giovedì 23 febbraio 2012

l’Unità 23.2.12
Damiano e Orfini: «Saremo in piazza». Fassina: «Decida il partito»
Meloni e Ceccanti «Non si può: è un’iniziativa contro il governo»
Si può partecipare al corteo della Fiom? Alta tensione nel Pd
Dopo l’articolo 18 il Pd si spacca sulla partecipazione al corteo Fiom. Fassina: «Per me deciderà la segreteria». Critiche da veltroniani e lettiani. Damiano e Orfini: noi andremo. Il Nazareno: «Chi vorrà andare andrà»
di Maria Zegarelli


Stefano Fassina ha rimesso la decisione di partecipare alla manifestazione Fiom del 9 marzo nelle mani della segreteria; Matteo Orfini ha annunciato che lui andrà; Cesare Damiano non trova un motivo per non andare; dal fronte veltroniano Stefano Ceccanti critica chi va perché la manifestazione «è contro il governo»; dal fronte lettiano, Marco Meloni invita il responsabile Lavoro Pd a «smetterla con le provocazioni».
Il Pd si consuma nell’ennesima polemica sull’opportunità o meno di partecipare a manifestazioni indette dai sindacati, e così al segretario Pier Luigi Bersani tocca ancora una volta cercare la mediazione: «Si vedrà la piattaforma della manifestazione, poi chi vuole andare vada». Dal Nazareno smorzano: «È giusto che un partito ascolti tutti. Fassina è andato anche alla manifestazione di Cisl e Uil, ma nessuno gliene ha chiesto conto».
Fassina annuncia che «sarà il partito a decidere se andrò in piazza perché dato il delicatissimo passaggio politico, mi preme anzitutto l’unità della “ditta” e intendo fare ogni sforzo per rappresentare l’insieme del Pd». Ma a chiamarlo in causa sono anche Cisl e Uil.
Il caso nel caso è esploso a Imola dove oggi si sarebbero dovuti incontrare, per una iniziativa organizzata dal Pd, Fassina e i segretari locali dei due sindacati Danilo Francesconi (Cisl) e Paolo Liverani (Uil). Diserteranno l’incontro per «sgomberare il campo da ogni possibile ipocrisia». Insomma, se Fassina va alla manifestazione Fiom appoggiando iniziative «di mobilitazione aventi l’obiettivo dichiarato di far saltare il tavolo di confronto sulla riforma del mercato del lavoro», l’incontro emiliano non ha senso. «Dispiaciuto e sorpreso» il diretto interessato, che ricorda quanto «cordiali siano invece le relazioni con le segreterie nazionali». «Profondo rammarico e stupore» nel Pd di Imola, che sottolinea come la posizione dei democratici sia proprio quella di favorire l’accordo tra le parti sociali e il governo.
CHI VA E CHI NON VA
«Appoggiamo un governo assieme a Sacconi e Gasparri, per le ragioni che conosciamo e condividiamo, e adesso, proprio chi non esita a sostenere la necessità di prolungare il più possibile un simile esperimento, persino oltre il voto, trova imbarazzante la compagnia di qualche metalmeccanico Fiom o di qualche esponente della sinistra radicale, in una semplice manifestazione?», chiede provocatoriamente Orfini. Un dirigente Pd, aggiunge, non «dovrebbe provare imbarazzo a stare vicino a metalmeccanici che difendono il proprio lavoro e i propri diritti». Fassina guarda alla piattaforma della manifestazione: «Non è contro il governo Monti dice ma per rivendicare la democrazia nei luoghi di lavoro e questo dovrebbe interessare tutti». In realtà, così come sull’articolo 18, anche sulla manifestazione si scontrano i diversi approcci al governo Monti: l’appoggio incondizionato e il sostegno “leale ma critico”.
Ceccanti torna alla carica: chi ha detto che la posizione di Fassina su lavoro e articolo 18 sia maggioritaria? E ancora: la partecipazione al corteo Fiom «è puramente individuale o è stata decisa in qualche organo?». Inconciliabile per il costituzionalista l’appoggio all’iniziativa della Fiom e al governo Monti. Per il liberal Enzo Bianco «le voci critiche di questi giorni, come quella di Fassina, che ha dichiarato di voler partecipare alla manifestazione della Fiom-Cgil, la quale esprime una posizione legittima ma assolutamente radicale, sono francamente dannose». Una bella domanda la pone Giorgio Merlo: «Ma è possibile che ogni qualvolta la Fiom organizza uno sciopero o una manifestazione di protesta si deve aprire nel Pd una discussione senza fine al limite dell’autolesionismo?».

La Stampa 23.2.12
Orfini: “Vergognoso discriminare i lavoratori per le loro idee”
di F. Ama.


Matteo Orfini alla manifestazione della Fiom andrà, e lo rivendica. Nonostante quelli che nel suo partito chiedono responsabilità. «E’ un’opinione: la rispetto ma non la condivido. Penso sia giusto portare solidarietà ad un sindacato che considera vergognoso che Marchionne discrimini i lavoratori sulla base delle loro idee. Penso che tutti dovremmo portare la nostra solidarietà anche senza condividere la piattaforma della manifestazione». Non proprio tutti, si corregge: «Bersani no, sarebbe eccessivo: si presterebbe a strumentalizzazioni». Ma «a dividerci non è il giudizio sul governo Monti, che non è nemmeno l’oggetto della manifestazione Fiom, ma il giudizio su Marchionne. O meglio, su una precisa idea di relazioni sociali, divisione del lavoro, strategia di sviluppo. Il punto è: quale collocazione abbiamo in mente per l’Italia nella competizione internazionale, se davvero crediamo a tante belle parole su un’idea di sviluppo fondata su tecnologia, sapere, investimenti, o se sotto sotto non crediamo invece di dovere accettare come un destino ineluttabile il declino economico e civile».

Corriere della Sera 23.2.12
Se nel Pd fa breccia la linea filo Monti
Crescono i «montiani» guidati da Veltroni E il leader è più solo
di Maria Teresa Meli


Tra i parlamentari del Pd si danno già i numeri. Se il partito votasse no alla riforma del mercato del lavoro il 40 per cento dei deputati, che diventerebbe il 50 tra i senatori, si esprimerebbe contro la linea ufficiale.
Nel Pd la linea filo-Monti fa breccia, nonostante le ritrosie del segretario e dei suoi. Un esempio? La dichiarazione del segretario del gruppo alla Camera, Roberto Giachetti: «Se sul mercato del lavoro le nostre posizioni saranno subordinate a quelle di un sindacato, io terrò le mani libere e voterò secondo coscienza».
La probabile spaccatura del Pd è la ragione per cui Bersani non si opporrà al provvedimento del governo anche nel caso in cui la Cgil non lo firmasse. Al massimo, il Partito democratico potrebbe optare per un'astensione. È l'ipotesi che piace a Cesare Damiano: «Così daremmo un segnale». Segnale per modo di dire, visto che qualsiasi sia il voto del Pd, Pdl e Terzo polo farebbero maggioranza da soli. Il che non conviene a Bersani, sia numericamente che politicamente.
Il segretario, quindi, quando non ha dato per scontato il voto del suo partito, ha semplicemente alzato l'asticella della trattativa. Lo ha spiegato lui stesso: «Se ti dicono che vanno avanti senza accordo, che cosa puoi rispondere: sì grazie, votiamo qualsiasi cosa? È chiaro che non posso dare il nostro voto per acquisito». In realtà da giorni il governo ha trovato un'ipotesi di mediazione sulla riforma del lavoro a cui Cisl e Uil hanno già detto di sì e che la Cgil sta valutando. Certo l'uscita di ieri del ministro Fornero su Bersani e il Pd non facilita le cose. Il segretario del Partito democratico si è risentito e non ha gradito il fatto che il Pdl abbia subito cavalcato le affermazioni del ministro del Welfare.
Ma non è l'articolo 18 il vero oggetto del contendere nel Pd. È un pretesto dietro il quale si cela la guerra intestina tra i «montiani» e i «bersaniani», che è destinata a spaccare il partito. Già in primavera, se la riforma verrà varata senza il consenso della Cgil. O nel prossimo autunno, se invece il governo troverà un'intesa con Camusso. Lo schema è questo: Walter Veltroni, Paolo Gentiloni, Enrico Letta e Dario Franceschini ritengono che nella legislatura che verrà bisognerà dare vita a un governo in continuità con l'attuale. «Io — spiega ai suoi Veltroni — non penso certo a una grande ammucchiata, ma di sicuro non voglio regalare Monti ad Alfano e Casini. Perciò ritengo che se lo volesse il presidente del Consiglio potrebbe guidare anche il governo nella prossima legislatura».
Il ragionamento di Bersani è opposto: «Questa esperienza governativa è una parentesi: con le elezioni si chiude la partita e si torna alla politica». Già, il segretario pensa a se stesso e non a Monti nel prossimo futuro, confortato dai sondaggi che danno il Pdl sotto il 23 e il Pd al 30. Per questa ragione sia lui che i suoi (da Stefano Fassina a Matteo Orfini) hanno intensificato le critiche al governo: per potersi poi sganciare da un'eventuale «candidatura» di Monti a Palazzo Chigi. «Questo non è il nostro governo — continua a ripetere a tutti Fassina — noi lo sosteniamo, però a schiena dritta, e facendo vedere con nettezza tutte le volte in cui siamo alternativi». Ma Gentiloni, provocatoriamente, stoppa questa operazione con una semplice battuta: «Monti non è Badoglio: non è una parentesi dopo un regime autoritario».
Questa guerra sta cambiando la geografia interna del partito e facendo perdere pezzi a Bersani. L'avvicinamento tra Letta e Veltroni è in corso già da qualche tempo. Ultimamente anche Franceschini si è spostato su posizioni filo-montiane. Ma pure ex ppi come Franco Marini e Pierluigi Castagnetti, che finora hanno sempre appoggiato il segretario, sono schierati convintamente con il presidente del Consiglio. Per entrambi meglio un rinnovato governo Monti nella prossima legislatura, piuttosto che l'alleanza della foto di Vasto con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. Della partita sono, e non da ora, anche il segretario della Cisl Raffaele Bonanni e Beppe Fioroni, solo che in questo momento hanno maggiori difficoltà a palesare il loro appoggio all'operazione-Monti perché stanno conducendo una battaglia sull'articolo 18.

Repubblica 23.2.12
Il partito si divide sul corteo della Fiom. E c’è anche chi evoca la scissione
L’incubo del Pd: il rischio è spaccarci o mandare a casa il governo Monti
Il segretario ha deciso di entrare in campo per aiutare la Cgil, anche avvertendo Monti
di Goffredo De Marchis


ROMA - L´incubo si chiama riforma del lavoro senza accordo. Allora sì che nulla sarà più come prima sotto il cielo del Pd. Allora sì che il Pd rischia di non avere più la forza di sostenere il governo Monti. Oltre a intravedere un´esplosione. Per questo Bersani e non solo hanno deciso di tornare in campo, di non lasciare la palla solo alle parti sociali. Anche con avvertimenti all´esecutivo, anche polemizzando con Monti e Fornero. «Voglio che si arrivi a un´intesa, a un nuovo patto sociale», ripete Bersani. Dare un aiuto. Alla Cgil, al governo. E anche a se stesso. Altrimenti lo scenario diventa pericoloso. «Fare una legge contro i sindacati sarebbe un errore grave da parte del governo. E il Partito democratico a quel punto dovrebbe riflettere sulla sua posizione nella maggioranza», dice il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi.
Lui vede brutti segnali, «le parole della Marcegaglia lasciano pensare alla voglia di rottura», quelle di Monti e Fornero a una sottovalutazione della materia incandescente. ««Un governo che finisce per delegittimare la politica, come sta facendo, e dopo anche il sindacato non fa l´interesse del Paese - insiste Rossi - . Detto questo la riforma è necessaria ma con la concertazione».
Il Pd vacilla sotto i colpi e i tira e molla della trattativa sul lavoro. Rischia di conoscere il tempo delle scomuniche, delle accuse di tradimento. Stefano Fassina, responsabile economico del partito, fa una mezza marcia indietro sulla manifestazione della Fiom (9 marzo). «Vorrei andare ma deciderà la segreteria per me», dice al seminario organizzato dalla casa editrice Laterza sull´identità della sinistra. Matteo Orfini altro membro del gruppo di vertice, invece rompe gli indugi: «Io vado e non chiedo il permesso a nessuno. Vado per stare vicino ai lavoratori che non possono entrare alla Fiat perché hanno la tessera della Fiom. Mi piacerebbe che qualcuno del mio partito denunciasse questa violazione dei diritti elemantari. Invece, silenzio». Due dirigenti bersaniani fanno lo strappo, e possono mettere in imbarazzo il segretario. Perché accelerano lo scontro mentre oggi ci sarebbe bisogno di una voce sola e di una pace, ossia di un accordo.
Tutto è affidato al tavolo. Se le quotazioni di un´intesa torneranno positive, il 9 marzo e il corteo della Fiom saranno indolori. Se la situazione non si sblocca la manifestazione diventerà la prova del fuoco per la tenuta dei democratici. In questo caso una parte del Pd chiederà a Fassina e Orfini di fermarsi. O peggio ancora a Bersani di richiamarli alla disciplina di gruppo. «La piattaforma della Fiom è di opposizione al governo, non giriamoci intorno. Perciò andare alla manifestazione è uno sbaglio serio», attacca il vicesegretario Enrico Letta. Ma il numero due, dopo aver visto ieri Elsa Fornero ieri, è convinto che un´intesa ci sarà. Così come Beppe Fioroni. Solo un accordo può salvare il Pd da un´implosione e dalla scelta lacerante di un voto in Parlamento senza intesa con i lavoratori. Allora scatterebbe il "liberi tutti" prefigurato da Orfini. «Sarei felice di vivere in un partito disciplinato. Ma i primi a non praticare le regole sono il presidente, il vicesegretario, autorevoli esponenti come Veltroni. Purtroppo un pezzo del Pd si eccita all´idea che i lavoratori perdano diritti». La parola scissione è un evergreen a sinistra, ma lontana dalla realtà per il momento. Il pericolo però è concreto. Perché Bersani non fermerà proprio nessuno e allora il fronte dei partecipanti targati Pd il 9 marzo potrebbe allargarsi. «Chi strattona il tavolo è un irresponsabile», avverte Fioroni. Ce l´ha con gli «incendiari» del Pd e con Fornero «che dovrebbe risparmiarsi certe uscite». «Perché - spiega Letta - non esiste un´altra maggioranza per questo governo. Non esiste un Pd che vota no o che si divide sulla riforma del lavoro e un esecutivo che resta in piedi». Questa è l´arma che il Pd può giocarsi con Monti e con il ministro del Welfare.

il Riformista 23.2.12
Tra Fornero e Fiom il lavoro spacca il Pd
Il segretario Bersani continua a chiedere coesione sugli interventi in tema occupazionale. E intanto nel partito, ennesima divisione sulla partecipazione al corteo dei metalmeccanici in programma il 9 marzo
di Ettore Maria Colombo


