altre terre dell'Europa centrale tra Germania e Unione Sovietica e diedero il via alla Seconda guerra mondiale. Il primo trasferimento coatto di popolazione fu quello dei polacchi, ebrei e non, in fuga dall'avanzata tedesca: tra coloro che abbandonarono precipitosamente Varsavia nel settembre del 1939 vi furono Menachem Begin (futuro capo del governo di Israele) e la famiglia dell'allora sedicenne Wojciech Jaruzelski (futuro presidente della Polonia). Entrambi si rifugiarono in Lituania, dove affluirono anche decine di migliaia di profughi provenienti dalle regioni sotto l'occupazione sovietica. Ma a ridosso dell'annessione dei tre Stati baltici all'Urss (nell'estate del 1940) vi fu una fuga verso i territori occupati da Hitler della popolazione di lingua tedesca di Lituania, Estonia e Lettonia (tra cui molti lituani non tedeschi desiderosi di sottrarsi all'esercito di Stalin) che ricordava con orrore la dominazione russa di due decenni prima. Dominazione i cui caratteri si riproducevano adesso nei termini ancor più accentuati efficacemente descritti nel libro, edito dal Mulino, che Victor Zaslavsky ha dedicato al massacro di Katyn (Pulizia di classe).
In molte occasioni, scrivono Ferrara e Pianciola, «destini e comportamenti, individuali e collettivi, furono notevolmente influenzati dal ricordo di eventi verificatisi ai tempi della generazione precedente, durante la Prima guerra mondiale e ancor più nel corso delle successive guerre di confine». I veterani di queste ultime furono tra le prime vittime delle deportazioni sovietiche da Ucraina e Bielorussia occidentale, mentre i nazisti si accanirono in particolare su quanti avevano combattuto, nel 1918-1921, contro la Germania. Gran parte dei profughi polacchi che, come Begin e Jaruzelski, avevano cercato riparo in Lituania vennero successivamente deportati in Russia (dove morì il padre di Jaruzelski). Poi fu l'inferno. Nei 21 mesi in cui si ritrovarono alleati, fanno notare Ferrara e Pianciola, «i regimi nazista e sovietico furono corresponsabili della migrazione forzata di oltre un milione di persone, nonché della morte di altre decine di migliaia; molti di questi decessi furono strettamente connessi alle migrazioni forzate in questione e talvolta dovuti a esse, come nel caso di coloro che morirono di fame, freddo e abbandono durante le deportazioni dal territorio polacco prebellico». Il verificarsi di migrazioni forzate «a catena», proseguono i due autori del libro, «fece sì che le stesse persone potessero rivestire più ruoli nel medesimo dramma, spesso nel giro di pochi mesi, passando da vittime a beneficiati da politiche di espulsione e spoliazione attuate da regimi diversi a danno di popolazioni diverse». Molti però furono, invece, vittime di entrambi i regimi, come accadde ai rifugiati ebrei e polacchi sfuggiti all'occupazione nazista e poi deportati dai sovietici. Malgrado la diversità degli obiettivi perseguiti e dei criteri usati per l'individuazione delle proprie vittime, «i due regimi usarono metodi simili per perseguitare categorie di persone analoghe, tanto che alcune famiglie furono colpite in maniera crudele da entrambi».
Un capitolo a sé è quello che concerne gli ebrei. Perché non fuggirono in massa dall'Europa che veniva inghiottita in quel gorgo? Riprendendo la tesi approfondita da Saul Friedländer in Gli anni dello sterminio. La Germania nazista e gli ebrei 1939-1945 (Garzanti), i due storici descrivono l'abbaglio provocato dal fatto che, al momento dell'aggressione hitleriana, «mentre le élite polacche venivano sterminate per evitare che incitassero alla ribellione, quelle ebraiche furono lasciate al proprio posto perché garantissero la loro sottomissione». Lo stesso Reinhard Heydrich, nelle istruzioni riservate emanate il 21 settembre 1939, raccomandò di scegliere tra i loro componenti i consigli ebraici responsabili dell'esecuzione delle direttive tedesche. L'emigrazione in Palestina era resa poi quasi impossibile dalle disposizioni britanniche del maggio 1939. Ad un tempo Stati Uniti, Cile e Brasile chiusero le porte ai rifugiati nel timore che agenti nemici potessero attraversare i confini camuffati da profughi ebrei. Dopo il 1939 furono quindi non più di 13 mila gli ebrei che riuscirono a lasciare il Reich e il protettorato di Boemia e Moravia diretti («illegalmente, ma con l'accordo delle autorità naziste») verso la Palestina; ancor meno quelli che effettivamente vi giunsero. In Europa non c'era scampo. Coloro che, come Hannah Arendt e Arthur Koestler, avevano lasciato la Germania già nel 1933, nel 1940, al momento in cui cadde la Francia, finirono rispettivamente nei campi di internamento di Gurs e Le Vernet. Nel giugno del 1940 le autorità sovietiche deportarono in Russia i rifugiati provenienti dalla Polonia sotto occupazione nazista che, nel timore di non poter più raggiungere le proprie famiglie rimaste a ovest, avevano rifiutato il passaporto sovietico. Quattro quinti di loro erano ebrei «che si trovarono quindi a essere vittime non solo dei nazisti che li avevano costretti a lasciare le loro case, ma anche dei sovietici che li inviarono in "insediamenti speciali" in Russia e Asia centrale». Molti perirono durante il tragitto, ma altri in questo modo ebbero salva la vita. Talché si può affermare con tutta tranquillità che «in termini sia relativi che assoluti, nel 1939-1941 vennero deportati più ebrei dai sovietici che dai nazisti». Ma mentre per i non ebrei queste deportazioni furono «una tragedia pura e semplice», per un gran numero di israeliti l'invio in Siberia o in Asia centrale «rappresentò paradossalmente la salvezza».
