mercoledì 22 febbraio 2012

La Stampa 22.2.12
“Senza intesa il nostro sì non scontato”
Bersani avverte Monti: accordo con le parti sociali. Fornero ottimista

Bonanni: il governo vuole rompere la trattativa, non lo permetteremo Nel partito restano le divisioni. Fassina: andrò alla manifestazione indetta dalla Fiom
di Flavia Amabile


ROMA Alla fine il Pd dovrà scegliere da che parte stare in questa trattativa sulla riforma del lavoro che di giorno in giorno sembra più complicata. Appoggerà Monti contro i lavoratori e i loro rappresentanti oppure per la prima volta da quando si è insediato il governo dei tecnici farà mancare il suo sostegno? La seconda delle due possibilità, ha fatto capire ieri il segretario, Pierluigi Bersani. Il sì del Pd alla riforma del lavoro in Parlamento non sarà scontato in assenza di un accordo, appunto, del governo con le parti sociali.
Per il governo si tratta di un segnale da non sottovalutare, con la Lega all’opposizione il Pd rappresenta una componente essenziale dell’attuale maggioranza. Per il Pd sarebbe invece il punto d’arrivo di un lungo dibattito che da settimane sta dividendo il partito con Walter Veltroni che ha fatto emergere il problema in un’intervista e Bersani che sta provando persino a condurre una sorta di «trattativa parallela» proprio per evitare pericolose spaccature interne.
Di sicuro la trattativa ufficiale è in salita e di sicuro non aiutano a distendere gli animi gli annunci del premier Monti di voler chiudere la partita comunque, anche senza un accordo con le parti sociali. Il leader della Cisl Raffaele Bonanni accusa il governo di voler «rompere la trattativa. Non lo permetteremo e non molleremo il tavolo», assicura. Mentre il numero uno della Cgil Camusso risponde: «Minacciare non serve mai» e, in ogni caso, «noi continuiamo ad insistere che su una materia così complessa è bene fare un accordo con le parti sociali». E, poi, ancora: «Ci dicono che stiamo difendendo il diritto di pochi ma la verità è che la norma dà fastidio perché è una norma deterrente per tutti. Anche per coloro che non ce l’hanno».
Per il governo parla il ministro del Welfare, Elsa Fornero: «Lavoro per un accordo con i sindacati». E, quest’accordo è «possibile», sostiene.
Sarà anche possibile ma si sta organizzando la protesta. Il leader della Fiom Maurizio Landini ha organizzato una manifestazione in piazza il 9 marzo che minaccia di provocare un ulteriore frattura all’interno del Pd. «Vedremo, ma penso che andrò alla manifestazione della Fiom perché i motivi sono giusti», spiega Stefano Fassina, responsabile economia del partito. Una decisione «non in linea» con il sostegno al governo Monti offerto dal Pd, gli risponde Stefano Ceccanti. «La partecipazione è puramente individuale o è stata decisa in qualche organo? - chiede Ceccanti -. Come si può conciliare con sostegno forte e convinto al governo Monti, comprese le materie elencate nella piattaforma che sono quelle centrali nella sua azione? ». Identica la reazione di Marco Meloni: «Basta con le provocazioni, non si può condividere le posizioni della Fiom e allo stesso tempo sostenere il governo».
Lo scontro, insomma, si annuncia molto teso. Fassina ricorda che sull’articolo 18 «il Pd non è spaccato» perché Veltroni rappresenta una minoranza. E Enrico Letta ricorda che «andare avanti a scomuniche e bolle papali distrugge tutto il buono che abbiamo costruito in questi anni». Secondo la parte «montiana» del Pd lasciare l’appoggio al governo al Pdl è un pericolo. «Prendere le distanze da Monti è un autogol - conferma Francesco Boccia -. Fassina deve semplicemente capire che nessuno deve abusare del ruolo che ricopre perché così si fanno danni alla casa comune».
Bersani ha invitato comunque tutti alla «coesione». Parole che vengono sposate anche da Rosi Bindi: «Questo governo ha ricevuto la nostra fiducia per portar il Paese fuori dalla crisi, ma non si può pensare che in questo momento l’Italia possa permettersi di approvare importanti riforme strutturali senza la coesione e la pace sociale». Nel frattempo anche i berlusconiani si stanno organizzando: sull’articolo 18 rinnoveranno in pieno il loro appoggio al governo Monti come ufficializzeranno stamattina in una colazione di lavoro tra il premier e Silvio Berlusconi. ""

l’Unità 22.2.12
Intervista ad Achille Occhetto
«Il rischio è un’alternativa
tra due moderatismi»
Il fondatore del Pds: «Questo governo è nato per salvarci dal default
ma per il dopo serve una svolta, bisogna garantire lavoro e giustizia sociale»
di Maria Zegarelli


È difficile dire oggi quello che succederà dopo il governo Monti. Molto dipenderà innanzitutto dall’esito delle amministrative e dai risultati di questo governo tecnico. Ci sono ancora troppe incognite». Meglio partire, allora, da quello che Achille Occhetto, ultimo segretario del Pci, primo del Pds, vorrebbe che accadesse. Intanto gli piacerebbe che la smettessero di evocare in ogni occasione la battuta che fece alla vigilia delle elezioni del 1994 «sulla gioiosa macchina da guerra». «La dissi scherzando con i giornalisti, era un ossimoro e sinceramente mi stupisce che una persona colta come Enrico Letta la ritiri fuori oggi. Nel 1994 l’errore fu fatto dal Ppi. Io mi battei per fare una coalizione con loro, mentre loro erano convinti di essere ancora al centro della politica, senza rendersi conto che era iniziata la fase bipolare. Poi, io non getto la croce su Martinazzoli come gli ex Dc fanno con me, ma sono convinto che quel loro errore portò Berlusconi al governo. Rispedisco la critica a Letta». Messo a posto Letta, torna al Paese.
Che cosa dovrebbe seguire al governo dei tecnici?
«Sarebbe bene che la politica si riformasse nel profondo. Rimane, purtroppo, ancora come tema centrale quello che fu posto prima che scoppiasse Mani pulite: l’autopurificazione della politica con una netta distinzione tra politica e affari. A differenza di allora oggi questo problema sta investendo tutto l’arco politico italiano ed è diventata una emergenza. Una volta riformata la politica, sarebbe importante, poi, ricreare un’alternativa tra un centrosinistra vero e un centrodestra vero».
Teme uno schiacciamento al centro di tutti gli schieramenti?
«Temo che la politica possa ridursi in un’alternativa fra una destra che piace ai salotti buoni e una destra dei salotti cattivi, ossia un’alternativa fra due moderatismi».
Con a capo un leader né di destra né di sinistra, che per esempio arriva dall’attuale governo?
«In politica non esiste un leader asettico. Un conto è un governo che nasce come è nato quello attuale in un momento in cui si pensava che il Paese fosse ad un passo dal default e quindi ci si è affidati ad una personalità credibile come Monti altro è la politica di lungo corso. E comunque non credo che la proiezione di questa fase sarà neutra, sarà moderata e ancora monetarista, senza facilitare quella svolta necessaria dopo il governo Monti».
Il sindaco Emiliano lancia l’idea di una lista civica nazionale aperta al Terzo Polo per recuperare quella credibilità dei partiti verso l’opinione pubblica che oggi non c’è.
«Non riesco a immaginare questa come una possibilità. Mi preoccupa molto l’impostazione di fondo di questa discussione, fondata sull’ingegneria delle alleanze. Si è partiti con il piede sbagliato perché le alleanze vanno misurate sui contenuti e sui programmi. A mio avviso si dovrebbe passare dalle primarie sui nomi alle primarie sui programmi perché quello che serve è un grande dibattito sui nodi che le forze politiche dovranno sciogliere durante la prossima legislatura». Primarie sui temi caldi? A cosa pensa? «Innanzitutto a lavoro, giustizia sociale, sviluppo e ambiente: un programma che affronti questi temi in modo strettamente legato tra loro, il nucleo centrale di tutte le altre proposte programmatiche. Vogliamo aprire un confronto con i cittadini su tutte quelle politiche di messa in sicurezza del territorio e della riconversione ecologica dell’economia? Credo che aprire una discussione su questo riavvicinerebbe l’opinione pubblica alle forze politiche, anche se è evidente che prima di tutto si deve procedere ad una disinfestazione dell’ambiente politico.
L’altra questione fondamentale resta l’Europa: è stata tradita l’idea di Spinelli e di Delors. Se vogliamo uscire dal duo nefasto Merkel-Sarkozy bisogna fondare un’Europa federale dove è la politica a prendere il posto di comando».
Da quello che dice sembra che la sua attenzione non si sia mai soffermata sulla foto di Vasto. È così?
«La foto di Vasto ha un senso se serve a dimostrare che stavolta non c’è l’intenzione di lasciare fuori dal gioco alcune forze politiche. Ma da sola non basta. Oggi la questione non ruota più intorno alle sigle dei partiti, la gente ha il sospetto che chiunque si presenti, con qualunque formula, ci si trovi sempre di fronte alla stessa acqua pestata nello stesso mortaio. Si deve dimostrare, invece, che entra acqua nuova e che c’è la possibilità di trovare un accordo su alcune idee forti».
Occhetto, altro tema caldo è la legge elettorale. Crede che alla fine si troverà un accordo largamente condiviso? «Sono piuttosto pessimista perché gli accordi elettorali dovrebbero essere fatti sulla base di una valutazione delle condizioni del Paese, prevedendo il massimo di rappresentanza e di partecipazione per facilitare il prosciugamento dell’astensione. Purtroppo credo che i due partiti maggiori si metteranno intorno ad un tavolo per decidere quale sistema elettorale permetta a chi di loro vince di avere il massimo risultato». Come valuta il governo Monti? «Questo è un governo voluto come un esecutivo di liberazione, che ha ridato fiducia al Paese e ha ristabilito un minimo di dignità all’estero. Quindi il ragionamento su cui è nato è stato giusto e il governo è riuscito a fronteggiare lo tsunami mettendo a riparo l’economia italiana, ma non dobbiamo dimenticare che esistono due economie: quella di carta e quella reale. L’offensiva venuta dall’economia di carta è stata fronteggiata a costo di gravi sacrifici che non sono andati di pari passo con l’equità. Oltre al fatto che oggi rimangono sul tavolo tutti i temi dell’economia reale sui quali il governo tecnico non potrà non arrivare ad un compromesso con i partiti e, se ancora esistono un centrodestra e un centrosinistra, allora sarà difficile trovare un accordo chiaro. Prevedo nuove contraddizioni, per questo penso che già oggi si deve aprire il dibattito sul domani». Enrico Letta l’ha chiamata in causa anche per il mancato appoggio al governo Ciampi.
«Mi onoro di essere stato, insieme a Scalfaro, uno degli ideatori del governo Ciampi anche contro una parte rilevante del mio partito. Qui Letta si sbaglia, non abbiamo mai tolto l’appoggio a Ciampi, benché dopo il voto favorevole a Craxi in Parlamento, abbiamo ritirato i nostri ministri».

l’Unità 22.2.12
Socialismo europeo e cattolici
Il confronto dentro il Pd
I rapporti con i progressisti europei. Il ruolo del pensiero cattolico nella cultura democratica. Il futuro del centrosinistra dopo il governo Monti Il dibattito nel Pd è aperto. Oggi gli interventi di Folena, D’Ubaldo e Verducci


L’intervento/1
In Europa un nuovo soggetto dei socialisti e dei democratici
di Pietro Folena


Quello che colpisce della polemica di questi giorni non è la critica all’ipotesi di un partito socialdemocratico classico, che si fa fatica a vedere in campo, ma lo scandalo derivante dal fatto che qualcuno (e sono fra questi) si senta, da democratico, socialista, e sostenga che nel Pd ci si possa dichiarare antiliberisti e critici del pensiero unico di questi anni.
«Il mio avversario non ha volto, non si presenta alle elezioni, ma governa: è la finanza», ha detto François Hollande, che aspira con buone possibilità di successo a diventare Presidente della Francia. Sostenere queste idee, per i critici, vuol dire arroccarsi nel ’900, e non essere moderni. Trovo invece terribilmente datata la posizione di chi ancora subisce il fascino del Mercato come luogo metafisico, in grado se liberato dallo Stato e dal pubblico di rispondere alle sfide terribili di questo tempo. «I santuari intoccabili che hanno bloccato l’Italia», di cui parla Walter Veltroni, per me, sono i poteri finanziari, e quella grande area grigia di rendita che li collega a evasione fiscale, corruzione, mafie. La diseguaglianza, la disperazione sociale, la paura di questo tempo non sono figlie del «conservatorismo» della sinistra, ma di un trentennio di liberismo sfrenato che ha incantato anche la sinistra. Che l’incapacità di rinnovarsi delle socialdemocrazie del 900 abbia lasciato un campo più aperto al modello liberista è vero. Ma la medicina dalla terza via al Neue Mitte ha gravemente peggiorato la situazione.
Oggi, con buona pace dei nostalgici del Lingotto o dei teorici di un «Campo» che prenda il posto dei partiti, il tema della transizione italiana è prima di quale legge elettorale -
quello di sconfiggere leaderismo, personalismo, individualismo che hanno corroso la politica, e costruire partiti, cioè fazioni, raggruppamenti attorno a idee e progetti, capaci di interpretare il nostro tempo. Se il Pd decide, come crede chi ha promosso l’incontro del 5 febbraio a Roma, di integrarsi pienamente nel socialismo europeo, di rappresentare il lavoro nelle sue molteplici forme e connettersi alle grandi forze sociali, non si vede per quale ragione oscura dovrebbe rinunciare a un’identità democratica.
Oggi dal pensiero cristiano sociale, da tanti uomini di Chiesa e dalle culture dei beni comuni vengono punti di vista di critica radicale al liberismo e indicazioni programmatiche innovative per le socialdemocrazie. Perché avere timore della costruzione di un vero soggetto politico europeo, del partito dei socialisti, dei progressisti e, sì, dei democratici europei? Solo una grande forza mossa da valori comuni, critica del liberismo e portatrice di contenuti nuovi può salvare l’Europa e costruire una prospettiva federale.
Non si può far finta di non capire: il tema non è l’identità in astratto di un partito, ma la sua politica. Appoggiare Monti ha voluto dire mettere le basi per salvare l’Italia, farlo con l’autonomia politica e culturale di una grande forza del socialismo e del progressismo europeo vuol dire pensare che la sinistra abbia molto da dire sul futuro dell’Italia. Chi oggi da Eugenio Scalfari al Corriere della Sera pretende un’adesione acritica alle scelte del Governo, ieri a quelle dei mercati e della Bce, pensa che il futuro del Pd debba essere quello di un partito liberale, molto leggero e un po’ molle, con istanze civili progressiste, ma incapace di esprimere una visione redistributiva ed equa, e di costruire coesione sociale, garanzie per i giovani, partecipazione.