L’ultimo episodio della saga (ormai un evergreen) “Il Pd si divide” verte sulla manifestazione nazionale che la Fiom-Cgil organizza a Roma per il prossimo 9 marzo. Una manifestazione, peraltro, nata sotto cattivi auspici. Rinviata ben due volte (prima causa neve, poi causa dissidi con la Cgil: la Camusso, tanto per dire, non sarà in piazza «per precedenti impegni») dall’11 al 19 febbraio, è stata, ora, fissata per venerdì 9 marzo. Rischiano di tramutarsi però, la manifestazione e lo sciopero indetto dalla Fiom, in un imbuto pericoloso, per il Pd. Infatti, su formale, esplicita richiesta fatta dal movimento No Tav, che sarà in piazza in tutt’Italia già il 25 febbraio, contro gli arresti operati dalla Procura di Torino in val di Susa, e di altri movimenti di sinistrasinistra (acqua pubblica, beni comuni, etc.), ma anche di tutti i centri sociali italiani (con un Luca Casarini tornato in prima linea grazie al movimento Global Project, il quale Casarini ormai dialoga con la Fiom come con Tremonti), il corteo fiommino non sarà solo a difesa degli operai Fiom licenziati dalla Fiat o per protestare contro la pratica, sempre di casa Fiat, di non riassumere (vedi il caso di Pomigliano d’Arco) i lavoratori con in tasca la tessera della Fiom-Cgil, ma si tramuterà anche, e di fatto, in una manifestazione-corteo-comizio contro il governo Monti. Non a caso, alla giornata di piazza e di lotta indetta dalla Fiom, aderisce tutta la galassia della sinistra radicale (ed oggi extraparlamentare) che fu: da Diliberto (Pdci) a Rizzo (Sinistra Popolare), da Ferrero (Prc) a Ferrando (Pcl), le sigle della galassia neocomunista saranno presenti in massa, mentre è già arrivata anche l’adesione di Idv e SeL, i due alleati (in teoria) del Pd.
Ed è sempre lì, in casa democrat, che le polemiche appena sopite dopo lo scambio di colpi dell’altro giorno tra l’ex segretario Walter Veltroni e il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, sull’articolo 18 tornano e imperversano. Con il consueto corollario del vado/non vado (in corteo). E così, dopo Fassina, che prima ha annunciato che sarebbe sceso in piazza al fianco della Fiom e poi, ieri, ha scritto sulla sua pagina Facebook che avrebbe rimesso la sua decisione a una scelta collegiale della segreteria («È il partito che deve decidere se stare al fianco dei metalmeccanici», spiega al Riformista, «e della Fiom, i cui iscritti sono discriminati da Fiat, altro non m’interessa, compresi i vari Pierini del Pd che mi attaccano...») ora anche l’esponente dalemian-bersaniano della medesima segreteria, Matteo Orfini, annuncia, con un intervento sul sito Left Wing che ci sarà pure lui al corteo indetto dalla Fiom. «Ci dovrebbe andare tutto il Pd», commenta la sua scelta col Riformista, «e problemi di linea non ne vedo, vedo solo reazioni isteriche e un dibattito surreale. Al corteo ci saranno gli estremisti? E chi se ne importa. Sostengo un governo assieme a Gasparri, potrò ben andare in piazza al fianco dei lavoratori discriminati dalla Fiat». Contrari, contrarissimi, ad andare in piazza con la Fiom sono invece quasi tutte le altre componenti del Pd: liberal, veltroniani, fioroniani, lettiani, etc. Dall’entourage del segretario si fa sapere che «chi vuole andare, andrà, come si è sempre fatto», ma la richiesta di Fassina di una scelta ufficiale resta in campo, e complicherà non poco le cose, agitando di più le acque.
Infine, il rapporto tra Bersani e il governo. Lunedì il segretario del Pd ha detto «il sì del Pd alla riforma del mercato del lavoro non sarà scontato». Ieri, invece, la posizione sembrava più morbida. «Monti ha l’obbligo di trovare un accordo di tutte le parti del Paese», spiegano i suoi uomini. Bersani, nei prossimi giorni, vedrà Monti e proprio di questo parlerà (articolo 18 e riforma del mercato del lavoro), ma ribadendo che «se si vuole un buon accordo, la coesione sociale è decisiva». Il Pd tiene il punto e, ieri, al ministro del Welfare, Elsa Fornero che ha detto: «Andremo avanti e faremo la riforma, anche senza l’accordo dei partiti» Bersani ribatte: «Il Pd appoggerà un buona riforma». Come dire: una cattiva, no.

l’Unità 23.2.12
Il 17 marzo i leader di Ps, Pd e Spd firmeranno il documento unitario nella capitale francese
Parole chiave: crescita, solidarietà, democrazia. Parte la sfida all’asse conservatore Merkel-Sarkozy
Hollande, Bersani e Gabriel. Piano comune per l’Europa
Bersani, Hollande e Gabriel firmeranno il 17 marzo il “manifesto di Parigi”. Alla base della piattaforma programmatica comune «crescita, solidarietà e democrazia». Sfida all’asse Merkel-Sarkozy
di Simone Collini


L’appuntamento è per sabato 17 marzo, a Parigi. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, il candidato alle presidenziali francesi François Hollande, il leader della Spd tedesca Sigmar Gabriel e il primo ministro belga Elio di Rupo sottoscriveranno un documento che ha il valore di un programma comune delle forze progressiste europee. L’iniziativa è di fatto senza precedenti. Francia, Italia e Germania andranno al voto nei prossimi diciotto mesi e le forze di centrosinistra non solo hanno deciso di sottoscrivere un patto pubblico, ma si candidano a governare sulla base di una piattaforma programmatica centrata sulla dimensione comunitaria, e non solo su politiche nazionali.
CRESCITA, SOLIDARIETÀ, DEMOCRAZIA
Parole chiave del testo sono «crescita», «solidarietà» e «democrazia». Si insiste molto sulla necessità di un rilancio dell’integrazione europea e di dare un nuovo corso alle politiche comunitarie, si prospetta una linea più attenta alla coesione sociale di quella perseguita finora e una precisa regolazione dei mercati finanziari, si riconosce il valore del «rigore» ma si sottolinea che i veri fattori indispensabile per una «rinascita» dei Paesi membri e dell’Unione tutta sono lo sviluppo e l’aumento dell’occupazione.
Questo «manifesto di Parigi» è ancora in fase di lavorazione, ma dopo una riunione che si è svolta a Bruxelles il 10 febbraio è stata messa a punto una bozza di quattro pagine che può considerarsi quasi definitiva, salvo poche limature. Comunque, il via libera verrà da un nuovo incontro che si terrà nella capitale francese ai primi di marzo. Del gruppo di lavoro fanno parte politici e studiosi di Fondazioni legate a Pd, Spd e Ps Italianieuropei per l’Italia (nelle persone di Paolo Guerrieri e dell’eurodeputato Roberto Gualtieri) la tedesca Friedrich Ebert e la francese Jean Jaurès più la Fondazione per gli studi progressisti europei (Feps).
Massimo D’Alema, che della Feps è presidente, ha partecipato all’elaborazione del progetto e poi ha seguito tutti i lavori preparatori. Si tratta di un evento politico, dice, che «può aprire un ciclo diverso in Europa». I motivi sono diversi. Primo, perché i sondaggi danno le forze di centrosinistra in vantaggio sia in Francia che in Italia che in Germania, tre Paesi che insieme contano oltre 200 milioni di abitanti e che sono determinanti per indirizzare in un senso piuttosto che in un altro il futuro dell’Europa. Secondo, perché per la prima volta le forze progressiste, compresi i socialisti francesi che in passato si sono contraddistinti come strenui difensori della dimensione nazionale, ammettono che oggi solo un progetto europeo può dare credibilità a una proposta di governo. E il fatto che il lancio della piattaforma programmatica comune avvenga nel pieno della campagna elettorale di Hollande è un segnale molto importante, anch’esso inedito. «Che ci si candidi a tornare a governare non solo con un progetto nazionale ma sulla base di una proposta di respiro europeo è una novità di grande rilievo», è il ragionamento di D’Alema. Sarà lui il 17 marzo ad aprire la manifestazione che si concluderà con la firma di Bersani, Hollande, Gabriel, di Rupo e del segretario del Partito socialista francese Martine Aubry in calce al «manifesto di Parigi». Nella capitale francese interverranno anche il neopresidente del Parlamento europeo Martin Schulz e personalità storiche dell’europeismo.
SFIDA ALL’ASSE MERKEL-SARKOZY
È chiaro che l’operazione è anche una sfida lanciata all’asse Merkel-Sarkozy, perché il «manifesto di Parigi» propone un’impostazione della politica economica europea alternativa a quella sostenuta soprattutto dalla Cancelliera tedesca e perché la stessa Angela Merkel all’inizio del mese si è schierata apertamente a sostegno del presidente francese in carica: «Apparteniamo alla stessa famiglia politica».
È anche chiaro che l’iniziativa di metà marzo ha lo scopo, nel breve termine, di lanciare la volata a Hollande per la conquista dell’Eliseo. E che, ragionando in una prospettiva appena più lunga, non sarà indifferente per Italia e Germania l’esito delle presidenziali francesi. Una vittoria delle forze progressiste d’Oltralpe può aiutare quelli della stessa «famiglia politica», per dirla con Merkel, che vanno al voto ad aprile (noi) e settembre (tedeschi) del prossimo anno.
Ne hanno discusso Hollande e Bersani, quando il candidato alle presidenziali francesi è venuto a Roma, a metà dicembre. E, prima ancora, Bersani aveva già convenuto con Gabriel e con i vertici della Spd sull’opportunità di una piattaforma programmatica comune, di chiaro segno europeista. Il segretario del Pd spera ovviamente che l’iniziativa aiuti ad accantonare la polemica interna, centrata sul dualismo tra identità socialista e identità democratica. Una polemica che Bersani considera inutile perché l’impronta democratica del Pd non contrasta affatto con l’alleanza tra le forze progressiste europee.

l’Unità 23.2.12
Intervista a David Sassoli
«Da qui può nascere il partito dei socialisti e democratici europei»
Parla il capodelegazione Pd a Strasburgo: «Esercizio inutile contrapporre Pd e Pse. Non ripetiamo l’errore degli anni 90, la politica non resti nazionale»
di Simone Collini


Sono state poste le premesse per la nascita del Partito dei socialisti e dei democratici europei», dice David Sassoli ricordando il nuovo gruppo fondato nel Parlamento europeo dal Pd e dal Pse, ma soprattutto guardando con molta attenzione all’iniziativa che si svolgerà il 17 marzo a Parigi. «È molto importante che i leader di Pd, Spd e socialisti francesi firmino una dichiarazione comune per un’Europa più forte, comunitaria, lontana dagli egoismi nazionali», sottolinea il capodelegazione del Pd all’interno dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici a Strasburgo. «I partiti di centrosinsitra che si candidano a governare non devono ripetere l’errore degli anni 90, le politiche non possono rimanere confinate nell’ambito nazionale, oggi bisogna scommettere su un nuovo europeismo».
Onorevole Sassoli, questa iniziativa di Bersani insieme ai leader socialisti europei non rischia di riaccendere la discussione sull’identità e la collocazione internazionale del Pd?
«Oggi è un esercizio inutile sia mettere in contrapposizione Pd e socialismo che lavorare per rintracciare al nostro interno il pedigree di culture del 900. Noi dobbiamo essere orgogliosi di quanto fatto fin qui e adesso bisogna continuare a lavorare per costruire una forza progressista europea».
Ottimista sulla riuscita dell’impresa?
«Sì, se socialisti e democratici assumeranno la bandiera di un nuovo europeismo».
Quando parla di “forza progressista” intende un nuovo partito che vada oltre il Pse?
«Partiamo da un concetto: non servono battaglie nominalistiche e non partiamo da zero. Il Pd ha fondato un nuovo gruppo nel Parlamento europeo che può essere la premessa per la nascita del Partito dei socialisti e dei democratici europei. Naturalmente, perché questa esperienza possa progredire c’è bisogno dell’impegno di tutti. Come ha ricordato di recente lo stesso Bersani, anche i socialisti devono cambiare».
Non è un azzardo scommettere sull’Europa in questa fase di crisi?
«Tutt’altro, perché la crisi rafforza l’orizzonte degli Stati uniti d’Europa. I paesi comunitari deboli oggi non vengono protetti perché non c'è né un vero governo europeo né una vera banca europea. Siamo molto distanti da quello che succede negli Stati uniti d’America, dove c'è un forte potere centrale e una banca di ultima istanza. Lì non si consente alla finanza di attaccare Stati deboli, come quello di New York o la California. La Grecia ci insegna che abbiamo bisogno di trasferire poteri dalle nazioni all’Unione, che dobbiamo dar vita a iniziative istituzionali per costituire l’Europa dei cittadini».
Il Pd lo farà insieme ai socialisti e ai socialdemocratici europei?
«Il Pd ha avviato un percorso e lo scenario che si apre ci incoraggia ad andare avanti in questa direzione, e incontrare anche altri compagni di viaggio. Penso ai movimenti ecologisti, alle esperienze più aperte dell’area liberal-democratica. È importante che le forze di centrosinistra di due grandi paesi che si avviano a elezioni come Francia e Germania credano che la sfida si giochi non solo cambiando i governi dei singoli Stati, ma aprendo a culture e sensibilità diverse. Negli anni 90 è stato commesso l’errore di pensare che le politiche potessero riguardare il solo ambito nazionale e così si è rafforzata la dinamica intergovernativa. Oggi è chiara l’esigenza di scommettere su un nuovo europeismo».
Si può rifondare su questo la sinistra? «Il problema non è rifondare la sinistra, ma costruire il centrosinistra europeo. La firma di una dichiarazione comune, a Parigi a metà marzo, con socialisti francesi e socialdemocratici tedeschi è una scommessa sulla nuova Europa».
Che dovrebbe avere come punti cardine?
«Valori come giustizia, solidarietà, eguaglianza. Si parla tanto di fine della politica, di governi tecnici che commissariano la politica. No, in realtà su questi valori, fondanti l’identità europea, non smetterà mai di esserci differenza tra noi e la destra».

l’Unità 23.2.12
L’identità dei riformisti
Pd, se vogliamo vivere prima dobbiamo essere
di Giuseppe Lauricella


Le considerazioni proposte in questi giorni sollecitano una riflessione sul tema del riformismo e, dunque, della socialdemocrazia, soprattutto in ordine all’identità del Pd. Da ogni parte si sostiene la fine delle ideologie. Un’idea che non condivido perché senza valori di rifermento prevalgono modelli che conducono pericolosamente all’idea che tutto è fungibile: il pensiero, le libertà, le istituzioni, la Costituzione e perfino la democrazia e il ruolo stesso dei partiti.
Per cui il compromesso rimane la via più facile. Il rimedio? La formazione. La cultura è consapevolezza. Altrimenti, la democrazia rimane un concetto vuoto che tende al totalitarismo mascherato. Rimedio è pure la dignità della politica, senza la quale anche il comportamento degli uomini diventa compromissorio. Qual è il nostro motivo ispiratore, qual è il nostro valore fondante?
Se vogliamo vivere dobbiamo, prima, essere. Il Pd è nato dalla fusione di componenti che, coniando qualificazioni di riformismo, ritenevano di poter esorcizzare le differenze. Un partito in cui, nonostante le coerenti indicazioni della prima Assemblea nazionale dell’era Bersani, permangono atteggiamenti che ne annebbiano l’identità. Un partito può essere costruito soltanto se si basa sulla condivisione di valori che ne delineano il volto. Per un riformista il benessere dell’uomo è il valore attorno al quale costruire l’azione politica. Il riformismo è uno, ovvero quello indicato da Bernstein e, in Italia, da Saragat prima di Nenni, come da Keynes, secondo il circuito virtuoso del riformismo, per un’economia che allarga il benessere. I liberali progressisti e i cristiano-sociali si definiscono, oggi, riformisti perché abbracciano l’idea delle riforme graduali che, però, in un percorso coerente, dovrebbero condurre fino alla convergenza con la socialdemocrazia.
Il riformismo ha come fine l’uomo, la sua dignità, i suoi diritti e le sue libertà. È l’essenza dell’umanesimo. E comprende anche chi non ha la nostra cittadinanza ma ha un bisogno. Il liberismo, al contrario, ha come fine il profitto per il quale si giustifica il sacrificio di ogni diritto. Se il fine è l’uomo, è con il lavoro che l’uomo ha dignità ed è libero. Quindi, certe scelte non possono che essere “sociali”, perché nessun bene essenziale può essere sacrificato in nome del profitto, pubblico o privato che sia.
Riformismo significa cambiare anche l’approccio sul fisco: costruire un sistema in cui il rapporto con il cittadino sia concepito sulla fiducia e non sulla presunzione di evasione, con la conseguente previsione di forti misure sanzionatorie. Quindi, un sistema che riduca l’interesse ad evadere poiché ognuno è indotto a contribuire con la convinzione che sia giusto. Dove chi produce contribuisce se produce. Un sistema di controllo della spesa anche attraverso l’estensione dell’imposta di scopo. Sulla giustizia, il riformismo si afferma nell’efficienza e l’efficacia del rito civile e penale, pensando che il carcere sia la pena per il colpevole ma non per l’indagato. Una sistema carcerario rispettoso della dignità dell’uomo. Un sistema in cui l’equilibrio fra i poteri sia quello concepito dai costituenti. Dunque, centralità dell’elemento democratico, in cui ogni persona sia riferimento delle scelte della politica e non strumento. Tutela del diritto delle minoranze contro l’abuso della maggioranza. L’attuale legge elettorale nazionale sottrae al popolo spazi di libertà. Occorre modificarla. Il riformismo non si esaurisce nell’azione riformatrice: si può riformare senza averlo mai realizzato. L’uomo è il valore, il suo benessere è l’obiettivo, il riformismo ne è lo strumento. Tutto ciò può essere l’identità del Pd.

