lunedì 27 febbraio 2012

l’Unità 27.2.12
Oggi la campagna Cgil: una copia del giornale in ogni luogo di lavoro. La solidarietà di Pisapia
Dalle fabbriche alle scuole «Con l’Unità contro le censure»
di Natalia Lombardo

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l’Unità 27.2.12
«Più solidarietà e più Europa: è questa la sfida dei Progressisti»
Il presidente della Fondazione Jean-Juarés è tra gli estensori della Dichiarazione di Parigi:
«Evitare che le politiche di austerità facciano affondare l’Unione nella recessione. Sì alla crescita sostenibile»
di Umberto De Giovannangeli

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l’Unità 27.2.12
L’ontologia del Pd separata da ogni legge elettorale
di Eugenio Mazzarella

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l’Unità 27.2.12
Catena umana di 17 chilometri intorno al centro della capitale russa
Presidenziali il 4 marzo, i sondaggi: premier al Cremlino al primo turno
Un «cerchio bianco» abbraccia Mosca 40mila contro Putin
di Marina Mastroluca

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Repubblica 27.2.12
C´è democrazia senza i partiti?
di Ilvo Diamanti


Il proscioglimento di Silvio Berlusconi dall´accusa di corruzione nel caso Mills, per prescrizione del reato, ha sollevato, inevitabilmente, polemiche. E un sottile senso di inquietudine. Non solo perché, in questo modo, il Cavaliere è riuscito a sottrarsi, di nuovo, al giudizio.
Ma soprattutto perché ha rammentato a tutti che Berlusconi non se n´è andato, ma è sempre lì. Anzi, qui. Con gli stessi vizi di sempre. Da ciò l´altro motivo di preoccupazione (o, per alcuni, di speranza). Potrebbe rientrare in scena. Da protagonista. Visto che il ruolo di comprimario al Cavaliere non si addice. D´altronde, Berlusconi resta il leader del Pdl. Tuttora il primo partito in Parlamento. E, insieme, la principale forza politica della maggioranza che sostiene il governo Monti.
Tuttavia, anche questa vicenda suggerisce che il vento è cambiato. Che il tempo di Berlusconi e del berlusconismo è finito.
Anzitutto, l´attenzione intorno al caso appare meno accesa rispetto al passato. Quando Berlusconi era il capo del governo o dell´opposizione. Quando era il dominus della scena politica. Il conflitto di interessi che si portava - e si porta dietro - appariva, allora, insopportabile, sul piano pubblico. Oggi è altrettanto intollerabile, ma la posizione politica del Cavaliere, passato dalla ribalta al retroscena, ha sdrammatizzato le tensioni. Peraltro, i principali attori politici (e istituzionali) che sostengono il governo temono episodi e fratture che possano minare la tenuta della legislatura.
Un´eventualità avversata, per primo, da Berlusconi. Al quale conviene che Monti governi almeno fino alla scadenza naturale della legislatura. E magari oltre. Per una ragione su tutte le altre: se si votasse oggi, il centrodestra non avrebbe speranze. Il Pdl (citiamo le stime di Ipsos dell´ultima settimana) galleggia intorno al 22%. L´alleanza con la Lega, inoltre, appare complicata, logorata dal sostegno di Berlusconi al governo Monti. E, comunque, i partiti del centrodestra (Pdl, Lega e Destra), tutti insieme, sono accreditati di poco più del 33% dei voti. Quattro punti meno del centrosinistra (Pd con Idv e Sel). Ma in una competizione a tre, con il Terzo Polo in campo (stimato intorno al 20%), la distanza fra i due poli principali salirebbe a 10 punti percentuali. Troppi per rischiare il ricorso anticipato alle urne in questo momento. Tanto più perché, da quando ha avuto avvio il governo Monti, il divario fra centrodestra e centrosinistra si è stabilizzato e, anzi, un po´ ridotto. Morale: l´esperienza del governo tecnico non fa male a Berlusconi. Gli permette di riorganizzare le fila. In un periodo politicamente difficile, per lui e per il Pdl.
Ma il ritorno di Berlusconi è improbabile soprattutto perché è cambiato il clima d´opinione. Il berlusconismo è fuori moda, inattuale. Come Berlusconi. Verso il quale il grado di fiducia dei cittadini è basso quanto mai, in passato. Poco sopra il 20%. Come i consensi verso il Pdl. Il suo partito "personale".
È arduo, d´altronde, distinguere e dissociare il destino del partito da quello dell´inventore. Lo testimoniano le difficoltà del Pdl in questa fase congressuale. Lacerato da tensioni e accuse interne: di corruzione, tessere false, condizionamenti. A Sud e a Nord. D´altronde: quale identità può assumere un partito identificato "da" e "in" Berlusconi senza Berlusconi alla testa?
Il mutamento del clima d´opinione riflette, a sua volta, il mutamento sociale. Berlusconi ha interpretato e impersonato una fase "affluente" della società italiana. A cui ha imposto, con l´amplificatore dei media, la propria biografia e la propria immagine come riferimenti e modelli. Ha, così, accompagnato e segnato una fase, lunga quasi vent´anni. Ben raffigurata dall´infotainment televisivo. I programmi che mixano informazione e intrattenimento, nei quali ogni distinzione di ruoli è saltata. Politici, cuochi, personaggi della fiction, ballerine, calciatori, veline, criminologi e criminali. Tutti insieme. Appassionatamente. A parlare di tutto.
Quella stagione è finita. La crisi ha spezzato il legame tra immagine e realtà. Ha reso l´immagine in-credibile. Il mondo rutilante e a-morale espresso da Berlusconi è divenuto troppo lontano rispetto al senso comune. I suoi valori: in contrasto con gli interessi degli elettori. Soprattutto e tanto più per quelli, fino a ieri, attratti da Berlusconi. In larga misura appartenenti ai ceti popolari. Si pensi alla crescente impopolarità dell´evasione fiscale, socialmente tollerata, negli anni scorsi – e giustificata dallo stesso Berlusconi. Ma guardata - oggi - con ostilità. Perché la crisi ha trasformato la furbizia in un vizio dannoso: per i conti dello Stato e per i bilanci delle famiglie.
La crisi ha, inoltre, delegittimato il modello del politico-senza-qualità. Non migliore di noi ma come noi. Anzi: peggio di noi. Reclutato per meriti estetici, piuttosto che etici. O per fedeltà al capo.
Per questo è difficile – a mio avviso improponibile – un ritorno di Berlusconi. Il quale è, semmai, alla ricerca di uno spazio nel quale "difendersi". Negli affari ma anche nelle questioni giudiziarie in cui è ancora coinvolto.
Il Paese, d´altronde, ha voltato pagina. L´esperienza di Monti – "promossa" da Napolitano - ha rivelato e trainato una domanda di rappresentanza politica diversa. Non parlo dei contenuti della sua azione di governo – per alcuni versi discutibili, a mio avviso. Parlo, invece, dello "stile". Che in quest´epoca, è "sostanza". Monti esprime un nuovo modello: il Tecnico che fa Politica. E viceversa: il Politico Competente. Che si misura con i partiti ma non ne fa parte. Ne è fuori e, al contempo, al di sopra. Monti annuncia e interpreta il post-berlusconismo, che si traduce in una sorta di "Populismo Aristocratico". Dove il premier si rivolge e risponde agli elettori direttamente, attraverso i media. In modo sobrio. Mentre i partiti – e i loro leader - restano sullo sfondo. Defilati. Monti: è un leader di successo, i cui consensi appaiono in continua crescita. Oggi superano il 60%.
Berlusconi non tornerà: perché il berlusconismo è finito. Ma anche l´antiberlusconismo lo è. Il che induce a spostare le nostre preoccupazioni "oltre" Berlusconi.
In questo Paese: dove i partiti – privi di credito – contano molto meno dei leader. E dove i leader dei partiti dispongono di un livello di fiducia molto scarso. La questione vera è se sia possibile una democrazia rappresentativa senza partiti.
Io ne dubito. Anzi: lo escludo.
Neppure se al berlusconismo succedesse il montismo.

Repubblica 27.2.12
Articolo 18, basterebbe un po´ di buon senso
di Mario Pirani


Ascoltando in giro, mi sono convinto che attorno all´articolo 18 ci sia non poca confusione e molti lo abbraccino o lo respingano come un articolo di fede. A scanso di equivoci, io mi annovero tra quanti ne auspicano il mantenimento, con qualche modifica, pur convinto della sua scarsa incidenza sull´andamento del mercato del lavoro in entrata come in uscita (un qualche peso simbolico lo avrebbe se venisse cancellato in quanto segno di una volontà imprenditoriale di potere). Ma veniamo al sodo. Molti credono e temono che, una volta venuto meno l´articolo 18, cada ogni remora alle possibilità di licenziamento. Non è così in quanto quel presunto pilastro riguarda esclusivamente i licenziamenti individuali – poche centinaia all´anno in tutto il Paese – e non certo i licenziamenti collettivi, dovuti in genere a crisi produttive, che hanno tutt´altra procedura e termini di salvaguardia. In ogni modo l´articolo 18 non concerne neppure la sostanza vera e propria del licenziamento individuale. Questo è, infatti, già definito dalla legge del 1966 che recita fin dal suo articolo 1: «Il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell´articolo 2219 del Codice civile o per giustificato motivo». All´articolo 3, poi, il testo prosegue: «Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all´attività produttiva, all´organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa».
Or bene, nessuno mette in discussione questi articoli che regolano il licenziamento solo per giusta causa, le sue conseguenze in termini di indennità e quant´altro. A questo proposito, comunque, la legge del 1966 già precisava all´articolo 8: «Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli una indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell´ultima retribuzione globale di fatto» con maggiorazioni fino a 10 mensilità per un´anzianità superiore a 10 anni e di 14 per un´anzianità di 20. Veniamo al tanto discusso articolo 18. Questo fa parte della legge 300 del 1970 ( meglio noto come lo Statuto dei lavoratori) ed introduce, nei casi stabiliti dalle leggi precedenti, il principio del reintegro nel posto di lavoro del dipendente che risultasse ingiustamente licenziato. Le conseguenze negative di questa norma, a meno che non si voglia abrogarla per tornare a un diritto unilaterale dell´impresa di licenziare senza alcun limite un dipendente, sono connesse invece all´assurda durata del contenzioso legale, sovente di alcuni anni, che somma l´incertezza prolungata dell´esito all´ammontare estremamente pesante che ne deriva in caso di riassunzione per l´impresa, costretta a pagare molte annualità pregresse. Di qui la necessità d´introdurre una procedura rapidissima per il processo sull´argomento. A meno che non si voglia in partenza stabilire i limiti (2 anni ?) dell´indennità risarcitoria, fermo restando il reintegro. L´altra modifica riguarda l´estrema genericità delle causali economiche che la legge del ´66 fissa anche per il licenziamento per giusta causa. A parte l´assurdità di una misura individuale invocata per sanare una inefficienza produttiva aziendale sarebbe opportuno che la legge indicasse con assoluta precisione (ad esempio la sostituzione di un robot all´uomo), le condizioni economiche invocabili. O meglio che si cancellasse tout court questo aspetto.
Insomma, chiunque guardi con occhio realistico la questione non può non convenire che essa è agevolmente componibile da un pragmatico compromesso che depuri l´articolo 18 dalle sue incongruenze pratiche e dai veleni ideologici che vi sono accumulati sopra. Non fa sperare bene lo sciopero proclamato dalla Fiom, «contro la riforma del lavoro e i tentativi di modifica dell´articolo 18».

La Stampa 27.2.12
L’Imu alle scuole cattoliche scuote la maggioranza “Così non può passare”
Il governo precisa: paga solo chi ci guadagna. Ma è polemica
di Giacomo Galeazzi

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Repubblica 27.2.12
"Ici alle scuole solo se fanno profitti"
Il governo rassicura la Chiesa. Passera: ma è saggio far pagare anche i beni dei cattolici
di Silvio Buzzanca


Il Pdl chiede una "interpretazione autentica" della norma prima di votarla in Senato
La Cei rilancia la "preoccupazione" "Gli istituti paritari svolgono un servizio pubblico"

ROMA - Il governo non vuole penalizzare le attività no profit della Chiesa. L´Ici, meglio l´Imu, la pagheranno solo gli enti che iscrivono utili nei loro bilanci. Le rassicurazioni arrivano dal ministro allo Sviluppo economico Corrado Passera e dal sottosegretario Gianfranco Polillo e dovrebbero servire a tranquillizzare il mondo cattolico di fronte alla discussione sull´argomento, inserito nel decreto sulle liberalizzazioni, che riprende oggi al Senato. Ma sia la Cei sia i parlamentari cattolici di destra e sinistra non sono convinti e chiedono al governo più chiarezza.
Una chiarezza che, secondo Palazzo Chigi, c´è. «Era ovvio che si andasse in questa direzione ed è stato fatto in maniera saggia, ragionevole e determinata. Ora è importante che l´introduzione dell´Imu non penalizzi il vero no profit che è un pilastro della coesione sociale», spiega a SkyTg24 il ministro Passera. Cattolico, Passera, assicura che «nel rendere operativa questa decisione di estendere la tassazione immobiliare faremo molta attenzione».
Sicuramente faremo così, aggiunge Polillo in un´intervista all´Avvenire. Il sottosegretario spiega al giornale della Cei che «paga l´Imu chi iscrive un utile a bilancio. Chi, insomma, lucra, sull´attività che svolge». Polillo fa anche un esempio: «Se la retta alla scuola parificata serve a sostenere i costi di gestione, non si può considerare attività commerciale. Applichi il concetto a un ospedale: è lo stesso. O a un´associazione, religiosa o meno, ai partiti, ai sindacati».
Tutto chiaro? A sollevare dubbi è per prima la Cei. Monsignor Michele Pennisi, responsabile per l´Educazione cattolica, denuncia «l´incertezza legislativa» che caratterizzerebbe il provvedimento. Il prelato, che è vescovo di Piazza Armerina, spiega poi che le scuole paritarie sono simili a quelle statali che «svolgono un servizio pubblico» e per questo sono esentate dall´Imu. Per monsignor Pennisi, inoltre, i contributi ricevuti finora «sono legittimi e doverosi, insufficienti, per cui tante scuole hanno dovuto chiedere, non sono privilegi».
Una linea che viene sposata in modo bipartisan dal mondo politico cattolico. Carlo Giovanardi è convinto dalle spiegazioni di Polillo, ma non da quelle di Passera. Allora, chiede l´ex sottosegretario, è necessaria «una interpretazione autentica ufficiale prima che i senatori debbano decidere come votare questa norma». Lo stesso fa il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri. Sull´altro versante si associa alla richiesta il democratico Giorgio Merlo: «Non facciamo confusione solo per rispondere ad una esigenza laicista ed anticlericale».
Il fronte "laicista e anticlericale" replica con i Radicali. «La carità è una virtù teologale e gli uomini di fede dovrebbero reagire con vigore se divenisse materia legislativa», scrivono il deputato Maurizio Turco e il segretario di Anticlericali. net Carlo Pontesilli. Dunque, concludono, sarebbe meglio che «lo Stato fornisse a tutti i cittadini bisognosi - senza distinzione di sesso, religione, razza e condizioni economiche - i servizi essenziali, dall´istruzione, alla sanità».

Repubblica 27.2.12
Scuola, è allarme abbandoni uno su cinque senza diploma Italia tra i peggiori d´Europa
Il ministro: situazione drammatica al Sud e nelle periferie
di Corrado Zunino


E Rossi Doria annuncia: "Stanziati trenta milioni per le Regioni a rischio"
"Sostenere il ciclo delle elementari e riqualificare gli istituti tecnici, ecco le priorità"

ROMA - La crisi economica, a scuola, fa crescere i dispersi. Il ministro dell´Istruzione, letti gli ultimi dati sulla fuga dalle classi, ha scelto di porre la questione tra le priorità del suo mandato. In Italia un ragazzo su cinque non ha un diploma di media superiore né una qualifica professionale: è "disperso scolastico", secondo l´accezione europea, destinato al fallimento personale. Gli ultimi dati Istat, passati dall´Istituto nazionale di statistica al Miur dieci giorni fa e ora pubblici, illuminano il quadro: il 18,8 per cento dei giovani italiani fugge la scuola prima del diploma (si sale al 22 tra i maschi). Certo, alle spalle c´è un recente recupero: dal 2004 al 2010 è tornato in aula e agli esami finali il 4 per cento degli iscritti, ma l´ufficio statistica del ministero sta lavorando nuovi dati che illustrano come la lunga crisi economica abbia interrotto il recupero e stia allargando un problema storicizzato al Sud alle periferie delle metropoli italiane: Milano, Torino, Genova, Verona, Bologna, Roma.
Il ministro Francesco Profumo è stato un mese fa a Ponticelli (Napoli) e sabato scorso ha trascorso una giornata a Palermo, dove ha scoperto che all´istituto comprensivo Giovanni Falcone di via Marchese Pensabene, quartiere Zen 2, per sei anni è stata richiesta la targhetta del civico (il numero 34) e quando è arrivata i vandali l´hanno distrutta. «Lo Stato deve esserci di più», ha detto Profumo, «noi individueremo una persona che segua questa scuola e il suo progetto». La palestra del "Falcone" è chiusa dal 2009, le poche telecamere installate sono rivolte sulle aiuole e la notte non riprendono nulla, l´ascensore è fermo da dieci anni perché mai si è fatta manutenzione. Queste condizioni strutturali aiutano la dispersione scolastica, fenomeno che ogni studio affianca alla povertà familiare, al degrado del territorio. In Sicilia la "media dispersione" sale al 26%. In quartieri come lo Zen 2, rivela il sottosegretario all´Istruzione Marco Rossi Doria, un giovane su due non va a scuola.
Ecco, non si riesce a scalfire in maniera organica quella soglia: un abbandono ogni cinque studenti. Secondo l´agenda di Lisbona la dispersione doveva essere dimezzata entro il 2010, e senza dubbio dovremo farlo entro il 2020. Questo governo ci prova ora investendo sulle quattro aree a rischio - Campania, Puglia, Calabria e Sicilia - 30 milioni di euro di fondi europei, quattro già disponibili. «Abbiamo una dispersione quasi doppia di Francia e Germania e non riusciamo a migliorare», dice il sottosegretario Rossi Doria, una vita e una fama da "maestro di strada" nei quartieri poveri di Napoli. «Da 25 anni conosco i ragazzi dispersi e tocco con mano il valore delle statistiche generali: ogni anno di istruzione in più significa meno malattie, meno dipendenza, meno povertà. È vero in Brasile, in India e allo Zen. In Italia l´uscita dall´analfabetismo è stato il volano del boom economico, ma oggi, dopo 130 anni, la scuola non è più un luogo di emancipazione sociale».
La dispersione scolastica è un´emergenza della gioventù italiana e da qui a giugno 2014 sarà affrontata con 30 milioni di euro. «Dobbiamo puntellare il ciclo delle elementari: resta la fase migliore della scuola italiana, ma mostra le prime crepe», dice Rossi Doria. Più ore il pomeriggio e rafforzamento degli alfabeti di base. «Se dai 7 ai 9 anni leggi bene e capisci i significati, scrivi in maniera corretta, impari la base del pensiero scientifico-matematico, sei pronto per passare alle medie e alle superiori senza rischi». È tra i 14 e i 17 anni che ci si "perde": sono 117 mila i ragazzi di quell´età fuori da qualsiasi percorso formativo. «L´Invalsi, con i test in seconda e quinta elementare, ci sta aiutando a guidare i nostri figli e segnala i primi problemi nelle periferie di Roma e delle grandi città del Nord». Pool di insegnanti lavoreranno con i ragazzi sui risultati Invalsi e si sta studiando se per il lavoro surplus potranno essere pagati straordinariamente: «L´obiettivo è quello di tenere le scuole aperte tutto il giorno». La seconda parte del piano ministeriale prevede una connessione, «una rete», tra la realtà scolastica (presidi, insegnanti, bidelli) e le strutture sociali del territorio circostante (centri sportivi, luoghi di associazionismo, parrocchie). «È un raddoppio della marcatura sui ragazzi a rischio», dice il sottosegretario. Si sta creando un prototipo per i quartieri periferici delle città da rendere operativo a settembre, nuovo anno scolastico. Il "maestro di strada" spiega, quindi, la necessità di creare «scuole di seconda occasione». Strutture private che, coinvolgendo le madri, potranno lavorare sulla psicologia degli infanti e far crescere la loro capacità di narrazione. Napoli ha aperto la strada, a Torino si è sviluppata la realtà "Provaci ancora Sam". Contro l´addio alla scuola, infine, diventa fondamentale la riqualificazione degli istituti tecnici: «Dove c´è una rete industriale e artigianale che funziona i dati migliorano». A Benevento, nel centro di Lecce, in alcuni zone di Torino, nella provincia di Trento.

Repubblica 27.2.12
La fine della civiltà capitalistica
Così tramonta un paradigma, non solo un modello economico
di Massimo Giannini


Il saggio di Carandini spiega l´ascesa e il declino di un fenomeno che è filosofico e politico
Dalla finanza alla società, la fase che stiamo vivendo ha cause e conseguenze complesse. Proviamo ad analizzarle, con l´aiuto di libri e interventi

