venerdì 24 febbraio 2012

l’Unità 24.2.12
La Corte europea per i diritti umani: caso Hirsi, per 22 profughi un risarcimento di 15mila euro
Condanna unanime. I 17 giudici bocciano tutte le argomentazioni del governo italiano
Respingimenti, condannata l’Italia «La sentenza peserà»
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha sentenziato che, rimandando i migranti verso la Libia, l’Italia ha violato la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo. Una battaglia di civiltà. Monti: rifletteremo sul futuro.
di Umberto De Giovannangeli


Una sentenza storica. Che realizza un principio di civiltà. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha sentenziato che, rimandando i migranti verso la Libia, l’Italia ha violato la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e in particolare il principio di non refoulement (non respingimento), che proibisce di respingere migranti verso Paesi dove possono essere perseguitati o sottoposti a trattamenti inumani o degradanti.
LA SVOLTA
Il caso Hirsi e altri contro Italia riguarda la prima operazione di respingimento effettuata il 6 maggio 2009, a 35 miglia a sud di Lampedusa, in acque internazionali. Le autorità italiane hanno intercettato una barca con a bordo circa 200 somali ed eritrei, tra cui bambini e donne in stato di gravidanza. Questi migranti sono stati presi a bordo da una imbarcazione italiana, respinti a Tripoli e riconsegnati, contro la loro volontà, alle autorità libiche. Senza essere identificati, ascoltati né preventivamente informati sulla loro reale destinazione. I migranti erano, infatti, convinti di essere diretti verso le coste italiane. 11 cittadini somali e 13 cittadini eritrei, rintracciati e assistiti in Libia dal Consiglio italiano per i rifugiati dopo il loro respingimento, hanno presentato un ricorso contro l’Italia alla Corte Europea, attraverso gli avvocati Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci, dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani. «Nel caso di specie – dichiara l’avvocato Anton Giulio Lana – non si è trattato di un mero rischio di subire in Libia trattamenti inumani e degradanti; i ricorrenti hanno effettivamente subito tali trattamenti nei campi di detenzione, come drammaticamente testimoniato dai sopravvissuti». La Corte, all’unanimità, ha pienamente condannato l’Italia per la violazione di 3 principi fondamentali: il divieto di sottoporre a tortura e trattamenti disumani e degradanti (art. 3 CEDU), l’impossibilità di ricorso (art.13 CEDU) e il divieto di espulsioni collettive (art.4 protocollo aggiungitvo CEDU). La Corte quindi per la prima volta ha equiparato il respingimento collettivo alla frontiera e in alto mare alle espulsioni collettive nei confronti di chi è già nel territorio. La Corte ha ricordato che i diritti dei migranti africani in transito per raggiungere l’Europa sono in Libia sistematicamente violati. Inoltre, la Libia non ha offerto ai richiedenti asilo un’adeguata protezione contro il rischio di essere rimpatriati nei Paesi di origine dove possono essere perseguitati o uccisi.
A causadiquestapolitica,secondo le stime dell’UNHCR, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, circa 1.000 migranti, incluse donne e bambini, sono stati intercettati dalla Guardia costiera italiana e forzatamente respinti in Libia senza che prima fossero verificati i loro bisogni di protezione.
LA POLITICA DEL «GENDARME»
Nel difendersi, il Governo italiano con i ministri dell’Interno (Maroni), Esteri (Frattini), Difesa (La Russa) in testaaveva sostenuto che la Libia dovesse considerarsi un “luogo sicuro” e che, inoltre, i ricorrenti non avrebbero in alcun modo manifestato agli ufficiali di bordo la loro volontà di richiedere l’asilo o altra forma di protezione internazionale. La Corte ha respinto integralmente le difese del Governo Italiano, ritenendo che ai migranti intercettati in acque internazionali non sia stata offerta alcuna possibilità effettiva di ottenere una valutazione individuale delle loro situazioni al fine di beneficiare della protezione accordata ai rifugiati dal diritto internazionale e comunitario, in violazione
dell’art. 13 della CEDU. «Questa sentenza prova che nelle operazioni di respingimento sono stati sistematicamente violati i diritti dei rifugiati, l’Italia ha infatti negato la possibilità di chiedere protezione e ha così respinto in Libia più di mille persone che avevano il diritto di essere accolte in Italia. Vogliamo che questo messaggio arrivi in maniera inequivocabile al Governo Monti: nel ricontrattare gli accordi di cooperazione con il Governo di Transizione Libico, i diritti dei rifugiati non possono essere negoziati, su questo tema ci aspettiamo dal nuovo esecutivo posizioni chiare e più forti di quelle che abbiamo rilevato in queste settimane», dichiara Christopher Hein, direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati. Una posizione che unisce il mondo della solidarietà, quello da sempre in prima linea nella difesa dei diritti umani e dei più deboli.
«Questa sentenza sarà esaminata con la massima attenzione. Si riferisce a casi del passato», ma anche «alla luce dell’analisi di questa sentenza prenderemo decisioni per quanto riguarda il futuro», commenta il premier Mario Monti. «Osservo inoltre che in occasione della mia recente visita a Tripoli questi temi sono stati oggetto di particolare attenzione», aggiunge. Questa sentenza «ci farà pensare e ripensare alle nostre politiche sulle migrazioni», concorda il ministro per l’Integrazione e la cooperazione Andrea Riccardi.

l’Unità 24.2.12
Si afferma il diritto internazionale fino ad ora negato
di Valentina Brinis e Valentina Calderone,  Osservatorio Italia Razzismo

Quella emessa ieri dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo è davvero come ha detto Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati una “sentenza storica”. Sotto il profilo giuridico, ribadisce in maniera inequivocabile il diritto dei profughi alla tutela della propria incolumità, alla protezione dal rischio di subire trattamenti disumani e degradanti nel paese da cui fuggono, alla possibilità di presentare e documentare la richiesta di asilo. Sul piano politico, suona come una condanna severa della pratica dei respingimenti effettuata dal governo Berlusconi a partire dal 2009 e fino a tutto il 2010. In particolare secondo la Corte europea sono stati violati il divieto di tortura, il divieto di espulsioni collettive e il diritto ad un ricorso effettivo.
Questo in occasione dell’episodio, avvenuto il 6 maggio 2009 a Sud di Lampedusa, quando le autorità italiane dopo aver intercettato una nave con 200 migranti irregolari (somali ed eritrei), li riportava a forza in Libia. Successivamente 24 di quei migranti si sono appellati alla Corte europea di Strasburgo che ha dato loro ragione perché quelle persone: a) non dovevano essere respinte in un paese dove la loro incolumità era a rischio; b) dovevano essere ascoltate individualmente da una regolare Commissione per l’asilo; c) dovevano avere la possibilità di ricorrere contro un eventuale provvedimento di rifiuto. Ma se la sentenza, come è ovvio, interessa solo coloro che si sono rivolti alla Corte europea dei diritti umani il suo significato va ben oltre, riguarda e mette in discussione proprio quella strategia dei respingimenti che ha costituito la principale bandiera ideologica della politica per l’immigrazione del Governo Berlusconi. Immediatamente dopo quell’episodio, infatti, il 15 maggio del 2009 entra in vigore il Trattato di amicizia Italia-Libia. La parola amicizia è indicativa del fatto che l’Italia doveva “risarcire”, con la firma di quell’intesa, le responsabilità dell’epoca coloniale. L’accordo tra i due paesi aveva da subito presentato delle evidenti criticità. In primo luogo proprio quella che riguardava i respingimenti di quanti tentavano di approdare irregolarmente sulle nostre coste.
Il patto è poi stato sospeso nel periodo della primavera araba e ripreso a gennaio del 2012 dal Governo Monti che, con la nuova amministrazione libica, ha siglato la “Tripoli declaration”. Ma tra il maggio del 2009 e la fine del 2010 molto è accaduto. Per un verso si è registrata una riduzione delle richieste di asilo presentate agli organi italiani: dalle oltre 31mila del 2008 a poco più di 17mila nel 2009 alle 8,200 nel 2010. Per altro verso, c’è il dato crudele e ineludibile, rappresentato da quei 6 morti al giorno tra coloro che tentano la traversata del Mediterraneo.
In altre parole il successo vantato dal Governo Berlusconi meno sbarchi, meno richieste d’asilo e Lampedusa che torna a essere “la perla del Mediterraneo” è l’esito di una politica dell’immigrazione che si è manifestata attraverso la negazione sistematica di uno dei diritti umani fondamentali. Quello alla protezione e all’asilo per chi fugga da condizioni di persecuzione politica, etnica, religiosa, o da situazioni di conflitto bellico e di guerra civile. Tutto ciò era perfettamente conosciuto e documentato, registrato dalle telecamere che hanno per mesi mostrato lo strazio di chi cercava di sbarcare sulle nostre coste, i relitti di imbarcazioni di fortuna, i cadaveri che emergevano dalle acque del mare. Ora la sentenza di Strasburgo dà alla denuncia di tutto ciò la forza che discende dal diritto internazionale.
* Osservatorio Italia Razzismo

La Stampa 24.2.12
Noi brava gente? Non è sempre vero
di Vladimiro Zagrebelsky

L’ Italia non pratica e anzi vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. L’Italia assicura asilo ai profughi secondo le regole internazionali. Italiani brava gente.
La Corte dei diritti umani ha condannato, in via definitiva, e quindi senza possibilità di appello da parte dell’Italia, i respingimenti verso la Libia attuati dal 2009. La sentenza che i diciassette giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ieri all’unanimità emesso, ci dice che non è sempre vero e che qualche volta c’è scarto tra la realtà e la diffusa convinzione di esser noi all’avanguardia delle nazioni civili. Occasione quindi di riflessione e reazione, per far sì che quello scarto non ci sia mai più.
I fatti oggetto della sentenza vennero all’epoca molto pubblicizzati. Canali televisivi influenti ne dettero compiaciuta notizia, come di un’occasione in cui il governo aveva dimostrato la sua efficienza nel difendere i confini dall’invasione di migranti illegali. Invece di continuare a ricevere stranieri sulle nostre spiagge, per poi dover iniziare la difficile e spesso impossibile pratica dell’espulsione, semplicemente erano state inviate navi militari a intercettare in alto mare e a riportare indietro, in Libia, gli indesiderati barconi ed il loro carico umano. Semplice, economico e pratico, «poche storie! ». Come ricordò il ministro dell’Interno in Senato si trattava di applicare l’accordo firmato nel 2009, sotto la tenda di Gheddafi. In quell’anno furono eseguite nove operazioni simili e centinaia di migranti furono respinti in quel modo. L’accordo italo-libico è poi stato sospeso nel 2011 nel corso della recente rivoluzione libica.
La Corte europea ha giudicato sul ricorso di undici somali e tredici eritrei respinti in Libia con quelle modalità. Essi hanno sostenuto che l’Italia li aveva esposti al rischio di trattamenti inumani da parte delle autorità libiche e di quelle del Paese di origine, se fossero stati colà riportati, e che l’Italia aveva eseguito una «espulsione collettiva», proibita dalle convenzioni internazionali e in particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le modalità poi del respingimento avevano impedito ai ricorrenti di ottenere il controllo giudiziario della loro posizione. Una serie di autorevoli organismi internazionali è intervenuta davanti alla Corte, in appoggio ai ricorrenti. Tra questi gli uffici dell’Alto Commissario ai Rifugiati e dell’Alto Commissario ai diritti umani delle Nazioni Unite.
La Corte ha innanzitutto dichiarato che i ricorrenti erano stati imbarcati a bordo delle navi italiane e che quindi, secondo la legge internazionale e italiana, si erano venuti a trovare nella giurisdizione dello Stato italiano: sotto il controllo continuo ed esclusivo, di diritto e di fatto, delle autorità italiane, tenute ad osservare le disposizioni della Convenzione europea. La Corte ha affermato che le autorità italiane avevano consegnato i ricorrenti a quelle libiche nella piena consapevolezza del trattamento che rischiavano. Come accertato da organizzazioni internazionali serie ed affidabili come Amnesty International e Human Rights Watch e come anche confermato dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa, i migranti respinti in Libia erano messi in detenzione in condizioni inumane, anche con casi di tortura. E lo stesso rischio vi sarebbe stato se e quanto dalla Libia i ricorrenti fossero stati riportati in Somalia o Eritrea, dove esisteva una pratica di detenzione e tortura dei cittadini che avevano tentato di lasciare il Paese.
La Corte ha quindi affermato che l’Italia aveva violato il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti. Si tratta di un divieto assoluto, che non riguarda solo il comportamento diretto delle autorità statali, ma anche quello indiretto del trasferimento ad altro Stato ove quelle pratiche hanno luogo. Non solo quindi il divieto di torturare, ma anche quello di non trasferire la persona in uno Stato ove sarà esposto al rischio di tortura o trattamento inumano. Lo stesso meccanismo della protezione anche indiretta opera quando l’espulsione o l’estradizione è verso uno Stato che pratica la pena di morte.
La violazione di cui l’Italia è stata ritenuta responsabile è tra le più gravi. Colpisce che essa si riferisca ad azioni che gli equipaggi delle navi militari sono stati obbligati a compiere, dopo che in altre circostanze quello stesso personale militare si era guadagnato l’ammirazione per l’opera efficace e rischiosa compiuta, secondo la legge del mare, per soccorrere battelli in difficoltà, scortarli a terra e salvarne da morte gli occupanti. Per questa loro attività quegli equipaggi erano stati elogiati dal Commissario di diritti umani del Consiglio d’Europa.
La Corte europea ha anche ritenuto che l’Italia abbia commesso una violazione del divieto di «espulsione collettiva», di espulsione cioè in blocco, senza esame della situazione individuale di ciascuna persona. Senza identificazione e accertamento dei motivi che inducono la persona alla fuga dal suo Paese, non si può accertare se l’espulsione crei pericolo per la vita o l’incolumità della persona o di persecuzione politica o religiosa o altro. Il diritto al rifugio che un migrante può avere non è assicurato quando, com’è avvenuto, non si accerti la condizione personale di ciascuno. La pratica della riconsegna collettiva alla Libia di tutti i migranti raccolti in mare, ha evidentemente impedito ogni esame individuale e, a maggior ragione, il ricorso a un giudice.
La sentenza è definitiva. I principi affermati - non nuovi nella giurisprudenza della Corte europea - valgono per l’Italia come per tutti i quarantasette Paesi del Consiglio d’Europa. Ed anche, val la pena di ricordare, per i Paesi membri dell’Unione Europea quando definiscono la politica e le iniziative comunitarie di contrasto e gestione dell’immigrazione irregolare. Ma intanto e innanzitutto il governo italiano (il nuovo governo) deve dare esecuzione alla sentenza, non solo indennizzando i ricorrenti, ma anche cessando pratiche come quelle che la Corte ha condannato ed assicurando a tutti coloro che in qualunque modo, anche irregolare o illegale, vengono a trovarsi nella giurisdizione italiana, il pieno ed eguale godimento dei diritti fondamentali. Diritti che non appartengono ai soli cittadini, ma sono propri di tutte le persone umane.

l’Unità 24.2.12
Intervista a Donald Sasson
«È l’ultima chance. La sinistra non ripeta l’errore degli anni 90»
Parla lo storico inglese «Quando i progressisti governavano quasi tutta l’Ue persero l’occasione di una vera unione politica. Ora si riparte da lì»
di Umberto De Giovannangeli


Chi è
Storico del socialismo allievo di Hobsbawm
ORDINARIO DI STORIA EUROPEA COMPARATA PRESSO IL QUEEN MARY COLLEGE DI LONDRA

La vera sfida per i progressisti europei è quella di riempire di contenuti principi condivisibili come “solidarietà”, “crescita”, democrazia”. In altri termini, occorre saper coniugare idealità e concretezza. Una sfida, politica e intellettuale, difficile quanto affascinante». A sostenerlo è uno dei più autorevoli storici e scienziati della politica europei: il professor Donald Sassoon. Con lui torniamo sul «Manifesto di Parigi» che il 17 maggio verrà sottoscritto dal segretario del Pd Pier Luigi Bersani, dal candidato alle presidenziali francesi François Hollande, dal leader della Spd tedesca Sigmar Gabriel e dal primo ministro belga Elio di Rupo. Al centro c’è l’Europa, il suo presente, il suo futuro. E da questo parte il nostro colloquio con il professor Sassoon.
I leader di Ps, Pd e Spd stanno definendo i caratteri e i contenuti di un piano comune per l’Europa. L’Europa torna dunque al centro dell’iniziativa dei progressisti europei, i cui leader si candidano a governare sulla base di una piattaforma programmatica centrata sulla dimensione comunitaria e non solo su politiche nazionali.
«Se è così, è un buon inizio, direi per molti versi una via obbligata. Con una consapevolezza che viene da un’analisi corretta sulla crisi di questi anni, che chiama pesantemente in causa l’assenza, politica, dell’Europa. Da questa presa d’atto discende una prima conclusione...».
Quale, professor Sassoon?
«O si va avanti verso una più forte integrazione europea oppure si andrà inesorabilmente verso una ulteriore “disintegrazione” dell’Europa. Non si può più stare in mezzo al guado, anche se questo galleggiamento, sul piano politico, nel breve periodo può apparire la cosa più semplice». Esiste un punto di vista progressista sull’Europa? Il «manifesto di Parigi» si cimenta con questa sfida epocale. «Questo punto di vista può esistere e imporsi solo se saprà tradurre questa opzione ideale con ben definiti contenuti politici e programmatici. Perché senza la necessaria concretezza, quello che definirei un lungimirante pragmatismo, sul terreno resterebbe solo una serie di posizioni retoriche che non avrebbero alcuna conseguenza concreta. La storia dovrebbe insegnare qualcosa ai leader della sinistra europea...».
Quale sarebbe questa lezione della storia?
«Vorrei ricordare che verso la fine degli anni Novanta, quando l’Unione Europea era costituita da una quindicina di Paesi, quasi tutti erano governati dalla sinistra, o da coalizioni di centrosinistra, includendo, per la prima volta nel Dopoguerra, i quattro Paesi principali: Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia. Quell’occasione è andata persa. Passi in avanti nel rafforzamento, politico, dell’Europa non furono fatti. Allora non si manifestò un punto di vista “progressista” dell’Europa e sull’Europa. Non solo, ma non si è neppure tentata un’analisi sul perché non si sia fatto nulla. E questo non mi rende ottimista per il futuro. Spero però di essere smentito. Dai fatti più che dalle dichiarazioni di principio».
Parole chiave del «Manifesto di Parigi» sono: crescita, solidarietà, democrazia.
«Sono parole su cui è difficile dichiararsi contrari. Ma la sfida è un’altra...».
Quale?
«Riempire di contenuti un progetto che punti a rafforzare l’integrazione europea».
A proposito di sfide: è possibile, a suo avviso, coniugare rigore e crescita? Nel «Manifesto di Parigi» si parla di Eurobond, di tasse sulle transazioni finanziarie.
«Se per rigore s’intende austerità, allora la crescita è più difficile. Questo non vuol dire che non ci sia bisogno di austerità, ma bisogna anche constatare che l’austerità che viene discussa in Europa si riduce al taglio della spesa pubblica, nella speranza, il più delle volte illusoria, che il settore privato si avvantaggi di questi tagli e diventi un volano di crescita. Non mi sembra che il settore privato sia disposto a fare questo».
Sul piano delle scelte concrete, nel campo economico e finanziario, come potrebbe inverarsi un punto di vista progressista europeo? Il «Manifesto» prova a entrare nel merito, in una chiave di integrazione europea. «Maggiore integrazione europea vuole anche dire un coordinamento effettivo delle politiche fiscali, il che però comporta meno poteri agli Stati nazionali, e ciò presuppone una solidarietà europea per la quale i cittadini delle parti più ricche dell’Europa siano disposti a vedere una parte dei proventi delle loro tasse indirizzarsi verso le aree europee più deboli. Le resistenze sono tante e di varia natura. In un momento in cui ci sono partiti, come la Lega Nord in Italia, il Partito nazionalista catalano, i partiti fiamminghi in Belgio, solo per fare alcuni esempi, che sono perfino ostili a indirizzare verso le aree meno favorite dei propri Paesi risorse finanziarie, appare problematico pensare che i cittadini della ricca Stoccarda siano, senza una profonda “rivoluzione” culturale, oltre che politica, disposti a fare sacrifici per i greci, i portoghesi, gli irlandesi...».

l’Unità 24.2.12
La nostalgia della sinistra per la politica
di Bruno Gravagnuolo


Ovvio che la nostalgia sia sempre «canaglia», come suona il titolo del dialogo tra Franco Giordano ex deputato di Rifondazione comunista e dirigente di Sinistra Ecologia e Liberta e Peppino Caldarola, ex direttore de l’Unità ed ex deputato Ds (Nostalgia canaglia, pr. di Umberto Galimberti, Dino Audino Editore, pp. 95, Euro 9,90). Perché ti prende a tradimento, come raccontava l’arcinota canzone di Albano e nell’etimo significa dolore di ciò che è lontano, come spiegava il medico Johannes Hofer, che nel 1688 la definì in termini di malinconia patologica. Ben per questo i due dialoganti («venuti dal Pci») la prendono criticamente come indice di un vissuto: sindrome del rimpianto. E come voglia di non si rassegnarsi alla scomparsa della politica come dimensione esistenziale condivisa. Ne vien fuori un rendiconto autobigrafico a due voci. E una prognosi sulla politica a venire, in tempi in cui il borsino di politica e partiti segna uno spread impietoso, a sfavore di entrambi, e a favore dell’antipolitica e dei «tecnici». Dunque, in apertura la prefazione filosofica di Umberto Galimberti, tutta contro la «tecno-economia» e il progresso solo quantitativo degli umani, che è la chiave con cui il prefatore legge questo dialogo. E poi il dialogo. Con Caldarola che lamenta (oggi) la mancata svolta socialdemocratica nella svolta Pds del 1989. E accusa il settarismo comunista di chi vi si oppose nel Pci, opponendosi ai miglioristi, a Occhetto e a tutta la Bolognina. E con Giordano che si difende dall’accusa. Concedendo a Caldarola che nel fronte del «no» vi fu certo «minoritarismo», ma che poi nel Pds prevalse una cultura liberaldemocratica e neanche socialdemocratica. Di più. Secondo Giordano quelli del no, si emendarono dal settarismo con la «Rifondazione» di Fausto Bertinotti: non violenza, movimenti, fine del comunismo novecentesco. Una strada che Giordano vede inverata oggi da Sel e da Vendola. E sull’oggi? Molte le convergenze. Ad esempio comune è la denuncia della conversione della politica in amministrazione e occupazione del potere. Analoga l’analisi sullo «svuotamento delle passioni» e l’incapacità di rappresentare domande, nel segno della ditattura liberista. Simile ci pare anche la giusta critica al tratto notabilare e leaderistico della rappresentanza democratica odierna. Contraddetta però dalla mancata critica all’onnipotenza delle primarie, come criterio di legittimazione della forma-partito. Un criterio che in Giordano è persino rivendicato, come fattore risolutivo per ricaricare la passione politica: la gara sul territorio tra «persone programma».
E però malgrado tutto qualcosa si intravede nel rendiconto a due voci: il tentativo di fare un bilancio generazionale onesto. Ovverosia, esse dicono: stavamo in un Pci pedagogico e ingessato rispetto a certe origini. Ma in quel partito che non seppe o non potè governare milioni di italiani si sono educati alla nazione. Alla solidarietà, al civismo. E i ceti sociali subalterni in quel Pci si sono mescolati, aperti alla cultura e ai diritti. Davvero era tutto da buttare? Domanda retorica, perché la risposta di Giordano e Caladarola è naturalmente no. Quanto alla pars costruens del dialogo stimolante e promettente eccola: ricostruire una comunità politica di sinistra. Un tessuto vitale di relazioni e motivazioni che renda la politica responsabile, nel senso di «responsiva» e in grado di offrire identità collettiva. Pur nella dimensione del «limite» etico, nel rilancio della legalità, e nel rifiuto di ogni politica totalizzante e solo «professionale». Tutto giusto. Con un’osservazione, rivolta soprattutto a Giordano, dirigente di Sel. Vogliamo ricostruirla davvero una identità politica di massa progressista, di sinistra e riformista? Se sì, occorrerà partire da quel che c’è: dal Pd e da Sel innanzitutto. Ma ci vuole un lavoro di lunga lena. Per trovare un baricentro culturale e valoriale attorno al quale fare sintesi delle diverse forze progressiste, laiche, socialiste, cattoliche, ecologiste in campo. E in più ci vuole un baricentro di «interessi» a sostegno di quella sintesi. Ad esempio: il lavoro, il riscatto dei ceti subalterni e l’impresa solidale. Insomma ci vuole l’idea di un’altra società, per un partito organizzato che sappia far da sponda ai movimenti, magari arricchendosene. Altrimenti si resterà invischiati in partiti-movimenti e partiti-trasversali destinati a rinforzare da sinistra l’antipolitica e il plebiscitarismo maggioritario. Cose che di solito precipitano a destra, come è avvenuto e come può ripetersi. Con o senza tecnici. Ecco, sarebbe questa nostalgia ad essere davvero canaglia.

l’Unità 24.2.12
Per uscire dalla crisi
Come si supera il neoliberismo
di Sergio Gentili


Il bel seminario del Pd su “Il mondo dopo la destra” è ruotato sulla necessità di prendere atto e di fare i conti non con una qualsiasi crisi, ma con la crisi strutturale delle capitalismo finanziario speculativo (o turbocapitalismo come lo chiamano i liberali conservatori e radicali), figlio della rivoluzione neoliberista e causa delle attuali pesanti diseguaglianze sociali, della precarizzazione del lavoro, della riduzione dei diritti dei giovani e delle donne, del decadimento etico nell’economia e nei rapporti sociali e umani, responsabile del degrado ambientale e della asfissia della democrazia come sistema di regole e come partecipazione individuale e organizzata nei sindacati, nelle associazioni e nei partiti.
In tutto il mondo si discute della crisi di questa forma di capitalismo che consegna alla finanza un potere enorme e discrezionale al disopra degli Stati e delle popolazioni, che nega la responsabilità sociale e ambientale e che, come dice Castagnetti, «pretende di dirigere il mondo senza la politica» cioè senza l’interesse generale, regole e controlli. La vera discussione in atto è come si supera il neoliberismo e il suo strapotere finanziario.
La crisi ha aperto una fase di transizione. La domanda che ci si pone è dove stiamo andando e dove vogliamo noi che si vada. Le forze neoliberiste responsabili della crisi, rappresentate dalle destre americane ed europee, tentano di rilanciare le loro fallimentari ricette di tagli e di privilegi che creano recessione (almeno per tutto il 2012) e che sono in grado di destabilizzare l’Europa e di devastare istituzioni e popolazioni intere come accade per la Grecia. La destra in Europa è ancora forte e lo sbocco democratico della crisi non è certo. Il nostro sforzo politico va posto qui ed ora, su cosa vogliamo che accada e quindi di come stiamo nella transizione/ conflitto in atto. Vogliamo essere un partito che ingoia le insostenibili politiche neo-neoliberiste oppure vogliamo il cambiamento mettendo in campo riforme possibili e coerenti con l’avanzamento civile, democratico, sociale e ambientale dell’Europa e dell’Italia? È evidente che per stare in piedi nella transizione è indispensabile essere portatori di una nuova gerarchia di valori. Oggi questi sono sintetizzabili in un innovativo nucleo alternativo ai disvalori dell’egoismo sociale. Il nuovo nucleo valoriale fonde in sé il valore dell’eguaglianza, della dignità della persona, dei diritti civili e sociali, del lavoro, del protagonismo della donna, della responsabilità verso la natura, della democrazia partecipata, della libertà e della pace. E come non riconoscere in essi una prima, felice e innovativa, sintesi delle idealità socialiste, ecologiste e del solidarismo cattolico, che supera antiche diffidenze e distinzioni valoriali?
Stare nella transizione vuol dire svolgere una funzione politica sia di contrasto della crisi, sia di indicazione di una nuova idea di società più giusta e fondata sullo sviluppo sostenibile, non futuribile ma che nasca dalla soluzione stessa dei bisogni più urgenti delle popolazioni e dei giovani. Per questo mi pare difficile che il governo Monti possa essere qualcosa di diverso da un governo di emergenza. È giusto sostenerlo ma altrettanto giusto è incalzarlo da sinistra per realizzare più equità, nuova e sostenibile crescita. Ma la svolta democratica non sarà possibile senza un largo consenso popolare e questo difficilmente si avrà senza che il Pd si assuma la responsabilità di guidare la ricostruzione.