l’Unità 23.2.12
Allora è vietato criticare le merci
Il caso Formigli, il giornalista condannato a pagare 7 milioni di euro per «danno» a un prodotto Fiat,
apre una discussione sulla libertà di stampa. Anch’io potrei chiedere risarcimenti per i miei libri stroncati
di Silvia Ballestra


Una macchina provata in pista. Un risultato sgradito al produttore. Un Tribunale al lavoro. Una condanna mostruosa che seppellisce tra sgommate e idrocarburi il diritto di critica. Sembra questa, a farla breve, la storia che ha contrapposto Corrado Formigli (ai tempi inviato di Anno Zero) e la Fiat. Nel servizio venivano riportati i dati di un test comparativo in cui il prodotto MiTo Alfa Romeo risultava inferiore per velocità rispetto a due modelli concorrenti. Un collegio di periti ha quantificato il danno in sette milioni di euro. Solidarietà a Corrado Formigli, che insieme alla Rai si trova nell'eventualità di far fronte a un'enormità del genere, merita forse soffermarsi proprio sulla determinazione del danno patrimoniale e sulla linea sottile che corre fra diritto di critica e denigrazione.
Perchè, lo confesso, un pensierino ce l'ho fatto anch'io. Questo: perché non chiedere a quel tal critico che una volta ha stroncato un mio libro, con argomentazioni da me non condivise, i danni per le mancate vendite presso un tot di lettori del suo giornale, da quantificare secondo qualche funambolico calcolo? Prendendo per buona la sentenza torinese, infatti, ci troviamo di fronte a un interessante precedente che farà in qualche modo scuola per noi produttori di opere. Come tutti ci ripetono a ogni passo, libri, dischi, film, spettacoli, cultura, sono «solo» merci, prodotti di un'industria e, come gli altri prodotti, vengono piazzati sul mercato con tanto di investimenti, promozioni e lavoro di comunicazione.
Dunque, se accettiamo il principio per cui una critica deve essere completa – riportare cioè tutti i parametri riguardanti le prestazioni di un dato prodotto – tutti i critici televisivi, letterari, cinematografici dovrebbero provare brividi lungo la schiena. Per esempio potrei chiedere al noto critico dell'importante quotidiano famoso per le sue antipatie, o la sua misoginia, o certe sue idiosincrasie e paturnie, di rendermi i soldi per le mancate vendite di un libro perché nello stesso pezzo l'ha messo a confronto con un altro che gli è piaciuto di più. I registi potrebbero fare lo stesso reclamando l'importo dei biglietti non staccati nei cinema a causa della recensione troppo tiepida. E così i critici televisivi potrebbero esser ritenuti colpevoli di un calo d’ascolto di un programma, e quindi chiamati a risarcire i mancati introiti pubblicitari.
Ora, questo non avviene mai perché stiamo parlando di prodotti e autori abituati a sottostare all'esame e alla critica. Di quelle critiche – anche quelle ritenute non costruttive, insomma: le stroncature tout court – normalmente si fa tesoro. Altrimenti (lo sconsiglio vivamente), ci si lagna scrivendo al giornale, aprendo un confronto, contestando nel merito e difendendo la bontà del proprio lavoro. Potrebbe la Fiat condividere questo meccanismo così unanimemente accettato da chi lavora in altri campi? Possibile che l’opera di ingegneria sia più protetta dalle critiche dell’opera di ingegno?
Ora però, dopo la sentenza di Torino, sappiamo che tutti i nostri prodotti hanno diritto a una critica completa e non parziale o faziosa che dir si voglia: così come Formigli avrebbe causato un danno alla MiTo esaminando solo uno dei suoi parametri (la velocità), anche noialtri potremo esigere che il recensore non si soffermi solo sullo stile, o sui tempi televisivi, o sulla trama di un film ma debba ogni volta aggiungere: «però la copertina è bella», «il dibattito in studio interessante», «le luci sul set messe bene». Altrimenti avrà denigrato il prodotto e pagherà tot centesimi per ognuno dei sui lettori.
Come si vede, è un terreno scivoloso, su cui converrebbe muoversi con più cautela (consiglierei gomme da bagnato). Inquieta però vedere come esista una parte del Paese totalmente disabituata all'esercizio della critica, e come esista una zona franca in cui certi prodotti sono più prodotti di altri. Chissà, forse la critica – e la critica delle merci in particolare – è un lusso per paesi civili e culturalmente avanzati che noi al momento non possiamo permetterci. Altrimenti, è difficile non vedere dietro questa vicenda un'intimidazione alla libertà di stampa (cos’altro sarebbe, chiedere sette milioni di euro a un giornalista?).
Tutto questo in margine. Quanto all’Alfa Romeo MiTo, tengo a precisare che è un’ottima macchina, spaziosa e confortevole, carina, maneggevole e adatta a noi signorine. Lo dico con grande sincerità. E anche perché sette milioni non ce li ho.

Corriere della Sera 23.2.12
Quando sono i «penultimi» a vietare l'ingresso agli ultimi
Il cartello di un'immigrata marocchina contro i nomadi
di Gian Antonio Stella


Quel famosissimo cartello all'entrata d'un ristorante di Saarbrücken, «Eintritt für Italiener verboten!», «Proibito “rigorosamente” l'ingresso agli italiani!», è una ferita che sanguina ancora tra i nostri emigrati in Germania. Non sappiamo chi fosse il razzista padrone di quella trattoria. Nessuno stupore. Così come non può stupire il cartello in una vetrina di Vicenza con scritto «Vietato entrare ai zingari» messo lì da Fatima Mechal, un'immigrata marocchina.

«Eintritt für Italiener verboten!». Quel famosissimo cartello appiccicato all'entrata d'un ristorante di Saarbrücken, tradotto e rafforzato nella nostra lingua («Proibito “rigorosamente” l'ingresso agli italiani!») perché tutti capissero, è una ferita che sanguina ancora tra i nostri emigrati in Germania. Non sappiamo chi fosse il razzista padrone di quella trattoria. Forse, chissà, era un immigrato danese, russo o polacco arrivato qualche anno prima. Nessuno stupore. Così come non può stupire che il cartello piazzato in una vetrina di Vicenza con scritto «Vietato entrare ai zingari» sia stato messo lì da Fatima Mechal, un'immigrata marocchina. È andata quasi sempre così, nella storia delle emigrazioni: quelli che stavano all'ultimo gradino della scala sociale, appena riescono a salire sul penultimo si voltano e sputano su chi ha preso il loro posto.
Da anni quanti hanno letto un po' di libri sull'emigrazione tentano di spiegare agli xenofobi, che scatenano campagne furenti contro il diritto di voto agli immigrati nella convinzione che sarebbero tutti «voti comunisti», che non è affatto vero che quei voti andrebbero automaticamente alle «sinistre». Anzi, con ogni probabilità le preferenze di chi si è già inserito premierebbero in buona parte chi vuole la chiusura delle frontiere all'ingresso di nuovi immigrati, visti come concorrenti disposti a mettersi sul mercato del lavoro a prezzi stracciati. Niente da fare. Eppure, la stessa storia dei nostri emigrati è piena di testimonianze in questo senso. Ne ricordiamo due. Particolarmente dolorose.
La prima è quella dei sentimenti di calloso razzismo manifestati nei confronti dei nostri nonni, a cavallo fra Ottocento e Novecento, dagli irlandesi che in Australia e negli Stati Uniti ci avevano preceduto nella malinconica casella delle etnie più combattute, odiate, disprezzate dagli abitanti che si ritenevano gli unici padroni «autoctoni» delle terre occupate dai bisnonni. Dice tutto l'ostilità contro ogni manifestazione di cattolicesimo popolare (le processioni con le statue dei santi, le invocazioni urlate, i fuochi artificiali…) visto come primitivo, bigotto, «pagano». C'è una frase di un prete irlandese, Bernard Lynch, che sintetizza un mondo intero di sentimenti. Ridendo di come i nostri emigranti si accatastavano nei «block» newyorkesi di Mulberry Street o Bayard Street (dove il fotografo Jakob Riis contò 1324 italiani ammucchiati in 132 stanze), quel prete arrivò a dire in un rapporto al vescovo: «Gli italiani riescono a stare in uno spazio minore di qualsiasi altro popolo, se si eccettuano, forse, i cinesi». Di più: «Dove l'uomo non potrebbe vivere, secondo le teorie scientifiche, l'italiano si ingrassa.»
Ancora più straziante, e indicativo del rapporto malato fra i penultimi e gli ultimi, è il ricordo di quanto accadde nel 1891 a New Orleans. Dove il sindaco Joseph A. Shakespeare, convinto che gli immigrati italiani e soprattutto siciliani fossero il peggio del peggio («Sono sudici nella persona e nelle abitazioni e le epidemie, qui da noi, scoppiano quasi sempre nei loro quartieri. Sono codardi, privi di qualsiasi senso dell'onore, di sincerità, di orgoglio, di religione e di qualsiasi altra dote atta a fare di un individuo un buon cittadino…») scaricò contro la nostra comunità l'accusa di avere organizzato l'omicidio del capo della polizia, David C. Hennessy.
L'ondata di arresti che seguì alla campagna anti-italiana («La polizia li trascinò in carcere sottoponendoli a un trattamento abbastanza pesante, ma la principale accusa che si poteva muover loro era quella di non saper parlare in inglese», ammise il New York Times che pure era molto duro con i nostri) non riuscì tuttavia a placare l'odio razziale del sindaco e dei razzisti da cui si era circondato.
Dopo l'abolizione della schiavitù, in realtà, spiega nel libro «Vendetta» Richard Gambino, «la manodopera italiana parve un dono di Dio, la soluzione che avrebbe consentito di sostituire tanto i neri quanto i muli. I siciliani lavoravano accontentandosi di bassi salari e, in contrasto con lo scontento dei neri, dimostravano di essere più che soddisfatti dei quattro soldi che riuscivano a raggranellare. E quel che più contava, sottolineavano i piantatori, erano di gran lunga più efficienti come lavoratori e meno turbolenti come individui». Anzi, adattandosi a condizioni di vita bestiali, riconobbe la «Federal Commission for Immigration» (smentendo implicitamente l'accusa che fossero «tutti mafiosi e fannulloni») i nostri nonni erano arrivati a produrre pro capite il 40% di zucchero e di cotone in più.
Fatto sta che il processo, nonostante sembrasse destinato ad annientare gli otto siciliani accusati dell'omicidio, finì con un'assoluzione generale: non c'erano prove. A quel punto, prima che gli accusati fossero rimessi in libertà, il giornale «New Delta» pubblicò un appello: «Tutti i buoni cittadini sono invitati a partecipare a un raduno di massa, sabato 14 marzo alle dieci del mattino, alla Clay Statue, per compiere i passi necessari atti a porre rimedio all'errore giudiziario nel caso Hennessy. Venite e tenetevi pronti ad agire». E ventimila persone (immaginate quanto odio ci vuole per muovere una folla così) diedero l'assalto al carcere della contea per tirar fuori gli italiani assolti e linciarli. Tra i «giustizieri», che trovarono pace secondo Gambino solo dopo l'allineamento dei cadaveri sul marciapiede dove in tanti sfilarono per sputare sui corpi, c'erano diversi neri. Poveracci vittime quotidiane del razzismo che videro in quel linciaggio l'occasione per dimostrare, come dicevamo, di essere «più americani» loro degli ultimi arrivati. Che li avevano sostituiti nei campi di cotone e di canna da zucchero.

Repubblica 23.2.12
Vaticano
Quando divisioni e veleni colpiscono un potere millenario
di Agostino Paravicini Bagliani


Le fughe di documenti riservati e le polemiche interne fanno venire alla luce il contrasto dentro la Santa Sede come era accaduto soltanto in un passato lontano
Nel Medioevo e nel Rinascimento le critiche venivano lette anche alla presenza del papa. È dal´600 che gli scontri diventano più segreti
Il pontificato più conflittuale della storia fu quello di Bonifacio VIII, accusato di aver indotto Celestino V a compiere il gran rifiuto