L’intervento/2
Parliamo dell’oggi non delle mitologie del Novecento
di Lucio D’Ubaldo


Cattolici e socialisti hanno preso a dialogare, fino a giungere alla collaborazione di governo, molto prima che nascesse il Partito democratico. L’hanno fatto in tempi difficili, già sul finire degli anni Cinquanta, quando il loro dialogo andava incontro alle censure e ai contraccolpi della Guerra fredda.
Al primo centro-sinistra hanno concorso in maniera seria e puntuale le forze intermedie, dai repubblicani ai socialdemocratici, nelle quali si rispecchiava la sensibilità di un'Italia di minoranza e tuttavia orgogliosa di professarsi civile, moderna, europea.
Con i comunisti il rapporto è stato diverso. Anche Moro, stabilendo la necessità della strategia del confronto e poi dei governi di solidarietà nazionale, auspicava la loro uscita dalle gabbie dell'internazionalismo sovietico e dalle residue doppiezze berlingueriane sul partito di lotta e di governo.
Caduto il Muro, il gruppo dirigente comunista ha abbandonato la nave e si è adagiato nella illusione di poter proseguire imbrogliando i tracciati di rotta. Molti degli equivoci che ancora oggi segnano la vita del centrosinistra affondano le radici proprio nella nascosta e irrisolta "questione post-comunista".
Come si sa, l’emergenza antiberlusconiana ha obbligato tutti a stringere sull’essenziale. Tra alti e bassi è cresciuta dunque una prospettiva d’integrazione, tanto da ingenerare la voglia di costruire un partito che non fosse condizionato dall’ingombro di questioni antiche. È strano, perciò, che la discussione torni a inciampare su argomenti considerati esauriti. La Carta dei valori, a rileggerla a distanza di quattro anni dalla fondazione del partito, è il circuito stampato di un progetto che ignora le mitologie politiche del Novecento. La parola socialismo non appare: evidentemente fa parte del passato.
Allora, in Europa? Ecco, in Europa sono presenti partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti. Incarnano tradizioni che puntano a rigenerarsi, per lo più inseguendo un orizzonte di tipo neo-illuminista e radicale. Sono certamente interlocutori privilegiati: nessuno contesta la collaborazione rafforzata che a Bruxelles si traduce nell'appartenenza a un unico gruppo parlamentare.
L'obiezione non consiste nel fare o non fare l'alleanza con i socialisti, poiché quanti provengono dal filone cattolico democratico assumono l'idea del centrosinistra come parametro irrinunciabile di una corretta strategia di governo. Piuttosto il problema sta nel tentativo di trasformare il partito dei riformisti – nuovo per natura e vocazione in un replicante domestico del socialismo europeo.
Questo è il punto di vero contrasto. Infatti la discussione porta in evidenza le difficoltà di un partito che non riesce a fare del riformismo l’ancoraggio a una politica di responsabilità, capace di attrarre un elettorato che pur volendo cambiare rifiuta l’idea di un’alleanza priva di baricentro e senza confini a sinistra.
L’insuccesso nelle grandi città, dove prevalgono sempre più spesso i candidati della sinistra social-radicale, è il segno di una fragilità che nasce da questa incertezza di linea politica. Alla fine stiamo pagando l’errore di un tuffo all’indietro nel modo di costruire e presentare il disegno del nuovo centrosinistra. È peggio se facciamo finta di non capire, rinviando la conversione a ciò che identifica i democratici e i riformisti nel loro farsi “centro” del cambiamento.

L’intervento/3
I riformisti europei uniti per ridare autorità alla politica
di Francesco Verducci


Nel Pd un punto di vista nuovo è nato intorno ad una lettura peculiare della crisi del capitalismo occidentale come portato dell’ideologia neoliberista e neoconservatrice.
Una rottura, esplosa negli Usa con il crack bancario del debito privato e precipitata poi nell’Eurozona con la crisi del debito pubblico, che ha origine nella finanziarizzazione e deregolamentazione dei mercati avvenuta a scapito di economia reale, lavoro, salari, tutele, redistribuzione. È in frantumi lo sviluppo che il patto tra capitale e lavoro aveva fondato su coesione e mobilità sociale, promuovendo la nascita di un vasto ceto medio blocco sociale di riferimento delle forze europeiste.
La gigantesca sproporzione tra pochi con enormi ricchezze materiali e immateriali e moltitudini in condizioni di continua deprivazione, è il vulnus che minaccia le democrazie. Collasso del ceto medio e restringimento della cittadinanza hanno creato i presupposti per parole d’ordine capaci di strumentalizzare paure e risentimenti.
Ovunque si rafforzano movimenti disgregativi, che miscelano populismo e antipolitica, che indirizzano disagio, sfiducia, egoismi sociali contro partiti e istituzioni.
In questo scenario, per i democratici la costruzione statuale e politica dell’Europa è una sfida storica e costitutiva. La crisi segna uno spartiacque. La dottrina di austerità imposta dalle destre sta pesantemente aggravando la spirale recessiva, mettendo a rischio la tenuta dell’Unione. La Grecia e le democrazie sfibrate dell’intera Europa potranno risollevarsi solo con crescita e lotta alle diseguaglianze.
È il terreno di battaglia dei progressisti, e passa dalla riconquista di autorità della politica verso l’economia. E dunque: ruolo sovrano del Parlamento; tassa sulle transazioni finanziarie; Eurobond; riforma Bce.
Riforme possibili se la sinistra europea avrà il coraggio di una propria soggettività, e la capacità di aggregare e mobilitare le energie che la crisi ha stretto all’angolo. Per riscrivere un patto tra economia e società, coagulando una inedita alleanza sociale tra lavoro precario e micro capitalismo. Interloquendo con ceti emergenti che hanno maturato sulla propria pelle la consapevolezza che dalla crisi si esce solo configurando nuovi diritti e tutele, aprendo mercati, scardinando vincoli corporativi, sostenendo le comunità locali, investendo risorse pubbliche in lavoro e formazione.
È la traccia di una rinnovata ambizione maggioritaria, calata nella cesura tra il prima e il dopo la crisi. Il buco nero creato dalla finanza senza regole mostra impietosamente le responsabilità di una terza via progressista rivelatasi, al dunque, inerme e subalterna.
Oggi serve riguadagnare terreno. Una forte autonomia culturale, per far vivere nella società nuove categorie politiche e organizzative. Per questo è necessario porre nuovamente il tema della costruzione del partito del riformismo europeo. Soggetto politico di un nuovo dinamismo sociale che spinge per il cambiamento. Un esito che dipenderà anche dal più forte scambio e legame che Pd e Pse riusciranno ad avere nel fuoco di scadenze elettorali che potranno invertire la rotta. Un impegno appassionante per una generazione politica di democratici, socialisti, laburisti pronta a fare la propria parte.

il Fatto 22.2.12
E la manifestazione della Fiom già spacca il Pd


Non solo la riforma sul lavoro, ma anche la manifestazione della Fiom, il 9 marzo: nel Pd le posizioni divergono e la temperatura aumenta. Ieri il responsabile economico, Stefano Fassina ha annuciato: - ''Vedremo, ma penso che andrò alla manifestazione della Fiom perchè i motivi sono giusti”. Immediate le polemiche e le reazioni. Puntigliosa la replica di Stefano Ceccanti, “montiano doc”: “Il problema serio è che la piattaforma con cui e' stata indetta e' nettamente contraria al governo Monti, ritenendo testualmente 'non accettabili e sbagliate le scelte del governo italiano’. La partecipazione è puramente individuale o è stata decisa in qualche organo? Come si può conciliare col sostegno forte e convinto al governo Monti, comprese le materie elencate nella piattaforma che sono quelle centrali nella sua azione?”. Caustico Matteo Orfini, responsabile Cultura del parito: “"La Fiat non assume iscritti Fiom, e nessuno dice niente. Qualcuno nel Pd annuncia che andrà a sciopero, e apriti cielo. Un motivo in più per andare”.

il Fatto 22.2.12
Papa straniero. L’insana passione della sinistra
Da Montezemolo a Passera, l’ultimo è Monti
di Fabrizio d’Esposito


In meno di due anni, Mario Monti è il terzo “papa straniero” che Walter Veltroni propone per la leadership del centrosinistra. Tutto ruota attorno all’aggettivo “riformista”, ancora una volta. “Monti è un riformista, non lasciamolo alla destra”, così domenica scorsa a Repubblica l’ex quarantenne kennediano che a metà dei Novanta non voleva regalare alla destra neanche Lamberto Dini, altro ex premier tecnico oggi nel recinto dei satelliti del Pdl, con queste parole profetiche: “Ha vissuto da ministro l’esperienza Berlusconi, poi quella del suo governo appoggiato dal centrosinistra. Beh, quando gli hanno chiesto se avrebbe accettato un ruolo nel prossimo schieramento di destra, ha semplicemente risposto: ‘No, non mi ci vedo’. A buon intenditor... ” Difatti.
Andando a ritroso, dopo l’esternazione che sancisce la nascita del “partito di Monti” nel Pd, la passione di Veltroni per il leader che viene “dall’esterno” si colloca nel settembre del 2010. L’ex sindaco di Roma nonché ex candidato-premier (perdente) nel 2008 si fa vivo dopo mesi di pensoso silenzio e lancia il documento dei 75 per il “papa straniero” a capo dell’ex Ulivo ed ex Unione. Il nome del momento è quello di Alessandro Profumo, cacciato da Unicredit. Parafrasando il Fassino dell’estate dei furbetti del quartierino: “Abbiamo un banchiere”. L’ipotesi Profumo mette a soqquadro il Pd e irrita persino un moderato come Beppe Fioroni, democristiano doc: “Prendere come leader uno che è appena stato cacciato mi pare un’idea singolare della politica”. Ma i veltroniani non si rassegnano e un mese dopo ci riprovano con un altro nome. Stavolta a farlo è Goffredo Bettini, cervello politico del buonismo trasversale. Per lui, l’impegno in politica di Luca Cordero di Montezemolo “potrebbe avere un grande significato e una grande presa”. Il presidente della Ferrari (e di tante altre cose), secondo Bettini, dovrebbe “compiere un atto di servizio, unilaterale, disinteressato e a termine, mettendo la sua popolarità ed esperienza a disposizione di una battaglia civile e democratica”.
IN QUESTA FASE il tema del “papa straniero” esplode (altro grande alfiere che difende il solco tracciato da Veltroni è il direttore di Repubblica Ezio Mauro) ed emergono anche le suggestioni dello scrittore anti-camorra Roberto Saviano e dell’ad di Fiat Sergio Marchionne. Ovviamente, sulla sponda opposta a quella presidiata da Veltroni, si mette seduto Massimo D’Alema, teorico del primato della politica e dei partiti e notoriamente allergico alla società civile, secondo una sua antica e feroce battuta copiata dalla propaganda nazista: “Quando sento parlare di società civile metto mano alla pistola”. Certo, Profumo, Montezemolo e Marchionne più che nella categoria “società civile” vanno inseriti sotto la voce “poteri forti” ma per D’Alema è lo stesso e fa sapere che quella del “papa straniero” è una “falsa strada”.
Rispetto a oggi, la discussione di due anni fa sembra preistoria. Soprattutto perché non c’è più Berlusconi a Palazzo Chigi. Dal novembre scorso, da quando cioè è nato il governo sobrio dei tecnici, la convinzione comune è che dopo Monti (e Passera) nulla sarà come prima. Non senza paradossi e contraddizioni. All’inizio i ruoli erano rovesciati. Nel senso che il superministro Corrado Passera, ex Intesa, era il candidato più gettonato del centrosinistra (sempre per la serie “abbiamo un banchiere”) e Monti per il centrodestra. Oggi è il contrario. Roberto Formigoni, governatore della Lombardia, ha proposto Passera al posto di Alfano per la successione a Berlusconi, Veltroni ma anche Enrico Letta si sono buttati su Monti.
Nel centrosinistra, la questione del leader esterno, da non regalare agli altri, è affiorata all’alba della Seconda Repubblica, all’indomani della sconfitta della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto. Non a caso, il partito montiano del Pd ripete che la foto di Vasto (Bersani, Di Pietro, Vendo-la) sarebbe il bis di quell’esperienza. Prima della candidatura di Romano Prodi nel 1996, fu proprio Veltroni a lanciare il nome di Carlo Azeglio Ciampi, ma questi ringraziò e rifiutò. Il Pds inseguì anche Mariotto Segni, sempre per sottrarlo alla destra.
IN QUELLA ZONA grigia e bipartisan tra i due poli sono stati vari i nomi dei leader intercambiabili prima di Monti, Passera e Montezemolo. Sergio D’Antoni, quando lasciò la Cisl, fu corteggiato da destra e sinistra (oggi è nel Pd). Ma la vera passione tra i postcomunisti sono i banchieri, causato forse dal complesso della “sinistra stracciona”. Nel duemila spuntò l’ipotesi di Antonio Fazio, governatore di Bankitalia. Disse Massimo Cacciari: “Ci vorrebbe un cattolico democratico di alto profilo disposto a farsi carico del problema di arginare questa destra che con le destre europee non ha niente da spartire. Io vedo solo Antonio Fa-zio”.
Oggi l’argine al “papa straniero” è soprattutto Bersani, che vede tramontare la sua candidatura a premier ma più di tanto, in pubblico, non ha osato. Questa la sua risposta a Veltroni su Monti: “Il mio partito ha una proposta alternativa, non a Monti, ma alla destra. Poi Monti e i suoi ministri potranno decidere con quale polmone respirare”. Appena tre giorni prima aveva detto che Monti “non fa cose di sinistra”.

