mercoledì 29 febbraio 2012

il Fatto 29.2.12
L’Unità, ancora censura alla Magneti Marelli


Il caso dell’Unità, “cacciata” dalla Fiat dalla bacheca aziendale della Magneti Marelli si allarga e provoca uno scontro sindacale. Dopo la grave decisione dell’azienda di impedire l’affissione del giornale nello spazio utilizzato dai delegati Fiom – privati della loro agibilità sindacale dal recente contratto del gruppo – il giornale fondato da Antonio Gramsci doveva comparire su un’altra bacheca come aveva promesso il segretario della Cisl bolognese Alessandro Alberani. Per la Fiom si è trattato di “una promessa non mantenuta” ma la Fim-Cisl ha subito replicato specificando che l’Unità è esposta “nella bacheca, purtroppo piccola, della Fim-Cisl”. La polemica è certamente destinata a rinfocolarsi. La vicenda aveva visto anche una brutale dichiarazione di Alberto Bombassei il candidato che corre per la presidenza di Confindustria con il sostegno Fiat: “Anch’io sbullonerei volentieri l’Unità” ha detto nel corso della trasmissione In Onda su La7. Intanto il giornale legato al Pd ha deciso di scrivere direttamente ai vertici della Magneti Marelli e del Gruppo Fiat per chiedere che l’Unità “sia rimessa al suo posto, nelle bacheche da cui è stata rimossa dopo cinquant’anni”.

l’Unità 29.2.12
Immigrati e residenti
La xenofobia è figlia di percezioni sbagliate
di Giuseppe A. Veltri


La società italiana deve ancora trovare un modo stabile per accettare il fenomeno dell’immigrazione che ha coinvolto il nostro paese su una scala in precedenza ignota. Esistono migliaia di comunità di nuovi italiani che vivono pacificamente e che hanno trovato un equilibrio con le comunità locali, ma tanto rimane da fare.
Una chiara informazione da parte di media e autorità politiche aiuterebbe tanto la situazione generale, come viene mostrato da uno studio di Zan Strabac recentemente pubblicato su «European Societies». In sintesi, lo studio paragona la grandezza percepita dai cittadini di vari paesi europei delle popolazioni di immigrati e la loro effettiva grandezza. In aggiunta, la ricerca si sofferma sull’impatto che ha questa differenza sulla formazione di atteggiamenti ostili e xenofobi verso gli immigrati.
In otto Paesi europei su diciassette, i cittadini ritengono la grandezza delle popolazioni di immigrati più di due volte maggiore della loro reale grandezza. I paesi in cui si registra la maggior discrepanza tra grandezza percepita e quella reale sono Italia, Portogallo e Spagna. In particolare, i cittadini italiani valutano la grandezza della popolazione di immigrati ben tre volte e mezzo di quella che sia realmente. Secondo i dati Ocse, la popolazione di cittadini nati non sul suolo italiano sono 3,93 milioni. Secondo i cittadini italiani, valutando la percentuale di immigrati che credono vivere nelle loro comunità si arriva all’incredibile numero di 17,65 milioni.
Secondo il curatore della ricerca, c’è del metodo nel modo in cui queste comunità sono sovrastimate numericamente, in modo piuttosto proporzionale rispetto alle popolazioni reali con dei paesi, però, in cui la percezione errata è particolarmente ampia. Tra questi, vi è l’Italia. Il dato è particolarmente preoccupante perché il medesimo studio indica come questa discrepanza tra la percezione e la realtà abbia un impatto sull’adozione di atteggiamenti di natura xenofoba.
Ci sono due considerazioni principali che si possono fare. La prima è che questo fenomeno riguarda tutti i cittadini europei e indica come il nostro senso comune cada facilmente in errore quando si tratta di valutare grandezze in popolazioni. La salienza quotidiana e mediatica di un evento o di una tipologia di persone può indurre a fare dei ragionamenti sbagliati sulla loro reale presenza.
In aggiunta, le forze politiche che alimentano questa manipolazione della realtà si assumono una grandissima responsabilità perché alimentano direttamente i fenomeni di intolleranza.

Corriere della Sera 29.2.12
Respingimento dei migranti, complicità italo-libiche
risponde Sergio Romano


L'Italia è stata condannata dalla Corte europea per avere respinto nel 2009 una barca con una ventina di migranti immigrati e costretta a rientrare in Libia. Nel 2009 l'Italia aveva un regolare e ottimo contratto con la Libia di Gheddafi per evitare le abituali ondate di immigrazione provenienti da quel Paese. L'intervento della Corte sta quindi a significare il seguente concetto: non mi interessano gli accordi che tu hai preso con altri Paesi e non puoi rimandare indietro delle persone non identificate. Ma questo è scritto da qualche parte? E se sta scritto, chi l'ha fatto da parte italiana? Che possibilità ha un Paese di difendersi legittimamente dai danni arrecati da una immigrazione incontrollata?
I potenziali immigrati dovrebbero ricevere (speriamo di no) quindicimila euro a testa per il presunto danno; chi potremo respingere in futuro senza essere condannati a pagare? Ci può dire se ci sono dei regolamenti europei a cui i Paesi si devono attenere almeno come principi di base e se non ci sono, come io credo, che non si paghi un euro checché ne dica la Corte!
Fabrizio Logli

Caro Logli,
La Corte europea dei diritti dell'uomo fu istituita nel 1959 sulla base della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta fondamentali che i membri del Consiglio d'Europa avevano firmato a Roma nel 1950. La convenzione, quindi, è il codice a cui la Corte deve ispirare le sue decisioni. Da allora quel codice è stato ampliato con altre convenzioni umanitarie e con norme internazionali come quella che proibisce il respingimento collettivo dei migranti. Se si fosse attenuto a questo codice, il governo italiano avrebbe dovuto anzitutto accertare la posizione di ogni singola persona (rifugiato politico? migrante in cerca di lavoro?) e soltanto in un momento successivo deciderne eventualmente l'espulsione. Nel caso degli undici eritrei e somali che hanno fatto ricorso alla Corte, questo non è stato possibile. I migranti sono stati intercettati in alto mare da una nave della marina militare italiana (che non era evidentemente attrezzata per questo tipo d'indagine) e immediatamente riportati in Libia dove sono stati esposti a un trattamento spiccio e brutale che viene oggi definito, forse troppo genericamente, tortura. Di questo trattamento l'Italia, alla Corte di Strasburgo, è stata considerata oggettivamente complice. La sentenza mette il nostro Paese in cattiva luce, ma la pena inflitta è modesta: 15.000 euro a ogni migrante per il risarcimento dei danni morali e 1575, 74 euro per le spese legali. Lei sembra credere, caro Logli, che il trattato italo-libico, firmato a Bengasi nel 2009, sia più importante della Convenzione firmata a Roma nel 1950. Ma l'Italia ha ratificato la convenzione e ha riconosciuto la giurisdizione della Corte.
Forse le cose sarebbero andate diversamente se con l'accordo di Bengasi il governo italiano avesse ottenuto dal governo libico maggiori garanzie internazionali. Siamo particolarmente esposti al fenomeno dell'immigrazione clandestina e dobbiamo tentare di arginare gli arrivi. Ma anche chi si rendeva conto nel 2009 delle esigenze del governo sapeva che i campi libici erano squallide prigioni, che i migranti sarebbero stati maltrattati e che ne sarebbero usciti, nel migliore dei casi, comprando la fuga. Temo che la Corte, quando sostiene la complicità dell'Italia, non abbia torto.

l’Unità 29.2.12
Più parole che fatti: così il garantismo si è indebolito a sinistra
Dagli immigrati al caso Del Turco all’emergenza carceri: troppo spesso negli ultimi anni i principi dello Stato di diritto sono stati ignorati proprio da chi sosteneva di volerli difendere. Una “distrazione” pericolosa
di Luigi Manconi Federico Resta


Il paradosso. I principi garantisti sono molto evocati ma poco applicati
La politica della paura. Molti diritti sono stati “dimenticati” con la scusa dell’emergenza
Cultura garantista. La decarcerizzazione deve diventare una battaglia del Pd