Le recenti cronache ci hanno raccontato i nuovi "veleni" vaticani. Che hanno stupito e fatto discutere perché di colpo sono emerse critiche e conflitti – come sempre, da verificare – che, prima, non affioravano quasi mai alla ribalta dell´opinione pubblica. Ed è come se avessimo assistito in qualche modo alla fine storica di un´antica segretezza. E magari ci sono anche venuti in mente i tempi antichi delle corti, quelli tra Medioevo e Rinascimento. Con la differenza però che per quei secoli, le notizie provengono da pamphlet, satire, dispacci di ambasciatori, cronache e altro ancora, le cui modalità di diffusione non possono certo essere paragonate a fenomeni alla Wikileaks di oggi. Non a caso qualcuno ha usato il termine "Vatileaks".
Nel passato, alcune fonti, come i diari dei maestri delle cerimonie pontificie del Rinascimento, non sono nemmeno state scritte per essere diffuse. Eppure è anche da loro che apprendiamo l´esistenza di "veleni" e scontri personali che appaiono talvolta emblematici dei rancori che possono nascere e svilupparsi in corti complesse come quelle dei papi del Medioevo e del Rinascimento. Come non pensare al ritratto che Paride de Grassi ci ha lasciato del suo celebre predecessore Giovanni Burcardo: «Se fosse stato umano, la nostra arte ne sarebbe uscita ingrandita, ma lui non soltanto non era umano, ma bestiale più di tutte le bestie e invidiosissimo»...
Improperi e gesti violenti potevano verificarsi persino alla presenza del papa. Nel giugno 1486, il cronista romano Stefano Infessura annota che mentre il cardinale Giovanni Balue tentava di convincere il papa di invitare il duca di Lorena a far valere i suoi diritti sul regno di Napoli, contro il cardinale «si scagliarono il vicecancelliere Rodrigo Borgia (futuro Alessandro VI) e il cardinale Savelli che gli rivolsero molte parole ingiuriose e offensive», cui il cardinale Balue rispose per le rime, affermando che il «il vicecancelliere era un marrano»...
Tradimenti non sempre verificabili riguardano il pontificato di Bonifacio VIII (1294-1303), forse il più conflittuale della storia del papato medievale. Guglielmo di Nogaret e Sciarra Colonna non sarebbero riusciti ad entrare l´8 settembre 1303 nella città di Anagni per catturare Bonifacio VIII senza la complicità di due cardinali, Riccardo Petroni e Napoleone Orsini! Lo ricorderà lo zio dell´Orsini, il cardinale Matteo Rosso Orsini, rimasto fedele a papa Caetani. I due cardinali Colonna, Pietro e Giacomo, lanciarono contro Bonifacio VIII persino l´accusa – infondata – di avere indotto con l´astuzia il suo predecessore, Celestino V (1294), a compiere "il gran rifiuto". I rancori di cui fu vittima Bonifacio VIII erano anche dettati da comportamenti personali. Per i contemporanei, già da cardinale, il Caetani «pensava di non essere mai stato ingannato da alcuno» e «si vantava di poter confondere gli uomini con le sue parole».
Insomma, in una corte, la gestione dei propri comportamenti era una condizione indispensabile per evitare conflitti. Tratteggiando nel 1627 le doti personali del Cardinale Nipote, l´ambasciatore veneziano Pietro Contarini proporrà un ritratto ideale dell´alto prelato di curia, che si dimostra capace di «evitar l´odio che per l´ordinario suole cadere sopra quelli che si veggono più vicini; et lo fa maggiormente per non ingelosire il cardinal Barberini» (Antonio Menniti, Il tramonto dela Curia nepotista, Roma, Viella, 1999).
In una corte dalle relazioni sociali sovente fluide e labili, sottomesse a continue oscillazioni, tra ascesa e declino, il miglior modo di non subire ingiustizie o conflitti era pur sempre quello di disporre di un indiscusso prestigio. O di farlo credere… Secondo Salimbene de Adam (m. 1288), il cardinale Ottaviano Ubaldini (m. 1272), ricordato da Dante nella sua Divina Commedia (Inferno X, 120), «sapendo di non avere le grazie del papa, e che la cosa era stata divulgata da molti della curia e di altre parti, faceva credere di avere la grazia del papa» sostando «a chiacchierare con qualche chierico nell´anticamera, fino a che non era sicuro che tutti i cardinali fossero usciti». Sperava così «che lo considerassero il cardinale più importante della corte»…
L´esistenza di documenti in cui si espongono forti critiche, peraltro non destinate ad essere pubblicate, contro organi curiali, ha sorpreso e ha fatto discutere. Anche a questo riguardo, le differenze con il passato antico sono notevoli. Nel Medioevo e nel Rinascimento, critiche anche polemiche potevano essere lette persino alla presenza del papa. Il 13 maggio 1250, a Lione (città in cui Innocenzo IV aveva celebrato un concilio per deporre l´imperatore Federico II), il cardinale Giovanni Gaetano Orsini lesse in concistoro, quasi d´improvviso, una memoria che il sapiente vescovo di Lincoln Roberto Grossatesta – "fondatore" dell´università di Oxford – aveva consegnato ad alcuni cardinali e allo stesso pontefice e che conteneva una fra le più severe denunce della politica della curia romana del Duecento. Non fu un caso isolato, tutt´altro.
La situazione evolverà però dal Cinque e Seicento in poi. In sintonia con nuove forme di vita sociale all´interno delle corti sovrane europee, la radicalità degli scontri personali ed anche della formulazione di critiche e polemiche lascerà il passo a modalità nuove, meno irruenti e più segrete. Di qui la nostra sorpresa nel vedere, oggi, come tanti secoli fa, il ritorno in primo piano, proprio dall´interno del Vaticano, di polemiche e scontri personali cui non eravamo più abituati.

Repubblica 23.2.12
Così la crisi della politica incide Oltretevere
Tutte le anime della chiesa
di Agostino Giovagnoli


Nello spaesamento della globalizzazione sembra prevalere una frammentazione tra due posizioni: una ispirata allo slancio verso l´esterno di Wojtyla l´altra ripiegata sulle dinamiche più istituzionali

Nella Chiesa cattolica la contrapposizione tra progressisti e conservatori, nata sulla scia del dibattito al Concilio Vaticano II, appare oggi in declino. Raggiunto il suo acme negli anni Settanta, si è attenuata durante il pontificato di Giovanni Paolo II che ne ha smussato le "punte". Benedetto XVI ha proseguito sulla stessa strada, collegando il Vaticano II al Concilio di Trento in una visione teologica di continuità senza rotture. Anche il passare del tempo, ovviamente, ha influito molto: Joseph Ratzinger sarà l´ultimo papa che ha vissuto il Concilio e, anche se molte questioni importanti sono ancora le stesse, il mondo del 2012 è molto diverso da quello del 1962.
«Quando emerge nella Chiesa una discussione normale, come c´è in qualunque istituzione, diventa uno scontro o chissà cosa» ha notato il cardinal Filoni riferendosi ai rumors delle scorse settimane. Indubbiamente, anche la Chiesa ha bisogno delle passioni e dei progetti degli uomini e delle donne che ne fanno parte, pur con una maggiore preoccupazione di unità rispetto ad altre istituzioni. È stato così anche nella Chiesa preconciliare, quando Montini e Tardini erano entrambi ai vertici della Segreteria di Stato vaticana. Il primo, infatti, ha perseguito un disegno di ampio respiro per riportare la Chiesa nel cuore di una cultura moderna che sembrava rifiutarla, mentre il secondo proseguiva nella linea della grande tradizione diplomatica che va dal cardinal Gasparri al cardinal Casaroli, cercando spazi di libertà all´interno di Stati novecenteschi totalitari, autoritari o, comunque, ostili. Ne sono scaturite anche conseguenze differenti sul piano politico: nel dopoguerra, Montini ha sostenuto, vittoriosamente, l´iniziativa politica della Dc, mentre Tardini avrebbe preferito una presenza dei cattolici in diversi partiti. E quando il disegno post-bellico è entrato in crisi, sono nuovamente emerse personalità con sensibilità e disegni differenti, come il cardinal Ruini e il cardinal Martini.
Anche oggi nella Chiesa emergono sensibilità diverse. La spiritualità salesiana segnata da un´impronta educativa ispira, ad esempio, uno stile ecclesiastico orientato verso un ottimismo di fondo, la fiducia nei confronti dell´altro e un approccio estroverso e comunicativo. Altri, invece, si richiamano alla personalità del cardinal Siri, arcivescovo di Genova con un forte senso dell´autorità e della tradizione, che però si commosse davanti all´immagine straordinaria dei vescovi di tutto il mondo riuniti dal Concilio. Ma è difficile ricondurre a queste o ad altre sensibilità disegni complessivi. Anche la Chiesa, infatti, sembra paradossalmente orfana di un "mondo moderno", prevalentemente europeo e occidentale, che per due secoli è apparso il suo grande antagonista e nel confronto con il quale ha sviluppato molteplici strategie di contenimento o di avvicinamento. Viviamo oggi in un tempo diverso, di cui è espressione emblematica una politica debole, condizionata dai mass media, incalzata dell´antipolitica e, soprattutto, separata dalla cultura necessaria per proporre visioni d´insieme. E anche gli uomini di Chiesa sono figli del proprio tempo. Nello spaesamento della globalizzazione e davanti alla fatica di leggere i segni dei tempi, più delle divisioni sembra prevalere una frammentazione in cui assume rilievo soprattutto l´alternativa tra uno slancio ad extra, come quello incarnato da Karol Wojtyla, e un ripiegamento ad intra sulle dinamiche interne dell´istituzione ecclesiastica.

Repubblica 23.2.12
Parla Antonio Spadaro, direttore di "Civiltà Cattolica"
Trasparenza necessaria
di Marco Ansaldo


"La nostra tradizione comunicativa è ancora legata alle mediazioni e al messaggio spirituale ma molto si sta facendo per adeguarla alle esigenze attuali senza però demolirne lo stile e il significato"

Padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, c´è chi dice che con la vicenda dei Vatileaks si è cercato lo scandalo. Ma la storia della Chiesa ha vissuto in passato di crisi per intrighi nella Curia. Il Vaticano fa più scandalo di altri imperi e regni?
«La vera domanda è: che cos´è "notiziabile"? La questione, quando si parla di Vaticano, è di sovrapporre categorie politiche a una realtà complessa e che risponde a logiche differenti. Il rischio mediatico di tutta questa operazione è che pubblicare una notizia sulla Santa Sede finisca per significare semplicemente rendere pubbliche carte tirate fuori da un cassetto, o frugare nella corrispondenza privata di un vescovo o di un cardinale».
Vuol dire che in questo caso notizia è sinonimo di scandalo?
«Mi chiedo perché, ovviamente. Il Vaticano affascina, perché lo si percepisce dall´esterno come un luogo misterioso. Spesso è stato luogo ideale di romanzi e film. Il suo rapporto con il sacro, le sue divise, colpiscono fortemente l´immaginario. A questo aggiungerei un altro elemento».
Quale?
«È il territorio sovrano più piccolo al mondo, ma la sua influenza di carattere spirituale non ha confini e la sua diplomazia ha un rilievo peculiare. Proprio per questo, se non si studia la sua natura complessa, si compiono errori. Forse occorre tornare alla lezione dei grandi vaticanisti del recente passato, per nulla teneri nei loro giudizi, ma esperti e capaci di concentrarsi non su ciò che fa scandalo, ma su ciò che fa notizia».
A essere presi di mira sono determinati ambienti vaticani, come la Segreteria di Stato, nella persona del cardinale Tarcisio Bertone. Oppure altri personaggi influenti, indicati come papabili, vedi l´arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola. Secondo lei è partita la battaglia per gli equilibri nel Conclave?
«Non credo proprio, guardi. Quando lei parla di equilibri si riferisce a bilanciamento di opinioni. Il collegio cardinalizio è così ampio e internazionale da mostrare come la Chiesa non sia affatto un monolite. L´equazione tra differenze e lotte intestine legate all´idea di un Conclave è fuorviante. Se nel caso del Vaticano "notizia" rischia di essere confusa con "scandalo", è anche vero che "differenze" vengono ridotte a "lotte". Così a farne le spese è la giusta considerazione del dibattito delle idee».
E in prospettiva quale scenario si può prefigurare: un allentamento della tensione, o un´escalation di polemiche?
«Stiamo vivendo un´attenzione ossessiva per le informazioni. Non so se l´escalation durerà ancora. L´impegno alla trasparenza sarà fondamentale. In tempi in cui la credibilità si basa molto sulla pressione mediatica, ciò che rischia di rimanere in ombra è l´opera di rinnovamento condotta con "mite fermezza" da Benedetto XVI che richiede tempi lunghi, molte mediazioni specialmente dentro la Chiesa stessa, e non è esente da fraintendimenti e rischi, ma capace di dare frutti duraturi».
Non crede che ci possa essere stato un difetto di comunicazione da parte ecclesiastica?
«Vedo due problemi che generano disagio. Il primo: chi scrive di Vaticano oggi spesso non ha formazione specifica. Il secondo è che la comunicazione attuale in qualche caso vive di contrapposizioni nette, di bianchi e di neri. La tradizione comunicativa vaticana vive invece di un´altra logica, più legata alle mediazioni e al messaggio spirituale e non a risposte tagliate con l´accetta. Molto si sta facendo per adeguarla alle esigenze di oggi senza però smantellarne lo stile e il significato».

La Stampa 23.2.12
I super-ricchi cinesi in fuga verso gli Usa
Il 60% dei milionari ha chiesto il visto o ci pensa
di Maurizio Molinari


Le richieste di visto per l’America da parte di milionari cinesi si impennano, svelando la crescente volontà di emigrare in Occidente da parte di chi negli ultimi anni si è più arricchito grazie al boom economico. A descrivere tale fenomeno è la lettura incrociata di statistiche cinesi e americane che hanno per oggetto i ricchi di Pechino. Bank of China e Hurun Report hanno pubblicato uno studio sui circa 960 mila cinesi con beni superiori a 1,6 milioni di dollari arrivando a concludere che il 60% sta pensando di emigrare oppure ha già compiuto dei passi concreti per farlo. E la conferma arriva dagli Stati Uniti perché nel 2011 il governo federale ha ricevuto 2969 richieste cinesi di visti EB5, che possono riguardare interi nuclei famigliari e vengono concessi a persone che investono in America almeno un milione di dollari, creano 10 posti di lavoro oppure destinano 500 mila dollari per progetti in aree rurali o ad alto tasso di disoccupazione. Le richieste cinesi di visti EB5 nel 2007 erano inesistenti e due anni fa hanno toccato le 787 unità ma nel 2011 sono arrivate al 78% del totale globale. Si tratta di un balzo in avanti che investe anche il Canada perché un visto di tipo analogo ha ricevuto 2567 richieste cinesi nel 2011 rispetto alle 393 del 2009. La pressione sul Canada è stata a tal punto forte che il governo di Ottawa ha deciso di imporre un tetto annuale ai cinesi di 700 unità a partire dal 1˚ luglio scorso con il risultato di raggiungere il quorum in appena sette giorni. Per una nazione con circa 1 milione di milionari (in dollari) e un numero di miliardari stimato fra 150 e 300, frutto di una crescita accelerata negli ultimi dieci anni, ciò significa la volontà da parte di chi può di andare a investire altrove quanto è stato guadagnato in patria. È l’indicatore di uno scontento che mette in dubbio l’efficacia della scelta di Deng Xiaoping di puntare alla fine degli anni Ottanta sulla modernizzazione economica per consolidare il consenso attorno al partito comunista cinese. Zhang Monan, ricercatore del Centro di informazione dello Stato di Pechino, ha spiegato quanto sta avvenendo con un commento su China Daily attribuendolo a «l’aumento esponenziale del costo della vita, la crescita dell’inquinamento, la carenza di Stato sociale e l’impatto del peso fiscale» arrivando a concludere che «olo rendendo la Cina più attraente si riuscirà a impedire la partenza» dei più facoltosi. Il Quotidiano del Popolo e l’agenzia di stampa Xinhua, controllati dal governo, hanno ammesso l’esistenza del problema pubblicando una serie di articoli per ammonire gli emigranti che investire in America può comportare perdite di danaro. «Vi offrono un pasto gratis ma può diventare una trappola» ha ammonito il China Youth Daily. Il Wall Street Journal è andato a cercare alcuni dei ricchi cinesi attirati dalla fuga verso gli Stati Uniti, trovando in Shi Kang un imprenditore rimasto affascinato dalla qualità dell’ambiente nell’entroterra americano, in Su Bin il figlio di un ufficiale dell’esercito interessato a investire gli averi in una nazione «dove il governo non ha troppo potere» e in Denj Jie il titolare di una fabbrica di ceramica intenzionato a far studiare la figlia 18enne in un ateneo vicino Toronto per consentirle di «avere un’educazione internazionale ed eventualmente andare a vivere in Europa». Si tratta di imprenditori con alle spalle fra 10 e 20 anni di attività,orgogliosi dei risultati del modello economico voluto da Deng ma arrivati alla conclusione di voler espatriare per vivere in condizioni che giudicano migliori: meno corruzione e inquinamento, scuole migliori per le nuove generazioni. Ovvero, la declinazione dell’American Dream nel XXI secolo.