Bisognerebbe chiedere a Joseph Schumpeter. Lui, forse, saprebbe dirci se la distruzione in corso è ancora »creatrice», oppure se il capitalismo (come il comunismo, secondo la nota critica berlingueriana) ha definitivamente esaurito la sua «spinta propulsiva». Lo pensavo qualche giorno fa, ascoltando Monti a Milano. Il premier parlava alla comunità finanziaria, con l´aria di chi predica in terra d´infedeli: i Salotti Buoni «hanno difeso l´esistente, impedendo la distruzione creatrice schumpeteriana». Ti guardi intorno, e in questo scorcio di millennio, almeno in Occidente, ti sembra di vedere solo macerie. Recessione e disoccupazione, disagi e disuguaglianze. Dov´è la "creazione", in mezzo a bolle finanziarie e immobiliari, che si gonfiano ed esplodono mietendo vittime tra i deboli? Dov´è il capitalismo "per sua natura congiunturale", come diceva Galbraith, capace di rigenerarsi continuamente da se stesso?
In cerca di risposte, si moltiplicano libri e riflessioni. Economisti, storici e filosofi. Latitano i politici, ma questa è la costante della fase. Tra gli ultimi saggi, ne segnalo uno che colpisce più di altri. Racconti della civiltà capitalista. Lo scrive per Laterza Guido Carandini, mescolando i suoi diversi saperi: dal lavoro imprenditoriale a quello intellettuale. Non un agile pamphlet sui guasti dell´oggi, ma un lungo viaggio a ritroso nelle alterne vicende del capitalismo industriale di ieri, che ti fa leggere con occhio diverso quelle del capitalismo finanziario di oggi. Rovistando proprio tra le macerie di otto secoli di storia, Carandini riscrive il grande racconto del capitalismo con un "nuovo paradigma", che Thomas Kuhn definirebbe "sistemico". Per capire il fenomeno capitalistico non basta più una sola dimensione, l´economia. Servono invece tutte le dimensioni del vivere: filosofia e politica, scienza e religione. Perché dal XII secolo in poi, tutte le sfere della società occidentale ricevono l´impronta del capitale, che le marchia a fuoco.
Ex comunista e deputato del Pci, studioso di Marx e del marxismo, Carandini parte dall´assioma del maestro di Treviri: "L´essere sociale determina la coscienza umana", e non il contrario. Di lì, con una contaminazione che abbraccia Fernand Braudel e Jacques Le Goff, Marc Bloch e Immanuel Wallerstein, sviluppa la sua tesi, intorno alla quale costruisce una "reinvenzione della storia": il capitalismo, per questa parte di mondo, è molto più che un sistema di governo (o "sgoverno"?) dell´economia. Molto più del mercato, della libera competizione, del conflitto tra le forze concorrenti. Molto più della stessa democrazia. E´ una vera e propria forma di "civilizzazione". Può sembrare un´ovvietà, mutuata magari proprio dalla valutazione "quantitativa" di Bloch, quando scrive che "tutte le fasi più lunghe della storia si chiamano civilizzazioni". Otto secoli filati di egemonia capitalista sono abbastanza, per confortare questa teoria. Ma è sul piano "qualitativo" che l´operazione si fa più audace e suggestiva. Riconoscere fino in fondo l´equazione capitalismo=civiltà ha implicazioni illuminanti, e soprattutto inquietanti, nella rilettura della vicenda umana che ci porta alla cosiddetta "modernità".
Il nuovo "paradigma" di Carandini poggia su quattro pilastri, che aiutano a ricostruire la storia degli ultimi ottocento anni: la potenza, l´accumulazione, la religione e la scienza. Sono queste le "leve" della storia del capitalismo. Lo generano, lo plasmano, lo trasformano e infine lo snaturano. Ai suoi albori, il pre-capitalismo è una versione basica dell´economia di mercato: vendere per comprare, scambiando per soddisfare i bisogni di sostentamento e di consumo. Poi muta, si sofistica: comprare per vendere, trasformando il denaro in merce e ritrasformando la merce in denaro. Così l´economia di mercato diventa circolazione capitalista. La nuova "civiltà" non è più ottimale soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi, ma perseguimento e accumulazione del massimo dei profitti. La novità dell´analisi di Carandini è che la metamorfosi comincia molto prima di quanto si pensi. Almeno cinque secoli in anticipo, rispetto alla Rivoluzione Industriale. Già nella Venezia dei borghesi del 1200, come poi nell´Olanda dei mercanti, la "potenza" del capitale contiene in nuce l´embrione delle sue evoluzioni/involuzioni successive.
Un filo rosso (o nero, fate voi) unisce quei primordi al meglio e al peggio dei secoli a venire. C´è "potenza" (la prima "leva") nei Padri Pellegrini che nel 1620 sbarcano con il Mayflower nel Nuovo Mondo, propiziando il primo Boston Tea Party del 1773 e la Dichiarazione d´Indipendenza del 4 luglio del 1776. C´è "potenza" nella Rivoluzione Francese e nella Dichiarazione dei Diritti del 1789. La "scoperta" dei diritti genera democrazia, la democrazia genera libertà, la libertà genera "accumulazione". Questa "leva" (la seconda) getta le basi per le future tragedie novecentesche. La società massificata, nei consumi e nei costumi, è alla radice dei fascismi europei. Per Carandini, con un coraggio analitico che si fa quasi temerario, persino il comunismo e la sua nemesi (il crollo del Muro), è in qualche misura il compimento delle condizioni primarie tipiche della potenza e dell´accumulazione capitalista. La Rivoluzione d´Ottobre di Lenin è "rivoluzione per la potenza", che ha come obiettivo la crescita dell´economia e del reddito nazionale. E pazienza se per raggiungerlo, prima Vladimir Ilic Uljanov, poi Josip Giugasvili Stalin, fanno 25 milioni di morti. Anche in Urss, in quell´abisso di Terrore, la logica del capitalismo "era in agguato", e il socialismo occultamente e inconsciamente era assoggettato a una logica dell´industrializzazione tecnicamente imposta dal capitalismo occidentale.
In questa chiave, Carandini ci costringe a ripensare il capitalismo storico non più solo come trasposizione pratica di libera concorrenza, free trade, mercati in equilibrio. La storia del capitalismo, viceversa, è anche storia di commerci di rapina, di guerre sanguinose, conquiste coloniali, schiavitù e sfruttamento. Spinta dalla "potenza", giustificata dalla "religione" (scrive Max Weber che "il capitalismo è una pratica religiosa di vita") e accelerata dalla "scienza" e dall´innovazione tecnica e tecnologica, l´"accumulazione" ad ogni costo permea le menti individuali e i comportamenti collettivi. Così il capitalismo storico genera dentro se stesso la barbarie e la violenza. Fino al nazismo e all´Olocausto. Fino alle mafie e alle criminalità organizzate. Più banalmente, il capitalismo contemporaneo compie l´ultima mutazione, e si fa "inciviltà". Sconfitte le avventure totalitarie, "domina oggi un mondo diviso tra sprechi di ricchi e privazioni di poveri, un´etica cieca del profitto acuisce il conflitto tra capitale e lavoro, e non colmerà l´abisso tra la sazietà e la fame". Carandini non ci lascia troppi margini per sperare. Restiamo tuttora immersi nelle "fedi ideologiche". Weber si sbagliava, quando immaginava che la "brama immoderata" non fosse l´essenza del capitalismo, e sognava che quest´ultimo ne fosse il "razionale temperamento". "Greed is good", è il motto di Wall Street, mentre a Main Street si soffre e di piange. "Solo la forza della democrazia può imporre limiti all´avidità di oligarchie affariste e promuovere una crescita più equa". Verissimo. Ma oggi c´è un problema, gigantesco: le democrazie per il popolo hanno lasciato il campo alle tecnocrazie senza popolo. E il vero scontro di civiltà, ormai, non è più tra Islam e Occidente, e nemmeno più tra politica ed economia. È tra economia e democrazia.
Chiudo il libro appagato, ma con una domanda finale che resta senza risposta. Per Francis Fukuyama la crisi del comunismo coincise con la fine della storia. Da quel saggio famoso, uscito nel 1992, le cose sono andate un po´ diversamente. Oggi, con un criterio valutativo uguale e contrario, possiamo azzardare che la crisi del capitalismo coincide con la fine di una civiltà? Non so dirlo. Ma so che il capitalismo finanziario di questi anni (per parafrasare i Balcani di Churchill) consuma molta più storia di quanta ne produce. Così non può reggere. Fosse vivo, lo direbbe anche Schumpeter.

Corriere della Sera 27.2.12
Lenin all'ombra dei Faraglioni
di Enrico Mannucci


Agli inizi del Novecento, Capri era già nota come «perla del Mediterraneo», era meta prediletta di soggiorno per inglesi e tedeschi che disputavano, fra loro, il primato per la scoperta di questa o quella meravigliosa grotta e si attestavano nei rispettivi ritrovi: c'era il caffè «Zum Kater Hiddigeigei» dei Morgano e c'era l'albergo più bello, l'Hotel de Londres. A Capri arrivavano i ricchissimi dell'epoca, gli artisti, anche i depravati. E c'era già un rapporto ambiguo fra forestieri e locali. Quello che porterà nei guai, mezzo secolo dopo, un celebre caprese d'adozione, Curzio Malaparte.
Poi c'erano anche intrighi più seri. L'eterogenea frequentazione aveva reso l'isola una specie di Tangeri, nel senso di santuario dello spionaggio internazionale. Uno dei fili faceva capo ad un'altra colonia straniera: quella dei russi, cresciuta attorno ad Aleksej Maksim Gor'kij, scrittore in esilio alquanto dorato. Lì, fra il 1908 e il 1910, capitò in due occasioni il massimo rivoluzionario del secolo, Lenin. Veniva a trovare — e magari a controllare — quel circolo di fuoriusciti dall'ideologia non proprio ortodossa. Ma forse — nel posto più a sud del pianeta dove si sarebbe mai spinto — ebbe anche modo di allacciare contatti con potenti personaggi tedeschi, industriali e alti gradi militari, quelli che avrebbero aiutato la rivoluzione bolscevica a rovesciare lo zar.
Le due visite dalle parti dei Faraglioni sono ricostruite in Scacco allo zar (Mondadori, pp. 192, 18,50), ben documentato libro di Gennaro Sangiuliano, vicedirettore del Tg1 che aveva già dimostrato il suo fiuto di ricercatore storico con Giuseppe Prezzolini, l'anarchico conservatore. Il soggiorno di Lenin è immortalato da una foto celebre e quasi bucolica. Il rivoluzionario è davanti a una scacchiera all'aria aperta, l'avversario è Alexander Bogdanov, medico, filosofo e marxista in odor di eresia. Intorno, Gor'kij e tre altri esuli russi, sullo sfondo le colline capresi.
Sangiuliano spiega come Lenin non passò il tempo soltanto a rilassarsi. In quei giorni, sull'isola, c'era anche il futuro feldmaresciallo Paul von Hindenburg, ospite dei Krupp. E «lacchè di Hindenburg» verrà poi definito Lenin, quando il legame fra bolscevichi e tedeschi diventerà pubblico. L'intreccio è illustrato anche da rapporti dei servizi segreti scovati negli archivi britannici: probabilmente Capri fu una tappa importante. Ma, più ancora che per la ricostruzione di questi retroscena, il libro si gode per il racconto dei particolari di vita quotidiana dei bolscevichi in «Piazzetta». Con Lenin che esce da Marina Piccola sul grande gozzo bianco di Gor'kij, e impara dai barcaioli la pesca a mano, fatta avvolgendo il filo attorno al dito indice. Se il pesce abbocca, esclama «Drin, drin». E «professor Drin drin» lo soprannomineranno gli isolani. Nel periodo successivo, non si sbottonerà mai troppo su questa spedizione. Sintetico ed elusivo, rispondeva a chi gli chiedeva impressioni dell'Isola azzurra: «Mare bello, vino buono».

Corriere della Sera 27.2.12
Socrate, la scelta della coerenza
Nell'«Apologia» l'esempio di una visione della filosofia come testimonianza spinta fino al sacrificio della vita
di Armando Torno

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Corriere della Sera 27.2.12
Perché siamo tutti eredi del pensiero di Platone

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domenica 26 febbraio 2012

l’Unità 26.2.12
Tanti messaggi di sostegno al nostro giornale espulso dalla Magneti Marelli. La Cisl offre i suoi spazi
L’appello: ogni operaio porti una copia sul posto di lavoro. Il vice di Confindustria plaude ai censori
La Cgil: in fabbrica con l’Unità
Bombassei duro: va sbullonata
Dopo il diktat Fiat contro l’Unità, solidarietà al giornale da lavoratori, sindacalisti e politici. Ma il candidato di Marchionne a Confindustria, Bombassei, ci attacca: le bacheche con l’Unità? Le smonterei di persona...
di Massimo Franchi


Un’onda di solidarietà che si ingrossa. Con una sola, ma pesante, eccezione. Il diktat di Marchionne, che ha espulso il nostro giornale dalle bacheche delle fabbriche Fiat, provoca una sostegno vastissimo al nostro giornale con veri miracoli dal punto di vista sindacale.
Semplici lettori, politici e sindacalisti si stanno mobilitando facendo sentire la loro voce al fianco «del giornale dei lavoratori». Twitter, con la campagna #iostoconlunità, Facebook, gli altri social sono pieni di messaggi di solidarietà verso «il quotidiano fondato da Antonio Gramsci». La Cgil ha deciso di lanciare una campagna straordinaria e dal suo profilo scrive: “Portiamo copia de “L’Unità” a lavoro e appendiamola nella bacheca delle informazioni sindacali, difendiamo la libertà di stampa”.
BOMBASSEI CI SBULLONA
Sponsorizzato da Marchionne come nuovo presidente di Confindustria, Alberto Bombassei contraccambia il favore e dagli schermi di “In onda” attacca frontalmente il nostro giornale. Il tono è scherzoso, ma le parole pesantissime: «Mi voglio togliere un sassolino», premette: «Io non ho le bacheche dell’Unità nelle mie fabbriche, non le ho mai avute. Ma per come l’Unità è accanita nei miei confronti negli ultimi due mesi quelle bacheche le sbullonerei volentieri anche io». A Bombassei non sono andati giù alcuni articoli sulla «campagna elettorale» in Confindustria, nella quale è contrapposto a Squinzi, specie sul tema dell’articolo 18. Il patron Brembo come il manager canado-abruzzese sono per abolirlo, il fondatore della Mapei non la ritiene una priorità. «Se Marchionne ha sbullonato solo la bacheca de l’Unità prosegue Bombassei probabilmente ha sbagliato ma immagino che l’avrà fatto con tutti i giornali. Comunque ha so-
lo correttamente interpretato le regole, non è un abuso, dato che la Fiom non ha un diritto di rappresentanza e quindi bacheche a disposizione».
A Bologna, sede dello stabilimento Magneti Marelli da cui è partita la polemica, intanto accadono cose impensabili fino a giovedì. Nel mezzo di una battaglia sindacale fortissima, il segretario Cisl Alessandro Alberani annuncia di aver «dato indicazione di ospitare nelle nostre bacheche le copie dell’Unità». Condivide il segretario generale Fim Beppe Farina: «Laddove c’è una tradizione, non ho niente in contrario a mettere il vostro giornale nei nostri spazi, però purtroppo si tratta di poche realtà: la polemica è simbolica».
A sentire la Fiat però neanche questo potrà accadere. Da Torino l’azienda ribadisce che «non si possono affiggere nelle bacheche cose che non siano comunicati sindacali». Alla domanda perché questa decisione viene presa ora, la risposta è: «Il tempo cambia per tutti», lasciando però intendere che la “guerriglia” con la Fiom sia la causa scatenante.
Tra i politici Nichi Vendola ricorda: «Solo negli anni del fascismo si esiliavano i sindacati e si staccavano le bacheche de L’Unità dagli stabilimenti Fiat». Giovanni Centrella, segretario generale Ugl, spiega «che togliere il giornale dalle bacheche riduce lo spazio di libertà e di democrazia all’interno delle fabbriche». Per Eros Panicali, segretario nazionale Uilm, «non era il momento di prendere questa decisione, ma concordo sull’idea che all’interno delle fabbriche non ci siano giornali».
Maurizio Landini, leader Fiom, ricorda quando «da ragazzo passavo le domeniche a distribuire l’Unità e ora vederla vietata nelle bacheche Fiat dà l’idea di quanto la democrazia sia a rischio in quelle fabbriche». Gli dà man forte anche il leader della minoranza riformista Faustino Durante: «Più copie del nostro giornale verranno rimosse e più lettori avrà l’Unità, tra i metalmeccanici e non solo». Per Stefano Fassina (Pd) «c’è una offensiva culturale sui diritti dei lavoratori con interventi da inizio del secolo scorso», mentre Oliviero Diliberto (Pdci) annuncia di sottoscrivere «un ulteriore abbonamento». Solidarietà anche da Silvana Mura (Idv), Marina Sereni, Beppe Giulietti e Pierangelo Ferrari.

l’Unità 26.2.12
Non solo una bacheca
di Claudio Sardo


Le bacheche de l’Unità smantellate negli stabilimenti Magneti Marelli di Bologna e Bari non sono purtroppo un accidente. Sono parte di uno scontro politico, di un’involuzione culturale, di una crisi che non è soltanto economica. L’Unità è uno degli strumenti attraverso cui si esprime il pluralismo sociale.
Ma è anche una delle radici che affondano nella storia nazionale e nelle passioni civili e democratiche della nostra comunità.
Certo, l’espulsione de l’Unità da queste fabbriche del gruppo Fiat non ha un valore sindacale paragonabile al gravissimo vulnus nella rappresentanza provocato dall’esclusione della Fiom, oppure alle discriminazioni subite dai lavoratori iscritti alla Cgil, o ancora al rifiuto di rispettare la sentenza del giudice sul reintegro dei tre operai di Melfi. Eppure contiene un significato che non è solo simbolico. La questione riguarda la considerazione dei lavoratori nella realtà aziendale, riguarda il loro spazio di libertà e di autonomia, insomma i loro mondi vitali.
La crisi di competitività che ha investito l’Italia e l’Europa ci induce quotidianamente a parlare delle regole del mercato del lavoro, degli strumenti di flessibilità e di protezione sociale, delle norme che devono presiedere ai rapporti tra chi dà lavoro e chi lo presta. È il terreno di una battaglia sulla distribuzione dei redditi e dei sacrifici, oltre che sulle opportunità per il Paese e sulla giustizia sociale. Ma al fondo il conflitto riguarda l’idea stessa di persona, in particolare il diritto di uscire dalla dimensione individuale di cittadino o di lavoratore per essere parte attiva di quelle «formazioni sociali» che la nostra Costituzione considera l’orizzonte inalienabile della personalità umana.
Si può e si deve discutere dei piani industriali di Sergio Marchionne, dei suoi impegni non mantenuti, delle aspettative che il nostro Paese ripone verso una delle sue più grandi industrie. Tuttavia lo stesso Marchionne non nasconde la propria
ragione politica, la propria visione, il desiderio di mutare profondamente i rapporti di forza. E, a dispetto di compiacenti narrazioni, la sua strategia non ha nulla di eccentrico. Anzi, è Marchionne ad additare come eccentrici, come dannosi, tutti i condizionamenti alla libera dialettica tra le forze del mercato. Che sia la politica, che sia il sindacato, che sia chiunque altro provi a segnalare un interesse generale colpito o minacciato, questi vanno zittiti in ossequio al primato dell’impresa. Serve a poco replicare che la politica è il solo strumento in mano ai popoli per ridurre gli squilibri e che il primato dell’impresa è seriamente minacciato dal primato della finanza. Purtroppo è tornato di moda il ritornello dei regimi autoritari: la politica è sporca, cattiva, pericolosa.
Dalla crisi non usciremo come siamo entrati. Non tornerà il mondo di prima. Dovremo cambiare, rischiare, anche compiere rinunce. Ma ciò che è inaccettabile per un democratico è la condanna dell’uomo alla solitudine davanti al mercato, allo Stato, ai poteri globali. Rischia di essere travolta quell’idea di persona che i costituenti hanno posto al centro della nostra Carta fondamentale. Le bacheche de l’Unità saranno pure una piccola cosa. Ma alludono a valori più grandi. Al desiderio, appunto, di andare oltre la dimensione individuale. Di sviluppare un pensiero critico. Di costruire una rete di solidarietà umana, e dunque politica. Non è un’alternativa alla solitudine essere audience o generica moltitudine. È nelle relazioni tra gli uomini che nascono la solidarietà e il cambiamento.
Ringraziamo con grande amicizia e fraternità i tantissimi lettori che in queste ore ci hanno manifestato solidarietà e affetto. Non lo hanno fatto per un riflesso antico. L’Unità oggi è cambiata. Ma la storia di una comunità reca impronte indelebili. Noi siamo quelli che credono che la politica possa rinnovarsi, siamo quelli che si battono per rinnovarla e che sanno che sono indispensabili le persone e i corpi intermedi per costruire politiche di uguaglianza e di sviluppo sociale. In fondo, è questa la vera sfida che abbiamo di fronte. Costruire un nuovo patto sociale e riportare in Europa un’Italia europeista, solidale, innovativa. È lo stesso bivio che ha di fronte il governo: non segua Mario Monti le sirene della rottura sociale.
Un ringraziamento di cuore anche a tutte le personalità politiche e sindacali che ci hanno dimostrato la loro simpatia. Un grazie particolare al segretario della Cisl di Bologna, che si è impegnato ad ospitare l’Unità nelle bacheche della sua organizzazione, dove i lavoratori vorranno. È un riconoscimento che vale molto per chi come noi considera l’unità sindacale un valore prezioso.

l’Unità 26.2.12
Intervista a Ottavia Piccolo
«L’ad Fiat parla come Bossi ma la storia non si cancella»
«La bacheca vietata? Uno stile violento di relazioni sindacali Qualunque sincero democratico dovrebbe indignarsi»
di Toni Jop


Ma che carino questo Marchionne! Sa come si fa per far capire agli altri che a lui della loro vita non interessa niente, anzi: che gli interessa nulla di nulla nemmeno della storia di cui anche lui, suo malgrado, fa parte»: è così, l’hanno fatta arrabbiare con questa storia della cancellazione dell’Unità nella bacheca della Magneti Marelli di Bologna. E Ottavia Piccolo non lo perdona: al già citato Marchionne, alla Fiat, a uno stile di relazione con la vita impostato sulla violenza gratuita, e infine con chi a sinistra ha sdoganato, per fascino subìto, la figura e il linguaggio dell’ad.
Dal tono, Ottavia, pare che quanto è avvenuto ti abbia strappato la pelle... «Certo che sì e vorrei vedere che qualunque sincero democratico non sentisse sulla propria pelle il dolore di questa crudeltà ricevuta»
Dici: crudeltà. E cioè una dose del tutto inutile e superflua di dolore inferto alla vittima...
«Questa è la caratteristica di quello strappo. Ha un valore politico? Lo avrà, di sicuro. Tuttavia non si tratta di accreditare tout court un potere che fa e disfa quel che vuole e dove lo vuole, ma di confermare la validità di un linguaggio che porta con sé la brutalità. In quella bacheca sparita ci sono tutti i crismi di una cultura che combatte la “buona educazione”, una forma che può nascondere altro ma che è indispensabile per garantire spazio e agibilità alle relazioni. Ma Marchionne si era già dichiarato sacerdote di questa linea offensiva quando ha escluso la Fiom dai reparti e dalle rappresentanze sindacali. Curiosa sintonia: la sua brutalità sembra la stessa che ha messo in pratica la Lega. Son parenti?
L’Unità è di nuovo all’inferno, strano ma vero, per mano di un signore che tu avvicini, nei modi, alla Lega Nord... «Ah, sì. Che ci vuole a capirlo? Ti faccio un esempio: secondo te, Gianni Agnelli avrebbe mai compiuto un passo del genere? Non credo, e non perché fosse più buono ma perché sapeva il valore della politica e delle relazioni. Invece, ecco questo grande amministratore usare lo stesso linguaggio di Calderoli e di Bossi sugli immigrati. Oggi si può dire così e nessuno si scandalizza, anzi si diverte. Oh quanto si sono divertiti molti giornalisti democratici, e anche qualche politico di sinistra...
Divertiti a far che?
«A fingere per paura della solitudine, di non aver capito che per stare al gioco conviene accettare come folklore una brutalità senza fine che tutto va bene. Che Marchionne è un grande dirigente anche se massacra il sindacato, ricatta la Confindustria, e ora cancella l’Unità dalle sue fabbriche. Quanti dirigenti anche del Pd, del mio partito, si sono sbracciati a sostenere che Marchionne era il “compagno del futuro”? Che tenerezza e che rabbia..., allora Valletta è stato il miglior compagno del passato, altro che Berlinguer».
Bersani non è di questo avviso, per niente...
«Mica c’è solo lui. Il fatto è che l’innamoramento verso Marchionne di un drappello di dirigenti della sinistra ha oggettivamente sdoganato quel suo terribile stile. Siamo corresponsabili, ecco. Così come lo siamo delle scornate incassate dai candidati Pd a Genova, Napoli, Milano. Una volta, i dirigenti del partito venivano nei territori a spiegare cos’era giusto fare, adesso è la base che svolge questo lavoro di persuasione politica. Anche a proposito dell’articolo 18».

l’Unità 26.2.12
La storia
Decenni di cronache sindacali. L’evoluzione dei rapporti in fabbrica con il mutamento del Paese
Gli alti e bassi, le vicende pubbliche dei grandi leader raccontate con l’orgoglio di essere di parte
Noi, dalla parte dei lavoratori
Da sempre giornale dell’unità
di Bruno Ugolini


L’Unità proibita alla Fiat di Bologna e in altre fabbriche della multinazionale dell’auto rappresenta un’offesa, una ferita per tutti i metalmeccanici, operai, impiegati e tecnici e non solo per i “rossi” della Fiom. Perché questo giornale è stato al loro fianco da quando è nato, cercando di interpretarne obiettivi, inquietudini, aspirazioni, difficoltà, ancorandole proprio al titolo di questa testata: «Unità».
Quando io ho cominciato a lavorare su queste pagine, dopo un periodo di apprendistato, ho ricevuto da Adriano Guerra, un caro compagno e collega scomparso, proprio questo incarico. Ero, nel servizio economico sindacale, a Milano, il redattore che doveva seguire la categoria considerata un po’ l’avanguardia, la “punta di diamante” si diceva allora, del movimento sindacale. Mi ero fatto le ossa a Brescia come corrispondente del giornale, dopo un’esperienza redazionale presso la Casa editrice «La Scuola». E il mio tempo era occupato, oltre che da incidenti stradali e omicidi, da scioperi e manifestazioni spesso organizzate dai metalmeccanici. Ho visto nascere così le prime esperienze unitarie.
Ho ancora il ritaglio di una prima pagina, in un quadretto regalatomi da una collega con il titolo: «Sciopero all’Om Fiat, al grido di libertà» e la mia firma. Era il 6 aprile 1962. Quei metalmeccanici lottavano contro un licenziamento di rappresaglia adottato per colpire uno dei promotori di una vertenza intrapresa anche per modificare la natura di una specie di premio considerato «antisciopero». Non accettavano, in sostanza, il baratto tra un pugno di soldi e la libertà di agire come sindacato. Le radici del famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori risalgono a episodi come questo.
C’era in quella cronaca, riportata da l’Unità, una componente straordinaria, ovverosia la presenza di dirigenti cattolici metalmeccanici. Ricordo tra gli altri i nomi di Michele Capra e Franco Castrezzati. Nasceva una Fim-Cisl rinnovata e combattiva. Fiom, Fim e Uilm cominciavano a contaminarsi a vicenda. Ho nei miei cassetti una lettera firmata da Luigi Macario, segretario generale della Fim-Cisl, datata 14 giugno 1969. Ringrazia il giornale per l’informazione sul sesto congresso svoltosi a Sirmione con la convinzione che «l’informazione ampia e obiettiva anche sui fatti sindacali sia elemento essenziale per favorire la crescita democratica». Era accluso un assegno di 30 mila lire «per rimborso spese di viaggio». Un contributo a un giornale povero.
Ho anche un’altra lettera firmata da Pio Galli (segretario Fiom) che sempre in quegli anni mi incarica di partecipare alla redazione di «Unità operaia», il primo giornale unitario dei metalmeccanici, con sede negli uffici della Uilm di Giorgio Benvenuto in piazza Sallustio a Roma.
Seguire la storia dei metalmeccanici, nelle cronache de l’Unità, è come seguire la storia di un Paese che cerca di rinnovarsi, di modernizzarsi davvero. Non a caso la prima rivista Fiom di Bruno Trentin si chiamava «Sindacato moderno». Ed ecco la prima grande manifestazione a Roma (piazza del Popolo il 28 novembre del 1969). Un corteo immenso e disciplinato che risponde così ai timori di Giancarlo Pajetta, il “ragazzo rosso”, preoccupato che si potesse solo «spaventare la borghesia». I resoconti di Ugo Baduel e di Alessandro Cardulli descrivono «Un corteo lungo cinque chilometri». Mentre l’editoriale sottolinea come l’unità sindacale sia tornata «a trionfare in Italia di ogni ostacolo, di ogni incertezza, di ogni attentato».
Sono gli anni di Luciano Lama, Bruno Trentin, Pierre Carniti, Piero Boni, Giorgio Benvenuto, Ottaviano del Turco e di migliaia e migliaia di militati sindacali. Sono quelli che organizzano la discussa manifestazione a Reggio Calabria, per rivendicare scelte concrete per il Mezzogiorno e non lasciare spazio ai «boia chi molla». È l’incontro cantato da Giovanna Marini: «I metalmeccanici di Torino e Milano / puntavano in avanti tenendosi per mano / le voci rompevano il silenzio / e nelle pause si sentiva il mare / e alla sera Reggio era trasformata / pareva una giornata di mercato / quanti abbracci e quanta commozione / il nord è arrivato nel meridione /...gli operai hanno dato una dimostrazione».
Sono queste storie e molte altre che si vogliono cancellare, cancellando l’Unità. Anche quelle difficili che hanno contrassegnato gli anni Ottanta e Novanta, con gli stessi sindacati che contrattavano le ristrutturazioni e i tentativi di non seppellire del tutto la sorte di operai e tecnici e con loro del lavoro, fonte di ricchezza per il Paese.
Sindacati che consentivano
l’entrata in Europa e la vittoria contro lo spettro dell’inflazione moderando la spinta salariale. E oggi si invoca proprio l’Europa contro di loro e li si accusa di difendere solo vecchi tabù, di essere conservatori nonché difensori di ladri, fannulloni e sfigati.
Sfoglio i miei ricordi e le pagine del mio vecchio giornale ora cosi facilmente accessibili sul sito on line e mi chiedo che epoca sia mai questa. Certo da quelle memorie da quei dirigentidelpassatonasceancheuna lezione. Quella di non accontentarsi del proprio orgoglio di parte, di saper catturare il presente e il futuro, di saper calcolare il rapporto di forza e sapersi fermare, quando è necessario. Purché il compromesso raggiunto non chiuda la possibilità di riemergere. “La lotta continua” come diceva non solo un movimento di quegli anni lontani, ma altresì il titolo di un articolo di Bruno Trentin. Era un incitamento a stare dentro i processi, a non farsi ghettizzare. Il vergognoso diktat di Marchionne può risultare un boomerang. Ed è importante quel che è successo a Bologna. Con la Fim Cisl che ha deciso di riattaccare nella propria bacheca l’Unità. Un riconoscimento, crediamo, non solo al passato di un foglio glorioso.