Il discorso sul garantismo ci pone di fronte a un paradosso. Per illustrarlo nella maniera più nitida, è opportuno partire da una dichiarazione d’intenti: indicare i criteri fondanti di una concezione garantista del sistema penale. Una sorta di “Bignami” o forse un «Manuale del perfetto garantista». Dunque: intendiamo per garantismo il rispetto da parte del legislatore, della magistratura, dell’amministrazione dei principi costituzionali fondativi del sistema penale. Ovvero quello del minimo sacrificio necessario della libertà personale, della presunzione di non colpevolezza, della offensività, materialità, tassatività delle fattispecie. E il diritto di difesa, la struttura accusatoria del processo, il fine risocializzante della pena. Ciò comporta, in sintesi, il rifiuto di ogni forma di diritto penale (sostanziale, processuale, penitenziario) che sia “speciale”, derogatorio cioè dei principi generali e delle garanzie individuali, connotato da logiche di diritto d’autore o di colpa per la condotta di vita. In breve: il diritto penale deve essere la Magna Charta del reo.
Dov’è il paradosso cui accennavamo? Consiste nel fatto che tutti coloro che hanno come riferimento lo Stato di diritto dicono di riconoscersi pienamente nei principi garantisti appena elencati. Ma perché allora, nella pratica politica quotidiana, ci si discosta da essi con tanta frequenza e con altrettanta facilità o, addirittura nonchalance?
Le ragioni sono tante e qui le elenchiamo solo per titoli.
La persistenza della politica dell’emergenza, quale tratto distintivo dello stile nazionale di governo: da 40 anni il nostro Paese vive una sequenza incalzante e micidiale di stati di eccezione. Dal terrorismo nero a quello rosso, dal colera di Napoli all’Aids, dal terremoto in Irpinia a quello dell’Aquila, dal tifo organizzato agli sbarchi a Lampedusa. Ciascuna di queste emergenze, vissute come tali dalla gran parte della classe politica e del sistema mediatico, sembra pretendere normative speciali e quasi sempre le ottiene.
Un’altra ragione del profondo divario tra principi affermati e pratica politica è quella che possiamo definire dello pseudo-Machiavelli: una lettura stracciona di quella concezione drammatica sottesa alla formula: il fine giustifica i mezzi. La sconfitta di Berlusconi, insomma, vale l’indifferenza verso alcune garanzie, anche se il rinunciarvi rischia di compromettere l’intero sistema; e anche se, soprattutto, in questo conflitto anomalo e diseguale è stata la destra a infliggere le lesioni più traumatiche all’ordinamento.
La terza ragione è quella discendente dal mito della pubblica opinione: l’ideologia securitaria risulta così dominante nel senso comune della classe politica da indurci a ritenere, se non doveroso, certamente inevitabile assecondarla. Fino a correre il rischio di riconoscerci in essa. Le ansie collettive ci appaiono così connotate socialmente (riconducibili cioè agli strati più deboli), da indurre un partito che si vuole e deve essere popolare a subordinarsi a esse, rinunciando a razionalizzarle, mediarle, orientarle. Quelle stesse ansie, oltretutto, risultano così elettoralmente remunerative per i nostri avversari da spingerci a investire in esse per ricavarne una qualche quota parte sul piano dei consensi.
Tutto ciò ha un effetto profondo. In realtà, la nostra timidezza garantista non si deve, in primo luogo, a un calcolo o troppo meschino o troppo razionale, bensì a una crescente convinzione. A tal punto, tutti noi proprio tutti noi avvertiamo il fascino insidioso del “governo della paura” da lasciarcene conquistare, almeno in qualche misura. Ecco un esempio particolarmente preoccupante.
Se pensiamo che la politica migratoria debba essere prudente e timorosa fino all’avarizia e all’opportunismo conservatore, non è solo perché e nemmeno principalmente perché temiamo che altrimenti non venga capita, ma perché, piuttosto, siamo profondamente convinti che la politica migratoria debba essere proprio così: prudente e timorosa e, di conseguenza, restrittiva e selettiva. Un altro esempio: non abbiamo condotto una battaglia intransigente sulle condizioni delle carceri e degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari, non perché temevamo di perdere consensi moderati, bensì perché siamo profondamente convinti che i diritti dei detenuti e degli internati, come già quelli dei migranti, non siano prioritari. O peggio: siano secondari e politicamente e gerarchicamente subordinati a quelli dei cittadini italiani onesti.
Non stiamo dicendo che questa sia l’opinione condivisa. Ci limitiamo a segnalare che questa rischia di essere l’opinione condivisa. È esattamente questo il paradosso di cui dicevamo. Un omaggio ai principi che non si traduce in atti conseguenti e che ci porta non solo a gravi cedimenti politici ma anche a una certa fiacchezza morale.
È accaduto così che non siamo stati in grado di batterci come dovevamo contro la politica dei respingimenti, né di contrastare la tendenza verso uno Stato penale massimo e di denunciare la tragedia delle carceri, ma nemmeno siamo stati in grado e non sembri estraneo a quanto finora detto esigere il pieno rispetto delle garanzie processuali per Ottaviano Del Turco.
Alle cause prima dette ne va aggiunta una congiunturale che ha avuto probabilmente un peso preponderante nell’ultima fase: ovvero la politica penale del governo Berlusconi. A proposito di quest’ultima, ci limitiamo a citare i titoli di alcune misure, soffermandoci su una sola. Ovvero l’estensione (operata dal decreto legge 11/09) della custodia cautelare obbligatoria a una categoria di reati estremamente ampia e comprensiva finanche di reati monosoggettivi.
Reati gravissimi, sia chiaro, ma certamente privi (almeno nella maggioranza dei casi) di quel collegamento con un’organizzazione criminale e di quella forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo, che è la prima e principale ragione dell’obbligatorietà della custodia cautelare e in base alla quale, soltanto, sia la Consulta che la Corte europea dei diritti umani (sentenza Pantano del 2003) hanno ammesso la legittimità di tale automatismo. E anche l’argomento a favore di quest’ultima previsione è discutibile. Non è in gioco infatti il rigore nel contrasto al crimine organizzato, ma il diritto dell’imputato come tale presunto innocente non pericoloso, a non subire limitazioni della propria libertà non necessarie rispetto alle esigenze cautelari.
E ora, solo per titoli: la custodia cautelare “speciale” per i reati da stadio (decreto legge 178/2010); l’esclusione dal gratuito patrocinio per i condannati per reati associativi (decreto legge 92/08); aggravante e reato di clandestinità (decreto legge 92/08 e legge 94/09), 4 bis (decreto legge 11/09) e 41 bis (legge 94/09).
Molte di queste norme sono state peraltro dichiarate incostituzionali, a dimostrazione di come il garantismo sia, oltre che un valore fondante, un principio cui il legislatore deve necessariamente attenersi: un dovere cogente, insomma, prima ancora che una scelta da rivendicare.
Certo, oltre alle norme citate, fanno parte della politica penale del governo Berlusconi anche norme quali la legge ex-Cirielli, che ha reso possibile la prescrizione del reato di corruzione in atti giudiziari nel processo Mills. Ma la prescrizione per l’ex premier è solo una delle circa 500 che sono dichiarate ogni giorno. Quindi, o affrontiamo il problema di questa particolarissima “prescrizione silente” riconducendolo all’interno del tema della crisi della giustizia penale,  oppure finiamo per restarne vittime. E in questa prospettiva, l’ipotesi dell’amnistia non appare affatto una scandalosa bizzarria, ma una serissima misura estrema, per una situazione altrettanto estrema.
Ora sembra manifestarsi, sia pure timidamente, quella che potrebbe risultare come una fase nuova. Ancora, in estrema sintesi, sono tre le ragioni per accreditarla. Prima ragione: un clima politico-istituzionale meno febbricitante che consente di guardare al merito dei problemi, rinunciando una volta per tutte a quello che abbiamo chiamato lo “pseudo-Machiavelli”.
Secondo: la cultura giuridica dell’attuale governo e, in particolare, del ministro della Giustizia.
Terzo: i provvedimenti approvati o che il governo si è impegnato ad approvare. In particolare, vi è la concreta possibilità di ottenere ciò che da tempo si propone ma che non si è mai riusciti ad approvare. Ci riferiamo, in primo luogo, a una politica che va nel senso della decarcerizzazione, ovvero all’estensione dell’ambito di applicazione delle misure alternative alla detenzione (e in particolare la detenzione domiciliare), delle misure cautelari non carcerarie e all’introduzione nel codice della “reclusione domiciliare”, quale sanzione principale da irrogarsi, dunque, dallo stesso giudice di cognizione. Inoltre, vi è la concreta possibilità di andare verso quanto da vent’anni tutte le Commissioni ministeriali per la riforma del codice penale hanno proposto, ovvero la depenalizzazione dei reati minori.
È una grande occasione e una positiva opportunità per il Pd. Quelle politiche di decarcerizzazione e di depenalizzazione, possiamo subirle, possiamo accettarle con riluttanza per lealtà verso l’esecutivo oppure possiamo, finalmente, riconoscerle come proprie della nostra cultura di partito garantista, e farcene, di conseguenza, i più convinti sostenitori. Ne guadagnerebbe la nostra politica e la nostra stessa identità.
Il testo è tratto dall’intervento tenuto ieri durante il seminario «Sul garantismo» organizzato dal Forum Giustizia del Partito democratico.

l’Unità 29.2.12
L’ex segretario Pd al leader di Sel: «Mi aspetto scuse personali»
Fabio Mussi: «Ma non abbiamo cominciato noi con le etichette»
Veltroni a Vendola: «Inaccettabile avermi definito di destra»
Dura polemica di Veltroni contro Vendola che lo aveva accusato di essere parte di una destra «colta e con il loden». «Inaccettabile questa violenza verbale». E da Sel replicano: «Siete voi che affibbiate etichette»
di Maria Zegarelli