Repubblica 23.2.12
India, la rabbia dei pescatori di Kochi "Gli italiani hanno ucciso, devono pagare"
La missione del sottosegretario agli Esteri De Mistura: "Io non sono pessimista"
di Vincenzo Nigro


KOCHI - Nella notte afosa di Kochi vedere la Enrica Lexie è difficile: si intuisce ancorata a 5 miglia dalla costa, oltre la grande base della Indian Navy, oltre la pista dell´aeroporto su cui si appoggiano i pattugliatori della marina indiana. "Incredible India" dice la pubblicità della nazione che è un intero continente. E incredibile Kerala, lo Stato in cui la polizia ha fermato la petroliera italiana e arrestato i due marò del San Marco. Incredibile perché in questo stato meridionale le famiglie di due pescatori cristiani uccisi mercoledì scorso chiedono giustizia per un attacco che la Marina Militare italiana rifiuta di accettare come suo. Qui la verità è diversa da quella che raccontiamo in Italia: tutti, i giornali, i politici, i cittadini indiani definiscono ormai la storia "the italian killing". Gli italiani non hanno nessun dubbio. Gli indiani non hanno nessun dubbio.
Ieri, prima nella capitale New Delhi e poi qui a Kochi, nella città in cui è ferma la petroliera e sono agli arresti i due marò, è arrivato il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura. Ex inviato dell´Onu, uomo di mille crisi, De Mistura ha iniziato un giro delle sette chiese per capire come fare a diffondere il dubbio di una versione diversa, per cercare la pur minima possibilità di arrivare alla liberazione degli italiani. A Delhi ha incontrato la vice-ministro degli Esteri Preneet Kaur. Lei non ha potuto che ripetere che «seguiremo il caso, verrà applicata la legge indiana», e a questo punto gli italiani si sono rassegnati: nel momento in cui la nave italiana è rientrata in acque territoriali, è quella, la legge indiana, a dare forza legale alle azioni della polizia e dei giudici del Kerala.
«Io non sono pessimista - commenta De Mistura - ma siamo solo all´inizio, il primo incontro è stato positivo, ma continuiamo e siamo ancora in salita». Il messaggio che Monti e Terzi condividono è questo: «Italia e India non vogliono aggiungere ferite ai loro rapporti. Non sono d´accordo su quasi tutto nella storia e nella gestione giuridica della Lexie, ma sono d´accordo nel lavorare insieme e soprattutto noi italiani vogliamo evitare decisioni affrettate». Per questo, continua De Mistura, «cerchiamo insieme la verità, ci vorrà tempo, ma lo faremo insieme».
Una volta capito che gli indiani hanno il coltello dalla parte del manico, e soprattutto che si tengono in carcere i due soldati, è meglio prepararsi a seguire il "rito" indiano. Che poi non è così ignoto a chi conosca la politica italiana: c´è uno stato, il Kerala, che fra pochi giorni va al voto. Per 40 anni bastione del partito comunista indiano, da poco era passato al Congress di Sonia Gandhi. Ma Sonia Gandhi è ancora, dopo 40 anni, "l´italiana", e allora giù accuse e sospetti, l´italiana che vuole aiutare i mafiosi italiani. Per questo ieri fino a mezzanotte, De Mistura dopo aver visitato la "chiesa" del governo centrale di Delhi è andato a casa del chief minister Oommen Chandy, governatore del Kerala. È un uomo del Congress, ma aveva detto anche lui che «l´uccisione dei due pescatori è stato un assassinio a sangue freddo».
Il giro continuerà oggi, De Mistura e la squadra italiana (se possibile) dovrebbero fare altri 150 chilometri fino al villaggio dove sono le famiglie dei due pescatori, e poi naturalmente avvicinarsi ai soldati mantenuti agli arresti e soprattutto incontrare tutto insieme il gruppo di diplomatici, militari e giuristi che da giorni sono arrivati in India per seguire il caso.
Ma una cosa sia De Mistura che gli ammiragli italiani hanno chiesto con forza: prendete tutte le misure per evitare che accada ancora quello che 3 giorni fa è successo a Kollam, il villaggio dove i due marò erano stati trasferiti per un´udienza. Centinaia di scalmanati, soprattutto attivisti del partito BJP ferocemente anti-Sonia Gandhi, avevano provato ad assaltare le camionette che trasferivano gli italiani. Lancio di ciabatte, urla, spintonate, poi la polizia è riuscita ad allontanare la folla a forza di colpi di canna di bambù. Un linciaggio evitato oppure solo una teatrale manifestazione in stile indiano? Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non devono essersi sentiti rassicurati dai sorrisi con cui i poliziotti che li accompagnavano li hanno tranquillizzati. Presto l´alta corte dello Stato dovrebbe decidere sul difetto di giurisdizione, come chiedono gli avvocati indiani. È poco probabile che l´India rinunci al caso, forse bisognerà rassegnarsi a farlo sgonfiare poco alla volta. Sperando che le elezioni nel Kerala passino presto, e senza disastri.

La Stampa 23.2.12
La metafisica è finita filosofiamo in pace
La verità come favola. Finzione utile in determinate condizioni di esistenza: che oggi sono venute meno"
L’ipotesi di Nietzsche.  Destinati a trionfare i più moderati, a cui non servono principi di fede estremi
La Conclusione di Vattimo a un volume di saggi in suo onore Una “questione di metodo” contro ogni pretesa di dominio
di Gianni Vattimo


Un problema preliminare, con cui la filosofia contemporanea non può non fare i conti se vuole esercitarsi ancora come filosofia, e non solo come saggistica o come industriosità storiografica sul pensiero del passato, né ridursi a pura disciplina ausiliaria delle scienze positive (come epistemologia, metodologia, logica), è quello posto dalla critica radicale della metafisica. Bisogna sottolineare qui l’aggettivo «radicale», perché solo questo tipo di critica della metafisica costituisce davvero un problema preliminare ineludibile per ogni discorso filosofico consapevole della propria responsabilità. Non sono radicali quelle forme di critica della metafisica che, più o meno esplicitamente, si limitano a considerarla come un punto di vista filosofico fra altri, una scuola o corrente, che per qualche ragione filosoficamente argomentata bisognerebbe oggi abbandonare. […]
La critica della metafisica è radicale, e si presenta come un problema preliminare ineludibile, una vera e propria «questione di metodo», là dove si formula in modo da non colpire solo determinati modi di far filosofia o determinati contenuti, ma la stessa possibilità della filosofia come tale, come discorso caratterizzato da un suo statuto logico e anche, inseparabilmente, sociale. Il maestro di questa critica radicale della metafisica è Nietzsche. Secondo lui, la filosofia si è formata e sviluppata come ricerca di un «mondo vero» che potesse fare da fondamento rassicurante alla incerta mutevolezza del mondo apparente. Questo mondo vero è stato di volta in volta identificato con le idee platoniche, con l’aldilà cristiano, con l’ a priori kantiano, con l’inconoscibile dei positivisti, finché la stessa logica che aveva mosso tutte queste trasformazioni - il bisogno di cercare un mondo vero autenticamente tale, capace di resistere alle critiche, di «fondare» - ha condotto a riconoscere la stessa idea di verità come una favola, una finzione utile in determinate condizioni di esistenza; tali condizioni sono venute meno, e questo fatto si esprime nella scoperta della verità come finzione.
Il problema che Nietzsche vede aprirsi a questo punto, in un mondo dove anche l’atteggiamento smascherante è stato smascherato, è quello del nichilismo: dobbiamo davvero pensare che il destino del pensiero, una volta scoperto il carattere non originario, ma divenuto e «funzionale», della stessa credenza nel valore della verità, o della credenza nel fondamento, sia quello di installarsi senza illusioni, come un «esprit fort», nel mondo della lotta di tutti contro tutti, nel quale i «deboli periscono» e si afferma solo la forza? O non accadrà piuttosto, come Nietzsche ipotizza alla fine del lungo frammento sul Nichilismo europeo (estate 1887), che in questo ambito siano destinati a trionfare piuttosto «i più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso e di assurdità»?
Nietzsche non sviluppa molto di più questa allusione ai «più moderati», ma è probabile che, come appare dai suoi appunti degli ultimi anni (gli stessi da cui proviene questo frammento sul nichilismo), l’uomo più moderato sia per lui l’artista, colui che sa sperimentare con una libertà che gli deriva, in definitiva, dall’aver superato anche l’interesse alla sopravvivenza. […]
La questione circa la fine della metafisica, la sua improseguibilità, non è ineludibile solo o principalmente in quanto si riesca a dimostrare che essa costituisce il movente, esplicito o implicito, delle correnti principali della filosofia novecentesca; ma soprattutto perché pone in discussione la stessa possibilità di continuare a filosofare. Ora, questa possibilità non è minacciata tanto dalla scoperta teoretica di altri metodi, altri tipi di discorso, altre fonti di verità ricorrendo alle quali si potrebbe fare a meno di filosofare e di argomentare metafisicamente. Ciò che getta una luce di sospetto sulla filosofia come tale e su ogni discorso che voglia riprenderne su piani e con metodi diversi le procedure di «fondazione», di afferramento di strutture originarie, principi, evidenze prime e cogenti, è la smascherata connessione che queste procedure di fondazione intrattengono con il dominio e la violenza.
Il riferimento a questa connessione, sebbene possa apparire accidentale, è invece quello che, preso sul serio, rende davvero radicale la critica della metafisica; senza di esso, tutto si riduce a sostituire semplicemente alle pretese verità metafisiche altre «verità» che, in mancanza di una dissoluzione critica radicale della stessa nozione di verità, finiscono per riproporsi come istanze di fondazione. È difficile, come pure si sarebbe tentati di fare richiamandosi a Hegel, opporre a una tale «questione di metodo» l’invito a provare a nuotare gettandosi in acqua, cioè a cominciare di fatto a costruire argomentazioni filosofiche cercando se non sia possibile, contro ogni eccesso di sospettosità, individuare alcune certezze sia pure relativamente «ultime» e generalmente condivise. Tuttavia l’invito a gettarsi in acqua, l’invito a filosofare, non può provenire dal nulla; esso si richiama necessariamente all’esistenza di una tradizione, di un linguaggio, di un metodo. Ma le eredità che riceviamo da questa tradizione non sono tutte equivalenti: tra di esse c’è l’annuncio nietzschiano della morte di Dio, la sua «esperienza» più che teoria, della fine della metafisica e, con essa, della filosofia.
Proprio se si vuole accettare la responsabilità che l’eredità della filosofia del passato ci impone, non si può non prendere sul serio anzitutto la questione preliminare di questa «esperienza». Proprio la fedeltà alla filosofia è ciò che impone di non eludere, anzitutto, la questione della sua negazione radicale; questione che, come si è visto, è indistricabilmente connessa a quella della violenza.

Corriere della Sera 23.2.12
Se il relativismo teme la verità
Rinunciando alla ricerca del fondamento, la filosofia diventa un optional morale
di Claudio Magris


Uno spettro si aggira per l'Europa. Non è, come scriveva Marx nel 1848, il comunismo, che ormai solo qualche imbroglione tenta di estrarre dal ripostiglio del passato e agita come uno spauracchio per i bambini. Oggi i fantasmi che saltano fuori dalle tenebre, come nel tunnel dell'orrore dei luna park, per spaventare i visitatori e gratificarli col brivido dello spavento, sono i nemici del relativismo, tutti coloro che hanno la sfrontatezza di usare ancora la parola «verità». Relativismo, parola malleabile e adattabile a piacere come un chewing gum, appare il sinonimo di libertà, tolleranza, civiltà; un distintivo che ogni benpensante deve portare all'occhiello, a scanso di equivoci.
Nel coro retorico e mediatico, il relativismo — al pari dei concetti a esso contigui o opposti, quali tolleranza e verità — viene spesso radicalmente svisato nel suo significato più alto e profondo. Il relativismo, correttamente inteso, non è la negazione della verità e men che meno del significato e della necessità della sua ricerca. Esso è un indispensabile sale, non una pietanza; è un correttivo irrinunciabile nella ricerca della verità, che impedisce di credersene possessori definitivi, pervenuti a una piena e indiscutibile conoscenza della verità e autorizzati a imporla agli altri. Questo relativismo — rivolto a tutti i dogmatismi, a tutte le parole d'ordine e a tutte le opinioni dominanti del momento, soprattutto alle proprie convinzioni — è la base della tolleranza e della libertà.
Ma c'è un altro relativismo che oggi detta legge come un dogma pacchiano, rinunciando a priori a cercare — certo a tentoni, perché nell'esistenza umana non è possibile altrimenti — una qualsiasi verità; rinunciando ad affermare qualsiasi valore, ponendo tutte le scelte morali sullo stesso piano, come in un menu in cui ognuno sceglie secondo i suoi gusti e le reazioni delle sue papille gustative. Chi si rifiuta di considerare l'etica come un supermarket è bollato, con intolleranza, quale retrogrado e reazionario. Tale relativismo è l'opposto di quel dubbio critico rivendicato, nella «Lettura» del 5 febbraio da Giulio Giorello quale elemento costitutivo della libertà e della ricerca.
È giusto e doveroso invece contestare il relativismo quale optional universale applicato alle scelte morali. Non occorre pensare a Benedetto XVI, bersaglio obbligato nel baraccone di tiro a segno del Circo mediatico. Sono alcuni filosofi del tutto estranei alla Chiesa e ad ogni Chiesa ad aver smascherato questo falso, pappagallesco e intollerante relativismo, vero lupo camuffato da agnello; ad esempio (ma non è certo il solo) Tito Perlini, figura di rilievo della sinistra minoritaria e critica italiana, una delle teste pensanti della nostra cultura che hanno capito più a fondo le trasformazioni epocali degli ultimi decenni. Ogni pensiero, religioso o no, che pretenda di essersi impossessato della verità come ci si impossessa di un oggetto o della formula di un esperimento è una retorica menzognera che facilmente degenera in dogmatismo persecutorio, come l'Inquisizione e tutti i fondamentalismi d'ogni genere. Ma ogni filosofia che rinuncia a essere ricerca della verità e del significato della vita si riduce a un mero protocollo di un bilancio societario, magari — in nome del rifiuto della verità — truffaldinamente falsificato.
Non possiamo vivere senza distinguere tra ciò che — almeno per noi — è relativo e ciò che — almeno per noi — è un assoluto. Pratiche religiose, morali sessuali, consuetudini del più vario genere, tradizioni anche profondamente sentite e radicate sono relative e relativi sono i doveri e i divieti che esse proclamano. Uccidere un bambino o schiavizzarlo in un lavoro bestiale, mandare gli ebrei ad Auschwitz non sono scelte relative, giustificabili o no a seconda del contesto sociale e culturale, ma sono — o almeno dobbiamo considerarli — un male assoluto. Probabilmente per la natura, per la forza di gravità e il moto degli astri, i Lager e i Gulag non contano più dell'estinzione dei dinosauri, ma per noi sì.
La crescente mescolanza di culture, costumi, religioni e civiltà, con i loro valori diversi, devono indurci a fare il massimo sforzo possibile per mettere in discussione noi stessi e i nostri valori, pronti ad abbandonarli se altri si rivelano più credibili; pronti a considerare relativo ciò che eravamo abituati a considerare e a sentire come immutabile, proprio perché, come è stato detto, ci saranno sempre purtroppo eschimesi pronti a rimproverare i neri del Congo di andare in giro poco vestiti. Ma — afferma Todorov, altro pensatore illuminista che non ha nulla da spartire con le Chiese — dobbiamo stabilire alcuni, pochissimi, valori non più discutibili, ad esempio l'uguaglianza di diritti e la pari dignità di ogni persona indipendentemente dalla sua identità politica, etnica, religiosa, sessuale. Questo valore, ad esempio, per noi non è «relativo», lo viviamo come una verità esistenziale e morale. Poco importa se alcuni lo ritengono dato da un Dio su un monte o elaborato dalla coscienza umana come i due postulati fondamentali dell'etica di Kant, non meno universali dei dieci comandamenti.
Senza questa consapevolezza, il relativismo si degrada a indifferenza e ad arbitrio che, col pretesto di rispettare ogni opinione, può autorizzare la più atroce barbarie: io penso che non sia lecito sterminare gli ebrei, linciare i neri, mettere in manicomio i dissidenti politici o decapitare gli omosessuali, tu pensi invece di sì, ognuno ha diritto alla propria opinione e siamo tutti persone rispettabili. E invece va detto che chi pensa sia lecito trafficare con gli organi strappati a bambini o eliminare i disabili non è una persona rispettabile; è un porco o, nella migliore delle ipotesi, un imbecille condizionato da coatti pregiudizi sociali o razziali.
Ogni vero liberale crede, criticamente e senza presunzione, in un criterio di verità. In un incisivo articolo sul «Sole 24 Ore» del 15 gennaio Massimo Teodori, polemizzando giustamente contro tante prepotenze clericali, si richiama in generale al relativismo. Ma quando cita, con un profondo consenso che condivido pienamente, il divieto — vigente in Gran Bretagna — della clonazione umana considerata «eticamente inaccettabile», egli proclama un valore che non considera relativo come tanti altri.
Naturalmente è difficile individuare i valori da giudicare non più negoziabili, ma è in questo cammino e in questa ricerca che si gioca la più alta avventura della coscienza umana. Il relativista, per il quale tutto è interscambiabile, è invece — scrive Perlini — intollerante verso ogni ricerca di verità, in cui vede un pericolo per la propria piatta sicurezza, che egli si convince sia l'esercizio della ragione, così come scambia l'indifferenza etica per democrazia. Un liberale a 24 carati quale Dario Antiseri ha sottolineato come l'autentica fede, proprio perché afferma di credere nella verità e non di sapere cosa sia la verità, si offre al dialogo senza la pretesa di possedere la chiave dell'assoluto. La fede, peraltro, a differenza di tante ideologie aiuta a non innalzare ad assoluto qualsiasi realtà umana, storica, sociale, politica, religiosa, ecclesiastica; può essere una difesa contro ogni idolatria e dunque contro ogni totalitarismo, che si presenta sempre come un falso assoluto che esige cieca obbedienza. I fondamentalismi di ogni genere — soprattutto, ma non soltanto quelli religiosi — hanno perseguitato anche sanguinosamente questa libertà e questa verità. Il buon relativismo impedisce che la ricerca della verità si snaturi in tirannide spirituale e materiale. L'autentico illuminismo, fondamento della nostra civiltà inviso ai fondamentalisti clericali e anticlericali, è quello espresso da un genio della laicità quale Lessing, quando scriveva di non pretendere di possedere la verità, che spetta solo a Dio, e rivendicava per l'uomo la ricerca della verità — che non la raggiunge mai definitivamente ma è pur sempre ricerca di verità.
Certo, anche l'affermazione di una verità può essere strumento della volontà di potenza, come Nietzsche ha visto genialmente, e ciò accade quando si presume di «avere» la verità come presumono i fondamentalismi di ogni genere, trionfalmente bigotti o trionfalmente atei, aggressivamente e pateticamente impari alla vita. Non si può essere fanatici della verità, che può essere talora crudele e devastante; talvolta può essere umanamente doveroso tacerla o smussarla a chi può esserne dolorosamente ferito, ma ciò ha a che vedere con l' amore o almeno col rispetto degli altri e non con la sicumera relativista per la quale non esistono il vero e il falso. È giusto rimproverare ad esempio alla Chiesa cattolica tanti no da essa pronunciati, come dice il libro di Sergio e Beda Romano, ma in certi casi, insegna Camus, è con un no, con una posizione «contro» qualcosa che cominciano la libertà e la dignità. Troppe brave persone sono convinte, come ho sentito dire una volta a una signora al caffè, che Einstein sostenesse che tutto è relativo...