il Riformista 22.2.12
Scontro sulla grande coalizione Nel Pd lo spettro della scissione
Fronti. Bersani contro SuperMario: «Il sì sul lavoro non è scontato». Bindi: «Un anno di Monti è sufficiente». Ma Franceschini: «La nostra gente sta col premier». L’idea della costituente l’anno prossimo
di tommaso Labate


L’ex segretario del Ppi ne parla con la cura di chi comunque evita di pronunciarla, la parola «scissione». Eppure basta un’ordinaria giornata a Montecitorio per capire come il Pd sia ormai diviso in due partiti. Che difficilmente continueranno a marciare uniti.
Il primo, guidato da Pier Luigi Bersani, è pronto a negare al governo Monti il sostegno a qualsiasi riforma del mercato del lavoro che non abbia il disco verde della Cgil. Lo dice, senza nemmeno troppi giri di parole, il segretario stesso al Tg3: «Non condivido la tesi di andare avanti anche senza accordo», tesi che però rappresenta l’orientamento messo nero su bianco da Mario Monti. Di conseguenza, aggiunge, il «sì alla riforma è tutt’altro che scontato».
E poi c’è l’altro Pd. Quello di Walter Veltroni e di Enrico Letta, che lavora a un progetto di Grande coalizione costruito attorno a Monti anche nella prossima legislatura. Uno schema che, però, comincia a fare breccia anche in altre aree del partito.
Dario Franceschini, ad esempio, è un altro di quei dirigenti che sta per mostrare le sue carte. Prima di Natale il capogruppo a Montecitorio era stato il primo ad “aprire” a una riforma elettorale di tipo proporzionale, a stessa che consentirebbe alle forze politiche di imbastire una Grande coalizione attorno a Monti anche dopo le elezioni. Adesso l’ex segretario si spinge oltre. E, pur senza entrare nelle disputa aperta da Walter Veltroni domenica su Repubblica, fa un altro passo nella direzione di SuperMario. «Da qualche tempo», confidava ieri Franceschini a Montecitorio, «quando vado alle iniziative del Pd in cui so che non ci saranno giornalisti, mi metto a fare alcuni test. Dico sul governo delle cose che non penso, per vedere come reagiscono i nostri. Credetemi, stanno tutti con Monti. La sua popolarità tra la nostra gente è alle stelle». È il segnale che «Dario» sta per accodarsi all’area “grancoalizionista” di cui fanno parte, tra gli altri, «Enrico» e «Walter»? Chissà.
Massimo D’Alema rimane defilato. Ieri mattina, a margine di un convegno, ha archiviato alla voce «disputa priva di senso» il dibattito sul tema «Monti è di destra o di sinistra?». Eppure, nella cerchia ristretta dei dalemiani (di cui non fa più parte Matteo Orfini, ormai convertito al bersanismo ortodosso), c’è chi discute apertamente dell’ipotesi di lasciare che Monti rimanga a Palazzo Chigi per qualche anno ancora. È il caso del deputato lucano Antonio Luongo, dalemiano di lungo corso, che immagina per il 2013 un remake del film andato in scena nel 1946. «Parliamoci chiaro, la politica deve rendersi conto che nella prossima legislatura ci dev’essere l’Assemblea costituente. I partiti devono occuparsi della grande riforma istituzionale lasciando che Monti lavori almeno fino al 2015 per superare definitivamente la crisi economica».
Senza saperlo (oppure no?), Luongo cita quello stesso schema su cui i “grancoalizionisti” di Pd, Pdl e Terzo Polo (Berlusconi compreso?) stanno lavorando. Una strategia che parte dalla riforma elettorale ispano-tedesca. Si scardina l’attuale bipolarismo e le coalizioni si presentano alle urne sapendo già che il residente del Consiglio sarà uno dei Professori attualmente in sella. In pole position c’è Monti. In subordine, visto che SuperMario potrebbe essere coinvolto nella corsa al Quirinale, Passera (gradito soprattutto al centrodestra) o qualche «Mister X» che alcuni
(leggasi Veltroni) avrebbero già individuato in Andrea Riccardi. Fantapolitica? Tutt’altro. Non a caso Rosy Bindi, che nella partita sta con Bersani, lascia l’assemblea del gruppo parlamentare del Pd furibonda come non mai. «No alla Grande coalizione. Un anno e mezzo di Monti è più che sufficiente», mette a verbale alla fine della riunione. E visto che la tela dei grancoalizionisti parte proprio dalla riforma elettorale, ecco che «Rosy» si oppone. Il sistema ispano-tedesco? «Se è questo l’accordo, allora è contrario alla nostra storia e alle deliberazioni del nostro partito, che verrebbe così mortificato in
maniera inaccettabile».
Da dove comincerà la causa di divorzio tra le due anime del Pd? Dall’articolo 18 e dal «no» di Bersani a Monti. Oltre alla rissa sull’annunciata (durante la trasmissione Omnibus, su La7) partecipazione di Stefano Fassina alla manifestazione della Fiom del 9 marzo. «Non è in linea col sostegno del Pd a Monti», dice il veltroniano Stefano Ceccanti. «Il Pd non è con chi contesta Monti», aggiunge Andrea Martella. «Fassina non può stare con governo e con la Fiom», conclude il lettiano Marco Meloni. E la ruota continua a girare.

il Riformista 22.2.12
E gli ex popolari corteggiano Passera per il Terzo Polo
Centrismi. Fioroni incontra il ministro: ma sul tavolo c’è il Partito della Nazione. E intanto i bersaniani organizzano un seminario con la Cei
di Ettore Maria Colombo


l principale leader del Terzo Polo, Pier Ferdinando Casini, che pressa Monti, chiedendogli di scendere in campo, pronto a mettergli a disposizione quello che oggi è un partito medio, l’Udc, ma che domani può diventare con Fini, Rutelli e oltre un vero, grande, Partito della nazione, o Lista Nazionale, a sostegno e supporto dei progetti politici del premier come dei suoi principali ministri (Passera). Beppe Fioroni, leader degli ex-popolari (ed exdc) presenti nel Pd, che ha visto in un colloquio riservato il superministro Corrado Passera e lo invita a scendere in campo a sua volta. I cattolici del “gruppo di Todi” (il seminario organizzato con la benedizione della Cei) che, apparentemente in sonno, lavorano (specie Bonanni, Costalli e Marino) alla formazione di un nuovo partito di centro, moderato e laico nell’impostazione, ma fortemente radicato nei valori e nelle proposte del magistero di Papa Benedetto XVI che parte dalla Dottrina sociale della Chiesa e arriva fino all’enciclica di quest’ultimo, la Caritas in Veritate. E, persino, i socialdemocratici del Pd, i dalemian-bersaniani Matteo Orfini, Andrea Orlando, Stefano Fassina e Francesco Vertucci, animatori della nuova corrente interna (e generazionale: sono tutti quarantenni) dei democrat laburisti e di sinistra (Rifare l’Italia, si sono chiamati: un nome impegnativo e, di certo, un vasto programma), che stanno organizzando, in gran segreto, un seminario sulla crisi internazionale, europea e italiana che si terrà a Roma il primo marzo e che vuole dialogare con la Chiesa, e con la Cei, ai massimi livelli sulle risposte da dare alla crisi medesima con un parterre di nomi ancora top-secret, ma che vedrà la partecipazione di vescovi e cardinali di primo piano.
Grande è il disordine, sotto il cielo, direbbe Mao-Tse-Dong, ma la rete dei (fitti) movimenti al centro della politica italiana è più che eccellente. Ieri mattina, per dirne una, la rivista d’area dei popolari nel Pd, Il Domani d’Italia, diretta dal senatore cattolico (e conoscitore di storia, chiesa e diaspora dc) Lucio D’Ubaldo, ha organizzato un denso e approfondito dibattito sulla (possibile) riforma della legge elettorale che i partiti politici che sostengono il governo Monti e, di conseguenza, i loro gruppi parlamentari delle due Camere, dovrebbero varare, dibattito cui hanno partecipato, tra gli altri, la Gelmini, Lorenzo Cesa, Quagliariello.
Nonostante lo scetticismo generale, diffuso in special modo nell’opinione pubblica, Pdl, Pd e Terzo Polo sono molto avanti nella definizione di una legge elettorale che, sulla falsariga di un sapiente mix tra i sistemi elettorali in vigore in Spagna come in Germania (maggioritario uninominale a turno unico il primo, proporzionale secco con sbarramento al 5% il secondo), potrebbe configurare un nuovo sistema all’italiana. Al di là dei tecnicismi come delle proposte, a dir poco bizzarre, venute fuori, ieri, al convegno (D’Ubaldo ha proposto il voto plurimo per i capifamiglia, il professore e vicecapogruppo del Pdl al Senato, Gaetano Quagliariello, lo ha accusato di voler riproporre la Costituzione spagnola, sì, ma quella del 1821..., e via di questo passo), la ciccia è tutta, e solo, politica. Con un editoriale in uscita sul numero di febbraio del Domani d’Italia (titolo «La catarsi della politica»), Fioroni inquieto, in un Pd che accetta candidature a sindaco di super-sinistra a Genova come a Palermo propone, in buona sostanza, che centrosinistra e Terzo Polo stringano un’alleanza, ma solo se paritaria, e cioè tra eguali, rivendicando l’azione del governo Monti e, contemporaneamente, spingendo i suoi pezzi migliori (Monti, Passera, Riccardi) a mettere a frutto le loro personalità e il loro buongoverno al servizio del Paese. Altrimenti? Altrimenti è il non detto di Fioroni e dei suoi se il Pd pensa di chiudersi e recintarsi nel patto di Vasto (Pd, Idv, SeL), ognuno per la sua strada. E, sempre a proposito di strade da intraprende, torna a fagiùolo il seminario che l’ala dei new-Labour e new-leftist del Pd sta preparando per il primo marzo alla presenza di importanti, e ad oggi ancora riservati, rappresentanti ecclesiastici. L’idea dei nuovi “giovani turchi” (Orfini, Fassina, Orlando, etc.) e teste d’uovo del Pd di Bersani è però, tutta diversa, anche se paradossalmente simmetrica a quella di Fioroni&co: noi facciamo la sinistra, voi il centro, col Papa si dialoga, ma sui massimi sistemi.

il Fatto 22.2.12
Privilegi. Non c’è fretta per tassare gli edifici commerciali
Miracolo: Ici alla Chiesa scomparsa dal decreto
di Stefano Feltri