La Stampa 24.2.12
La mossa di Bersani “Fare ogni sforzo per l’accordo”
Incontro con Monti. Fornero: vogliamo l’intesa
di Carlo Bertini


ROMA Qui bisogna fare ogni sforzo per tenere insieme questo paese. Ci preoccupa la continua insistenza a dire «andiamo avanti comunque» sulla riforma del lavoro, perché un minuto dopo l’annuncio di un accordo non raggiunto con le parti sociali ci troviamo con la gente per strada e un paese che ribolle». E’ un discorso franco e senza giri di parole quello che Pierluigi Bersani fa a Mario Monti nell’incontro a Palazzo Chigi sul nodo che più agita il Pd. Accompagnato da un impegno, «perché se fai una legge che regge da ogni punto di vista ed evita il conflitto sociale, avrai l’appoggio di tutti, presidente». Un discorso che fa breccia sul premier, consapevole che sia necessario fare di tutto per trovare un’intesa, ma molto franco anche lui nel ribadire che questo è un tema su cui il governo è determinato a intervenire. Insomma Monti chiarisce che «non è intenzione del governo dividere, ma è un progetto che riguarda il futuro del paese e non si può arretrare». E si impegna a facilitare un percorso che agevoli l’accordo.
Bersani ne parla non solo con il Professore, ma anche con la Fornero che alle parti sociali assicura «la volontà di trovare un’intesa». Ma al premier il leader Pd ribadisce pure la sua richiesta di modificare l’assetto del cda Rai, «la più grande azienda sotto il controllo pubblico con una governance non in condizione di garantirla». Sentendosi rispondere dal premier, stando ad alcune ricostruzioni, che non sarà facile procedere con una riforma visti i tempi troppo stretti.
Sull’articolo 18, dal leader del Pd nessun paletto, se non sui licenziamenti discriminanti «vietati in tutta Europa». Ma prima di questo Bersani insiste sulla precarietà e le risorse, «perché è inutile proporre la flexsecurity che ha un costo altissimo senza metterci un euro». Qualche ora prima, Bersani ripete due volte che «il patto di lealtà non verrà meno, il governo durerà fino al 2013» e che il Pd non scenderà in piazza contro Monti. Facendo capire che comunque vada non sarà a rischio la tenuta dell’esecutivo. Ma avverte di fare «attenzione a parlare di riforma senza intesa con le parti sociali, perché il “liberi tutti” può essere un problema per l’Italia, non per il Pd, il governoo la Cgil. L’accordo può anche non riuscire, ma voglio essere sicuro che ci provino tutti».
E intanto il negoziato tra governo e parti sociali trova un nuovo punto di incaglio, stavolta sugli ammortizzatori sociali. Il ministro Fornero ha illustrato il suo modello di sistema di protezione basato solo su due pilastri, una cassa integrazione per crisi temporanee e una indennità di disoccupazione per chi il posto lo perde. La cosa già non piace ai sindacati, perché sparisce il «limbo» della Cig straordinaria, che non prevede la perdita del lavoro. In più, ha spiegato Fornero, il nuovo sistema - che partirà dal 2013 ed entrerà a regime nel 2017 sarà universale, tutelando anche i 12 milioni di lavoratori oggi non coperti (quasi 5 invece lo sono, con prestazioni definite «relativamente generose»). E visto che lo Stato non metterà un soldo, si dovranno ripartire su 17 milioni di lavoratori i soldi che oggi servono per 5 milioni, e imprese e dipendenti dovranno sborsare nuovi contributi. A quanto pare, prelevati dalla contribuzione previdenziale, con inevitabile effetto negativo sul calcolo della pensione futura.
«È la quinta volta che proviamo a fare questa riforma - ha detto il ministro -, se non ci riusciamo ora non la facciamo più». La reazione dei presenti al tavolo è stata tra il perplesso e il negativo, perché ogni richiesta di chiarimento (chi paga, quanto durano gli ammortizzatori, quanto erogano) è stata elusa. Più critici di tutti i sindacati. «Finché non dicono quante risorse ci sono è impossibile determinare se il negoziato può andare avanti, a risorse invariate c’è una riduzione delle tutele e così non va bene», dice il leader Cgil Camusso. «Non si può partire dallo schema “questi sono i soldi e spartiteveli”. Se è così noi questo accordo non lo possiamo fare», attacca il collega Uil Luigi Angeletti. Si ricomincia martedì, sui contratti di assunzione flessibili. Giovedì prossimo, invece di parlare di articolo 18, secondo round sugli ammortizzatori sociali.

il Fatto 24.2.12
Beghe progressiste. Rai, alleanze, legge elettorale e giustizia: è lotta su ogni tema fondamentale
Pd, partito diviso in ventuno tribù. Obiettivo: spodestare il segretario Bersani
Chi è vicino al premier, chi lontano Chi guarda all’Udc, chi a Sel e all’Idv Chi vuole scendere in piazza con la Fiom e chi no Dietro l’ombra di una temuta scissione
di Fabrizio d’Esposito


La solitudine di Pier Luigi Bersani. A bordo di un treno, guarda fuori dal finestrino. Senza un sorriso dell’avvenire, né del presente. Dopo lo scatto “rubato” del segretario del Pd triste, solitario y final davanti a una birra in un pub del centro di Roma, adesso c’è il Bersani seduto in un moderno vagone ferroviario. La sua nuova campagna pubblicitaria: “Destinazione Italia”. Il titolo sembra l’incrocio tra una canzone, “Destinazione Paradiso” di Grignani, e un film di Totò, “Destinazione Piovarolo”, dove il tempo non passa mai e tutto gira attorno a una frase misteriosa di Garibaldi: “Qui si fa l’Italia socialista o si muore”.
Ma Bersani non è Garibaldi. Semmai, la sua figura pensosa e disperata, lacerata dall’incubo della dispersione (meglio, scissione) del partito ricorda le fatiche bibliche di Mosè per tenere insieme le 12 tribù d’Israele durante la traversata del deserto. Anzi, per il leader democrat, figlio del partito emiliano, numericamente è peggio ancora.
BASTA ROVESCIARE il 12 ed ecco il 21. Tante sono infatti le correnti, macro e micro, del Partito democratico. Ventuno tribù litigiose da traghettare oltre il deserto del governo Monti. Con l’incognita della terra promessa. Quale: la foto di Vasto o la Grande coalizione permanente? Due visioni agli antipodi e che adesso stanno esplodendo sulla riforma del mercato del lavoro e il tabù dell’articolo 18. Così, di suo, Bersani non può che frenare in continuazione e tentare mediazioni su mediazioni e conciliare paradossi. Il primo qualche settimana fa: “Noi siamo qui ma non siamo questo”. Il secondo ieri, nell’atteso incontro con Monti, dove fa capire che anche in caso di mancato accordo sulla riforma del lavoro e sulla governance della Rai, il Pd manterrà il patto di lealtà con il governo fino al 2013. Sarà sufficiente questo compromesso a tenere ferme le ventuno anime del partito?
La prima, ovviamente, è bersaniana e comprende Fassina, Stumpo, Migliavacca, Orlando, Marantelli, l’ex dalemiano Orfini, l’ex ministro Damiano, il tesoriere Misiani. A loro volta, i bersaniani si dividono in riformisti e laburisti. Quest’ultimi sono sulla linea della Cgil, come Fassina e Damiano. E anche in questo caso non mancano formule surreali per tenere insieme l’impossibile. Fassina, per andare alla manifestazione della Fiom del 9 marzo, ha fatto ricorso alla “partecipazione senza adesione”. La seconda tribù, dimagritissima, è quella dei dalemiani: ormai solo lui, l’ex generale Massimo (citazione dal “Gladiatore”), e l’inciucista Luciano Violante. Subito oltre, terza microcorrente, gli ex dalemiani che si muovono per conto loro: Nicola Latorre, Gianni Cuperlo, Ugo Sposetti, Anna Finocchiaro. I franceschiniani sono invece la nuova frontiera della possibile scissione, quelli pronti ad andare via assieme ai lettiani (da Enrico, nipote di Gianni), ai veltroniani, ai gentiloniani, forse ai fioroniani. Nella tribù del capogruppo alla Camera Dario Franceschini ci sono i nomi di Giacomelli, Rosati, Pina Picierno, Bressa (uno dei tre sherpa della delegazione democrat per i colloqui dell’inciucione con Alfano e Casini), pure la Serracchiani.
I VELTRONIANI, quinta tribù, sono reduci dall’ultima uscita del loro leader: quella contro l’articolo 18, di fatto considerata la nascita del partito montiano. In Transatlantico circola una battuta: “Sinora Letta e Veltroni non avevano osato la scissione perché non sapevano dove andare. Adesso invece il contenitore c’è: il partito di Monti”. Il contenitore ancora non ha simboli e sedi, ma una sola certezza: è di centro, rigorosamente di centro. L’avanguardia veltroniana è questa: Tonini, Ceccanti, Verini, Martella, Colaninno, l’ex dalemiano Minniti. La destra del Pd prosegue con i lettiani, sesta corrente: Francesco Boccia, Mosca, Meloni, Ginefra. Poi ancora con i gentiloniani, i cosidetti ecodem: ovviamente Gentiloni, poi Rea-lacci, Della Seta, Ferranti. L’ottava tribù è dei fioroniani, dall’ex ministro Beppe: Gasbarra, neo-segretario del Pd laziale, e Gero Grassi. Nona, sempre a destra, è la corrente dei liberal: Enzo Bianco, Morando, Ichino. A questo punto, la segnaletica per navigare tra le tribù del Pd si complica di più. Perché veltroniani, gentiloniani, fioroniani, liberal sono tutti riuniti nel correntone Modem. I franceschiniani invece si vedono con i fassiani, decima anima (il sindaco di Torino e Marina Sereni), nell’Area Dem. Dalla destra che sogna la Grande Coalizione permanente agli ulivisti (Parisi, Santagata, Levi, Zampa), ai bindiani (Meduri e Burtone), alla Sinistra di Vita e Nerozzi, all’area Marino-Meta che recentemente ha perso Ci-vati e Scalfarotto.
I MARINIANI, quattordicesima stazione della via Crucis bersaniana comprendono Morassut e la paladina dei diritti civili Paola Concia, ieri molto incazzata per il dibattito nel partito: “Qua si sta a litigare tra maschi, in modo virile. E i maschi sono distruttivi”. Immagine efficacissima. Con la quindicesima tribù si torna al centro: gli ex popolari o dc Castagnetti, Duilio, D’Antoni, Marini. Anima numero sedici è il partito dei nuovi cacicchi, cioè neo o ex sindaci. In ordine sparso: Chiamparino, Renzi, Bassolino, De Luca, Emiliano. C’è anche Zingaretti: per il momento presidente della Provincia di Roma ma probabile candidato per il Campidoglio. Alla casella 17 la “terra di mezzo” di Marco Follini e Stefano Graziano. Alla 18, in posizione solitaria, la sinistra Cofferati, che però non lega con Nerozzi. Così come solitario è Bobba, l’unico teodem rimasto. La ventesima tribù è dell’ex veltroniano Goffredo Bettini, sostenitore del neo-oltrismo. Oltre Bersani e oltre il Pd. Chiude la lista, l’ultimo arrivato Giacomo Portas, che ha fondato “I moderati”. Il catalogo del Pd è questo. La traversata nel deserto rischia di precipitare nei gironi infernali. Ventuno per la precisione.

il Fatto 24.2.12
Uno, nessuno, centomila Pd
di Furio Colombo


Il cronista del giornale Il Tempo domanda cautamente al responsabile Lavoro del Pd Fassina: “Si può dire che la sua linea sia la linea del Pd?”. Risponde con orgoglio Fassina: “Le posizioni sul lavoro sono larghissimamente, anche se non unanimemente condivise all'interno del partito. L'autorevolezza di personalità che la pensano diversamente (nel Pd, ndr) non deve dare l'idea di un Pd lacerato”. (23 febbraio). Fassina lavora da solo alla compattezza del partito, mentre intorno a lui, esplodono, come bombe a grappolo, dissonanze fragorose. Sentite Giovanna Melandri (stesso giorno, La Stampa): “Non andrò alla manifestazione Fiom del 9 marzo, perché Il sindacato deve fare il sindacato e le forze politiche devono fare le forze politiche”. È talmente vero che i candidati del Partito repubblicano americano stanno impegnando somme immense per screditare i sindacati e spingere il lavoro fuori dal dibattito politico. E Obama viene insultato con la parola “socialista” perché ha osato inserire l'aumento dei salari e la garanzia delle cure mediche gratuite nel programma elettorale della sua rielezione. Naturalmente Melandri non è la sola voce “diversa” del partito. Orfini, per esempio, sta da un'altra parte e dice: “Penso che sia giusto portare solidarietà a un sindacato che considera vergognoso Marchionne. Dovrebbero andarci tutti”. Se considerate l'importanza della questione, vi rendete conto che avete ascoltato la voce di due partiti. Anzi tre. Infatti, lo stesso Orfini, nella dichiarazione citata, si ferma e si corregge: “Tutti no, Bersani no. Sarebbe eccessivo”. Non contando il segretario Pd di Imola che non vuole comizi assieme a Fassina, perché Fassina va con gli intoccabili della Fiom. Ma se ascoltate Angeletti (Uil), che si sta certamente domandando dove portare il suo sindacato in tempo di elezioni, vi accorgete che è contro il governo (e dunque il ministro Fornero e la deputata Melandri) nella difesa del lavoro, a favore di Marchionne, sulla questione “democrazia in fabbrica” e, assieme agli altri due sindacati, isolato dalla politica che non vuole mischiarsi con gli operai. Ma nei canyon del Pd volano bassi i pipistrelli detti “tabù”. Volano in un senso (non è tabù abolire l'articolo 18) e nell'altro (non è un tabù tenere testa al governo se il governo va con pacata eleganza verso destra). Ma ecco come risponde alla situazione paradossale l'ex ministro Gentiloni, leader fisso in un piccolo gruppo di leader fissi in viaggio dal passato al futuro senza soste riflessive sul complicato presente: “La decisione del ministro Fornero di andare avanti anche senza il consenso dei partiti sulla riforma del mercato del lavoro sarà un banco di prova della tenuta del Pd”. Come dire: il banco di prova di un vero partito orgoglioso di sé è accettare di non esistere. Però Gentiloni nutre una grande speranza: “Le scelte parlamentari del Pd saranno il vero congresso del partito. Io non ho dubbi. Io voterò sì”. Sì al partito che non conta? Il fenomeno è nuovo. Nessuno se ne va. Dove? Le “intenzioni di voto” continuano a scendere. Manca qualcuno che sappia dire: ecco, questo è il Pd. E vi diciamo chi siamo, che cosa vogliamo e dove cerchiamo di andare.

La Stampa 24.2.12
D’Alema-Franceschini. Malumore dentro il Pd
“Ora i decreti del governo saranno inemendabili”
di Paolo Festuccia


ROMA L’altolà di Napolitano è giunto L’ sul finire del voto in aula. Appena dopo il via libera al milleproroghe. Inaspettato, per i presenti a Montecitorio. Per questo, forse, quei richiami non sono proprio passati inosservati. In tutti i settori istituzionali e politici. Da una parte dell’emiciclo all’altra. Plaudono in molti. Altri, tanti, si domandano. Si chiedono le ragioni di quella improvvisa «missiva». Completa, chiara, con riferimenti evidenti alla recentissima pronuncia della Consulta.
Si fanno capannelli tra deputati, in sala stampa, e soprattutto si ragiona sui tempi e le modalità di quel testo: prima tra i banchi, poi in transatlantico, fino alla buvette dove si trascina la discussione più intensa. Soprattutto tra i parlamentari del Pd, tra i più attenti, primissimi ad interrogarsi su quei «paletti» messi in campo dal Colle.
Riflessioni, battute. Trapela, forse, anche qualche malumore nell’esposizione della lettura politica. Battute, naturalmente, pronunciate al momento. Tra queste non sfuggono quelle attribuite anche ad alcuni esponenti di primissimo piano del partito democratico, come Massimo D’Alema e Dario Franceschini.
Ragionano proprio su quell’«invito» fatto dal Colle a limitare l’uso eccessivo degli emendamenti ai decreti legge. Un «invito» che l’ex premier Massimo D’Alema e il capogruppo Pd, Dario Franceschini hanno commentato sinteticamente, così, «ora i decreti del governo saranno inemendabili, a cominciare dal decreto legge sulle liberalizzazioni».
Poche battute che sono state lette come «malumori», «maldipancia» all’intero dei democratici. Forse troppo. Anche se, analizza Dario Franceschini, un fatto è chiaro: «Il Capo dello Stato quando parla di uso eccessivo degli emendamenti nei decreti legge dice cose giuste, importanti, e per di più lo fa facendo riferimento alla Corte Costituzionale. Questo però non può significare che il Parlamento non possa leggere, emendare e magari correggere un testo».
Insomma, secondo il capogruppo del Pd se i decreti fossero sostanzialmente «brevi, non corposi», non ci sarebbero difficoltà perché «il Parlamento possa valutarli». Il nodo vero, dunque, è capovolgere il problema: decreti snelli, che affrontino temi singoli e non che «abbiano - insiste Franceschini - una struttura omnicompresiva».

La Stampa 24.2.12
L’attacco alle lobby imbarazza Pd e Pdl
Il Terzo polo minaccia di votare contro senza miglioramenti
di Amedeo La Mattina


ROMA Sembrava che la bagarre politica si concentrasse solo sull’articolo 18 e la riforma del mercato del lavoro; e invece ieri è esplosa sulle liberalizzazioni. Il provvedimento è all’esame del Senato e lì le lobby (soprattutto taxisti, farmacisti, avvocati) stanno mettendo sotto torchio i gruppi parlamentari. Ma sono molti gli emendamenti che vorrebbero annacquare l’apertura del mercato, facendo scattare la reazione del Terzo Polo. Casini teme si faccia il «passo del gambero», per poi aggiungere di fidarsi di Monti: «Sono rassicurato dalle sue rassicurazioni». Infatti il premier è intervenuto per promettere che non si tornerà indietro. Un intervento che era stato sollecitato da Rutelli, che aveva varcato il portone di Palazzo Chigi e che poi a nome del Terzo Polo aveva tuonato contro i tentativi di frenare le liberalizzazioni.
Le modifiche al decreto comportano «un rischio palude», aveva detto il leader dell’Api prima dell’uscita del premier. «Se il testo non venisse migliorato siamo pronti a convocare i nostri parlamentari per decidere come comportarsi al momento del voto». Anzi i senatori dell’Udc, Fli e Api vogliono emendamenti «rafforzativi, che vadano nell’interesse generale e non soccombano a logiche particolari. Vogliamo chiarire che la maggioranza è fatta non solo da chi vuole indebolire ma anche da 100 parlamentari che sono determinati a migliorare l’impronta riformatrice del governo». Baldassarri ha chiesto di tornare al testo originario, mettendo in difficoltà Pd e Pdl che hanno trattato in solitario.
Ma il presidente del Consiglio per il momento ha calmato le acque, almeno a sentire le parole successive di Casini e Rutelli, che ha colto dal governo «la consapevolezza della necessità di non accettare arretramenti». Si vedrà già oggi come andrà a finire, quando riprenderanno i lavori delle commissioni al Senato. Ma i timori del Terzo Polo hanno infastidito il Pd che smentito la retromarcia sulle liberalizzazioni. Silenzio invece da parte del Pdl.
Bersani non ci sta a passare per inciucista con il Pdl e invita a guardare meglio dentro le modifiche («non è equilibrato dire che ci sia stata una marcia indietro»). Ad esempio per il segretario dei Democratici, sulle assicurazioni e sulle banche ci sono stati passi avanti. Anche il capogruppo Finocchiaro sostiene che non c’è alcuna una resa alle lobby: «Sicuramente si potrebbero fare meglio tante cose, ed è vero che le pressioni di contrasto sono fortissime, ma il Pd rivendica di aver contribuito a migliorare il provvedimento.
«Occhio - dice Enrico Letta - che sulle liberalizzazioni il testo finale è migliore e più avanzato dell’immagine di retromarcia che sta passando in giro: libertà sull’assicurazione sulla vita legata ai mutui, abbattimento costi transazioni per carburante e conti correnti».
Attacca a testa bassa invece Di Pietro che accusa il governo di avere dato il via libera alle modifiche, partorendo un topolino. «Sulle liberalizzazioni sono state fatte solo chiacchiere. Nel retrobottega del Parlamento le lobby impediscono le vere liberalizzazioni», afferma il leader dell’Idv.
La commissione Industria del Senato, che sta esaminando il decreto, ha sconvocato le sedute (riprenderanno oggi). Le riunioni continuano tra i due relatori, Simona Vicari (Pdl) e Filippo Bubbico (Pd), con il governo. E’ in questa sede che vengono concordate le modifiche ai vari articoli del provvedimento. Ieri sono stati affrontati due grandi nodi, farmacie e professioni. Si vorrebbe trovare un accordo e andare subito in commissione e votare i nuovi testi. E ciò fa infuriare i senatori dei gruppi che sostengono il governo. «Siamo diventata una democrazia extraparlamentare - dice Domenico Benedetti Valentini del Pdl - viene deciso tutto in riunioni informali». «Tanto conviene Enzo Ghigo, capogruppo Pdl in commissione sanno che il decreto lo voteremo». Ma ad essere più nervosi sono stati quelli del Terzo Polo che si sono sentiti esclusi dal tavolo della trattativa. Per questo hanno alzato il tiro, minacciando di non votare il decreto se ci dovessero essere «arretramenti» sulla concorrenza.