Corriere della Sera 23.2.12
Un respiro eternamente vivo
Leggere i grandi testi dell'antichità resta ancora oggi un passaggio cruciale nella formazione del cittadino
di Franco Manzoni


Esiste una struttura ideologica, di pensiero politico e sociale, che riflette nei classici greci e latini la realtà ad essi contemporanea. Eternamente vivo è il loro respiro, prima e dopo di noi. Sono degli evergreen indistruttibili, poiché sanno conservare energie di segretezza ed invenzione in quella zona intermedia, crepuscolare, che mette in contatto gli dèi e gli uomini, sempre tenuti in comunicazione diretta tramite la funzione dell'oracolo. Nell'ascolto di una tragedia come Prometeo incatenato di Eschilo oppure di una commedia quale Le nuvole di Aristofane, subito ci si rende conto che offrono modelli di pensiero, a cui rifarsi, perché essi sono. E divengono ciò che sono secondo il canone di una varietà insofferente ad ogni legge precostituita.
Ascoltare la musica interna nel significato del Simposio platonico, della Poetica di Aristotele o dell'Antigone di Sofocle, vuol dire possedere la chiave per varcare la soglia della regione politica, erotica, spirituale nell'intuizione del sapere. Leggerli, penetrarli, conoscerli almeno in traduzione resta un passaggio ineliminabile nella formazione di ogni uomo e cittadino. La discussione si sviluppa attraverso la costruzione di un linguaggio della verità e della menzogna, che è una necessità dell'esistere, del verosimile e delle identità creative nelle molteplici forme, intuite come tentativo continuo di superamento dei limiti umani.
In effetti il mondo greco costruisce e crea da sé, unendo scienza e filosofia, melodia e tragedia, riflessione e ritualità liberatorie, danza e storia. Va sottolineato come i greci, nella loro vastità e ricchezza generativa, potrebbero per assurdo bastare per l'indagine della conoscenza nella loro «follia» concepita quale dono divino. Di sicuro gli autori latini non si distinsero tanto come creatori di opere scientifiche e filosofiche. In effetti risultano importanti proprio per aver trasmesso ai posteri vasti stralci del pensiero greco e di quel modo di intuire la vita. E sono scrittori quali Lucrezio, Cicerone, Seneca e altri ancora. In fondo tutto il mondo culturale di Roma si basa sul concetto di imitatio o di aemulatio, la rielaborazione artistica di originali greci. Si pensi a Plauto ed ai suoi intrecci, che si rifanno in particolare a Menandro, oppure a Virgilio, che prese a modello i diversi Omero.
Osservando la storia dell'Europa, non resta che sottolineare l'identità linguistica del nostro continente, che ha utilizzato senza interruzioni la lingua latina fino al XIX secolo. E con il latino anche tutte le opere del pensiero greco. Tuttavia, per riuscire a focalizzare il senso etico dei classici è senza dubbio opportuno cercare di inserirli nel loro contesto storico. Non dimentichiamo che le opere teatrali greche andavano in scena durante le feste in onore di Dioniso. Alla fine, dopo aver fatto uso di droghe e vino, i cittadini ateniesi allestivano un'orgia istituzionalizzata, dove giungevano a gioire della festività e a liberarsi attraverso furore estatico, euforia, possessione divina, molteplici accoppiamenti erotici. Per loro non esiste il peccato. E gli dèi spesso agiscono commettendo gesti persino peggiori di quelli umani contro la natura della legge.
La democrazia ateniese mette sullo stesso piano i cittadini, liberi di fare politica, accudire il proprio cavallo ed esercitarsi con le armi, andare a teatro, rilassarsi ai bagni pubblici, tutto questo grazie allo sfruttamento degli schiavi. Né va dimenticato il fatto che la democrazia ad Atene è una società senza donne, che stanno segregate in una parte della casa celata agli ospiti, poiché considerate persone d'inferiore natura, incapaci di comprendere i discorsi dei maschi. Pure a Sparta come a Tebe e nel resto della Grecia la donna è un oggetto per procreare, uno strumento per propagare la specie. Niente di più. Lo vediamo chiaramente nel Simposio di Platone, dove tutta la società greca si rispecchia: medici, filosofi, poeti discettano d'Amore e dei principi del Bello. La sublimazione ad un'ideale unione spirituale avviene attraverso il rifiuto della donna, incapace di offrire un amore in grado di educare e sublimare. Non resta che affidarsi ad una contemplazione omoerotica che, invece di produrre figli, genera arte, conoscenza, sapienza, leggi, amicizia.
Non solo Platone, ma i classici in generale evidenziano che la sfera pubblica e quella privata non sono mondi del tutto separati. Anzi. Nel Simposio Alcibiade completamente ubriaco s'introduce nel convito per descrivere Socrate come un satiro o un sileno, confessando di aver tentato di sedurre invano il maestro, quando era adolescente. Da ciò deducendo in forma di encomio che nessuno è simile a Socrate. Di contro nella commedia Le nuvole in modo dissacrante Aristofane colpisce Socrate come il bersaglio principale, come chi rovina i giovani con una pedagogia utopica, trasgressiva, priva degli antichi valori e fuori da ogni realismo quotidiano. Inoltre si pensi alla figura di Creonte nell'Antigone di Sofocle. Quando il tiranno viene a conoscenza che la donna che deve mettere a morte, colpevole di aver violato la legge, è Antigone, la propria nipote e fidanzata di suo figlio, Creonte non cambia opinione. È costretto a condannarla: governare bene significa applicare la legge senza privilegiare nessuno. In Grecia vi era assoluta coerenza tra la vita privata e quella pubblica. Insegnamento che vale anche oggi.
Proprio per questo un giovane dovrebbe cercare di approfondire la storia antica. Conoscere il passato è fondamentale per avere un presente e un possibile futuro. La lettura dei classici è uno degli strumenti più validi per conoscere ciò che è stato. Naturalmente l'ideale sarebbe essere in grado di leggere i classici nella lingua originale, visto che la traduzione è per natura un tradimento. Ma anche la lettura dei classici in versione italiana permette di accedere ad un mondo dal quale altrimenti si rimarrebbe completamente esclusi.

Corriere della Sera 23.2.12
Miti, idee e passioni alle radici della civiltà occidentale


Per capire la cultura occidentale in tutto il suo sviluppo, perfino nelle sue grandi contraddizioni, occorre risalire a quei primi monumenti del pensiero in cui si sono cristallizzate le questioni tuttora dibattute intorno all'Essere, al libero arbitrio umano, alla materia, per continuare con l'organizzazione dello Stato, la cosa pubblica, ma anche il rapporto padre figlio, le relazioni familiari, l'irriducibilità dell'individuo e così via. A tali testi, centrali per il pensiero contemporaneo in tutte le sue declinazioni, è dedicata la nuova iniziativa dei «Classici del pensiero libero greci e latini», una collana che si riallaccia ai precedenti «Classici del pensiero libero», in edicola con il «Corriere della Sera» ogni giovedì e sabato, a partire dal 1° marzo (al prezzo di un euro più il costo del quotidiano). Ciascun volume è arricchito da nuove introduzioni di illustri studiosi e critici, da Giovanni Reale a Luciano Canfora, da Edoardo Boncinelli a Eva Cantarella e molti altri, che collocano il classico nella sua dimensione storica e ne offrono una lettura contemporanea, chiarendone l'influsso culturale fino ai nostri giorni. Il primo volume, in edicola il 1° marzo, comprende l'Apologia di Socrate e il Critone di Platone, con la prefazione di uno dei più grandi studiosi del pensiero antico, Giovanni Reale. Seguirà, il 3 marzo, Aristotele, di cui viene presentato un testo insolito, La Costituzione degli ateniesi: ne espone il significato e l'importanza il filologo e storico Luciano Canfora. All'arte della tragedia, altra grande eredità del mondo greco, è dedicato il terzo volume in edicola l'8 marzo, che oltre a due tragedie di Sofocle, Antigone e Edipo re, propone l'introduzione di una studiosa illustre del mondo greco, Eva Cantarella. Seguiranno il 10 marzo le Lettere di Epicuro (prefazione di Giulio Giorello), mentre si passa al pensiero civile latino il 15 marzo con L'amicizia di Cicerone (introduzione di Giorgio Montefoschi), per continuare con Seneca, Eschilo, Plutarco e numerosi altri giganti del pensiero. (i.b.)

Corriere della Sera 23.2.12
Una mostra a Rovigo
Divisionismo, la scienza della percezione
di Melisa Garzonio


Luci della modernità Così l'arte trasfigurava sulla tela i progressi ottenuti in laboratorio
L' effetto sirena causato dalla bruna signora che incede sdegnosa sollevando un lembo del cangiante abito bianco (con piccoli arabeschi gialli) è forse stato studiato a tavolino? La locandina della mostra «Il Divisionismo. La luce del moderno», che campeggia sotto i portici di Piazza Vittorio Emanuele II, a Rovigo è più guardata dei cartelloni degli ultimi film di Spielberg e Scorsese, campioni al botteghino della stagione. Sorridono soddisfatti Francesca Cagianelli e Dario Matteoni, negli ultimi anni curatori a quattro mani al Palazzo Roverella di visitatissime mostre sui capricci estetizzanti di déco e fin de siècle, adesso artefici di questa rappresentazione sulla «pittura divisa», che in quanto a fascinazione ha proprio l'aria di superarle tutte.
«Vorrà dire che grazie al "Ritratto all'aperto" di Giacomo Balla i visitatori verranno a vedere la mostra molto ben disposti» gongola Cagianelli, che ci tiene però a sottolineare come gli intenti dei curatori vadano ben oltre la portata emotiva dei dipinti icona, puntando piuttosto su una revisione storiografica del movimento pittorico che tra l'ultimo ventennio dell'Ottocento e gli anni Venti del Novecento, quasi un naturale prolungamento, in area lombarda, della bohème scapigliata, fece da tramite tra il bello gratificante del verismo e l'antigrazioso dell'avanguardia futurista. Aggiunge Matteoni: «Abbiamo voluto ribaltare l'idea di un asse privilegiato del divisionismo tra Milano e Torino, considerate, con esagerata enfasi, le due città più vitali del Settentrione».
È vero che il piemontese Pellizza da Volpedo in una lettera del 1896 indirizzata all'amico Plinio Nomellini scriveva: «L'anno prossimo avremo la seconda Triennale milanese, fa di non mancare all'appello. Milano tanto quanto Torino, e forse più, è terreno adatto alle nostre lotte». Avrà avuto anche ragione il Pellizza, la cui adesione alla fase visionaria del divisionismo è celebrata nel portentoso trittico «L'amore nella vita», altro pezzo forte dell'esposizione. Ma a Rovigo si scoprono cose nuove, per esempio inedite geografie tra Liguria e Toscana, trait-d'union Plinio Nomellini, artista livornese dalla tavolozza focosa, che dal 1890 viveva a Genova, e dunque funge da filtro tra la pittura di macchia alla Fattori e la pennellata filamentosa dei pittori di costa, da Benvenuto Benvenuti per le smaltate marine livornesi, a Rubaldo Merello e il gallese Llewelyn Lloyd per i rossi tramonti in Riviera e la raccolta dell'uva alle Cinque Terre. Ancora, in mostra si dà voce a tanti bravi artisti finora considerati solo dei semplici epigoni rispetto ai maestri del movimento, come il veneziano Vittore Zanetti-Zilla, il milanese Ludovico Cavalieri, e due pittori «della grazia infantile e della bellezza muliebre» come Camillo Innocenti e Arturo Noci.
«Il lungo tempo del divisionismo», argomentato in catalogo da saggi di Anna Maria Damigella, Sergio Rebora e Nicoletta Colombo, comincia con un omaggio al «padre» della tecnica divisa, Vittore Grubicy De Dragon, eccentrico erede di una famiglia aristocratica magiara trasferita nel Lombardo Veneto, un tempo ricca ma ormai debole e spiantata. Dotato di carisma e phisique du rôle, estro pittorico e sesto senso nel riconoscere i talenti, appassionato di bella musica, da Ravel a Debussy, da Satie a Gounod, e instancabile globetrotter, Grubicy aveva colto il nascere dei nuovi fermenti durante i frequenti viaggi in Belgio, Olanda, Francia, e si era fatto una cultura su libri e riviste straniere. Di sicuro vide Seurat e studiò la tecnica francese del Pointillisme, importando in Italia la querelle mai risolta sul debito dei nostri pittori divisionisti con i cugini francesi.
Nella sua biblioteca, oggi conservata al Mart di Rovereto, compaiono opere capitali di Jehan Georges Vibert: «La science de la peinture», sia nell'edizione francese che in quella italiana tradotta da Gaetano Previati e pubblicata su commissione di Grubicy nel 1893. Previati, divisionista dalle forti sfumature simboliste, svolse il ruolo di teorico del gruppo («La tecnica della pittura», 1905; i «Principi scientifici del divisionismo», 1906). Sono gli anni in cui la percezione luminosa si modifica e si allarga a nuove sfere sociali. Nelle città le luci colorano i grandi magazzini, le vetrine, brillano sgargianti nelle insegne sui muri. Grubicy intercetta i pittori del nuovo e li lega in un rapporto d'esclusività con la galleria milanese che dirige col fratello Alberto. I due però non vanno d'accordo. Rotto il sodalizio, Vittore prende colori e cavalletto e va a fare il pittore sul Lago Maggiore. Quasi tutti i suoi protetti diventeranno famosi.