Il decreto legge sul fisco che il governo deve approvare venerdì è ancora un testo grezzo, appena abbozzato, di cui si è discusso ieri in un pre-Consiglio. Si notano però molto bene le assenze, una su tutte: l’intervento sull’Ici per gli immobili almeno in parte commerciali del Vaticano e della Cei.
“È NECESSARIA una riflessione sull’Ici e la Chiesa”, ha detto ieri il premier Mario Monti da Bruxelles, aggiungendo che un intervento è “in dirittura d’arrivo” ma che non è affatto detto che sia nel decreto di venerdì. Nella bozza che circola in queste ore, c’è soltanto un accenno molto laterale alla questione. Alla voce “Estensione potere di accesso nei confronti soggetti Terzo settore”. In pratica si modifica una legge del 1972 che permette agli ispettori del Fisco di fare controlli “nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali”. All’elenco il decreto di Monti aggiungerà “quelli utilizzati dagli enti non commerciali”, come la Chiesa cattolica. E su questo non ci sono obiezioni da parte della Cei, l’associazione dei vescovi. Il presidente, Angelo Bagnasco, già in dicembre diceva: “Se vi sono casi concreti in cui un tributo dovuto non è stato pagato, è giusto che l’abuso sia accertato e abbia fine”. E infatti ecco i controlli rafforzati. Per il resto pare si dovrà attendere. Un sottosegretario spiega che “il decreto legge non è lo strumento giusto, perché sulla vicenda Ici non ci sono i requisiti costituzionali di necessità e urgenza”.
LA MOTIVAZIONE vera pare sia un’altra: Monti vuole essere sicuro che la modifica della disciplina garantisca la chiusura della procedura di infrazione aperta dall’Unione europea (perché lo sconto sull’Ici per gli hotel o negozi vaticani è considerato un aiuto di Stato). “È totalmente comprensibile e oggettivamente utile che il pubblico e la stampa siano impazienti ma c'è tempo per fare le cose”. E ieri sera il sottosegretario Polillo a Ballarò ha spiegato: per l’esenzione dal pagamento dell’Imu varrà l’attività prevalente: “Se un circolo di tennis con molti campi ha un piccolo bar, l'attività prevalente è quella sportiva e quindi il bar non pagherà l’Imu”.
C’è tempo anche per l’accordo con la Svizzera per la tassazione in loco dei patrimoni esportati illegalmente, frutto di evasione fiscale. Monti ha cambiato idea diverse volte, ieri è tornato a una linea più prudente che un po’ ha stupito visto che pochi giorni fa era stato proprio il governo elvetico a ipotizzare un’intesa con Roma. “Quello che può sembrare un attacco alla grande evasione può essere un condono”, ha detto. Perché gli evasori con i depositi svizzeri potrebbero essere graziati grazie al fatto che le tasse le raccoglie Berna. Le casualità della cronaca vogliono che proprio ieri uno spallone italiano sia stato fermato alla frontiera con un milione nascosto nel cruscotto dell’auto. Appena in tempo, perché nel decreto le multe per chi esporta capitale illegalmente salgono fino a una sanzione pari al 40% dell’importo nascosto al Fisco. Ci sono anche altre novità sulla lotta all’evasione. La più importante è il ritorno del registro clienti-fornitori. Vincenzo Visco lo aveva introdotto ai tempi del governo Prodi, poi Tremonti l’ha subito abolito. Spiega Visco: “Funziona come le ritenute alla fonte, quando il datore manda al fisco l’elenco dei compensi che ha versato è come se compilasse un elenco dei fornitori di lavoro. Nel caso delle imprese queste devono indicare tutto quello che hanno venduto e anche gli acquisti fatti. Così se c’è una frode carosellosipuòscoprireprima. Élo strumento più potente che abbiamo nella lotta all’evasione”. Il governo infatti è molto ottimista sul gettito che arriverà l’anno prossimo, le risorse finiranno in un apposito fondo destinato a ridurre le tasse. Su questo Visco è meno ottimista: “Di fondi come quello ne abbiamo fatti almeno quattro, ma è quasi impossibile determinare quale parte del gettito deriva dalla lotta all'evasione, se le entrate non crescono in modo molto più consistente del Pil”. C’è una pressione crescente perché Monti venerdì annunci un’imminente riduzione dell’aliquota più bassa dell’Irpef (23%), ma è quasi certo che rimarrà la formula attuale: aiuti dal 2014, se ci saranno i soldi, non per l’Irpef ma per “l’incremento delle detrazioni fiscali per i familiari a carico”.
NEL DECRETO dovrebbe entrare anche la riforma del sostegno pubblico all’editoria preparata dal sottosegretario Paolo Peluffo: una ridefinizione dei parametri per i contributi 2012. Si passa al rimborso delle copie vendute e non più di quelle distribuite (per i giornali cooperativa) o distribuite (come è oggi per i giornali politici). Il rimborso fisso viene vincolato ai costi sostenuti dall’editore per i giornalisti e i poligrafici assunti a tempo indeterminato. Il contributo resta anche in caso la testata decida di diventare soltanto in versione on line, e questo dovrebbe essere un incentivo ad abbandonare il cartaceo per i giornali di idee. Nelle intenzioni, rimborsando le copie vendute e non quelle tirate o distribuite, si dovrebbe evitare di finanziare giornali come fu l’Avanti! di Lavitola che spesso non arrivano neppure in edicola. Ste. Fel.

Corriere della Sera 22.2.12
Il Corvo del Vaticano: siamo in venti
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — Almeno un Corvo del Vaticano è stato trovato. E apparirà stasera in tv nel corso di un'intervista di Gianluigi Nuzzi che verrà messa in onda nella trasmissione Gli Intoccabili di La7 alle 21. Dopo aver rivelato la lettera inviata al Papa da monsignor Carlo Maria Viganò, ora nunzio a Washington, sugli appalti in Vaticano, Nuzzi ha rintracciato «la fonte». In forma anonima, cioè irriconoscibile, con cappello, sciarpa e occhiali e la voce alterata, come si fa per i «pentiti», il Corvo (che non si sente tale) spiega di «lavorare in Vaticano da vent'anni» e di essere attualmente in forza «alla Segreteria di Stato» e si autoaccusa di essere stato la causa di almeno una delle «perdite» di documenti della «Vaticanleaks». Anche se rivela di non essere affatto solo: un'altra «ventina» di «corvi», assicura, hanno agito come lui. Non è chiaro se in un'azione preventivamente organizzata.
Il Corvo si dice pronto a subire le conseguenze delle sue azioni di «testimone della verità», fino a un possibile «martirio, ma è difficilissimo qui da noi in Italia», e sollecita le autorità vaticane a impegnarsi non solo a cercare «le gole profonde» della fuoriuscita di documenti riservati, ma a indagare «con lo stesso zelo» «su una vicenda che mi fa pensare in maniera costante, la scomparsa di Emanuela Orlandi». In proposito aggiunge: «Forse non è stato fatto tutto quello che si poteva o forse si va a toccare cose troppo scottanti, troppo delicate». Il Corvo (cattolico, praticante) parla dell'atmosfera di paura e omertà che ci sarebbe Oltretevere («un Paese dove uno fa una strage e sparisce nel nulla», alludendo alla morte del capo delle Guardie svizzere, Alois Estermann). Sostiene che c'è un altro tipo di «martirio» possibile, oltre quello fisico, e lo chiama «il martirio della pazienza». Una definizione che però non sembra casuale visto che questo è proprio il titolo del libro di memorie sulla Ostpolitik (la diplomazia vaticana prima della caduta del Muro di Berlino), scritto dal cardinale Agostino Casaroli (pubblicato postumo nel 2000), che era il segretario di Stato al momento della scomparsa della Orlandi, nel giugno 1983.
Ce n'è abbastanza per suscitare l'interesse della Procura della Repubblica di Roma, non fosse altro perché il funzionario è reo confesso della rivelazione di segreti ai danni di uno Stato estero, come denunciato ufficialmente dal portavoce della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. «Anche se la sicurezza vaticana è molto efficace ed efficiente» e quindi chi volesse rendersi protagonista di nuove fuoriuscite di notizie «non avrebbe facoltà nel farlo», il Corvo è sicuro che «questa storia lascerà il segno», «farà del bene alle coscienze di chi è responsabile», anche se nell'immediato forse nulla cambierà. «Ma i tempi della Chiesa sono, diciamo così, biblici».

Repubblica 22.2.12
La linea del Piave della politica
di Giorgio Ruffolo


Monti ha definito, con qualche ironia, "strano" il suo governo. La stranezza si spiega, in effetti, con le circostanze eccezionali nelle quali è nato.
Anzitutto con la crisi mondiale insorta non in Italia o in Europa, ma in America, alla fine del primo decennio di questo secolo. Quella crisi, trasmessa attraverso l´interdipendenza dei mercati finanziari, è esplosa in Europa con conseguenze ancor più drammatiche a causa del divario tra la stretta integrazione economica dell´Unione e la frammentazione politica dei suoi ventisette Stati. Di qui situazioni assai diverse documentate dai famosi spread, soprattutto tra la Germania e i Paesi più esposti ai debiti.
Particolarmente critica è apparsa la condizione dell´Italia, in ragione della sua importanza economica e del debito pubblico accumulato negli anni passati. Una condizione che è stata aggravata dalla colpevole inerzia del governo cullato dall´irresponsabile ottimismo del premier dell´epoca e dalla colpevole distrazione del suo ministro dell´Economia; e grottescamente drammatizzata dal pubblico scontro tra i due, fino a provocare un intervento intimativo dell´Unione europea.
A quell´intimazione il governo Berlusconi rispose finalmente con misure di emergenza, praticamente dettate da Bruxelles: quindi, anche in tal caso, passivamente subìte.
Quelle misure furono accolte malissimo dai mercati, non tanto per la loro sostanza quanto per la incredibilità del capo del governo.
Si impose il suo ritiro. Non si ricorse però ad elezioni, che avrebbero fatto correre al Paese un rischio mortale: una pura follìa, come argomenta, contestando le critiche "democratiche" di Rossana Rossanda, Mario Pirani su Repubblica del 7 febbraio. Si ricorse a una "stranezza" che è frutto della lucidità, dell´abilità e del coraggio di Giorgio Napolitano.
Le elezioni erano un rischio tremendo non solo a causa degli assalti speculativi, ma anche della forte probabilità di un esito incerto, che avrebbe precipitato l´Italia in una impasse mortale. La chiamata di Monti aveva lo scopo essenziale di ricostituire una credibilità compromessa, sottraendo un nuovo governo di indubbia competenza e onestà ad inevitabili costi elettorali. Scommessa pienamente riuscita. Il consenso internazionale che Monti sta suscitando è dovuto certamente al merito delle sue mosse, ma anche e ancor più alla fiducia che le investe. Chi mette tra parentesi la conquista della credibilità considerandola con sufficienza come una questione personale, non ha capito che essa, unita agli inevitabili confronti con la precedente gestione, è la ragione "politica" fondamentale del suo successo. Perché la politica è soprattutto fiducia: come quella che si deve a chi sta combattendo una battaglia sul Piave ed è ridicolo chiedergli se è di destra o di sinistra.
Ciò non significa ovviamente che non possano e non debbano essere apportate alle misure predisposte dal governo correzioni e integrazioni che rendano più efficace il perseguimento dei suoi impegni: come un più energico intervento nella tassazione delle grandi fortune e una organica mobilitazione della domanda pubblica nel campo delle infrastrutture e della ricerca.
Quanto alla Grecia e alla pervicace ostinazione punitiva di un Paese ormai allo stremo occorrerà finalmente pronunciarsi sul significato più profondo dell´appartenenza all´Unione, se sia questione di prezzo o di valore; di costi economici o di identità politica. Per restare al Piave, l´appartenenza di Trento e Trieste all´Italia, misurata in costi, sarebbe stata proibitiva.
Quanto, infine, ai pesanti costi che il governo Monti prescrive all´Italia, è vano opporre arroccamenti paralitici o indignazioni sterili, con discorsi fumosi o con lancio di uova marce.

Corriere della Sera 22.2.12
Riflettori accesi sul malcostume
di Corrado Stajano


È un aureo libretto questo di Stefano Rodotà, Elogio del moralismo (Laterza, pp. 91, 9), intriso di passione, di delusione mascherata, ma anche di volontà di mutar registro, di rendere la politica degna delle sue responsabilità e i cittadini più consapevoli.
Giurista, professore emerito di Diritto civile alla Sapienza di Roma, più volte parlamentare, già presidente dell'Autorità per la tutela della privacy, Rodotà è una della mosche bianche, eterna minoranza nella nostra gelatinosa società nazionale che pensa soltanto ai propri affari puliti e sporchi. Dev'essere anche un kamikaze un illustre italiano che comincia così questo suo libro: «Sono un vecchio, incallito, mai pentito moralista. La parola mi piace, perché mi richiama non una moralità passiva, compiaciuta, contemplativa e consolatoria, ma un'attitudine critica da non abbandonare, una tensione continua verso la realtà». Tutto il contrario di quel che troppi pensano in Italia dove il moralismo, forse per ragioni storiche, forse per il carattere degli italiani, è considerato una bestemmia, un nemico, un intralcio da rimuovere. Meglio gli occhi bendati.
Esce a pennello questo Elogio del moralismo nel momento delle ricordanze di Mani Pulite, un'occasione perduta. Di quell'inchiesta, vent'anni dopo, si può solo dire che non fu responsabilità dei magistrati se la politica, la società, la cultura non presero doverosamente in carico il lavoro iniziato nei tribunali, allargandolo, approfondendolo, approvando leggi utili per impedire o, almeno, limitare la corruzione così diffusa allora e oggi.
Rodotà ha l'ambizione di contribuire a dar forza agli anticorpi democratici. Il suo è un libro scritto proprio nel nome della democrazia che «non è semplicemente "governo del popolo" ma "governo in pubblico"»: la luce del sole è il miglior disinfettante, scrive anche. Nelle sue pagine rivisita le regole fondamentali del sistema democratico, la Costituzione, anzitutto, considerata nemica in questi due decenni. Una Carta da cancellare in nome, spesso, di non nobili interessi privati, per evitare quell'eguaglianza conquistata da un paio di secoli e più.
Il libro mette il dito su ipotesi o fandonie date per scontate. Non era per nulla vero che la corruzione fosse il frutto avvelenato di un sistema bloccato. L'hanno dimostrato l'alternarsi di governi e di coalizioni, centrali e locali. Se si vuol ricominciare, ritrovando i lumi della ragione, è davvero necessario ripetere cose che evidentemente non sono ancora entrate nella coscienza collettiva o che le nuove generazioni non conoscono o rifiutano.
La responsabilità politica è scomparsa: deve invece scattare, scrive Rodotà, anche quando non vi sia una responsabilità penale. È per questo che l'articolo 54 della Costituzione parla di «disciplina» e di «onore», non di responsabilità penale: «È inaccettabile l'assoluzione politica fondata sulla formula "nulla di penalmente rilevante"». Non esiste soltanto la prigione. Non è accettabile, in nome di una moralità minima, che seguitino a sedere in Parlamento e altrove persone sulle quali pesa la cappa di comportamenti disdicevoli e anche di reati, di delitti forse commessi. Esistono sanzioni con gradazioni diverse, fa notare Rodotà: le dimissioni dalle cariche, l'espulsione dal partito, l'esclusione da una futura candidatura, la sospensione dal posto. E invece, il più delle volte, nulla accade. Abbiamo vergognosi esempi, anche recenti. Si dice: anche all'estero l'agire degli uomini politici non è cristallino. È vero, ma gli episodi non hanno la gravità nostrana. E chi rompe paga. Basta il fresco addio del presidente della Repubblica federale tedesca.
Dove, in Europa, si sarebbe sopportato un macigno come il conflitto di interessi, con la giustificazione che ai cittadini il problema non importa nulla? E dove avrebbero avuto corso le leggi ad personam, a tutela degli affari di giustizia privati di un presidente del Consiglio? Tutto questo nel clima di una lotta sorda durata anni contro gli istituti di garanzia essenziali in una democrazia, la Corte costituzionale e la Presidenza della Repubblica.
Rodotà tocca tutti i tasti dolenti. È come se presentasse i conti del «malfare» alla comunità. Fa venire in mente Leporello che nel Don Giovanni mozartiano svela a Donna Elvira qualche verità, in quel caso verità amorose riguardanti il suo padrone: «Madamina, il catalogo è questo».