Repubblica 24.2.12
A dividere anche il "manifesto di Parigi" che il leader firmerà con Ps e Spd
Pd, dai filo-Monti stop al segretario "Il nostro sostegno sia senza ombre"
Franceschini: "Non possiamo certo essere noi a tenere il governo a bagnomaria"
di Giovanna Casadio


ROMA - Dopo tre ore di riunione, Antonello Giacomelli, che è stato capo della segreteria quando Dario Franceschini guidava il Pd, lancia un tweet che riassume gli umori sull´ultimo scontro democratico: «Dal patto di Vasto al manifesto di Parigi. L´evoluzione è stata notevole. Quella geografica, intendo». Perfidia di un cattolicodemocratico. Il "manifesto di Parigi"- com´è stato ribattezzato dall´Unità - è l´intesa tra Bersani, Hollande (Ps) e Gabriel (Spd) per una sorta di programma socialdemocratico del XXI secolo. Una mossa che ha risvegliato le ostilità anti-Pse degli ex Margherita. Si somma ai dissidi in casa Pd che girano attorno al nodo politico dell´appoggio a Monti e del futuro della sinistra.
La riunione era quella di ieri mattina di Areadem, la corrente di Franceschini. Sentimento dominante l´irritazione. Irritazione contro i "gauchisti" filo-Fiom ma anche contro Bersani e l´aut aut al governo Monti sulla riforma del lavoro e la messa in scena del conflitto Veltroni/Bersani. Franceschini in riunione è esplicito: «Il Pd è nato per rappresentare non una sola parte, e il nostro sostegno a Monti deve essere senza ombre, non possiamo certo tenere il governo a bagnomaria». Clima teso nel Pd, voci di scissioni che - dice il segretario - sono, come al solito, fatte circolare ad arte. Però non si possono minimizzare le spaccature tra i "full Monti" e i bersaniani. Veltroni e tutta la minoranza sostengono che «così si fa harakiri». Paolo Gentiloni è durissimo: «Monti non è il governo Badoglio», ripete. «Quando la smetteremo di incaprettarci sarà sempre troppo tardi», si sfoga Roberto Giachetti. Michele Meta chiede di «fare il tagliando al partito», non proprio un congresso (che sarebbe incomprensibile di questi tempi, con «i supermarket che vendono croste di formaggio a dimensione delle tasche dei pensionati», come replica Bersani) però qualcosa di molto simile. Perché «c´è un delirio su tutto», dalla legge elettorale («Sono ostile alle bozze che circolano nel Pd», s´indigna Parisi) al "manifesto di Parigi" , ma soprattutto su articolo 18 e riforma del lavoro. Beppe Fioroni, per dire, deve scrollarsi l´accusa di essere pronto all´abbraccio con i centristi dopo avere incontrato Passera («Ma era per parlare di Civitavecchia»). Tuttavia aggiunge: «Stiamo commettendo errori, perché siamo diventati complicatori, invece che facilitatori dell´intesa tra governo e parti sociali e così indeboliamo il paese». I veltroniani parlano di appiattimento sulla Cgil, che non piace affatto neanche al vice Enrico Letta.
Bersani sa bene che la messa in mora della sua leadership è sempre dietro l´angolo. La riforma del lavoro è solo la prima mina nel terreno accidentato che il Pd ha davanti. Però sul corteo Fiom c´è una retromarcia del "gauchisti" democratici. Bersani dichiara: «Non partecipiamo a manifestazioni contro il governo Monti ma se c´è una piattaforma compatibile, sì. Vedremo la piattaforma, ne discuteremo in segreteria». Stefano Fassina quindi frena: «Non farò nessuna fuga in avanti». Cesare Damiano è pronto a ripensarci, se la manifestazione Fiom del 9 marzo raccoglierà gli antagonisti, i no-Tav non andrà. Su Pse e Europa Bersani con un gruppetto Pd, ne discute a cena con Schultz.
quando dico scontro politico non mi riferisco solo al ruolo del governo Monti e alla crisi che la politica sta vivendo. Mi riferisco anche a tutte le attività del capo della Fiat Mar- chionne, che muove il suo potere con l’occhio non solo ai temi sin- dacali, ma a quelli politici.
L’ultima mossa è sfacciata: se in Confindustria vince un certo candidato la Fiat ritorna nell’organizzazione, altrimenti no. Tutta- via chiedo: la sfida è tra Fiom e Fiat-Marchionne? O bisogna crea- re condizioni generali perché emerga la verità sul disegno dei vari Marchionne che a me pare chiaro: debilitare la politica e addome- sticare il sindacato. Un disegno che non può essere sconfitto se la Fiom si isola con il sostegno di pezzi della sinistra radicale. E se non si mette in campo, anche per il welfare e la contrattazione, una po- litica che dia risposte convincenti ai problemi di oggi.
Caro Valentino, hai ragione nel dire al Pd che il fatto è così im- portante che «non si può far finta di niente». Ma non è pensabile che la Fiom decida per tutti e diventi lo spartiacque per tutti: nel sin- dacato e nella sinistra. E osservo: se gran parte del movimento sin- dacale pensa diversamente non si può “far finta di niente”. Oggi i rapporti di forza, nella sfera politica e in quella sociale, sono tali che, se non si realizza il massimo di unità sindacale e un largo schie- ramento politico su una linea alternativa ma innovativa rispetto al- la destra, si va verso sconfitte che segneranno un’epoca.

il Riformista 24.2.12
La sinistra, il sindacato e lo sciopero Fiom
di Emanuele Macaluso


La Fiom ha deciso, in solitudine, di proclamare uno sciopero per il 9 marzo e nel Pd si è aperta una querelle sul tema: si può partecipare o no alla manifestazione di quella parte di metalmeccanici? La questione sembra marginale ma nel clima che si respira nella sinistra, e nel Pd, non stupisce. Del resto ieri sul Manifesto Valentino Parlato ha pubblicato un editoriale col titolo: «Lo spartiacque della Fiom» e lancia un ultimatum al Pd: «La questione dice Valentino è fortemente politica e non solo sociale. Il Pd deve assumere una posizione chiara a sostegno dello sciopero dei metalmeccanici, che sono stati, storicamente, un’avanguardia del nostro movimento operaio».
Vero, ma bisognerebbe discutere bene cos’erano, e quanti erano i metalmeccanici negli anni passati, e cos’era la Fiom e anche la Fim-Cisl e la Uil-metalmeccanici negli anni 60-70 quando si costituì la Flm unitaria. Infatti, i metalmeccanici raggiunsero il massimo del loro ruolo quando raggiunsero l’unità nella Flm. E bisogna ricordare anche quel che si verificò prima, caro Valentino, con la sconfitta alle elezioni delle Commissioni interne della Fiat nel 1955 (io ero ancora alla Cgil): se non si adeguano contenuti e metodi di lotta si subiscono sconfitte che possono segnare una lunga fase del movimento. Questa fu la riflessione di allora, sollecitata da un’aperta autocritica di Giuseppe Di Vittorio.
Oggi, non voglio dare giudizi sommari sullo sciopero della Fiom. A occhio e croce, come si usa dire, l’iniziativa solitaria assunta nel momento in cui finalmente! si è realizzata una minima, ma rilevante, unità tra i sindacati nel corso di uno scontro che è sociale e politico, non convince.

il Fatto 24.2.12
I sondaggisti: astensionismo alle stelle. E Monti vola


La politica è in stato comatoso, il governo tecnico ha un altissimo indice di gradimento, i partiti sono al minimo storico al punto che, per non averci a che fare, gli italiani hanno pochissima voglia di elezioni. E se ci fossero, l’astensionismo sarebbe altissimo. È questa, in sintesi, l’analisi tutto sommato concorde dei sondaggisti Nando Pagnoncelli (Ipsos), Felice Meoli (Lorien) e Renato Mannheimer (Ispo). I più sofferenti sono i due maggiori partiti, Pd e Pdl, che nel 2008 intercettarono il 70% dei consensi. Sta peggio il Pdl (ai minimi storici) ma nemmeno il Pd (che pure sarebbe il primo partito) sembra in grado di raccogliere i frutti che in genere l’ex opposizione raccoglie dopo la caduta rovinosa di un’ex maggioranza: “L’offerta politica odierna – dichiara Meoli – potrebbe essere molto diversa da quella del 2013, quando si voterà. Questo significa molta confusione e il Pd non fa eccezione. Tra il suo elettorato potenziale, il 71% dà un giudizio positivo su Mario Monti, una percentuale superiore all’apprezzamento per Bersani, che è al 60%”. “La novità di questi mesi – racconta Pagnoncelli – è che la tradizionale divisione tra destra e sinistra è stata superata dalla divisione tra politica e Paese. L’astensionismo non è mai stato socialmente così trasversale e per la prima volta le valutazioni nel merito dei provvedimenti non sono condizionate dall’orientamento politico. Questo perché il giudizio sulla ‘casta’, sia essa di destra o di sinistra, è omologato negativamente. Il Pd oggi sarebbe il più votato, ma perderebbe comunque molti consensi. Di certo il partito di Bersani, dopo il centro che sostiene convintamente il governo tecnico, è quello con la percentuale più elevata di sostenitori di Monti”. “Non saprei dire se il Pd – è l’opinione di Renato Mannheimer – si debba considerare soddisfatto dello scenario politico che si profila in questi mesi. Da una parte tutte le rilevazioni lo danno come partito di maggioranza relativa, dall’altra è evidente che tutte le forze politiche stanno perdendo molti consensi. E il Pd non fa eccezione”.

Repubblica 24.2.12
San Pietro ferma l’Ici
Il governo Monti almeno farà pagare la tassa alla Chiesa da quest’anno? Chissà
Certo è che finora gli unici a pagare, nel grande impeto riformista, sono stati i pensionati
di Curzio Maltese


Le riforme in Italia si fermano sempre sulla soglia di San Pietro. Per chi vuole cambiare un Paese immutabile, arriva sempre il momento in cui la Chiesa suona la campanella di fine ricreazione. Stavolta è arrivato presto. La fulminea sparizione dell´Ici (o Imu) sui beni ecclesiastici dal decreto del governo è un brutto segnale per quanti speravano nel riformismo di Monti.
Sembrava la volta buona. Avevamo creduto tutti che il governo dei tecnici avesse l´autorità, la serietà e diciamo pure la decenza di cancellare un privilegio assurdo, antieuropeo e inviso alla stragrande maggioranza dei cittadini, cattolici compresi, come l´esenzione fiscale sulle proprietà della Chiesa. È invece bastato uno stormir di fronde in Vaticano, colto al volo dalla vasta lobby parlamentare, per compiere il solito miracolo della dissolvenza. Il governo giura che il provvedimento ricomparirà in futuro, sotto forma di emendamento. Anche i tecnici hanno imparato in fretta l´arte politica del rinvio a data da destinarsi. Ma la vicenda, a essere obiettivi, sembra finita qui.
Intendiamoci, non sarebbe certo la prima volta. Tutte le stagioni riformiste della storia repubblicana, le vere e le presunte, si sono arenate puntualmente nella palude dei privilegi della Chiesa. È accaduto al centrosinistra storico degli anni Sessanta come ai governi di solidarietà nazionale. Per non parlare del riformismo di Bettino Craxi, che era partito con forti connotati o almeno vezzi anticlericali, per addivenire infine al nuovo Concordato e al regalo miliardario alla Chiesa dell´8 per mille, escogitato dall´allora giovanissimo Giulio Tremonti, un altro riformista teorico. La stessa questione dell´Ici della Chiesa, nel suo piccolo, è servita in tempi recenti a chiudere simbolicamente stagioni di cambiamento e a inaugurare l´eterna restaurazione. La prima larga esenzione venne approvata dal governo Amato nel ‘92 e fu il primo sintomo che il rinnovamento del costume politico seguito a Mani Pulite sarebbe durato per poco. I governi Amato e Ciampi aumentavano le tasse a tutti, ma le riducevano alla Chiesa, guarda caso. Nel 2006 il secondo governo Prodi sventolò al Paese grandi intenti riformisti, incarnati dalla famose «lenzuolate» di Pier Luigi Bersani. Ma lo stesso Bersani, con il consueto accordo bipartisan che accompagna i regali alla madre Chiesa, smentì il programma dell´Unione con la norma che estendeva l´esenzione dell´Ici a tutti gli immobili ecclesiastici «a uso non esclusivamente commerciale». Una formula fra l´ipocrita e il delirante, che in pratica consente alla Chiesa di non pagare l´Ici mai, una volta usata l´accortezza di conservare in ogni albergo, ristorante, bar, cinema o teatro una cappella votiva. Un autentico mostro giuridico, senza confronti nel mondo civile, della serie orwelliana «tutti sono eguali davanti alla legge, ma alcuni sono più eguali degli altri». Perché, se la norma fosse estesa a tutti i soggetti, allora qualunque centro commerciale, impresa, banca, che ospitasse anche una fondazione benefica, un centro congressi, un luogo di culto, un asilo nido per i dipendenti o un kinderheim per la clientela, potrebbe chiedere di non pagare le tasse. Come tale infatti il regalo dell´Ici è da anni tema di controversia nell´Unione.
Per aver ricoperto a lungo e con grandi meriti il ruolo di commissario europeo per la concorrenza, il professor Mario Monti sa meglio di chiunque altro, noi compresi, che l´esenzione dall´Ici della Chiesa costituisce un caso da manuale di «aiuto di Stato». A voler essere precisi nel dettaglio, la norma contiene tutte e quattro le anomalie elencate dalla legge comunitaria: 1. Origine statale dell´aiuto. 2. Esistenza di un vantaggio a favore di talune imprese (se crede, posso invitare il premier a visitare ristoranti romani sulla stessa via, dove un proprietario deve pagare le tasse e l´altro no). 3. Esistenza di un impatto sulla concorrenza. 4. Idoneità a incidere sugli scambi degli stati membri. Più un quinto, l´assoluta anomalia della norma nazionale, rispetto al resto d´Europa. Per capirsi, non esiste una ragione per cui la diocesi di Colonia debba pagare allo Stato tedesco tasse che la diocesi di Milano non è tenuta a versare.
In quanto «aiuto di Stato», un governo europeista come si proclama l´esecutivo di Monti dovrebbe non soltanto impegnarsi a cancellare l´esenzione dell´Ici da subito, ma anche attivarsi per recuperare il pregresso, cioè tutti i soldi non pagati dalla Chiesa allo stato italiano a partire dal 1992. Una somma che l´Anci, con molta cautela – la maggior parte dei sindaci italiani non è esattamente anticlericale – valuta intorno ai 700 milioni di euro all´anno.
Finirà così? Non credo. Il governo Monti almeno farà pagare l´Ici alla Chiesa da quest´anno? Chissà. Certo è che finora gli unici a pagare, nel grande impeto riformista, sono stati i soliti pensionati. Gente che ha pagato i contributi per tutta la vita ed è ora additata come una casta di paria. Perfino Beppe Grillo dice che bisogna mettere un tetto massimo alle pensioni: duemila euro. Lui che guadagna cinque milioni all´anno. Ovvero, duemilacinquecento volte duemila euro. Più o meno come alcuni ministri di questo governo.

Repubblica 24.2.12
Una bozza anonima di 50 righe sulle "voci" interne. Un alto prelato: giri d´affari poco chiari e corruzione
Denuncia-shock in un documento "In Vaticano le trame della P4"
di Orazio La Rocca


Il ruolo di Bisignani e i suoi rapporti con Marco Simeon, protetto dal cardinale Bertone
"Monsignor Viganò ha tentato di fare pulizia, ma forze potenti lo hanno fatto allontanare"

CITTÀ DEL VATICANO - "La P4 in Vaticano". È l´inquietante titolo di un anonimo documento che circola nei palazzi pontifici provocando scompiglio, interrogativi e preoccupazioni tra le gerarchie d´Oltretevere. Una bozza di 50 righe al veleno con accuse di malaffare, furti e corruzioni rivolte a monsignori, vescovi e alti prelati. Vera e propria tangentopoli pontificia orchestrata - si legge nella bozza filtrata dal Governatorato e diffusa nei piani alti della Segreteria di Stato - da oscuri burattinai tramite il ramo vaticano della P4, l´associazione segreta per la quale nei mesi scorsi era stato arrestato - per reati commessi in Italia - Luigi Bisignani, che alla fine ha patteggiato un anno e sette mesi di reclusione dopo una condanna per associazione a delinquere, favoreggiamento, rivelazione di segreto e corruzione.
Bisignani nell´anonimo documento viene descritto come uno dei «membri della P4 che ha legami diretti con il Segretario di Stato», insieme a Marco Simeon, direttore delle relazioni internazionali della Rai e di Rai-Vaticano, protetto dal cardinale Bertone, e monsignor Paolo Nicolini, responsabile amministrativo del Governatorato e dei Musei Vaticani. «Purtroppo è un quadro allarmante difficilmente smentibile, con tante verità e qualche eccesso, ma delineato in tutta la sua infernale drammaticità», confida in Curia un prelato di lungo corso, che sul ruolo della P4 vaticana ammette che «nessuno potrà negare che da troppo tempo ormai in Vaticano ci sono giri d´affari poco chiari e casi di corruzioni che nessuno ha avuto il coraggio di denunciare, ad eccezione dell´ex segretario generale del Governatorato, il vescovo Carlo Maria Viganò, inspiegabilmente alla nunziatura di Washington». Vicenda poco chiara a cui fa ampiamente riferimento il documento che - privo di timbro, senza firma - presenta Viganò come vittima di una congiura del "partito" dei prelati contrari alla sua voglia di "pulizia". «Su mandato del Santo Padre - si legge, infatti, nel documento segreto - nel 2009 monsignor Viganò viene inviato al Governatorato per fare pulizia. Scopre un sistema diffusamente corrotto e chiede aiuto al diretto superiore, il cardinale (presidente) Giovanni Lajolo e al Segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, per mettervi ordine». Ma, «uomini legati alla P4 che mantengono legami solidi con il Segretario di Stato - accusa l´anonimo estensore della bozza - decidono che per salvaguardare i loro interessi debba essere allontanato. La calunnia è la loro arma e per paura e codardia lo stesso Lajolo si rifiuta di difenderlo». Da qui la decisione presa dai vertici pontifici di "promuovere" Viganò nunzio negli Usa, bloccandogli una sicura nomina cardinalizia.
«Che la Curia fosse vittima degli intrallazzi della cosiddetta P4 vaticana non è un mistero per nessuno. Quel che è ancora più grave - ammettono quei pochi monsignori che non nascondono la loro indignazione - è che certi personaggi colti nelle mani nel sacco agiscono ancora indisturbati in determinati istituzioni dove circolano tanti soli come i Musei vaticani e, per gli appalti, al Governatorato, dove ai nuovi assunti qualche ben noto monsignore pare che abbia imposto la cessione dei primi 2 stipendi, pena l´immediata perdita del posto di lavoro». Altri interrogativi: i rapporti tra Simeon («collegato con Bisignani») e i cardinali Bertone e Mauro Piacenza «non risalgono - si legge nella bozza - ai tempi in cui Simeon agiva per conto di Cesare Geronzi nel settore bancario ed aiutò la curia genovese in vari affari nel corso del mandato del cardinale Bertone?». Ed inoltre, è vero che «il cardinale Segretario di Stato è intervenuto in prima persona per far nominare Simeon alla Rai-Vaticano» e che «con l´aiuto dello stesso Simeon Bertone ha usato la sua influenza per fare nominare Lorenza Lei a direttore generale della Rai?». Altro personaggio «chiacchierato», il direttore generale dell´ospedale Bambino Gesù di proprietà del Vaticano, Giuseppe Profiti, del quale nella bozza si ricorda di essere stato «condannato per turbativa d´asta e riciclaggio» di essere «amico diretto del cardinale Bertone e legato a Simeon» e che «ha manovrato per creare un polo di ospedali cattolici, il Bambin Gesù, Casa Sollievo della Sofferenza di san Giovanni Rotondo, il San Raffaele e l´Università Cattolica tramite l´Istituto Tognolo». «Ma, in definitiva, perché Bertone protegge personaggi come Profiti e Simeon, ma fa mandare negli Usa Vigano?», si chiedono Oltretevere, dove tutto quel che sta succedendo viene fatto risalire «allo scontro che da mesi è in corso tra due fazioni contrapposto, la cosiddetta cordata dell´Accademia Ecclesiastica capitanata dall´ex segretario di Stato Angelo Sodano ed il "partito" pro Bertone, affiancato dai neo porporati Piacenza, Calcagno, Filoni...».

il Fatto 24.2.12
“I giornalisti? Ecco perché non criticano Fiat”
Enrico Mentana: “Molti colleghi ottengono auto gratis dal Lingotto”
di Malcom Pagani


Lei sa che ai tempi di Unabomber venne suggerito a giornali e telegiornali di dimenticare un particolare? ”
Quale, Enrico Mentana?
“Che il dinamitardo aveva inserito una carica nel prodotto di punta della più importante azienda dolciaria italiana”.
Pomeriggio romano, quartiere Prati, bar rumoroso al centro di una quadriglia di clacson e isterismi. Il direttore del Tg di La7 beve ginseng, incontra amici di passaggio (l’architetto Fuksas che si siede, disegna un grattacielo su un foglio e poi scivola via) e scava nella memoria. I 7 milioni di euro che il Tribunale civile di Torino intima di pagare a Corrado Formi-gli per un servizio sull’Alfa Mito andato in onda ad Annozero gli sembrano il riflesso sbiadito di un’antica malattia.
“Mettiamo che Formigli abbia sbagliato. Io non difendo la corporazione. Né lui o Santoro in quanto tali. Ci fosse stato Vespa avrei fatto lo stesso. Io parlo di un principio più importante. Di un problema che è altrove.
Dove, Mentana?
Nel sistema. Dove non nuotano buoni e cattivi, ma soltanto il sistema
stesso. E la Fiat che ne ha fatto sempre parte circondata da consensi imbarazzante e applausi aprioristici della stampa generalista non può ignorarlo né pretendere di essere trattata come un potere svincolato dalle leggi. Non può censurare il diritto di critica.
Perché Fiat lo pretenderebbe?
Perché è mal abituata. Nel settore automobilistico si fanno da sempre le recensioni incrociate. Meno che in Italia, naturalmente. Mi trovi una stroncatura della Stilo, se ci riesce. La storia parte da lontano.
Ripercorriamola.
Il capo delle relazioni esterne dell’Alitalia e il capoufficio stampa della Fiat erano il santo graal più inseguito dalle redazioni italiane a metà degli anni 80. Dal Manifesto al Giornale. Mammelle ausiliarie. Il tornaconto era reciproco. Sa com’è, per derogare al rigore bisogna essere in due.
Come funzionava?
A metà degli anni 80 in redazione girava una battuta.
Quale?
Invece di chiamare la Hertz telefonate all’ufficio stampa della Fiat. Ma magari la Fiat di allora fosse stata la Hertz. (Ride) Alla Hertz le macchine le paghi. L’abitudine al comodato gratuito invece era generalizzata. I miei colleghi prendevano macchine in prestito senza pagare. Una cosa ridicola, francamente ridicola. Un altro tipo di commercio a chilometri zero. I giornalisti sono stati e sono ancora una categoria “disponibile”. Senza dubbio.
Esempi?
Per anni i cronisti di moda e quelli che si occupano di sanità sono stati scorrazzati gratis in giro per il mondo. Venivano perfino inviati a spese delle case farmaceutiche ai congessi sulla lotta contro l’Aids.
Non capita anche ai vaticanisti?
Non possiamo trattare il Vaticano come un’azienda o considerare il Papa come un amministratore delegato.
Rimaniamo sul divino. Come evitare di cadere in tentazione?
Se non usi passaggi aerei non devi dire grazie a nessuno. Invece nel silenzio generale di Fnsi, Ordine e Rai assistiamo ogni anno a campionati di sci per i giornalisti, a tornei di tennis e sagre senza mai aver letto un richiamo netto: “È vietato prendere auto in prestito”. O sbaglio?
La Fiat fa storia a sé?
È come tante altre grandi aziende. Quando si passò da Stream a Sky, Murdoch disse che sarebbero cessati gli abbonamenti gratuiti.
Risultato?
Panico e tristezza. Si spensero metà dei televisori di Roma.
Altrove è diverso?
Ogni tanto nella polemica con i poteri pubblici si ricorda come in Gran Bretagna non si possano ricevere regalie superiori a certe cifre. Per i giornalisti italiani questa regola non esiste.
E per le grandi aziende le regole esistono?
Sappiamo che i poteri forti non sono mai stati quelli politici. E in questo stagno è persino normale che un’azienda enorme si senta legittimata a esercitare pressioni e diffide. Ma se la 500 è nella nostra storia, sarebbe bello poter affermare senza temere la decapitazione che la Duna è un orrore postmoderno. Possibile sia vietato?
Marchionne non transige.
Coerentemente, si è uniformato allo spirito bellicoso d’azienda che è parte di un dna distante dal nostro. Però la maggior parte dei dirigenti Fiat italiani sa bene dove ci troviamo.
Non attaccherà Marchionne solo perché ha allontanato il suo amico Montezemolo?
Se parlo male del passato, caso mai salvo proprio Marchionne. E se cito un vizio antico della Fiat non mi pare di esentare nessuno dalle colpe. Perché la verità è che non c’è stata una sola persona che abbia mai tentato di invertire la tendenza. La Fiat non deve fare la verginella con l’informazione.
Il suo ad Stella teme cali pubblicitari?
Non lo so. Non è un dovere che le aziende investano, ma decidere di pagare pubblicità fa parte di una strategia di mercato. Chi prende uno spazio non fa un piacere alla rete. Se non lo vuol fare, e parlo in generale, fatti suoi.
Altrimenti qualunque testata di informazione può apporre una postilla: “Questo spazio è libero ma a volte, per sopravvivere, può attenuare la sua carica critica”.