Il peggio però doveva ancora venire. Al momento in cui la Germania si arrese, nel maggio del 1945, «decine di milioni di europei erano stati trascinati lontano dalle loro case dagli spostamenti forzati di popolazione che avevano avuto luogo durante la guerra». Mentre la maggior parte dei profughi — da quel momento definiti displaced persons — provenienti dall'Europa occidentale venne rimpatriata entro la fine di quello stesso 1945, per coloro che provenivano dall'Europa centrale e orientale le cose andarono molto diversamente e per molti («in particolare gli ebrei») il rimpatrio «tardò o non si verificò affatto». Si calcola che «alla fine della Seconda guerra mondiale ci fossero in Europa quasi quaranta milioni di persone sradicate dalla propria terra natale, esclusi i lavoratori non tedeschi impiegati in Germania e i tedeschi che fuggivano dinanzi all'avanzare dell'Armata rossa». Circa 12 milioni di tedeschi furono espulsi dalle regioni della Germania annesse alla Polonia e dall'Urss, dalla Cecoslovacchia e dalle zone dell'Europa orientale dove essi si erano stabiliti da tempo, mentre gli eserciti alleati vittoriosi trovarono in Germania oltre 11 milioni di deportati di varie nazionalità. Approssimativamente, dunque, «circa sessanta milioni di europei furono coinvolti nelle migrazioni forzate causate direttamente o indirettamente dalla Seconda guerra mondiale; per un numero sostanziale di essi lo spostamento fu definitivo ed ebbe conseguenze sul lungo termine».
Qui sono gli autori a usare la definizione di «pulizia etnica» per definire le nuove politiche di punizione collettiva delle popolazioni tedesche (o semplicemente di lingua tedesca) accusate in blocco di aver fatto da quinta colonna degli occupanti. I tedeschi vennero spostati in massa talvolta con la scusa di salvarli dall'ira dei polacchi e dei cecoslovacchi, pretesti non diversi da quelli con cui il governo sovietico aveva giustificato le decisioni di deportare i tedeschi del Volga, nonché i ceceni e i tartari della Crimea. Furono evacuati insediamenti tedeschi dall'Ucraina meridionale e dal Caucaso settentrionale, alcuni dei quali risalivano all'epoca della zarina Caterina II e l'esodo coinvolse 350 mila persone. Fece eccezione la Romania, che non espulse i tedeschi, ma li discriminò pesantemente impedendo loro di avvalersi della riforma agraria del 1945. Nella Germania liberata da parte dell'Armata rossa si ebbero un milione di stupri, di cui centomila nella sola Berlino. Cinque milioni di tedeschi, forse più, furono costretti a fuggire dalle loro case (Guido Knopp, Tedeschi in fuga, edito da Corbaccio). Molti tentarono di salvarsi sulle imbarcazioni che salpavano dai porti sul mar Baltico. Ma, su un totale di 790 vascelli, la marina sovietica ne affondò oltre duecento. Quindicimila furono le vittime dei naufragi di due di quelle imbarcazioni: «Goya» e «Wilhelm Gustloff» (di cui parla Günter Grass in Il passo del gambero, pubblicato da Einaudi), i due più gravi disastri navali della storia. Inoltre la maggior parte dei 400 mila tedeschi che persero la vita nel corso dell'esodo dai territori poi assegnati alla Polonia, secondo Helga Schneider (L'usignolo dei Linke, Adelphi), morirono nei campi di lavoro polacchi e sovietici. Dalla Pomerania furono espulsi 300 mila tedeschi e le deportazioni furono accompagnate da ogni sorta di brutalità contro i civili (rapine, stupri, omicidi). 200 mila vennero cacciati dalla Bassa Slesia nel corso della cosiddetta «operazione rondine». In Cecoslovacchia l'epurazione postbellica fu selvaggia: «Non sembra però giustificato», scrivono gli autori, «interpretare le violenze dell'estate del 1945 unicamente in termini di eccessi: l'anarchia e il caos che le resero possibili erano stati propiziati dallo stesso governo ceco, che almeno in un primo momento le considerò uno strumento utile per terrorizzare i tedeschi e spingerli a fuggire, e che incitò la popolazione a vendicarsi per le brutalità subite durante l'occupazione». Diverso il caso dell'Ungheria: «Non è improbabile che lo scarso entusiasmo ungherese per l'espulsione dei tedeschi sia dipeso dalla volontà di non legittimare misure analoghe contro le minoranze magiare residenti al di là dei confini nazionali».