Corriere della Sera 22.2.12
Bonelli vede Casini Prove d'intesa Verdi-Udc
di Al. T.


ROMA — «Non una prova d'alleanza, perché ci sono divergenze programmatiche evidenti, ma un confronto importante, soprattutto sulla legge elettorale». Angelo Bonelli, leader dei Verdi, accompagnato da Marco Boato, ha incontrato il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini. Un faccia a faccia che ha fatto molto parlare e che rientra nel quadro di un dialogo intrapreso dai Verdi già da diversi giorni. Prima l'appuntamento con Luciano Violante (Pd), poi l'incontro con esponenti del Pdl e infine Casini. Non può sorprendere che ci sia un dialogo a tutto campo da parte dei rinnovati Verdi, perché ormai da molto tempo Bonelli ha deciso di farli uscire dal recinto della sinistra radicale: «Abbiamo superato la precedente collocazione eccessivamente ideologizzata e ci poniamo come un soggetto politico ecologista e trasversale che evita gli schieramenti pregiudiziali». Del resto, aggiunge Bonelli, «esiste ancora un centrosinistra? Mi sembra che si sia tornati indietro, al sistema dei partiti». Quanto all'Udc, ci sono differenze programmatiche, «per esempio sulla questione energetica, sul nucleare e sulla Val di Susa». Ma c'è anche un possibile punto di incontro sulla legge elettorale: «Siamo preoccupati — dice Bonelli — per lo schema Pdl-Pd: sembrano intenti solo a schiacciare gli altri partiti e a legare a loro il consenso con una legge elettorale che li favorisca. La riforma che hanno in mente mi sembra che non modifichi il tema della lista bloccata, con i nominati: che resta, come nel Porcellum». Bonelli ha spiegato a Casini la necessità che «una grande forza ecologista abbia un punto di riferimento anche nel mondo cattolico, per unire il tema della vita con quello della difesa del pianeta». Tra i partiti resta troppa insensibilità rispetto a questi temi: «Soffro nel vedere pezzi del Paese nel quale l'inquinamento continua a produrre morti, come per l'Ilva di Taranto. O nel vedere che la cementificazione sottrae spazio alle aree agricole. Non vedo una riflessione su questo né da una parte né dall'altra».

il Fatto 22.2.12
L’Europa conferma “il razzismo dei politici italiani”
di Roberta Zunini


Sin dalle prime frasi del Rapporto, relativo all’Italia, della Commissione contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa (Ecri), si evince che “sta aumentando il ricorso a discorsi di stampo razzista in politica” mentre “persistono i pregiudizi contro i Rom, gli immigrati, soprattutto se di fede islamica e l'antisemitismo perdura”. Secondo il presidente ad interim dell’Ecri, François Sant'Angelo, è necessario un maggiore impegno per combattere l'incitazione all’odio e proteggere i Rom e gli immigrati. “L'Italia dispone ora di un’efficace normativa contro la discriminazione e la violenza razzista nello sport. L’Unar, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali - riferisce il Rapporto - sta estendendo notevolmente le proprie attività. I tribunali hanno annullato un certo numero di misure discriminatorie precedentemente adottate dal Governo e da alcuni sindaci”.
Gli immigrati sono percepiti come fonte di insicurezza e “questo linguaggio si rispecchia nelle politiche discriminatorie” inserite nel cosiddetto pacchetto sicurezza. Ma è sulla questione “rom” che la politica italiana mostra tutta la sua mancanza di umanità. “In alcuni casi - denuncia il rapporto Ecri - si sono verificate aggressioni violente contro Rom e immigrati. La maggior parte dei Rom subisce varie forme di emarginazione, malgrado i programmi messi in atto da un certo numero di comuni e di regioni a favore dell’inclusione sociale. Perfino i campi nomadi autorizzati sono relegati in aree lontane dai centri urbani”. E ancora: “Per quanto riguarda i campi abusivi, sono stati oggetto di demolizioni e di sgomberi forzati, che hanno contribuito a peggiorare la discriminazione nella vita quotidiana nei confronti di questa popolazione”.
SUL FRONTE IMMIGRAZIONE, nonostante alcuni miglioramenti in materia di diritto di asilo, la politica dei respingimenti in mare verso la Libia, inaugurata nel maggio del 2009, abbia privato cittadini stranieri in difficoltà di fare valere il loro diritto alla protezione internazionale. Si sono constatati altri problemi a seguito degli eventi del Nord Africa agli inizi del 2011, e “si deplorano i ritorni forzati troppo affrettati e condizioni di accoglienza inadeguate”.

l’Unità 22.2.12
Dopo il caso Rai
Dimissioni in bianco, combattere l’illegalità
di Teresa Bellanova


Un'arma di ricatto micidiale, una spada di Damocle sospesa sulla propria speranza: firmare le proprie dimissioni in bianco, senza data e lasciandole al libero arbitrio del datore di lavoro al momento dell'assunzione, è la negazione della possibilità di darsi una stabilità di vita e una prospettiva di costruzione del futuro.
Il lavoro che in questi giorni stiamo portando avanti in Commissione lavoro, con una proposta di legge per debellare questa pratica odiosa, riavvia una battaglia che parte da lontano. Nel 2007, con la norma introdotta dal Governo Prodi, sembrava essere conclusa. Ma nel 2008, con il nuovo Governo, giunse la doccia fredda del suo ripristino. Nel biennio successivo, 800 mila lavoratrici nel corso della loro vita lavorativa, in occasione di una gravidanza, sono state licenziate o messe in condizione di doversi dimettere. Quattro su dieci donne costrette a lasciare il lavoro hanno poi ripreso l’attività. Le opportunità di ritornare a lavorare non sono state però le stesse in tutto il Paese: sono la metà delle licenziate nel Nord e addirittura meno di un quarto nel Mezzogiorno. Si stima che nel 2009 quasi 18.000 donne si siano dimesse volontariamente nel primo anno di vita del bambino e più di 19.000 nel 2010.
La gravidanza oggi continua a rappresentare una penosa «pregiudiziale» per il mantenimento del posto di lavoro. E a smentire chi, anche a dispetto dei dati sopracitati, si volesse ostinare a considerarlo un atto ormai desueto giunge la stringente attualità, con la denuncia di questi giorni sulla cosiddetta «clausola maternità» inserita dalla Rai nei contratti di consulenza. Non contrastare questa realtà rappresenta un'aperta violazione della Convenzione Onu sull'eliminazione delle forme di discriminazione della donna, che nell'art. 11 al punto 2 recita: «Per prevenire la discriminazione nei confronti delle donne a causa del loro matrimonio o della loro maternità e garantire il loro diritto effettivo al lavoro, gli Stati parti si impegnano a prendere misure appropriate tendenti a: proibire, sotto pena di sanzione, il licenziamento per causa di gravidanza o di congedo di maternità (...)». Ma la pratica ci dice che oggi in Italia si può essere «dimissionati» per i più svariati motivi: dalla maternità, agli infortuni, alla malattia e all'età. Le norme in vigore si prestano anche a strumento di discriminazioni riguardo ai rapporti con le organizzazioni sindacali o addirittura alle opinioni politiche.
Le dimissioni in bianco aggirano ogni interpretazione possibile del concetto di «giusta causa» del licenziamento, lasciando il lavoratore privo perfino del sostegno di eventuali ammortizzatori sociali. La volontà di intervenire in materia espressa dal Ministro Fornero coglie la necessità di reintrodurre tutele che riguardano la dignità delle persone e del lavoro.
Il ripristino della norma che vieta le dimissioni in bianco rappresentano un interesse anche di quei datori di lavoro che applicano le leggi e i contratti e che subiscono la concorrenza sleale di quanti abbattono i costi di produzione evadendo obblighi. Non è raro che le dimissioni in bianco vengano utilizzate per poter lucrare su eventuali benefici fiscali in caso di nuove assunzioni. Vietare le dimissioni in bianco è una scelta di civiltà, che merita ampia condivisione politica, perché non significa altro che combattere contro l'illegalità, lo sfruttamento e le minacce verso chi è più debole.

Repubblica 22.2.12
Un ritardo che fa male
di Chiara Saraceno


Il caso italiano, per quanto riguarda le procedure per ottenere il divorzio, è unico. Non tanto per il fatto che si tratti di una procedura a due stadi, quanto per la lunghezza del periodo – tre anni – che deve intercorrere obbligatoriamente perché dalla prima fase si possa passare alla seconda. Questo tempo di attesa venne a suo tempo motivato come necessaria pausa di riflessione: per dare tempo alle persone di riflettere sulla loro decisione prima che, con il divorzio, diventi irreversibile.
Qualcuno dirà che sotto questa motivazione si celava il desiderio di compiacere la gerarchia cattolica, compensando l´eliminazione della indissolubilità del matrimonio con norme e requisiti che rendono il divorzio faticoso, costoso sul piano economico e psicologico. Ma quella motivazione appare problematica anche se presa su serio. Suggerisce, infatti, che i cittadini italiani, lasciati a se stessi, divorzierebbero con troppa facilità, senza pensarci troppo. Se li si costringe a pensarci a lungo, potrebbero tornare sui propri passi.
Oltre quarant´anni di applicazione della legge sul divorzio dimostrano che le cose non stanno così. Qualsiasi sia il motivo per cui ci si separa, non si torna mai indietro. Anche se non tutte le separazioni si trasformano in divorzi, pressoché nessuna viene ritrattata. La cosiddetta pausa di riflessione costringe invece ad un lungo limbo in cui non si è più di fatto coniugi, ma legalmente lo si è ancora, mantenendo aperto un contenzioso affettivo ed economico che invece dovrebbe essere aiutato a trovare una soluzione. È un limbo in cui sono costrette anche le eventuali nuove relazioni affettive iniziate dagli ex coniugi, ed i figli che da queste eventualmente nascono.
La proposta di legge in discussione è molto simile a quella bocciata nel 2003 da una alleanza tra i parlamentari cattolici del centrosinistra con i partititi di centro-destra. Riduce il tempo di attesa per le coppie separate senza figli o con figli maggiorenni. È un passo avanti nella concezione dei cittadini come soggetti capaci di decisioni ragionevoli e meditate. È sperabile che abbia migliore fortuna rispetto al 2003 e che il mutato clima politico suggerisca meno ipocrisia e più rispetto per la libertà dei cittadini. Ciò che mi lascia perplessa, ora come nel 2003, è l´idea che invece quando ci sono figli minori un tempo d´attesa lungo per la ridefinizione, non dei ruoli genitoriali, ma di quelli coniugali, sia un bene. In realtà, mentre tutti i consulenti familiari suggeriscono ai genitori separati di aspettare un po´ prima di imporre ai figli un nuovo compagno/a, concordano anche che l´incertezza nello statuto del rapporto tra i genitori, unito ai contenziosi che ne scaturiscono, rende più difficile ai figli l´elaborazione della separazione e la ridefinizione delle relazioni. Tempi di attesa troppo lunghi possono fare male soprattutto ai figli minori.

il Fatto 22.2.12
I marò e la sindrome americana dell’impunità
di Massimo Fini


Le circostanze della vicenda dei due militari del battaglione San Marco, imbarcati sul mercantile Enrica Lexie battente bandiera italiana, che incrociava al largo delle coste indiane, in acque internazionali, che sono accusati di aver sparato su un peschereccio, il St. Antony, uccidendo due pescatori locali, disarmati, scambiati per pirati, sono ancora tutte da chiarire. Per l'intanto appaiono però sorprendenti due dichiarazioni della Farnesina. La prima dice: “Il governo italiano ritiene sia competente la magistratura italiana essendo i fatti avvenuti in acque internazionali su una nave battente bandiera italiana”. Se due pescatori di Mazara del Vallo di un peschereccio che navigava al largo delle coste siciliane, sia pur in acque internazionali, fossero stati uccisi da militari indiani imbarcati su un mercantile indiano, qualcuno dubiterebbe, qui da noi, che la competenza sul tragico episodio spetti alla nostra magistratura, cioè al Paese delle vittime?
Più inquietante ancora è la seconda affermazione del governo. “I militari sono organi dello Stato italiano e godono dell'immunità dalla giurisdizione rispetto agli Stati stranieri”. Dove la Farnesina sia andata a pescare questa stravagante interpretazione giuridica non si capisce. Se la si seguisse qualsiasi Rambo di qualsiasi Paese sarebbe autorizzato a uccidere cittadini di altri Paesi senza doverne rispondere alla giustizia, se non a quella, ovviamente parziale e benevola dello Stato cui appartiene. Questa è una concezione molto americana del diritto internazionale, per cui, fra le altre cose tutti i militari possono essere giudicati dal Tribunale dell'Aja tranne i loro. E anche gli italiani, a quanto pare, si stanno adeguando al 'grilletto facile' in stile yankee che, molto attento alla propria, non ha alcun rispetto per la vita altrui se è vero che da noi anche i vigili urbani si improvvisano pistoleri e si sentono autorizzati a sparare e a uccidere a casaccio uomini inermi, colpevoli solo di essere stranieri.