Repubblica 26.2.12
Schiaffo alla democrazia
di Luciano Gallino


Dinanzi all´ordine di rimuovere le bacheche che espongono l´Unità, sulle prime uno pensa che Fiat abbia deciso di estromettere la democrazia dai suoi stabilimenti. Un segno non da poco. Il cammino era già tracciato con i contratti ferrei di Pomigliano e Mirafiori, il licenziamento di alcuni operai che avrebbero disturbato la produzione a Melfi, infine l´esclusione della Fiom dai reparti. Ora si aggiunge il divieto di esporre un quotidiano. Il che fa pensare ad altro. Infatti la democrazia non è morta sempre con un gran botto. In diversi casi è morta anche a piccoli passi, compiuti nelle fabbriche, nelle scuole, in piccole città, fino a che ci si è accorti che era scomparsa in un intero Paese. Per questo motivo il segnale che arriva da Bologna e altrove preoccupa sotto il profilo politico più che sotto quello delle relazioni industriali.
D´altra parte è possibile che Fiat non abbia affatto intrapreso i passi anzidetti per cancellare la democrazia industriale. Magari ha già deciso di lasciare l´Italia, come parrebbe anche dai contraddittori annunci circa i modelli da costruire o forse no nel quadro del fantomatico piano Fabbrica Italia e dai milioni di ore di CIG a Torino e Pomigliano. E vuol mostrare che vi è costretta perché con la Fiom non si ragiona, troppi osano criticare il Piano che non c´è mentre gli americani lo ammirano, e qualcuno pretendeva pure di esporre nei suoi impianti un quotidiano che in un angolo reca tuttora la scritta "fondato da Antonio Gramsci nel 1924".

l’Unità 26.2.12
Intervista a Massimo D’Alema
«Progressisti uniti per cambiare l’Europa. Mai più un’altra Grecia»
Parla il presidente di Italianieuropei «Vergognoso il comportamento dell’Ue con Atene. Il documento Ps-Pd-Spd primo passo per una svolta»
di Simone Collini


La firma della «Dichiarazione di Parigi» è solo un primo passo perché, spiega Massimo D’Alema, fa parte di un progetto che andrà avanti nei prossimi 18 mesi con l’obiettivo di «far voltare pagina all'Europa». Il 17 marzo, il candidato alle presidenziali francesi François Hollande, il segretario della tedesca Spd Sigmar Gabriel e il leader del Pd Pier Luigi Bersani sigleranno una piattaforma comune che impegna i loro partiti a precise politiche sul fronte comunitario. L’operazione nasce dall’idea di tre fondazioni che fanno riferimento a forze di centrosinistra, la francese Jean Jaurès, la tedesca Friedrich Ebert e l’italiana Italianieuropei, che insieme alla Fondazione per gli studi progressisti europei (la Feps, che ha sede a Bruxelles) hanno chiamato a raccolta un gruppo di intellettuali e parlamentari europei. Mesi di lavoro hanno portato al documento intitolato «Crescita, solidarietà, democrazia» ma, spiega D’Alema che della Feps è presidente, dopo Parigi toccherà a Roma e Berlino ospitare analoghe iniziative. «Nel prossimo anno e mezzo si terranno elezioni in Francia, Italia e Germania, tre Paesi chiave dell’Unione. Pensiamo solo al fatto che insieme ospitano 200 milioni di abitanti, sui 330 milioni totali dell’area Euro. E allora non stiamo parlando solo del susseguirsi di tre singole elezioni nazionali, anche perché non ci si può candidare al governo di un Paese senza un progetto per l’Europa. Stiamo parlando di una grande opportunità per l’Unione, che finalmente può voltare pagina».
Qual è l’analisi da cui sono partite le fondazioni per arrivare alla “Dichiarazione di Parigi”?
«Di fronte alla crisi, l’Europa ha dimostrato un’impressionante scarsità di solidarietà e mancanza di visione. Si è chiusa in una logica difensiva, fissando come unico obiettivo la protezione della stabilità monetaria e sacrificando crescita e lavoro».
Qual è la proposta alternativa?
«È necessario riorientare la politica europea. Bisogna trovare effettive soluzioni rispetto al problema del debito sovrano di alcuni Paesi, abbattere i tassi d’interesse, creare una solida barriera contro la speculazione. Se ci fosse stata nei confronti della Grecia una effettiva solidarietà, la crisi sarebbe costata molto meno, ai greci e all’Europa. C’è stato un miope egoismo nazionale, in particolare da parte tedesca. Ed è stato vergognoso il modo in cui l’Unione ha schiacciato la Grecia. C’è stato un comportamento che ricorda quello mostrato negli anni 70 dal Fondo monetario nei confronti dell’America latina».
Dodici capi di governo di Paesi Ue, Italia compresa, hanno firmato un “piano per la crescita” in cui si sottolinea la necessità di accelerare le liberalizzazioni e un accordo per il libero scambio: è un documento in sintonia con la “Dichiarazione di Parigi”? «Riorientare la politica europea vuol dire in primo luogo mettere in campo politiche per la crescita. Che a sua volta significa due cose che non vedo in contrasto tra loro. Da una parte è necessario il completamento del mercato unico, puntare alle liberalizzazioni, favorire la concorrenza, perché sono tutti fattori che possono sostenere crescita. Ma dall’altra parte servono politiche per la regolazione dei mercati finanziari, misure per la lotta alla speculazione, programmi di investimento per la ricerca, le infrastrutture, lo sviluppo dell’economia verde. Non è fatta di sole liberalizzazioni la via della crescita. Come non è solo con la vecchia idea keynesiana degli investimenti pubblici che si possono risolvere i problemi che abbiamo di fronte. Una nuova piattaforma europea deve contenere un mix di entrambe le cose, perché altrimenti per i singoli Paesi è difficile superare la crisi. L’idea che ciascuno faccia i “compiti a casa”, che basti mettere a posto i conti e poi la crescita è affidata ai singoli Stati, denota una visione miope e improduttiva». Si parla di Eurobond e di tassazione sulle transazioni finanziarie: non tutti nell’Ue sono concordi sul fatto che si tratti di strumenti positivi.
«Gli Eurobond sono uno strumento importante, sia nella versione proposta da Spd e Verdi tedeschi, quella di convertire una parte del debito nazionale in debito europeo, sia nella versione del Project bond, come titoli emessi per finanziare grandi progetti infrastrutturali. Quanto alla tassazione delle transazioni finanziarie, oltre a procurare all’Unione una risorsa propria per finanziarie politiche per lo sviluppo, consisterebbe in un chiaro fattore di giustizia fiscale, visto che il peso maggiore è stato progressivamente spostato sul lavoro mentre la ricchezza finanziaria per la sua volatilità transanzionale sfugge a un’adeguata tassazione».
C’è chi fa notare che per funzionare la cosiddetta Tobin tax dovrebbe essere applicata a livello internazionale. «È vero, ma l’Europa intanto può partire».
Nel confronto tra le forze progressiste si insiste sul concetto di “solidarietà” ma non su quello di “libertà”: perché?
«La libertà delle persone è un valore fondamentale, come anche la libertà economica. Ma non dobbiamo confonderla con la deregulation, come è stato fatto in questi anni. Perché è proprio questo liberismo estremo che porta una grande responsabilità nella crisi in cui siamo precipitati. Per le forze progressiste, dunque, è essenziale capire quale sia il confine tra “libertà” e deregulation».
E rispetto al modo in cui si sono poste in passato nei confronti dell’integrazione europea, cosa devono “capire” le forze progressiste?
«Direi che è già stato capito, e l’iniziativa in corso ne è la dimostrazione. Blair è stato scarsamente impegnato nell’integrazione politica dell’Europa, i socialisti francesi hanno avuto posizioni segnate da una forte visione nazionale. Oggi invece le forze progressiste si dimostrano molto più pro-europeismo rispetto al passato. L’obiettivo delle principali forze di centrosinistra dell’Ue è l’integrazione politica dell’Europa, al di là della dimensione intergovernativa, che appare oggi dominante. Ed è un obiettivo che noi italiani non possiamo che apprezzare».
Veramente, quando è stata data la notizia che Bersani, Hollande e Gabriel sottoscriveranno la “Dichiarazione di Parigi”, qualcuno ha contestato al segretario Pd la volontà di puntare a un partito del socialismo europeo.
«Noi andiamo a Parigi per ricercare obiettivi comuni con le forze progressiste che speriamo nel corso dei prossimi mesi andranno al governo dei principali paesi europei. Lo facciamo per rendere più forte anche la nostra proposta di governo. E lo facciamo nello spirito di quella cultura europeista che appartiene anche alle diverse tradizioni che hanno fondato il Pd. Vorrei che tutti vedessero, in questo appuntamento, una grande occasione per allargare l’orizzonte del dibattito politico. Oggi siamo di fronte a una novità importante, che noi italiani in particolare dobbiamo salutare come un fatto positivo». D’accordo, ma protagonisti dell’operazione, insieme al Pd, sono i socialisti francesi e la Spd...
«Non è colpa mia se i socialisti francesi e la Spd sono le principali forze progressiste in Francia e in Germania. Questo è un dato della realtà da cui sarebbe difficile prescindere. Tuttavia, è anche evidente che questi partiti non sono autosufficienti. Il punto oggi è allargare oltre la visione tradizionale e soluzioni che hanno fatto il loro tempo per arrivare alla formazione di un pensiero europeo dei progressisti».
Quanto potrà incidere l’esito delle presidenziali francesi sulle vicende del centrosinistra italiano?
«Molto. Bisogna essere completamente miopi per non rendersi conto che i grandi progetti politici hanno dimensioni transnazionali, che è un errore guardare solo al cortile di casa. Noi non possiamo che collocare la nostra prospettiva al 2013. Dobbiamo sostenere il governo Monti con lealtà e preparare una prospettiva per il Paese. E la prospettiva non può che essere legata alla dimensione europea, perché le tendenze politiche nell’epoca della globalizzazione sono transnazionali e perché serve una svolta progressista, altrimenti la dimensione europea si muoverà tra mille difficoltà».

l’Unità 26.2.12
Da Marzabotto un eterno monito per ogni europeo
di Martin Schulz


Questo è il testo del discorso pronunciato dal presidente del Parlamento europeo Martin Schulz a Marzabotto.

Sono qui non soltanto nella veste di presidente del Parlamento europeo, ma anche come cittadino tedesco, profondamente scosso e imbarazzato per la brutalità e la disumanità dell’eccidio commesso in questo luogo dai tedeschi. È difficile trovare le parole giuste per esprimere i miei sentimenti e il mio cordoglio.
Il 29 settembre 1944 dei civili furono brutalmente massacrati da un commando delle Ss: uno dei più efferati crimini di guerra perpetrati durante il secondo conflitto mondiale. Le Ss uccisero crudelmente ottocento persone, donne, bambini e anziani. Fecero irruzione nelle case, nelle scuole e nelle chiese, sparando alle loro vittime, lanciando bombe a mano nelle case e incendiando i luoghi di culto. I pochi superstiti sfuggirono alla morte soltanto perché seppelliti da montagne di cadaveri o perché riuscirono a nascondersi. Il loro dolore sfugge alla nostra comprensione.
I cittadini tedeschi di oggi, pur non essendo personalmente colpevoli, hanno però certamente una grande responsabilità: la responsabilità di tenere vivo il ricordo e di non dimenticare mai ciò che accadde nel nome della nostra nazione. Desidero ringraziare voi tutti per aver conservato la memoria e per aver saputo dimostrare, grazie alla scuola di pace in cui si incontrano giovani italiani e tedeschi, che anche dopo efferati crimini possono nascere comprensione e amicizia. Marzabotto è un simbolo della brutale dittatura nazista. Grazie a voi e al vostro esempio, Marzabotto è diventato anche un simbolo del perdono e della responsabilità comune per il futuro.
Il fatto che io, figlio di un soldato della Wehrmacht, il cui corpo d’armata occupò l’ex Unione Sovietica, possa rivolgermi a voi nella mia veste di rappresentante di un Parlamento multinazionale e il fatto che oggi possiamo commemorare insieme, tedeschi e italiani, queste atrocità, dimostra che il sogno europeo è diventato realtà. Questa nostra Europa la dobbiamo anche a statisti tedeschi e italiani come Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, Sandro Pertini e Willy Brandt, uomini che, sulle rovine di un continente dilaniato e mutilato dalla guerra, ebbero il coraggio di costruire una nuova Europa. Essi riuscirono a riportare la pace tra i popoli tramite l’integrazione di Stati. È nostro dovere onorare e custodire questa eredità.
La pace va riconquistata ogni giorno. Ogni giorno dobbiamo lottare contro il riemergere dell’ideologia bestiale che sfociò in tali efferatezze disumane. Sono fiero di sapermi qui circondato da amici, insieme ai quali porto avanti questa battaglia per la democrazia, per l’umanità e per la tolleranza. Dopo tutto ciò che è successo è un miracolo essere accolto da voi come un amico. Questo è un regalo di cui vi sarò grato tutta la vita. Non posso che associarmi alla vostra solenne promessa: mai più guerra, mai più fascismo.

l’Unità 26.2.12
«In Grecia ultrasinistra al 45%»


Crescono in Germania i timori per l’esito delle elezioni greche di aprile. La Sueddeutsche Zeitung rivela che dagli ultimi sondaggi le tre forze a sinistra dei socialisti del Pasok otterrebbero insieme il 45%. Si tratta di partiti che rifiutano le misure imposte dall’Ue e hanno in programma l’uscita della Grecia dall’euro e la parallela dichiarazione di bancarotta del Paese.

il Fatto 26.2.12
Il piano B della Cgil: pronti a bloccare l’Italia
Art. 18, il sindacato tratta ma si prepara se il tavolo dovesse saltare
Ipotesi stop per Fiumicino
di Salvatore Cannavò


La Cgil si prepara al peggio e nel Direttivo che si terrà domani Susanna Camusso proverà a spiegarlo e a impostare una strategia adeguata. Una Cgil che “tratta e lotta”, probabilmente, seduta al tavolo fino alla fine, “per non dare alibi a nessuno”, come spiegano in Corso Italia, ma pronta a un'agenda di iniziative che potrebbero accompagnare tutto il mese di marzo prevedendo non tanto sciopero quanto blocchi e mobilitazioni diffuse.
SE N'È DISCUSSO informalmente venerdì scorso durante una riunione della segreteria nazionale con i segretari di categoria e territoriali, riunione in cui il segretario generale ha anche alluso alla possibilità di bloccare, magari solo per un giorno, la stessa Fiumicino. Ipotesi di scuola, ovviamente, nessuna decisione presa, solo un esempio per chiarire la strada da imboccare in caso di rottura con il governo, escluso lo sciopero generale per indisponibilità di Cisl e Uil. Che la discussione non sia idilliaca lo dimostra la delusione accumulata nel corso dell'ultimo vertice quando il ministro Fornero ha ipotizzato la riforma degli ammortizzatori sociali con l'introduzione di una disoccupazione generale pagata con il metodo assicurativo, cioè con i contributi di lavoratori e imprese. Tradotto in cifre significa estendere la platea dei beneficiari ma ridurre drasticamente, a contributi vigenti, le indennità: insomma, si potrebbe percepire un assegno di disoccupazione – sempre se si abbia lavorato nel periodo precedente – che però difficilmente potrebbe superare i 3-400 euro. Anche la Uil di Angeletti ha contestato la proposta al ministro mentre Raffaele Bonanni, ancora ieri rilanciava la necessità di un negoziato vero con la disponibilità da parte del governo a investire risorse nuove.
PER QUESTO, si sono detti in Cgil, è meglio predisporre un piano di riserva per “trattare e lottare” per recuperare vecchi slogan. Un primo appuntamento ci sarà il 1 marzo con lo sciopero, unitario, dei trasporti e poi il 3 marzo con quello, altrettanto unitario, degli edili. Il 9 marzo, poi, ci sarà lo sciopero generale della Fiom, stavolta appoggiato in pieno dalla Cgil e che si caricherà ulteriormente della tensione alimentata dalla dichiarazioni di Sergio Marchionne. A quel punto si tratterà di vedere cosa succede al tavolo. La trattativa politica in corso in questi giorni fa presagire una riforma dell'articolo 18 discussa anche con il Pd. Dopo l'incontro con il presidente Monti, Pierluigi Bersani ha più volte ripetuto che l'articolo dello Statuto dei lavoratori non si tocca ma che una sua “manutenzione” è possibile. E ieri Stefano Fassina, il responsabile Lavoro del Pd ha spiegato: “La sostanza dell'articolo 18, ossia il reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa, deve rimanere, mentre è plausibile che le procedure che servono ad applicare l'articolo 18 possono essere riviste”. Nella seconda parte della dichiarazione c'è, ovviamente, il succo del discorso. Fassina si è detto favorevole a ridurre la durata delle cause giudiziarie, posizione che trova d'accordo sia la Cgil che la Fiom. Ma il governo non si accontenterà di questo e se la “manutenzione” dovesse tradursi in un maggior utilizzo dell'indennità rispetto al reintegro il Pd sarà costretto a scegliere. Ecco perché la Cgil prepara un'agenda di mobilitazione. Ma non sarà sciopero generale perché, dopo il passaggio unitario avvenuto sulle pensioni, la Cgil non vuole scioperare senza Cisl e Uil. Meglio allora pensare a dei blocchi della produzione, dei trasporti, a iniziative diffuse, capillari e costanti. Ma solo se il governo continuerà sulla linea di scontro intrapresa finora. Altrimenti, la Cgil da quel tavolo non si alzerà e firmerà un'intesa. La linea proposta dalla minoranza interna di Rinaldini e Cremaschi, cioè la rottura del negoziato, non è presa in considerazione.

l’Unità 26.2.12
Art. 18 «L’esecutivo non deve auspicare, ma lavorare per l’accordo»
Rai «Ho rifiutato il patto offerto da Berlusconi. I partiti fuori dal Cda»
Bersani: il governo ascolti di più la gente «No alle ammucchiate»
Tornare alla normalità. Questo il messaggio di Pier Luigi Bersani, prima nel corso di un’iniziativa a Gorizia e poi a “Che tempo che fa”. Basta formule di emergenza, nel 2013 destra e sinistra torneranno a confrontarsi
di Maria Zegarelli


A tutti quelli che dopo Monti auspicano ancora Monti, una sorta di grande coalizione ad oltranza, Pier Luigi Bersani pressato non soltanto dai desiderata centristi ma anche da una buona fetta dei suoi, a partire da Letta e Veltroni risponde che no, non riesce a immaginare «che si possa andare alle elezioni proponendo l’eccezionalità».
No all’eccezionalità senza fine in un Paese sempre in emergenza e no all’accordo che attraverso «un autorevolissimo ambasciatore» Silvio Berlusconi gli ha proposto sulla gestione della Rai. «Recedi dalle tue posizioni intransigenti sulla riforma della governance e troviamo una soluzione, fa tu i nomi che vuoi nel Consiglio di amministrazione», questo il senso del discorso, fatto per interposta persona. «Ringrazio Berlusconi, considerato che potremmo anche avere la maggioranza, ma il Pd non cambia idea: la politica deve uscire dalla Rai», è stata la risposta del segretario Pd.
Tornare alla «normalità», davanti agli elettori, «pretendendo una democrazia normale, dove ci siano progetti alternativi, e poi le figure tecniche sceglieranno, vedranno. Per l’amor di Dio, grande apertura, non ci sarà il manuale Cencelli, quando candidammo Prodi era un tecnico, quando Ciampi era nel nostro governo era un tecnico», ma il punto resta politico. C’è bisogno, dice, di una maggioranza politica, coerente, in grado di sostenere le riforme che il governo che verrà dovrà fare. Tornare alla normalità in politica ma conquistare la normalità in Rai, dove a decidere non possono più essere i partiti e la logica spartitoria che fino a oggi ha caratterizzato le sorti del servizio pubblico.
E a chi gli chiede a margine di un’iniziativa a Gorizia se ci sarà il Monti bis, Bersani risponde con domande che sembrano rivolte ai leader di Terzo Polo e Pdl, ma anche a molti democratici da tempo alla ricerca del nuovo leader da giocarsi alle politiche del 2013. «Nel 2013 ci sarà consentito di essere una democrazia come le altre? Ci sarà consentito di vedere un sistema politico riformato, con le riforme elettorale e istituzionale, e dopo i due polmoni della democrazia che si confrontino, come avviene negli Usa, in Francia e in Germania?».
«TUTTI FACCIANO UNO SFORZO»
Ma intanto bisogna arrivarci a quell’appuntamento e il segretario Pd sa che è da questo momento in poi che l’appoggio al governo Monti diventa gioco di alta acrobazia per il suo partito: la riforma del lavoro sarà il banco di prova. Bersani, dopo il colloquio con il premier, si è mostrato cautamente ottimista, eppure puntualizza: «Il governo deve non solo asupicare, ma lavorare per l’accordo, francamente se guardo al merito della discussione, penso ci siano le condizioni per fare un buon accordo, di innovazione. Vorrei essere sicuro, però, che tutti facciano lo sforzo necessario in questa direzione, perché in qualche momento mi sembra che non tutti ci puntino con determinazione». Evidente il riferimento al ministro Elsa Fornero e a molti colleghi in Parlamento: «Sull’articolo 18 mi sono permesso di alzare un po’ la voce, lo faccio quando vedo che i binari cominciano ad andare fuori asse. Per giorni ho sentito dire che se l’accordo non ci fosse stato lo avrebbe fatto comunque il governo. Mi sono detto:
ma vogliamo scherzare?». Il punto, spiega, non è se l’esecutivo ascolta o no il Pd: il punto è che «qualche volta si ha l'impressione che l'orecchio sulla vita comune dei cittadini non sia sufficiente da parte di questo governo, ma spero che questa cosa nelle prossime settimane si possa correggere». Perché, in fase di recessione ha ribadito Bersani ieri sera ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa” le riforme «devono essere frutto di un accordo», per garantire la coesione sociale. Partire dalla precarietà, aggiunge, fare una riforma degli ammortizzatori sociali trovando le risorse necessarie e poi, dato che l’appoggio a Monti «è leale» ma critico, bene lo sviluppo, «ma bisogna abbassare il prelievo fiscale sul lavoro, sulle imprese che investono e sulle famiglie che hanno consumi così bassi». Sarebbe stata «una notizia positiva» sapere che il ricavato dell’evasione sarebbe andato all’abbattimento della pressione fiscale.

il Fatto 26.2.12
Bersani: questo governo a volte non capisce le esigenze della gente


Qualche volta si ha l'impressione che l’orecchio sulla vita comune dei cittadini da parte di questo Governo non sia sufficiente”, così come finora c'è stata “una dose non ancora sufficiente” di scelte di sinistra. Lo ha detto ieri Pier Luigi Bersani a “Che tempo che fa”, la trasmissione di Fabio Fazio. Un’ammissione da parte del segretario del Pd che però mantiene i consueti toni bassi nei confronti dell’esecutivo. Anche quando parla della riforma del lavoro, un ostacolo non piccolo per il suo partito. Mentre dice che “la Cgil non si alzerà dal tavolo” perchè “se fallisce quel tavolo si alzeranno tutti". e ribadisce che "il problema e' la coesione”, sull’articolo 18 mantiene una posizione di mediazione: “Se quel tavolo sbroglia il tema della precarietà, trova una soluzione per gli ammortizzatori fatto salvo il principio cardine dell'articolo 18 che deve rimanere come articolo 18 della non discriminazione, l'applicazione di questo principio si puo' anche aggiustare". E sulla Fornero che aveva gelato il Pd dicendo “andiamo avanti anche senza i partiti” afferma: “Ci sono le condizioni per un buon accordo. Lo ha detto anche la Fornero che il Pd e' disposto a votare una buona riforma. E lo confermo”.