Chi continuò a subire torti — sia pure non della natura di quelli fin qui descritti — furono gli ebrei. La ricostruzione postbellica di Vilnius implicò l'abbattimento della grande sinagoga cinquecentesca, «parte di un più ampio sforzo di rimozione delle tracce del passato polacco ed ebraico dalla "nuova" città lituana e socialista». La vecchia sinagoga di Breslavia, distrutta durante la «notte dei cristalli» nel 1938, non venne ricostruita. Le pietre tombali ebraiche furono usate come materiale da costruzione o pavimentazione stradale. Il governo polacco si impadronì di quanto era appartenuto ai tedeschi residenti sul suolo prebellico, nazionalizzò tutta l'economia delle «terre riconquistate» e si appropriò dei beni già confiscati dagli occupanti nazisti inclusi quelli appartenuti agli ebrei vittime della Shoah. Negli Stati Uniti dovette intervenire lo stesso presidente Truman a segnalare i tratti discriminatori nei confronti degli ebrei (ma anche dei cattolici) del Displaced Persons Act varato nel 1948. Gli ebrei tedeschi, austriaci e ungheresi, pur reduci da ogni sorta di vessazione, venivano trattati come «ex nemici» alla stregua dei loro connazionali.
Tutto ciò mentre si avevano nuove violenze antisemite nei Paesi entrati nell'orbita sovietica: soprattutto in Polonia (fu atroce il pogrom di Kielce del luglio 1946), Slovacchia, Ungheria. Gli Stati Uniti fino al luglio del 1947 concessero il visto solo a 15 mila ebrei. Il Canada a ottomila (su 65 mila profughi accettati). E dei 69 mila che si diressero verso la Palestina 52 mila furono bloccati dalle autorità britanniche e internati a Cipro. Solo dopo il maggio del '48, quando nacque lo Stato di Israele, gli ebrei ebbero un posto sicuro in cui rifugiarsi: quello fu l'unico Stato a non fare discriminazioni nei confronti degli israeliti che lasciavano l'Europa dopo la Shoah. L'unico.

il Fatto 21.2.12
Dulbecco: scienza e sentimenti
di Riccardo Chiaberge


Non era un tipo facile alla commozione, il professor Dulbecco (premio Nobel per la medicina 1975, morto ieri in California all’età di 98 anni). Ma quella volta che mi raccontò la sua prima traversata dell’Atlantico, aveva gli occhi lucidi. Autunno del 1947: lui, medico trentatreenne, scampato alla guerra di Russia, accetta l’invito di un genio italiano emigrato negli States, Salvador Luria, che lo vuole con sé nel laboratorio di genetica a Bloomington, Indiana. E chi ci incontra, su quella nave? Rita Levi Montalcini, compagna di università a Torino. Sembra un film di Tornatore: “Furono giorni bellissimi – ricordava Dulbecco. – Rita ed io, a camminare su e giù per il ponte, guardando l’oceano e discutendo di quello che avremmo fatto in America. Eravamo pieni di speranze”.
Due futuri Nobel in fuga dal-l’Italia del dopoguerra, che ai giovani di talento non offriva altra prospettiva che portare la borsa al solito barone. Non che poi le cose siano cambiate granché, come ha potuto constatare lo stesso Dulbecco, tornando in patria in tarda età per restituire una patina di prestigio ai nostri scalcagnati istituti di ricerca.
IN QUELL’ESTATE del 1987, il progetto Genoma stava muovendo i primi passi, e il professore era stato incaricato di seguirne il ramo italiano: una colossale impresa scientifica, che avrebbe dovuto condurre alla decifrazione completa del codice ereditario. Dulbecco aveva accolto con entusiasmo la mia idea di scriverci un libro insieme. Dopo quarant’anni di America il suo italiano era un po’ zoppicante, e anche se spiegare la genetica molecolare a un asino laureato in legge era impresa titanica, pensò valesse la pena provarci. Passavamo giornate intere assieme, sul terrazzo della sua villa di La Jolla, a picco sulle scogliere del Pacifico. Con infinita pazienza, senza mai abbandonare quel suo tono misurato e gentile, mi parlava di Dna, di nucleotidi e di virus, di basi e di cellule, di ribosomi e di sequenziamento. Insieme, costruivamo scenari alla Huxley, con genetisti-tiranni intenti a fabbricare eserciti di replicanti. E insieme li smontavamo pezzo per pezzo, dimostrandone l’assurdità. Ai piedi del professore, la cagna Tibo sonnecchiava, incurante di quei deliri post-umani.