Corriere della Sera 22.2.12
Onore ad Aguyar garibaldino ignoto
di Gian Antonio Stella


«N on ci sono italiani negri», urlavano i tifosi razzisti contro Mario Balotelli. In realtà sono millenni che, a fasi alterne, ci mischiamo. Basti ricordare, tra i tanti, il caso di San Benedetto il Moro, che era siciliano di San Fratello (il paese originario di Bettino Craxi e di Al Pacino), veniva da una famiglia di schiavi portati in Sicilia secoli prima dagli arabi, si fece frate verso la metà del 1500, morì nel 1589 e fu acclamato patrono dalla città di Palermo nel 1703, assai prima che Pio VII lo canonizzasse ufficialmente nel 1807.
Ci fu anche chi morì per fare l'Italia. Si chiamava Andrea Aguyar, era nato da una famiglia di schiavi dalle parti di Montevideo, era stato al fianco di Garibaldi in Uruguay e al suo rientro in Italia aveva seguito il condottiero nizzardo. Un disegno di George Housman Thomas per The Illustrated London News, lo raffigura dietro l'eroe dei due mondi mentre questi stava parlando con Nino Bixio. Sullo stesso quotidiano londinese, viene descritto come «un ragazzo minuto, vestito con un cappotto aperto rosso e uno sgargiante fazzoletto di seta legato attorno al collo che copriva le spalle». Di lui, dice Wikipedia citando fonti varie, scrissero «anche altri volontari stranieri giunti per combattere con Garibaldi, come lo svizzero von Hofstetter o il pittore olandese Jan Koelman», secondo il quale era «un Ercole di color ebano». Combattente coraggioso e straordinario domatore di cavalli (era lui, col suo lazo, a recuperare quelli sbandati dopo le battaglie), la leggenda dice che in almeno un paio di occasioni salvò la vita al condottiero guadagnandone non solo la stima ma l'affetto.
Morì il 30 giugno 1849, difendendo la Repubblica romana, colpito dalle schegge di una granata francese vicino alla basilica di Santa Maria in Trastevere. Dicono le agiografie che, prima di esalare l'ultimo respiro a Santa Maria della Scala, adibita a ospedale, mormorò: «Lunga vita alle Repubbliche di America e Roma!».
Eppure il suo busto non c'è, tra gli 84 eroi del Gianicolo tra i quali ci sono quattro dei tanti stranieri che combatterono per l'Unità: l'inglese John Peard, il finlandese Herman Lijkanen, l'ungherese Istvàn Türr e il bulgaro Petko Voivoda. Né, forse, sarebbe sopravvissuto al fascismo e alla dottrina della razza.
Unico riconoscimento, fino a qualche giorno fa, una scalinata tra Trastevere e Monteverde intestata ad «Andrea il Moro». Un nome anonimo, che dice e non dice. E che infine sarà cambiato, grazie a una decisione del consiglio comunale di Roma nata da una mozione del democratico Paolo Masini. E così finalmente, un secolo e mezzo dopo, Andrea Aguyar tornerà in possesso del suo nome. E chissà che anche qualche libro di storia cominci a parlare di lui... Dio sa quanto i nostri scolari ne abbiano bisogno.

Corriere della Sera 22.2.12
Come investire e guadagnare rispettando la legge coranica
risponde Sergio Romano


Assistendo ogni giorno alle storture del sistema finanziario del nostro mondo occidentale mi è venuto in mente che il mondo islamico ha in questo campo delle particolarità che, chissà, forse potrebbero dare qualche spunto nell'eliminazione degli aspetti più crudi del nostro liberismo... Ma di fatto non ne so molto e del resto se ne parla pochissimo. C'è qualche possibilità di armonizzazione dei diversi (se sono veramente diversi) sistemi?
Roberta Canziani

Cara Signora,
Come il cristianesimo delle origini e l'Europa dell'Alto Medioevo, l'Islam ritiene che gli interessi sul denaro prestato (in arabo riba) siano contrari alla legge divina. Anche il Concilio di Trento, dopo la riforma luterana, stabilì che «pecunia non paret pecuniam», che il denaro non genera denaro. Ma i mercanti fiorentini e genovesi del Trecento riuscirono a convincere il mondo ecclesiastico che non tutti i prestiti erano usura e che gli interessi avevano il grande merito di attrarre denaro, allargare la base finanziaria delle operazioni commerciali, favorire nuove iniziative e mobilitare nuove energie.
Nell'Islam, invece, questa svolta storica del capitalismo europeo non ha avuto luogo. Ma questo non ha impedito al mercante arabo di essere intraprendente, coraggioso, attento alle leggi fondamentali del mercato e, paradossalmente, il maggior propagatore della fede musulmana nel continente africano e in vaste regioni dell'Asia. Insieme alle sue merci, il mercante portava con sé il Corano e le regole della solidarietà caritatevole che Maometto (anch'egli mercante) aveva prescritto ai popoli della penisola araba.
Nuovi problemi sorgono quando i Paesi musulmani, nel corso del Novecento, affrontano i problemi della modernizzazione, e quando i giacimenti petroliferi cominciano a riversare colossali ricchezze nelle casse di alcuni Stati. Per fare buon uso di tanto denaro occorrono nuove regole, capaci di conciliare la tradizione coranica con il sistema finanziario costruito dall'Europa e dagli Stati Uniti. In uno studio ancora inedito ma ricco di notizie utili e interessanti, Fabrizio Martalò (un funzionario di banca che ha seguito attentamente l'evoluzione della finanza islamica) ricorda che lo scoglio degli interessi viene generalmente aggirato facendo del prestatore un comproprietario. Il caso più semplice è quello dei mutui per la costruzione di una casa. Anziché prestare denaro al cliente, la banca diventa il suo partner finanziatore in una impresa comune e gli venderà la propria quota di partecipazione alla fine dell'opera. Martalò ricorda che esistono operazioni e prodotti proibiti — i derivati, i «future», le opzioni — ma descrive nuove formule che vengono utilizzate, quando i clienti sono musulmani, anche da banche europee. Un esempio interessante, descritto da Martalò, è quello di un'operazione realizzata nel 2004 dal Land della Sassonia-Anhalt. Il Land «ha ceduto degli immobili per un valore di 100 milioni di euro a una società olandese che ha reperito i fondi necessari per acquistarli attraverso l'emissione di certificati. Il Land ha chiesto di prendere in affitto i terreni venduti dietro pagamento di un canone. A questo punto i sottoscrittori dei certificati ricevono un rendimento periodico rappresentato dalle rate pagate dalla regione tedesca. Questo titolo risponde alle esigenze di un investitore islamico (…) perché il rendimento periodico è costituito dal pagamento dell'affitto dei terreni e non dal pagamento di un interesse. Alla scadenza del contratto, il Land tedesco può decidere di riacquistare i terreni o prorogare il contratto di affitto per un ulteriore periodo di tempo».

l’Unità 22.2.12
Gerusalemme libera il «Bobby Sands» della Jihad
Khader Adnan, in prigione in Israele senza processo, ha ripreso a mangiare dopo 66 giorni di sciopero della fame. Folle di palestinesi in festa a Jenin
di U. D. G.


Il «Bobby Sands» di Palestina ce l’ha fatta. Dopo 66 giorni di sciopero della fame, Khader Adnan (33 anni) ha vinto la sua battaglia. Incarcerato dal 17 dicembre scorso nonostante non vi fosse alcuna accusa formale nei suoi confronti, il palestinese, un tempo portavoce della Jihad islamica, sarà liberato il prossimo 17 aprile. «C'è un accordo», ha fatto sapere il ministero della Giustizia israeliano, per cui Khader Adnan «sospenderà lo sciopero della fame e non sarà prorogata la sua detenzione amministrativa», ovvero la misura che i militari dello Stato ebraico posso prendere nei confronti di sospettati anche in assenza di imputazioni specifiche. In base a questa norma Israele ha fatto arrestare almeno 315 palestinesi, ancora in carcere.
L'intesa, legittimata dalla Corte suprema di Gerusalemme, prevede che Khader Adnan cessi lo sciopero della fame e resti ricoverato nell'ospedale Ziv di Safed (Galilea), viste le sue precarie condizioni di salute. Secondo il quotidiano di Tel Aviv Haaretz, se nelle prossime settimane non sopraggiungeranno elementi nuovi a suo carico, lo sceicco sarà rimesso in libertà all'inizio di aprile. La «Corte Suprema israeliana ha deciso di rilasciare Khader Adnan il 17 aprile e alla luce di questo lui ha messo fine allo sciopero della fame», dichiara il ministro per gli Affari penitenziari dell’Autorità nazionale palestinese, Issa Qaraqaa.
Sul suo caso si erano pronunciate nei giorni scorsi anche le Nazioni Unite e l'Unione europea, chiedendo a Israele di adoperarsi per tutelare la salute dell'uomo.
L’altro ieri, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat aveva fatto sapere di aver inviato un messaggio alla Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, e al capo della diplomazia Ue, Catherine Ashton, sollecitandole a fare pressioni su Israele: «Ho chiesto loro di intervenire sul caso di Adnan. Devono fare pressioni su Israele per ottenerne il rilascio» Una richiesta esaudita. Nel corso dello sciopero della fame l'uomo ha perso oltre 30 chilogrammi e l’altro ieri, ha precisato il suo avvocato, Jawad Boulos, i medici dell'ospedale hanno deciso di sostenere il suo fisico con la somministrazione di un «pacchetto salva-vita» di minerali.
A protestare ora è la destra israeliana. In dichiarazioni riportate dalla radio militare, Avigdor Lieberman, ministro degli Esteri e leader di Israel Beitenu (destra nazionalista), ha affermato che Israele ha commesso un «grave sbaglio» e si è di fatto arreso di fronte all'esponente della Jihad islamica. Il ministro ha quindi accusato di «tradimento» quei parlamentari arabi israeliani che hanno mediato l’intesa, e ha sostenuto che essi si sono fatti interpreti della volontà di una organizzazione terroristica, ossia della Jihad islamica. Nessun commento dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. La notizia della «vittoria» di Khader Adnan è stata accolta con manifestazioni di gioia nei Territori, in particolare a Jenin, la città natale del «Bobby Sands» palestinese.

l’Unità 22.2.12
Il boia non riposa mai. 676 esecuzioni a Teheran nel 2011
Rapporto dell’ong Iran Human Rights sulla pena di morte
nella Repubblica Islamica. Sempre più numerose le impicaggioni in piazza, nel nuovo codice niente sulla lapidazione
di Gabriel Bertinetto


Sono ben 676 le persone messe a morte in Iran nel 2011. Centotrenta in più rispetto al 2010, secondo un trend ininterrotto di aumenti che non conosce pause o flessioni dal 2005 in poi. Lo rivela il rapporto sulla pena capitale in Iran presentato dall’associazione Iran Human Rights ieri al Senato. Un elenco redatto con meticolosa serietà, basandosi sia sui dati forniti dalle autorità sia dai racconti di fonti non ufficiali, vale a dire famiglie e avvocati delle vittime o testimoni oculari delle esecuzioni. Nel secondo caso la notizia viene ritenuta attendibile solo se proviene da due diverse fonti ufficiose. Il ché significa che con ogni probabilità quella cifra di 676 impiccati è errata per difetto.
Il massiccio ricorso alla pena di morte è solo uno dei modi in cui si manifesta la sistematica violazione dei diritti umani nella Repubblica islamica. Particolarmente e tristemente significativa è la diffusione sempre più larga delle esecuzioni in pubblico. Furono 9 nel 2009, salirono a 19 l’anno seguente, e sono state ben 65 nel 2011. La valutazione di Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce internazionale di Iran Human Rights, che ha sede a Oslo e ha filiali in vari Paesi tra cui l’Italia, è che «il regime voglia che la pena di morte entri a far parte della cultura nazionale come fosse una pratica naturale». A questo mirerebbe in particolare il coinvolgimento di civili nella macabra dinamica degli assassini di Stato. I parenti delle vittime dei reati attribuiti al condannato, partecipano spesso all’uccisione. «Oltre ad avere sofferto le conseguenze del crimine, essi diventano così complici di un assassinio».
La maggior parte dei condannati a morte sono persone giudicate colpevoli di narcotraffico. Ma la scarsa trasparenza del sistema processuale iraniano lascia supporre che sotto quell’etichetta vengano puniti a volte altri reati, o magari persone innocenti. Le udienze si svolgono spesso a porte chiuse, e solo il 9% degli imputati vengono chiaramente identificati con nome e cognome.
Amiry-Moghaddam non sottovaluta alcuni miglioramenti introdotti nel codice penale iraniano. Ad esempio l’abolizione della pena di morte per i minorenni, seppure con alcune gravi ed estese eccezioni previste dalla legge, è un fatto positivo, e dimostra quanto siano importanti le campagne di informazione internazionali, perché se i legislatori di Teheran hanno attenuato certi aspetti particolarmente brutali del loro ordinamento giuridico, questo si deve in buona parte proprio «all’efficace pressione» arrivata dall’esterno. Dai governi e dalle associazioni per la tutela dei diritti dell’individuo.
Il nuovo codice che dovrebbe presto essere annunciato dal governo, non parla più della lapidazione per adulterio. Ma in mancanza di comunicazioni ufficiali, sia su questo sia su altri articoli del codice, restano dubbi. Ad approvare o meno un'eventuale sentenza di lapidazione, scrive ad esempio il quotidiano Sharq citando il vice presidente della commissione affari legali del Majlis (il Parlamento), sarà la Guida suprema, e non come in passato alti membri del clero. Il ché potrebbe ridurne il numero di applicazioni concrete. Quanto alla pena di morte, un minore potrebbe anche non sfuggirvi se il giudice lo dovesse ritenere già intellettualmente maturo. Al tempo stesso il codice vieta riduzioni di pena per atti ritenuti contrari alla sicurezza nazionale, così come per i reati economici. Un tema particolarmente attuale, quest'ultimo, dopo la grande truffa finanziaria per la quale il processo è iniziato proprio nei giorni scorsi a Teheran. Grave è la persistente persecuzione con la fustigazione o la morte dei comportamenti omosessuali.
Pietro Marcenaro, presidente della Commissione diritti umani del Senato, ritiene che le condanne a morte siano aumentate anche «perché usate come strumento di intimidazione e terrore contro l’opposizione. Ma per fortuna in Iran c’è ancora una società civile che si muove». Per questo secondo Marcenaro sarebbe controproducente ricorrere a misure come l’interruzione delle relazioni diplomatiche con Teheran: «Sull’interpretazione dei diritti umani non esistono posizioni univoche nel clero sciita. E lo stesso vale per l’interpretazione del Corano e della Sharia. Il dialogo religioso e culturale apre spiragli che possono essere vitali per coloro che agiscono nel contesto sociale iraniano». Nella stessa logica, Marcenaro non è d’accordo con «chi pensa di cambiare le cose assassinando degli scienziati nucleari, come è accaduto più volte in Iran negli ultimi anni. «In questo modo si tappa la bocca proprio a chi in Iran si batte per la democrazia», perché si dà pretesti a chi vuole reprimere ogni dissenso.