il Fatto 24.2.12
Frati, senti chi sparla
Il Rettore della Sapienza invoca un esterno per gestire il Pronto soccorso. Lui che è stato Preside di Medicina per 18 anni
di Andrea Managò


Sono favorevole all’ipotesi avanzata dalla Polverini: mettiamo una persona esterna che conosca il Policlinico per 90 giorni, a me va bene”. Così parlò Luigi Frati, Rettore dell’Università La Sapienza di Roma. Eppure, chi meglio di lui dovrebbe sapere come si gestisce il Policlinico Umberto I della Capitale?
A partire dal 1990, l’anno delle Notti magiche mondiali e del-l’Oscar a Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore, per 18 lunghi anni proprio Frati è stato Preside della Facoltà di Medicina di quell’ospedale. Sette mandati uno in fila all’altro, solo all’ultima elezione una sfidante osò mettere in discussione il suo strapotere, racimolando appena 122 preferenze contro le 900 del superfavorito. Nel 2008 poi viene eletto Rettore dell’ateneo collegato al Policlinico (mandato in scadenza quest’anno): la struttura gli è familiare, visto che dal 1980 è professore ordinario di Patologia generale e Medicina molecolare alla Sapienza.
Ma nel paese del comandante Schettino, nel momento delle difficoltà, chi è sul ponte di comando spesso si tira indietro di fronte alle responsabilità. Dopo il polverone sollevato dall’ispezione al Pronto soccorso dell’Umberto I dei senatori Domenico Gramazio (Pdl) e Ignazio Marino (Pd), che ha rivelato la presenza di una malata di Alzheimer lasciata in barella per 4 giorni, le cose non sembrano andare diversamente. Di fronte all’ennesimo caso di mala-sanità che riguarda il Policlinico, Frati respinge le accuse al mittente: “Avevamo previsto di raddoppiare i posti letto dell’area medica, ma il ministero dell’Economia ha bloccato tutto”. Non solo, se la prende anche con i due senatori, “facciano leggi in cui si parla di lungodegenze e decongestionamento degli acuti, non i blitz”. Difficile capire la loro colpa, visto che Gramazio e Marino hanno solo esercitato una loro prerogativa. Del resto il Rettore non è nuovo a simili uscite. Come dimenticare quando sostenne che “il mio compito è quello di meritare che Tremonti tagli da un’altra parte e non rompa le pa… a me”.
FINORA a pagare, con una sospensione di 90 giorni, sono stati solo il Direttore generale e il Coordinatore del Dea del Pronto soccorso. Dal canto suo anche Renata Polverini non ha trovato di meglio che scaricare sul sistema sanitario le colpe di quanto accaduto al-l’Umberto I: “Avevamo individuato in un team di medici di medicina generale un elemento di rafforzamento dei Pronto soccorso nel momento in cui ci sono le influenze: non li hanno fatti lavorare”.
Senese, classe 1943, la scalata di Frati alla conquista del più grande ateneo della capitale ha inizio negli anni Ottanta, quando è vicino alla sinistra Dc e contribuisce a fondare la Cisl universitaria. In anni più recenti strizza l’occhio alla destra, tanto che nel 2005, da pro-rettore, invita a votare per la riconferma di Francesco Storace alla guida della Regione Lazio. “Dietro di lui c’è un progetto, non veline o mezzi busti, ha diminuito la disoccupazione e consentito lo sviluppo” sostenne entusiasta in un comizio elettorale. Forse sovrappensiero, devono essergli sfuggiti i 10 miliardi di buco, in gran parte dovuti al debito sanitario, lasciati nelle casse regionali dal governatore nostalgico di Almirante.
Cambiano le maggioranze ma carriera di Frati è un crescendo di incarichi. Divenuto rettore lo dice lui stesso: “Voglio che l’università sia, come è stata per me, figlio di un minatore, un ascensore sociale”. Per la sua famiglia invece si può fare un’eccezione. La moglie Luciana Rita Angeletti è ordinaria di Storia della medicina, mentre la figlia Paola è ordinario di Medicina legale, entrambe alla Sapienza. Vista l’aria di casa che si respira in ateneo, Frati pensò bene di organizzare nei saloni di Medicina anche un brindisi per le nozze della figlia.
PER IL FIGLIO Giacomo invece in aprile 2011 è stata addirittura creata ex novo un’unità di “Tecnologie cellularimolecolari applicate alle malattie cardiovascolari”. A chiamarlo alla direzione della nuova struttura è stato Antonio Capparelli, nominato il mese prima Direttore generale del Policlinico proprio da Frati senior. Per vederci chiaro in quest’ultima vicenda la Procura di Roma ha aperto un fascicolo per abuso d’ufficio. Per il malcapitato cronista che chiese conto a Frati di queste coincidenze una risposta che resterà negli annali: “Perché non parlate di ignorantopoli, è il vero problema dell’università italiana, voi giornalisti fate solo folklore”.

il Fatto 24.2.12
Melfi, la Fiat sconfitta
“Comportamento antisindacale”, reintegrati i tre operai Fiom. Il Lingotto annuncia ricorso
di Salvatore Cannavò


Dal Tribunale di Melfi arriva una boccata d'ossigeno per la Fiom che influirà sulla complessa trattativa con la Fiat. L'azienda guidata da Sergio Marchionne, infatti, è stata condannata per comportamento antisindacale in merito al licenziamento dei tre operai Fiom accusati di aver bloccato un carrello durante uno sciopero sindacale del 2010. L'azienda li aveva addirittura accusati di “sabotaggio” mettendo Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli fuori dalla fabbrica. Nel suo terzo pronunciamento il Tribunale, invece, ribalta la situazione: quel licenziamento, dice il giudice, ha costituito una violazione dell'articolo 28 dello Statuto dei lavoratori e i tre operai devono essere reintegrati. Esattamente come è già avvenuto nell'agosto del 2010 quando la prima sentenza – che però costituiva ancora solo un “giudizio sommario” – era stata favorevole ai tre dipendenti. Contro quella sentenza la Fiat presentò ricorso, vincendolo, sempre nell'ambito del primo grado di giudizio. A sua volta la Fiom si è appellata al secondo grado di giudizio, e "di merito" come spiegano gli avvocati dello Studio legale associato di Bologna che hanno assistito i lavoratori, e per l'azienda non resta che il ricorso in Cassazione. Che sarà fatto, come spiega una nota della Fiat. L'azienda, che non commenta la sentenza, “considera inaccettabili comportamenti come quelli dei tre lavoratori” e dunque “proseguirà le azioni per impedire che simili condotte si ripetano”.
DA SEGNALARE che il giudice ha stabilito anche il rimborso alla Fiom delle spese sostenute, a suo tempo, per la pubblicazione della sentenza di reintegro di primo grado sui quotidiani Repubblica e Corriere della Sera. Una decisione che viene interpretata dai legali Fiom come una sottolineatura del giudizio di antisindacalità.
È chiaro che in un simile contesto la Fiom esprima “la sua più profonda soddisfazione per la sentenza, soprattutto alla luce dei gravi atti di discriminazione contro i nostri iscritti e i nostri delegati che si stanno verificando in tutti gli stabilimenti del Gruppo”. Il sindacato di Landini, inoltre, valuterà se chiedere anche “i danni morali” per l'azione di denigrazione verso i lavoratori e gli iscritti al sindacato. Il riferimento è a quanto sta avvenedo a Melfi dove, come dimostrava recentemente un video trasmesso nel corso della trasmissione Servizio Pubblico di Michele Santoro, si verificano minacce di morte contro i delegati. Due giorni fa, il Quotidiano della Basilicata, ha dedicato un ampio servizio allo stabilimento di Melfi dal titolo inequivocabile: “Dalla fabbrica modello all'inferno”. Si raccontano di testimonianze operaie che parlano dell’esasperazione quotidiana “che scandisce la giornata di molti operai”. In particolare in relazione al licenziamento dei tre operai e della loro vertenza.
“PER CHI ha testimoniato al processo - scrive il giornale lucano - per chi ha dato loro sostegno e ha partecipato a quegli scioperi, le cose all'interno dello stabilimento sarebbero cambiate dal giorno alla notte”. Operai malati spostati in settori dove non potrebbero stare, colleghi isolati, costretti a umiliazioni. Il giornale da conto anche di un altro fatto importante: l'uomo che minaccia di morte l'operaio nel video andato in onda da Santoro, Francesco Tartaglia, è lo stesso che ha contestato l'atto di sabotaggio a Barozzino, Lamorte e Pignatelli. E lo stesso Barozzino, poco prima di essere licenziato, aveva ricevuto un sms inviato da un collega che lo invitata a "stare attento a quel Tartaglia" perché "pericoloso”. Si tratta di notizie che sono state messe a disposizione dei giudici nell'ambito dell’indagine in corso, di natura pena-le, sulle minacce fisiche. Ma che sono state anche allegate ai procedimenti di ricorso presentati dai singoli lavoratori licenziati contro la Fiat. La sentenza di ieri, infatti, si riferisce solo al ricorso presentato dalla Fiom. Ora i legali valuteranno come utilizzare i ricorsi individuali ancora in esame.
INSOMMA, una giornata negativa per la Fiat cui fa da contraltare la festa in casa Fiom che ora rilancia la sua manifestazione del 9 marzo. Oltre ai vari settori della sinistra radicale ieri anche Di Pietro ha annunciato che parteciperà alla manifestazione e allo sciopero generale indetto dal sindacato metalmeccanico. Bersani continua, invece, con la linea “di lotta e di governo”: “Valuteremo se essere presenti alla manifestazione ma il Pd non va in piazza contro il governo”. La discussione nel suo partito è appena cominciata.

l’Unità 24.2.12
Dimissioni in bianco, ripristinate la 188
di Serena Sorrentino


Donne di esperienze diverse da tempo si sono alleate per ripristinare uno strumento di contrasto agli abusi e ai ricatti: le cosiddette dimissioni in bianco cioè la lettera che tante lavoratrici e lavoratori si trovano davanti nel momento in cui si dimettono (in)volontariamente e su cui non è apposta alcuna data. Sono costretti a firmarla all’atto dell’assunzione, quando il loro interesse è avere un lavoro, quando sono più fragili e sottoponibili a ricatto. La sequela degli abusi a cui si è sottoposti sotto la minaccia che quella lettera venga usata in qualsiasi momento è infinita. Ma tale situazione non è incontrovertibile nel 2007 infatti una legge molto semplice fu approvata con voto bipartisan stabilendo il principio opposto. La legge 188 prevedeva infatti una procedura relativa all’assunzione di una semplicitè disarmante: il modulo col quale si veniva assunti riportava un numero progressivo, tali moduli erano validi per un periodo limitato, per dimettersi occorreva un modulo analogo che ovviamente doveva riportare un numero progressivamente successivo e valido nel periodo relativo alle dimissioni del lavoratore, in questo modo veniva meno l’elemento «ricattatorio». La legge è stata abolita dopo pochi mesi di vigenza come primo atto dell’allora Ministro del Lavoro Sacconi. La legge 188 era uno straordinaria misura di unificazione del mondo del lavoro sulla base di principi di civiltà del lavoro, infatti la norma era valida ed estesa a tipologie di lavoro precario, riguardava donne e uomini, era uno strumento di affermazione e tutela dei lavoratori migranti. Non era una legge punitiva ma rivolta alla trasparenza e alla regolazione delle procedure di eventuale dimissione. In un momento in cui con troppa scioltezza si discute di flessibilità in uscita il contrasto agli abusi dovrebbe costituire una premessa a qualsiasi ragionamento. Lo stesso Ministro Fornero, incontrato dal comitato 188 donne per la 188, ha sostenuto di voler lavorare in tal senso adducendo tuttavia le difficoltà ad operare per il ripristino della legge 188 sia a ragioni di natura politica che procedurali. Alla base delle ostilità di una parte delle imprese e del governo precedente, infatti, venivano addotte difficoltà di tipo «procedurale» rispetto alle complicazioni derivanti dagli applicativi emanati dall’Inps. In realtà un monitoraggio dell’effetto di deterrenza per la sola vigenza piuttosto che dell’applicazione effettiva della legge non è stato mai monitorato. La legge è stata abolita senza essere testata effettivamente eppure ha avuto lo stesso un impatto positivo. Dalla sua abolizione le dimissioni sono cresciute nuovamente, sia come certifica l’Istat valutando i dati 08/09 sulle dimissioni di lavoratrici in concomitanza con l’avvento della maternità (800mila) sia come risulta dai dati delle comunicazioni obbligatorie relative a dimissiono di lavoratori precari prima del raggiungimento dei requisiti utili al rinnovo e/o stabilità contrattuale.
In un momento in cui il tema della redifinizione delle regole che sovraintendono il mercato del lavoro e’ al centro del dibattito politico i temi di come si riduce la precarietà, di come si contrastano gli abusi, il lavoro nero, le discriminazioni e di come si ridefiniscono tutele per chi il lavoro rischia di perderlo per la crisi o non ce l’ha, dovrebbero caratterizzare l’ambizione comune di voler determinare condizioni di qualità e stabilita’ del lavoro che possano costituire la dimensione qualitativa di un progetto di crescita del paese. L ’attenzione tutta concentrata solo sull’articolo 18, rischia di far aumentare le discriminazioni. Al Parlamento, alla Commissione Lavoro che discute un testo di legge sulle dimissioni in bianco, al governo la nostra richiesta rimane quella di introdurre uno strumento di lotta agli abusi, ai ricatti, alle discrimnazioni. Il ripristino dei principi della Legge 188, come dimostra il caso Rai, sono un fattore di cittadinanza sociale per le lavoratrici e lavoratori.

Corriere della Sera 24.2.12
Quelle clausole anti gravidanza che colpiscono la donna e la famiglia
di Mario Garofalo

Le decine di segnalazioni di lettori e lettrici del Corriere al blog della «27a ora» dicono che la «clausola gravidanza» non è un caso limitato alla Rai, che in tante aziende italiane l'attesa di un bambino diventa «giusta causa» di allontanamento per donne precarie. La particolarità della tv di Stato (e, a quanto pare, di alcune altre società) sta nel fatto di averlo dichiarato per iscritto, in barba ai diritti costituzionali e al buonsenso. Se una lavoratrice rientra nei «casi di malattia, infortunio, gravidanza» l'azienda può decidere di «sciogliere il contratto di diritto, senza alcun compenso o indennizzo a suo favore».
Si tratta, formalmente, di contratti di consulenza, quelli che si firmano con grandi professionisti, avvocati, ingegneri, professori universitari, portatori di competenze non presenti nel personale dipendente. Che senso ha allora precisare tutte quelle cose sulla maternità? Mica un legale di successo deve garantire la sua presenza otto ore al giorno. E, se perde un cliente, ne ha altri. Viene il sospetto, allora, che la clausola nasconda una sorta di lapsus, che ci sia confusione tra consulenti e lavoratori dipendenti. Che sono dei «contraenti deboli» e meriterebbero ben altre tutele secondo le nostre leggi.
L'errore della Rai, per fortuna, è stato corretto, i sospetti in parte fugati. Ma resta il problema delle tante aziende italiane che vivono con fastidio le madri e stipulano contratti fasulli per poterle mettere alla porta appena minacciano di assentarsi, nonostante la paga, in quei mesi, competa agli istituti di previdenza. Per non dire di quei cacciatori di teste che nei colloqui rivolgono la domanda illegittima: «Pensa di mettere su famiglia?».
Come se la gravidanza fosse un evento soltanto delle donne. Far crescere i bambini, istruirli ed educarli, proteggere la nascita delle famiglie, è invece nell'interesse di tutti. Non lo dice una «pericolosa» femminista, è scritto nella nostra Costituzione.

Corriere della Sera 24.2.12
A rischio la crescita della Cina «Possibile un crac nel 2030»
E i ricchi hanno già il piano B: andarsene in America
di Marco Del Corona


PECHINO — Sono febbri che in Cina assomigliano a quelle che, nelle democrazie elettorali, precedono gli appuntamenti con le urne. Ecco la ragnatela di speculazioni che avvolge Bo Xilai, carismatico e spregiudicato leader del Partito comunista a Chongqing, in difficoltà. Ecco, defilati a Hong Kong, i colpi bassi anche a mezzo stampa tra i due tycoon candidati a governatore. Ed ecco i giochi intorno a un'economia che mostra uno stato di salute non più brillantissimo e che costituisce il test cruciale per i nuovi leader che il congresso incoronerà il prossimo autunno. Quest'ultima partita s'è fatta scoperta ieri, quando il Wall Street Journal ha anticipato un rapporto, appunto, sull'economia cinese per nulla ottimista. Il clima e l'insofferenza sono tali che tra i super ricchi — aggiunge il quotidiano — si ripresenta la tentazione di andare a risiedere all'estero: Usa, Canada, Europa.
Intitolato «China 2030», il dossier è stato compilato dalla Banca mondiale e del Centro di ricerca sullo sviluppo (Drc), che dipende dal Consiglio di Stato, ovvero il governo. Vi si descrive una situazione di pericolo imminente: senza riforme strutturali, tali da imporre una revisione di dinamiche che l'attuale leadership ha incoraggiato, la Cina rischia una crisi economica dannosa per tutti.
Pechino potrebbe assistere a un crollo del suo tasso di crescita com'è accaduto ad altre economie di Paesi in fase di sviluppo, quale peraltro si considera. Il documento — ha scritto il giornale — «è concepito per influenzare la prossima generazione di leader». Sotto esame, per esempio, il ruolo delle imprese di Stato e quello delle banche.
L'anticipazione esce dopo la visita negli Usa del segretario in pectore del Partito, Xi Jinping, durante la quale non sembra siano emersi elementi chiari sulle scelte economiche future. A rafforzare l'esercizio di condizionamento tentato da «China 2030», un secondo dossier, della Us-China Economic and Security Commission: tra l'altro, rimarca lo scarso grado di apertura in un Paese dove il 45% dell'economia è rappresentata dalle aziende di Stato.
Come ha chiosato sulle pagine di Caixin l'ex supervisore del sistema bancario, Liu Mingkang, «è difficile essere ottimisti su occupazione e stabilità». Il senso di insicurezza alimenta fenomeni che riappaiono. Il flusso di donne della Cina continentale che corrono a Hong Kong per partorire, e così consentire ai figli di godere di una società meno ingessata, ha assunto proporzioni tali da entrare nel dibattito politico e sollecitare contromisure drastiche. Intanto, negli Usa si registra un numero record di richieste di residenza da parte dei cinesi: nel 2011, le pratiche hanno riguardato 2.969 famiglie contro le 787 di due anni prima. In Canada 2.567 richieste nel 2011 contro le 383 del 2009.
Il Wall Street Journal fa nomi e cognomi. Shi Kang, scrittore da 15 romanzi e patrimonio da 1,6 milioni di dollari, medita di trasferirsi negli Usa in cerca di un ambiente più accogliente, una migliore qualità della vita, un ruolo meno invasivo delle autorità.
L'imprenditore Su Bin guarda all'est dell'est, l'America, perché sfiancato dal «troppo potere» del governo, sia negli affari sia nella vita personale.
Un altro, Deng Jie, parla di «delusione» per come si è sviluppata la Cina, denuncia la corruzione e progetta di raggiungere la figlia che studia vicino a Toronto. Anche la statistica sta dalla sua parte: il 60% dei 960 mila cinesi con più di 1,6 milioni di dollari medita di andarsene. Nessuno parla di politica. Amano tutti la Cina, ma da lontano forse di più.
Marco Del Corona

Corriere della Sera 24.2.12
L'ambasciatore cinese in Italia: aumentare i consumi interni
di Dario Di Vico


BOLOGNA — Verso la fine del dialogo, e dopo che Romano Prodi aveva sciorinato la sua profonda conoscenza della Cina, l'ambasciatore a Roma Ding Wei lo ha guardato ammirato e ha scandito: «Professore, lei conosce così bene il mio Paese che potrebbe essere un ottimo leader cinese». Prontissima la replica di Prodi: «Forse avrei più fortuna che in Italia». Il siparietto ha concluso un evento senza precedenti da noi: l'ambasciatore della seconda (e riservatissima) potenza mondiale che ha accettato di essere intervistato in pubblico, assieme a Prodi, davanti a una platea di studenti italiani e cinesi. Sicuramente un omaggio all'Università di Bologna che ospita 700 studenti asiatici ma anche all'ex premier, considerato un grande amico di Pechino. Prima di salire sul palco Ding Wei, conversando con i giornalisti, era stato prodigo di riconoscimenti verso la politica di Roma («Apprezziamo le misure positive prese dal governo Monti. Ha fatto un lavoro eccezionale») e verso l'Italian style. «Brand come Gucci, Ferragamo, Armani sono famosi anche da noi. Io non li compro ma al nostro popolo piacciono molto».
L'ambasciatore non ha mai nominato esplicitamente il tema dei diritti civili ma ci ha tenuto a sottolineare con forza che una cosa «è la globalizzazione dell'economia, altra è la globalizzazione della cultura». La prima giudicata positiva, la seconda no. «Il mondo è bello perché è vario ma i media occidentali ci criticano senza conoscere a fondo la nostra cultura e i problemi a cui dobbiamo far fronte in questa fase. Stiamo cercando una strada e so che sarà diversa da quella occidentale». Nello sforzo di costruire ponti tra Cina e Occidente Prodi ha messo l'accento sull'efficacia del soft power, a suo tempo decisivo nell'esportazione del mito americano. «Per superare le distanze, voi cinesi avreste bisogno di un cantante popolare apprezzato nel mondo. Gli Stati Uniti hanno fatto così con il cinema e il jazz». Il professore ha pronosticato che dopo i successi delle Olimpiadi e dell'Expo di Shanghai sono maturi i tempi di un exploit cinese in campo scientifico. «L'impegno che Pechino sta mettendo nella ricerca e sviluppo è poderoso e la Cina che copia i prodotti low cost cederà il passo a una leadership asiatica anche nelle nuove tecnologie. Vedrete, arriveranno anche ai premi Nobel». Del resto, ha aggiunto Prodi da economista industriale, con una crescita dei costi che ormai è del 20% l'anno la Cina comincia a produrre innovazione o è morta.
Il confronto dalle culture si è poi spostato sui temi del Piano Quinquennale, il dodicesimo, che secondo Ding Wei si propone nientemeno che di cambiare radicalmente il modello di sviluppo cinese, «dalla quantità alla qualità». Perché il Pil nazionale è altissimo ma quello pro-capite è ancora troppo basso. Un cinese ha ancora il 37% dello standard di consumi di un italiano. «Anche da noi ci sono differenze territoriali, molto più stridenti di quelle che ci sono tra il Nord e il Sud d'Italia. Per questo dobbiamo concentrarci sulla crescita dei consumi interni. Il reddito del popolo deve crescere del 7% nei prossimi 5 anni». E nel contempo il Paese deve creare un proprio welfare perché dopo anni e anni di politica del figlio unico anche loro stanno invecchiando. Infine Prodi ha spiegato come la Cina dovrà darsi una vera politica estera, operazione non facile perché «ci sono 50-60 milioni di cinesi in giro per il mondo e sono tutte persone», esposte ai contraccolpi di scelte di politica estera da parte di Pechino che non dovessero collimare con gli interessi dei Paesi che li ospitano.

Corriere della Sera 24.2.12
Dove il cinese conta come l'inglese
di Irene Consigliere


Cinese, giapponese, russo e altre lingue orientali. Ecco gli idiomi che prima sembravano utili per il futuro, mentre ora sono indispensabili subito per svolgere alcune professioni. In particolare — secondo quanto racconta Tiziana Lippiello, direttore del dipartimento degli studi sull'Asia e sull'Africa mediterranea dell'Università Ca'Foscari di Venezia, dove si può frequentare la facoltà di Lingue orientali — il giapponese sarebbe richiesto per ricoprire i ruoli di assistente alle vendite, import-export, per lavorare nel settore turistico, interpretariato, traduzione. Mentre per coloro che si sono specializzati nella lingua della Grande Muraglia, ci sono sbocchi alla Camera di Commercio, in Confindustria, agli Istituti di cultura, alle università europee, americane, asiatiche e nel settore turistico. Ed è previsto un career day Asia il 29 marzo a cui parteciperanno Piaggio, Thune, Vineyard HK Ltd, Usco, Optim Consulting.
La ex facoltà di studi orientali della Sapienza di Roma è invece confluita nella facoltà di filosofia, lettere, scienze umanistiche e studi orientali, dove vengono insegnati cinese, giapponese, coreano, hindi, arabo e persiano. Da segnalare inoltre il corso di studi dell'Università di Napoli l'Orientale.
Alla Statale di Milano invece il russo viene insegnato all'interno di Lingue e letterature straniere e il giapponese e il cinese nel corso di mediazione linguistica e culturale. Sempre a Milano c'è la Bicocca, dove è possibile frequentare corsi di cinese, giapponese e arabo inseriti nella laurea triennale di comunicazione interculturale o nel corso di laurea magistrale in scienze antropologiche ed etnologiche.
Corsi business di cinese, giapponese e russo anche alle rispettive fondazioni: Italia-Cina, Italia-Giappone e l'associazione Italia-Russia. Presso la prima istituzione a Milano a partire dal 2009 è partita la scuola di formazione permanente per soddisfare le esigenze di chi ha bisogno di apprendere velocemente il cinese. Le lezioni si tengono anche direttamente in azienda. «Da noi ci si può iscrivere anche a un corso di Intercultural management dove si impara anche a negoziare con gli uomini d'affari cinesi. Per esempio si insegna a decifrare l'Han Xu, vale a dire l'imperturbabilità dei business man quando si propone loro un contratto», spiega Francesco Boggio Ferraris, responsabile della scuola di formazione. Due i progetti che ha messo in piedi la fondazione: un career day il 2-3 aprile in Assolombarda a cui parteciperanno 20 aziende e il servizio di recruiting on line Italy China Jobs sul sito www.italy-china.org. In collaborazione con l'Unione europea: Chinese for europeans, lezioni gratuite multimediali. Corsi business di giapponese anche alla Fondazione Italia-Giappone di Roma. Infine, per quanto riguarda il russo, l'Associazione Italia-Russia, sede per la Certificazione Internazionale della Lingua Russa TRKI, eroga tutto l'anno corsi di durata variabile, singoli o collettivi e per le diverse esigenze.