Dulbecco era un gentiluomo ottocentesco, non gli piaceva l’avidità di certi suoi colleghi. Al premio Nobel, che divise nel 1975 con David Baltimore e Howard Temin “per le sue scoperte in materia di interazione tra virus tumorali e materiale genetico della cellule” (i cosiddetti “oncogeni”, che hanno rivoluzionato la ricerca sul cancro), ci era arrivato senza scorciatoie e senza clamori, in anni di duro, silenzioso lavoro tra Pasadena, Glasgow e il Salk Institute di La Jolla. Ma era abbastanza pragmatista da dare il giusto valore al denaro. L’esperienza negli States gli aveva insegnato che senza sporcarsi le mani con Big Pharma è impossibile far avanzare la conoscenza e trovare nuove molecole per ridurre la sofferenza degli uomini. Di una delle sue rare sfuriate fu vittima nel 1997, Vincenzo Visco, ministro dell’economia del governo Prodi, reo di nicchiare sulla detraibilità fiscale dei contributi alla ricerca: “In questo modo – si sfogò con me il premio Nobel – il governo esprime quasi una disapprovazione verso la ricerca scientifica. Come se dicesse ai cittadini che questi soldi non vale la pena di spenderli”. Gli obiettai: ma supponiamo che un’impresa multinazionale impianti in Italia un centro di ricerca e poi pretenda di non pagare una lira di tasse. Le sembra giusto? E lui, senza pensarci un momento: “È proprio quello che ci serve. Ma non vede quanti laboratori chiudono i battenti? E questo mentre in tutto il mondo la rivoluzione biotecnologica marcia sui capitali privati, e il fisco fa ponti d’oro”. Ma Dulbecco era anche un ligure scettico e incline all’understatement, uno che invitava a diffidare tanto degli spauracchi degli antiscientisti quanto delle promesse mirabolanti dei mercanti di geni.
NELLA PRIMAVERA del 1995, mentre il parlamento europeo vota contro la brevettabilità dei prodotti biotecnologici (con gran gioia dei verdi nostrani e delle multinazionali americane) Dulbecco esce con un libro sul futuro della genetica dove immagina una coppia dell’anno 2025 che vuole a ogni costo un figlio su misura. E per ottenerlo va da un ginecologo di grido, tale professor Yessir (Sissignore). Solo che Dulbecco-Yessir, invece delle provette, suggerisce ai due una ricetta più tradizionale: amore, assistenza medica, alimentazione corretta, buone scuole e buone università. E conclude: “Guardate al domani con occhio sereno. Non bisogna preoccuparsi... e neanche aspettare che la scienza provveda a tutto per noi”.
Nel 1999, molti storsero il naso nel vederlo sul palcoscenico del Festival di Sanremo accanto a Fazio e Laetitia Casta. Ma era anche questo, per l’italoamericano Dulbecco, un modo come un altro per servire la causa, in un paese da sempre refrattario alla scienza. In fondo, meglio lui di chi, da quello stesso palco, predica i benefici della decrescita (salvo quella del proprio cachet).

Repubblica 21.2.12
Un grande esempio di studioso del terzo millennio
Il pacifista che ha cambiato la medicina
di Umberto Veronesi


La sua rivoluzione nacque dagli studi sul Dna che aiutarono la lotta ai tumori. Nel 1986 diede vita al programma mondiale per il sequenziamento del genoma umano, che porta il suo nome

«Ciò che mi dispiace profondamente è toccare con mano l´immobilismo di un´Italia che sembra non curarsi della ricerca scientifica, esattamente come nel dopoguerra. Oggi mi fa male vedere che, dopo oltre 60 anni, la situazione di crisi della ricerca scientifica in Italia non è cambiata, anzi. L´Italia rischia, molto più che negli ´50, di rimanere esclusa definitivamente dal gruppo di Paesi che concorrono al progresso scientifico e civile». Così mi scrisse Renato Dulbecco dagli Stati Uniti, nel 2008 , e mi piace considerare queste sue parole quasi un lascito di pensiero, perché la sua lunga lettera si conclude con la lucida speranza dell´uomo di scienza che era «io non ho la ricetta per salvare la ricerca italiana, ma proprio come "emigrato della ricerca" posso dire che i modelli ci sono, anche vicino ai nostri confini. Basterebbe iniziare a riflettere».
Renato Dulbecco passerà alla storia come protagonista dell´era del DNA, che ha rivoluzionato non solo la medicina, ma la concezione stessa della posizione dell´uomo nell´universo. Ricevette il Premio Nobel nel 1975 per i suoi studi su virus oncogeni e Dna, e nel 1986 diede vita al programma mondiale per il sequenziamento del genoma umano, che porta il suo nome. Io lo considero anche il modello della figura dell´uomo di scienza del terzo millennio, che non può evitare di essere impegnato civilmente, perché il pensiero scientifico è un modo di essere, di vivere, e soprattutto di guardare al futuro. Per me anche un amico al mio fianco in molti progetti importanti della mia vita. Quando agli inizi degli anni ´90 fondai l´Istituto Europeo di Oncologia, pensai subito a lui per l´International Advisory Board, e da allora fu sempre molto vicino alla ricerca dello Ieo. Quando poi nel 2003 ho dato vita alla mia Fondazione per il Progresso delle Scienze è stato il primo ad aderire e, prima da Lugano e poi da La Jolla, ha partecipato a distanza a tutte le nostre iniziative: «Umberto non chiedermi più di viaggiare, ora resto qui , ma con il pensiero sono con te».