La Stampa 22.2.12
Capire i gesti il linguaggio che non mente
Seneca diceva: «Gli uomini credono più ai loro occhi che ai loro orecchi»
di Maurizio Ternavasio


Il manuale «101 cose da sapere sul linguaggio del corpo» (Newton Compton, pp. 236, euro 9,90)

Camminare con le mani dietro la schiena? Un sintomo di schiettezza e di apertura verso gli altri. Mettere le braccia conserte durante una conversazione? Non significa aver freddo o essere offesi, ma è una sorta di istinto di difesa. Torturarsi le labbra, invece, comunica in genere rabbia o desiderio, perché rappresenta un tentativo di mordere l’altro.
Sono solo alcuni dei gesti e dei movimenti di ognuno di noi, volontari e non, analizzati e raccontati nel libro «101 cose da sapere sul linguaggio segreto del corpo» di Francesco Di Fant. Perché spesso ciò che non viene detto è più eloquente delle parole, specie se al loro posto si lanciano messaggi inequivocabili. La sfida è appunto nella loro interpretazione, per capire emozioni, sensazioni, paure e pensieri di chi ci sta di fronte, ma anche per svelare (o non svelare) la parte di sé che per qualche ragione si vuol tener nascosta.
Seneca diceva: «Gli uomini credono di più ai loro occhi che alle loro orecchie». E questo è l’assunto di partenza del manuale, che sciorina consigli preziosi suddivisi per parti del corpo. Le gambe accavallate, ad esempio, vengono di solito «lette» come fenomeno di seduzione femminile, e non solo alla luce della famosa scena di Sharon Stone in «Basic Instinct».
L’aspetto tipico della seduzione in questo tipo di movimento è, secondo l’autore, la velocità: più è lento e più stimola l’interesse di chi osserva; e se l’incrocio delle gambe, meglio se scoperte, è accompagnato da uno sguardo d’interesse, allora il gioco è più che esplicito. Chi si scrolla la polvere di dosso, specie se immaginaria e non soffre di forfora, può desiderare di allontanare pensieri o immagini che non si intende accettare. E dietro a ciò può anche esserci il tentativo di scuotersi, di riprendersi o di spazzare via l’apatia.
Quelle che fornisce l’autore, laurea in Scienze della comunicazione e consulenteformatore presso importanti aziende, sono indicazioni illuminanti, ma non certo dogmi: qualsiasi tipo di espressione non verbale non va letto alla luce di un’unica spiegazione, ma nell’ambito di tutti i gesti che l’accompagnano e degli altri aspetti della persona. Come ad esempio l’interpretazione della «musica» - o, meglio, dei rumori - del corpo: un respiro lento indica pacatezza e riflessione, il gulp dei fumetti - conseguente all’inghiottire saliva spesso è segnale di paura o tensione, come del resto il far schioccare le dita delle mani o lo sfregare i denti. Il corpo inclinato in avanti è segnale invece di dominanza, se è bello dritto simboleggia predominio o un atteggiamento neutro, se inclinato indietro è sintomo di sottomissione.
Interessante anche il capitolo che insegna a scoprire le bugie dalla voce altrui. Quando cambia ritmo, tono e volume, è meglio stare sul chi va là. Lo stesso se il presunto - bugiardo intervalla il discorso con pause e troncamenti improvvisi.
Ma chi mente spesso lo rivela anche tamburellando le dita su una gamba, mangiandosi le unghie, battendo i piedi velocemente o toccandosi la nuca o il collo. Occhio soprattutto se chi parla frappone un ostacolo - una sedia o un bicchiere - tra sé e l’interlocutore.
L’osservazione degli altri diventa così quasi un passatempo, specie nei tempi morti in metropolitana o in treno: piccoli gesti, tic, la gestione del contatto visivo e l’immancabile abbigliamento, possono far cogliere aspetti del carattere di chi si ha di fronte. E se poi nello scompartimento trilla l’immancabile telefonino, un brandello di dialogo - per il modo di parlare e per le cose dette in un modo piuttosto che in un altro - può avallare o meno ciò che si è immaginato del compagno di viaggio.

La Stampa 22.2.12
Esercizi (filosofici) di stile
di Federico Vercellone


L’ ornamento non è un delitto, nonostante Adolf Loos. E lo stile non è un inutile orpello. Lo stile è eloquente, fornisce le connotate sociali di un individuo, parla della sua sensibilità, dice molto anche delle sue scelte. Grazie allo stile ci si rende riconoscibili. Questo vale anche per l’insieme di una cultura. Dallo stile di un frammento, infatti, possiamo spesso ricostruire aspetti ben più ampi di una civiltà.
Non è detto, per altro, che l’uomo di stile debba essere per forza un dandy, un aristocratico, o un artista. Potrebbe trattarsi anche di uno scienziato o di un filosofo. Pure la comunicazione astratta ha infatti bisogno di stile. Non a caso i matematici valutano anche secondo la sua bellezza la riuscita di un teorema. E i filosofi, se non vogliono perdersi in astrusi tecnicismi o in astrazioni prive di vero interesse, devono saper parlare a lettori che si sentano coinvolti personalmente dalle loro tesi. Ce lo ricorda Mauro Bozzetti, professore di filosofia teoretica presso l’Università di Urbino, in Pensare con stile. La narratività della filosofia (ed. La Scuola), un libro che ripercorre la questione nella vicenda filosofica e la ripropone in tutta la sua sempre urgente attualità.
Da Petrarca a Wittgenstein, passando, tra gli altri, attraverso Schleiermacher, Pareyson, Focillon e Frank, si riscontra che filosofia e letteratura, il pensiero rigoroso, concettuale e la narrazione sono intimamente connessi e intrecciati. Le superfici dell’arte figurativa e gli abissi della metafisica sono, a ben vedere, tra loro intimamente congiunti da un’aspettativa analoga. Entrambi producono, attraverso lo stile, il loro pubblico, e sono in attesa che esso risponda, prenda forma, assuma un volto.
Ogni forma di stile - letterario, figurativo, filosofico vive di questa attesa, come testimonia, tra l’altro, anche il confronto filosofico a proposito del romanzo di Italo Calvino Se una notte d’inverno un viaggiatore che coinvolse negli Anni 80 del secolo scorso figure del massimo rilievo della filosofia tedesca, Jürgen Habermas e Hans Robert Jauß. Anche questo dialogo mostra quanto lo stile sia potente. Esso costituisce un appello, seleziona il pubblico di un libro, ne fa così una presenza influente nel mondo che ci circonda.

Repubblica 22.2.12
Per la prima volta il mondo analitico scende in campo per difendere una disciplina messa sotto accusa. Perché solo ora?
di Luciana Sica


er la prima volta insieme. Allo scoperto. Escono dalle loro "stanze", non incassano come sempre, fanno sentire la loro voce. A dispetto di una storia infinita di litigi, scissioni, scontri, diffidenze, sospetti, accuse che da sempre attraversano (e indeboliscono) la psicoanalisi, di fronte a un paio di articoli giornalistici considerati l´ennesimo attacco alla loro disciplina, quattro analisti delle scuole più importanti sottoscrivono un documento, che noi qui pubblichiamo.
Il primo firmatario è Stefano Bolognini, al timone della Società psicoanalitica e ormai soprattutto primo presidente italiano dell´International Psychoanalytical Association (l´Ipa, fondata da Freud nel 1910, dodicimila iscritti in tutto il mondo). Notissima firma al femminile del mondo freudiano è Simona Argentieri, didatta dell´Associazione italiana di psicoanalisi. Antonio Di Ciaccia, allievo diretto di Lacan, è da noi l´autorevole curatore dell´opera del maestro francese. E Luigi Zoja, personaggio di segno cosmopolita dello junghismo, è autore di saggi coltissimi tradotti in una decina di idiomi.
Quattro nomi più che rappresentativi. Dietro di loro c´è una moltitudine di colleghi "indignati" per le accuse rivolte a un sistema di pensiero che - da Freud a oggi - si è evoluto in modo impressionante, e come metodo di cura e strumento di comprensione della realtà ha influenzato la cultura in ogni sua espressione. Ma quello che più sorprende è che gli analisti si decidano a una protesta così inconsueta e vistosa.
Perché solo ora? Da Popper a Grünbaum, da Nagel al Libro nero, fino al più recente pamphlet di Michel Onfray, la psicoanalisi è silenziosamente sopravvissuta a guerre "ideologiche" come a requisitorie serie e molto ben argomentate, alla moda diffusa d´intonare cori funebri come alla mania dei gossip sulla vita personale dei suoi fondatori. Soprattutto l´ondata trionfalistica del cognitivismo sembrava annunciarne la definitiva liquidazione, ma così non è stato, e anzi la psicoanalisi si è presa le sue rivincite culturali, grazie a studiosi geniali come i Nobel Edelman e Kandel, al dialogo con le neuroscienze, alla forza intellettuale e anche mediatica di "philostar" influenti come Slavoj Zizek. Inoltre è la psicoanalisi italiana che ha acquistato più prestigio, e non solo per il ruolo internazionale di Bolognini. Vorrà pur dire qualcosa se il Censis di De Rita ha bisogno di ricorrere alle metafore psicoanalitiche di Massimo Recalcati per "leggere" in profondità i mutamenti sociali.
Il resto è cronaca di questi giorni. Gli analisti non si sono entusiasmati alla lettura di un articolo uscito sul supplemento "Salute" del nostro giornale. E poi sono rimasti sconcertati dalla prosa di Gilberto Corbellini, su un recente domenicale del Sole 24 Ore. Lo storico della medicina, coautore dell´ultimo libro di Jervis, decisamente non gradisce la «perniciosa influenza, culturale e politica, della psicoanalisi. In modo particolare, degli esponenti di una delle sette psicoanalitiche più insidiose, cioè il lacanismo». Di qui la piccola significativa bagarre.

Repubblica 22.2.12
Uniti a favore di "una scienza a statuto speciale"
Ecco Il manifesto che mette insieme scuole diverse
Stefano Bolognini, Simona Argentieri, Antonio Di Ciaccia, Luigi Zoja


Alcuni recenti articoli giornalistici hanno ravvivato il dibattito sulla psicoanalisi mettendone in discussione lo statuto scientifico, l´utilità clinica e la legittimità sociale come metodo di assistenza e di cura nelle patologie gravi. Da molti decenni la psicoanalisi è descritta dai suoi detrattori come inattendibile, dannosa, parassitaria, epistemologicamente infondata, in procinto di scomparire... Piaccia o no, le cose non stanno affatto così. E seppure certe critiche non rappresentano una gran novità, questa volta vorremmo puntualizzare alcuni aspetti utili a un´informazione più corretta. E vorremmo farlo insieme, superando per una volta le divisioni e le differenze che appartengono alla storia del movimento psicoanalitico.
Intanto oggi la scienza è polifonica, critica e non conchiusa. Fa riferimento alla complessità, alla discontinuità, alle leggi del caos, alla casualità. Restringere lo studio della mente umana alle sole discipline psichiatriche e neuropsicologiche - che, sia chiaro, sono di enorme interesse anche per gli psicoanalisti - sarebbe riduttivo e arbitrario. La psicoanalisi è una scienza a statuto speciale che esplora non solo la dimensione inconscia (suo specifico storico e sostanziale), ma anche le relazioni della coscienza con l´inconscio, le interrelazioni profonde tra i vari livelli interni dell´individuo e dei diversi individui nella coppia, nel gruppo, nella comunità. Con la sua straordinaria evoluzione teorico-clinica, si è ramificata in varie scuole che hanno contribuito a descrivere e trattare aree sempre più specifiche del disagio mentale.
L´esperienza dell´analisi, ad ore e giorni convenuti (il setting), nei tre continenti storici (Europa, Nord America e America latina) e recentemente anche in Medio Oriente e in Asia (soprattutto in Cina), si basa comunque su una ricerca metodica e impegnativa del contatto con sé e il proprio inconscio. E ormai sappiamo bene che il recupero di una vivibile soggettività individuale - in molti casi di nevrosi, patologie narcisistiche, sindromi borderline, psicosi - è reso possibile da una relazione complessa e continuativa tra due persone, da un "lavorare insieme" su angosce, bisogni, dolori, desideri non riconosciuti. Certamente le patologie psichiatriche gravi, come alcune sindromi autistiche, richiedono adattamenti di tecnica specifici e mirati, e molto spesso la terapia che ne risulta non è affatto un trattamento psicoanalitico. Il nostro contributo riguarda di solito la gestione complessiva di casi in cui il paziente, la famiglia e gli stessi operatori della salute necessitano di un supporto che renda la loro dolorosa vicenda umana più comunicabile.
Oggi la psicoanalisi non è alla vigilia della sua scomparsa, ma è anzi decisamente viva. La sua sfida attuale è quella di contrastare nuove forme di attacco alla capacità di pensare e alla relazione tra le persone, che caratterizzano la nostra epoca. Gli esseri umani sono invitati in vari modi, impliciti ed espliciti, ad evitare il contatto con se stessi, a coltivare illusioni di onnipotenza e di totale autodeterminazione, ad identificarsi attraverso i media con idoli o gruppi idealizzati, a ritirarsi nell´uso della tecnologia virtuale, a privilegiare le difese maniacali considerando l´euforia e il piacere le uniche condizioni degne e normali della vita.
Configurare una funzione sociale della psicoanalisi potrebbe risultare velleitario, di fronte a fenomeni di questa portata. Ma la voce degli psicoanalisti ha un suo effetto nel tempo medio-lungo e produce cambiamenti profondi nella cultura: è accaduto in passato, potrebbe accadere ancora nel futuro. Quello che oggi va difeso, come assolutamente centrale, è il "fattore umano" e - anche nelle patologie più gravi - ogni residuo frammento di speranza.