Corriere della Sera 24.2.12
Se la Merkel chiede perdono per i crimini dei neonazisti
di Paolo Lepri


BERLINO — È ancora accesa, e non deve spegnersi, quella candela «per la speranza e per il futuro» che due giovani donne di origine turca, i cui genitori sono stati uccisi dalla cellula neonazista scoperta quasi per caso nei mesi scorsi, hanno portato fuori dalla Konzerthaus di Berlino, in una giornata che la Germania ha dedicato, solennemente, alle dieci vittime di quelli che furono chiamati «gli omicidi del kebab». Poco prima Angela Merkel aveva chiesto perdono. Aveva chiesto perdono a Semiya Simsek e a Gamze Kubasik, all'anziano pensionato Ismail Yozgar, che ha tenuto tra le braccia mentre moriva il figlio ventunenne Halit, a tutti gli altri familiari di vittime che per troppo tempo non hanno nemmeno avuto il diritto di esserlo. Perché dal 2000 al 2007 Uwe Böhnhardt e Uwe Mundlos hanno percorso tutta la Germania spargendo sangue, hanno confezionato video sconvolgenti, sono stati protetti dalla rete che agisce allo scoperto dei movimenti neonazisti. Ma la polizia, nel frattempo, interrogava i parenti di chi era stato ucciso. Li sospettava, seguiva la pista della criminalità organizzata, del traffico di stupefacenti. Semiya lo ha denunciato dal palco, con coraggio. La cancelliera lo ha ammesso e ha offerto le sue scuse. «Questi delitti senza precedenti sono stati un attentato alla nostra democrazia. Ed è stata una vergogna che la loro matrice sia stata nascosta così a lungo. È l'amara verità. Questi anni sono stati per voi un incubo senza fine», ha detto la Merkel, vestita di nero, più volte quasi sopraffatta dall'emozione. Si è impegnata a fare di tutto perché la memoria non cancelli mai crimini tanto efferati contro persone scelte per caso, compiuti con la freddezza dell'odio, tra quei tanti emigrati che pensavano di aver trovato una nuova patria, un lavoro, un'esistenza dignitosa. «Noi dimentichiamo troppo velocemente — è stata la sua riflessione — forse perché siamo impegnati in altro, forse perché ci sentiamo impotenti, forse per indifferenza».
Ieri, quindi, è stato il momento della riparazione. Ma niente può tornare come prima, come del resto ha promesso la cancelliera, perché gli «omicidi del kebab» («capiti» soltanto dopo il suicidio dei due assassini e il ritrovamento dell'arma) devono essere un punto di svolta per stimolare un'azione più efficace contro la galassia della destra estrema, al di là dell'ipotesi di mettere fuori legge il partito neonazista Npd, bloccando per esempio a tutti i livelli la propaganda verso le giovani generazioni. E per lavorare a fondo nella battaglia contro i rigurgiti di razzismo che attraversano una società moderna e integrata come quella tedesca. Quando si parla, infine, dei milioni di cittadini che hanno radici straniere, si tratta di insistere, come è giusto, sul capitolo dei doveri senza però dimenticare quello dei diritti, anche di quelli che sembrano acquisiti. Intanto, Semiya pensa di tornare a giugno in Turchia. Si chiedeva da tempo, come ha detto nel suo discorso senza lacrime, se la Germania fosse diventata la sua casa. Per il momento ha deciso di lasciarla.

l’Unità 24.2.12
Anche gli scienziati sbagliano
Contrordine. I neutrini non sono più veloci della luce. La notizia dell’errore ha fatto il giro del mondo scientifico e non, ma non è il primo caso
Ci sono due precedenti più gravi: la fusione fredda e la memoria dell’acqua
di Luca Landò


Anche gli scienziati nel loro piccolo si sbagliano. È il messaggio che da ieri rimbalza, questo sì alla velocità della luce, sui giornali e le tv di tutto il mondo. E non potrebbe essere altrimenti visto il clamore suscitato sei mesi fa dalla notizia che i neutrini potessero viaggiare più rapidamente di un raggio luminoso: una «scoperta epocale», capace di mandare in pensione, non solo il fondamento delle previsioni di Einstein (nulla è più veloce della luce) ma anche l’intero impianto della fisica moderna, con tanti saluti a logica e buon senso per come oggi li conosciamo. Se la scoperta di Antonio Ereditato e colleghi fosse stata vera, avremmo infatti dovuto abituarci a un mondo di stranezze e paradossi, con tanto di «effetti» capaci, almeno in teoria, di precedere le rispettive «cause».
È dunque comprensibile che l’annuncio di un possibile errore sia ieri esploso con la forza di una bomba nucleare mediatica simile, se non superiore, a quella del neutrino superveloce. Quello che sorprende, tuttavia, è l’entusiasmo sportivo, se non gladiatorio, con cui è stata accolto la notizia. Parlare di «rivincita di Einstein» o addirittura di «vendetta» è infatti fuori luogo. Per diversi motivi.
Il primo lo ha spiegato ieri lo stesso Ereditato precisando che la stessa cautela utilizzata sei mesi fa nell’annunciare la scoperta va adottata adesso nell’illustrare l’errore. In entrambi i casi, ieri come oggi, si tratta di ipotesi da verificare. Un tentativo estremo di salvare la faccia? Forse. Ma anche un modo corretto di parlare di scienza, specie quando in ballo ci sono esperimenti di immensa difficoltà, con particelle submicroscopiche sparate dai laboratori Cern di Ginevra a quelli Infn posti sotto il Gran Sasso e a 730 chilometri di distanza.
A complicare le cose vi è poi il fatto che il team di Ereditato avrebbe scoperto, non un possibile errore, ma due: uno opposto all’altro. Perché se uno rendeva «più veloce» il neutrino, l’altro lo «rallentava». In un caso, l’effetto era dovuto a un difetto nella calibrazione dell’orologio atomico utilizzato per misurare la velocità; nell’altro, opposto al primo, il problema era legato alla cattiva connessione di un cavo a fibra ottica per la trasmissione dei dati alla scheda elettronica di acquisizione. «È un effetto molto sottile ha detto ieri Ereditato -. in condizioni normali la connessione di questo cavo prevede due stati: on e off. Per anni è sempre stato così: ora abbiamo visto che, per qualche motivo, riesce a stare in una posizione intermedia, né accesa né spenta. Adesso abbiamo il potenziale sospetto che questo effetto possa essere stato attivo mentre prendevamo i dati sui neutrini».
Tutto da rifare? Non proprio: come hanno detto ieri i ricercatori, è presto per gettare i risultati nel cestino e parlare di «vittoria di Einstein». Al contrario è bene aspettare i risultati di nuove ricerche: negli Stati Uniti con i fasci di neutrini prodotti dal Fermilab di Chicago e inviati per 730 chilometri al rivelatore dell’esperimento Minos, in Giappone con l’esperimento T2K e, tra un mese, ancora sotto il Gran Sasso, con le particelle sparate dal Cern.
Se dunque era giusto essere cauti con i dati annunciati sei mesi fa, altrettanto bisogna esserlo oggi. Di certo, però, il combinato disposto dei due errori, se non chiude la strada all’ipotesi di un neutrino superveloce, rende assai poco affidabili i dati raccolti finora.
Parlare di rivincita di Einstein è poi sbagliato per un secondo motivo: la scienza non è un ring. Non ci sono né vinti né vincitori ma un lento e appassionante lavoro di comprensione svolto con le regole rigorose e condivise che formano il cosiddetto metodo scientifico. E dove anche un errore può essere una preziosa fonte di conoscenza. Lo stesso Einstein, almeno da giovane, avrebbe probabilmente accolto la notizia del «neutrino superluminare» come una sfida da cogliere e affrontare, più che un affronto da rigettare.
Il punto, casomai, è capire se il team di Ereditato abbia rispettato fino in fondo le regole e i principi del metodo scientifico o se invece, preso dalla frenesia del’annuncio, abbia imboccato una scorciatoia pericolosa.
Esistono, a questo proposito, due precedenti poco edificanti che vale la pena di ricordare. Il primo è quello, ormai classico, della «fusione fredda» di Martin Fleischmann e Stanely Pons, quando nel 1989 i due ricercatori annunciarono al mondo di aver trovato una fonte di energia inesauribile ed economica. Peccato che lo fecero, non dalle colonne di una rivista scientifica (dove gli articoli vengono visionati, criticati ed eventualmente approvati da almeno tre esperti coperti da anonimato) bensì da quelle, autorevoli ma poco accademiche, del Financial Times. Ci fu una immediata conferenza stampa seguita da reporter e tv di tutto il mondo. E i due, oltre all’immediato profumo di Nobel, ricevettero finanziamenti e la costruzione di un apposito centro di ricerca.
Mentre le migliori menti della fisica nucleare erano impegnate a costruire costosissimi impianti per riprodurre i meccanismi di fusione calda che tengono acceso il Sole, Fleischmann e Pons avevano dunque «scoperto» che bastavano una barretta di palladio immersa in una soluzione di “acqua pesante” ricca di deuterio per ottenere il miracolo che tutti cercavano: produrre più energia di quella immessa nel sistema. L’uovo di Colombo, anzi di Fleischmann e Pons. Peccato che, una volta replicati da altri gruppi di ricerca, la carrozza della fusione fredda si trasformò in una imbarazzante zucca: il sistema produceva sì energia, ma meno di quella impiegata. Il secondo episodio, altrettanto famoso, è quella della «memoria dell’acqua» che porta la firma dell’immunologo Jacques Benveniste. Con un articolo su Nature (passato dunque attraverso il controllo rigoroso dei tre arbitri «dribblati» da Fleischmann e Pons) Benveniste affermò nel 1988 che gli effetti biologici di una determinata sostanza si manifestavano anche in assenza della sostanza stessa. Applicando i metodi dell’omoepatia (diluizioni successive alternate a violente agitazioni delle provette, le famose «sucussioni») l’immunologo preparò delle soluzioni talmente diluite da rendere virtualmente impossibile la presenza di residue molecole della sostanza biologica. Poiché gli effetti sulle cellule si verificavano lo stesso, Benveniste concluse che nell’acqua si formava una «impronta» della molecola originaria, una sorta di memoria quantistica (sì, tirò in ballo la teoria dei quanti) che aveva gli stessi effetti dell’originale.
Anche in questo caso la scoperta fece il giro del mondo e ci fu chi ipotizzò l’arrivo di un secondo Nobel. E come per la fusione fredda, l’entusiasmo finì nel cestino non appena si scoprì che alla base di tutto c’era un modo errato di lavare le provette impiegate. Non era la memoria dell’acqua a provocare il miracoloso effetto, ma le molecole della sostanza rimaste attaccate alla parete di vetro.
A parte il grande clamore, la vicenda del neutrino superveloce non sembra parente stretta della fusione fredda o della memoria dell’acqua. Se è vero che Ereditato e soci hanno affrettato i tempi dell’annuncio (difficile negarlo), va tuttavia riconosciuto che sono stati gli stessi ricercatori a trovare e a comunicare le possibili fonti d’incertezza. Una correttezza che, a differenza dei due casi precedenti, consentirà loro di continuare le ricerche per vedere se davvero quella dei neutrini supeluminari sia una ipotesi priva di fondamento. Proprio ieri Dario Autiero, responsabile delle misure dell’esperimento, ha spiegato che il test verrà ripetuto tra un mese esatto con pacchetti molto piccoli e distanti, in modo da evitare ulteriori incertezze. «Non abbiamo più fasci di neutrini da novembre ha detto ancora Autiero perché in inverno gli acceleratori si fermano per motivi di risparmio energetico e riprenderemo a rilevare dati a partire dal 23 marzo fino a novembre». Errare è umano, dunque. Ma smettere di cercare sarebbe diabolico.

Repubblica 24.2.12
Quando sbagliano gli scienziati
Dal flogisto ai neutrini così la scienza vive di errori
di Elena Dusi

Dal 2001 al 2011 gli studi smentiti si sono moltiplicati di ben quindici volte
Per difendersi dalle truffe, le riviste fanno valutare le loro bozze a degli esperti
Il neutrino più veloce della luce è solo l´ultimo dei falsi allarmi lanciati negli anni. Se è vero che gli errori spesso hanno spinto la conoscenza tra inesattezza e scivolone la differenza non è da poco. E a volte si cade persino nella frode

«È l´errore più grande della mia vita» diceva Einstein della costante cosmologica, un termine introdotto nelle sue equazioni per dare equilibrio all´universo. Ma se lo scienziato avesse atteso gli esperimenti degli anni ´90, avrebbe scoperto di avere torto. Perché la costante cosmologica è oggi considerata predizione del tutto corretta. Anche per gli scienziati di Opera che hanno trovato un connettore male avvitato e un orologio non sincronizzato nel loro esperimento e che dovranno rimettere in discussione le misurazioni sui neutrini più veloci della luce, vale oggi la didascalica massima di Giulio Verne in Viaggio al centro della terra: «La scienza ragazzo mio è fatta di errori. Ma sono errori utili perché passo dopo passo ci portano alla verità». Lo stesso Antonio Ereditato, responsabile di Opera, ieri commentava: «Di quei problemi negli strumenti ci siamo accorti da soli». Se è vero che sbagliando la conoscenza ha fatto i suoi progressi (e qualche scienziato è arrivato al Nobel), resta anche indiscusso che fra errore e scivolone la differenza non è da poco.
Lo stesso Antonio Ereditato, responsabile di Opera, ieri commentava: «Di quei problemi negli strumenti ci siamo accorti da soli. Ben altra figura avremmo fatto se qualcuno fosse arrivato a indicarceli da fuori, o se avessimo agito con poca trasparenza».
Se è vero che sbagliando la conoscenza ha fatto i suoi progressi (e qualche scienziato è arrivato al Nobel), resta anche indiscusso che fra errore e scivolone la differenza non è da poco. «Da un lato c´è la fesseria, dall´altro quel margine di incertezza che non potrà mai essere eliminato» spiega Giovanni Battimelli, storico della scienza della Sapienza di Roma. «Quando in un esperimento complesso come quelli della fisica odierna ci sono 750mila connessioni elettriche, una finisce sempre per non funzionare».
Lo stesso neutrino - definito "la particella più vicina al niente che esista" - è venuto alla luce in un contesto a dir poco confuso. Il suo papà, il fisico teorico Wolfgang Pauli, veniva preso in giro dai colleghi perché ogni esperimento cui si avvicinava cessava di funzionare. Dopo aver teorizzato l´esistenza del neutrino nel 1920, Pauli per primo scosse la testa e - in uno dei più famosi errori della scienza - scommise una cassa di champagne che nessun esperimento l´avrebbe mai trovato.
Se il connettore male avvitato nel Laboratorio del Gran Sasso ricada fra le fesserie o fra gli sbagli ineludibili resta al momento un segreto ben custodito dalle viscere della montagna abruzzese. «Non sappiamo in che posizione fosse il connettore mentre facevamo le misurazioni» spiega Francesco Terranova, ricercatore di Opera. «Ha fatto registrare delle anomalie dopo che siamo andati a toccarlo per i nostri controlli». Ma visto che nella scienza il principale antidoto contro lo sbagliare è il perseverare, l´esperimento sulla velocità dei neutrini verrà ripetuto in un laboratorio americano, uno giapponese e di nuovo al Gran Sasso. Il fascio partirà dal Cern di Ginevra alla fine del prossimo marzo. E c´è da scommettere che il rivelatore Opera, che il 23 settembre scorso aveva fatto vacillare la teoria della relatività speciale di Einstein, per quella data avrà tutti i connettori ben avvitati e gli orologi sincronizzati.
Nell´arte di inciampare per arrivare alla verità, gli scienziati del Gran Sasso sono d´altronde in buona compagnia. Dal 2001 al 2011 gli studi ritrattati dalle riviste scientifiche dopo la scoperta di un errore si sono moltiplicati di 15 volte (gli articoli pubblicati sono aumentati solo del 14%), rivela uno studio di Reuters e Wall Street Journal. Quando una pubblicazione viene ritirata, stessa sorte subiscono tutti gli esperimenti che su di essa si erano basati successivamente. Ecco perché i dati falsificati su un tipo di vaccino anticancro nel 2011 hanno fatto finire nel cestino altri 18 studi e un decennio di esperimenti alla Mayo Clinic.
Fra gli esempi di scienziati che hanno ragione anche quando hanno torto, c´è poi una storia meno edificante di quella di Einstein ma ugualmente paradossale. La ripercorre David Goodstein nel libro appena uscito da Dedalo Edizioni Il Nobel e l´impostore. Il fisico Robert Millikan non solo era «accusato di sciovinismo, maschilismo, antisemitismo e maltrattamenti nei confronti dei suoi studenti», ma aveva anche la cattiva abitudine di "cucinare" i dati. Pubblicava cioè solo quelli che facevano comodo alle sue illazioni, scartando tutti gli altri. Di vizio in vizio, Millikan arrivò alla misurazione della massa dell´elettrone considerata corretta ancora oggi. E vinse il Nobel nel 1923.
Il suo non fu l´unico riconoscimento dell´Accademia svedese delle scienze offuscato dall´ombra di un errore. Lo stesso Enrico Fermi si fece trascinare da Orso Maria Corbino, fisico e politico durante il Ventennio, verso l´annuncio (errato) della scoperta degli elementi transuranici, ottenuti bombardando atomi pesanti con i neutroni. «La speranza di Corbino - spiega Carlo Bernardini, scienziato dell´Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e della Sapienza - era creare un nuovo elemento da battezzare "Mussolinio". Presto però ci si rese conto che questi atomi hanno una vita media brevissima, e si decise di soprassedere». La scoperta dei transuranici, che rientra tra le motivazioni del pur indiscutibile Nobel, fu smentita dieci giorni dopo l´assegnazione del premio.
Se esperimenti ed errori sono abituati ad andare a braccetto («Non c´è niente di male, uno dei punti di forza della scienza è la capacità di correggere i suoi sbagli» diceva l´astrofisico Carl Sagan), c´è un dato più preoccupante che emerge da uno studio del Journal of Medical Ethics. Negli studi di medicina e biologia gli errori in buona fede sono raddoppiati tra il 2004 e il 2009, mentre le frodi si sono moltiplicate di sette volte.
L´esempio più ingenuo di medico truffatore è forse quello di William Summerlin dello Sloan-Kettering Cancer Center, che sosteneva di aver trapiantato frammenti di pelle di topolini neri in topolini bianchi senza provocare alcun rigetto. Ma che un giorno del 1974 venne trovato col pennarello in mano (oggi in varie frodi è emerso l´uso di Photoshop). Esistono però anche errori che creano seri problemi alla salute pubblica. Lo studio che dimostrava un legame fra vaccino trivalente e autismo fu pubblicato 13 anni fa dall´autorevole rivista medica inglese The Lancet, provocando in Gran Bretagna un boom di casi di morbillo fra i bambini privi di profilassi. Ci sono voluti 12 anni affinché il giornale ritirasse lo studio e accusasse di «grave scorrettezza professionale» il suo autore Andrew Wakefield, oggi bandito dall´esercizio della medicina.
Il vaccino che la scienza usa per difendere se stessa da frodi e sbagli si chiama "peer review", ed è un filtro usato dalle riviste per pubblicare solo studi a prova di errore. Prima di essere stampate, le bozze degli esperimenti vengono inviate a due o tre esperti (i "referee") che anonimamente e gratuitamente scrivono la loro valutazione. «È un compito che viene preso molto sul serio - spiega Paolo Giubellino, fisico del Cern e dell´Infn che ha svolto il ruolo di referee per diverse riviste - e comporta due o tre giorni di lavoro. Non basta leggere la bozza dell´articolo, bisogna assicurarsi che anche il metodo seguito sia corretto. Quanto a riprodurre i risultati, però, quello è oggettivamente impossibile». Se il peer review serve a mantenere la scienza sul giusto binario, c´è un altro metodo che Bernardini ritiene infallibile: «Il pettegolezzo. Quella degli scienziati è una comunità intellettualmente democratica. Se c´è un truffatore, presto si viene a sapere. E la via più infallibile resta il gossip».

Repubblica 24.2.12
Ai giorni nostri i problemi sono spesso dovuti alle tecnologie radicalmente nuove
La ricerca è piena di abbagli ma alla fine si corregge sempre
di Marco Cattaneo


La cattiva notizia, se vogliamo, ma già lo si sapeva, è che la scienza può sbagliare. La buona è che il metodo con cui procede è così straordinariamente collaudato che essa stessa riesce a porre rimedio ai propri errori. È questo, d´altra parte, il messaggio del "provando e riprovando" che Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani, allievi di Galileo Galilei, avevano adottato nel 1657 quando fondarono l´Accademia del Cimento: qui "provare" non significa tentare, ma dimostrare, argomentare, e così "riprovare" non sta per ritentare ma per rigettare, scartare le ipotesi che si dimostrano sbagliate. Sarà Popper, molto più tardi, a parlare di "falsificabilità" come limite di demarcazione tra ciò che è scienza e ciò che non lo è. Il cammino della conoscenza scientifica è costellato di errori, a volte terribilmente grossolani, altre volte incredibilmente dannosi.
Per secoli, d´altra parte, abbiamo creduto che la Terra fosse immobile al centro dell´universo, e fino a Galileo i nostri antenati credevano che gli oggetti più pesanti cadessero più velocemente. Sempre in quegli anni, il fisiologo britannico William Harvey scoprì che il "motore" della circolazione sanguigna era il cuore, e non il fegato, come si era creduto fino ad allora. Qualche anno più tardi, e per quasi un secolo, per spiegare l´infiammabilità dei materiali si fece ricorso a un misterioso - e inesistente - principio di infiammabilità, il flogisto. La passione per le entità enigmatiche, peraltro, si protrasse fino all´inizio del ´900, quando i fisici cercavano disperatamente prove dell´etere luminifero, l´ipotetico mezzo attraverso il quale dovevano propagarsi le onde elettromagnetiche.
Per arrivare più vicini ai nostri giorni, per decenni nessuno diede grande importanza al Dna, scoperto nel 1869, perché sembrava troppo insignificante per trasportare tutte quelle informazioni. Il vero segreto della vita doveva nascondersi nelle proteine: loro dovevano essere la chiave dell´ereditarietà… Furono Watson e Crick, nel 1953, scoprendone la struttura molecolare, a chiarire che invece era proprio il Dna a contenere tutta l´informazione per produrre un organismo vivente. Frattanto, negli anni venti, veniva commercializzato un farmaco miracoloso che si dimostrava efficace contro un impressionante spettro di patologie. Si chiamava Radithor, e come suggerisce il nome era a base di radio, l´elemento radioattivo scoperto pochi anni prima da Pierre e Marie Curie. Ne furono vendute 400mila confezioni, prima che si scoprisse che il suo consumo in dosi massicce portava alla morte per avvelenamento da radiazioni…
E come non ricordare, più di recente, due scoperte annunciate con grande clamore e poi smentite o rientrate in un limbo da cui ancora non sono uscite. Era il 1989 quando Martin Fleischmann e Stanley Pons, dell´Università dello Utah, annunciavano trionfalmente i risultati dei loro esperimenti sulla fusione fredda, ma molti altri laboratori non riuscirono a replicare i loro risultati. Un anno prima aveva suscitato scalpore la pubblicazione su Nature di un articolo di Jacques Benveniste in cui si descriveva un fenomeno poi passato alle cronache come "la memoria dell´acqua", che avrebbe appunto conservato traccia delle molecole che vi erano state disciolte. Soltanto una settimana dopo la prestigiosa rivista fece marcia indietro, con un articolo firmato - tra gli altri - dal suo stesso leggendario direttore, John Maddox, in cui si dimostrava che le conclusioni del team di Benveniste erano la conseguenza di errori sistematici, esperimenti mal condotti, selezione dei risultati. E negli ultimi anni il numero delle pubblicazioni ritirate o smentite dalle riviste scientifiche è in crescita vertiginosa.
A ben vedere, però, l´anomalia riscontrata nella strumentazione di Opera, che sembra compromettere i risultati sulla velocità superluminale dei neutrini annunciati in settembre, non ha nulla di paragonabile con nessuno di questi errori. Si può assimilare, piuttosto, a problemi di natura tecnologica, come la saldatura tra due magneti che provocò un´ingente fuoriuscita di elio dal Large Hadron Collider di Ginevra nel 2008 o l´O-ring che causò l´esplosione in volo del Challenger nel 1986 con la morte dei sette membri dell´equipaggio.
E forse è questa la prima riflessione che dobbiamo fare, quando ci accostiamo alla scienza sperimentale dei giorni nostri. Rispetto a un secolo fa, ma anche molto meno, la complessità delle macchine che siamo in grado di costruire è quasi sempre basata su tecnologie radicalmente nuove, per poterci avventurare in territori inesplorati, perché questa è la missione della scienza. Per questo è infinitamente più facile che funzioni il frullatore di casa anziché un colossale acceleratore di particelle. A nostra parziale consolazione, prima o poi sono proprio le procedure della scienza a dirci dove abbiamo sbagliato.