L’ultima conferenza in solitaria la fece nel 2009, quando annunciò le sue dimissioni da segretario del Pd. Poi più niente, per una scelta precisa. Fino a ieri, quando Walter Veltroni ha deciso che bisognava rispondere all’ultimo colpo del «fuoco amico», sparato sulle pagine di «Oggi» da Nichi Vendola, che ha definito l’ex segretario Pd come parte di una destra «colta, col loden, non insensibile sul tema dei diritti civili, più europea, costituzionale».
Offeso, colpito e arrabbiato come poche altre volte lo si è visto, tanto da aver deciso di chiudere nel cassetto «lo schema andreottiano» del lasciar correre, Veltroni dice di non poter tacere perché questa vicenda «attiene a un’idea della politica che non condivido, che giudico grave, che mi preoccupa». Insopportabile «l’idea che qualcuno dia etichette, patenti e collochi un altro diversamente dalla storia di una vita» e «inaccettabile» quel vecchio «e pericoloso vizio che ritorna, quello di utilizzare la categoria di traditori e nemici nei confronti di chi ha opinioni differenti». Elenca i precedenti, Berlinguer, Lama, Trentin, Rosselli, Matteotti, bersagli della loro stessa gente ogni qual volta difendevano le loro «idee diverse, magari anticipatrici».
Solo, sul podio della sala stampa di Montecitorio, Veltroni è un fiume in piena. «È legittimo avere idee diverse, anche critiche, ma non si possono dare patenti»: è questo ad aver
fatto più male all’ex segretario, l’essere stato incasellato nell’altra metà del campo (e forse anche il silenzio del suo partito il giorno in cui è apparsa l’intervista del governatore pugliese) con tanta «violenza verbale». «La sinistra per me spiega è per definizione pluralità, rispetto del pensiero altrui, perché quando la sinistra si è fatta conservatrice e ideologica ha perduto». Un «arcipelago», non un’isola. E di sinistre ce ne sono due: una radicale e una riformista.
Forse, dietro quelle affermazioni di Vendola, non c’è soltanto una visione diversa dell’articolo 18, forse si tratta dell’«opinione diversa che abbiamo del governo Monti e un’idea diversa del centrosinistra. Ma io non mi permetterò mai di dire che chi nel ‘98 votò per far cadere il governo Prodi è di destra». Ora si aspetta «le scuse personali», spera «che sia un incidente» e non vuole credere che si tratti di altro, di «un’intenzione politica, una linea politica, perché se fosse così sarebbe una cosa da discutere seriamente». Insomma, sarebbe grave se Nichi pensasse che il Pd «perché quello che ho sempre detto è pienamente corrispondente alla posizione del Pd, e sull’articolo 18 ho detto esattamente quello che ha ripetuto più volte Bersani» possa essere catalogato parte di «una destra colta e con il loden» soltanto perché appoggia Monti.
Il primo attestato di solidarietà arriva da Massimo D’Alema, il nemico-amico di sempre: «Certamente Veltroni non è di destra...», mentre dal Nazareno è direttamente Maurizio Migliavacca a commentare: «Nel Pd ci può essere dialettica. Come dice Bersani, il Pd è un partito senza padroni e dove si discute liberamente. All’interno di questa dialettica si è espresso Veltroni con posizioni che in nessun caso possono essere equiparate a quelle della destra».
L’ETICHETTA
Rosy Bindi invita a non fare «caricature», perché «Veltroni ha ragione a ricordare a Vendola la sua storia di uomo di sinistra». In realtà, durante la segreteria di ieri mattina, gli stessi veltroniani avevano invitato il Pd a difendere se stesso e i suoi dirigenti dai continui attacchi dovuti all’appoggio al governo Monti e diventati «ormai davvero insostenibili».
E se per ora le scuse pubbliche di Vendola non arrivano, è Fabio Mussi a replicare: «Si, caro Walter, brutta cosa appiccicare etichette. Come quelle che nel 2008 portarono all’esclusione della sinistra “per definizione” solo e sempre “radicale”, e ad una drammatica sconfitta elettorale del centrosinistra». Poi, il consiglio «di far riposare Lama, Trentin e Berlinguer e gli altri esponenti storici della sinistra del nostro Paese. Chi, come te rivendica una vita a sinistra, dovrebbe pensare piuttosto al posto della sinistra nel futuro dell’Italia. A meno che, naturalmente, non si sia voluto parlare a nuora...». È Walter Verini a ricordare all’«amico» nonché ex «compagno di partito», «che l’etichetta, come la chiama lui, di “sinistra radicale” non è stata affibbiata da nessuno all’area di cui da qualche anno fa parte, ma si tratta di una autodefinizione». Di Bertinotti, che rivendicò «ruolo e spazio di una sinistra alternativa rispetto ad una sinistra riformista». La polemica di sicuro non finisce qui.

La Stampa 29.2.12
Centrosinistra, rissa senza fine
Oltre il Pd, scontro Veltroni-Vendola
Il leader di Sel: “Sei di destra”. La replica: la solita sinistra, dà del traditore a chi ha idee diverse
di Carlo Bertini


Ci sono due destre, una cialtrona e berlusconiana; una (di Veltroni), colta, col loden, Nichi Vendola lunedì su «Oggi»
La sinistra è la ragione della mia vita, Nichi si scusi altrimenti c’è un problema politico, Walter Veltroni ex leader del Pd
D’Alema, «Sicuramente Walter non è di destra» E dopo-Monti?«I partiti tesseranno il loro filo...»

ROMA Il volto di Walter Veltroni che si fa paonazzo quando accusa «il cinico» Vendola, chiedendogli di scusarsi per averlo definito «di destra» solo per aver speso parole di sostegno al governo Monti non deve trarre in inganno. Perché l’ex leader del Pd che convoca i cronisti in sala stampa alla Camera per fatto personale, svela un problema tutto politico: di una sinistra in testa nei sondaggi, ma divisa sul governo, sui messaggi da dare al Paese e su come presentarsi alle urne tra un anno. Una sinistra che fatica a trovare posizioni comuni su nodi cruciali come la riforma del welfare. E un segnale di tensione interna è anche il rinvio di ogni decisione della segreteria del Pd sulla partecipazione allo sciopero Fiom del 9 marzo.
Veltroni volutamente non allarga il campo delle polemiche, ma chi ammette esservi dietro il suo contrattacco al leader di Sel anche dell’altro sono i suoi uomini in Transatlantico: ricostruendo un humus di veleni e dichiarazioni al vetriolo come quelle di chi si augura la fuoriuscita di qualche «blairiano» del Pd o le battute sui licenziamenti per giusta causa che si meriterebbero quelli che appoggiano le politiche di questo governo. Insomma un quadro che trasmette l’immagine di un partito scosso dalla rivoluzione impressa alla politica dal nuovo esecutivo e dalla prospettiva di alleanza future sempre più incerte.
L’ex leader si dice «indignato» dall’accusa che dalle colonne di «Oggi», due giorni fa Nichi Vendola gli ha formulato a proposito della sua posizione sull’articolo 18 che «non deve essere un tabù». «Spero che Nichi abbia la bontà di dire che queste parole gli siano sfuggite, essendo cresciuti insieme, avendo fatto insieme qualche battaglia, sapendo lui come ho speso la mia vita politica. Ma se vi fosse dietro una linea politica sarebbe cosa da discutere seriamente. Perché se Vendola pensasse che la posizione del Pd, che sostiene il governo Monti, fosse una posizione di destra, col loden e colta, allora sarebbe un problema. E non vorrei che fosse la spia di qualcosa di più profondo che bisogna chiarire». Insomma in quei giudizi Veltroni riconosce «il difetto di una sinistra che indica come traditore e nemico chi ha un’idea diversa. Ma io non mi permetterei mai di definire di destra chi nel ‘98 fece cadere Prodi e li potrei citare uno ad uno».
«Caro Walter - gli risponde l’ex compagno di partito Fabio Mussi, oggi dirigente di Sel brutta cosa appiccicare etichette, come quella che ogni giorno mette d’autorità fuori dal campo del riformismo chiunque non canti nel coro della sterminata maggioranza economica, politica e mediatica che sostiene il governo in carica».
D’Alema, di cui sono note le antiche ruggini con l’ex leader del Pd, lo difende a modo suo; perché, dice, «certamente Veltroni non è di destra».
Ma l’ex premier, presentando un libro su Donat Cattin, risponde così alla domanda se l’esperienza del governo Monti possa proseguire dopo il 2013: «Alle elezioni si presenteranno i partiti e chi vincerà governerà il Paese. Certo ognuno tesserà il suo filo in questo tempo. I partiti hanno di fronte un doppio lavoro, sostenere il Governo e costruire una proposta. Ed è evidente che questo Governo alza la soglia, poiché ha tolto spazio ai populismi e alla demagogia. E chiunque si candidi a governare deve farlo in modo più elevato».

il Fatto 29.2.12
No, la destra no. Veltroni: Vendola mi chieda scusa
L’ex segretario Pd risponde all’accusa di “portare il loden”
di Wanda Marra