La nostra amicizia ci faceva discutere: Renato credente, io laico, ma entrambi innamorati della scienza. La fede, per Renato, riguardava la sfera delle sue convinzioni personali, che non ha mai cercato di imporre a chi invece, la fede, non ce l´ha. Era paladino della libertà di pensiero e di ricerca scientifica, i cui risultati ognuno poteva applicare (o non applicare) in base alle proprie convinzioni. Infatti quando nel 2000 divenni Ministro della Sanità lo chiamai a presiedere una Commissione, composta da scienziati (anche cattolici), giuristi, filosofi e bioeticisti, per fornire un orientamento in materia di cellule staminali. La Commissione propose la soluzione chiamata Tnsa che poteva conciliare progresso scientifico e problemi etici. La metodica consiste nel prelevare un ovulo femminile, svuotarlo del patrimonio genetico e inserirvi il DNA del paziente che necessita di cure. Si creano così cellule staminali embrionali terapeutiche per il malato. La Tnsa non fu mai applicata in Italia e nessuno diede alcun seguito alle conclusioni della Commissione Dulbecco. Ma Renato, profondamente italiano, era come me cosciente che il nostro Paese ha sempre avuto un problema di cultura, e quindi continuò con me, e con chi chiunque avesse a cuore il progresso scientifico, a impegnarsi in ogni campo che richiedesse un cambiamento culturale.
È stato con noi per ricreare in Italia una comunità scientifica internazionale e per mobilitare la scienza nella tutela dei diritti umani. Così mi scrisse quando aderì al movimento Science for Peace. «Sono uno scienziato che ha vissuto la guerra e sono stato testimone della sua insensata e sanguinosa sofferenza. Ciò che è cruciale nelle relazioni umane è il dialogo. Se tutto il denaro e l´energia oggi impiegate nei conflitti armati fossero re-incanalate nel salvare l´umanità, potremmo vivere in un mondo davvero diverso. Gli scienziati da soli non possono portare la pace nel mondo, ma impegnandosi in prima persona e orientando altri verso questo obiettivo, possiamo sperare di avere successo».

Repubblica 21.2.12
Le macchine intelligenti padrone della nostra vita
di Maurizio Ricci


A guidare le nostre vite ormai sono le intelligenze artificiali. Cose e persone finiscono in un mondo virtuale. E anche l´economia diventa digitale
È la prima vera rivoluzione dopo quella industriale. Tanto che due terzi della crescita della produttività Usa è dovuta alle intelligenze artificiali Oggi la finanza funziona via computer, l´economia è virtuale e i lavoratori sono sostituiti dai robot
Venti anni fa in aeroporto a registrarci era una signorina. Ora basta un microchip
Quando una card viene infilata in una macchinetta inizia una cyber-conversazione
L´occupazione è stata tagliata per la meccanizzazione e la gente lavora nei servizi

È un normale lunedì di febbraio e, alla borsa del petrolio di New York, mancano una ventina di minuti al momento cruciale del fixing della quotazione di chiusura del barile. Improvvisamente, Globex, la piattaforma elettronica su cui passa il 99 per cento delle transazioni sui futures americani del petrolio, si blocca. Gli schermi degli operatori sono congelati: non si compra e non si vende più nulla. Lo sconcerto dura poco: gli operatori si alzano dalle scrivanie e cominciano a scendere, dai piani superiori, alla vecchia sala di contrattazioni del Nymex. E ricominciano a lavorare. Come ai vecchi tempi. Per un po´, sembra di assistere alla scena finale di "Una poltrona per due", il film di John Landis, con Eddie Murphy e Dan Aykroyd. Foglietti che girano, mani che si alzano con una, due, tre dita levate, qualche strizzata d´occhio.
Ma "Una poltrona per due" è un film del 1983 e, da vent´anni, le borse non funzionano più così. Gli operatori del Nymex si sono, forse, anche divertiti, ma se la stessa cosa fosse accaduta alla borsa del petrolio di Londra, dove la sala contrattazioni, semplicemente, non c´è, il mercato del greggio sarebbe rimasto paralizzato. Perché, oggi, la finanza funziona via computer. Il terminale registra i prezzi che circolano sul server e compra o vende, quando il prezzo corrisponde a quello che, secondo le equazioni che ha incorporate, può dare un profitto. A questo punto, propone l´affare al terminale corrispondente. Questo, se sta bene alle sue equazioni, accetta. I due segnalano la transazione al server della borsa, che provvede a registrarla.