Repubblica 22.2.12
Panteismo
Quella religione del mondo che ha sostituito il Dio unico
Esce il saggio di Parazzoli, un documento sul nuovo credo, con la prefazione di Mancuso che anticipiamo
di Vito Mancuso


Rifiutando sia il teismo sia il nichilismo, in questo libro Parazzoli abbraccia il panteismo, nel senso che il suo Dio (il principio primo, il fondamento) diviene qui il mondo stesso, rappresentazione dietro la quale non c´è nulla e nessuno (negazione del teismo), senza però che il suo senso sia il nulla e vi sia l´impossibilità di stabilire una gerarchia di valori (negazione del nichilismo). Anche se privo della sua serenità, Parazzoli ripercorre il sentiero di Spinoza. Anche se privo della sua gioia dionisiaca, Parazzoli ripercorre il sentiero di Nietzsche. Senza serenità e senza gioia, il percorso di Parazzoli verso il panteismo è piuttosto simile al grido di Munch, e talora in alcune espressioni a una sorta di ghigno metafisico alla Hieronymus Bosch. Comunque sia, a prescindere dal percorso personale, questo libro è il documento di un nuovo credo, il credo di un uomo che passa dal Deus cristiano al Deum pagano, perché è esattamente questa impersonalità neutra della Divina Energia ciò che Parazzoli chiama Rappresentazione (o anche Natura e Mondo) e che per lui è tutto. La frase centrale di questo strano saggio filosofico-teologico è infatti, a mio avviso, quella che riporta i pensieri del «brutto granchio grigio» che, nascosto dietro una scopa, sta per morire: «Capì» (il soggetto è appunto il brutto granchio grigio) «che anche quel suo starsene a morire dietro una scopa faceva parte di qualcosa che avviene, e che quel qualcosa è la vita stessa di dio… il mondo altro non è se non la vita di dio. Dio non è mai scomparso, la sua assenza è soltanto un abbaglio. Al contrario, dio è in continua, totale, dinamica apparizione, è tutto ciò che appare e che qualunque granchio può vedere, eternamente presente, senza passato né futuro. Dio è soltanto il presente, tutto il mondo è soltanto il presente, è la rappresentazione di ciò che avviene. Non c´è altro al di fuori di dio, nulla avviene al di fuori di dio. Dio è inevitabile». Ecco una delle più chiare e luminose confessioni di fede panteista. Non c´è alcuna eclisse o tramonto di Dio, ciò che muore è solo Deus per lasciare di nuovo il posto a Deum.
Questo libro è il corrispettivo cristiano del testo con il quale il pagano Plutarco, ormai quasi venti secoli fa, aveva intuito la fine ormai prossima del paganesimo, testimoniandola nella celebre pagina del De defectu oraculorum (Il tramonto degli oracoli): «Appena si giunse presso Palode regnò una gran pace e di venti e di flutti; Tamo, da poppa, con lo sguardo volto alla riva esclamò, come aveva udito: "Pan, il grande, è morto!"». L´antico testo prosegue annotando che «egli non aveva neppure chiuso bocca, che un immenso gemito, non di uno ma di molti, s´innalzò, misto a grida di stupore».
Nel IV secolo, quando la vittoria del cristianesimo monoteista sul politeismo pagano era ormai conclamata, Eusebio di Cesarea interpretava questo brano di Plutarco come simbolo della fine del paganesimo, sconfitto con tutti i suoi Dei dall´avvento di Cristo (Preparatio evangelica, v, 17). Plutarco, che fu sacerdote del tempio di Apollo a Delfi, annunciò la morte di Pan e con ciò del paganesimo politeista; Parazzoli, che non è un sacerdote ma spesso in queste pagine paragona lo scrittore al sacerdos e la scrittura all´opera liturgica scrivendola al maiuscolo, Opera, annuncia la morte del Dio unico e con ciò del cristianesimo monoteista. Si può quindi trattare di una risurrezione di Pan? Questo libro è forse un segnale dell´incipiente rivincita del paganesimo panteista? Si tratta di una domanda a cui solo il tempo darà una risposta.
Quello che è certo è che quanto aveva portato Plutarco ad annunciare la morte di Pan, cioè il venir meno degli oracoli e della voce degli Dei, è il medesimo elemento che oggi porta Parazzoli ad annunciare il venir meno del Dio della tradizione cristiana. Il defectus odierno concerne la mancanza di una qualunque voce divina che risponda oggi alle esigenze di verità e di giustizia che sorgono nel cuore dell´uomo, nel senso che il Dio unico (personale, onnipotente, provvidente, giudice, creatore e signore, senza il cui volere diretto o indiretto non si muove foglia, che vedendo il male lo può impedire ma lo permette per un bene maggiore), quel Dio lì, non sa più onorare con il suo silenzio la richiesta di verità e di giustizia dell´anima umana.
Il paganesimo panteista di Parazzoli ha i suoi consigli esistenziali e spirituali da proporre. Per esempio come quando si avvicina all´epicureismo rifacendosi a Orazio: «Ho vissuto, dice Orazio, ed è semplicemente questo a rendere felici, ma per dire "ho vissuto" occorre avere la piena coscienza del vivere, una felicità sommessa ma costante, simile a se stessa come il respiro e, come il respiro, pronta a interrompersi. Un saluto, e via». Oppure come quando si avvicina allo stoicismo, con parole da cui emerge la medesima nobile filosofia di vita di Seneca, Epitteto, Marco Aurelio e, ai nostri giorni, di Pierre Hadot: «Se la vita ha un senso e la felicità sta nella coscienza di vivere, occorre una meta verso cui navigare, riconoscenti nella fortuna, fermi nelle avversità. Allora, l´imbarazzante e talvolta frivola "felicità" si muterà nella più umana e solida "fortezza", stato di vita sottratto al capriccio del destino e affidato all´esercizio della volontà». Oppure come quando ripresenta la spiritualità del naufragio che è stata la proposta spirituale del grande Karl Jaspers: «Il vero navigante sa che puntando alle certezze di cui fu nutrito, si infrangerà miseramente. Per cui, abbandonandole, metterà la prua al largo cercando la salvezza proprio nella tempesta, rifuggendo le finte certezze offerte dalla terra, affrontando il rischio del mare aperto». Oppure come quando raggiunge la quiete del Buddha con parole peraltro attribuite a Gesù: «Fate silenzio una buona volta e ascoltate la pace. Tiratela fuori, l´avete nascosta dentro di voi la pace: avrete un mondo nuovo, senza più iperboliche parabole, a misura del vostro cuore». Qualcuno potrebbe vedervi un´incoerenza, persino un po´ di confusione. Ma a Parazzoli non interessa la coerenza del sistema, anzi sono sicuro che sottoscrive in pieno le seguenti parole di Nietzsche: «Diffido di tutti i sistematici e li evito. La volontà di sistema è una mancanza di onestà». A uno che teorizza la dissolvenza del Dio unico, la pluralità e anche una certa dissonanza dei sentieri proposti non può risultare sgradita, semmai è proprio ciò che va cercando. (...)
Ferruccio Parazzoli ha voluto indagare lo sfondo oscuro, «scoprire il punto oscuro del mondo in cui piantare la mia leva per rovesciarlo», come si legge nel «Discorso di Gesù morto». In queste pagine l´ha fatto in forma saggistica, anche se non prive di invenzioni narrative, dopo che nei suoi numerosi romanzi, tra cui desidero ricordare Nessuno muore (Mondadori 2001) e Il mondo è rappresentazione (Mondadori 2011), l´ha fatto in forma narrativa. Ma l´indagine è unica, come unica è la vita. E l´indagine alla fine l´ha condotto ad abbracciare il panteismo. Questo libro si presenta quindi come l´onesto documento di un uomo che è stato cattolico per tutta la vita, e quindi naturalmente teista, e che ora non è più teista, bensì panteista. Questo comporta per lui che debba cessare di essere o di ritenersi cattolico? Non è detto, potrebbe benissimo confluire nel numero ogni giorno crescente di coloro che inaugurano nuovi modi di stare al mondo come cattolici, di coloro che non possono né vogliono sbarazzarsi di una radicata formazione cattolica, ma dall´altro non possono né vogliono mettere più a tacere una coscienza critica che impedisce di proseguire a credere una serie di infondate affermazioni teologiche proposte ancora oggi dalla Gerarchia. In questo senso Parazzoli si colloca a suo modo all´interno di quel fenomeno sempre più consistente all´interno del cattolicesimo che il filosofo Pietro Prini, anche lui cattolico, denominò «scisma sommerso», e che forse è solo la punta di un iceberg.

Repubblica Firenze 21.2.12
Accademia nel caos, il presidente si dimette
di Laura Montanari

Belle Arti,Mecacci lascia e accusa: "La struttura è fatiscente, i docenti vivono alla giornata". La sua nomina risale a pochi mesi fa. La denuncia di una studentessa: aule inagibili

Si è dimesso e accusa. Il presidente dell'Accademia di Belle Arti, Luciano Mecacci ha scritto una lettera al ministero restituendo il mandato a pochi mesi dalla sua nomina. Era stato incaricato lo scorso 28 ottobre dall'allora ministro Gelmini: "Nel breve periodo nel quale ho esercitato il ruolo di presidente - scrive nella lettera - è emersa una serie di problemi che attengono a vari aspetti della gestione e funzionalità didattica e amministrativa dell'Accademia, per la cui soluzione occorre un impegno sistematico e competente che non sono in grado di assicurare compiutamente e adeguatamente". Cosa significa tutto questo? Cosa ha fatto precipitare la situazione di un'Accademia sempre più nel caos, come scrive una studentessa a Repubblica, denunciando disorganizzazione e una struttura fatiscente con diverse aule giudicate inagibili? "Si sono intrecciati almeno due fattori spiega Mecacci, psicologo, ex docente dell'università fiorentina - da una parte la sede, un edificio del Trecento è bellissimo, ma inadatto all'uso per una istituzione che prevede corsie laboratori. Ho chiesto di recente al ministero di stornare una cifra di 400mila euro, ma con quella sistemo al massimo 3 o 4 aule affrescate e non risolvo il problema di fondo".

Secondo punto, più grave, è un'accusa diretta ai docenti: "Non mi è stata ancora presentata una programmazione didattica per il 2012, le lezioni sono cominciate dal 1 novembre eppure non c'è ancora un orario definitivo. E' accettabile tutto questo?".

Sono un centinaio i docenti che lavorano oggi in questa storica Accademia di alta formazione artistica nata nel Settecento e sono 1.300 circa gli studenti iscritti, molti di questi ultimi vengono dall'estero perché la scuola è rinomata ed è stata una fucina di artisti che hanno opere in musei e gallerie nel mondo. "Purtroppo oggi è come se si vivesse alla giornata - accatta ancora il presidente appena dimessosi - Ci sono lezioni che vengono spostate, studenti che arrivano in aula e non trovano nessuno in cattedra e poi li vedo in presidenza a protestare o a piangere sconfortati". Luciano Mecacci, che per nove anni è stato prorettore alla didattica nell'università di Firenze (prima con Blasi rettore, poi con Marinelli), non ci sta: "I docenti non stanno organizzando un progetto formativo adeguato alle esigenze professionali moderne per le quali l'Accademia potrebbe chiedere delle risorse e poi c'è una forte conflittualità interna che è un ulteriore ostacolo nella gestione della scuola". Dalla parte degli studenti c'è chi conferma le lezioni spostate da un'aula all'altra, l'assenza di spazi-studio nella sede di via Ricasoli, ma anche riduzioni dei laboratori passati da annuali a semestrali o la mancanza di spazi che costringe a turnazioni e di fatto riduce la possibile fruizione di queste ore: "Ma i laboratori per chi studia nell'Accademia di Belle Arti sono fondamentali" fa notare una studentessa. Il presidente dell'Accademia ha comunicato la sua decisione di dimettersi venerdì scorso al consiglio accademico riunito in via Ricasoli, la prossima mossa spetta al ministero.