Inaccettabile” essere definito un esponente della “destra con il loden”. Perché “sinistra è la parola chiave della mia vita”. Per replicare a Nichi Vendola, Walter Veltroni convoca addirittura una conferenza stampa a Montecitorio. La prima da deputato semplice. E dunque, la prima da quando nel 2009 si dimise da segretario del Pd al Tempio di Adriano usando toni durissimi contro il suo partito: “Mi assumo le responsabilità mie e non. Basta farsi del male, per molti il problema sono io, mi dimetto per salvare il progetto al quale ho sempre creduto”. I toni, le espressioni, la rabbia contenuta ed esibita, ricordano quel Veltroni lì. Che reputa “un dovere” replicare alle affermazioni del leader di Sel. Il quale in un’intervista a Oggi gli attribuisce l’idea secondo la quale la contesa politica deve essere sostanzialmente tra due destre: “Una cialtrona, sguaiata, plebiscitaria e razzista, di Bossi e Berlusconi; una (la sua), colta, col loden, non insensibile sul tema dei diritti civili, più europea, costituzionale”.
UN INTERVENTO a gamba tesa quello di Vendola che va evidentemente a intervenire in un dibattito interno già molto nervoso e difficile, con una parte del Pd che guarda “a sinistra” e che ancora vede in Sel e nell’Idv un asse privilegiato, e un’altra che guarda a Monti come leader naturale. Vendola in tutti i modi ha ribadito nelle ultime settimane che non ha alcuna intenzione di mollare (o di farsi mollare) dal Pd. E dunque, il tentativo evidente è quello di spostare il baricentro, facendo leva su chi nel partito è sulle sue posizioni. Di certo non Veltroni. Il quale negli ultimi dieci giorni è sceso in campo in un crescendo (prima con l’intervista a Repubblica, in cui esortava il suo partito a non lasciare Monti alla destra, poi con un intervento dalla Annunziata). Sempre sulla scia del Professore, ma con l’evidente volontà di ritagliarsi una sua fetta di leadership. Sempre preso di mira dal leader di Sel. Ma anche da Stefano Fassina, responsabile Economia del suo stesso partito (“Sull’articolo 18 stai col Pdl”, gli aveva detto). E a questo punto prova a calare un asso, a inchiodare Vendola. E non solo lui. “Spero che sia un incidente”, dice, “spero che queste parole gli siano sfuggite”. Altrimenti c’è “un problema politico”. Perché Vendola “ha il diritto di dire la sua, ma ha il dovere di rispettare le posizioni politiche” di un partito con il quale sta lavorando per le amministrative e non solo. Il campione del “ma anche” questa volta rivendica “sinistra è la parola chiave della mia vita”. Ma – appunto – per l’occasione la definisce: “La sinistra per me è una categoria politica, culturale, civile, l’idea di un mondo che porta libertà, opportunità, diritti e si sforza di portare innovazione senza considerarla qualcosa di estraneo”. Visto che evidentemente si addice all’occasione, poi rispolvera una sua vecchia abitudine: quella di indicare il Pantheon di riferimento. Questa volta cita Berlinguer che “innovò ed infatti fu accusato di tradimento”, poi Lama, Trentin, Rosselli, Matteotti, Di Vittorio”. E avverte: “L’idea che qualcuno possa decidere di dare etichette, di attribuire patenti e collocare una persona diversamente da dove sta la storia di una vita è inaccettabile. È un vecchio e pericoloso vizio che ritorna”. Perché “c’è sempre qualcuno che ti spiega che bisogna essere più a sinistra di altri”. Non risparmia neanche le stoccate: “Io non mi permetterò mai di dire che era di destra chi, uno ad uno, votò nel '98 per far cadere Prodi. Combattei la scelta ma non ho mai dato patenti di traditori”. Vendola era uno di quelli. Infine l’articolo 18. Rivendica: “Ho detto meno di Bersani”. Da Veltroni non esce neanche una parola, neanche un’affermazione che esplicitamente tiri in ballo alleanze. Però, è evidente che con la sua mossa in qualche modo chiede al partito di schierarsi, di scegliere. E da Vendola vuole le scuse.
SCUSE che non arrivano. E neanche una parola di commento. Troppo impegnato, dicono nel suo staff, con i problemi di Taranto e dell’Ilva. E poi, tirato il sasso, preferisce guardare i Democratici contorcersi nelle loro difficoltà. Due ore e mezzo dopo, la replica di Fabio Mussi. Che butta ancora una volta la palla nel campo democratico: “Chi, come te rivendica una vita a sinistra, dovrebbe pensare piuttosto al posto della sinistra nel futuro dell’Italia. A meno che, naturalmente non si sia voluto parlare a nuora”. Ecco appunto. Se la parola “scissione” torna a circolare tra chi frequenta le stanze democratiche, ancora di più la lotta è quotidiana sull’egemonia e la direzione nel partito. Una lotta che combattono sul fronte opposto a Veltroni il responsabile economico, non solo Fassina, ma anche Matteo Or-fini e Andrea Orlando. I più vicini a Bersani. La segreteria in questo caso affida una secca nota al coordinatore, Maurizio Migliavacca: “Il Pd è un partito senza padroni e dove si discute liberamente. All’interno di questa dialettica si è espresso Veltroni con posizioni che in nessun caso possono essere equiparate a quelle della destra”. Nello staff di Bersani si augurano che si stia tutti un po’ più tranquilli. E a difendere l’avversario di sempre da un’accusa che conosce bene è anche D’Alema “Certamente Veltroni non è di destra”. Intanto Di Pietro, cadendo nel tranello di uno scherzo, a Rds risponde a un falso dicendo che a Bersani bisogna dare una mano. Peccato che Fioroni lapidario dica quello che pensano in molti: “La foto dell’alleanza di Vasto? È così vecchia che è scomparso pure il fotografo... ”. Però, non le manda a dire proprio a nessuno: “Prima ci dividevamo tra chi stava con Berlusconi e chi contro, ora non possiamo cominciare con chi sta con Monti e chi contro”.

il Fatto 29.2.12
L’intervista:  Matteo Orfini
“Walter? Un conservatore”
di Luca Telese


Quando chiedi a Matteo Orfini, giovane leone della segreteria di Pier Luigi Bersani, se nell’ultima polemica nominalistico-cartesiana che attraversa la sua coalizione intende collocarsi “a destra” o “a sinistra” di Walter Veltroni, la prima risposta è una battuta affilata: “Non so dire se Walter sia più a destra o piu a sinistra. Di sicuro è più conservatore di me”.
Orfini, che fa, sparge sale sulle ferite?
Ma perché? Direi che è un dato di fatto: in questi giorni Veltroni pensa davvero che riproporre idee e ricette vecchie di venti anni sia moderno, nuovo o di sinistra?
A quali proposte si riferisce?
È inutile girarci intorno: ad esempio all’articolo 18.
Ovvero al cuore della battaglia veltroniana...
Dice? Veramente io prendo atto con piacere che dalla Annunziata Veltroni ha già fatto una mezza marcia indietro rispetto all’intervista in cui diceva che era un totem da abbattere. Ne sono contento.
Veltroni direbbe che conservatore è lei che vuole mantenere l’articolo 18, riformatore è lui che lo vuole cambiare.
Ecco, l’equivoco è qui: se la Fiat discrimina gli operai che sono iscritti alla Fiom, se Marchionne sbullona le bacheche dell’Unità, se Marchionne si rifiuta di reintegrare i lavoratori che vincono la causa, se Bombassei dice che nella sua fabbrica per fortuna quel giornale non si legge, se l’azienda denuncia Formigli perché critica una macchina...
Se succede tutto questo?
Se succede, credo che un uomo di sinistra debba, come accade a me in queste ore, porsi delle domande e preoccuparsi.
Ad esempio?
Che quando in un clima come questo un lavoratore viene licenziato, a essere colpito è un suo diritto, non un totem.
Veltroni non lo fa?
Forse mi sono distratto, ma non ho sentito grida di allarme su questo. Vede, se tre operai vengono cacciati con un’accusa di sabotaggio che un tribunale reputa ingiusta, l’articolo 18 non è un concetto astratto, ma una garanzia per i loro diritti negati.
Quindi quelle critiche di Veltroni allo statuto dei lavoratori non le sono piaciute?
Non sono parole belle da usare.
E l’altro pilastro dell’intervista? L’idea che il Pd debba stringersi intorno a Monti per non lasciarlo alla destra?
Guardi, non mi convince nemmeno quel ragionamento.
Perché?
Il Pd ha preso una posizione responsabile e allo stesso tempo difficile: deve sostenere il governo, ma non deve appiattirsi sulle sue posizioni quando sbaglia. Dobbiamo essere quelli che difendono la gente che soffre.
Ad esempio?
La riforma delle pensioni nasce iniqua. Il nostro compito è correggerla.
Le diranno che difende i garantiti.
Difendo i giovani emigranti: un tempo chi partiva portava soldi a casa, adesso deve essere mantenuto da casa nella sua emigrazione. D’altra parte questi ministri sono rappresentanti di un ceto sociale diverso dalla media degli italiani...
Che c’è Orfini, anche lei fa battute pauperistiche sui redditi?
Più che una battuta mi pare un dato di fatto. Ha detto bene Bersani: Passera deve verificare se alla Fiat ci sono state discriminazioni. A me pare evidente. Vediamo se il ministro se ne accorge. Il compito del Pd è vigilare sull’operato del governo per impedirgli di sbagliare. Loro sono distanti dalla gente, un partito popolare come il nostro non può permettersi di esserlo.
Per stare alla battuta di Vendola nemmeno lei mi pare che ami molto il loden...
Io? Guardi, io porto un giubbino sportivo verde, collezione autunno inverno di Decathlon... ho speso 39 euro. Sa, guardo le offerte.
Si sente alla sinistra di Bersani?
Assolutamente no. Abbiamo presentato la nuova campagna del Pd: lo slogan è Italia bene comune. Mica abbiamo scritto ‘governo bene comune... ’.