Repubblica 26.2.12
"Nel 2013 voto normale, il Pd sfiderà la destra"
Bersani: l’eccezionalità sarà finita. E Monti: il mio mandato non durerà oltre
Dopo l’emergenza c’è un futuro per questo Paese? Lo chiedo per l’Italia, non lo chiedo per il mio partito
Le figure tecniche sceglieranno, noi siamo aperti. Anche Prodi e Ciampi lo erano
di Giovanna Casadio


ROMA - A tutti quelli che vogliono Monti dopo Monti, che pensano a un governo di responsabilità dopo questo tecnico e d´emergenza, Bersani dà l´alt. Non è nei programmi del Pd, perlomeno non nel Pd di Bersani. «Non immagino che nel 20013 si possa andare alle elezioni proponendo eccezionalità. Spero che si possa andare al voto pretendendo una democrazia normale, dove ci siano progetti alternativi», risponde il segretario democratico a chi gli chiede cosa pensa di una candidatura del Professore alle politiche.
«Le figure tecniche sceglieranno, e da parte nostra c´è una grande apertura, quando candidammo Prodi lui era un tecnico, quando Ciampi era al governo era un tecnico - taglia corto - Però ci sarà consentito nel 2013 di essere una democrazia come le altre, di vedere un sistema politico riformato? Siamo sempre in emergenza o dopo l´emergenza c´è un futuro per questo paese? Lo chiedo per l´Italia, non per il Pd».
Insomma, si torna alla politica, ai programmi alternativi. Non è il solo a pensarlo. Anche Fini, leader del Terzo Polo e presidente della Camera, ritiene che, conclusa l´esperienza Monti, deve esserci e ci sarà «un governo eletto dai cittadini e espressione dei partiti». Però non sarà un ritorno all´antico. «Si illude chi crede che tutto possa tornare come prima. Crolleranno i vecchi steccati e la vecchia geografia dei poli cambierà - ragiona Fini - non ci sarà più una sfida Alfano contro Bersani come a suo tempo Berlusconi contro Prodi».
A confermare che nella primavera 2013, non ci sarà il professor Monti in gara, sono - secondo il presidente della Camera - le stesse parole del premier. È ieri il giorno dell´amarcord e dell´emozione per Monti-professore. Arriva all´università Bocconi, a Milano, dove è stato studente, rettore e presidente, per l´inaugurazione dell´anno accademico, accolto da una standing ovation. E prende un impegno: «Molto presto, quando terminerà il mio incarico di governo, se avrò vita e salute, tornerò a completare il quadriennio per cui ero stato nominato alla guida di questa università».
Quindi, finito l´incarico di governo nel futuro di Monti c´è la Bocconi. «Vedete - riprende la questione Fini - Monti ha detto che la sua è un´esperienza a termine. Coloro che pensano che questa fase possa durare oltre la legislatura, non hanno compreso che Monti è una persona seria e se dice una cosa la mantiene. In cento giorni comunque questo governo ha realizzato fatto quello che non si fatto in due legislature». I partiti e la politica oscillano tra appoggio e dissensi. Bersani afferma: «Qualche volta c´è l´impressione che l´orecchio sulla vita comune dei cittadini da parte di questo governo non sia sufficiente», e insiste sul punto: si tratta di un governo di transizione, che ha fatto «delle cose che possiamo chiamare di sinistra» e altre che «danno fastidio» alla sinistra, ribadisce su Rai3 a "Che tempo che fa". Invita inoltre alla coesione sociale e all´accordo tra le parti sul lavoro. Beppe Fioroni rincara: «Le forze politiche sostengano l´intesa trovata tra le parti sociali, evitando ogni tentazione, anche del governo, di fare saltare il tavolo».
E sul dopo Monti, Emma Bonino, leader radicale, si augura che il Professore «si candidi per continuare dopo il 2013» Comunque - aggiunge a "The show must go off" su La7 - «deciderà lui, io spero di sì». Sempre sulla «parentesi Monti», interviene il governatore della Toscana, Enrico Rossi: «Non ho paura a dire che il governo Monti è estraneo al bagaglio culturale del Pd, e la colpa della "parentesi" è anche del Pd, non del generoso Bersani, ma di quelli che si credono padroni del Pd».

il Riformista Ragioni 26.2.12
Ma quanta indignazione per questa parolaccia che è il socialismo
di Andrea Orlando

qui
http://www.scribd.com/doc/82847498

il Riformista Ragioni 26.2.12
Compagni
di Mario Ricciardi

qui
http://www.scribd.com/doc/82847498

Corriere della Sera 26.2.12
Franceschini: basta attacchi, con Monti senza esitazioni
di Alessandro Trocino


ROMA — «Dobbiamo dare al governo Monti un sostegno senza esitazioni». Dario Franceschini, capogruppo del Pd alla Camera, non ha dubbi.
Cento giorni di governo tecnico: più luci o più ombre?
«Vedo largamente prevalenti le luci. Il governo Monti sta facendo quello per il quale l'abbiamo scelto: salvare l'Italia dalla crisi e recuperare credibilità. La destra l'ha subito. Non vorrei mai che noi lo dimenticassimo».
Tra i democratici c'è chi, come il governatore toscano Enrico Rossi, pensa che questo sia «un governo di destra, estraneo al bagaglio culturale del Pd».
«Trovo assurdo e sbagliato questo atteggiamento. Si tratta di un governo che ha una base parlamentare costituita da avversari e quindi è evidente che ogni scelta sia frutto di una mediazione. Ma non ha senso parlare di governo di destra. Mi sembra progressista recuperare l'evasione per ridurre il prelievo sui redditi bassi. Così come mi sembra progressista pensare ad ammortizzatori sociali universali e far costare il lavoro precario più di quello a tempo indeterminato. Oppure rompere la logica dell'ereditarietà dei privilegi».
Sul mercato del lavoro Bersani ha alzato la voce: senza accordo con le parti sociali, il voto del Pd non è scontato.
«Vorrei dire una parola di ottimismo: sono sicuro che si troverà una sintesi con le parti sociali e poi in Parlamento. Non è interesse di nessuno innescare tensioni sociali».
Per Stefano Fassina la discussione sull'articolo 18 «è assolutamente irrilevante, soprattutto in recessione».
«Sicuramente non è il primo dei problemi per le imprese. Non dobbiamo togliere diritti a chi li ha, semmai estendere nuovi diritti a chi non li ha. Penso ai precari, ai collaboratori».
Il 9 marzo c'è la manifestazione Fiom. Andarci o non andarci?
«Ho letto la piattaforma: è dichiaratamente contro il governo. Fatico a capire come si possa sostenere il governo e contemporaneamente essere lì».
Si parla di un Monti bis per il dopo elezioni. Anche Veltroni non lo esclude.
«Non bisogna farsi inghiottire dalle dietrologie. Questo governo è per sua natura di transizione, sostenuto da avversari che si presenteranno alle prossime elezioni come avversari. Il che non vuol dire tornare all'Unione da una parte e Berlusconi dall'altra. Ma a un bipolarismo normale. Non si tornerà alla politica di prima, ma si tornerà alla politica».
Per il Pd non è facile trovare una linea comune.
«L'antiberlusconismo è stato il collante di tutti e due i campi ed è stata un'enorme palla al piede per il Pd, portando ad alleanze larghe ed eterogenee. Le alleanze fatte "contro" non hanno più ragione di esistere. L'antiberlusconismo ha aiutato a tenere uniti i partiti. Lo voglio dire in positivo: il Pd privo di questo collante deve trovare la propria ragione di stare insieme solo sull'idea di cambiamento del Paese».
C'è un rischio di scissione?
«Assolutamente no, il Pd è un processo irreversibile. Ma l'assenza di Berlusconi comporta un cambiamento epocale che sfida anche il Pd».
Si ragiona su una nuova legge elettorale.
«Bisogna andare verso un sistema in cui le alleanze non sono forzose. Le alleanze devono nascere dalla condivisione di contenuti: per questo abbiamo dato la nostra disponibilità a un sistema più proporzionale».

il Fatto 26.2.12
Perché Monti piace
di Paolo Flores d’Arcais


A parte il“TeDeum”travestito da comunicato stampa che ieri Palazzo Chigi ha elevato a se stesso, è un fatto che il governo dei “tecnici” sia popolare, soprattutto quando prende provvedimenti che nessun governo dei partiti, di “destra” o di “sinistra”, oserebbe proprio per tema di impopolarità, come il secco “no” di Monti alle Olimpiadi. Popolarità che non viene meno neppure quando i singoli provvedimenti vengono bocciati, magari a raffica, nei sondaggi. Come nel caso della mazzata ai pensionati. Azzarderei che continuerà così perfino se il provvedimento sul mercato del lavoro fosse altrettanto iniquo. Schizofrenia del cittadino italiano? Niente affatto. In questa “follia” c’è una logica, addirittura stringente: l’esecutivo è popolare perché è un governo senza i partiti, e tanto più sembrerà umiliare i partiti e costringerli a qualche canossa, tanto più la popolarità andrà alle stelle. I partiti sono oggi, meritatamente, nella feccia del gradimento pubblico, undegradante 4% secondo l’ultima inchiesta demoscopica. Questo governo è popolare, insomma, perché vissuto come “antipolitico”, benché in realtà non sia neppure antipartitocratico. Non a caso le nomenklature dei due schieramenti cominciano a preparare l’Opa per acquisire Monti e/o Passera alla testa delle rispettive coalizioni, come belletto per tornare appetibili presso elettori altrimenti infuriati. Con effetti assolutamente asimmetrici rispetto ai due grandi “mondi” in cui si divide la società civile. Mentre infatti il mondo dell’establishment e del privilegio trova nei Monti, Passera & Co. la sua terza metamorfosi, che gli garantisce la continuità dell’egemonia e del potere (centrismo e centro-sinistra fino al Caf, populismo eversivo con Berlusconi, e ora liberismo eurotecnocratico: soluzioni diversissime, ovviamente), il mondo della riforma “giustizia e libertà” scompare dalla scena politica anche in prospettiva, poiché i partiti del centro-sinistra, con tutti i loro dirigenti, non potranno mai risalire la china di un disprezzo che li bolla senza appello, più che giustamente.
Ogni “parte”, per vincere politicamente, deve sapersi presentare come “interesse generale”. Il mondo del privilegio oggi ci riesce con Monti-Passera (nume Napolitano) dopo aver disarcionato l’impresentabile putiniano di Arcore. Il riformismo “giustizia e libertà” no, malgrado il programma ci sia e una potenziale maggioranza di opinione anche, perché incapace di pensionare tutta la zavorra partitocratica e sostituirla attingendo alla società civile, alla Fiom, al giornalismo “schiena dritta”.

Corriere della Sera 26.2.12
Presidenzialismo parlamentare
di Giovanni Sartori


L'imprevisto governo dei tecnici ha riaperto tutti i giochi, ivi incluso quello (necessarissimo) della riforma elettorale. Difatti i maggiori partiti (Lega esclusa) si stanno già incontrando per accordarsi su una nuova legge per votare. Ma dai primi incontri sono emerse soltanto, per ora, stramberie che anch'io stento a capire. Aspettando idee migliori, è tempo di realizzare che noi abbiamo già sviluppato e stiamo già praticando un costituzionalismo anomalo che dirò «presidenzialismo parlamentare». Che non ha bisogno di essere spiegato ai lettori del Corriere perché questa formula trova nel mio collega Angelo Panebianco un inventore di straordinaria perseveranza e bravura. Il che mi consente di entrare subito in argomento.
Ripartendo dall'inizio, noi abbiamo una costituzione parlamentare «pura» il cui difetto di nascita è di essere nata nel 1948 e quindi con la paura del «troppo potere» (uscivamo da una dittatura e già si intravedeva, nel Pci, un temibile partito comunista). Questo difetto di nascita non ha creato problemi finché è durata l'egemonia democristiana; ma con la sua fine è presto diventato evidente che il nostro era un potere di governo troppo debole. Difatti il grosso dei nostri costituzionalisti da gran tempo suggerisce due rinforzi: l'adozione del voto di sfiducia costruttivo vigente in Germania (un governo non può essere rovesciato se non è già concordato il nuovo premier) e, secondo, l'attribuzione al premier del potere di cambiare sua sponte i ministri del suo governo.
Io e molti altri si accontenterebbero di queste due piccole e semplici riforme. Ma Panebianco e il gruppo al quale appartiene persegue da tempo un altro disegno: quello di trasformare il nostro sistema parlamentare in un sistema di potere presidenziale diretto e pressoché incontrollato (molto più forte del presidenzialismo americano, perché non sarebbe intralciato dalla divisione dei poteri tra esecutivo e legislativo).
Non posso illustrare qui l'intero disegno; basterà ricordarne qualche aspetto. Intanto, uno spauracchio: attenti, rischiamo di perdere il nostro bipolarismo. Ma questa perdita non dipende, se avviene, dal sistema elettorale (maggioritario o proporzionale che sia) ma semmai dalla frammentazione-polverizzazione del sistema partitico. Secondo, la dottrina del ribaltone. Un reato che non è contemplato da nessun sistema parlamentare, perché la caratteristica di questi sistemi è, appunto, la loro flessibilità e cioè di consentire cambiamenti di governo e di maggioranze. L'ultima trovata, la più recente, è di conferire al premier (togliendolo al capo dello Stato) il potere di sciogliere le Camere. Una proposta che mi sembra inaccettabile, visto che darebbe al premier un potere sui parlamentari che è davvero uno strapotere.

l’Unità 26.2.12
La Chiesa non prende ufficialmente posizione sulla proposta del governo italiano sull’Imu
Ma gli istituti religiosi temono il decreto attuativo che definirà attività commerciali e non
Ici, attesa e allarme delle scuole cattoliche
La Chiesa non prende ufficialmente posizione sulla proposta del governo italiano sull’Ici-Imu. Ma è allarme per le scuole e le attività sanitarie cattoliche. Il Pd: «Dal decreto attuativo parametri certi»
di Luigina Venturelli


La Chiesa non protesta. Resta soprattutto in attesa. Detta la linea il quotidiano ufficiale della Santa Sede che, riportando la decisione dell’esecutivo Monti d’imporre il
pagamento dell’Ici-Imu per tutti i beni immobili in cui non si svolga in modo esclusivo un’attività no profit, sceglie una notizia di basso profilo. «Nuove misure del governo italiano in tema fiscale» titola seccamente L'Osservatore Romano.
Perché l’impatto effettivo della norma dipenderà molto dalla sua applicazione. Ovvero, dalla distinzione tra attività con o senza scopo di lucro che l’emendamento dell’esecutivo alle liberalizzazioni affida ad un decreto attuativo da emanare entro 60 giorni per inquadrare scuole, case di cura e pensionati gestiti da enti religiosi. E proprio ieri è loro arrivato il riconoscimento del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha definito «rilevante» il contributo dato dai cattolici «nei campi della cooperazione, educazione, istruzione e assistenza, sanitaria e sociale».
Il proposito della nuova norma, in qualche modo imposta dall’Unione europea, è di eliminare l’area grigia sui soggetti Ici-Imu. L’ultimo governo di centrosinistra aveva indicato l’area di esenzione negli stabili con «destinazione no profit prevalente», ma questo ha determinato incertezze per gli edifici usati sia per attività di culto che per attività commerciali. Dal gennaio 2013, invece, le cose cambieranno. Le aree commerciali pagheranno anche se sono frazioni di uno stabile. Mentre le aree destinate al culto o al no-profit non pagheranno anche se inserite in complessi a prevalenza commerciale. Una questione però si è aperta sull’inclusione o meno di asili, scuole e case di cura cattoliche tra le attività commerciali.
SCUOLE CATTOLICHE IN ALLARME
Una partita, tanto economica quanto d’influenza sulla società, che per il momento si combatte da bordo campo e a mezzo stampa. Secondo il quotidiano Avvenire tassare gli istituti religiosi, che sono «in molti piccoli centri l’unica realtà a disposizione delle comunità locali», sarebbe «un autogol». E per il superiore nazionale dei Salesiani, don Alberto Zanini, essi «fanno risparmiare allo Stato cinque miliardi di euro l’anno» e, con l’Imu a carico, «sarebbero in gran parte costretti a chiudere». Mentre il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, ricordando i 15mila servizi sanitari e assistenziali con cui la Chiesa contribuisce al welfare italiano, ha richiamato la politica a garantire «la giustizia sociale» nel rispetto della sussidiarietà. Altrettanto morbido il neodirettore della Caritas, monsignor Francesco Soddu: «Non vedo il danno quando si opera per la giustizia e per il bene di tutti» ha commentato, invocando però «chiarezza» sugli immobili da tassare per escludere «quelli con fini di utilità sociale».
Se la Chiesa aspetta a prendere una posizione ufficiale, si fa sentire invece la politica. Dal Pdl Maurizio Lupi, secondo cui è «inaccettabile» tassare «solidarietà e sussidiarietà» al leader Udc Pierferdinando Casini: «Gli edifici della Chiesa adibiti ad attività commerciali è giusto che paghino come gli altri», ma «diverso è il caso di scuole e enti assistenziali».
Prova a spegnere l’allarme, invece, il senatore Pd Stefano Ceccanti, secondo cui «il governo riuscirà ad introdurre parametri oggettivi per fare chiarezza nella zona grigia che esiste tra attività commerciali e non» della Chiesa cattolica come di qualsiasi altro ente impegnato nel no profit. Un buon segnale, in tal senso, è stata la presentazione di soli cinque subemendamenti (tutti di un solo senatore di centrodestra) alla proposta del governo sull’Imu. La strada parlamentare della norma dovrebbe essere in discesa: «L’emendamento sull’Imu è chiaro e risolutivo nel determinare il regime fiscale esclusivamente sulla base delle modalità dell’attività svolta e non sulla natura dell’ente» continua Ceccanti. «Ad una norma di legge non si possono poi chiedere i dettagli, che sono demandati a un apposito decreto del ministero dell’Economia, ma i criteri sono logici e conseguenti».
Tra le scuole, ad esempio, «non c’è dubbio che saranno esentati dalla tassa gli istituti professionali gestiti dai salesiani, mentre pagheranno quelli d’eccellenza con rette d’iscrizione molto costose». Basterà, secondo il senatore Pd, «commisurare i contributi richiesti agli utenti con il costo effettivo del servizio per valutare se si tratti di attività commerciale o meno. Evitiamo di inventare problemi inesistenti».
Il criterio, dunque, per le scuole come per le case di cura, potrebbe essere la presenza di utili non reinvestiti nella didattica o nell’attività sanitaria.

Corriere della Sera 26.2.12
Ici, lo stop dei cattolici sulle scuole
Casini: siano esentate. E Napolitano sottolinea il contributo della Chiesa allo sviluppo
di Mariolina Iossa


ROMA — Sarà votata domani in Commissione Industria al Senato. E forse se ne saprà di più. Oggi le uniche certezze sono quella paginetta-emendamento a firma di Mario Monti che affronta la questione dell'Imu (la nuova Ici) per gli immobili della Chiesa in base alla loro «modalità commerciale»; gli interventi di Napolitano, Schifani e Fini che riconoscono alla Chiesa cattolica un «contributo rilevante»: soprattutto il capo dello Stato ha ricordato che il contributo dei cattolici «nei campi della cooperazione, educazione, istruzione e assistenza sanitaria e sociale a favore di quanti vivevano in condizione di povertà e precarietà sociale ed economica» è stato «rilevante» negli anni; il dibattito nel mondo politico e soprattutto in quello cattolico che ha continuato ad animarsi e non si placherà fino a quando Monti non dirà parole più chiare.
Chi pagherà questa Imu? Anche le scuole cattoliche? Che significa «modalità commerciale», o meglio fin dove porterà la norma? Il premier deve risolvere la questione Imu-Chiesa anche per fermare la procedura di infrazione dell'Unione Europea contro l'Italia per il trattamento fiscale di favore sulle proprietà ecclesiastiche. E questo è ormai talmente assodato che tutti, anche i cattolici, ne sono consapevoli. La questione che resta completamente aperta è quella del «no profit». È dentro o fuori dall'esenzione? Dove, in concreto, lo Stato andrà a prendere i soldi?
Centrodestra, Terzo Polo e mondo cattolico, in primo luogo i salesiani, sono molto preoccupati. Le scuole cattoliche, dicono, non si toccano. Don Alberto Lorenzelli, presidente della Conferenza italiana dei Superiori maggiori, nonché capo dei salesiani dell'Italia centrale, dice che «così le scuole cattoliche chiuderebbero, a migliaia. Noi non lavoriamo per i ricchi ma per quelli che hanno di meno. Mi auguro che l'Imu riguardi solo gli spazi in cui ci sono vere realtà commerciali».
Anche L'Avvenire scrive che «il governo non ha ancora chiarito tutto» e suggerisce di lasciar perdere le scuole, sarebbe «un autogol, una forma di autolesionismo». Molte piccole scuole «già oggi vivono di stenti — ha scritto il giornale della Cei — pur essendo in molti piccoli centri l'unica realtà a disposizione delle comunità locali». Il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi (Pdl), che proviene da Comunione e Liberazione, chiede chiarimenti al governo: «Saranno tassate anche solidarietà e sussidiarietà? Sarebbe inaccettabile che un asilo nido parrocchiale, che svolge da sempre funzione pubblica, pagasse l'Imu».
«Sarebbe sbagliato — gli fa eco Maurizio Gasparri, presidente dei senatori Pdl —, penalizzare chi si occupa di poveri o di educazione». Più morbido, ma sulla stessa linea Pier Ferdinando Casini: «La norma è chiara. Gli edifici della Chiesa adibiti ad attività commerciali è giusto che paghino come tutti gli altri. Molto diverso è il caso degli enti assistenziali, delle scuole, di un servizio straordinario che c'è nei piccoli centri».
Il centrosinistra, ovviamente, apprezza la scelta di far pagare l'Ici alla Chiesa ma non polemizza sulle scuole. Il cattolico Stefano Ceccanti, costituzionalista del Pd, ha invitato tutti a «non inventare problemi che non esistono perché la norma è chiara e risolutiva. Sulle scuole andranno commisurati i contributi richiesti agli utenti con il costo effettivo del servizio per valutare se si tratti di attività commerciale o meno, a prescindere dalla qualifica formale dell'istituto». Inoltre, ha detto Ceccanti, «ad una norma di legge non si possono chiedere dettagli, per questo l'emendamento chiede opportunamente sessanta giorni per un apposito decreto del ministero dell'Economia».
Il leader di Sel, Nichi Vendola, non pensa che la norma Monti sia dovuta ad un «coraggio laico» del governo. Applicare l'Ici alla Chiesa è solo «l'adempimento di un dovere perché siamo a rischio di procedura e multa per infrazione comunitaria. E poi che anche la Chiesa paghi l'Imu è un fatto di decenza e corrisponde al principio evangelico "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio"».