I server delle due aziende digeriscono il mutamento di portafoglio, altri server calcolano il flusso di denaro in entrata o in uscita e un altro server ancora, se ci fosse la Tobin tax, si preoccuperebbe anche di computare e pagare la tassa. Tutto nel giro di nanosecondi, troppo veloce per l´essere umano.
Ci stanno tagliando fuori? Dai benevoli automi di Asimov ("Io, robot") all´inquietante Hal di Kubrick ("Odissea nello spazio"), fino al perfido Virax del recentissimo thriller di Robert Harris ("L´indice della paura") che agisce proprio nel mondo degli hedge funds e della finanza, non è un incubo nuovo. Ma il quesito su chi dominerà il mondo possiamo lasciarlo, per ora, alla fantascienza. Il punto è capire se quello a cui stiamo assistendo - un po´ dandolo per scontato, un po´ senza valutarlo appieno - sia quella profonda rivoluzione dell´economia, che un guru delle tecnologia, William Brian Arthur paragona al boom delle ferrovie che, nella seconda metà dell´800, proiettò gli Stati Uniti da modesta economia agricola al rango di massima potenza mondiale. Dalla Rivoluzione Industriale in poi, non è più avvenuto nulla di simile. Perché la finanza d´assalto del "flash trading" è solo un capitolo - e neanche il più importante - della trasformazione in corso.
Vent´anni fa, se entravate in un aeroporto, andavate al banco della compagnia aerea e presentavate il vostro biglietto di carta ad una signorina. Questa vi registrava su un computer, segnalava al server che eravate arrivato, controllava i vostri documenti e prendeva in consegna il bagaglio. Oggi, quando arrivate in aeroporto, cercate una macchinetta. Ci infilate una carta di credito e, nel giro di tre-quattro secondi, vi restituisce carta d´imbarco, ricevuta e l´etichetta per il bagaglio. Tutto questo, naturalmente, lo sapevamo già. Dov´è la svolta, il punto chiave? Il punto chiave, dice Arthur è proprio in quei tre-quattro secondi. Nel momento in cui infilate la carta di credito, scatta una fitta conversazione, che si svolge interamente fra macchine. Una serie di computer, controlla e confronta il vostro nome, lo stato del volo, la vostra storia di viaggi e possibili problemi di sicurezza. Valuta la distribuzione del peso sull´aereo per assegnarvi il posto, decide se avete diritto o meno alla sala Vip, pondera le coincidenze con altri voli e cambia il percorso previsto, se, magari, un volo è stato annullato. È una conversazione fra server che parlano con altri server, che parlano con satelliti, che parlano con computer (magari a Los Angeles, dove state andando, per annunciare che siete in regola con il visto americano), attraverso una batteria di switches e router che convogliano avanti e indietro l´informazione, via via aggiornata. Lo stesso avviene se spedite una merce. Una volta, ci sarebbe stato qualcuno con una lista in mano e la matita dietro l´orecchio, che avrebbe spuntato il collo sul suo elenco, controllato etichette, riempito formulari e anche annunciato per telefono il carico alla destinazione successiva. Oggi uno scanner legge un codice a barre e spedisce il carico automaticamente, controllando depositi e destinazioni.
Di fatto, cose, persone, processi esistenti nell´economia fisica, quella che tocchiamo e abbiamo sott´occhio vengono assunti in una economia virtuale, dove vengono elettronicamente lavorati e processati, fino a che non vengono restituiti all´economia reale. Questa economia digitale non produce nulla di tangibile: non rifà i letti in un albergo, non versa il succo d´arancia nel mio bicchiere, non posa i mattoni di un muro, non monta i fari su un´auto. Ma, osserva Arthur, rappresenta una fetta cospicua dell´economia: aiuta gli architetti a disegnare edifici, controlla vendite e inventari, esegue transazioni e operazioni bancarie, controlla attrezzature, emette fatture, fornisce anche diagnosi cliniche. In un articolo sulla rivista di una grande società di consulenza, la McKinsey, Arthur definisce l´economia digitale, "la seconda economia". "Vasta, silenziosa, connessa, invisibile, autonoma (nel senso che è progettata da esseri umani, che però non la gestiscono direttamente), globale" questa economia è in grado di adattarsi da sola al mutare delle circostanze, di autoorganizzarsi, autostrutturarsi e anche autoaggiustarsi. Il cervello dell´economia è ancora quello umano, ma il sistema nervoso è questa seconda economia digitale. Inseguendo l´evoluzione di Internet, ne abbiamo annotato il passaggio dal p-p (persona a persona), al b-b (azienda ad azienda) al p-b (persona-azienda, l´e-commerce). Ma ci è sfuggito che la trasformazione più profonda era l´m-m: macchina a macchina.