Corriere della Sera 29.2.12
E «Il manifesto» sulla Rete divide Castellina e Rossanda


MILANO — È polemica, al Manifesto, tra due firme storiche del quotidiano comunista: Rossana Rossanda e Luciana Castellina. Ieri quest'ultima ha replicato a un editoriale della Rossanda sostanzialmente contrario al giornale online. Per la Castellina, invece, il futuro del Manifesto «è la sfida della Rete, per un nuovo inizio. Andare online credo sia storicamente inevitabile e credo che anticipare la scelta, anziché arrivare buoni ultimi, sarebbe assai meglio. Il Manifesto, fin dalla nascita, è stato pioniere. Qualcuno mi spiega perché non dovrebbe esserlo anche ora?».

il Riformista 29.2.12
Le liti a sinistra rafforzano scenari di Grande coalizione
Vendola definisceVeltroni «di destra»,Walter pretende le scuse: «Il vizio di dare etichette da traditore». E D’Alema parla di larghe intese nel 2013: «Chi ha più filo da tessere...»
di Tommaso Labate


Dal dibattito «Monti è di sinistra?», innescato dall’intervista rilasciata da Veltroni a Repubblica dieci giorni fa. Alla discussione «Veltroni è di destra?», avviata dall’intervista rilasciata da Nichi Vendola a Oggi. Dietro tutto e sopra tutto c’è sempre lo stesso tema che agita il centrosinistra: la Grande Coalizione.
Alla fine della conferenza stampa convocata a Montecitorio per replicare a Nichi Vendola la prima in solitaria da quando non è più segretario del Pd Veltroni esplicita quel che è ormai chiaro a tutti. A spingere «Nichi» a iscrivere «Walter» al partito «di una destra colta col loden» non è stato né il dibattito sull’articolo 18. Né tantomeno le proteste dei veltroniani contro quel pezzo di Pd che si appresta a scendere in piazza con la Fiom il 9 marzo. L’ex segretario, poco prima di indirizzate al governatore della Puglia la sua richiesta di «scuse» (altrimenti «c’è un problema politico»), lo dice chiaro e tondo: «Il problema è Monti. È l’idea che si ha del suo governo».
Veltroni è furibondo: «Il vecchio vizio di attribuire l’etichetta di traditore o nemico a chi non la pensa come te è pericoloso e inaccettabile», attacca. «Non è possibile accettare l’idea che chi non la pensa come Vendola è di destra», insiste. «Le scuse di Nichi sarebbero gradite», conclude. A corollario della tesi pur precisando che «non mi paragono a nessuno di quelli che sto per citare» l’ex segretario inanella citazioni che arrivano a ricoprire gli ultimi novant’anni di dibattito politico. Dall’omicidio di Giacomo Matteotti, assassinato per aver denunciato i brogli del Partito nazionale fascista; alla vignetta in cui nel 1977 Giorgio Forattini aveva disegnato Enrico Berlinguer in vestaglia, intento a sorseggiare un tè mentre fuori andava in scena il corteo dei metalmeccanici. Passando per la stroncatura che Palmiro Togliatti aveva dedicato a Carlo Rosselli
(«Un ideologo reazionario che nessuna cosa lega alla classe operaia»), che poi sarebbe stato ucciso in Francia insieme al fratello Nello su ordine dei fascisti italiani.
«C’è sempre qualcuno che ti spiega che bisogna essere più a sinistra di altri», dice Veltroni a Vendola. Quindi, ricordandogli che a Rifondazione comunista aveva fatto cadere il governo Prodi nel 1998, passa dal fioretto alla sciabola: «Io non mi permetterei mai di definire di destra chi votò per far cadere il governo Prodi nel ’98, ma altrettanto chiedo che si rispettino le opinioni di tutti. Per me non è mai stato un problema se c’è qualcuno più a sinistra di me». Vendola non risponde, probabilmente lo farà oggi. Al suo posto parla Fabio Mussi, che attacca Veltroni («Caro Walter, fosti tu il primo a metterci le etichette»). A cui risponde il braccio destro
Veltroniano Walter Verini, che infilzare il duo di Sel («Da Walter nessuna etichetta. Fu Bertinotti a parlare di sinistra alternativa»).
Una sorpresa arriva in serata. Quando Massimo D’Alema, interpellato dai cronisti a margine della presentazione di un libro, prende le difese di Veltroni. «Certamente Veltroni non è di destra...», scandisce il presidente del Copasir rispondendo a una domanda dei giornalisti. E le larghe intese? «Alla scadenza (della legislatura, ndr) ci sono le elezioni, a meno che qualche editorialista non pensi di eliminarle per decreto». E «alle elezioni si presenteranno i partiti: chi vincerà le elezioni governerà il Paese». Ma, aggiunge l’ex presidente del Consiglio rispondendo a una domanda sul possibile bis di Monti a Palazzo Chigi, «ognuno tesserà il suo filo. E chi ne avrà di più...». Domanda: quale dei tanti fili sta tirando D’Alema? Quello di Bersani e Bindi, che porta dritto a un centrosinistra classico con Italia dei Valori e Sinistra e libertà? O quello di Enrico Letta, Veltroni e Franceschini, che invece puntano alla Grande Coalizione? Impossibile prevederlo. Dalle (poche) carte che sta mostrando, D’Alema sembra più vicino al fronte iper-montiano che alla foto di Vasto. «Monti ha tolto spazio ai populismi e alla demagogia, che difficilmente torneranno», ha detto ieri. E questa frase, unita al sostegno offerto a Veltroni nella polemica contro Vendola, ha instillato qualche dubbio tra i bersaniani doc. Uno dei quali, al riparo da sguardi indiscreti, ha iniziato a sospettare: «Se Massimo e Walter si rimettono insieme sono guai...».

l’Unità 29.2.12
Cattolici del Pd, la Chiesa è già oltre il liberismo
L’enciclica sociale. La Caritas in Veritate rimette al centro il tema del lavoro
di Mimmo Lucà


In un intervento su questo giornale Stefano Fassina ha riproposto un tema certo non nuovo, richiamando il contributo importante del magistero sociale della chiesa cattolica al necessario rinnovamento della cultura riformista. L’affermazione, nel Pd, dovrebbe essere quasi scontata, visto che i cattolici sono una parte rilevante dei soci costruttori del partito. E invece sembra non sia così. L’intervento ha suscitato un dibattito a più voci.
Penso anch’io che nel magistero cattolico, e in particolare nella Caritas in Veritate, ci siano materiali preziosi per costruire una cultura politica capace di portarci oltre la lunga stagione neoliberista e i suoi drammatici fallimenti. I Cristiano Sociali sono così convinti di questo che all’indomani della pubblicazione dell’enciclica (estate 2009) e in piena campagna congressuale del Pd organizzarono un seminario pubblico che vide anche una interlocuzione di merito dell’allora candidato segretario Pier Luigi Bersani.
Ribadisco quel che dissi allora. I cattolici impegnati in politica sono chiamati a prendere sul serio il magistero sociale della Chiesa, evitandone una lettura selettiva che prende ciò che piace e rimuove quel che fa problema. La Caritas in Veritate, del resto, ha messo un punto fermo su questa unità inscindibile del magistero sulla vita e sulla società. È bene dunque che anche i non cattolici con i quali abbiamo scelto di costruire insieme un partito orientato al futuro, rifuggano da atteggiamenti selettivi e strumentali. Si deve chiedere loro di entrare in un dialogo autentico con quel magistero e con noi. Certamente non si può chiedere loro di prendere o lasciare l’insieme di quel magistero. Sarebbe irragionevole e sarebbe contro quel principio di laicità democratica che è condizione decisiva di ogni convenire politico. A un atteggiamento
analogo, del resto, chiama noi cattolici anche il principio della laicità cristiana. La dottrina sociale è un discernimento spirituale e morale sulla storia, non una ideologia politica. Tocca a noi fedeli laici tradurla concretamente, per quel che ci è possibile, esercitando quelle virtù e quell’intelligenza razionale che sono indispensabili per fare politica, oggi più che mai.
Vorrei segnalare, a questo proposito, che la stessa dottrina sociale è figlia anche delle inevitabili contaminazioni culturali che la storia produce, spesso tra correnti culturali e politiche in conflitto tra loro. La storia del cristianesimo sociale e quella del socialismo democratico lo testimoniano in abbondanza.
Torno a Fassina. Non ho ragioni per ritenere che il suo atteggiamento sia strumentale. Intervenendo sull’Unità ha sintetizzato un argomento da lui già trattato con cura sul numero 5 di Tamtam democratico: «Un nuovo umanesimo del lavoro». Tema oggi particolarmente attuale. Sono d’accordo: nella Caritas in Veritate c’è molto buon materiale. Con toni pacati l’enciclica conduce una critica profonda del modello di sviluppo ipertecnologico e liberista. E lo fa a partire da un concetto che è il cuore della dottrina sociale cristiana: lo sviluppo umano integrale, lo «sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini». Uno sviluppo che suppone la «ricerca d’un umanesimo nuovo, che permetta all’uomo moderno di ritrovare se stesso» (n. 19). Alla radice di questo umanesimo e al centro del vero sviluppo stanno «l’apertura alla vita» (n. 28) e la consapevolezza che la stessa questione sociale «è diventata radicalmente questione antropologica» (n. 75).
Affrontando la questione della riduzione delle reti di sicurezza sociale e della precarietà del lavoro (n. 25), l’enciclica rileva che ciò avviene «con grave pericolo per i diritti dei lavoratori, per i diritti fondamentali dell’uomo e per la solidarietà attuata nelle tradizionali forme dello Stato sociale». Le politiche dei tagli alla spesa sociale, spesso promossi da istituzioni finanziarie internazionali, «possono lasciare i cittadini impotenti di fronte a rischi vecchi e nuovi». E questa impotenza è accresciuta dalla mancanza di protezione efficace da parte delle associazioni dei lavoratori. «L’insieme dei cambiamenti sociali ed economici – afferma Benedetto XVI – fa sì che le organizzazioni sindacali sperimentino maggiori difficoltà a svolgere il loro compito di rappresentanza degli interessi dei lavoratori» anche perché i governi limitano spesso le libertà sindacali o la capacità negoziale dei sindacati.
Quando in conseguenza dei processi di mobilità e deregolamentazione, l’incertezza del lavoro «diviene endemica, si creano – fa rilevare l’Enciclica – forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell’esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio. Conseguenza di ciò è il formarsi di situazioni di degrado umano, oltre che di spreco sociale». Si può ben dire che la Caritas in Veritate rimette al centro della vita pubblica il tema del lavoro in una forte chiave umanistica. Papa Ratzinger parla di lavoro decente, «un lavoro scelto liberamente, che associ i lavoratori allo sviluppo della loro comunità; che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli; un lavoro che lasci lo spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici».
Ha ragione Domenico Rosati, intervenuto anche lui in questo dibattito: quando in gioco c’è la volontà di limitare i diritti sociali, non si può chiamare in campo il magistero sociale cattolico. Né si può evocare la cultura riformista per sostenere irragionevoli forzature al tavolo della trattativa sul mercato del lavoro.