Corriere della Sera 24.2.12
Gramsci, manca un quaderno
di Luciano Canfora


I Quaderni del carcere di Antonio Gramsci giunsero a Togliatti, da Mosca, il 3 marzo 1945. Il viceministro degli esteri sovietico, Vladimir Dekanozov, scrive il 20 aprile 1945 all'ufficio informazione internazionale del Pcus: il 3 marzo sono stati consegnati a Ercoli (cioè a Togliatti) 34 quaderni dei lavori di Antonio Gramsci. La lettera di Dekanozov fu pubblicata da Giulietto Chiesa su «La Stampa» il 12 maggio 1992.
Il 29 aprile '45, al Teatro San Carlo di Napoli, Togliatti in persona, nel corso di un epocale comizio che si apre con una commemorazione di Gramsci, annuncia: «Egli ci ha lasciato un patrimonio letterario prezioso, il risultato di questo suo lavoro, di questi suoi studi: 34 grossi quaderni, come questo — eccone uno — coperti di una scrittura minuta, precisa, uguale». (Il testo di questo discorso si può leggere nel volume: Palmiro Togliatti, Antonio Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1972, pagina 45).
La testimonianza è preziosa. Togliatti, che ha ricevuto i Quaderni da circa due mesi, decide di «lanciare» la grande notizia in una circostanza molto solenne: celebra la vittoria definitiva sul fascismo (Mussolini è stato ucciso il giorno prima) e l'anniversario (27 aprile) della morte di Gramsci. E decide addirittura di mostrare al pubblico uno dei Quaderni. E annuncia: «Noi in questi giorni siamo nuovamente venuti in possesso di questo capitale prezioso che a grande fatica riuscimmo al momento della morte di Gramsci a strappare al carcere ed imprenderemo la pubblicazione di questo materiale il quale arrecherà una sorpresa a molti per l'acutezza e la profondità dell'analisi, per l'audacia delle conclusioni».
Tutti e 34 i quaderni sono coperti di una «scrittura minuta, precisa». Dunque nel computo Togliatti non include i due quaderni «lasciati completamente in bianco» (evocati da Gianni Francioni sull'«Unità» il 2 febbraio scorso).
Dunque i Quaderni erano per l'appunto 34: trenta di ricerche e riflessioni, quattro di traduzioni. (Invece, l'edizione Gerratana — che esclude i 4 di traduzioni — comprende solo 29 quaderni «di lavoro teorico»). Se computiamo i 4 di traduzioni (A, B, C, D) si giunge a 33. Se si aggiungono i due «bianchi» si sale a 35. Comunque non a 34; e nemmeno si scende ai 32 indicati quattro volte nella Relazione sui quaderni del carcere di Felice Platone («Rinascita», anno III, aprile 1946, pagina 81).
Inoltre né 32 né 34 sono cifre «tonde» o approssimative. E Togliatti non pare fosse un tipo approssimativo. Il problema sollevato da Franco Lo Piparo nel suo recente saggio per Donzelli, dal titolo un po' ad effetto I due carceri di Gramsci, è dunque fondato. A meno che non si debba includere nel computo il registro consegnato da Tania, peraltro tuttora inedito.
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il Fatto Saturno 24.2.12
Leo Strauss e Karl Löwith
L’Itaca dei filosofi
di Marco Filoni


FIGURE IMPONENTI. Karl Löwith e Leo Strauss sono due pensatori che hanno segnato il Novecento filosofico. Un secolo che però non ha ricambiato la cortesia. O, almeno, non è stato benevolo con i loro destini. Ombre tetre di decenni bui, che i due filosofi hanno tentato di fuggire. Inutilmente. Quelle ombre li hanno inseguiti, determinandone le vite e il pensiero. Per avere un’idea di quanto sia sottile quella linea che divide l’uomo e l’evento, ora si può leggere l’illuminante carteggio fra i due. Bello il titolo, Oltre Itaca; godibile la traduzione di Manuel Rossini, al quale si deve anche l’apparato di note; gradevolissima e documentata l’introduzione di Carlo Altini, acuto studioso a cui riesce di valorizzare i grandi temi che emergono dalle lettere. Come nota lo stesso Altini, gli scambi epistolari fra filosofi sono spesso un po’ pettegoli, legati più a questioni pratiche. Non è questo il caso di Löwith e Strauss, che invece affrontano nelle loro lettere le grandi questioni. Ci sono tutti i temi più importanti: la crisi del moderno, quindi la concezione stessa della filosofia. E poi: l’interpretazione heideggeriana e quella di Nietzsche; il rapporto fra storia, natura e modernità; la differente concezione della relazione fra uomo e mondo – ovvero la declinazione, in un linguaggio post-heideggeriano, del rapporto fra storia e natura. Ma ciò che più emerge con forza è la condizione vissuta e pensata dai due, quella espressa nella tensione fra il cosmopolitismo (ai quali i due sono costretti dagli eventi storici: entrambi ebrei, entrambi costretti a fuggire dalla Germania nazista) e il radicamento. Come scrive Altini, «la parola chiave è qui “emigrazione”, intesa però non solo nel senso immediato e comune del termine, ma anche nel suo significato metaforico: si tratta, infatti, di un’emigrazione che non consiste esclusivamente in una condizione concreta di vita, ma in una categoria dello spirito e dell’esistenza morale». Qui perciò non c’è soltanto il vissuto umano, quanto la ricerca di una risposta al disorientamento culturale causato da ciò che accadeva, dalle radicali trasformazioni politiche e sociali. Per questo motivo “emigrazione” equivale, nei due filosofi, a “esilio”, «un esilio cui non corrisponderà mai alcuna Itaca e i cui peripli saranno sempre infiniti, senza una casa cui far ritorno definitivo» (ancora Altini). Risulta chiaro allora il titolo, felice, di questo carteggio: Itaca è un luogo dello spirito, il pensiero di un’origine che i due non riescono a rintracciare: né nella patria tedesca, né nella fragilissima modernità infranta dalla storia, né nella filosofia, fosse anche quella di Atene o di Gerusalemme (l’ebraismo). In queste lettere vi sono alcuni dei momenti più alti, e insieme tormentati, della filosofia novecentesca. Per scoprire, con Löwith e Strauss, che «Itaca, la mèta cui anelare, sarà sempre spostata di lato rispetto al luogo in cui vive il presente, mèta vicina e visibile, desiderata e temuta, ma comunque irraggiungibile».
Leo Strauss-Karl Löwith, Oltre Itaca. La filosofia come emigrazione. Carteggio (1932-1971), Carocci, pagg. 214,

Repubblica 24.2.12
Il made in Italy della filosofia
Se per capire la politica tutti leggono i nostri libri
di Roberto Esposito


Antologie, convegni, traduzioni: ecco perché oggi i pensatori italiani vengono studiati e citati dagli Usa all’Australia
Il paradosso è che proprio ora quando tutto sembra in mano a tecnici ed economisti vengono ascoltati gli intellettuali che affrontano questi temi

Può apparire paradossale che mentre i filosofi italiani vengono invitati a scrivere in inglese dagli organi di valutazione accademica, la più aggiornata cultura filosofica americana da qualche anno parla italiano. Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti. Non passa mese che in America non escano traduzioni, monografie e fascicoli di rivista dedicati alla Italian Theory, mentre si celebrano a ripetizione convegni su di essa, come recentemente alla Università di Cornell (The Common in Contemporary Italian Thought) e del Massachussets (Italian Social Theory), per non parlare di quello a New York sul New Realism. Dopo la pubblicazione del volume collettaneo Italian Difference (Melbourne 2009), della rivista Angelaki (Routledge 2011) su Italian Thought Today, degli Annali di Italianistica 2012 di Chapel Hill su Italian Critical Theory, dell´annata 2012 di Law, Culture and the Humanities, consacrata al pensiero italiano, è in uscita un altro fascicolo di "Diacritics" – la stessa rivista che negli anni Ottanta ha lanciato Derrida e i decostruzionisti francesi – sempre sulla Italian Theory. Quando anche sulla copertina di Foreign Affairs è apparso il volto di Croce (ne ha parlato su queste pagine Angelo Aquaro) – in corrispondenza con la pubblicazione del libro di B. e R. Copenhaver From Kant to Croce. Modern Philosphy in Italy (University of Toronto Press) – non è rimasto che prendere atto della cosa. Può piacere o meno, ma mentre si lamenta ritualmente l´arretratezza dei nostri studi, i filosofi italiani sfondano in America – non tanto nei dipartimenti di filosofia, ancora dominati dalla linea analitica, ma nell´ambito degli studi politici e sociali, dell´arte e della letteratura, postcoloniali e di genere.
Come si spiega questa svolta che muta radicalmente il panorama, cui fino a qualche anno fa eravamo assuefatti, di un Paese culturalmente emarginato? Cosa cercano, e cosa trovano, gli americani – ma il fenomeno è in rapida diffusione dovunque, dal Giappone al Brasile, dall´Australia alla Corea – nell´Italian Theory? Per rispondere a questa domanda è necessario innanzitutto richiamare il carattere non nazionale – ed anzi tendenzialmente antinazionale – del pensiero italiano. Fin da sempre – dalla stagione rinascimentale – la filosofia italiana ha guardato oltre i propri confini, irradiandosi all´esterno e contaminandosi con altre tradizioni. Ciò è dovuto innanzitutto all´assenza, per secoli, di uno Stato nazionale. Naturalmente questo elemento di extraterritorialità è stato spesso visto come una forma di ritardo storico rispetto ad altri, più precoci, contesti nazionali. Ma, al contempo, ha liberato il nostro pensiero da vincoli politici ed istituzionali che hanno condizionato altre filosofie. In Italia è mancato un pensiero dello Stato come quello di Hobbes o di Hegel – ma proprio perciò la politica è stata colta, da Machiavelli fino a oggi, nella sua energia sorgiva e nella sua forza creativa.
Allorché la globalizzazione ha ridimensionato pesantemente il rilievo degli Stati nazionali, una filosofia come quella italiana, fin da sempre orientata a pensare la politica prima e oltre lo Stato, si è trovata in una condizione migliore per afferrare le dinamiche contemporanee. Anche a prescindere da una valutazione di merito, un libro come Impero di Negri e Hardt ha questo sguardo globale, una capacità sintetica di cogliere la situazione del tempo che travolge le (a volte giuste) cautele analitiche, spostando di colpo lo scenario filosofico-politico. Se in Impero gli americani hanno riconosciuto, a ragione o a torto, il profilo espansivo dell´età di Clinton, in Stato di eccezione di Agamben hanno trovato quello, inquietante, dell´epoca di Bush.
A questo primo elemento ne va subito aggiunto un altro, anch´esso radicato nella nostra tradizione – vale a dire la tendenza a rompere gli steccati disciplinari con una inventività semantica assente in altre culture, irrigidite in ambiti specialistici senza contatto reciproco. Il successo mondiale di Umberto Eco, filosofo, semiologo, romanziere va interpretato anche in questa chiave transdisciplinare. Ciò vale, altrimenti, pure per il cosiddetto "pensiero debole", esportato fuori Italia soprattutto da Gianni Vattimo, capace di oltrepassare gli steccati dell´Accademia in direzioni molteplici che vanno dall´estetica a una certa teologia secolare, passando per gli studi queer e di genere. Come del resto è accaduto al femminismo italiano, conosciuto ed apprezzato in America soprattutto per i lavori di Adriana Cavarero. E l´attenzione per il Nuovo Realismo, di cui è in uscita da Laterza il "Manifesto" di Maurizio Ferraris, si inquadra all´interno dello stesso fenomeno. Ciò si accompagna all´interesse che nell´ultimo quindicennio ha investito l´interpretazione italiana della biopolitica. Teorizzata da Michel Foucault alla metà degli anni Settanta, questa categoria, rimasta in latenza per circa un ventennio, ha dovuto aspettare alcune interpretazioni italiane per conoscere una fortuna internazionale senza precedenti.
Alla sua origine, e con tutte le riserve che si possono legittimamente avanzare nei suoi confronti, vi è una singolare attitudine a coniugare uno sguardo radicale sull´attualità con paradigmi di portata generale, a partire da quelli di vita biologica e di natura umana nel loro rapporto ambivalente con il potere. Ancora una volta questo passaggio teoretico ha risposto a un mutamento profondo nella esperienza contemporanea, vale a dire alla rottura, ormai consumata, delle paratie che a lungo hanno separato scienze umane e scienze naturali, teoria e prassi, logica e storia. Se ci si riflette, il concetto di biopolitica è stato forse il primo a saldare, nel suo stesso nome, una frattura che ha percorso l´intero sapere occidentale.
Ma c´è ancora un punto da mettere in risalto, che riguarda il rapporto tra sapere e potere. Il pensiero italiano, fin da sempre, ha avuto una relazione tesa e agitata col potere, politico ed ecclesiastico. Machiavelli, come già Dante, è stato esiliato, Bruno bruciato, Galileo processato, Campanella imprigionato. Ma ancora nel Novecento, Croce si è opposto al regime, mentre Gramsci e Gentile, ai lati opposti della stessa barricata, hanno dato la vita per la propria filosofia. Ciò spiega che proprio nella fase forse più opaca della nostra recente storia politica, la filosofia italiana abbia prodotto alcuni dei suoi frutti migliori. Quello italiano, più che del potere, è un pensiero della resistenza. Non a caso uno dei filoni su cui oggi si concentra la curiosità degli scholars americani è quello operaista, originato dal volume Operai e capitale di Mario Tronti. Naturalmente ciò che in tale linea di pensiero ancora coinvolge non è la strategia per una classe operaia scomparsa in quanto tale, o profondamente mutata, da tempo. Quella che vi cercano gli studenti americani, ma anche i movimenti di protesta che riempiono le piazze di mezzo mondo, è una teoria della soggettività politica orientata al conflitto. In un mondo sempre più diviso tra poveri e ricchi e sempre più bloccato nelle griglie dell´economia finanziaria, la filosofia italiana insegna da cinquecento anni che l´ordine non esclude il conflitto e che anzi solo quest´ultimo, se trattenuto nei confini della politica, può conferire ad essa la vitalità che sembra aver smarrito. Del resto già altre volte è accaduto di verificare una singolare asimmetria tra prassi politica effettiva e pensiero sulla politica: proprio quando, come nell´Italia di questi tempi, la politica sembra tacere, sovrastata dall´intreccio di tecnica ed economia, la filosofia politica sembra ritrovare, anche per reazione, uno slancio creativo che in altri momenti le manca.

Repubblica 24.2.12
Il parricidio di Euclide
Così nell’Ottocento i matematici costruirono un altro spazio
di Piergiorgio Odifreddi


Un saggio di Bartocci racconta la rivoluzione delle nuove geometrie e i cambiamenti che portarono
Tra i protagonisti del secolo "lungo" Riemann e Hilbert che aprirono la strada alle idee di Gödel e poi di Turing

Nel gennaio del 1962 Michael Atiyah, all´epoca un giovane ricercatore, domandò a un ancor più giovane ricercatore, Isadore Singer, perché una certa quantità geometrica fosse un numero intero. La sorpresa risposta fu: "Perché me lo domandi? Lo sai meglio di me!". Ma ancor più sorprendente fu la controrisposta: "C´è una ragione più profonda!". Il cammino comune iniziato da quello scambio sfociò qualche mese dopo nel famoso "teorema di Atiyah e Singer", che valse al primo la medaglia Fields nel 1966, e a entrambi il premio Abel nel 2004.
La storia è uno degli aneddoti preferiti di Claudio Bartocci, che ne ha raccontato i dettagli nel capitolo "Le ragioni profonde della matematica" del collettaneo Vite matematiche (Springer-Verlag Italia, 2007). E la ricerca delle "ragioni profonde", questa volta della costellazione di idee e risultati che hanno portato nell´Ottocento al parricidio di Euclide e alla creazione della geometria non euclidea, costituisce ora il filo conduttore del suo primo, sapiente e profondo libro da autore: Una piramide di problemi. Storie di geometria da Gauss a Hilbert (Cortina).
Bartocci, come si sarà capito, è un matematico: un geometra algebrico, per la precisione. Ma mai precisione è stata tanto imprecisa, quanto quest´angusta definizione di un intellettuale che realizza concretamente l´ideale astratto descritto dalle espressioni "uomo di multiforme ingegno", "umanista rinascimentale" e polymath. Bartocci sembra conoscere tutto e lo dimostrano due sue opere di curatela. Da un lato, l´originale raccolta di Racconti matematici (Einaudi, 2006), che spazia da Borges e Cortázar a Pynchon e Saramago. E, dall´altro lato, l´enciclopedica Grande Opera in quattro volumi La matematica (Einaudi, 2007, 2008, 2010 e 2011), di cui ha pazientemente commissionato e personalmente editato il centinaio di contributi, assommanti a 3.467 pagine di testo!
Non stupisce che, con la sua voracità di lettore, un sesto del suo nuovo libro consista di una bibliografia di 60 pagine, modestamente descritta come "senza alcuna pretesa di completezza", e "limitata ai testi consultati". Un apparato così sterminato è giustificato dalla convinzione programmatica di Bartocci, che "l´evoluzione delle idee matematiche non segua né un cammino lineare e progressivo, né un percorso accidentato attraverso un paesaggio di concezioni universalmente condivise, ma sia al contrario un pulviscolo costituito da una miriade di traiettorie più o meno autonome, vicoli ciechi e piste sotterranee, che si intrecciano in un labirinto pluridimensionale, dalla topologia incerta e mutevole".
All´interno di questo labirinto, Bartocci traccia un percorso diacronico e uno sincronico, rispettivamente di lunga e di breve durata. Il primo, che gli serve a stabilire le colonne d´Ercole temporali della sua Odissea nello spazio geometrico, parte da un risultato di Euclide che tutti abbiamo imparato a scuola, anche se molti se lo saranno dimenticato: il fatto che due triangoli con la stessa base e la stessa altezza, hanno la stessa area.
Con quest´ultima espressione, "avere la stessa area", noi intendiamo di solito che, per i due triangoli in questione, il prodotto della base per l´altezza (diviso per due) è lo stesso. I Greci, invece, intendevano anche che si possono scomporre i due triangoli in uno stesso numero di pezzi uguali. Più precisamente, che si può scomporre uno dei due triangoli in un numero finito di triangolini, che si possono poi ricomporre nell´altro triangolo.
L´analogo tridimensionale dei triangoli, sono i tetraedri: cioè, le piramidi a quattro facce triangolari, che Dante chiamava "tetragoni" e usava in senso figurato, come nel verso "tetragono ai colpi di ventura". I Greci sapevano che due tetraedri con la stessa base e la stessa altezza hanno lo stesso volume, ma la dimostrazione di Euclide non è per niente immediata, com´era invece nel caso dei triangoli. Nel 1899 David Hilbert chiese se si può sempre scomporre uno dei due tetraedri in un numero finito di tetraedrini, che si possono poi ricomporre nell´altro tetraedro. La risposta è no, e la diede quello stesso anno Max Dehn.
Il libro di Bartocci si apre con il problema dei triangoli, e si chiude con quello dei tetraedri, a indicare che alcuni fili del tessuto della matematica percorrono tutto il suo ordito, dall´antichità alla contemporaneità. Il corpo del suo discorso è però dedicato, nel secondo percorso, a dipanare l´aggrovigliata matassa della geometria dell´Ottocento, da lui stesso definito «il secolo "lungo" nel quale affondano le radici della nostra modernità».
L´aggrovigliamento è duplice. Da un lato, infatti, i fili dei contributi individuali si intrecciano fra loro, completandosi a vicenda come tessere parzialmente sovrapponibili di un grande puzzle. Dall´altro lato, vari fili escono da quel particolare groviglio per penetrare in altri, contribuendo a dare un´impressione non ingenuamente romantica, ma maturamente realistica, della matematica come un "groviglio di grovigli". E Bartocci si dedica, con perizia e acume, a mostrare "gli avventurosi percorsi di ricerca che conducono ai teoremi, le questioni che in tutto o in parte li motivano, le idee che li innervano, il nugolo di interrogativi che ne scaturiscono".
Scorrono così, nei nove capitoli e nelle 85 pagine di note, le quasi millenarie intuizioni del matematico poeta Omar Khayyam, più noto al mondo per le sue Rubaiyat. Le anticipazioni ignare di padre Girolamo Saccheri, che credeva di rifondare Euclide mentre lo stava minando. Quelle semiconsce di Johann Lambert, che come Mosè intravide la Terra Promessa senza riuscire a entrarci. I risultati maturi di Gauss, tenuti segreti per "non sollevare le strida dei Beoti". Le uscite allo scopertodi Jànos Bolyai e Nikolaj Lobacevskij, oggi considerati gli scopritori ufficiali della geometria non euclidea. E i modelli di Eugenio Beltrami, alcuni ritrovati per vie traverse da Felix Klein e Henri Poincaré, che permisero di visualizzarla.
Ma le analisi più raffinate Bartocci le dedica ai due veri protagonisti del suo libro: Berhard Riemann e David Hilbert. Al primo, per le connessioni tra il suo pensiero matematico e quello filosofico di Johann Herbart: un singolare esempio di un possibile fecondo interscambio tra le due discipline. E al secondo, per i suoi ormai classici Fondamenti di geometria del 1899, che aprirono in sequenza la strada alla metamatematica, ai teoremi di Gödel e Turing, e dunque in ultima analisi all´informatica! A dimostrazione dell´assunto fondamentale di Bartocci, che la matematica del passato "non è morta e imbalsamata, copia derisoria di se stessa come la triste tigre impagliata di un museo zoologico d´antan, ma è al contrario ancora palpitante di vita".

La Stampa.24.2.12
Dai dogi all’Fbi l’informazione è potere
L’imperialismo della comunicazione è nato nella Venezia del Seicento
di Massimiliano Panarari


L’ informazione è potere», dichiara uno stentoreo Leonardo DiCaprio, alias J. Edgar Hoover, all’inizio dell’ultimo film di Clint Eastwood. E anche i più refrattari all’idea, tra gli abitanti della nostra epoca postmoderna (in cui vige, giustappunto, l’«imperialismo della comunicazione»), se ne sono dovuti fare una ragione.
Ma a scoprire più o meno per primi questa equazione, vari secoli or sono, furono già i membri della classe dirigente della Serenissima, come racconta il libro appena uscito dello storico Filippo De Vivo, Patrizi, informatori, barbieri. Politica e comunicazione a Venezia nella prima età moderna (Feltrinelli, pp. 468, 35). Un saggio ponderoso che, a partire da un episodio, ricostruisce la genesi di un binomio destinato a contraddistinguere tutta la storia politica a venire (fino ai parossismi epistemologici, oltre che spionistici, delle società postdemocratiche).
Nell’aprile del 1606, dopo un periodo di tensioni crescenti tra Santa Sede e repubblica di Venezia - originate dalle dispute sull’estensione delle proprietà ecclesiastiche e sulle competenze in materia giudiziaria - papa Paolo V trasforma in casus belli l’arresto, disposto dal Consiglio dei Dieci, di un abate e di un canonico (rispettivamente accusati di omicidio e di tentata violenza carnale e lesa maestà), scomunicando il doge e il Senato e proclamando l’interdetto dello svolgimento delle funzioni religiose in tutto il territorio da loro amministrato. Una delle crisi più serie nella storia della potente e ricca repubblica mercantile, destinata a scatenare, come mai prima di allora, una impressionante guerra di intelligence, persuasione e controinformazione tra i due Stati antagonisti, che ne fa un caso da manuale di comunicazione politica e un illustre antecedente delle tecniche di spin doctoring. Perché, come spiega l’autore che insegna al Birckbeck College dell’Università di Londra, Venezia era, più di qualsiasi altro luogo, il teatro ideale per uno scontro «ad alto tasso comunicativo».
In primis, a causa del carattere repubblicano del suo regime politico, retto da numerosi consigli di ogni ordine e grado, i quali, prima di deliberare, discutevano a lungo, con la conseguente particolare attenzione portata dall’élite locale all’eloquenza e al controllo di quelle che oggi chiameremmo news - tanto che il termine «comunicazione» aveva, nel linguaggio politico, un significato molto preciso, e indicava il meccanismo, meticolosamente regolamentato, per il passaggio di informazioni tra i diversi consigli deliberativi. Da cui derivava, non a caso, l’autentica ossessione per le fughe di notizie e per la segretezza delle comunicazioni, che l’ampiezza del patriziato e delle rappresentanze diplomatiche e consolari in giro per il mondo di questo impero commerciale mettevano continuamente a repentaglio. E, in secondo luogo, per la sua natura di metropoli, una delle principali dell’epoca moderna (arrivata a 180 mila abitanti prima della peste del 1576), e di culla della prima industria editoriale in senso proprio della storia dell’Occidente, che ne faceva la sede di una molteplicità di «mass media» destinati anche alla larga parte della popolazione esclusa dal governo oligarchico della cosa pubblica. Proprio il popolo, difatti, costituì l’«oggetto del desiderio» dei due competitor di questo conflitto dell’Interdetto di risonanza internazionale, uno dei quali - il Pontefice - invitava tutti i «buoni cristiani» alla sollevazione contro le autorità della Serenissima. Cosa che spiega la proliferazione, davvero inusitata, di ogni forma di comunicazione politica del tempo, dai sermoni alle centinaia di libelli a stampa scritti persino in dialetto veneto. Una guerra senza quartiere per il controllo dei cuori e delle menti dei veneziani di ogniestrazione sociale che si avvalse di tutti gli strumenti possibili della propaganda ante litteram (dalla censura alla pubblicazione, dalla «strategia del diniego» ai graffiti e ai cartelli), che arruolò agitprop più o meno illustri (da Paolo Sarpi, religioso ma fedele alla repubblica veneta, ai barbieri) e dovette fare i conti con l’entropia della «comunicazione incontrollabile». Perché, come racconta in maniera assai doviziosa questo libro, nella Venezia della prima modernità la comunicazione non era semplicemente uno strumento politico, ma «la politica» stessa.