Corriere della Sera 23.2.12
La sfida della creatività in 3D che affascinò Galileo e Einstein
di Giulio Giorello


Coinvolto non solo nelle controversie sul moto della Terra, ma anche nella disputa circa il valore delle arti figurative, Galileo Galilei era solito rivendicare il primato della pittura sulla scultura, perché nella prima lo sforzo che si richiedeva all'artista nell'imitare la realtà era maggiore che nella seconda: lo scultore lavora in tre dimensioni, come fa la natura stessa; il pittore deve rendere su una tela piatta — cioè bidimensionale — i corpi solidi che osserva. Per questo, agli occhi di Galileo, erano così importanti le rinascimentali tecniche della «dolce prospettiva»: se ne sarebbe servito lui stesso nella pratica scientifica, in particolare nel riconoscere che le macchie lunari non erano né tracce di qualche «uomo sulla Luna», come voleva la favola popolare, né differenze di trasparenza alla luce (come sostenevano gli aristotelici), ma ombre prodotte dai raggi solari sulla superficie scabra del nostro satellite fatta di alte montagne e avvallamenti.
La competenza figurativa si rivelava così strumento di comprensione scientifica. Una grande tradizione pittorica doveva per secoli intraprendere il cammino inverso: dalla teoria degli scienziati alla rappresentazione su tela, sempre nella magnifica ossessione di riprodurre nelle due dimensioni anche lo spessore dei volumi e della profondità dello spazio.
Il «divisionismo» del francese Georges-Pierre Seurat rientra tra questi «nobili» tentativi. Alla galileiana «forza delle linee» si affiancano la concezione fisica e chimica dei colori e la fisiologia del vedere studiate, tra gli altri, dal grande Hermann von Helmholtz. Come scriveva il pittore e teorico David Sutter nei suoi Fenomeni della visione (1880), si era venuta formando una sintesi scientifica che «emancipa da tutte le incertezze» e garantisce all'artista di poter sfruttare al meglio le leggi della natura: non si dimentichi che «nell'arte tutto dev'essere voluto», nei limiti del possibile!
E la «volontà» di Seurat conosce l'esperimento non meno che «l'intelletto tedesco» (come si diceva allora di Helmholtz): al colore tradizionalmente ottenuto dall'impasto di vari pigmenti sulla tavolozza, Seurat sostituisce l'accostamento di due colori «puri» direttamente sulla tela (è per questo che la sua tecnica è stata definita «divisa») e affida al meccanismo percettivo dell'occhio dell'osservatore il compito di ricomporli. Più che d'imitazione si dovrebbe parlare di simulazione dei processi naturali: proprio come fa lo sperimentatore in ottica quando scompone e poi ricompone coi suoi prismi la luce.
All'epoca, e anche dopo, i critici hanno accusato i divisionisti di «astrazione», come una vera e propria fuga intellettualistica dal mondo della vita, ritratto dagli impressionisti con ben maggiore pregnanza. Certo, astrazioni erano i puntini di vari colori che i divisionisti collocavano sapientemente sulla tela; non meno che astrazioni erano i «corpuscoli» o «minimi percettibili» cui i teorici ricorrevano nella loro spiegazione della visione: astrazioni sì, ma feconde, perché consentivano ulteriore conoscenza e nuova tecnica.
Credo che così siano andate le cose almeno dal Neolitico, e che questo virtuoso interscambio tra arte e scienza si ritrovi in tutte le grandi culture della rappresentazione (anche in quelle apparentemente iconoclaste). L'estetica è importante, e per questo non andrebbe lasciata nelle mani dei professori di estetica, almeno di quelli che temono che fisica o chimica o fisiologia spengano il bello. Al contrario, ne svelano aspetti o significati altrimenti inediti.
Ho sotto gli occhi un'eccellente riproduzione del Sole nascente (1904) di Pellizza da Volpedo, dove queste modalità di scomposizione e ricomposizione producono un grandioso effetto di splendore. Tra non molto, alla natura della luce Albert Einstein dedicherà almeno due dei contributi del suo «anno mirabile» (1905). Non sto sostenendo che i puntini messi dall'artista su tela coincidano con i «quanti di luce» della nascente fisica quantistica. Mi pare tuttavia che i modi di rifare il mondo (per usare l'espressione del filosofo Nelson Goodman) dell'arte e della scienza, o almeno di certa arte e di certa scienza, possano funzionare come reciproche metafore di un'attività di creazione e di conoscenza che è favorita da questo scambio ininterrotto.

Repubblica 23.2.12
Generazione sbucciata
Il coraggio del mio amico Grass
di Christa Wolf


L´anticipazione / Un inedito dell´autrice tedesca compreso nella sua ultima raccolta di scritti, in uscita in Germania il prossimo mese
Gli avrei augurato maggiore solidarietà dopo la scelta di raccontare l´esperienza giovanile nelle SS
In seguito alla presa di coscienza, ha contribuito in prima linea a descrivere l´inenarrabile

Tra le tante vie della scrittura, quella autobiografica è al tempo stesso la più facile e la più complicata. Diventa semplice per certi versi perché l´autore si muove all´interno del racconto come un pesce che nuota nell´acqua. Tutto gli è noto, ha già confidenza con ogni cosa, nulla deve (né può) essere inventato. Forse, per buona pace di tutti, al massimo vanno cambiati alcuni nomi di persone o di luoghi. Ma si crea, attingendo da un bagaglio già pronto.
Fin qui l´aspetto della leggerezza. La scrittura autobiografica, però, è anche la più difficile e complessa perché, per riuscire davvero, deve diventare una narrazione che ti fa fare i conti con te stesso. Il più delle volte significa che deve farti male. Che deve essere faticosa, dolorosa, colpirti fin nei reni e nel midollo. Deve marciare passo passo con le crisi, non solo con gli inevitabili momenti di crisi della scrittura, ma anche con quelle della personalità, con i dubbi su di te che arrivano al cuore stesso dell´autocoscienza. E infine, ma non è l´aspetto meno importante, la scrittura autobiografica mette l´autore davanti a quell´ultima barriera e intima protezione che può concedersi o che invece può aver scelto di far cadere davanti ai suoi lettori, denudandosi completamente.
Il fatto che alla fine ci sia sempre qualcuno che osi varcare quella soglia spiega tra l´altro quella singolare riserva di innocenza che, al momento in cui decide di pubblicare il libro, spinge l´autore o l´autrice a sperare di essere accolto dal "miracolo" della comprensione.
Sto parlando dunque di Günter Grass, che in Sbucciando la cipolla, si è sbucciato o spellato da solo, e ha portato la sua pelle sul mercato. In questo senso si può interpretare la sua figura. Ma sto anche parlando della generazione a cui entrambi, Grass e io, apparteniamo. Sto parlando del breve spazio di tempo delle nostre vite e insieme dello spazio di tempo della storia più recente di questo Paese, che fino a poco fa era spaccato in due. Un frammento di vite di una generazione e di un Paese fino a ieri diviso, che non è stato innocuo, né esente da strappi, contraddizioni, fardelli del passato, scelte sbagliate o fallimenti. Dopo un´ampia opera narrativa che ha sempre evocato tutti questi temi, spesso in forma di fantasia, Günter Grass si è deciso tardi a trattarne in modo diretto, tirando in ballo se stesso.
In questo libro trovo momenti, confessioni, ammissioni, ricerche su se stesso, che non voglio nominare una a una e che scavano più a fondo nell´essenza umana, nel carattere dell´autore rispetto ai libri precedenti. Sono momenti, confessioni e ammissioni che credo debbano essere stati ben più difficili e dolorosi da narrare della rivelazione della sua appartenenza – per qualche mese, e non volontaria – alle SS, come soldato diciassettenne.
Non voglio prendere alla leggera questa parte della sua vita più di quanto lui stesso non la prenda alla leggera, lui che scrive come «ancora oggi, dopo oltre sessant´anni, quella doppia S mi risulta uno spaventoso orrore». E lui che proprio per questo – vorrei dire soltanto questa frase – finora non era riuscito a parlarne. Lo si può accusare per un comportamento del genere, e mi pare che lo abbiano già fatto oltre misura. Sicuramente lo hanno fatto scrittori che, vorrei sperare, hanno sempre affrontato con franchezza e libertà gli errori e i lati più imbarazzanti della loro vita. Il fatto che molti di loro, soprattutto i più giovani, non si siano mai trovati davanti a conflitti di coscienza così profondi come abbiamo fatto noi della nostra generazione dipende dai cambiamenti storici e sociali avvenuti nel frattempo.
Mi domando se l´ostinata voce critica e l´impegno civile costante di Günter Grass non abbiano contribuito oggi a ripagarlo con la moneta del disprezzo di quanti, dopo la sua confessione, parlano di "istanza morale".
Io che a lungo sono stata un´osservatrice dall´esterno, avrei augurato a Grass di ricevere in tante occasioni una maggiore solidarietà, quella stessa che lui in passato ha garantito ai colleghi, me compresa, che si sono trovati pubblicamente in difficoltà. Dico questo tralasciando di ricordare che una singola persona o una minoranza, che prenda posizione contro alcune derive negative nel proprio Paese, non si salva mai dalle critiche, prima o poi. Sempre si fanno avanti in molti, la maggioranza spesso, che attaccano ad alta voce e ingiustamente. Grass lo ha sperimentato più volte. Il Reich millenario rese per molti di noi credibile e condivisibile dal punto di vista emotivo una certa realtà. Questa condivisione fu poi liquidata con le solite scuse, per esempio quella di essere allora dei bambini facilmente influenzabili. Grass, forse a causa della sua grande sensibilità, non ritiene che quelle scuse siano valide anche per lui. Parlarne, rompere il silenzio, era una necessità del suo animo, e adesso è riuscito nel suo intento, raccontando tutto in prima persona.
In questo tessuto di narrazioni, di rivelazioni, di dubbi e di riflessioni, in questo torrente di ricordi, dovrebbero restarci davanti agli occhi alcuni episodi che potrebbero colpirci e ferirci. Invece di condannare bisognerebbe cercare di capire, di confrontarsi con l´autore e anche con se stessi. Invece di porsi tante domande – scusate se è esigere troppo – dovremmo metterci alla prova con noi stessi. Ancora una volta, invece, abbiamo sprecato un´occasione di riflessione collettiva sul passato.
L´angoscia che questo libro ha scatenato in me è un´altra ancora. Grass racconta, dopo il suo addestramento militare come carrista della divisione SS "Joerg von Frundsberg", della sua prima missione di guerra al fronte e di come imparò ad avere paura. Di come l´apocalisse gli si rovesciò addosso, di come non sparò mai un solo colpo e per tre volte scampò fortunosamente alla morte. È la guerra nel suo aspetto più spietato. Sono trenta, quaranta pagine. Dopo averle lette due volte, mi sono detta che in fondo avrei preferito saltarle. Sono pagine che anche Grass e con lui migliaia di reduci di guerra hanno "saltato" dentro di loro, hanno rimosso, nascosto, fatto passare sotto silenzio, come altri tedeschi, anche loro migliaia – i criminali di guerra – che poi tacquero sui loro crimini. Un´immagine mi appare davanti agli occhi e non vuole andare più via. Su una montagna di ossa, le ossa delle vittime assassinate, fu costruita la Germania del dopoguerra: sana, linda e fiduciosa in se stessa. Una nazione che preferì a lungo il silenzio. Anche questo possiamo imparare da questo libro, specialmente dalla sua descrizione del dopoguerra: quanto tempo fu necessario per prendere coscienza di fatti mostruosi, e quanto ancora per parlarne. E i più, lo sappiamo, non parlano mai.
Trasformare il non narrato o l´inenarrabile in parola di memoria è sempre stato uno dei compiti più difficili con cui gli scrittori si sono dovuti confrontare, raccontando la loro stessa vita. Günter Grass ha contribuito a questo compito mettendosi in prima linea. In questo libro descrive anche come abbia tratto le sue figure letterarie, a cominciare da Oskar col suo tamburo di latta, dalla vita reale, una vita che come ogni autore ha dovuto saccheggiare. Fino in fondo? Non del tutto. Restava qualcosa, non era stato ancora narrato tutto.
«Passò del tempo», egli scrive, «finché io capii appieno e, esitante all´inizio, ammisi con me stesso che incosciente o piuttosto senza volerlo sapere partecipai a un crimine che con gli anni non sarebbe divenuto più piccolo, che non sarebbe caduto in prescrizione, un crimine che ancora oggi mi fa sentire male». Questa lunga esitazione, la presa di coscienza, l´ammissione, è quanto Günter Grass descrive in questo libro. Mi auguro che i lettori siano pronti a seguirlo nel processo di chiarezza e riscoperta di loro stessi.
Il testo viene pubblicato per gentile concessione della casa editrice Suhrkamp © Suhrkamp Verlag GmbH & Co. Kg, Berlin

il Riformista 23.2.12
Aldo Capitini
«La realtà è così ma io non accetto»
Religione aperta. La ristampa dell’opera del “Gandhi italiano”, in cui espresse la radicalità di una posizione nonviolenta, improntata all’amore di tutte le creature e di disinteresse per il potere
di Andrea Di Consoli


La ristampa, a più di cinquant’anni dalla prima edizione, di Religione aperta (Laterza, 248 pagine, 20,00 euro, introduzione e cura di Mario Martini, prefazione di Goffredo Fofi) di Aldo Capitini (18991968) antifascista, pedagogo, filosofo, teorico della “nonviolenza”, religioso laico è occasione necessaria e preziosa per ritornare a discutere un pensiero dirompente e “rivoluzionario” senza più l’ausilio dei troppi “nipotini” che lo hanno se-
questrato e tirato per la giacchetta in questi ultimi decenni (ci riferiamo, tanto per essere espliciti, ai troppi piccoli guru partitici e movimentisti della “Marcia della Pace”, che Capitini fondò con tutt’altro spirito nel 1961). Perché la sensazione che si ha è che su Capitini ci sia ancora un fraintendimento, e questo fraintendimento è di natura politica.
Il suo messaggio di amore totale, di non collaborazione con il male, di religiosità “dal basso”, di democrazia diffusa (si pensi ai suoi centri di orientamento sociale e religioso), di amore per gli animali e per tutte le creature e, soprattutto, la comunione dei vivi e dei morti e l’assoluto disinteresse per il potere, non hanno niente in comune con chi agisce, sia pure ammantandosi di buoni sentimenti e di belle parole, in nome del potere, del benessere personale e, soprattutto, in nome di un partito o di una causa ideologica (l’antiamericanismo, per esempio).
Capitini, che proveniva da una modesta famiglia, materialmente nulla aveva e nulla mai ebbe, se non una cattedra universitaria, che pure gli fu data dopo infinite diffidenze e umiliazioni (durante il fascismo perdette “il posto” di segretario della Scuola Normale di Pisa), e mai volle, nonostante fosse uno dei padri del pensiero liberalsocialista, entrare in un partito (nel Partito d’azione, per esempio), né volle mai imbrigliare il suo libero pensiero in una istituzione “chiusa”, cioè in una struttura di potere.
Per questa ragione è necessario dissequestrare Capitini da chi ne ha fatto un santino politicamente corretto di quella sinistra borghese-salottiera che ignora, tra le tante cose, il fondamento del suo pensiero religioso, che è anzitutto amare l’avversario e chi vive nel male, non collaborare in nessuna circostanza con esso, amare costantemente tutte le creature. Il fondamento di troppi suoi “nipotini”, invece, è l’odio politico sistematico, nonché la sete, sia pure dissimulata, di potere. Troppi cioè, detto altrimenti, si ritengono immediatamente degni (e noi non siamo tra questi, purtroppo) del pensiero e dell’insegnamento di Capitini, pur ignorando la profonda differenza che corre tra pacifismo e nonviolenza, essendo il primo un valore politico generico (verbale, diciamo così), e il secondo un valore esistenziale e spirituale d’inaudita radicalità (lo si esplica nella vita quotidiana, in ogni momento). È capitato troppo spesso, purtroppo, che il “Gandhi italiano” (così veniva chiamato Capitini, che tra l’altro scrisse una bella prefazione all’autobiografia del Mahatma), finisse in bocca a ricche signore felici di farsi una lunga passeggiata in Umbria, e a gruppetti e leaderini divorati dall’odio per gli avversari politici.
Detto questo, leggere o rileggere Religione aperta significa, ogni volta, mettersi in profonda discussione, ampliare gli orizzonti delle possibilità di migliorarsi (leggendo Capitini, anzitutto ci si sente inadeguati e mancanti, in difetto, egoisti), riflettere e valutare in una prospettiva terrena e fraterna (etica ancor prima che morale) valori quali l’amore, Dio, il sacro, la nonviolenza, il bene, il dolore, il vegetarismo, la disobbedienza civile. Certo, lascia un po’ perplessi la facilità sincretica di Capitini, quell’unire in un unico abbraccio Gandhi, Buddha, Gesù, San Francesco e Mazzini, e questo è forse l’aspetto più affascinante (più seducente, si direbbe) ma anche più fragile della “religione aperta” (una religione della liberazione) di Capitini, che non a caso è stato a lungo guardata con diffidenza dalla Chiesa.
Scrive Capitini, lasciando nel lettore un profondo sentimento di sfida e di sgomento: «Quando incontro una persona, e anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia o si spenga, prima o poi come una fiamma. Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto. E se guardo meglio, trovo anche altri ragioni per non accettare la realtà così com’è ora, perché non posso approvare che la bestia più grande divori la bestia più piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalgano: una realtà fatta così non merita di durare».
Qualcosa in più, si capisce, di una semplice “marcia per la pace”.