l’Unità 29.2.12
Intervista a Gianfranco Ravasi
«Porto la Chiesa nel cortile di Twitter»
Il cardinale spiega perché la Cattedra di Pietro non deve avere paura del sesto potere: «Ha bisogno di ritrovare la forza del suo linguaggio e, grazie al web, sperimentare rigore, incisività, fulgore e bagliore»
di Cesare Buquicchio Maddalena Loy


L’amore che non si rinnova ogni giorno e ogni notte diventa abitudine e lentamente si trasforma in schiavitù.
Una frase, una citazione, 140 caratteri possono contenere un fulgore e una profondità che abbaglia. Tra i cinquecento milioni di persone che ogni giorno si misurano con i brevi testi di Twitter c’è anche il cardinal Gianfranco Ravasi e la citazione di Kahlil Gibran è uno dei suoi più recenti tweet insieme con passi dei Vangeli, frasi di Sciascia e John Lennon, Gesualdo Bufalino e Goethe, versetti del Libro di Siracide e delle Lettere ai Corinzi. Il tutto con una logica: tweet laici la mattina, tweet religiosi la sera. È l’attento e meditato esercizio di introdurre complessità e senso nella rigida e, a volte, un po’ svagata, onda dei tweet. E, allo stesso tempo, una risposta al pregiudizio di una chiesa chiusa al progresso. È lo sforzo del presidente del Pontificio consiglio della Cultura, sbarcato sul social network «per curiosità», ma immerso nei 140 caratteri con l’impegno e la profondità degli uomini di Chiesa.
Cardinale, come e quando ha cominciato ad usare Twitter?
«Da migrante digitale, e non da nativo digitale, ho cominciato a percorrere queste strade in maniera molto ingenua e molto curiosa. Ecco, è stata questa curiosità che mi ha spinto cominciare...».
Lei smentisce lo stereotipo di una chiesa chiusa al progresso?
«Il mio compito è nell’ambito di un dicastero vaticano dedicato alla cultura. È, dunque, quello di avere il respiro nel cortile, non tanto nel tempio, più nella piazza che nel palazzo. Questo vale per tutta la cultura, non solo per il Vaticano, perché attualmente non c’è più il concetto aristocratico di cultura, c’è quello antropologico della cultura industriale. Ed è per questo che io sono uscito nel cortile. Ma ritengo che tutta la chiesa debba essere anche sulla piazza e non solo tra gli incensi del tempio». Concetti profondi nella brevità di Twitter: è questa la sfida della chiesa? «Uno degli aspetti più interessanti di Twitter è il vincolo del restare nella gabbia dei 140 caratteri. Questo ti costringe non soltanto all’incisività, al fulgore, al bagliore, ma anche al rigore. E questo va contro una certa tendenza attribuita all’eloquenza sacra, la quale, diceva Voltaire, “è come la spada di Carlo Magno, lunga e piatta...”, perché i predicatori quello che non sanno dare in profondità, cercano di darlo in lunghezza».
Non c’è il rischio di snaturare il messaggio della chiesa?
«Questa è una domanda capitale, perché effettivamente percorrere le arterie di questo nuovo mezzo di comunicazione, non deve far dimenticare che il linguaggio è molto più sontuoso e glorioso, soprattutto quello religioso che ha secoli di elaborazione alle spalle. Per questo non si deve mai abbandonare la subordinata. L’informatica pretende le coordinate, le frasi brevi, mentre la filosofia, la teologia, la grande cultura, prediligono le subordinate, le deduzioni, le ramificazioni. Non usiamo Twitter in modo ingenuo».
Lei ha oltre 13mila follower ma segue solo 32 persone. Segue altri cardinali, direttori di giornali, ma ci è sembrato di vedere solo un politico: Matteo Renzi. È una scelta di campo?
«Per me è una sorpresa, non ci avevo fatto caso. Ma, al di là di Renzi, devo dire che il senso della mia partecipazione a Twitter è rivolta anche verso i non credenti e in particolare verso i polemici... In questi tempi in cui si parla molto di Ici della Chiesa, su Twitter sono stato ininterrottamente bersagliato e devo dire che la palma del tweet più divertente va alla mia follower che ha parafrasato il motto di Sant’Agostino “Oh Signore fammi casto ma non subito” in “Oh Signore fammi catasto ma non subito”». Questa sua familiarità con il web ha trovato delle resistenze nel Vaticano? «Che ci siano delle perplessità è normale, a volte le ho anche io. Spesso c’è una deriva nella comunicazione informatica. E va approfondito l’impatto sulle culture giovanili, perché un ragazzo che sta cinque ore ogni giorno davanti a un computer muta antropologicamente. Ma d’altra parte, stare sul web è necessario perché è una nuova grammatica di linguaggio. E molti vescovi cominciano a frequentare il web: il vescovo di Soissons ha inventato le tweetomelie. Un modo per raggiungere un orizzonte di persone che non metteranno mai piede in una chiesa».
Anche il Santo Padre è sbarcato su Twitter. È stato lei a consigliarlo? «No, il merito è di monsignor Celli, presidente del Pontificio consiglio delle Comunicazioni sociali e responsabile Vaticano di questo settore. Però recentemente con Benedetto XVI abbiamo a lungo parlato di questi argomenti ed era molto incuriosito dalla decifrazione di quello che io chiamo il “sesto potere”. Un potere che ha veramente una efficacia imperiale. Perché non si tratta più di un aggregato come poteva essere la televisione con l’occhio o il telefono per l’orecchio. È un vero e proprio ambiente in cui siamo immersi anche se non vogliamo esserlo...»

l’Unità 29.2.12
Archeologo e biblista conquistato dalla modernità
Comunicare il sacro attraverso le nuove tecnologie. È quello che fa il porporato: scrive sui giornali, naviga e «twitta»
di Roberto Monteforte


Come presentare Gianfranco Ravasi ora cardinale di Santa Romana Chiesa e posto da papa Benedetto XVI a capo del dicastero vaticano della Cultura? Biblista di fama internazionale, già prefetto della prestigiosa biblioteca Ambrosiana, scrittore, saggista, collaboratore anche di «testate» laiche come Il Sole24ore è soprattutto un grande comunicatore del «sacro» che ha il coraggio di porre il problema dell’Assoluto, di Dio, della speranza cristiana nella società contemporanea.
Twitta il porporato. Archeologo e biblista di formazione, in lui la citazione dotta non è sfoggio, ma messa in comune di pillole di saggezza quotidiana, tratte non solo dai sacri testi ma da pensatori e filosofi, poeti e cantanti di ogni epoca, offerti a chi crede e a chi non crede per favorire una riflessione sulla vita e arricchire di umanità la quotidianità. Sono un esempio di come la cultura possa essere messa al servizio dell’uomo e della «buona comunicazione» e di come, nell’indistinto frastuono mediatico, le parole possano ritrovare forza e significato. Con l’obiettivo di umanizzare la comunicazione e costruire relazioni tra le persone, rompendo lo schema chiuso della comunicazione autoreferenziale.
Per Ravasi accettare la sfida della comunicazione globale rappresenta una diretta conseguenza della sua «missione»: aiutare la Chiesa a dialogare con l’uomo contemporaneo, cercandolo dove è, anche nel mondo del web. Come un esploratore in perlustrazione in territori sconosciuti, distanti e spesso ostili. Lo fa libero da preconcetti, con l’apertura al confronto dell’uomo di cultura. D’altra parte è sua la responsabilità del progetto del Cortile dei Gentili luogo aperto al confronto esigente con le culture religiose, filosofiche e scientifiche, voluto da papa Benedetto XVI. Il responsabile del Pontificio consiglio della Cultura si fa compagno di strada nella ricerca di senso dell’uomo contemporaneo, inoltrandosi sino alle zone limite, ai punti di confine tra scienza e vita, alle domande etiche fondamentali. Ricercando anche nelle forme dell’arte contemporanea, da quelle figurative al cinema e al teatro, alla musica, alla stessa comunicazione, il riflesso delle ricerca di Assoluto.
È lo sforzo della Chiesa di riannodare i fili di un dialogo con ambienti spesso indifferenti o ostili al suo messaggio. Ma per Ravasi può essere più semplice tessere rapporti con le élite intellettuali che vincere l’indifferenza dell’uomo che vive rassegnato il suo tempo. Far veicolare attraverso Twitter «pillole di saggezza» può rappresentare il tentativo di aprire la mente e il cuore alla riflessione sul senso del vivere.

l’Unità 29.2.12
Cybernauti di fede
Presto sul web il pensiero di Papa Benedetto XVI


Non sarà possibile chattare con Papa Benedetto XVI ma presto chi vuole potrà trovare il suo pensiero veicolato su Twitter. La Chiesa accetta la sfida della comunicazione globale, gran regista è monsignor Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio consiglio delle Comunicazioni. Restyling del sito vaticano, sinergia tra il Centro di produzione televisiva, Radio vaticana e l’«Osservatore Romano», tanti siti web. È una rivoluzione culturale. Un esempio? Il cybernauta padre Antonio Spataro direttore di Civiltà Cattolica.