Corriere della Sera 24.2.12
Se il giudice può leggere nella mente del teste
di Luigi Ferrarella

Il test della verità sui ricordi che fa condannare l'imputato
Molestie sessuali, il giudice usa una tecnica della neuroscienza
Per la prima volta una tecnica di neuroscienza, sperimentata dal giudice sulla vittima di un reato con il suo consenso e applicata nel Tribunale di Cremona, entra in un processo non a motivare attenuanti, ma a fondare una condanna: 1 anno a un commercialista per molestie sulla stagista.

MILANO — Per la prima volta in Italia una tecnica di neuroscienza, sperimentata dal giudice sulla vittima di un reato con il suo consenso, entra in un processo penale non a motivare attenuanti per eventuali vizi di mente del condannato (come nei due già rari casi di Trieste 2009 e Como 2011), ma a concorrere alla prova d'accusa che con altre fa condannare un imputato: un anno a un commercialista accusato da una stagista di averla sessualmente molestata in ufficio.
Non c'entra la macchina della verità. Gli «Implicit association test» (Iat) esaminati dal Tribunale di Cremona sono invece finalizzati a far emergere la memoria autobiografica, l'informazione implicita-inconscia che in teoria potrebbe non essere accessibile alla coscienza del soggetto. Ma sull'attendibilità al 92% di questo metodo e sulla sua accettabilità internazionale c'è discussione. E lo stesso giudice rimarca che questo metodo può provare che la persona ha dentro di sé una certa immagine mentale, non anche che quel «vissuto» corrisponda davvero all'«accaduto».
A Cremona, accusa e difesa duellavano sulla dinamica della scena (la stagista al computer, il commercialista alle spalle), sulla tempistica (tra le 10 e le 10.15 il ritmo di invio dei files all'Agenzia delle Entrate), e in ultima analisi sull'attendibilità della ragazza, negata dal commercialista.
In questo quadro il giudice Guido Salvini ha affidato una perizia integrativa a Giuseppe Sartori, professore ordinario di Neuropsicologia clinica a Padova, tra i pionieri italiani dei rapporti tra neuroscienze e processi. Solo che stavolta la perizia consiste non solo nel consueto colloquio con la ragazza e nei test psicodiagnostici classici, ma anche nei 5 blocchi di prove al computer che compongono gli «Implicit association test».
Alla ragazza si chiede di classificare nel modo più veloce e accurato possibile le frasi (che appaiono al centro del monitor) nelle categorie «vero-falso» e «versione della difesa-versione dell'accusa», attivabili con tasti a destra e a sinistra dello schermo. La teoria è che il cosiddetto ricordo «naturale» o «compatibile» avrebbe tempi di reazione rapidi, mentre un allungamento degli infinitesimali tempi di reazione e un aumento degli errori segnalerebbero che il soggetto ha dovuto superare un conflitto cognitivo nel dare una risposta non consona al suo ricordo.
Lo scopo del quesito del giudice al perito non era farsi dire se la ragazza dicesse il vero o no, ma «verificare da un lato se avesse dentro di sé il ricordo di quanto ripetutamente narrava e d'altro lato se tale evento fosse stato potenziale causa di un danno post-traumatico da stress». I test dicono sì. Ma sono affidabili? Il giudice scrive che «falsificabilità della teoria in senso popperiano e quindi resistenza del metodo a tentativi di smentita, controllo dei lavori pubblicati da parte di revisori qualificati ("peer review"), accettabilità dei limiti di errore e accoglimento da parte della comunità scientifica» depongono a favore. Però la percentuale di successo «del 92%» ha come fonte articoli dello stesso Sartori. Nè sono specificati quali altri scienziati, ripetendo l'esperimento, ne abbiano confermato la validità: cosa diversa dalle «15mila citazioni su Google Scholar dei lavori di Greenwald», inventore dei test. Per perito e giudici il metodo soddisferebbe persino i rigidi criteri Usa della famosa sentenza Daubert. Ma essa nel sistema italiano non è criterio di vaglio delle prove scientifiche: i fautori citano una sentenza di Cassazione sul caso Franzoni (in un procedimento per calunnia di un vicino), «ma leggendola — osserva la studiosa pavese Barbara Bottalico — emerge chiaramente come la Corte abbia fatto un riferimento marginale a tale criterio, specificando anche che non fa parte del nostro sistema giuridico». Inoltre i test Iat in America «sono stati usati ben poco nei tribunali e più invece come test psicologico-sperimentali sui pregiudizi personali, specie di tipo razziale o di orientamento sessuale» ad esempio nella scelta dei giurati. Del resto lo stesso giudice Salvini scrive che il test «è strumento neutro», non in grado di escludere «che il ricordo del soggetto non corrisponda al "vero" ma sia frutto di suggestioni, autoconvincimenti o distorsioni di quanto realmente avvenuto». Però in questo specifico processo il giudice li valuta significativi di una «conferma delle prove narrative» già «raccolte nell'indagine»: specie se combinate alla «tempistica della rivelazione della ragazza, che fa escludere possa essersi formata una "falsa memoria" relativa all'evento».

La Stampa 24.2.12
Allarme, i ragazzi bevono troppo
Italiani e alcol: nella relazione del ministero preoccupa il consumo eccessivo dei giovani
di Rosaria Talarico


8,6 milioni Sono gli italiani che consumano alcol in quantità eccessiva, con seri rischi per la salute
BINGE DRINKING La «bevuta compulsiva» riguarda una ventenne su 10 e più del 20% dei maschi
65.000 alcoldipendenti. È il numero delle persone in trattamento nei servizi pubblici (dati 2009)"

ROMA Gioventù bevuta. Il consumo di alcol tra i giovanissimi è in crescita. Nella fascia di età tra gli 11 e i 15 anni, il 13,6% degli intervistati (15,2%, i maschi e 12%, le femmine) dichiara di aver bevuto almeno una bevanda alcolica nel corso dell’anno. Soggetti considerati a rischio, dato che a quell’età non dovrebbe del tutto essere prevista l’assunzione di alcol. Ancora più allarmante è la percentuale (14,6%) di ragazze tra 14 e 17 anni consumatrici di alcol, una cifra raddoppiata in 15 anni.
Sono questi i dati che emergono dalla relazione del ministero della Salute su alcol e problemi correlati, inviata ieri al Parlamento. E chissà se basta a consolarsi il fatto che comunque nel 2010 «la prevalenza di questi giovani consumatori risulta in calo rispetto ai valori registrati nel 2009 (17,0%) ». Più in generale, i bevitori fuori pasto sono notevolmente aumentati nel corso dell'ultimo decennio: dal 33,7% al 41,9% i consumatori tra i 18 e 24 anni; dal 14,5% al 16,9% quelli tra 14 e 17 anni.
Un boom di baby-bevitori, che passano con disinvoltura dal biberon ai super alcolici. È in aumento il fenomeno del «binge drinking» (locuzione inglese che si può tradurre con bere in modo compulsivo). Nel 2010 ha riguardato il 13,4% degli uomini e il 3,5% delle donne. Ma nella fascia tra i 18 e i 24 anni la percentuale di donne che lo pratica sale al 9,7%.
È lo sballo sotto forma di alcol, garantito dal consumo in breve tempo e fuori pasto di superalcolici in quantità massicce. Per fortuna, di malattie correlate all'assunzione di alcol in Italia si muore sempre meno ed anche il numero dei grandi bevitori tende a diminuire, ma il consumo continua a superarei livelli di guardia tra i più giovani.
Un allarme, quello per giovani ed alcol, che il ministro della Salute, Renato Balduzzi, intende affrontare anche attraverso progetti di educazione e prevenzione da attuare insieme al ministro dell'Istruzione Francesco Profumo e al ministro Andrea Riccardi, che ha la delega per le politiche giovanili.
I dati confermano «il passaggio dal tradizionale modello mediterraneo, con consumi quotidiani e moderati, incentrati prevalentemente sul vino, a un modello più articolato, che risente sempre più dell'influsso culturale nordeuropeo»: quello delle bevute senza controllo. Ma non è con il vino che ci si ubriaca, visto che il suo consumo in Italia si è praticamente dimezzato negli ultimi 30 anni, scendendo a meno di 40 litri a persona per un totale inferiore ai 21 milioni di ettolitri secondo i dati della Coldiretti.
Sono 8,6 milioni gli italiani che bevono troppo e che mettono a rischio la salute, con una quota consistente di oltre tre milioni anche tra gli anziani over 65. In costante crescita sono pure gli alcoldipendenti in trattamento presso i servizi pubblici. E il tasso di mortalità per cirrosi epatica (uno dei più importanti indicatori di danno correlato all’abuso di alcol) «pur essendo nel nostro Paese inferiore a quello medio europeo, è superiore a quello di alcuni Paesi dell’Ue».
Quanto ai ricoveri ospedalieri per cirrosi alcolica, tra il 2000 e il 2009 tale percentuale ha registrato una crescita di quasi 10 punti passando dal 26,30% al 36,4%. Viste le date, non vale nemmeno la scusa della crisi per dire che si beve per dimenticare.

Repubblica 24.2.12
La cocaina anti-stress usata da medici e idraulici
"La usa un lavoratore su cinque"
di Paolo Berizzi


L´allarme dei medici del lavoro: dopo i cottimisti, c´è un allargamento a tutte le categorie, anche tra chi non ha problemi ma crede di rendere di più con questa sostanza L´ultima novità: la diffusione tra gli artigiani È un fenomeno trasversale ma che sfugge alle statistiche: secondo le stime, il consumo tra i muratori del triangolo dell´edilizia lombardo è cresciuto del 50 per cento negli ultimi 10 anni Per abbattere i costi della spesa molti optano per quella da fumare, meno cara, o il crac, che si inala Diffuse anche le anfetamine, con gli stessi effetti: tengono svegli e fanno passare la fame È un doping contro lo stress: a Milano record di consumi

MICHELE viaggia tutta la settimana col Tir dalla Brianza a Monaco di Baviera. Luca è chef e prepara catering per 200 persone nelle ville venete. Giuseppe, muratore cottimista, costruisce case. Il problema è che tira su molto altro. Come Gaetano, infermiere strumentista in un ospedale di Milano: lui sniffa prima di entrare in sala operatoria.
D´altronde lo fa anche il neurochirurgo per prepararsi a un intervento di precisione al talamo. E anche Vittorio e Enzo, 73 anni in due, autisti di autobus per un´azienda con appalti nel pubblico. E poi Raffaella - non è il suo vero nome - , 42 anni, magistrato penalista, dopo 15 anni è ancora in balia dei demoni.
Sono macchine fatte di carne e vanno a cocaina. Si dopano per aumentare le prestazioni, per vincere lo stress e reggere i ritmi. La prendono a casa prima di uscire la mattina. O sul lavoro. Magari in pausa. In cantiere. Negli spogliatoi del deposito dei tram, dell´ospedale, nella cucina del ristorante. Sulla cabina del camion. Nei bagni del Parlamento (ricordate l´inchiesta delle Iene? Un parlamentare su tre positivo ai test anti droga) e del tribunale. In taxi. Prima di mettersi alla cloche dell´aereo. Con la polvere bianca riescono a lavorare anche 15 ore senza staccare: se non per uno, o più, "richiamini". C´è chi il "doping" è convinto di dominarlo, e se ne serve a piene narici. Ma poi diventa una scimmia, e ti schiaccia. È così che la droga invade il mondo del lavoro. Una categoria dopo l´altra. Chi sono i nuovi schiavi della sniffata-professionale? Quanto è diffusa?
EFFETTO PERFORMANCE
«All´uso tradizionale della coca - quello evasivo-sociale - si è affiancato, stabilmente, quello della sostanza assunta come stimolante lavorativo». Vittorio Tanzi è responsabile qualità del Crest (Centro per i disturbi della personalità e tossicomania), sede e ambulatorio a Milano, due comunità in provincia di Varese. Tra i pazienti ci sono imprenditori, manager, magistrati, piloti, operai, avvocati, artigiani, autisti, poliziotti. «Più è stressante il tipo di mestiere - in alcuni casi subentra anche il fattore frustrazione - e più è frequente il ricorso alla cocaina. Oltre a essere un eccitante è anche un contenitore dello stress e un abbattitore della fatica». Molto caro. Perché il tempo di effetto è rapido: un´ora, contro le sei dell´eroina. «Se sniffi per aumentare le prestazioni devi farlo di continuo - aggiunge Tanzi -. Il che comporta costi notevoli. Dopo un po´ la quantità che prima ti bastava, non ti basta più. Tutto questo fa sì che l´uso "performante" della sostanza non possa protrarsi per periodi molto lunghi».
I mestieri della coca hanno una storia millenaria. Che risale fino agli Inca. Nell´800 in Sudamerica i contadini masticavano foglie di cocaina per resistere alla fatica nei campi. Per una buona resa lavorativa le foglie venivano distribuite quattro volte al giorno. Tra Colombia, Perù e Bolivia - dove si producono tre quarti della cocaina del mondo - l´abitudine è intatta, benché un conto sia masticare la foglia, e un altro tirare la coca in polvere, ottenuta tramite procedimenti chimici. Tutt´altra storia è la «bamba». La chiamano così a Milano-coca-city (il capoluogo lombardo coi suoi 125mila consumatori è la capitale italiana e europea dell´assunzione di cocaina; tre volte la media nazionale). Nella sua nuova declinazione la «bamba» ha un perso la tradizionale identità. Non più (soltanto) stupefacente «voluttuario», da evasione. Piuttosto, una specie di stampella per sostenersi nel mestiere, ammortizzare lo stress, essere competitivi.
POST YUPPISMO
Come agisce la psiche di chi sniffa per lavorare? «Il periodo della coca intesa come sostanza di moda sta finendo - ragiona Riccardo Gatti, capo dell´Asl 1 di Milano, esperto di tossicodipendenze -. La sovraesposizione iniziata con lo yuppismo e il post yuppismo ha lasciato il posto anche a usi "altri". Utilizzi comuni, come quelli del doping sul lavoro. Nessuna categoria esclusa». Il cuoco che a forza di tirare non ricorda più gli ordini. La baby sitter che crede di essere più attenta. Il pilota che si spara l´eroina per spegnere la fiamma della coca. Il camionista che per stare sveglio alterna le strisce bianche con le anfetamine. «Da una parte - continua Gatti - c´è la convinzione di potere resistere a una fatica oggettiva, o percepita come tale. Dall´altra, partendo da un´insicurezza, ci si illude di riuscire ad ottenere da se stessi più di quello che si è».
Dimenticate l´immagine cinematografica del broker di Borsa che, come il "lupo di Wall Street", diventa un aspirapolvere per riuscire a seguire h24 l´andamento dei mercati. Appare stantia anche l´idea che la coca imbianchi solo un pantheon di professioni "elette" (finanza, moda, arte, spettacolo). Dice Roberto Bertolli, direttore della casa di cura "Le Betulle" di Appiano Gentile (autore con Furio Ravera di "Un fiume di coca"): «C´è un allargamento a tutte le categorie. Dopo i camionisti e i cottimisti, l´ultima novità sono gli artigiani. Idraulici, elettricisti, imbianchini. Gente che non ha particolari problemi ma crede di rendere di più prendendo la sostanza. La coca promette molto, ti offre chiavi di accesso ma poi, al massimo dopo un anno, ti presenta il conto».
TRAPPOLA TRASVERSALE
Dall´autista al medico, dal pilota al giornalista, dal carpentiere al tecnico di laboratorio, i dopati della cocaina stanno sul bordo delle statistiche ufficiali. In Italia sono censiti 2 milioni di cocainomani abituali, 700mila saltuari, il 20% della popolazione l´ha provata tra i 15 e i 23 anni e il 5% dei minorenni la usa frequentemente. Ma loro, i cocainomani da lavoro, nei numeri entrano malvolentieri. Si nascondono, la «dichiarazione di consumo» è ultima spiaggia. Ma tra i medici del lavoro c´è chi ritiene che il rapporto di un lavoratore ogni cinque - nelle categorie più esposte - sia tutt´altro che imprudente. Esempi? I muratori a cottimo nel triangolo dell´edilizia (Milano, Bergamo, Brescia), un distretto nel quale, secondo le stime, il consumo di sostanze è cresciuto, negli ultimi dieci anni, di quasi il 50%. Da Nord a Sud: a Lanciano, la metà degli utenti del Sert è costituita da operai della vicina Fiat-Sevel.
Racconta Fabio Rancati, amministratore delegato di Crest: «Mi chiama un grosso imprenditore. La normativa lo obbliga a sottoporre al test delle urine anche i mulettisti e non sa come comportarsi. Gli dico: lo devi fare. Fa fare i test, quattro operai risultano positivi alla coca. In base alla legge avrebbe dovuto segnalarli e farli curare. E invece... C´è molta sottovalutazione del rischio di danni che un lavoratore che si droga può procurare agli altri e alla stessa azienda. Io il test lo estenderei a tutte e le categorie».
L´IDENTIKIT DEL 2012
Maschio. Età media tra i 35 e i 50 anni. Socialmente e economicamente trasversale. L´identikit del tossico che si fa per lavorare abbraccia tipologie e storie pazzesche. A volte la coca è solo un motore. Altre volte, un cemento che salda insicurezze e patologie. Gli abissi di Vincenzo, il ginecologo di Napoli che in nove mesi ha pagato il suo pusher mille volte, sono finiti sui giornali. Se non aveva la striscia da stendere sotto il naso, di operare non se ne parlava nemmeno. «Ehi, è passata più di mezz´ora... come te lo devo spiegare, io non posso stare fermo», protestava al telefono con lo spacciatore. Giulio, avvocato di successo, esercita a Milano. La cocaina per lui non è solo un eccitante per l´arringa: è la molla che gli permette di masturbarsi facendo fantasie erotiche sulla figlia tredicenne. E Corrado? Un tempo era poliziotto: alto, palestrato, pieno di tatuaggi, aggressivo. Si è fatto il G8 e qualche anno di ordine pubblico. Quella che all´inizio sembrava una compagna di lavoro gestibile, è diventata un drago. Arrestato per spaccio, dopo un passaggio nel carcere di San Vittore, si è curato. Oggi è operaio in un´azienda metalmeccanica.
Medio e lungo raggio. Erano le tratte aeree di uno dei piloti entrati nei percorsi di disintossicazione. «Per lui tirare la cocaina era come bere un bianchino la mattina - ricorda Tanzi del Crest - . Si sentiva più sicuro, ma una volta atterrato per conciliarsi con il fuso orario fumava eroina. Un mix devastante, alla fine ha dovuto smettere di volare».
UN GRAMMO 70 EURO
Quanto costa il doping della polvere bianca? Settanta-cento euro al grammo. È il prezzo della cocaina. Una media che tiene dentro il costo di una "pallina" acquistata a Scampia e di una venduta a Roma a Milano o a Verona. Ma oggi la droga più diffusa sul mercato non si vende più solo al grammo. Ci sono le mini dosi (dal mezzo grammo in giù). I pusher te le offrono a 15, 20 o 30 euro. Dipende dalle città, dalle zone, e anche dalle fasce orarie (più la notte si avvicina all´alba e più la coca è in saldo). Pasquale fa il muratore cottimista a Brescia. La coca gli porta via quasi la metà dei soldi: 1200 euro è il budget mensile (su uno stipendio di 2.600) destinato alle righe. «Ma la compro buona, non le schifezze che girano adesso, piene di anfetamina». Facendo una media di 70-100 euro a grammo, Pasquale sniffa tra i 15 e i 20 grammi al mese. «Un uso tutto sommato moderato - spiega un esperto - , in generale, chi finisce in questo vortice ha bisogno di più di un grammo al giorno». Un professionista «policonsumatore» può viaggiare a una media di 2.500 euro. Per abbattere i costi della spesa molti optano per la cocaina da fumare. Meno cara. O il crac, che si inala. «Stanno andando forte anche le anfetamine - aggiunge Roberto Bertolli - . Le usano soprattutto i camionisti. Costano molto meno della cocaina e hanno lo stesso effetto: ti tengono sveglio e fanno passare la fame». Quando Michele da Monza parte con il Tir per Monaco di Baviera si porta dietro una dozzina di grammi. Gli bastano per una settimana. È autotrasportatore in proprio. Gli basta mezz´ora di sosta da sbriciolare tra andata e ritorno: il resto del tempo sta al volante. Dorme ogni ventiquattro ore. Come lui fanno tanti. Camionisti, padroncini, autisti di autobus turistici, tram, mezzi pubblici. «Il problema sono soprattutto i lavoratori autonomi - spiega Giovanni Serpelloni, direttore del Dipartimento politiche antidroga della Presidenza del consiglio dei ministri -. Intercettarli per i controlli è più difficile. Stiamo cercando di introdurre l´obbligo da parte delle aziende che commissionano il lavoro di richiedere una certificazione di idoneità alla guida».
Adam Pelizzari oggi è un uomo libero (il gip ha revocato gli arresti domiciliari). Il 5 luglio scorso, alla guida di un camion carico di maiali, ha travolto a Mantova il Suv di Ornella Galfredi, 45 anni, uccidendo lei e la figlia, Benedetta Sinico, 9 anni. Accusato di duplice omicidio colposo, è risultato positivo alla cocaina.
TEST OBBLIGATORI
Per quali categorie sono obbligatori i test? Funzionano? La normativa che impone i controlli nelle categorie professionali più a rischio (accordo Stato-Regioni) è entrata in vigore un anno fa. Come al solito, a macchia di leopardo. Se quasi tutte le Regioni del Nord l´hanno adottata, al Centro e al Sud le percentuali sono molto meno brillanti: rispettivamente, 60 e 30 per cento. In teoria, autisti, camionisti, addetti ai trasporti interni alle aziende (mulettisti), conducenti di treni, piloti, dovrebbero essere sottoposti regolarmente a controlli da parte delle aziende. «Finora, però, i risultati sono stati poco incoraggianti - dice Piero Apostoli, presidente della Società italiana medicina del lavoro - . In caso di positività (primo livello) le aziende sono obbligate a segnalare il lavoratore al Sert sottoponendolo a cure (secondo livello). Ma siccome per tutta la durata del trattamento hanno anche l´obbligo di tenersi in carico il dipendente, finisce che molte imprese non hanno un grande interesse a stanare chi assume sostanze». La stessa normativa presenta poi delle lacune. Il settore della sanità, per esempio: mansioni a rischio, ma ancora nessun obbligo di controlli. I medici e gli infermieri che sniffano, insomma, possono continuare a farla franca. A nostro rischio e pericolo.