Repubblica 26.2.12
La presunta laicità della politica
di Angelo Scola
arcivescovo di Venezia

L´etica cristiana non può essere proposta senza confrontarsi con la situazione contemporanea di inedita pluralità in cui ci troviamo a parlare e operare.
Il fatto è che viviamo una condizione che già Maritain giustamente definiva di babélisme: «La voce che ciascuno proferisce non è che un puro rumore per i suoi compagni di viaggio». Potremmo dire che viviamo una crisi comunicativa, nel senso di un´incapacità ad elaborare un codice universale di intesa. È ovvio che, in assenza di questo codice, la pluralità fa problema.
Questo depotenziamento narrativo globale, questa difficoltà a dire qualcosa che esca dalla misura puramente soggettiva, colpisce al cuore la pregnanza tipicamente universale dell´etica.
Oggi non prevale una contestazione frontale ai codici universali compreso quello dell´etica cristiana, bensì un graduale processo di abbandono della pretesa stessa di universalità: nessuno dei codici secolarizzati è riuscito a mantenere la sua promessa di raccontare la verità sull´esperienza umana in modo credibile. Cosicché, non solo si è diffusa una generale sfiducia nei confronti dell´annuncio cristiano, ma viviamo ormai nella convinzione più o meno esplicita che la ragione umana sia uno strumento debole, incapace di portare a termine il compito di conoscere la realtà e di stabilire valori da tutti condivisibili. Tale sfiducia, poi, non sembra fare problema: assomiglia sempre più a una delusione compiaciuta, che celebra la provvisorietà, l´incertezza, come esaltazione suprema della libertà di scegliere senza le fastidiose costrizioni del passato (etiche, religiose, sociali).
Dunque siamo arrivati a una specie di "gaia rassegnazione": l´uomo si scopre solo con se stesso, incapace – o semplicemente stanco – di cercare il senso umano della propria esperienza, ma paradossalmente "contento" che sia così e perciò disponibile, a sua insaputa, ai nuovi e subdoli dispotismi tecnocratici. La rassegnazione compiaciuta anestetizza il desiderio di edificare il bene comune, lasciando così le persone in balìa di logiche che funzionano secondo fini che non sono più necessariamente umani.
Considerata questa atmosfera che respiriamo, si capisce quanto sia divenuto difficile comunicare tra persone che hanno concezioni del mondo così diverse e contrastanti. Non è un caso che le democrazie siano oggi per lo più in crisi: la difficoltà a comunicare è un sintomo che non possiamo sottovalutare, se vogliamo difendere lo spazio politico di una convivenza democratica. Habermas è sempre stato particolarmente attento a questo indicatore: «La condizione in cui si trova una democrazia si può accertare solo sentendo il polso del suo spazio pubblico politico». Ed è abbastanza ovvio che la gaia rassegnazione non è proprio una buona terapia: bisognerebbe infatti togliere la parola a chiunque (e non sono solo ai cristiani) non abbia intenzione di compiacersi di dire "addio alla verità". Questa neutralizzazione dello spazio pubblico riduce drasticamente i "battiti" del polso democratico. Naturalmente la ricetta per avere uno spazio pubblico vitale non può nemmeno essere la deduzione del politico dal teologico.
Un´intelligente soluzione è piuttosto quella immaginata da Maritain, nel suo discorso all´Unesco del 1947 (La voie de la paix). In quell´occasione, Maritain affermò che, dato il fatto della pluralità irriducibile degli attori sociali, l´ambito politico deve puntare a convergere verso un «pensiero pratico comune», cioè un «insieme di convinzioni capaci di indirizzare l´azione». Il che implica accettare l´inevitabile divergenza delle visioni del mondo, scommettendo al contempo sulla possibilità di intendersi concretamente sul da farsi. Questo non vuol dire rinunciare al piano della giustificazione teorica dell´agire pratico (questa rinuncia sarebbe già nichilista); significa piuttosto riconoscere che l´ambito politico non necessita del consenso totale (assai improbabile) intorno a visioni sostantive della vita. Solo così si realizza quel bene comune essenziale che Maritain suggeriva, quando parlava della società umana come "corpo di comunicazioni sociali".
Questo significa che il politico deve essere l´ambito in cui tutti i "diversi" debbono avere la possibilità di contribuire responsabilmente al bene comune della comunicazione, cercando di spiegare ciò che per loro vale, in un linguaggio che sia accessibile a tutti. Si può allora essere giustamente perplessi di fronte alla presunta laicità di scelte politiche che mirano a eliminare ogni riferimento religioso nello spazio pubblico. È veramente pubblico, e perciò sanamente laico, solo quello spazio che scommette sulla libertà dei cittadini, credenti e non credenti, di mettersi nel gioco di una "narrazione reciproca" in vista – come insegna Ricoeur – di un reciproco, seppur faticoso, riconoscimento.
(l´autore è arcivescovo di Milano; proponiamo uno stralcio della conferenza che il cardinale tiene oggi nella cattedrale Notre-Dame di Parigi in apertura del ciclo di conferenze quaresimali)

La Stampa 26.2.12
Canada, mea culpa per un secolo di abusi sui bambini indigeni
di Maurizio Molinari


STRAPPATI ALLE FAMIGLIE Per «civilizzarli» venivano chiusi in scuole dove non potevano vedere i genitori
VERITÀ TERRIBILI I ragazzi picchiati e umiliati anche con molestie sessuali fino agli Anni 70

Prelevati dai villaggi, strappati alle famiglie, inviati in scuole governative per essere «civilizzati», vittime di abusi, spesso morti a causa dei maltrattamenti e sepolti in segreto: è la terribile sorte di oltre 150 mila bambini di tribù indigene del Canada, sulla quale ora il governo di Ottawa fa piena luce nel tentativo di rimarginare una profonda ferita nazionale.
«They Came for the Children» (Vennero per i bambini) è il titolo del rapporto redatto dalla commissione «Verità e riconciliazione» creata da Ottawa nel 2006, quando riconobbe per la prima volta ai sopravvissuti e ai loro discendenti danni per l’equivalente di 1,5 miliardi di euro. Per cinque anni gli investigatori della commissione hanno raccolto oltre 25 mila testimonianze di sopravvissuti, visitato circa 500 comunità indigene e ascoltato un centinaio di ex dipendenti delle scuole dove i bambini venivano portati con la forza o l’inganno. Il quadro che ne esce è agghiacciante, al punto da chiamare in causa il Dna della nazione canadese.
Tutto iniziò nel 1883, quando John Macdonald, allora premier e ministro degli Affari Indiani, spinse il governo a creare «tre scuole residenziali per i figli degli aborigeni nell’Ovest del Canada». Due vennero affidate alla Chiesa cattolica, la terza agli anglicani. Quando il ministro dei Lavori Pubblici Hector Langevin presentò il progetto in Parlamento, parlò esplicitamente: «Al fine di educare i bambini in maniera appropriata dobbiamo separarli dalle famiglie. Qualcuno potrà sostenere che è una scelta difficile ma se vogliamo civilizzarli dobbiamo farlo».
La conseguenza fu un’imponente operazione di ricerca e cattura dei bambini, letteralmente strappati ai genitori, poi rinchiusi in queste scuole dove un corpo di «educatori» impediva loro di parlare le lingue tribali o di avere contatti con i parenti.
Chi tentava di fuggire veniva braccato, quasi sempre ritrovato e riportato indietro in catene, obbligato a correre in ceppi davanti ai presidi. E una volta tornato nella scuola era soggetto a punizioni corporali come le catene alle caviglie.
Ma anche chi obbediva agli insegnanti-carcerieri veniva maltrattato, subendo abusi fisici e spesso sessuali che potevano portare alla morte. Diverse migliaia di testimoni hanno parlato di decessi frequenti di bambini che venivano sepolti nei cimiteri scolastici senza informare le famiglie. Tutto ciò è continuato fino agli Anni 70, quando le «scuole per la civilizzazione degli aborigeni» vennero abolite.
Ci sono però voluti altri 36 anni per portare le autorità a rendere pubblici racconti come questo: «A Fort Alexander negli Anni 50 i ragazzi più giovani venivano mandati dai preti per essere sottoposti al “ménage” durante il quale un sacerdote lavava loro i genitali». Una delle vittime, Ted Fontaine, ricorda che «tale pratica terminò solo quando eravamo oramai talmente grandi e forti che la determinazione nel minacciare, aggredire e perfino uccidere i nostri tormentatori, ci diede il potere di rifiutare il trattamento».
A presentare i risultati del rapporto - la cui versione finale sarà pubblicata nel 2014 - è stato il giudice Murray Sinclair, presidente della commissione, sottolineando come tali rivelazioni «offrono l’opportunità a ogni cittadino di dare il suo contributo per la riconciliazione nazionale».

La Stampa 26.2.11
Benedetto XVI: “Il matrimonio è il solo luogo degno per avere figli”


Solo il matrimonio è il contesto «degno» per dare alla luce dei figli. Lo ha ribadito ieri Benedetto XVI, ribadendo la disapprovazione della Chiesa alla procreazione al di fuori dell’unione tra due coniugi. Parlando al convegno promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita sulla cura dell’infertilità, il Papa ha detto che «l’unione dell’uomo e della donna in quella comunità di amore e di vita che è il matrimonio costituisce l’unico “luogo” degno per la chiamata all’esistenza di un nuovo essere umano, che è sempre un dono». «La dignità umana e cristiana della procreazione non consiste in un “prodotto”», ma si realizza «nel suo legame con l’atto coniugale, espressione dell’amore dei coniugi, della loro unione non solo biologica, ma anche spirituale».
Il Pontefice ha incoraggiato la ricerca scientifica per dare soluzioni moralmente accettabili al problema dell’infertilità, mettendo in guardia dalle «scorciatoie» della fecondazione in vitro. «Le legittime aspirazioni genitoriali della coppia in condizione di infertilità devono trovare, con l’aiuto della scienza, una risposta che rispetti pienamente la loro dignità di persone e di sposi»

La Stampa 26.2.12
Il prete torna libero dopo il raptus sessuale


Ha già lasciato il carcere Sant’Agostino di Savona don Fabio Bonifazio, il parroco arrestato per violenza sessuale dai carabinieri a Loano. «Su questa storia preferisco né parlare né incontrare nessuno, magari lo farò più avanti. Abbiate pazienza, non è il momento, lasciatemi tranquillo», è stato il suo stringato commento. Il prete, dopo una notte trascorsa in cella a Savona, ha poca voglia di parlare. «Dove sto andando ora? Preferisco non dirlo», ha risposto. Prima di lasciare il penitenziario di piazza Monticello il vice parroco stamane ha ricevuto in carcere la visita del gip Fiorenza Giorgi. Un interrogatorio-colloquio durato pochi istanti. Su consiglio del suo difensore, l’avvocato Alessandro Vignola, don Fabio si è avvalso della facoltà di non rispondere. «Studieremo con tutta calma gli atti e vedremo cosa fare - ha sottolineato il legale -. Don Fabio mi è apparso tutto sommato tranquillo, anche perché la sua posizione si è molto ridimensionata dopo una valutazione del pm e l’accoglimento dell’istanza di scarcerazione da parte del gip».

il Fatto 26.2.12
Il Trattato della vergogna
La condanna di Strasburgo contro l’Italia, responsabile di violazione dei diritti umani per i respingimenti, pone un interrogativo: che ne è dell’accordo con la Libia, formalmente mai sospeso?
di Furio Colombo


Signor Presidente, vorrei ricordare che il voto favorevole su questo Trattato sarà una pietra tombale sui diritti di umani di quei dannati della terra che sono in realtà la ragione del pagamento di centinaia di milioni di dollari alla Libia di Gheddafi. Il fatto è prorpio questo: si dice di voler combattere i mercanti di schiavi e si dà la caccia agli schiavi. Signor Presidente, per fortuna abbiamo la testimonianza costante dei deputati radicali eletti nel Pd, per fortuna ci sono persone come l'On. Sarubbi che dicono queste cose, altrimenti da questa parte dell'aula ci sarebbe un silenzio che non riesco a spiegarmi. Signor Presidente, è già stato notato dai colleghi radicali il curioso silenzio dei media. Per le televisioni e i giornali questo dibattito non sta avvenendo. Se i media ne parlassero, la vicenda, così come si sta svolgendo, sarebbe clamorosa: dalla parte della Libia, vi sono il Popolo della Libertà e il Partito Democratico; dall'altra, contro il governo libico e contro il Trattato di amicizia con la Libia, i sei deputati radicali, due deputati del Pd, l'Italia dei Valori, l'Unione di Centro (su alcune posizioni) e alcuni deputati che usciranno dall'aula al momento del voto.
Signor Presidente, vorrei anticiparle che, in questo mondo globale, entro alcuni mesi cominceremo a sapere che cosa accade davvero nelle prigioni libiche e nella zona di mare sottoposta a pattugliamento misto, dunque a respingimento. Quando sapremo queste cose suggerisco ai colleghi del ‘corteo Gheddafi’ di preparare qualche risposta per gli italiani e per il mondo. Signor Presidente, questo Trattato è fuori dalla Costituzione perchè nega i diritti delle persone, è fuori dalla Convenzione di Ginevra perchè abbandona i profughi e non consente il diritto di asilo; è fuori dalla Carta dei Diritti dell'Uomo perché espone a persecuzione i migranti. È fuori dall'Europa perchè nessun Paese vuole avere un ruolo accanto all’Italia in questa storia terribile. Oggi questo Parlamento dovrà votare un trattato-ricatto con un ricattatore che non esisterà a rilanciare il gioco perché sa che i due fondamenti del Trattato sono il respingimento in mare o la cattura dei migranti e l’approvvigionamento del petrolio. Il senso di questo Trattato è che noi paghiamo i privilegi che ci garantisce con armi, somme enormi e vite umane”.
* * *
QUESTI CHE avete letto qui sopra sono frammenti del continuo, affannato intervenire alla Camera dei Deputati il giorno 20 gennaio 2009, quando ho tentato di oppormi all’approvazione quasi all'unanimità il Trattato di amicizia con la grande Jamahirrya (la Libia di Gheddafi). Quel Trattato adesso si aggiunge agli errori gravi e ai momenti oscuri della nostra Repubblica. Perché ancora oggi, con la selvaggia uccisione di Gheddafi, non sappiamo e non sapremo mai tutte le ragioni, e il vero senso di un ignobile atto diplomatico stranamente accettato in modo così silenzioso e concorde da quasi tutto il Parlamento. Un evento di giovedì scorso mi riporta al ricordo di quel giorno, di quelle ore di estremo tentativo di sbarrare la strada al Trattato, sospetto di interessi privati, oltre che di clamorosa violazione di norme internazionali e di patti italiani pre-esistenti, oltre che di creazione di una folle alleanza militare con basi italiane a disposizione della Libia, oltre che alla istituzione, approvata e votata, del delitto di “respingimento in mare” per chi tentasse di trovare rifugio in Italia fuggendo guerre e persecuzioni. Sto parlando della condanna definitiva della Corte di Strasburgo contro l'Italia per violazione dei diritti umani. Tale sentenza ripete, una per una, le ragioni e le tragiche previsioni degli oppositori di quella legge priva di senso umano e di senso giuridico. Nella Cancelleria della Corte il caso è rubricato come “Hirsi Jamaa contro l'Italia”, ed è fondato sul ricorso di 11 profughi somali e 10 eritrei, assistiti dal Consiglio Italiano per i Rifugiati (cito da La Repubblica, 24 febbraio) che nella notte tra il 6 e il 7 maggio 2009 furono intercettati a sud di Lampedusa e consegnati dalle motonavi italiane alle autorità libiche. Un comportamento che, secondo il verdetto unanime dei giudici di Strasburgo, ha violato l'articolo 3 della Convenzione europea sui Diritti dell'Uomo. Infatti consegnando i profughi alla Libia, l'Italia li ha esposti a due rischi estremi: la morte nelle prigioni di un Paese che non ha firmato alcuna convenzione o trattato sui Diritti umani e ha goduto della triste celebrità di non rispettarli mai. E il rischio di morte, se rimpatriati, per i profughi consegnati ai libici. Inoltre l’Italia è stata riconosciuta colpevole del delitto di espulsione collettiva, per non aver concesso ai migranti la possibilità di richiedere il diritto d'asilo.
L'ITALIA è stata anche condannata per avere dichiarato che “La Libia era un posto sicuro e che Tripoli rispettava i propri impegni internazionali sull'accesso all'asilo”. Ora è bene chiarire: questo ricordare insieme l’opposizione accanita di pochi in un Parlamento stranamente succube a un Trattato disumano, ma anche assurdo, e la sentenza della Corte di Strasburgo non è una celebrazione perché ha troppe impronte di morte. Ma l'intenzione è di tenere vivo un altro allarme. Misteriosamente il Trattato condannato da Strasburgo non è ufficialmente e formalmente cancellato. Per quanto ne sappiamo, i nuovi libici vorrebbero dimenticarlo. L'Italia, anche con il nuovo governo, sembra amare una finzione di sopravvivenza, benché i mondi di Gheddafi e di Berlusconi siano crollati per sempre. Il problema rimane. Qualcuno lo chieda, qualcuno lo dica: c'è ancora quel Trattato che ci condanna come un Paese barbaro e disumano secondo la squallida visione di Maroni, di Bossi, di Calderoli, di Borghezio, di Castelli e di ciò che resta della Lega Nord?

l’Unità 26.2.12
L’Italia pacifista occupa cento piazze «Basta con gli F-35»
«È uno spreco quando si taglia il welfare»
Il presidente dell’Arci: «È necessario ridiscutere strategie e ruolo delle Forze armate del nostro Paese all’estero»
di U.D.G.


Il nostro no agli F-35 non è una posizione da “anime belle” ma una posizione politica che non si limita alla critica ma fa proposte alternative sul modello di difesa». A sostenerlo è Paolo Beni, presidente nazionale dell’Arci.
Il no agli F-35 è un no pregiudiziale a ragionare su quale modello di difesa? «È vero l’esatto contrario. L’opposizione agli F-35 non ha nulla di ideologico ma parte da una serie di considerazioni molto concrete e molto politiche...».
Quali?
«La prima: in un momento di grave crisi del nostro Paese, nel quale rischiano di mancare risorse finanziarie per voci essenziali del nostro Welfare, con i tagli alle politiche sociali, alla cultura, alla sanità, all’istruzione, una spesa colossale sui sistemi d’arma è, dal nostro punto di vista, assolutamente ingiustificata e ingiustificabile. C’è poi una seconda ragione, di merito...».
Un no motivato, come?
«Noi riteniamo che non è sugli F-35 che si debba fondare il modello di difesa di un Paese che nella sua Costituzione ripudia la guerra».
E su cosa dovrebbe fondarsi?
«In primo luogo occorre ragionare su un ruolo delle nostre Forze armate che sia compatibile con una politica estera ispirata alla prevenzione dei conflitti e ad un ruolo attivo del nostro Paese come operatore di pace. e tutto questo nel quadro di una iniziativa comune europea Questo significa, ad esempio, riprendere in considerazione, avanzando proposte concrete, un progetto di modello di difesa europeo che sia coerente con un ruolo strategico dell’Unione Europea in favore della pace, in particolare nel Mediterraneo e in Medio Oriente, aree nevralgiche dove i Paesi europei, in primis quelli euromediterraneo come l’Italia, hanno grandi responsabilità. In questo quadro, insistere, come noi facciamo, di discutere le scelte che sono alla base del bilancio della Difesa, non significa mettere a repentaglio la sicurezza del nostro Paese ma, come società civile impegnata su queste tematiche, vuol dire ambire a orientare l’azione del nostro Paese nella direzione di un modello di difesa coerente con la Costituzione e con la vocazione dell’Italia come Paese costruttore di pace».
Cosa chiedete a governo Monti ?
«Di ritornare sulle proprie decisioni anche perché è possibile recedere dall’impegno assunto sugli F-35. e aprire in Parlamento e nel Paese, coinvolgendo anche le forze sociali e il movimento pacifista, un confronto sul modello di difesa. Per quanto ci riguarda, non ci tireremo indietro».

l’Unità 26.2.12
Il Paese scommetta sulle donne
Una presenza paritaria nei partiti e nelle istituzioni contribuisce alla rinascita del Paese. Nella legge elettorale in discussione vanno inserite morme e sanzioni per assicurare la presenza femminile
di Roberta Agostini
coordinatrice nazionale di “Donne democratiche”

D a tutte le regioni del Sud sono arrivate a Napoli lo scorso fine settimana centinaia di donne amministratrici parlamentari, sindacaliste, esponenti dell’associazionismo per discutere intorno ad alcune parole chiave (lavoro, welfare, legalità, democrazia) di nuovo sviluppo e buona politica con l’ambizione di rilanciare una proposta per la ricostruzione, per chiudere definitivamente la stagione del berlusconismo e avviare un ciclo riformatore nel Paese. L’occupazione femminile al Sud è inferiore di 30 punti percentuali agli obiettivi fissati a Lisbona, meno di una su tre lavora. Il tasso di attività femminile si è ridotto, cioè si è prodotto un allontanamento delle donne disponibili a lavorare, soprattutto di quelle con basso titolo di studio. A un’occupazione modesta quasi sempre corrisponde una retribuzione insufficiente a compensare il lavoro domestico a cui si dovrebbe rinunciare per lavorare in un contesto di servizi insufficienti o assenti.
Per questo un numero sempre più alto di donne sceglie di restare a casa. La flessibilizzazione del lavoro in atto negli ultimi anni ha dato vita ad un’area estesa di instabilità occupazionale che nel sud è diventata ampia, persistente e diffusa. I nodi centrali che frenano la partecipazione femminile sono di tipo strutturale e sono legati alla domanda di lavoro e alla carente offerta di servizi. Nessuna riforma può eludere questi dati drammatici, che ci dicono che puntare alla crescita vuol dire leggere il Sud come parte di una grande questione nazionale e insieme assumere il punto di vista, le potenzialità ed i problemi delle donne. Non si tratta di problemi di parte geografici, di genere o anche generazionali ma di istanze che chiedono di rimodulare complessivamente la strategia e la qualità dello sviluppo, puntando anche sulle infrastrutture immateriali, su una robusta quota di beni comuni, rilanciando la costruzione di un welfare moderno (pensiamo al caso degli asili nido e di quanto sarebbe necessario che questi investimenti uscissero dal patto di stabilità), lavorando sulle condizioni non economiche dello sviluppo, sul terreno dei diritti, della legalità, della sicurezza.
La crisi non è un incidente di percorso, ma il frutto di una impostazione sbagliata, di riforme mancate, degli errori della destra. Serve una strategia complessiva che possa combattere la recessione e rilanciare l’occupazione ripensando a modelli alternativi e differenti di vita e di consumo. Non c’è una bacchetta magica, ma ci possono essere azioni utili a sostenere il lavoro ed il welfare. Le donne hanno pagato il prezzo della crisi e delle politiche della destra e stanno sostenendo i costi del risanamento. Per questo sarebbe importante che il governo affronti il capitolo del lavoro delle donne, a partire dal Mezzogiorno, attraverso la convocazione di un tavolo con le forze sociali, sindacati, enti locali e aprendo una grande discussione politica. Perché non provare a costruire una vera conferenza nazionale sul lavoro delle donne in grado di andare oltre le analisi e capace di offrire strumenti concreti capaci di aggredire il nodo dell’occupazione? Noi mettiamo a disposizione le nostre proposte.
A noi, alla politica ed ai partiti, spetta il compito di accompagnare, orientare e costruire partecipazione e consenso intorno a questo processo, recuperando innanzitutto credibilità e reagendo così al clima di antipolitica che si è diffuso nel Paese, e che è parte essenziale di quella crisi di sistema che stiamo vivendo. Questo è possibile investendo sul rafforzamento di meccanismi trasparenti di partecipazione e decisione politica, sul processo democratico di selezione e rinnovamento dei gruppi dirigenti, su una politica che ritrovi la sua capacità di rappresentare l’interesse generale del Paese.
Proprio a partire da territori nei quali non è raro che intere amministrazioni siano prive di presenza femminile, diciamo che per rinnovare la politica e la qualità della rappresentanza dobbiamo scommettere sulle donne.
L’impegno uscito da Napoli è chiaro: che nella legge elettorale di cui si discute siano contenute norme e sanzioni per affermare la presenza femminile, che venga in fretta approvata la legge licenziata dalla Commissione affari costituzionali che contiene la doppia preferenza di genere per i Comuni e che si dia seguito attraverso una legge all’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione che impone che la vita interna dei partiti sia regolata da quel metodo democratico così importante per le donne.
Il metodo democratico richiamato e richiesto dalla nostra carta costituzionale infatti non può che riguardare anche il tema di una presenza paritaria nei partiti e nelle istituzioni. È un traguardo che può essere raggiunto cominciando a fare passi significativi in avanti a partire da regole stringenti e conseguenti sanzioni per chi non candida e non elegge donne nelle assemblee rappresentative e negando il riconoscimento di personalità giuridica a chi non prevede una presenza paritaria nei propri organismi.
Su questi temi continueremo a discutere nelle diverse regioni del mezzogiorno per collegare sempre meglio il lavoro che stiamo facendo alle singole realtà territoriali (vorremmo preparare una prossima tappa di questo viaggio al Nord) favorendo una partecipazione sempre più diffusa.
Vogliamo attraversare questa difficile fase di passaggio e di ricostruzione del Paese segnandola con la nostra forza e il nostro pensiero.