il Fatto 29.2.12
Il Vaticano e la resa dei conti
Quante divisioni ha il Vaticano?
di Marco Politi


Ha il sapore di un fine-regime la lotta di potere scatenatasi all’interno del Vaticano. Perché scontri e bracci di ferro sotterranei sono sempre avvenuti nel Palazzo apostolico. Ma l’asprezza degli attacchi rivolti al segretario di Stato, in un crescendo che pare inarrestabile, rivela che all’interno della Curia ci sono gruppi e persone che – con il pontefice ormai in età avanzata e l’evidente mancanza di direzione della barca di Pietro – ritengono necessario arrivare a un nuovo assetto ai vertici della Santa Sede. La novità assoluta è che non si procede, come in altre stagioni, per insinuazioni o messaggi tenuti rigorosamente segreti. Di fronte alla stagnazione, in cui si sta arenando il pontificato ratzingeriano, ci sono forze che hanno deciso di portare tutto alla luce del sole, di svolgere questa battaglia sul palcoscenico dei mass media, di rendere chiara anche la posta in gioco: una svolta nell’amministrazione delle finanze, nei rapporti tra Vaticano e Chiesa italiana, nelle relazioni tra il segretario di Stato e i cardinali. Non ci sono (più) “corvi” in questa storia. Ci sono combattenti clandestini.
IL CARTEGGIO Bertone-Tettamanzi pone sotto la luce dei riflettori i punti più vulnerabili del governo bertoniano. Primo, un assolutismo che i suoi avversari denunciano come centralismo senza autentica managerialità: poiché procede per scatti di improvvisazione e crea opposizione laddove dovrebbe lavorare per la massima coesione dell’apparato su linee strategiche condivise. Secondo, la tendenza a scavalcare sistematicamente i confini del proprio ambito. Il segretario di Stato ha in cura la strategia della Chiesa universale. Invece, sottolineano i suoi oppositori, lo si è visto occuparsi di un fantomatico polo ospedaliero ecclesiastico italiano (caso San Raffaele). E ancora, l’Istituto Toniolo riguarda la Chiesa italiana, idem l’Università Cattolica. Non erano certo in ballo questioni dottrinali di massimo rilievo, tali da provocare un intervento del Papa. Assistere a un segretario di Stato, che pone e dispone a suo arbitrio, per puri disegni di potere è diventato allarmante in certi ambienti ecclesiastici e – per alcuni – talmente intollerabile da avere voluto informare l’opinione pubblica della sconfitta subita da Bertone dopo l’appello diretto del cardinale Tettamanzi al pontefice, come risulta dalle lettere pubblicate ieri dal Fatto. D’altronde al momento del cambio della guardia alla presidenza della Cei tra Ruini e Bagnasco il cardinale Bertone si è arrogato per lettera l’alto comando delle relazioni con la politica italiana, scavalcando la dirigenza della conferenza episcopale. Ma viene il momento in cui qualcuno e più d’uno presenta il conto. Già nel 2009, all’indomani del disastroso caso Williamson (il vescovo lefebvriano negazioni-sta cui venne tolta la scomunica) e dell’altrettanto penoso caso Wagner (un prete reazionario austriaco nominato vescovo e poi costretto a rinunciare in seguito alla protesta dei cattolici e dell’episcopato d’Austria) alcuni porporati di rilievo avevano posto a Benedetto XVI la questione di un avvicendamento di Bertone. Quando in aprile, nella residenza di Castelgandolfo, i cardinali Scola, Schoenborn di Vienna, Bagnasco e Ruini interpellarono il pontefice, la risposta lapidaria risposta fu, in tedesco: “Der Mann bleibt wo er ist, und basta”. L’uomo resta dove sta, e basta! Pochi mesi dopo Benedetto XVI fece pubblicare sull’Osservatore Romano uno sperticato elogio per il “grande impegno e la perizia” dimostrati dal segretario di Stato.
Ora il vento è cambiato. Il suo braccio destro, ricordano quotidianamente i suoi silenziosi, ma attivi antagonisti, ha commesso in pochi mesi due errori capitali su un terreno, che papa Ratzinger considera sensibilissimo per il prestigio internazionale della Santa Sede. Bertone ha cacciato Viganò dopo che questi aveva denunciato storie di corruzione riguardanti appalti in Vaticano. Bertone ha frenato la strategia di trasparenza finanziaria della banca vaticana perseguita dal cardinale Nicora e dal direttore dello Ior Gotti Tedeschi. Due autogol micidiali per la Santa Sede.
SONO ERRORI che avvelenano l’atmosfera. La cosa più pericolosa per il segretario di Stato è che i favorevoli a un suo avvicendamento si trovano sia nel campo conservatore sia in quello riformista. Anche tra i ratzingeriani di ferro. Si avverte il senso di un silenzioso accerchiamento. Mentre qualche monsignore già si avvicina al “candidato-segretario” cardinale Piacenza. Anche perché la guerra dei documenti non è destinata a finire. In un cassetto c’è un messaggio di Bertone al premier Monti – nelle ore frenetiche della formazione del governo a dicembre – per raccomandare a un posto di sottosegretario il suo pupillo Marco Simeon, già paracadutato come direttore di Rai Vaticano e responsabile delle relazioni istituzionali e internazionali.
Un Segretario di Stato vaticano, che chiede un posto di sottosegretario per un suo protetto al presidente del Consiglio italiano? Che c’azzecca, direbbe Di Pietro.

il Fatto 29.2.12
Bertone contro Tettamanzi
Università cattolica e Policlinico Gemelli: i giganti della guerra in Vaticano
di Marco Lillo


La partita del Toniolo non è affatto chiusa. L’ente conteso tra il cardinale Dionigi Tettamanzi, che lo presiede, e il segretario di Stato Tarcisio Bertone che vorrebbe metterlo sotto la sua ala, ieri è stato scosso dalla pubblicazione delle lettere nelle quali i due porporati se le davano di santa ragione al cospetto del Papa. A stupire non è stato tanto il contenuto delle missive, in parte rivelato dai migliori vaticanisti nella primavera scorsa, ma i toni.
NESSUNO si aspettava che il braccio destro del Papa, il cardinale Bertone, si permettesse di recapitare un simile “foglio di via” a un personaggio della caratura di Dionigi Tettamanzi, dato come probabile Papa nel 2005. Né era immaginabile che il Segretario di Stato si arrogasse il diritto di parlare a nome del pontefice o che arrivasse a licenziare il presidente dell’Istituto Toniolo addirittura con un fax. Allo stesso modo nessuno si aspettava di leggere la parte della lettera del cardinale Tettamanzi nella quale di fatto si dice che il senatore Emilio Colombo aveva perso la presidenza dell’Istituto per la sua spiacevole abitudine di consumare cocaina. Né che Tettamanzi giungesse a mettere in discussione la figura di Giovanni Maria Flick, ex ministro del Governo Prodi, vicino ai settori progressisti ai quali il cardinale si era appoggiato negli anni in cui aveva ricoperto il ruolo di arcivescovo prima a Genova e poi a Milano.
PROBABILMENTE dopo il braccio di ferro è arrivata l’epoca della tregua. Formalmente il Toniolo sarà guidato da Tettamanzi per tutto il 2012 di fatto però a uscire vincitrice è stata l’alleanza tra la Cei e la Curia milanese. Tra i due litiganti sono i due Angeli a godere. Dalla contesa epistolare tra Bertone e Tettamanzi sono usciti vincitori il cardinale Angelo Bagnasco e l’arcivescovo Angelo Scola. Non si comprende l’importanza della partita in corso se non si tengono a mente alcuni numeri. Dall’Istituto di Studi Superiori Giuseppe Toniolo, dipende l’università Cattolica del Sacro Cuore, il più grande ateneo privato d’Europa con 42 mila studenti, 1400 docenti, 14 facoltà, 54 istituti e 22 dipartimenti sparsi in quattro atenei con sedi a Milano, Brescia, Piacenza, Cremona, Roma e Campobasso. Il rettore, che proviene dal Toniolo è il ministro della cultura del Governo Monti, il professor Lorenzo Ornaghi, in aspettativa e sostituito solo “per il periodo dell’espletamento dell’incarico” dal professor Franco Anelli.
Fondato nel 1920 da padre Agostino Gemelli, il Toniolo controlla la casa editrice, fondata due anni prima, “Vita e pensiero”, che pubblica l’omonima rivista e un catalogo di 800 libri. Ma soprattutto il policlinico Agostino Gemelli, sorto nel 1964 a Roma su un’estensione di 37 ettari, per una superficie coperta che negli anni è aumentata fino a 30 mila metri quadrati, una cittadina di 20 mila abitanti (tra pazienti, medici e familiari) nella città. All’Istituto Toniolo fanno poi capo anche le (piccole) quote della SCAI Spa, Società di Chirurgia addominale italiana, e della Altipiani Val di Non Spa più la proprietà della Passo della Mendola Srl e della Monte Mario 2000 Srl, oltre che della Vita e Pensiero Srl.
IN PARTICOLARE la Monte Mario 2000 possiede un fabbricato in via degli Scolopi, sulla Trionfale e molti terreni nella zona Pineta Sacchetti, sui quali era stata tentata anche un’operazione immobiliare bloccata dagli enti locali e poi dalla giustizia amministrativa. Direttamente al Toniolo fanno capo interi palazzi a Milano, in viale Stelvio e in via San Vittore, oltre ovviamente ai fabbricati che ospitano le sedi degli atenei e del Policlinico Gemelli.
Ovviamente l’ospedale Gemelli e l’università Cattolica sono due grandi centri di spesa, imponenti stazioni appaltanti dai quali dipendono più di 1600 lavoratori e tante società fornitrici di beni e servizi.
Non a caso i primi annunci della lotta di potere che si sta disputando attorno al consiglio del Toniolo si riferivano proprio agli appalti. Nel settembre del 2010 furono pubblicati alcuni articoli sui grandi quotidiani nazionali nei quali si dava conto di alcune accuse, tutte da dimostrare, al direttore amministrativo della Cattolica, Antonio Cicchetti. In particolare uscirono sul Corriere della sera ampi stralci delle tre lettere scritte dal giurista Alberto Crespi. Il penalista che aveva insegnato per decenni diritto alla Cattolica prima di divenire anche preside della facoltà di giurisprudenza, dopo essere andato in pensione, prendeva carta e penna per segnalare “forti anomalie” nelle scelte dell’Istituto Toniolo.
Negli articoli, basati sulle lettere, fu così squadernato il reticolo di interessi, talvolta in società vicine alla Cattolica e al Gemelli, dei familiari di Cicchetti. Si ponevano dubbi sui conflitti di interesse.
MA QUALCUNO fa risalire il primo campanello di allarme di una sorda lotta di potere all’ombra dell’Istituto, mediante la pubblicazione di lettere e veline, alla campagna contro di Dino Boffo. L’allora direttore di Avvenire fu fatto fuori nell’estate 2009 per la pubblicazione sul Giornale di un documento falso e calunnioso che - secondo i bene informati - mirava a metterlo fuori gioco proprio dalla partita del Toniolo. Una partita che, dopo il mantenimento di Dionigi Tettamanzi alla presidenza e la nomina di Angelo Scola nel consiglio, però trova proprio in Dino Boffo e nella Cei il vero ago della bilancia.