La Stampa 23.2.12
Antonio Banderas
“Il mio Picasso sarà quello di Guernica”
L’attore diventa il pittore in “33 dias” di Carlos Saura
di Fulvia Caprara


L’ intervista potrebbe farla anche in italiano e, alla fine, per dare prova delle capacità acquisite, saluta con un «ciao bella» accompagnato dal sorriso sornione. Merito del Gatto con gli stivali, animale che intimamente gli somiglia, e che gli ha portato, quest’ultimo inverno, un successo planetario: «Non solo l’ho doppiato per la versione italiana, ma l’ho anche fatto in tutte le altre lingue latine, che sembrano uguali, e invece sono diverse, per lievi inflessioni, modi di dire, frasi idiomatiche». Naturalmente, visti gli incassi, l’ipotesi del sequel è quasi certa. Nel frattempo Antonio Banderas, 51 anni, marito, dal 1996, di Melanie Griffith, da cui ha avuto la figlia Stella, oggi 15enne, si dedica a un carriera variegata, multiforme, piena di sorprese e scelte insolite. In Knockout, di Steven Soderbergh (da domani nelle sale per Moviemax), è un agente segreto spagnolo alle prese con una collega (Gina Carano) specializzata in arti marziali. Una prova divertente, ma il suo cuore, la sua mente, tutta la sua sensibilità di attore spagnolo, nato a Malaga, sono già concentrati sul prossimo lavoro.
Che cosa l’attende?
«Ho chiesto a Carlos Saura se potevo parlarne e mi ha dato il permesso. Girerò con lui un film sul periodo in cui Pablo Picasso dipinse il capolavoro “Guernica”, una fase particolare della sua esistenza, che consente un approccio al personaggio molto nuovo e interessante. Il titolo è 33 giorni, sarà ambientato principalmente a Parigi, le riprese sono in programma per ottobre».
Un impegno importante, è preoccupato?
«Per me interpretare Picasso rappresenta una grande responsabilità, è stato un genio assoluto, inoltre siamo nati nella stessa città, la mia prova sarà valutata con incredibile attenzione, ma sento nel profondo che è arrivato il momento di tornare ai miei sentimenti andalusi».
Quali aspetti del personaggio saranno maggiormente evidenziati?
«Nel periodo in cui dipingeva “Guernica”, Picasso era depresso, e anche molto preoccupato per la sua famiglia che stava a Barcellona. Le donne lo amavano tantissimo, in quel periodo ne aveva due contemporaneamente, e questa era un’altra fonte di problemi».
Eppure Picasso non era certo bello.
«Sì, ma le donne lo adoravano, per varie, differenti ragioni, aveva un carisma straordinario... Certo, sarà molto impegnativo dover riprodurre una personalità così ricca e complessa».
Dovrà imparare a dipingere?
«Non ho nessuna pratica, ma dovrò cercare di apprendere almeno qualcosa, acquistare un po’ di confidenza con i pennelli».
In quest’ultimo periodo ha fatto tante cose differenti, dalla voce del «Gatto» a piccoli ruoli, quasi apparizioni. In che modo sceglie i suoi impegni?
«Sono un attore, amo il mio mestiere, e quindi mi piace fare qualunque cosa, il bello di questo lavoro sta in questo, e anche nella capacità di essere ironici. Il mio criterio di scelta riguarda sempre i registi, lavoro con chi amo davvero, a prescindere dalla lunghezza della parte che mi viene affidata».
Che cosa l’ha attratta di «Knockout»?
«È un film d’azione completamente diverso da quelli che si girano oggi, non c’è niente di finto, a iniziare dalla protagonista che è nella realtà una campionessa di arti marziali. Knockout mi ha ricordato certe pellicole con Steve McQueen, per esempio Bullit ».
Come si è trovato con Soderbergh?
«È stato tutto molto semplice, di Soderbergh mi ha colpito la sicurezza e la velocità con cui gira, dirige come se fosse un musicista jazz».
Da tanti anni vive in America, che rapporto ha con le sue radici europee?
«In fondo ci abito per caso, ho conosciuto Melanie, ci siamo innamorati, lei aveva lì i suoi bambini, così sono stato io a trasferirmi. Vuol dire che avrò più storie da raccontare ai miei nipoti».
Tornerà a recitare con Pedro Almodóvar?
«Sicuramente, sul set della Pelle che abito abbiamo avuto ottimi rapporti e ci siamo lasciati benissimo. I suoi sono sempre film complicati, con lui, le regole del gioco cambiano ogni volta. Per tutti l’alfabeto è “a, b, c, d”, con Almodóvar diventa “a, b, c, g” e il risultato è straordinario».
Sarà ancora regista?
«Sì, sto preparando il mio prossimo film Solo, anche se in questo momento è molto difficile riuscire trovare soldi per mettere insieme un film».

l’Unità 23.2.12
Netizen: i cittadini attivi di Internet
di Carlo Infante


Rischiamo di vivere in un futuro digitale eterodiretto, gestito da altri. Di altri continenti addirittura. Vi immaginate uno spazio di comunicazione, come internet, trincerato in logiche chiuse come le frequenze radiotv e aziende broadcast, come Rai o Mediaset? Sarebbe anche peggio, perché le major nel web sono talmente globali e opache da confondere qualsiasi reazione di contrasto. Le “sette sorelle” del petrolio, come si diceva una volta per definire la cupola delle multinazionali, tra qualche anno saranno assai poco al confronto di quella ragnatela intricata che va ben oltre gli assetti proprietari del mondo d’impresa. È necessario quindi iniziare a concepire il web come uno spazio pubblico, dove agire, progettare, costruire ambiti di socialità e di comunicazione connessa alle comunità e ai territori. Si tratta di un’opportunità da non perdere per le piccole imprese di creatività digitale, più artigiane che industriali. Il dato peculiare di questa nuova condizione del comunicare è che sul web chiunque può pubblicare e non servono più né competenze altamente tecnologiche né grandi risorse economiche da investire per strutture da azienda audiovisiva. Serve creatività, una buona padronanza dei linguaggi multimediali e disponibilità incondizionata a tessere relazioni nel territorio, dal rapporto con le pubbliche amministrazioni alle realtà sociali, passando per le imprese che ancora non sanno come interpretare le buone chance dell’innovazione.
Dappertutto, sull’onda blog della fine anni novanta, s’è così diffuso il fenomeno dei netizen (net e citizen: i cittadini della rete) che tendono a produrre informazione in prima persona, basandosi su esperienze dirette e soggettive, come sta dimostrando la molteplicità di web tv. È proprio con questo nome, netizen, che è stata presentata qualche la ricerca annuale di Altratv.tv sullo stato di salute delle web tv in Italia. Ne sono state censite 590, un piccolo mondo di videomaker che ha creato web tv su tutto il territorio, con densità maggiore nel Lazio (102), in Lombardia (85), in Puglia (63) e in Emilia-Romagna (53).
Il dato interessante da rivelare è che queste web tv, spesso nate per caso o per passione si stanno trasformando in vere e proprie realtà imprenditoriali, come sostiene Giampaolo Colletti di Altratv.tv, nato come osservatorio interuniversitario a Bologna nel 2004 e diventato oggi un vero e proprio network delle web tv italiane. I netizen si caratterizzano come unità mobili, indipendenti, agili e pertinenti nel dare senso alla Società dell’Informazione, dove l’informazione si produce e non solo si consuma, attuando quel mix emblematico tra impegno sociale e impresa.

l’Unità 23.2.12
L’esperimento sul «viaggio» delle particelle tra Ginevra e Gran Sasso
I risultati falsati da una cattiva connessione tra il Gps e un computer
«C’è stato un errore» I neutrini non vanno più veloci della luce
La «misura che ha fatto scalpore», perché sanciva che i neutrini viaggiavano a una velocità superiore a quella della luce smentendo Einstein, nasceva dal cattivo funzionamento di una scheda informatica.
di Pietro Greco


Si tratterebbe di un errore. Una cattiva connessione tra l’unità Gps (il sistema satellitare che consente di misurare con estrema precisione la distanza tra due unti) e un computer potrebbe essere la causa della «misura che ha fatto scalpore». I neutrini non vanno più veloci della luce. E non falsificano la teoria della relatività di Albert Einstein.
Oggi sarà la “collaborazione Opera”, diretta dall’italiano Antonio Ereditato, a riconoscerlo in un comunicato ufficiale. Ma le voci ieri sera sono corse con insistenza e hanno trovato riscontro anche sul sito della rivista americana Science.
La collaborazione Opera studia il comportamento di fasci di neutrini che, generati al Cern di Ginevra, raggiungono i Laboratori Nazionali che l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare ha sotto il Gran Sasso. I neutrini sono le particelle più elusive che si conoscano. Ma Opera ha a disposizione strumenti di rilevamento eccezionali.
Nell’effettuare queste misure la collaborazione Opera ha raggiunto risultati di valore assoluto: ha, tra l’altro, verificato che i neutrini oscillano (sono di tre tipi e si trasformano l’uno nell’altro) e dunque hanno una massa. Per due anni il gruppo internazionale di scienziati ha ottenuto alcune misure che sembravano incredibili. Facendo i conti si otteneva che le minuscole particelle viaggiavano a una velocità superiore a quelle della luce. Coprivano la distanza tra Ginevra e il Gran Sasso, circa 730 chilometri, in 60 nanosecondi (miliardesimi di secondo) meno di quanto avrebbe fatto la luce. Queste misura metteva in seria difficoltà la teoria della relatività ristretta uno dei cardini della fisica moderna secondo la quale la velocità della luce non può essere mai superata. Se fosse stata vera, sarebbe passata ai posteri come una delle più importanti scoperte in fisica degli ultimi due o tre secoli.
CONTROLLI SU CONTROLLI
I conti a Opera sono stati fatti e rifatti. Ma nessuno, per mesi, ha trovato un errore. Quindi la decisione, lo scorso autunno, di rendere nota la notizia, con un articolo scientifico e con un seminario tenuto a Ginevra ma seguito in tutto il mondo. Ereditato e il suo gruppo sono stati molto onesti. Non hanno voluto interpretare i dati. Non hanno detto che i neutrini viaggiano certamente a una velocità superiore a quella della luce. Hanno detto: questi sono i dati. Noi non troviamo errori. Se qualcuno è in grado bene. Noi continuiamo a effettuare misure e attendiamo con serenità altre verifiche indipendenti. Alcuni ancora più prudenti, anche all’interno di Opera, sostenevano che quei dati non andavano resi pubblici.
Col senno di poi gli scettici a oltranza sembrano aver avuto ragione. L’errore c’era ed era banale: il malfunzionamento di una scheda informatica. Solo che era ben nascosto. E, infine, è stato individuato. Dal medesimo gruppo che, ove la scoperta fosse stata confermata, sarebbe passata alla storia.
L’errore lascia l’amaro in bocca. Ma a ben vedere è un ottimo esempio di come funziona la scienza. Non sempre ci fornisce verità. Ma ha al suo interno la capacità e l’onestà intellettuale di correggere se stessa. E, in fondo, è questo il segreto del suo successo.

Repubblica 23.2.12
La vendetta di Einstein
di Piergiorgio Odifreddi


Il buon vecchio Einstein si è salvato. La sua teoria della relatività, messa in forse dagli esperimenti del Cern sui neutrini veloci, si è salvata anch´essa.
È stato infatti annunciato che le macchine usate per l´esperimento erano difettose. L´episodio ci permette di fare alcune considerazioni. La prima, anticipata di molti decenni dallo stesso Einstein, è che «la scienza non è una repubblica delle banane, in cui succedono rivoluzioni ogni sei mesi».
Il pubblico si appassiona sempre ai cambiamenti epocali, ma forse nella scienza è più utile concentrarsi sugli aspetti ormai assodati, sui risultati acquisiti, che non sulle nuove idee che ancora attendono conferme e verifiche.
La seconda considerazione è, però, che all´annuncio dell´esperimento il mondo intero si è coalizzato nel tentativo di comprendere quali sarebbero state le conseguenze teoriche e pratiche di una velocità superluminale dei neutrini. Articoli di giornale, discussioni sui blog, seminari di ricerca hanno rivisto i fondamenti della relatività di Einstein, mettendo a volte in luce aspetti nascosti o impostazioni innovative che un secolo di abitudine alla teoria avevano lasciato in ombra. In un´intervista al nostro giornale, pochi giorni dopo l´annuncio dei risultati dell´esperimento, il premio Nobel Shelly Glashow ha sottolineato quali sarebbero state le conseguenze d´una conferma dell´esperimento: conseguenze così in contrasto con il resto della fisica conosciuta, che costituivano quasi una confutazione per assurdo dell´esperimento stesso. Ma questi suoi contributi, insieme a quelli di molti altri, ci hanno comunque chiarificato che possiamo considerare la velocità della luce come un limite insuperabile, e possiamo continuare a usare la relatività come una teoria insostituibile.
Gli occhi del mondo intero si concentrano ora, dopo l´ubriacatura dei neutrini, su altri esperimenti del Cern e di altri laboratori. In particolare, l´annunciata e probabile scoperta della cosiddetta «particella di Dio», così come dell´attesa, ma per ora ancora non verificata, esistenza di «particelle simmetriche». L´episodio dimostra comunque come la scienza contenga dentro di sé gli anticorpi per i propri possibili errori, e come in un breve volgere di tempo la comunità scientifica possa mettere proposte anche rivoluzionarie sotto il microscopio per verificarle o confutarle. E´ in questo processo dialettico di dimostrazioni e refutazioni che si cela il segreto del successo della scienza.