La Stampa 26.2.12
Il giovane era stato arrestato nella notte per ubriachezza
Muore in questura, giallo a Firenze
Aveva solo 26 anni. Per il 118 è infarto, ma la procura dispone l’autopsia
Un mese fa nelle celle dei sotterranei si era impiccato un altro ragazzo immigrato
di Maria Vittoria Giannotti


Rami Chaban, marocchino di 26 anni, è stato trovato in fin di vita nella camera di sicurezza della questura di Firenze (nella foto) la mattina dopo l’arresto
Era entrato nella camera di sicurezza della questura nella notte, ubriaco ma apparentemente in salute. Quando ieri mattina intorno alle undici gli agenti si sono affacciati alla sua cella, si sono accorti che non dava segni di vita. Gli hanno toccato il collo per controllare il battito cardiaco e hanno capito che non c’era un minuto da perdere. Ma per Rami Chaban, un marocchino senza fissa dimora di 26 anni, fermato nella notte a Firenze per rapina e tentata violenza sessuale, non c’era più niente da fare.
In pochi minuti in via Zara è arrivata l’auto con il medico, poi – dato che le condizioni del paziente erano disperate - un’ambulanza. Nonostante gli sforzi dei medici il cuore del giovane non ha ripreso a battere. Le manovre di rianimazione sono andate avanti per oltre mezz’ora, ma verso mezzogiorno i sanitari si sono arresi. E così, nel momento in cui Rami Chaban avrebbe dovuto varcare le porte del carcere di Sollicciano, il suo corpo è arrivato, chiuso in una bara, all’istituto di medicina legale di Careggi. Qui, nei prossimi giorni, sarà effettuata l’autopsia. Il medico del 118, nel suo referto, ha escluso la presenza di traumi e ferite. Parla di «arresto cardiocircolatorio», ipotizzando una morte dovuta a cause naturali. Ma c’è un precedente che non può passare inosservato.
Neppure un mese fa, il 28 gennaio, sempre nelle celle dei sotterranei della questura fiorentina, un marocchino di 26 anni, fermato per lesioni e resistenza a pubblico ufficiale, si era impiccato appendendo un lembo di coperta alla grata della porta blindata. All’indomani di quella morte, la Procura aveva aperto un’inchiesta, ma non sono emersi elementi che facciano pensare a una dinamica diversa dal suicidio.
Ora la nuova indagine dovrà stabilire cosa abbia ucciso Rami Chaban e dovrà fugare ogni dubbio sulla presenza di una ferita alla testa, riscontrata dal medico legale in una successiva ispezione cadaverica. Una lesione che potrebbe essere stata provocata durante la concitata rianimazione. Di certo, per ora, c’è solo la sequenza degli eventi che, al termine di una serata ad alta gradazione alcolica, ha portato il 26enne in cella.
Venerdì sera, il giovane, noto alle forze dell’ordine, era uscito con una donna polacca e il suo compagno, anche lui marocchino. Quando il fidanzato della ragazza si era allontanato per qualche minuto lasciando soli i due, nei pressi della stazione Leopolda, Rami Chaban avrebbe importunato la ragazza, cercando di violentarla. Lei avrebbe reagito respingendolo bruscamente, e lui le ha sottratto con la forza il cellulare. Al ritorno del fidanzato, la giovane gli ha raccontato l’accaduto e lui ha deciso di chiamare la polizia: tra i due uomini ci sarebbe stata una colluttazione.
Gli agenti della Polfer hanno bloccato e arrestato il 27enne, accompagnandolo in questura. In cella, Rami Chaban è arrivato intorno alle 4 del mattino: sembrava tranquillo, non ha dato in escandescenze, spiegano gli agenti, ancora sconvolti. In via Zara avrebbe dovuto trascorrere solo poche ore. Dopo la tragedia del 28 gennaio scorso, la vigilanza nelle camere di sicurezza era stata aumentata. Per questo motivo gli agenti incaricati della sua sorveglianza, in attesa del trasferimento, lo hanno controllato più volte. Poco prima che scattasse l’allarme, un poliziotto si era affacciato: «Sembrava che dormisse profondamente», ha spiegato.

La Stampa 26.2.12
Leonardo e il gemello oscuro, un Uomo Vitruviano per due
Da una biblioteca di Ferrara spunta una versione del celebre disegno precedente a quella del genio da Vinci. E si apre un giallo storico-artistico
di Fabio Sindici


IDENTICHE LE MISURE. Meno bello, ma con le tracce di numerosi ripensamenti: assenti invece nell’altro
IL MAESTRO HA COPIATO? Piuttosto, una sorta di think tank all’opera per realizzare le indicazioni di Vitruvio

Dall’antica Grecia l’homo quadratus L’Uomo Vitruviano davanti alle sue due versioni, quella ritrovata nella Biblioteca Ariostea di Ferrara e quella di Leonardo da Vinci, che si ritiene eseguita tra il 1490 e il 1500  in un’interpretazione di Matteo Pericoli.
L’autore della prima, secondo l’architetto Claudio Sgarbi che l’ha scoperta casualmente, potrebbe essere un certo Giacomo Andrea da Ferrara, studioso, architetto, uomo politico e stretto collaboratore di Leonardo Nella Grecia dell’età classica si afferma la concezione che il corpo umano ideale risponda a precise proporzioni esprimibili geometricamente.
L’architetto latino Vitruvio (seconda metà del I secolo a. C.) espone la teoria nel trattato De architectura, spiegando che se distendiamo un uomo sul dorso con braccia e gambe allargate e disegniamo un cerchio avente per centro l’ombelico, la circonferenza del cerchio toccherà la punta delle dita delle mani e dei piedi. Così come nel cerchio, il corpo umano può essere inscritto anche in un quadrato: di qui l’idea dell’ homo quadratus, in greco anèr tetrágonos

Il foglio del De architectura manoscritto forse da Giacomo Andrea da Ferrara con il disegno dell’Uomo Vitruviano. Si può notare che la figura definitiva è stata ridotta di circa la metà rispetto all’impostazione originaria. Nell’illustrazione cancellata il lato del quadrato misura 180 millimetri e il raggio del cerchio 108: esattamente come nella versione di Leonardo Le avventure di un manoscritto Il manoscritto del De architectura di Vitruvio nella Biblioteca Ariostea di Ferrara è composto da 107 fogli. In un’edizione del 2004, a cura di Claudio Sgarbi (Franco Cosimo Panini editore), è stato reimpostato su 196 pagine. La prima probabile citazione del documento è nei taccuini di Leonardo, che parla del Vitruvio di Giacomo Andrea presso un certo messer Aliprando, a Milano, in un appunto del 1508, dopo la morte del suo collaboratore. Forse Leonardo riesce ad acquistarlo. Poi l’autografo lascia una traccia nella biblioteca di Alberto III Pio a Carpi. Alla fine del ‘700 si trova nella collezione romana del cardinale Gian Maria Riminaldi, da qui assieme a tutti i manoscritti di origine ferrarese confluisce nell’Ariostea.

A volte l’illuminazione è una questione di misure. Di centimetri. A Claudio Sgarbi è bastato appoggiare il righello sul foglio di un manoscritto rinascimentale perché una vertigine si aprisse sul disegno che stava esaminando. Il manoscritto era una copia del celebre trattato De architectura di Vitruvio; il disegno raffigurava un uomo con le braccia aperte, inscritto in un cerchio e in un quadrato. L’ombelico era al centro del cerchio; i genitali al centro del quadrato. «Delle diverse interpretazioni grafiche delle proporzioni del corpo umano teorizzate da Vitruvio se ne conosce solo un’altra con le stesse caratteristiche geometriche: è quella di Leonardo da Vinci», spiega Claudio Sgarbi, architetto e storico dell’architettura (nessuna parentela con il critico d’arte), che da più di trent’anni studia il manoscritto, trovato, quasi per caso, sugli scaffali della Biblioteca Ariostea di Ferrara. Sgarbi ha scritto un saggio sull’«altro Vitruviano», in uscita da Marsilio negli atti di un seminario sull’umanista Giovanni Giocondo; e ha in progetto un libro che ne racconta in dettaglio la storia. La scoperta ha avuto eco internazionale; ed è finita, di rimbalzo, in un capitolo del libro del giornalista americano Toby Lester, Da Vinci’s Ghost (Il fantasma di Leonardo da Vinci), appena pubblicato in Inghilterra e negli Stati Uniti.
Il parallelo lascia con il fiato sospeso: l’Uomo Vitruviano di Leonardo è il più famoso disegno anatomico del mondo, trait d’union tra arte, scienza e filosofia; una sorta di «firma» dell’Umanesimo. L’Uomo nel manoscritto dell’Ariostea non gli somiglia, la mano che lo ha disegnato è lontanissima dal virtuosismo del maestro. Le misure però sono le stesse. E, fino a questo momento, sembrava che Leonardo fosse stato il primo a risolvere geometricamente le indicazioni del grande teorico latino. «All’inizio ho pensato a un disegno successivo, ispirato a quello di Leonardo. Poi, però, ho preso le misure ai contorni semincancellati di un disegno più grande: era lo stesso uomo, sempre in un cerchio e in un quadrato. Il disegno definitivo era stato ridotto di circa la metà. Nell’illustrazione cancellata, il lato del quadrato misura 180 millimetri, il raggio del cerchio è di 108. Le stesse misure del quadrato e del cerchio del disegno vinciano, conservato nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia».
A differenza del disegno di Leonardo, che appare come una «bella copia», il disegno di Ferrara mostra ripensamenti e false partenze. «Soprattutto, la versione cancellata coincide con i margini del manoscritto. Questo fa pensare che sia precedente al disegno di Leonardo, che si ritiene sia stato eseguito tra il 1490 e il 1500. È difficile immaginare che l’autore del manoscritto ferrarese abbia scelto un foglio le cui dimensioni e i margini coincidessero con il disegno di Leonardo. È più logico pensare il contrario: il foglio di Leonardo infatti è più grande del normale, come se avesse voluto far spazio a un disegno dalle dimensioni notevoli per un manoscritto», puntualizza Sgarbi.
Non tutti sono convinti. «La geometria e la posizione delle braccia sono sbagliate», sostiene Martin Kemp, uno dei più noti studiosi vinciani (il suo ultimo libro è un’investigazione sulla Madonna dei fusi di Edimburgo). «Le braccia sono inclinate verso l’alto, se messe in orizzontale le proporzioni non funzionano più. Inoltre anche la testa non è sulla linea tracciata tra le estremità delle mani. Il manoscritto di Ferrara è molto importante, ma credo sia posteriore al disegno di Leonardo». Per Sgarbi, l’autore del disegno ferrarese individua una soluzione diversa, con le dita che toccano l’intersezione inferiore tra cerchio e quadrato, in una sola posizione: «Leonardo introduce un elemento di dinamismo. Ma i paralleli tra i due disegni sono molti».
L’ipotesi dell’architetto apre un giallo storico-artistico: Leonardo avrebbe copiato - o si sarebbe ispirato al disegno dell’Ariostea? Come mai questo «fratello oscuro», sarebbe rimasto sconosciuto per tanti secoli? Chi è il misterioso autore del manoscritto conservato nella biblioteca ferrarese? «Non ho mai pensato che Leonardo abbia copiato», precisa Sgarbi. «Piuttosto molto lascia pensare che la versione definitiva dell’Uomo Vitruviano sia il frutto di una collaborazione concettuale tra alcune delle migliori menti del Rinascimento italiano». Già dal Medioevo, numerosi artisti avevano provato a illustrare l’uomo descritto da Vitruvio. Apparso prima nelle miniature con le sembianze di Cristo sulla Croce, poi in un disegno del 1480 di Francesco di Giorgio Martini; tutti erano falliti nel tentativo di tradurre in geometria le parole del teorico latino. Nei cenacoli neoplatonici delle corti italiane dell’epoca, la ricerca dell’Uomo di Vitruvio era diventata la caccia a un simbolo. Il cerchio rappresentava Dio e l’universo, il quadrato la parte terrena e secolare. L’uomo, quale microcosmo, doveva essere inscritto nelle due figure geometriche.
«Il Vitruvio ferrarese appare come una tappa verso la splendida soluzione di Leonardo», ragiona Sgarbi. «Il manoscritto è rimasto inosservato a lungo per un errore di catalogazione, che lo riportava come una trascrizione parziale dei dieci libri del trattato. Invece, qui Vitruvio è esaminato nella sua completezza e, per la prima volta, magnificamente illustrato». Nelle illustrazioni il documento presenta delle soluzioni tecniche a cui stava lavorando il genio di Vinci, come il metodo per tracciare le ellissi e la voluta del capitello ionico. Si è affacciata l’idea che in alcuni disegni ci fosse la mano dello stesso Leonardo. Poi si è pensato al Bramante. Oggi Sgarbi crede di aver individuato l’autore del manoscritto. «Non ci sono prove definitive, ma diversi indizi portano a Giacomo Andrea da Ferrara, studioso, architetto, uomo politico. E stretto collaboratore di Leonardo». Leonardo stesso, nella sua corrispondenza parla di «un altro Vitruvio», in possesso di Giacomo Andrea. Il matematico Luca Pacioli lo cita tra gli architetti della Divina proporzione. «A Milano fu segretario di Ludovico Sforza, ed era in contatto con Bramante e Francesco di Giorgio Martini, occupati in diversi cantieri nella città lombarda». Questo spiegherebbe le influenze molteplici nel manoscritto di Ferrara, e favorirebbe l’idea di un «think tank» dietro l’Uomo Vitruviano.
Al contrario di Leonardo, la figura di Giacomo Andrea è stata divorata dalla storia: morì durante l’occupazione francese di Milano, giustiziato come partigiano di Ludovico. Forse il Vitruvio di Ferrara lo aiuterà a uscire dall’oscurità. La sua morte per squartamento richiama le braccia e le gambe divaricate dell’Uomo Vitruviano come un presagio. Uno spunto narrativo perfetto per un altro Codice da Vinci .

La Stampa 26.2.12
Vattimo e Lady Gaga ma cosa vi ha fatto di male la metafisica?
Dopo l’accusa del filosofo, la difesa: macché violenza, è questa la “scienza che danza” ipotizzata da Nietzsche
Una parola fraintesa. Non più una specie di dogmatismo Oggi indica un’indagine filosofica su ciò che è possibile o impossibile
di Franca D’Agostini


C’ è una sola cosa che odio più del denaro, ed è la verità»: così dichiarava Lady Gaga al concerto di Torino, qualche tempo fa. Naturalmente, ci si chiede se sia vero che odia la verità, e se sì, allora dovrebbe odiare quel che ha detto; d’altra parte, se non è vero, forse non odia né la verità né il denaro, o forse li odia ma non nell’ordine indicato... Ma che cosa spinge l’erede di Madonna a prendersela con la verità, una «vecchia gloria» della filosofia, uno dei cosiddetti «trascendentali», unum verum bonum? È interessante capire quel che intende Lady Gaga, perché anche i filosofi dunque persone che professionalmente si occupano dell’ unum verum bonum - a volte condividono il suo punto di vista, con dichiarata e consapevole indifferenza per la classica autocontraddizione che ciò comporta.
È il caso in particolare di Gianni Vattimo, che come si legge nei suoi scritti, e da ultimo nella Conclusione di Una filosofia debole (Garzanti), saggi in suo onore a cura di Santiago Zabala, di cui La Stampa ha anticipato uno stralcio il 23 febbraio, visibilmente odia il concetto di verità, e con esso il concetto di realtà, e più in generale tutto il sistema di pensiero che chiama «metafisica», il quale consisterebbe nel fare frequente uso di questi concetti tipicamente filosofici, e tenerli in gran conto.
A un primo sguardo, queste forme di avversione nei confronti di entità astratte e perciò sostanzialmente inoffensive sono perlomeno enigmatiche: perché prendersela con i concetti di realtà e verità, e non piuttosto con le persone che li usano male, spacciando per vero e reale tutto e solo quel che fa a loro comodo? E perché prendersela con la metafisica, addirittura sostenendo che, come Vattimo scrive, sarebbe all’origine «del dominio e della violenza»? Quando sento queste strane connessioni mi viene sempre in mente il dialogo che cita Hannah Arendt nel saggio sul Totalitarismo: «Gli ebrei sono stati la causa della grande guerra! »; risposta: «Sì, gli ebrei e anche i venditori di biciclette»; «Ma perché i venditori di biciclette? »; «E perché gli ebrei? ». Allo stesso modo, quando si sente dire che la metafisica è all’origine della violenza e del dominio, consiglio di aggiungere: «Sì, certo: la metafisica e anche le equazioni di sesto grado»; e naturalmente, quando vi chiedono «perché le equazioni di sesto grado? », conoscete la risposta.
È chiaro che nell’intera vicenda c’è di mezzo un fraintendimento, un disguido terminologico. Vattimo si muove guidato da Nietzsche e Heidegger. Da Nietzsche eredita la visione della «metafisica» come una semplice e un po’ infantile visione della realtà, in base alla quale vi sarebbe uno strato profondo, detto «mondo vero» e uno strato superficiale, illusorio e non vero. È questa una forma di pseudo-platonismo che Nietzsche ricavava da una affrettata lettura di Schopenhauer, ma è difficile che ci sia in giro qualcuno che difende una simile posizione: sia esso scienziato o politico o artista o anche filosofo (forse qualche vescovo cattolico potrebbe avallarla, ma non so...). Richiamandosi a Heidegger, Vattimo intende poi per «metafisica» ogni forma di dogmatismo o di rigido realismo tecnocratico. Ma questo linguaggio sembra essere una prigione più che un’opportunità. Oggi la parola «metafisica» viene per lo più usata per indicare una indagine filosofica (e perciò critica, e problematica) sui fondamenti della fisica (come le nozioni di causalità, tempo, spazio), o su ciò che è possibile o impossibile, o sui criteri in base a cui distinguiamo l’esistente e l’inesistente. Nessun rapporto con quella teoria del «mondo vero» che a Vattimo non piace. Anzi, a occhio, l’attuale confronto tra metafisici assomiglia molto a quel che Vattimo vorrebbe fosse la filosofia: «Costruire argomentazioni filosofiche cercando se non sia possibile individuare alcune certezze generalmente condivise». In effetti proprio la metafisica - per esempio quella di David Lewis, o quella del nostro Achille Varzi - oggi assomiglia molto alla «scienza che danza con piedi leggeri», ipotizzata da Nietzsche.
Tornando allora a Lady Gaga, ci accorgiamo di un altro e più importante fraintendimento. È verosimile che con «truth» Gaga non intenda ciò che si contrappone al falso, ma ciò che si contrappone al finto artistico: quel gioco di vere finzioni che guida ogni arte, rappresentativa o meno. Ora è chiaro che il nemico qui non è la «verità», ma piuttosto la tendenza repressiva di chi si appella a un presunto (e falso) vero per mettere a tacere le espressioni altrui. Ma se così è - e gli accenni all’arte nel testo di Vattimo fanno pensare che per lui sia proprio così - allora la prima operazione è sbarazzarsi una volta per tutte proprio di quel linguaggio filosofico a cui Vattimo resta ostinatamente fedele. Un linguaggio tutto pieno di impossibilità e limiti: dal «su ciò che non si può dire bisogna tacere» di Wittgenstein (ma ciò che non si può dire lo stabiliva lui) alla «fine della filosofia» (e della metafisica, e di una quantità di altre cose) annunciata da Heidegger, e da molti altri.

Corriere della Sera 26.2.12
E la fede incontrò la filosofia
Gli scrittori cristiani di fronte alla sapienza ellenistica: un rapporto complesso alle origini della nostra civiltà
di Marco Rizzi


In una celebre lettera, san Girolamo racconta di un sogno, o piuttosto di un incubo, che segnò la sua carriera di scrittore cristiano del IV secolo. Aveva rinunciato a tutti i suoi beni, alla famiglia, alla vita sociale, e si era ritirato a Betlemme per dedicarsi alla preghiera e all'ascesi. Aveva però portato con sé la sua biblioteca, che comprendeva numerosi autori classici tra cui, ovviamente, Cicerone. Caduto malato, nel sogno si ritrovò di fronte al tribunale divino, presieduto da Cristo; alla domanda del sommo giudice: «Chi sei?», Girolamo rispose con la formula utilizzata dai martiri cristiani: «Christianus sum, sono un cristiano». La replica lo lasciò atterrito: «Non sei un cristiano, sei un ciceroniano!». Svegliatosi in un bagno di sudore, Girolamo si risolse ad abbandonare ogni interesse per la letteratura profana, e si dedicò da allora in poi esclusivamente allo studio e alla traduzione latina della Bibbia, nota come la Vulgata, rimasta sino al Vaticano II il testo biblico ufficiale della Chiesa cattolica.
In realtà, per la sua attività di esegeta Girolamo si guardò bene dall'abbandonare le risorse che la filologia e la retorica greca e latina gli mettevano a disposizione; la sua stessa prosa si ispira a un moderato classicismo di impronta ciceroniana. A ben vedere, sotto l'apparenza di una drammatica conversione intellettuale, il sogno indica come alle soglie del V secolo la letteratura dei cristiani non avesse ormai più alcun complesso di inferiorità nei confronti di quella classica; anzi, con questa si vuole confrontare sul piano della forma e dello stile, sia pure privilegiando l'esigenza di comunicare e insegnare a tutti, non più solo ad una ristretta élite. Non a caso, Girolamo fu autore di una raccolta di biografie di scrittori cristiani illustri, programmaticamente contrapposti a quelli pagani, greci e latini.
Sin dal II secolo i cristiani non avevano esitato ad inserirsi nel contesto comunicativo del mondo antico; se autori come Tertulliano proclamavano orgogliosamente la loro estraneità ad una cultura in declino, lo facevano pur sempre secondo i canoni della più avvertita retorica e con una strumentazione concettuale debitrice della tradizione filosofica. Proprio con la filosofia il cristianesimo stabilì un rapporto decisivo. Nel mondo antico, la filosofia era anzitutto uno stile di vita, in cui l'etica si sostanziava dei risultati della speculazione intellettuale, sotto la guida di un maestro. Cristo venne presentato come il maestro universale e la sua rivelazione come la «vera filosofia», che riassumeva in sé non solo i contenuti dispersi nelle precedenti tradizioni, ma anche gli exempla morali delle grandi figure del passato, Socrate più di ogni altro. A sua volta, questo incontro cambiò la struttura del filosofare antico: il discorso su Dio, la teologia, che sino ad allora costituiva una parte limitata nell'ambito della più generale speculazione metafisica, iniziò a rappresentare la finalità ultima cui indirizzare ogni attività intellettuale. Prese così avvio il cammino che condurrà alle artes del trivio e del quadrivio medievale; ma già Origene, Agostino, Plotino condividono la nuova gerarchia dei valori filosofici.
Sotto la penna degli scrittori cristiani, non solo i modi, bensì anche i grandi temi della filosofia antica si sono piegati a nuovi significati, e in questo modo si sono conservati e sono pervenuti ai nostri giorni. Il caso più celebre è quello del Logos, il Verbum, che dai filosofi stoici, attraverso il prologo del Vangelo di Giovanni, Giustino, Agostino e molti altri è giunto sino alle riflessioni di Benedetto XVI su fede e ragione del celebre discorso di Ratisbona del 2006, in cui il pontefice individua come intrinsecamente necessitato l'incontro tra il cristianesimo e la razionalità greca. Ma la lettura degli scrittori cristiani riserva sorprese ben altrimenti affascinanti. Commentando il Cantico dei cantici, Origene non esita ad attribuire a Dio i caratteri dell'eros dipinto dal Simposio di Platone: l'amore per la sua creatura spinge Dio a proiettarsi oltre se stesso nella forma di un amore che non solo richiede all'uomo di contraccambiarlo, ma addirittura trascina quest'ultimo a sua volta fuori di sé, nell'ekstasis della contemplazione. Idea ben presente ai mistici cristiani di ogni epoca, che sapevano coglierne la forza dirompente, leggendo eros e amor laddove noi risultiamo assuefatti alla resa, estenuata e senza nerbo, di «carità». Ancora, le riflessioni sviluppate nel Lelio da Cicerone sull'amicizia quale vincolo al tempo stesso sociale e affettivo saranno riprese da Agostino nella meditazione dei suoi trascorsi giovanili condotta nelle Confessioni e rilanciate in una chiave nuova, che pone questa volta il Dio cristiano a fondamento di ogni rapporto autentico tra gli uomini, superando così la frattura — drammaticamente avvertita da Cicerone — tra determinazioni della ragione politica ed esigenze dell'animo individuale.
A questo incontro tra cristianesimo e tradizione classica è stato spesso rimproverato di aver snaturato i caratteri originari della predicazione e del messaggio di Gesù. Non va però dimenticato che già una parte significativa dell'ebraismo antico aveva consumato l'incontro con la lingua e la cultura greca nella cosiddetta traduzione della Bibbia dei Settanta, su cui ci informa la Lettera di Aristea; proprio questa Bibbia i cristiani fecero propria, fin quando Girolamo non si lanciò nell'impresa di tradurla ex novo dall'ebraico per il mondo latino. Soprattutto, le opere degli autori cristiani antichi divennero a loro volta oggetto di traduzioni e di rielaborazioni da parte di scrittori che, dal IV secolo in poi, presero ad esprimersi in una varietà di lingue (copto, siriaco, armeno, georgiano...) sino ad allora prive di dignità letteraria, dando origine a nuove culture e a nuove identità socio-religiose nel segno del cristianesimo e confermando così che la natura di quest'ultimo è intrinsecamente aperta all'incontro con le più diverse esperienze dell'uomo.