Quanto è grande, quanto pesa la seconda economia? Secondo un altro guru della tecnologia, Yuri Milner, attualmente ci sono nel mondo 2 miliardi di persone connesse a Internet, che diventeranno 5 miliardi nel 2020. Ma le macchine connesse (pc, telefonini, server) connessi sono già oggi 5 miliardi e diventeranno 20 miliardi nel giro di dieci anni. Arthur tenta di calcolare quanto valga tutto questo. Dal 1995, quando decolla il processo di informatizzazione, la produttività del lavoro è cresciuta, negli Usa, del 2,5-3 per cento l´anno. Probabilmente fra i due terzi e il 100 per cento di questa crescita è dovuta proprio all´informatizzazione. Diciamo, dunque, che all´espansione del digitale va ricondotto un aumento del 2,4 per cento della produttività del complesso dell´economia. Un´economia che cresce del 2,4 per cento l´anno, raddoppia in trent´anni: nel 2025, la seconda economia sarà grande come l´economia reale del 1995, pre-digitale.
E´ un calcolo approssimativo e anche assai discutibile. Ma fornisce un´idea dell´ordine di grandezza di cui stiamo parlando: la seconda economia non è solo una marginale aggiunta all´economia reale.
Le conseguenze sono profonde e non tutte piacevoli. Una produttività che cresce del 2,4 per cento può voler dire che, con lo stesso numero di lavoratori, si produce il 2,4 per cento in più. Ma anche che si produce la stessa ricchezza, con il 2,4 per cento di lavoratori in meno. In ogni caso, la variabile sono i posti di lavoro. Non è la prima volta, negli ultimi due secoli, in cui il mondo si è trovato ad affrontare processi simili. La meccanizzazione dell´agricoltura ha tagliato l´occupazione agricola e la gente è andata a lavorare nell´industria. La meccanizzazione dell´industria ha tagliato l´occupazione nell´industria e la gente è andata a lavorare nei servizi. Ma adesso? Fattorini, magazzinieri, contabili, telefoniste, dattilografe sono tutti lavori inghiottiti dalla seconda economia. La società digitale del futuro sarà più prospera ma offrirà meno posti di lavoro. Come Robert Harris fa dire al terribile Virak nello snodo finale de "L´indice della paura": "L´azienda del futuro non avrà lavoratori". O, fuori dalle visioni apocalittiche, molto pochi. A Facebook, sottolinea Milner, ci sono 700 ingegneri per prendersi cura di oltre 750 milioni di utenti. In generale, una grande azienda del mondo di Internet fattura 1 milione di dollari per addetto, quando un´azienda del mondo non virtuale si ferma a 100-200 mila dollari. L´economia digitale sembra suggerire un futuro di pochi ricchi e molti poveri, perché il metodo tradizionale di distribuzione della ricchezza - posti di lavoro e stipendi - si è largamente inceppato. Bisognerà inventarsi qualcos´altro.

Repubblica 21.2.12
Perché quelle "anime nere" non ci soppianteranno mai
di Maurizio Ferraris


Il rischio che un giorno (bello o brutto che sia) le macchine prendano il sopravvento sugli uomini mi sembra remoto, per due motivi. Il primo è, banalmente, che le macchine hanno sempre avuto la prevalenza, giacché la specificità umana si è sempre definita in termini tecnologici. La capacità di fabbricare delle protesi che ne potenziano le risorse naturali è la caratteristica fondamentale dell´essere umano, e ne ha decretato - con tecniche molto antiche, come la clava o la ruota - il successo evolutivo rispetto ad altre specie animali.
Da questo punto di vista poco è cambiato dal paleolitico. Semplicemente, nuove tecniche hanno rimpiazzato altre tecniche, che appaiono a torto come "più naturali". I computer sono venuti dopo le macchine per scrivere, e le macchine per scrivere dopo la carta e la penna, la pergamena, il papiro, che erano a loro volta tecnologia, ed estremamente evoluta, qualcosa di tutt´altro che naturale. Chiunque consideri gli sforzi che i bambini devono fare a scuola per imparare a leggere e scrivere si renderà facilmente conto di non avere a che fare con la natura, ma con una tecnica complessa (che, sia detto di passaggio, si sta parzialmente perdendo, insieme alla capacità di calcolo, per via dei computer). Così, nel momento in cui gli impiegati della borsa di New York si sono messi a lavorare senza computer non sono regrediti allo stato di natura, hanno semplicemente adottato una tecnologia precedente. Un po´ come quando si usano i fiammiferi per accendere il gas, se si è rotto il sistema automatico di accensione, il tutto per beneficiare di una tecnologia che ci riporta alle caverne, e cioè il fuoco.
L´idea che siamo sempre più dipendenti dalla tecnica va dunque precisata. In un senso, è semplicemente falso, visto che le tecniche davvero fondamentali, dal fuoco alla ruota alla scrittura, sono in campo da migliaia di anni. Vero è piuttosto (ma si tratta di un altro paio di maniche) che siamo sempre meno capaci di gestire autonomamente la tecnica: di certo, un´automobile piena di dispositivi elettronici è un arcano per un utente normale, e riparare un computer non è precisamente come rimettere in sesto la catena della bicicletta.