Corriere della Sera 24.2.12
Le idee che aprono la mente
La traduzione di brani dalle lingue della civiltà antica è una concreta applicazione del metodo scientifico
di Dario Antiseri


Problemi-teorie-critiche: «Credo che in queste tre parole si possa riassumere tutto quanto il modo di procedere della scienza razionale» (Karl Popper). Tutta la ricerca, in qualsiasi ambito essa venga praticata (dalla fisica all'interpretazione di un «testo» o di una «traccia storica») consiste in tentativi di soluzione di problemi tramite la creazione di ipotesi da sottoporre ai più severi controlli. E se i controlli smentiscono, mostrano falsa (cioè falsificano) una teoria, si cercherà di proporne un'altra migliore. Un metodo, questo, che non vale solo per la fisica e la biologia, ma anche per la filologia, la storiografia e, più ampiamente, per le scienze sociali. Basti pensare, a tal riguardo, alle riflessioni metodologiche di filologi del livello di Paul Maas, Hermann Fränkel e Giorgio Pasquali, o di storici come Gaetano Salvemini, Lucien Febvre e Marc Bloch; o alla teoria ermeneutica proposta in Verità e metodo da Hans-Georg Gadamer: ogni interpretazione di un «testo» è una congettura sul significato di questo testo, sul suo messaggio, su ciò che il testo dice — congettura che va messa al vaglio sul testo e sul contesto; e se qualche elemento del testo e/o del contesto «urta» contro l'interpretazione proposta, si cercherà di produrne un'altra da sottoporre anch'essa al vaglio della critica. E così via, arrestandoci, di volta in volta, a quella congettura interpretativa che, pur priva dei carismi dell'assolutezza, abbia resistito agli assalti della critica. Popper: «La ricerca non ha fine»; Gadamer: «Il compito ermeneutico è possibile ed infinito».
Unico il metodo della ricerca scientifica; differenti, da disciplina a disciplina o anche a seconda dei problemi trattati, sono invece le metodiche, cioè le tecniche di prova. Il lavoro del ricercatore avanza sul sentiero delle congetture e delle confutazioni, procede per trial and error. E se l'errore commesso, individuato ed eliminato «è il debole segnale rosso che ci permette di venir fuori dalla caverna della nostra ignoranza», ne va che «razionale non è un uomo che voglia avere ragione; razionale è piuttosto un uomo che vuole imparare: imparare dai propri errori e da quelli altrui».
È esattamente in questo orizzonte che si comprende l'urgente necessità di una didattica che — affinché non si continui a dare risposte a domande non poste — punti sui problemi più che sugli esercizi. Il problema va risolto, l'esercizio va eseguito; il problema è una domanda per la quale chi se la pone non ha ancora quella risposta che deve venir cercata; l'esercizio è, invece, una domanda per la quale si ha già tra le mani la risposta, in genere appresa a memoria, senza motivazione alcuna, sul testo di algebra o di fisica; il problema forma, l'esercizio addestra; il problema scatena la ricerca, l'esercizio presuppone risultati di ricerche già fatte. Ma qui sta proprio il guaio, perché quelli indicati come «problemi» nei testi, per esempio, di geometria, di algebra, di chimica o di trigonometria... non sono problemi, sono esercizi. Per cui si dà che non di rado nei nostri licei scientifici l'unica vera attività di ricerca sia consistita, e forse talvolta consista ancora, nella versione di latino.
In effetti, che quella interpretazione di un testo che è la traduzione sia l'esito di una serie di congetture e confutazioni lo si può facilmente comprendere solo che si ponga attenzione a che cosa accadeva, allorché, negli anni del liceo, dovevamo fare una versione dal latino o dal greco. Ebbene, mentre il brano da tradurre ci veniva dettato, noi tentavamo di scorgere il senso di ciò che venivamo progressivamente scrivendo: questi tentativi mutavano magari via via che seguitavamo a scrivere.
Una volta terminata la dettatura, talvolta si aveva già subito l'idea del senso del brano (descrizione di una battaglia, una ambasceria, una favola con intenti morali, ecc.), e allora si cercava di far quadrare i pezzi del brano ancora non compresi (un avverbio, un aggettivo, un verbo, un'intera espressione o più espressioni) con il tutto di senso da noi proposto. E poteva capitare che i pezzi si inserissero rapidamente senza difficoltà nel nostro tentativo di interpretazione. Ma poteva anche accadere che dei pezzi resistessero ai tentativi di incasellamento: erano questi i momenti terribili del compito in classe, quando si aveva la sensazione di stare sbagliando versione. E che il nostro primo abbozzo fosse non sempre quello giusto, lo si vedeva quando la resistenza di qualche pezzo non inquadrabile nel nostro abbozzo di interpretazione si rafforzava legandosi ad altri pezzi magari ambigui (rispetto al nostro abbozzo) e ci costringeva ad abbandonare la nostra interpretazione. E così ricominciavano i nostri tentativi di congetture sul senso del testo da tradurre, di interpretazione di ciò che il testo poteva dire e le nostre prove (sulla bontà dell'interpretazione) attraverso l'inquadramento di tutti i pezzi del testo nella nostra congettura.
Talvolta era lo stesso titolo della versione a dare una chiara indicazione sul senso del testo. Ma il disagio era grande quando il professore ci dettava un testo senza titolo: il gioco ad indovinare che cosa dicesse il brano si faceva così più rischioso. Talvolta, poi, se il brano era fuori della nostra «precomprensione» o «memoria culturale», se riguardava cioè eventi, fatti o istituzioni da noi non conosciuti o non studiati, allora si correva il pericolo di consegnare il foglio in bianco.
Dunque: più versioni di greco e di latino — ma anche più temi argomentativi, più riassunti, più ricerche di storiografia locale — quale strumento, certamente non unico, ma sicuramente praticabile ed efficace, per la formazione di menti aperte, vale a dire di menti né scettiche né dogmatiche. E tutto questo nella consapevolezza che il prezzo della libertà è l'eterna vigilanza — su quello che pensiamo noi e su quello che dicono gli altri. Menti aperte: primo ed irrinunciabile presidio di una società aperta.

Corriere della Sera 24.2.12
Fonti d'ispirazione per scrittori, storici e scienziati


Una celebre frase del critico letterario George Steiner recita: «I classici ci leggono più di quanto li leggiamo noi». Eppure è sempre stato nei classici che l'umanista, l'uomo moderno, l'illuminista, il filosofo romantico e poi il contemporaneo hanno trovato ispirazione, esempio e chiarezza. La nuova iniziativa editoriale «I classici del pensiero libero. Greci e latini» del «Corriere della Sera», in edicola a partire dal 1° marzo (al costo di un euro più il prezzo del quotidiano) non è soltanto l'occasione per conoscere o rileggere i capisaldi della cultura occidentale, e magari trarne nuovi spunti di riflessione, ma dà anche l'opportunità di scoprire la fitta rete di legami tra il pensiero antico e quello contemporaneo. Nelle introduzioni inedite a ciascun volume, infatti, docenti, critici e studiosi contemporanei — da Giovanni Reale a Eva Cantarella, da Luciano Canfora a Giulio Giorello — individuano tra l'altro anche l'influsso esercitato dagli antichi sui pensatori successivi, o su protagonisti della nostra storia recente, noti ma anche inattesi. Si scopre così che Platone, di cui saranno in edicola il 1° marzo l'Apologia di Socrate insieme al Critone, e il 24 marzo il Simposio, era citato di frequente da Martin Luther King, come ci spiega nella sua introduzione Giovanni Reale, mentre Giulio Giorello accompagna il lettore di Epicuro (le Lettere sulla fisica, sul cielo e sulla felicità del filosofo ellenistico saranno in edicola il 10 marzo) attraverso suggestioni che vanno da Moritz Schlick, fondatore del Circolo di Vienna, a Charles Darwin, il naturalista padre dell'evoluzionismo. Per continuare con il Prometeo incatenato di Eschilo, che sarà in edicola il 22 marzo, il cui protagonista viene individuato come l'ispiratore eroico e appassionato di più generazioni di pensatori del Romanticismo, come ci ricorda Edoardo Boncinelli nella sua introduzione, senza dimenticare la suggestione che il mito di Edipo ha esercitato sulla psicoanalisi: Edipo re e Antigone di Sofocle saranno in edicola l'8 marzo con prefazione di Eva Cantarella. (i.b.)

Corriere della Sera 24.2.12
Tintoretto. Scalata alla gloria
Il maestro che respinse qualunque compromesso
Sapeva coniugare disegno e colore «come un dio»
di Lauretta Colonnelli


Ci sono due opere, all'ingresso della mostra nelle Scuderie del Quirinale, che da sole riescono a raccontare la personalità del Tintoretto e i grandi temi della sua pittura. Di fronte al visitatore appare la maestosa tela con il Miracolo di San Marco (oltre cinque metri per quattro). Sulla parete a destra, il piccolo Autoritratto come giovane uomo (quarantacinque centimetri per trentasei). Entrambe le opere sono datate 1548. Tintoretto ha ventinove anni. Si presenta con il volto serio, incorniciato da riccioli neri, un'ombra di barba, lo sguardo vivo, l'espressione irritata. Dalla descrizione di Carlo Ridolfi, biografo dei pittori veneti, sappiamo che era alto appena un metro e mezzo. Il suo amico commediografo Andrea Calmo lo apostrofa «granelo de pevere», per la sua facilità ad arrabbiarsi. Proprio grazie a Calmo, appena nominato decano della Scuola Grande di San Marco — una delle maggiori confraternite veneziane — Tintoretto è riuscito ad avere la sua prima commessa importante, questo telero con il Miracolo. «L'abbiamo collocato in apertura — spiega Giovanni Villa, coordinatore scientifico del catalogo — perché rappresenta una delle grandi icone della sua pittura. È la sua prima opera importante ma contiene già la novità tecnica del fondo scuro, che permette all'artista una esecuzione veloce e al risparmio, e la composizione scenica allestita come una scenografia teatrale». Il capolavoro gli procura il riconoscimento di Pietro Aretino che, pur invitandolo a contemperare «la prestezza del fatto» con «la pazienza del fare», ne ammira il rilievo, gli scorci e «i colori che son carne». E quello del Vasari che, pur criticando quel modo di lavorare «a caso e senza disegno» lo definisce «il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura». Tintoretto era riuscito dunque a raggiungere quel che si era prefisso quando aveva appeso nel suo studio un cartiglio con il motto «il disegno di Michelangelo e il colore di Tiziano». Paolo Pino, sempre in quel 1548, aveva sentenziato nel suo «Dialogo» che chi fosse riuscito a coniugare le due abilità sarebbe diventato «il dio della pittura».
Tintoretto, come d'abitudine, prima di iniziare il lavoro si è recato a studiare il sito destinato al quadro. Ha osservato che occuperà lo spazio tra due grandi finestre e inventa quindi un gioco di controluce, in modo che i confratelli si sentano quasi proiettati al centro dell'opera stessa. «L'impaginazione — osserva Vittorio Sgarbi, che cura la mostra — è grandiosa e teatrale, con l'impianto scenografico di quinte e di colonne, archi e portali, con scene che si dilatano verso profondità rarefatte». L'artista studiava a tavolino queste composizioni, con modellini di gesso e terracotta che replicavano sculture di Michelangelo o con statuine che lui stesso plasmava in cera.
Per riconoscerne l'assetto teatrale, bisogna osservare il Miracolo da lontano. Per capire la velocità d'esecuzione, occorre invece avvicinarsi il più possibile. Concentrarsi sulla veste rossa dell'uomo di schiena, dove la muscolatura della spalla è precisata da tre rapide pennellate di lacca più scura. E poi spostare lo sguardo sul soldato alla sua destra, con il corpo chiuso in una cotta, le cui singole maglie colpite dalla luce sono rese con piccoli colpi di biacca e quelle in ombra definite raschiando con il legno del pennello la base scura per far emergere la chiarezza della tela. La preparazione del fondo è un'altra particolarità di Tintoretto, che si inventa una ricetta tutta sua: raccoglie in un calderone i colori avanzati sulla tavolozza e quelli caduti sul pavimento e li fa bollire, fino a ottenere una sostanza scura che spalma sulla tela. A questo punto gli basta disegnare su questo fondo, direttamente con il pennello, le figure, i profili delle architetture, i paesaggi.
La suggestione di questi fondi bruni si ammira in particolare nell'ultimo struggente autoritratto, dove il volto è sul punto di essere inghiottito dal buio. E nelle due grandi tele con Maria Egiziaca e Maria Maddalena, dove sull'accordo dei toni bruciati sono delineate la palma in primo piano, i boschi sullo sfondo, le figure minuscole delle due Marie e le acque spumose del ruscello che, guardate da vicino, anticipano addirittura le pennellate impressioniste degli stagni di Monet. L'audacia degli scorci esplode nell'Ultima Cena di San Polo, restaurata per l'occasione da Cariparma. Al secondo piano, ci sono sale dedicate ai ritratti, alla pittura profana, ai maestri con cui Tintoretto si è confrontato, da Tiziano a El Greco. Del maestro veneto sono esposti quaranta capolavori, con un'idea di completezza della sua opera. Questa, come ricorda Emmanuele Emanuele, presidente delle Scuderie, è la sua prima mostra realizzata a Roma.

Corriere della Sera 24.2.12
Per natura o per necessità. Quei pittori-fulmine (con invidia dei «lenti»)
di Francesca Bonazzoli


Era stata dura, un percorso lungo secoli, affrancare l'arte dal lavoro meccanico artigianale per conquistarle un posto fra le professioni «liberali» e intellettuali. Alla fine, nel Rinascimento, alcuni artisti erano riusciti a sedersi a tavola con i nobili e Tiziano aveva persino rimediato un titolo, quello di conte palatino, conferitogli niente meno che dall'imperatore Carlo V. E adesso, a rovinare quel lavoro, ci si metteva un Tintoretto qualsiasi, un giovane ambizioso, figlio di un tintore, venuto su dal nulla, senza maestri né appoggi. A Venezia Jacopo Robusti (il suo vero nome) lavorava praticando il dumping (diremmo oggi nel linguaggio nell'Europa finanziaria) cioè a basso costo, persino gratis, per accaparrarsi le commissioni trascinando così verso il basso le tariffe di tutti gli altri. Ma non solo; lavorava anche con una velocità che non aveva rivali. Insomma, come un cinese. Nessuno, nella Serenissima, glielo perdonò. Ma nemmeno il fiorentino Giorgio Vasari che a Tintoretto dedicò tre striminzite paginette delle «Vite dei più eccellenti scultori, pittori e architetti», da cercare all'interno della biografia di Battista Franco. Già così, una perfidia. Ma poi Vasari andò giù ancora più pesante: gli riconosceva un gran talento nel creare storie ma le chiamava «capricciose invenzioni e strani ghiribizzi del suo intelletto che ha lavorato a caso e senza disegno, quasi mostrando che quest'arte è una baia», ossia un'inezia, una bagatella. E aggiungeva che se non avesse avuto quel difettaccio di «tirar via di pratica» sarebbe stato uno dei maggiori pittori.
Da Vasari in poi, il pregiudizio sulla sciatteria della velocità non ha più abbandonato Tintoretto che se l'è tirato dietro fino al Novecento, quando persino Roberto Longhi, dopo aver definito la sua maniera «metodo levantino del pratico maestro», supponendo una formazione dell'artista nella zona marginale di cultura levantina dei «madonneri», lo liquidò come «genio soffocato dalla facilità, né mai realizzatosi per difetto di quella meditazione morale che ha da intervenire tra la prima idea e il lungo e pratico fare». Del resto Longhi se la prese anche con un altro «praticon di man» (così anche il Boschini definiva Tintoretto) veneto che risponde al nome di Giovan Battista Tiepolo, «sempre pronto, con un poco di spiegazione, a dipingere da un giorno all'altro persino "Le Alpi Panacridi in Alvisopoli"».
La convinzione secondo cui per creare un'opera d'arte ci voglia meditazione e tempo va di pari passo con il valore che le si attribuisce: se una cosa costa molto, deve anche richiedere tanto tempo. Ma questa equazione non tiene conto del fatto che certi artisti possedevano la facilità come un dono naturale e non potevano dipingere diversamente. Luca Giordano, soprannominato «Luca fa' presto», si portava dietro il nomignolo da quando, ragazzino, soggiornava a Roma con il padre il quale, racconta il De Dominici, pressato dalla necessità di vendere ai forestieri le copie delle antichità che Luca disegnava, lo sollecitava «dicendogli a ogni tratto: Luca fa' presto!». Un altro veloce per natura era il fiammingo Rubens: dove non riusciva ad arrivare lui, c'erano i suoi numerosi allievi che potevano impostare tutto il quadro fino ai tocchi finali che venivano dati in fretta dal maestro.
Caravaggio, al contrario, correva da solo. Non amava lavorare molto ma aveva un gran bisogno di soldi per cui era sempre velocissimo e puntuale nelle consegne. «Non si consacra di continuo allo studio ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due», scriveva il biografo Karel van Mander. Nel periodo che trascorse in fuga da Roma e da Malta dopo l'omicidio, passò il tempo a dipingere un quadro dietro l'altro, pressato dal bisogno e a Messina, quando il pubblico osò fare innocui commenti alla sua Resurrezione di Lazzaro, ormai con i nervi a pezzi, prese il pugnale e squarciò la tela. «E dopo aver in tal guisa sfogata la colera su quell'innocente lavoro, coll'animo all'apparenza sedato, rincorò que' smarriti galantuomini che non si attristassero mentre fra brieve tempo gliene darebbe un'altra secondo il loro gusto e più perfettamente compiuta». E infatti, a giudicare dall'enorme spazio vuoto che incombe sulle figure, dalla loro fattura approssimativa e dal pigmento ridotto al minimo, quel quadro fu davvero buttato giù in fretta e nonostante tutto ne uscì un capolavoro pagato mille scudi, più del doppio di qualsiasi altro compenso mai ricevuto dal Caravaggio.
Per certi «praticon di man», il tempo continua a giocare a favore.

Corriere della Sera 24.2.12
La «Festa mobile» del '500 Tiziano, arbitro dei destini
Con l'Aretino sanciva a pranzo i successi dei pittori
di Alvise Zorzi


All'apice del suo splendore, la Venezia del Cinquecento è una città di artisti. Nei primi anni brillano i fratelli Bellini, Giovanni e Gentile, il Carpaccio e i Vivarini. Ma poi è la valanga: attirati da una società che adora le arti, da uno Stato che si fa un punto d'onore di garantire agli artisti la libertà di esprimersi, da una vita quotidiana variopinta e vivacissima, si precipitano a Venezia pittori, scultori, architetti, musicisti. Molti vengono dai dominii veneti di terraferma, come Giorgione, trevisano, Paolo Caliari, veronese, il Pordenone, friulano, il Savoldo bresciano, tanti arrivano da altre parti d'Italia e d'Europa. Viene anche, ospite del Fondaco dei Tedeschi non ancora affrescato da Giorgione e Tiziano, il sommo Albrecht Dürer. Tutti trovano di che vivere, perché con uno Stato mecenate gareggiano le innumerevoli confraternite, gli ordini religiosi, i ricchi patrizi e i ricchi mercanti, perfino le cortigiane, belle ragazze che vendono sesso ma anche musica e conversazione: Veronica Franco, cortigiana poetessa, ricambierà i doni di re Enrico III di Francia col proprio ritratto dipinto dal Tintoretto.
Il clima della Venezia cinquecentesca è un po' simile a quello della Parigi raccontata da Hemingway nel suo «Festa mobile». Non c'è giornata senza avvenimenti, sfarzose liturgie dogali, cortei acquei e terrestri, cerimonie, sfilate, o le coloritissime manifestazioni delle Compagnie della Calza, libere associazioni di giovani patrizi buontemponi; recite delle commedie del Ruzante padovano nei palazzi, e balli e banchetti. E dissertazioni e dispute erudite. E visite solenni di principi e potentati stranieri, pretesti di regate e d'altri festeggiamenti.
E le inaugurazioni di pale d'altare, quelle di Tiziano ai Frari, la rivoluzionaria Assunta e l'altra donata dal vescovo Pesaro, quella del Pordenone a San Giovanni di Rialto. E delle Cene di Paolo Veronese, a San Giorgio Maggiore e a San Giovanni e Paolo, quest'ultima contestata dalla Santa Inquisizione come blasfema ma salvata dai tre Savi all'Eresia, rappresentanti dello Stato, con la trovata di cambiarne il titolo, da «Ultima Cena» a «Convito in casa di Levi».
Con tanto fervore artistico, prospera il mercato delle committenze. E c'è chi è in grado di influenzarlo. Grazie alla protezione del grande doge Andrea Gritti, il sanguigno poligrafo toscano Pietro Aretino si è stabilito a Venezia, sul Canal Grande, ed è diventato un opinion maker temuto e riverito da monarchi e pezzi grossi. Amicissimo di un altro toscano illustre, Jacopo Sansovino, che ha convertito Venezia gotica all'architettura «alla romana», l'Aretino si è legato d'amicizia a Tiziano. E i tre, nei pranzetti rallegrati da belle cortigiane, fanno e disfano le fortune degli artisti. Chi non incontra il loro favore, come Lorenzo Lotto, è meglio che se ne vada.
E il Tintoretto? Jacopo Robusti, veneziano, allievo non troppo amato di Tiziano, possiede una fantasia senza limiti e ama e coltiva la sperimentazione più audace. L'Aretino ha provato a sfotterlo, ma lui ha fatto finta di nulla e l'ha invitato al suo studio, a posare per un ritratto. L'ha fatto sedere, poi ha staccato dalla parete uno spadone e con un urlo gli si è lanciato contro. E, con una gran risata, ha usato la spada per prendergli le misure. Uomo di mondo, l'Aretino ha capito e da allora in poi l'ha sempre rispettato.
Poi, nel 1576, una spaventosa pestilenza si porterà via il vecchio Tiziano con migliaia di veneziani. E l'anno dopo brucerà il palazzo ducale, opere meravigliose di grandi maestri andranno in fumo, il doge Sebastiano Venier, vincitore dei Turchi a Lepanto, ne morirà di crepacuore. Tintoretto verrà chiamato a dipingere lo smisurato Paradiso nella sala del Maggior Consiglio. Il Palladio accrescerà con le sue architetture il fascino di Venezia. Ma la spensieratezza dei magici anni passati non rivivrà che più di un secolo dopo, nel fuoco d'artificio finale della splendida decadenza del Settecento veneziano.

l’Unità 24.2.12
Roma FilmFest, fuori Rondi dentro Müller
di Gabriella Gallozzi


Oggi il cda deciderà il nome del nuovo direttore della kermesse capitolina Il presidente messo alle strette dalla coppia Alemanno-Polverini si tirerà fuori dai giochi lasciando via libera all’elezione dell’ex direttore di Venezia

Giornata cruciale oggi per il Romafilmfest. Dopo mesi di stallo imposto dai «giochetti» della politica si riunirà finalmente il cda dal quale dovrà uscire il nome del direttore artistico. La penosa partita a scacchi intorno alla nomina di Müller sembra infatti arrivata al termine con lo scacco matto della destra. Le pressioni, o meglio il «ricatto» della coppia Polverini-Alemanno ha sortito il suo effetto: il presidente della kermesse capitolina Gianluigi Rondi cederà il passo. Con le sue dimissioni, a questo punto praticamente certe, Regione e Comune avranno finalmente i numeri per arrivare alla nomina del loro candidato, l’ex direttore della Mostra di Venezia. Rondi sa che il suo voto vale doppio e in un ipotetico due pari (Comune e Regione per Müller; Camera Commercio-Provincia per Detassis; Musica per Roma astenuta) è dirimente.
Fin qui il 91enne presidente Rondi aveva tenuto duro, sostenendo la riconferma dell’uscente direttora Piera Detassis. Anche nel corso dell’incontro col ministro Ornaghi, dell’altro giorno, aveva ribadito la sua posizione. Ma un’improvvisa convocazione in Campidoglio sembra aver fatto precipitare il tutto. Dopo un’ora di anticamera Rondi è stato ricevuto dal sindaco e dalla governatora del Lazio che hanno messo in chiaro tutte le armi a loro disposizione. Comune e Regione, i maggiori sponsor della manifestazione capitolina, già in precedenza avevano minacciato di ritirarsi dalla partita, decretando praticamente la morte del festival. E come loro anche Abete, presidente di Bnl e sponsor «pesantissimo».
«Questo muro contro muro non ha portato da nessuna parte», ha dichiarato sconfitto Rondi al Messaggero. «E io sono un po’ annoiato da questa situazione». Del resto il suo mandato scadrà a giugno e quindi sarebbe assurdo pensare ad una direzione «a tempo», come era stato ipotizzato in precedenza per sbloccare la situazione. Oggi dunque fuori Rondi, dentro Müller.
Ma in giornata gli attestati di stima e l’invito a non dimettersi sono arrivati numerosi, dal mondo del cinema e della politica. Sono stati più di cento i messaggi con firme di attori, registi, sceneggiatori, maestranze. Il primo a parlare in mattinata il produttore Domenico Procacci: «La politica deve permettere l’esistenza a queste manifestazioni, ma non può entrare in certi meccanismi senza la competenza necessaria e stravolgendone le regole ha detto -. È mancato del tutto il rispetto di certe norme: si deve permettere al presidente in carica, anche se in scadenza, di nominare il proprio direttore artistico». Procacci rompe gli indugi e rivela il testo che circola tra gli addetti ai lavori.
«Abbiamo apprezzato la correttezza del suo atteggiamento nella vicenda che riguarda la nomina del nuovo direttore del Festival del Cinema di Roma dice il messaggio. Le esprimiamo il nostro sostegno più sincero e convinto. Una grande parte del mondo del cinema si augura che nell’interesse del Festival di Roma si affermi una scelta di buonsenso che garantisca quel clima di concordia, misura e collaborazione di cui il nostro paese ha più che mai bisogno». «Non si dimetta, siamo con lei», conclude il messaggio.
Anche il mondo della politica denuncia l’arroganza della politica. «Sulla Festa del cinema di Roma la destra di Alemanno e Polverini ha un atteggiamento da Minculpop», dice Vincenzo Vita del Pd. Ma pure riconosce lo stupore di «come una persona di valore come l’ex direttore di Venezia si possa prestare a simili giochetti di potere». Ma a questo punto per Marco Müller la strada sembra spianata. Mentre non è escluso che fra qualche mese a Gialuigi Rondi venga offerta una nuova poltrona come presidente onorario.