Corriere della Sera 26.2.12
La natura dell'universo e i doveri del cittadino


Oltre ai pensatori della classicità greca e dell'ellenismo, da Platone (con cui si aprirà il 1° marzo la collana) ad Aristotele ed Epicuro, la nuova iniziativa editoriale «I classici del pensiero libero. Greci e latini» del «Corriere della Sera» proporrà — gli uni come gli altri annotati e con testo originale a fronte — alcuni dei più significativi scritti di importanti pensatori latini, con introduzioni scritte appositamente per l'opera da illustri critici e studiosi che ne situano il pensiero nell'ambito storico di appartenenza, o ne illustrano l'influenza sulle epoche successive, fino al tempo contemporaneo (ciascun volume sarà in edicola al prezzo di un euro più il costo del quotidiano). Interessante dunque osservare la diversa temperie del mondo latino rispetto a quello greco antico, da cogliere anche nel tenore dei testi di carattere filosofico giunti fino a noi: la riflessione è spostata dagli elementi fondativi del mondo, sostanze ed enti, all'interesse spiccato per l'individuo sociale, il cives calato nella vita relazionale e, pur se intento a interrogarsi sul destino, sul tempo, sulla vecchiaia, anche protagonista di un confronto pragmatico con la società in cui vive. Si tratta di testi classici, ma attuali nell'acutezza dei problemi affrontati: basti pensare a ciò che sostiene Cicerone nel suo L'amicizia, quinto volume della collana (in edicola il 15 marzo), con la prefazione inedita di Giorgio Montefoschi: un dialogo in cui l'amicizia è elezione e comunanza di intenti oltre che di spiriti, in cui dominano l'aspirazione comune al bene e l'elemento etico. O si pensi a Seneca, cui è dedicato il sesto volume della collana, La fermezza del saggio e altri scritti, con introduzione di Cesare Segre (in edicola il 17 marzo): testi nei quali il sistema di valori del filosofo stoico si applica alla vita e alle esperienze dell'uomo nel contesto sociale e soprattutto politico, spesso avverso. Per tacere degli stili di scrittura così diversi tra loro: il fluido periodare ciceroniano, facondo e armonioso, e le «sentenze» di Seneca, brevi e memorabili. (i.b.)

Corriere della Sera 26.2.12
La via canadese all’ora di religione nell’occidente ormai multiculturale
di Marco Ventura


Le società occidentali devono educare le future generazioni alla differenza religiosa: ai molteplici volti di Dio, ai tanti percorsi delle fedi e dei fedeli; alla convivenza tra uomini di diverse convinzioni. Può l'istruzione pubblica rispondere a questo bisogno sempre più avvertito? E come? Lo studio della Divina Commedia, dell'Iliade e del Mahâbhârata è importante, ma non sufficiente. Neppure basta l'ora di religione tradizionale, in cui la chiesa maggioritaria propone se stessa e la propria visione dell'altro. Servono soluzioni alternative.
Nel 2008 il Québec ha introdotto nelle scuole pubbliche l'insegnamento obbligatorio di «etica e cultura religiosa». In programma, la storia religiosa del Paese, la storia e la cultura delle religioni e l'introduzione ai valori della tolleranza e del pluralismo. I vescovi del Québec non si sono opposti, ma alcuni genitori cattolici hanno chiesto che i figli venissero esonerati. Al rifiuto dell'autorità scolastica, hanno presentato ricorso. L'ora di etica del Québec, hanno sostenuto, veicola l'idea che tutte le fedi si equivalgano e confonde i nostri figli circa la verità della fede. Questo relativismo di Stato è incompatibile con l'educazione religiosa impartita in famiglia, viola la nostra libertà religiosa.
La Corte suprema canadese ha infine respinto il ricorso. L'ora di studio è salva. Certo, i giudici LeBel e Fish hanno riconosciuto il rischio che l'educazione al pluralismo religioso diventi illegittimo indottrinamento. Tuttavia, ha scritto la giudice Deschamps per la Corte, «sostenere che l'esposizione dei figli a religioni diverse violi di per sé la libertà religiosa dei minori o dei genitori significa rifiutare la realtà multiculturale della società canadese e disconoscere ciò cui lo Stato del Québec si ritiene obbligato in materia di educazione pubblica». Questa «obbligazione» pubblica di educare alla diversità religiosa interroga le collettività, le istituzioni, le stesse chiese. Solo prendendo rischi, solo innovando, si può rispondere davvero. È la lezione del Québec.

Corriere della Sera La Lettura 26.2.12
La mappa dei negazionismi di Stato
Dallo sterminio degli armeni alla Shoah, dal colonialismo alla questione irlandese Chi vuole falsificare il passato oggi può contare su nuove, potenti strategie comunicative
di Marcello Flores


Negazione, revisione, rimozione: attorno a questi termini si svolgono da anni, in tutto il mondo, history wars, guerre di interpretazione su eventi drammatici e luttuosi, che non riguardano solo gli storici ma, spesso, governi e Stati, popoli e minoranze, vittime e carnefici. All'interno della memoria pubblica la questione del negazionismo ha acquistato, con gli anni, sempre più spazio. La conoscenza storica è stata spesso manipolata, travisata, riabilitando o condannando per interessi politici, ideologici, statali.
Di negazionismo in senso stretto, ossia di storici che negano realtà assodate e riconosciute da tutti, vi è forse solo il caso della Shoah, venuto alla ribalta negli anni Settanta e poi amplificato negli anni Novanta a opera di un ristretto manipolo di storici (o autoproclamatisi tali). I campi di sterminio e l'uccisione di cinque-sei milioni di ebrei avrebbero costituito, per costoro, una «menzogna», il risultato di un complotto giudaico. Pochi e squalificati (i più noti sono Robert Faurisson e David Irving), i negazionisti hanno costruito nuove strategie comunicative e approfittato del sorgere di movimenti neonazisti per ottenere attenzione dai media, rimanendo sempre del tutto marginali e ininfluenti, ma contribuendo alla rinascita di rigurgiti di antisemitismo. Con l'appoggio al negazionismo del presidente iraniano Ahmadinejad si è ulteriormente diffusa, soprattutto nel mondo arabo, una visione riduttiva e minimizzatrice della Shoah, vista come mito fondatore dello Stato di Israele più che come evento cruciale del Novecento.
Di negazionismo di Stato si è parlato molto anche a proposito del genocidio degli armeni. Il famigerato articolo 301 del codice penale turco — che ha permesso di portare in tribunale per «offese alla turchità» centinaia di persone, tra cui il Premio Nobel Pamuk, ree di ricordare il massacro degli armeni — rappresentava la minaccia più pesante che lo Stato turco poneva su chi volesse parlare di genocidio. Il negazionismo turco si è basato per anni sull'attività di istituzioni accademiche e di storici occidentali compiacenti che hanno ridimensionato o attribuito alla violenza di guerra, o a quella preventiva contro il possibile tradimento degli armeni, i massacri iniziati nel 1915 (tra essi Stanford Shaw e Justin McCarthy con una posizione più giustificazionista, ma anche Bernard Lewis con l'intento di minimizzare). Oggi la strategia è quella di chiedere che vengano poste «sullo stesso piano» interpretazioni diverse, senza insistere sulla negazione in sé, con l'obiettivo di far diventare legittime, pur se discutibili, le interpretazioni che riducono a poche centinaia di migliaia le morti armene (di fronte alle stime ormai consolidate tra 1 e 1,5 milioni di morti), poste a confronto con quelle superiori sofferte dai turchi nel corso della Prima guerra mondiale. Di qui la dura protesta del governo di Ankara contro la legge francese che punisce chi nega le stragi degli armeni.
Gran parte del dibattito rimane ancorato alla possibilità di usare il termine genocidio — dizione fortemente avversata dallo Stato turco — in una querelle terminologica che ha riguardato anche altri casi. Tra questi quello della carestia in Ucraina nel 1932-33, che causò la morte di almeno 5 milioni di persone (altre stime parlano di 7 e il governo ucraino di 10) in seguito a direttive politiche del regime staliniano per piegare l'opposizione contadina alla collettivizzazione e la ripresa di movimenti nazionalistici. La rivendicazione dell'Holodomor («uccisione per fame») come genocidio o crimine contro l'umanità è ormai largamente accettata, ma vi sono ancora forti resistenze a riconoscerlo — e ad ammetterne la matrice politica — soprattutto in Russia.
Il dibattito sulle vittime del comunismo può ormai poggiarsi su solide basi documentarie. Negato negli anni 50 e 60 da molti simpatizzanti, compresi storici e intellettuali, accettato ma minimizzato negli anni 70 quando Solženicyn ne portò alla ribalta la tragica esperienza, dibattuto sulla base della documentazione disponibile negli anni di Gorbaciov, il sistema del Gulag è oggi unanimemente riconosciuto nella sua estensione, profondità e tragicità. Tra il 1930 e il 1952 vennero condannate alla fucilazione 1 milione di persone, 19 milioni a pene detentive in campi e prigioni, 30 ai lavori forzati e ad altre misure repressive.
È sul versante statale che si sono avute forme preoccupanti di rimozione che hanno alimentato disinteresse e disinformazione da parte dell'opinione pubblica russa sul suo passato. Putin ha sottolineato la grandezza di Stalin, espresso rammarico per la scomparsa dell'Urss, celebrato i «monumentali risultati» del periodo sovietico, festeggiato i servizi segreti e reintrodotto l'inno nazionale dell'Urss; Medvedev ha istituito nel 2009 una commissione per contrastare «la falsificazione della storia a danno della Russia», ma non, evidentemente, quella a suo vantaggio. I numerosi libri dello storico Jurij Zhukov, (l'ultimo del 2011 dal titolo inequivocabile Essere orgogliosi e non pentiti. La verità sull'epoca staliniana) stanno conoscendo diffusione e successo. Come molti libri divulgativi che relativizzano i crimini del comunismo e rivalutano l'epoca staliniana soprattutto per il periodo di guerra, grazie all'influenza della chiesa ortodossa.
Shoah, genocidio armeno, Gulag, non sono gli unici eventi su cui si sono cimentati il revisionismo storiografico o la rimozione pubblica. In Francia la discussione ha ruotato attorno al regime di Vichy e al colonialismo in Algeria, e ormai solo qualche sparuto storico militare è ancora disposto a negare i risultati della ricerca su entrambe le questioni. Cosa che fanno alcuni politici e giornalisti per influenzare l'opinione pubblica in una rivalutazione esplicita della grandeur francese e nella riproposizione di tabù sul collaborazionismo o l'uso della tortura nelle colonie. Una legge del 2005 sottolineava il «ruolo positivo del colonialismo» e la creazione da parte di Sarkozy di un ministero insieme dell'Immigrazione e dell'Identità nazionale ha rilanciato la discussione sulla «frattura coloniale», spingendo a posizioni (come quella di Daniel Lefeuvre in Farla finita col pentimento coloniale) che tendono a negare o ridimensionare non più i fatti ma le interpretazioni e le attribuzioni di responsabilità.
Il dibattito in Cile, Argentina e Uruguay si è svolto anch'esso più attorno alle interpretazioni e definizioni, ai ridimensionamenti e ai silenzi sugli eventi legati al passato dittatoriale di quei Paesi, che non su vere e proprie negazioni. In Argentina si rifiuta il carattere genocidiario della repressione giovanile (sancito da alcuni tribunali nazionali), in Uruguay si sottolinea il ruolo della violenza dei gruppi dell'ultrasinistra nel favorire la reazione militare, in Cile si valorizzano le misure economiche dell'epoca di Pinochet: è su questi terreni che le guerre della memoria sono passate anche in ambito accademico, non più limitate al dibattito pubblico sulle amnistie, le responsabilità, i risarcimenti.
In Gran Bretagna il dibattito sulla «questione irlandese» continua a essere acceso, sia sulla carestia del 1845-52 (un milione di morti, due milioni di emigrati negli Usa, altrettanti ospitati nelle terribili workhouse dell'epoca: una tragedia «naturale» fortemente aggravata dalla mancanza di misure adeguate e da scelte errate compiute dal governo britannico) sia su innumerevoli episodi della lotta indipendentista negli anni Venti. Ma è sul periodo più recente che la battaglia è più acuta: il rapporto Saville del 2010 ha smentito il rapporto Widgery del 1972 sulle responsabilità del Bloody Sunday a Londonderry, attribuendole alle Forze armate britanniche e non più alle associazioni irlandesi. Ma la recente decisione di obbligare il Boston College a consegnare agli inglesi le interviste ai militanti dell'Ira (una ricchissima documentazione storica) come prove per una possibile incriminazione, si presenta come una pesante intromissione della politica nel lavoro degli storici.

Corriere della Sera La Lettura 26.2.12
Thomas Mann e i cent'anni della «Morte a Venezia»
Simpatia per l'abisso
di Paola Capriolo


Nel 1912, quando Thomas Mann pubblicò La morte a Venezia, l'Europa sembrava il più pacifico e ordinato dei continenti; difficile supporre che l'avventura potesse trovarvi spazio se non in quella forma attenuata detta «turismo» alla quale, allora come oggi, gli agiati figli della civiltà industriale ricorrevano per trovare un diversivo dalla rassicurante normalità della propria esistenza. Per la verità Gustav von Aschenbach, l'illustre e attempato scrittore che vediamo sbarcare da una gondola su un pontile del Lido, aveva concepito ben altro desiderio: preso da un'oscura brama di oblio e liberazione, avrebbe voluto spingersi addirittura là dove sono le tigri, dove le felci crescono rigogliose, dove i grevi vapori delle paludi rammentano all'anima un passato più che ancestrale. Ma come tanti, ha finito con l'accontentarsi di una versione addomesticata del suo sogno: non proprio fino alle tigri, meglio ripiegare su una meta più vicina, raggiungibile in una notte di vagone letto, per godersi tre o quattro settimane di riposo in qualche rinomata località di villeggiatura. Con un misto di ragionevolezza e inconscia temerarietà sceglie dunque Venezia, la città «metà fiaba, metà trappola per forestieri»; e sceglie di alloggiare all'Hotel des Bains, uno dei numerosi grandi alberghi disseminati per il continente, nelle cui sale comuni tutte le lingue parlate nel mondo civile si mescolano in un educato chiacchierio.
Gli alberghi, come i sanatori di lusso che ne costituiscono un ambiguo equivalente, sembrano esercitare una particolare seduzione su Thomas Mann: forse perché sono luoghi astratti, nei quali è dato di condurre una vita astratta che è il primo ed essenziale presupposto di ogni avventura. Qui davvero le abitudini quotidiane (e le relazioni, e i doveri, e quella sobria e inflessibile dedizione al proprio compito inculcata come il più tenace degli imperativi in chi, come Aschenbach, aspira nella vita al decoro borghese e nell'opera a un'esemplare classicità) sono temporaneamente sospesi come da un colpo di bacchetta magica per lasciare il posto a una serie di rituali lievi e provvisori, a un vuoto appena mascherato dal sommesso andirivieni dei camerieri. E in questo vuoto, tutto può fare irruzione: anche l'incomparabile, il «fiabescamente diverso». Ad esempio si può scorgere a un tratto nella hall, in una cerchia di insignificanti ragazzine radunate con l'istitutrice attorno a un tavolino di vimini, un efebo leggiadro dall'impronunciabile nome polacco che sarà Giacinto e Narciso e infine Ermes, il messaggero delle ombre, colui che guida l'anima dell'uomo nel suo viaggio verso gli inferi. Perché il delirio amoroso in cui Aschenbach è destinato a sprofondare pagina dopo pagina mentre vaga per le calli di Venezia sulle orme del giovane Tadzio è quello di un letterato imbevuto di cultura classica, che tenta sino all'ultimo di nascondere a se stesso il proprio smarrimento trasfigurandolo in un gioco inesausto di citazioni. Una «deformazione professionale», che però rispecchia e anticipa l'incombente catastrofe di un'Europa il cui estenuato umanesimo arriverà a capovolgersi, entro pochi decenni, nella più brutale disumanità.
È come se Mann avesse presentito tutto questo già qui, con le sue doti, oltre che di grande scrittore, di grande rabdomante della storia: le stesse che, sempre nel 1912, gli ispirano La montagna incantata, inizialmente pensata come racconto ma destinata a svilupparsi ben oltre il progetto originario e a diventare uno dei romanzi fondamentali del ventesimo secolo. Concepite quasi a ridosso l'una dell'altra, le due opere affrontano un tema comune, quella «simpatia per l'abisso» alla quale Aschenbach finisce col soccombere, mentre Hans Castorp, nella scena culminante della Montagna incantata, deciderà di rinnegarla «in nome della bontà e dell'amore». Ma la differenza più profonda è forse un'altra: se il romanzo, nella sua arcata poderosa, sembra voler accogliere e trasfigurare i travagli spirituali di un'intera epoca, nella Morte a Venezia tutto ciò appare come di scorcio, riflesso nel nitido, inesorabile sviluppo dell'ossessione erotica che va soggiogando a poco a poco la mente del protagonista. Non si parla di «idee», in questo racconto perfetto; non vi sono agguerriti portavoce di tesi filosofiche che si contendano l'anima di Aschenbach come Naphta e Settembrini quella del giovane Castorp; tutto avviene nel lungo, chiuso monologo interiore di una coscienza che si affanna a tradurre quanto le sta accadendo nell'ambiguo repertorio di immagini del mito greco, senza rendersi conto che il mito è Apollo ma anche Dioniso, la limpidezza della forma ma anche la voragine tentatrice dell'informe, del primitivo, addirittura del ferino: come quella di Tadzio sulla spiaggia del Lido, le sue figure emergono dalla «nebulosa infinità» di un elemento che nessuna ragione sarà mai in grado di padroneggiare.
Per una reticenza significativa in un autore che, come Mann, fa della reticenza uno dei propri fondamentali mezzi stilistici, nonostante la dovizia di citazioni mitologiche Dioniso non è mai nominato esplicitamente nel racconto: vi si allude soltanto come al «dio straniero», invocato da un'ebbra folla di celebranti nel sogno dove Aschenbach, giunto a sua volta al culmine di un'ebbrezza che mescola inestricabilmente eros e morte, arriva a scorgere il fondamento oscuro e primordiale delle proprie dotte divagazioni. Quella benefica, feconda dialettica tra il patrono del limite e il dio dell'abbandono orgiastico teorizzata da Nietzsche nella Nascita della tragedia, quell'equilibrio tra forma e dismisura, è sul punto di spezzarsi irrevocabilmente. E mentre il vecchio scrittore si accascia esanime su un fianco della poltrona in attesa che «un mondo rispettosamente commosso» apprenda la notizia della sua morte, Tadzio, continua a inoltrarsi nell'«immensità colma di promesse» dell'orizzonte marino, eternamente sfuggente, incurante dell'equivoco per cui noi mortali abbiamo creduto di poter imbrigliare il suo passo nelle maglie effimere delle nostre culture.

Corriere della Sera La Lettura 26.2.12
Lasciate chiuse quelle pagine: le paure a cui non si può resistere
Il rospo della vanga con volpe e panda
I classici dei fratelli Grimm rivisitati in noir. Poi scheletri e cimiteri Ma anche timori più realistici come il terremoto o il dottore
di Severino Colombo


Chi ha paura di Adam Gidwitz alzi la mano. Diamo per scontato che nessuno l'abbia alzata. Del resto Gidwitz sembra un tipo innocuo: ha trent'anni, vive a Brooklyn e ai suoi studenti racconta storie di paura. Come In una notte buia e spaventosa, appena uscito per Salani, che l'autore presenta così: è la storia «più violenta e sanguinosa che possiate immaginare». Per poi aggiungere: «Se la cosa vi preoccupa, probabilmente è meglio che vi fermiate qui». O magari ancora prima, alla copertina: buio, due bambini, alberi spettrali, corvi inquietanti, streghe e una spada insanguinata. Lì, a ben vedere, gli elementi del romanzo ci sono già tutti. Sembra quasi di sentire una vocina che dice: non aprire questo libro. Forse è la stessa che diceva a Cappuccetto Rosso di non fermarsi lungo il sentiero, a Biancaneve di non accettare la mela dalla vecchia strega, a Hänsel e Gretel di non mangiare la casetta di marzapane. Di certo identico è l'effetto: si ha una voglia matta di fare l'esatto contrario. Così alla fine (che poi è l'inizio) si varca la porta: «Tanto tempo fa, in un regno chiamato Grimm, un re giaceva sul suo letto di morte. Era il nonno di Hänsel e Gretel».
Il modo in cui Gidwitz, talentuoso esordiente, gioca con la paura è magistrale: entra ed esce dal racconto «ufficiale», che è una rivisitazione non edulcorata (leggi: horror e splatter) dell'immaginario dei Grimm. Si rivolge direttamente al lettore — ai «bambini grandi» — con ammiccamenti («Aspettate un momento, so cosa state pensando»), anticipa ciò che accadrà («alla fine di questa storia Hänsel e Gretel si fanno tagliare la testa»), semina falsi finali (se ne contano almeno una decina), strizzate d'occhio e avvertimenti («Attenzione: il brano che segue è piuttosto disgustoso»), perfino suppliche («Non ci sono bambini piccoli nella stanza, giusto? Vi avverto, anzi vi supplico: mandateli via»). Funziona? Eccome, in barba alla paura il libro di Gidwitz si divora in un sol boccone e con il sorriso sulla bocca.
Una volta provato il piacere del brivido è uno scherzo da nulla mettere il naso nel Maniero delle Buone Maniere e fare conoscenza dello scheletrino Billy di Christopher Lincoln (Billy Bones. L'armadio dei segreti, Newton Compton); poco più di una passeggiata aggirarsi ne Il cimitero senza lapidi e altre storie di Neil Gaiman (Mondadori, da 10 anni).
Solo storie di fantasia? No, la paura può anche avere i piedi per terra, nascere da un evento disastroso, doloroso o violento. Quando la casa si è messa a tremare davvero per il terremoto, ha tremato — di paura — anche Lorenzo, il ragazzino del racconto Crepi la paura! di Ugo Vicic (Nuove Edizioni Romane, dai 9 anni) che ha visto traballare insieme al lampadario tutto il suo mondo di affetti. Non manca un po' di «tremarella» neppure al lettore del primo giallo per ragazzi di Margherita Oggero L'amico di Mizù (Notes Edizioni, da 8 anni), ben illustrato da Petra Probst, che ha per protagonisti due bambini con un coraggio da leone, alle prese con un delitto.
Per paure più «piccole» — del buio, del dottore, dei mostri, dell'acqua... — i rimedi per bambini di 3-4 anni vanno da Accendi la notte (Gallucci) di Ray Bradbury, tradotto da Carlo Fruttero, e La paura è fatta di niente (Mammeonline), ai «classici» come Abbasso la paura! di Mario Gomboli (Fabbri) e la filastrocca Facciamo bù! (La Coccinella).
Ma che fare se la paura del primo giorno di scuola provoca — come nel nuovo e divertente Ecciù! (Il Castoro) — una inedita crisi di starnuti magici?