Quello che però a mio avviso è, di nuovo, semplicemente falso, è che la tecnica possa prendere il posto della responsabilità umana. Era un argomento ricorrente nel secolo scorso, quando si parlava delle "imposizioni" della tecnica, ossia del fatto che l´uomo non è più in grado di decidere ed è totalmente condizionato dalla tecnologia che lo circonda. Io non credo affatto che sia così, e ho l´impressione che si trattasse di una forma di deresponsabilizzazione, che metteva in capo alla tecnica le colpe delle guerre tecnologiche o, peggio ancora, degli stermini tecnologici. Era una specie di "eseguivo gli ordini", dove l´anima nera era la macchina. Ma in effetti accade piuttosto il contrario, e cioè che le macchine tendono a responsabilizzarci sempre di più: non è più possibile, come ai bei tempi della posta cartacea, dire che la lettera è andata persa, non è più possibile non rispondere alle chiamate di cui rimane comunque traccia, e questo non manca di accrescere la nostra ansia, il nostro essere febbrili.
Quest´ultimo punto suggerisce il secondo e più fondamentale motivo per cui dubito che le macchine potranno mai soppiantarci. Non ne hanno ragione: non hanno ansia, né responsabilità, non hanno fretta e non si annoiano, non hanno un corpo e non muoiono, ossia non hanno tutto il sistema di bisogni e di dipendenze che caratterizzano l´essere umano. E che lo rendono attivo, irrazionale, e anche bisognoso di controllo, assillato dalla necessità di darsi dei fini in un tempo limitato, pieno di illusioni, di desideri e di paure. Ecco perché mi pare altamente improbabile che venga il giorno in cui i computer, dialogando tra loro, decidano di farci fuori. Chi glielo farebbe fare? Sono più saggi, tranquilli, indifferenti, immuni da quella aspirazione al dominio (che è ovviamente anche bisogno di sicurezza) che è piuttosto la prerogativa di paranoici con corpi umanissimi e tempi contingentati.

Repubblica 21.2.12
"Soli e depressi", e ora alcuni pazienti si affidano ai maghi
di Elvira Naselli
 

La denuncia dell´associazione dei malati: "Molti si sentono emarginati dalla società, e c´è chi, scoraggiato, abbandona le cure"
Il servizio sanitario rimborsa soltanto un paio di topici. Emollienti, shampoo e creme sono a carico dei privati

Che si sentano stigmatizzati è il minimo. I pazienti con psoriasi - circa 2 milioni e mezzo in Italia - provano un disagio profondo. E se la malattia ha colpito, con papule o placche, il viso o le mani, il disagio si aggrava a tal punto da sconfinare nella depressione e, secondo alcuni report, addirittura in propositi suicidi. Del resto, ragiona Enzo Berardesca, direttore del Centro psoriasi del San Gallicano di Roma, non è facile esporsi in costume se si ha il corpo pieno di croste o servire in un ristorante se la malattia ha colpito le mani. O spogliarsi se la malattia ha coinvolto i genitali. E questo perché, secondo l´Adipso (ass. per la difesa degli psoriasici), che ha organizzato un recente convegno a Roma, molte persone temono ancora il contagio, nonostante la malattia sia tutt´altro che trasmissibile. Esiste, invece, una familiarità, anche se non necessariamente i figli di un genitore psoriasico si ammaleranno.
Ed esiste - sempre più frequente - un problema di scarsa aderenza alle terapie. «I pazienti si scoraggiano - racconta Berardesca - perché ogni scelta terapeutica comporta effetti collaterali e perché la psoriasi non passa mai. Migliora con il trattamento ma può ritornare appena lo si sospende. E allora, se il malato ritiene di poterla sopportare preferisce sospendere la cura. Cura che in molti casi è anche costosa: basti pensare che il servizio sanitario rimborsa soltanto un paio di topici e che tutti gli emollienti, shampoo, creme sono a totale carico del paziente. Inoltre non è facile dover mettere una crema ogni sera - in certi casi quasi un tubetto intero - per sei o otto settimane, sporcando lenzuola e indumenti. Per ottenere un miglioramento transitorio». Secondo Adipso inoltre - dopo le vicende giudiziarie che coinvolsero medici del centro Psocare di Firenze accusati di aver prescritto farmaci non previsti dal protocollo curativo - alcuni pazienti hanno scelto di non curarsi più nei luoghi dedicati, preferendo terapie alternative o addirittura maghi. I rinunciatari sono malati anche gravi - ha denunciato Sergio Chimenti, direttore della Clinica dermatologica di Tor Vergata a Roma - che, sospendendo le cure con i farmaci più innovativi, si consegnano ad una qualità molto bassa della vita e a rischi di complicanze».
Psocare, programma di ricerca promosso da Aifa, che negli ultimi sei anni ha garantito la registrazione delle terapie e del follow up dei pazienti, non proseguirà. Questo non vuol dire però che i pazienti non si cureranno più. «Psocare era nata sulla falsariga del progetto Antares in reumatologia con l´obiettivo di monitorare la spesa farmaceutica - racconta Berardesca - ma i centri ci sono ancora e curano i pazienti. E l´Adoi si è fatta carico di mantenere il registro pazienti con il progetto Psodit».