Corriere della Sera La Lettura 26.2.12
La strage di Salem
Quando l'America Impiccò le Streghe
Oltre 140 abitanti di un villaggio di immigrati puritani del Massachusetts furono processati, diciannove uccisi, altri cinque morirono per le torture. Tutto iniziò in una canonica: la figlia e la nipote di un reverendo vennero colpite da allucinazioni. Religione e (poca) scienza fecero il resto
di Alessia Gazzola


Una donna sola è afflitta da tali sogni e tali pensieri che ha paura di se stessa, a volte.
Ti prego, resta con me questa notte, caro marito, di tutte le notti dell'anno.
Nathaniel Hawthorne «Il giovane Goodman Brown»

Mi chiedo quanto Nathaniel Hawthorne abbia trovato indigesta la propria discendenza da John Hathorne, esimio magistrato nella Salem del 1692, visto che per distanziarsene genealogicamente ha aggiunto quella «w» al proprio cognome. Lui, liberale e illuminato, forse il più illustre figlio di Salem, certo pensava con deplorazione a una storia in cui invece il suo trisavolo aveva brillato per accanimento. Una storia di bambine bugiarde, di giudici privi di metodo, di medici superstiziosi, di folle ondivaghe, di vile denaro, di gente coraggiosa che preferisce la morte alla calunnia e gente remissiva che china il capo di fronte al male piuttosto che finire sulla forca.
No, non è un romanzo, anche se per un'idea così qualunque autore venderebbe l'anima al diavolo, è proprio il caso di dirlo.
È la storia dei tristi fatti che avvennero tra la fine del 1691 e il 1692 nel villaggio di Salem, nella Massachusetts Bay Colony, un insediamento fondato dai Puritani emigrati dall'Inghilterra durante le persecuzioni pre-Cromwelliane. In un humus alimentato dalla repressione morale, funestato dal gelo e dall'austerità di giorni sempre uguali, la noia e l'autosuggestione priva di controllo di un piccolo gruppo di adolescenti furono probabilmente all'origine di quello che passò alla storia come il più grande caso di processo alle streghe del Nuovo Mondo.
Strega. Dal latino strix, rapace notturno che secondo le leggende popolari succhiava il sangue delle capre. Per affinità, la strega era una donna autrice di sortilegi scesa a patti con il demonio.
Chi erano le streghe in quella insipida frazione di colonia britannica chiamata Salem?
Non erano guaritrici né prostitute, come invece accadeva in Europa. Erano per le più donne reiette che vivevano ai margini della società puritana come la vagabonda Sarah Good, che fu tra le prime a essere accusata. In seguito, nessun segmento sociale fu risparmiato. Furono trascinati in prigione rispettati uomini di chiesa come George Borroughs, che morì recitando il Pater Noster con il cappio al collo; bambine di soli quattro anni come la piccola Dorothy Good, figlia di Sarah; mogli di tavernieri, donne al terzo matrimonio, donne che vivevano more uxorio con il loro compagno; donne anziane e morigerate, come Rebecca Nurse, considerata esemplare specchio di virtù fino a quando un gruppo di ragazzine affermò il contrario e tutta la comunità di Salem ci credette.
Tutto ebbe inizio per gioco nella cucina del reverendo Parris, padre e zio di due bambine di nove e undici anni. Era vissuto nelle Indie Occidentali fino a poco tempo prima e da lì aveva portato con sé la schiava Tituba, che aveva origini africane e praticava riti di divinazione propri della sua cultura. La possibilità di conoscere il futuro sedusse le ragazzine almeno quanto l'idea di varcare la soglia proibita tra il bene cui erano obbligate e il male che era loro vietato. Poco dopo l'inizio di quei giochi segreti, le due bambine iniziarono a essere colpite da crisi di delirio e con loro anche altre adolescenti che frequentavano il focolare di casa Parris. Il medico del villaggio di Salem non ebbe dubbi: erano vittime di una possessione demoniaca e le ragazzine, interrogate, accusarono la schiava Tituba e altre due donne del villaggio di aver gettato un maleficio su di loro.
Se anziché essere un giovane medico legale nella ridente Sicilia del 2012 fossi stata William Griggs, il medico dell'arcigno villaggio di Salem nel 1692, che risposta avrei potuto dare alla comunità sugli eventi che la sconcertavano? Quali pensieri avrebbero potuto attraversare la mente di un povero medico del XVII secolo, più esperto in superstizione che in scienza? Avrebbe mai potuto ipotizzare che la contaminazione fungina della farina di segale con cui veniva preparato il pane a Salem era in grado di provocare effetti allucinogeni? Solo una sfera magica avrebbe potuto mostrargli che nel XX secolo con quelle stesse molecole sarebbe stato prodotto l'Lsd.
Avrebbe potuto esprimere diagnosi di isteria collettiva? Freud era davvero troppo lontano e, dopotutto, i segni della dicotomia religione/psichiatria marchiano alcuni casi di delirio anche nel XXI secolo. La Chiesa ha assunto un atteggiamento di scetticismo nei riguardi della possessione demoniaca da quando è stato dimostrato che si tratta prevalentemente di casi di schizofrenia o psicosi; continua tuttavia a esistere una minima percentuale di casi davanti ai quali un esorcista e uno psichiatra ateo non potrebbero comunque trovarsi d'accordo.
Negli anni della caccia alle streghe di Salem non mancarono le prove di simulazione da parte delle bambine, ma la medicina, la giustizia e la comunità scelsero di ignorarle.
Allora, come oggi, la scorciatoia della gogna era una tentazione troppo forte.
Nel XVII secolo peraltro la stregoneria era un reato riconosciuto dal diritto penale e per giudicare il caso venne istituita una Corte straordinaria composta dai giudici di Salem. Il primo marzo del 1692 il processo ebbe inizio, concludendosi bruscamente per volontà del governatore britannico della Nuova Inghilterra il 12 settembre dello stesso anno. Les enfants terribles avevano già accusato centoquarantaquattro persone, tutte finite sotto processo e — fatto che forse ebbe un certo peso — negli ultimi tempi avevano puntato il dito contro donne importanti come Lady Phips, la moglie del governatore.
La paura del demonio e della diversità erano le paure più radicate nella timida e confinata società puritana. In pochi mesi, l'irrazionalità della Corte trasformò il dramma emozionale religioso in fenomeno di manipolazione mentale e, in un secondo momento, in faccenda meramente economica. Non si dimentichi che i beni e i terreni degli accusati erano confiscati e ridistribuiti tra tutti coloro che non erano in combutta con il demonio. Furono condannate a morte per impiccagione diciannove persone; altre cinque morirono per le conseguenze della detenzione o in seguito alle torture. Tutte avevano proclamato la propria innocenza fino all'ultimo respiro. Le accusatrici, le streghe bambine di Salem, popolavano l'altro versante del tribunale e nessuna pagò per le calunnie che alcune di loro ammisero qualche anno dopo il processo.
Tituba, che aveva aperto alle ragazzine la porta della trasgressione, non fu mai giustiziata: chi confessava la propria colpevolezza era graziato; meglio ancora se indicava ad Hathorne e agli altri membri della Corte altri complici di stregoneria, con conseguenti nuovi beni da confiscare. E ricordando tutto questo, come dare torto ad Hawthorne e alla sua «w» ribelle?

il Riformista Ragioni 26.2.12
Quando un verso ci fa riflettere sul fuggire del tempo
Qualunque idea si abbia sulla sua natura, del tempo si ha esperienza tramite l’umano attraversare i giorni e incontrare gli “accadimenti”
di Paolo Maria Mariano

qui
http://www.scribd.com/doc/82847498

il Riformista Ragioni 26.2.12
Leggere il Capitale: a noi lo ha insegnato il professor Colletti
di Fernando Liuzzi

qui
http://www.scribd.com/doc/82847498

Repubblica 26.2.12
Dal re a Wall Street il cerchio che si chiude
Fiaccole
A Londra, Atene e in val Susa Tra gli indignados di Puerta del Sol o tra gli Anonymous di Zuccotti Park Sui muri e nelle piazze dell´Occidente in crisi più che la falce e il martello rispunta l´antico simbolo dell´anarchia Ecco perché un ideale nato più di un secolo fa ancora infiamma
di Luca Rastello


«Smontiamolo il mito black bloc, chi se ne frega del mito?», mi dice Uckmar, che si presenta con il solo pseudonimo, giovane donna dall´aria mite, rigorosamente in nero. «Siamo una minoranza. A Genova 2001 non eravamo più di trenta. Non ci si organizza, non ci si conosce neanche, ci si incontra già mascherati. E non è la violenza che interessa, interessa il gesto simbolico». E gli altri? «Guarda, c´è di tutto, anche chi non è arrabbiato», non spiega che cosa intende dire, ma precisa: «Non ha senso mettere paletti, la nostra forza è proprio nella permeabilità dei confini, tutto ciò che è limitrofo è fertile, sono le contaminazioni che rompono la gabbia». Ma tu che cos´è che vuoi dalla vita? Mi guarda. «Cavarmela. Tu cosa sai fare con le tue mani?» Sorride, si congeda dal luogo neutro dove mi ha concesso cinque minuti.
Titoli fiammeggianti, immagini di un´Europa "che brucia" - Atene, Londra e forse fra poco Berlino, la val Susa - ipotesi di cospirazione, sortite come quella del capo della polizia Manganelli: «Gli anarchici sono pronti a uccidere». Le agenzie di formazione dell´immaginario ritrovano toni antichi e l´uso della parola «terrore» si ritrae dal demanio inflazionato dell´islamofobia per tornare a connotare quello che molti considerano il suo territorio naturale: la regione - sfuggente ma saldamente presente nel repertorio degli allarmisti - dell´anarchia. Del resto quando il ministro degli Interni inglese Blunkett, dopo il 2001 spiegava la «Guerra al terrore», citava come precedente gli attentati di fine ´800 e - come ricorda lo storico Alex Butterworth - a proposito di Al Qaeda si parlò di «islamo-anarchismo» sottolineneando le letture bakuniniane dello sceicco Al Zawahiri. La minaccia sovversiva, dopo le grandi ideologie novecentesche e i fondamentalismi religiosi, sembra tornare alle origini, un cerchio che si chiude. I danni alle reti del tav, le scritte sui muri, i disordini nelle piazze europee come prodromi di una nuova «onda di terrore anarchica», i black bloc come evoluzione di una cultura bicentenaria. Sarà vero? «Rispetto alla tradizione anarchica - spiega Mauro De Cortes, libraio dell´"Utopia" di Milano e militante del Ponte della Ghisolfa, il circolo di Pinelli e Valpreda - una discontinuità sta nella logica di avanguardia. Fra noi non c´è spazio per l´assalto al Palazzo d´Inverno. L´anarchia non è mai stata un movimento nel senso strutturato del marxismo, ma sempre un punto di incontro fra individualità differenti. E il nodo è il primato della responsabilità personale. Che non esclude scontro, anche duro ma sempre finalizzato a forgiare l´immaginario, a far pensare, a unire menti critiche». Oggi molte azioni di piazza tolgono consenso anziché crearlo, ma non era così anche per i regicidi ottocenteschi? «Direi di no. In chi attentava alla vita di un tiranno c´era la volontà di isolare un elemento simbolico e porlo alla riflessione universale. L´orizzonte dell´oppressione allora era militare e non, come oggi, economico. L´anarchico che sparava al re assomigliava più al no global che oggi boicotta la Cocacola che a un terrorista contemporaneo». Mentre mi parla il suo cellulare squilla di continuo: «Scusa, è che stiamo cercando di sistemare un vecchio compagno non autosufficiente che è rimasto solo». Sogghigna: «Puoi batterti per i diritti, ma il compito quotidiano è rattoppare quello che una volta si chiamava "stato sociale"». Welfare in diretta, cioè responsabilità personale, cooperazione, solidarietà: niente di più anarchico. «Mentre non c´è niente di meno anarchico che bruciare una biblioteca, come è avvenuto ad Atene», nota De Cortes. È vero che l´anarchia trova uno dei suoi principali nuclei concettuali e ideologici nel campo della pedagogia, nel pensiero e nell´azione educativa di personaggi come Colin Ward, Marcello Bernardi, Bertrand Russell, Ivan Illich. Ed è del resto fra i nomi che affollano il catalogo di una biblioteca che l´Idea ha vissuto la sua parabola: fra gente come Coleridge, Tolstoj, Wilde, Orwell, Camus, Pissarro, Breton, Vigo, Bunuel, fino a Marc Augé, Paul Feyerabend, Henri Laborit, per fare solo qualche nome. Eppure dopo la stagione anarcosindacalista e la guerra di Spagna non sembra più aver dato vita a movimenti di massa: «Probabilmente - dice De Cortes - perché schiacciata dalla concretezza simbolica dell´Urss. Ma correnti libertarie sono sempre riaffiorate come nella Carrara del dopoguerra. E forse se Adriano Olivetti fosse vissuto più a lungo...». Ma ha senso chiamare «anarchiche» le piazze di oggi, che cosa hanno in comune Syntagma e Zuccotti Park? «Sono piazze diverse: in Germania e in Grecia domina qualcosa di simile alla nostra Autonomia Operaia che ha adottato le bandiere rossonere per simboleggiare l´unità delle componenti marxiste e anarchiche nella lotta al regime dei colonnelli e al nazismo. In Spagna i militanti della Cnt (il sindacato anarchico) si mescolano agli Indignados, mentre in Inghilterra una ridotta presenza legata a figure come Russell, Ward, Illich, resa radicale dall´opposizione alla Thatcher, è cosa diversa dagli incendi dell´estate 2011 nati con la chiusura dei centri sociali: lì i saccheggiatori non erano anarchici, ma ex utenti del welfare, anche figli della buona borghesia».
Stefano Laffi, sociologo che ha studiato la composizione dei movimenti antagonisti mi parla della galassia italiana delle case occupate: «Fra i più giovani non c´è formazione ideologica, non esiste un decalogo condiviso su che cosa voglia dire essere anarchici. Non c´è un Indignatevi! (il manifesto di Stephan Hessel, ndr) dell´anarchia». Ma forse qualcuno di quei ragazzi si è letto scaricandolo dalla rete L´insurrection qui vient, il pamphlet uscito per la prima volta in Francia nel 2007 e firmato da un fantomatico "Comitato invisibile" - invisibile proprio come le facce che nelle manifestazioni di Madrid o New York si celano dietro il sorriso di Anonymous. «Il legame sta comunque nell´insoddisfazione per le condizioni materiali di esistenza e nella consapevolezza che il sistema di opportunità proposto è una fregatura: non c´è lavoro, molti vivono per strada, non hanno accesso a un sistema di diritti di cittadinanza». Niente in comune con i benestanti del ´68 insofferenti del modello borghese, ma qual è il tratto «anarchico» di queste vite? «L´etica dell´autonomia responsabile. Il voler essere artefici della propria esistenza. È gente che ha rifiutato la dipendenza dal lavoro, ha accettato la mobilità nell´abitare, ha scelto tratti di marginalità, ma che sa come campare, che cosa fare durante il giorno, che cosa volere. Che cosa vogliono? Differenziarsi da chi, come noi, non è abituato a ragionare in termini di autosufficienza. Aspettano il peggio e sono attrezzati a sopravvivere, più di qualunque cittadino delle metropoli postmoderne». Ognuno per sé? «No, in una forma di comunità autosufficiente itinerante, abituata a scambiarsi saperi e mestieri, e a dividere momenti di festa. In qualche modo la cultura del rave li rappresenta: è l´opposto di un immaginario verticale di spettacolo. Non c´è star, non c´è staff, ci sono regole solidali: non si fa commercio, si aiuta chi sta male, non c´è spazio per molestie sessuali». È davvero così? «È così che nasce, almeno. Poi le cose cambiano: troppe sostanze, troppa indifferenza. Cresce la dimensione commerciale. Internet ha corrotto i meccanismi di riconoscimento della comunità: ora arriva chiunque possa accedere alle informazioni in rete». I «limitrofi», anche qui. Anarchici, raver, ultras, indignati: si assomigliano questi popoli? «Hanno questo in comune: sei incazzato con il mondo e sempre più ti accorgi che hai ragione di esserlo. Ogni giorno rinnova il repertorio di elementi oggettivi che dimostrano che la vita che ti è offerta non ha speranze né prospettive».
Nessun complotto globale, quindi, e l´analogia con il passato è forse solo nella percezione ostile: già un secolo fa il controllo, lo schiacciamento e la demonizzazione della «setta scellerata» creò - anziché chiudere - lo spazio per l´azione violenta di quelli che Uckmar chiama «limitrofi», e stese un velo di piombo su una cultura che con cent´anni di anticipo si batteva per alcuni capisaldi della società aperta, come scrive Butterworth: «Emancipazione femminile, sostegno statale per la cura e l´educazione, previdenza, localismo, sostenibilità, federalismo». A proposito, De Cortes ha trovato la casa che cercava per il compagno infermo.

Repubblica 26.2.12
Il Dna della morale
Tra i concetti chiave c’è quello di "nurture" che sta per "allevare" e viene usato da pragmatisti e comportamentisti contro le ipotesi dell’innatismo
Secondo gli psicologi dell’evoluzione, la cultura sarebbe un adattamento. Esiste perché forniva un vantaggio ai nostri antenati del Pleistocene
Il confine tra "natura" e "cultura" è stato spostato dalle scoperte della genetica. Che hanno rivoluzionato il dibattito soprattutto per quel che riguarda i temi etici
di Roger Scruton


Gli esseri umani sono differenti tra loro e vivono in modi differenti. Dovremmo accettare che siamo diversi per natura perché abbiamo seguito tanti percorsi dell´evoluzione? O dovremmo supporre che condividiamo con gli altri l´eredità biologica, ma che lo sviluppo si diversifica per l´ambiente e la cultura? Negli ultimi anni, la ricerca scientifica ha rivisitato il noto dibattito "natura-cultura", che resta un elemento centrale della nostra comprensione della natura umana e dell´etica. Per buona parte del XX secolo, gli studiosi delle scienze sociali hanno sostenuto che la vita umana è un fenomeno biologico a sé stante che procede lungo i canali tracciati della cultura, acquisendo in questo modo forme distinte e spesso reciprocamente inaccessibili. Ogni società tramanda la cultura che la definisce, analogamente a come trasmette la propria lingua. I più importanti aspetti della cultura - la religione, i riti di passaggio e le leggi - hanno sia la funzione di unificare le persone che vi aderiscono sia quella di dividere costoro da tutti gli altri.
Recentemente, gli psicologi dell´evoluzione hanno iniziato a mettere in discussione questo approccio. Anche se la cultura di una tribù può essere considerata un patrimonio ereditato - argomentano - resta da spiegare come questa nasce. Che cos´è che fornisce alla cultura la sua stabilità e la sua funzione? Nel tentativo di rispondere alla domanda si è cominciato a rafforzare il punto di vista secondo cui la cultura non fornisce la spiegazione definitiva di alcuna caratteristica umana importante e nemmeno quella della diversità culturale. E non si tratta semplicemente delle costanti straordinarie che si riscontrano nelle diverse culture - i ruoli di genere, il tabù dell´incesto, le celebrazioni, la conduzione di guerre, le religioni, gli scrupoli morali o gli interessi estetici - ma del fatto che la cultura è anche parte della natura umana: è il nostro modo di essere. Le nostre gerarchie prevedono incarichi, responsabilità, lo scambio di doni e il riconoscimento cerimoniale. Tutti questi elementi sono compresi nel concetto di cultura, che così intesa è osservabile in tutte le comunità di esseri umani e solo in queste. Perché?
La spiegazione degli psicologi dell´evoluzione è che la cultura è un adattamento. Esiste perché forniva un vantaggio nella riproduzione ai nostri antenati cacciatori-raccoglitori. Secondo questo punto di vista, molte delle abitudini che il modello standard delle scienze sociali imputa alla cultura sarebbero variazioni locali di attributi acquisiti settanta o più millenni fa, nel Pleistocene, e che sono ormai profondamente "cesellati nel cervello" come altri adattamenti dell´evoluzione. In tal caso, le caratteristiche culturali potrebbero non essere tanto plastiche quanto sostengono gli studiosi delle scienze sociali.
Ci sono delle caratteristiche della condizione umana, come i ruoli di genere, che le persone ritengono essere di ordine culturale e pertanto modificabili. Se però si considera la cultura un aspetto della natura, allora non equivale più a qualcosa di "modificabile". Queste caratteristiche controverse della cultura potrebbero essere parte del patrimonio genetico del genere umano. La teoria evoluzionistica della moralità ha rafforzato questo nuovo pensiero. I fautori della cultura considerano l´etica una caratteristica acquisita, trasmessa dagli usi, dalle leggi e dalle punizioni con le quali una società riafferma i propri diritti nei confronti dei suoi membri. Lo sviluppo della genetica, però, apre nuove prospettive.
L´"altruismo" comincia ad apparire come una "strategia" genetica, che conferisce un vantaggio per la riproduzioni ai geni che lo praticano. In questo caso, si sostiene, il comportamento morale non sarebbe una caratteristica acquisita, ma ereditata. Le specie concorrenti che non sono riuscite a sviluppare sentimenti a questo punto sarebbero sparite. E ciò che vale per l´etica potrebbe valere anche per altre caratteristiche umane attribuite finora alla cultura: il linguaggio, l´arte, la musica, la religione, la belligeranza, tutte caratteristiche le cui varianti locali sono molto meno significative della loro struttura comune.
Nel suo saggio Tabula rasa, Steven Pinker riunisce le prove che lo portano a concludere che le nostre capacità fondamentali siano un risultato dell´evoluzione e quindi modificabili solo negli aspetti in cui la malleabilità conferisce un vantaggio nella riproduzione. Questo argomento è stato sviluppato meticolosamente ed è impossibile negare la consistenza delle prove scientifiche portate a sostegno. Si consideri, per esempio, la divisione dei ruoli osservabile dovunque tra uomini e donne. Le ragioni per concludere che si tratti del frutto di una selezione avvenuta nelle condizioni che minacciavano i nostri antenati di estinzione sono potenti. Tanto più se si considera l´evidente neotenia degli esseri umani, ossia la caratteristica di generare una prole dotata di un cervello grande, ma che non è in grado di prendersi cura di sé prima dei dieci anni (oggi nemmeno a questa età). La neotenia costituisce un enorme vantaggio nell´evoluzione, ma ha un costo biologico alto. Le specie i cui figli sono vulnerabili come la prole del genere umano hanno bisogno per potersi riprodurre di contare su una difesa organizzata e su una avanzata capacità di costruire rifugi. Su queste fondamenta è stato costruito il castello romantico della differenza sessuale.
I progressi delle neuroscienze cominciano a suggerire che, se da una parte il cervello è malleabile e adattabile, dall´altra esso presenta limiti e connessioni impressi senza la nostra consapevolezza. Di conseguenza alcuni meccanismi possono condizionare il nostro processo decisionale senza che noi riusciamo a contrastarli. Charles Whitman, che nel 1966 uccise 13 persone e ne ferì altre 32 sparando dall´alto della torre dell´Università ad Austin, Texas, ma che fino a quel momento era stato una persona dal carattere mite, spiegò di aver sentito che qualcosa non andava nella sua testa. Fu ucciso da un tiratore scelto della polizia e la sua autopsia rivelò un piccolo tumore che premeva sull´amigdala, una zona del cervello che le neuroscienze considerano la sede delle reazioni viscerali grazie alle quali proteggiamo il nostro spazio.
Si poteva quindi accusare Whitman per quello che aveva fatto? Partendo dal caso Whitman, David Eagleman (neuroscienziato americano della Rice University, ndr) sostiene che dovremmo rivedere la nostra concezione della responsabilità legale e morale, per arrivare ad accettare che la maggior parte di ciò che facciamo e sentiamo poggia su processi che non possiamo controllare. Il cervello si muove in incognito dietro le nostre decisioni consapevoli così come, passeggiando sulla coperta di un grande transatlantico, abbiamo la sensazione di spostarla con i nostri passi. Eagleman sostiene che la maggior parte delle cose che facciamo è più influenzata da processi inconsci che consci e che concetti quali responsabilità e libertà non sopravviveranno intatti ai progressi delle neuroscienze. Che sia stata la natura o la cultura a conformare il nostro cervello, questa conformazione non è per la maggior parte opera nostra e non è niente che vada a nostro merito o demerito.
Credo però che Eagleman non abbia descritto il problema correttamente. L´idea che lui propone di un "io" fragile che cavalca l´elefante della materia grigia pretendendo di averlo sotto controllo, non rappresenta in maniera giusta la natura dell´atto autoreferenziale. La parola "io" non si riferisce a una qualche "parte" conscia della persona, il resto della quale è un "esso" passivo e nascosto. L´"io" è uno dei termini della relazione io-tu, che è a sua volta un rapporto di responsabilità nel quale l´intera persona è coinvolta. L´uso del pronome corrispondente alla prima persona serve a sottoporre me stesso al giudizio dell´altro; serve ad assumersi la responsabilità per un gran numero di cambiamenti che avvengono nel mondo e in particolare per quelli di cui l´altro ragionevolmente mi può chiedere conto chiedendomi semplicemente "perché?". Questa domanda costituisce le fondamenta di una impresa cooperativa nella quale noi deriviamo dagli altri le ragioni, i significati e le scelte che ci rendono intelligibili.
Siamo certamente degli esseri umani, ma siamo anche persone. Gli esseri umani costituiscono un genere biologico e sta alla scienza descriverlo. Probabilmente lo farà così come suggerito dai biologi dell´evoluzione. Le persone invece non costituiscono un genere biologico né un qualsiasi altro genere naturale. Il concetto di persona prende forma in un altro modo. Il "perché?" che mira a comprendere la persona non è il "perché?" della deduzione scientifica. E la risposta prevede una concettualizzazione del mondo dal punto di vista della libertà e della scelta. Le persone fanno quello che fanno secondo quello che succede nel loro cervello. Tuttavia, quando il cervello è normale, il loro agire risponde anche ad altre ragioni, delle quali sono consapevoli e responsabili.
Possiamo educare i bambini con intrattenimenti che assopiscano il loro rapporto con il mondo reale e riconformare le reti neuronali dalle quali dipende il loro sviluppo morale. La ricerca della gratificazione immediata può togliere lo spazio al senso di agire responsabile che ha un respiro a lungo termine. Se i bambini imparano a salvare la loro memoria nei computer e la loro vita sociale in gadget portatili, allora gradualmente la memoria e l´amicizia appassiranno per ricomparire solo fugacemente come fantasmi degli archivi digitali. Se, al contrario, si permette ai bambini di interagire con figure reali, la grammatica della responsabilità della prima persona emergerà seguendo un proprio ritmo.
Descrivere le caratteristiche degli esseri umani come adattamenti non vuol dire affermare che le comprendiamo. Di conseguenza anche se accettiamo gli argomenti della psicologia dell´evoluzione, il mistero della condizione umana rimane. Questo mistero è contenuto in una singola domanda: come si può spiegare in quanto animale e comprendere in quanto persona la stessa identica cosa?
© 2012, Salon Syndicate (Traduzione di Guiomar Parada)