il Fatto 29.2.12
Esentate scuole e attività sociali no profit gestite dalla Chiesa


L’Imu non graverà sulle attività non commerciali della Chiesa. È la precisazione che lunedì ha fatto il premier Mario Monti in Commissione Industria al Senato, escludendo così dal pagamento dell’imposta le scuole e le attività ecclesiastiche autenticamente no profit. A preoccupare Monti era stata la notizia della presentazione di alcuni sub-emendamenti al decreto liberalizzazioni da parte di senatori di tutti i gruppi al testo del governo, informalmente concordato con la Commissione Ue. Le scuole paritarie (di cui 9.371 sono cattoliche) godranno dell’esenzione solo se assimilabili a quelle pubbliche sul piano dei programmi scolastici, dell’applicazione dei contratti nazionali e su quello della “rilevanza sociale”. Inoltre il bilancio dovrà essere “tale da preservare in modo chiaro la modalità non lucrativa”; e quindi “l’eventuale avanzo sarà destinato all’attività didattica”. Rientrano in questi parametri anche le altre attività sociali, e non solo alla scuola. Il che metterebbe al sicuro la gran parte delle attività assistenziali e sociali gestiti dalla Chiesa, compreso il turismo sociale.

il Fatto 29.2.12
La nuova norma non rispetta le indicazioni Ue
di Enrico Altieri,
Presidente aggiunto on. della Corte di cassazione

La recente proposta del presidente del Consiglio di esentare dall’Imu le scuole religiose, in quanto le stesse, non aventi scopo di profitto, non sarebbero imprese e perciò non soggette alla disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato solleva problemi di compatibilità col diritto comunitario non facilmente risolubili.
Secondo una consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia comunitaria, infatti, la nozione di impresa comprende tutti i soggetti i quali offrono beni e servizi sul mercato, a prescindere dal loro regime e dalla fonte di finanziamento. Poiché l’offerta di servizi scolastici avviene in condizioni di libero mercato, una misura di sostegno economico, quale un’esenzione fiscale, potrebbe avere effetti distorsivi della concorrenza a prescindere dal perseguimento di un fine di profitto. La misura in questione dovrebbe essere quindi, secondo il Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, preventivamente notificata alla Commissione europea e non potrebbe essere applicata prima che la Commissione l’abbia dichiarata compatibile col mercato comune. In difetto, i giudici nazionali, investiti di una controversia in materia, dovrebbero rifiutare applicazione al regime di esenzione e, se necessario, richiedere un’interpretazione alla Corte di Giustizia. Questa può essere anche richiesta di una pronuncia di validità della decisione della Commissione che avesse valutato favorevolmente la misura. In pratica, come è stato già evidenziato da questo giornale (l’8 dicembre 2011), sarebbe, in definitiva, rimessa ai giudici nazionali e comunitari la decisione sulla compatibilità dell’esenzione, come è stato già fatto in passato dalla Corte di cassazione.
Gli effetti distorsivi della concorrenza sarebbero, ovviamente, incrementati dalla previsione di destinare i corrispettivi ricevuti al potenziamento delle strutture.

La Stampa 29.2.12
Il Papa e il commissario Rex


Benedetto XVI raccontato dal fratello in My Brother the Pope , il libro di mons. Georg Ratzinger la cui edizione americana esce domani dalla Ignatius Press. Il Papa è descritto come un gran lavoratore: «Si può concentrare magnificamente durante tutta la giornata e lavora molto velocemente e efficientemente». Nelle sue giornate non manca un po’ di tv: «Eravamo abituati a guardare Il commissario Rex , perché ci piacciono i cani».

il Fatto 29.2.12
Sangue di Stato
“Non li teniamo più i ragazzi”. E allora gli agenti che dovrebbero difendere i cittadini si trasformano in aguzzini: il film “Diaz” in sala dal 13 aprile ripropone brutalmente i fatti di 10 anni fa – teste spaccate, calci in faccia, la “macelleria messicana” – e sveglia dall’incubo dell’“è successo davvero?”. Sì, è successo
di Malcom Pagani


Il cancello della scuola Diaz di Genova sembra di cartapesta. Il blindato lo piega e lascia strada all’orda. Trecento uomini al servizio dello Stato. Trasformati in bestie in una notte di luglio del 2001. I volti coperti da un fazzoletto rosso. I caschi senza numerazione. Il G8 è finito, ma c’è ancora qualche anonimo conto da regolare. Il bilancio è in passivo. Bisogna rimediare. I loro capi avvertono i superiori: “Non li teniamo più i ragazzi”. E complici, abbandonano i manovali al dialetto: “Mò s’annamo a divertì” e al lavoro sporco. Ai tempi supplementari in cui si infanga la divisa e impuniti, ci si spoglia della pietà. Anche se dalla “macelleria messicana” (come alla fine, soltanto nel 2007, uno dei protagonisti del blitz, il Vice-questore aggiunto Michelangelo Fournier si decise ad ammettere in aula) sono passati 10 anni e certe ferite non si rimarginano “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale” secondo Amnesty arriva al cinema e lo fa con la straordinaria forza dell’inedito. Abusi, pestaggi, violenze, urla e sadiche violazioni da dittatura sudamericana diventate ora con Diaz, già premiato dal pubblico di Berlino, un film eccezionale. Gli agenti che hanno giurato fedeltà alla Repubblica dovrebbero liberare un edificio dal “blocco nero” che ha devastato la città, ma sono nervosi ed eccitati. Incontrano un giornalista sulla porta. Sventola il tesserino. Lo accerchiano in venti. Lo lasciano a terra. “Sei un block-bloc”. Bastonate e calci in faccia. Poi risalgono le linee. Abbattono chiunque. Senza chiedere permesso. “Non li teniamo più i ragazzi”. Spaccano gambe, denti e teste di pensionati e ventenni capitati lì per caso. Caschi blu contro cittadini inermi avvolti nel sacco a pelo. Tedeschi, spagnoli e finlandesi chiedono aiuto.
Radiografia di un potere
Fuggono per le scale e cercano scampo nei cessi o nelle aule. Inseguiti, trovano l’inferno. “Non li teniamo più i ragazzi”. In dieci contro uno, brandendo il Tonfa (il famigerato manganello in dotazione alla Ps durante il G8) per il solo gusto di ascoltare il cupo suono della rivincita e dell’abuso di potere tardivo. Senza una logica, animati da una frustrazione che odia, morde: “Questo è l’ultimo G8 che fai, bastardo” e offre ai vampiri in divisa sangue che nessuno potrà lavare. Diaz è un atto d’accusa di oltre due ore per cui non le giustificazioni non bastano. Un’immersione senza apnea in cui gli occhi si costringono a guardare per mancanze d’alternative. Altri già hanno girato la testa. Continueranno. Accade quando i fatti superano l’immaginazione. Capita quando anche i racconti di chi ha subìto disegnano uno scenario troppo duro da sopportare. È successo davvero? Sì, è successo. Non nell’Argentina di Videla. Ma nelle vie borghesi di una città portuale, mentre i governanti dormivano nella zona rossa e qualche chilometro più in là, verso la collina, nella prigione di Bolzaneto andava in onda il secondo tempo di un horror di cui il regista Daniele Vicari offre un sunto sfortunatamente indimenticabile. Dando forma agli incubi. Accompagnandoli senza compiacimenti verso una riproposizione brutale, ma oggettiva dei fatti. Interpolando documento, memoria e finzione. Sacrificando la materia alla realtà e l’indignazione allo stralcio da processo. Mai niente di simile prima d’ora nel panorama nazionale. Mai uno schiaffo così preciso al potere. Come era normale all’epoca di Rosi, Petri e Pontecorvo e come credevamo i produttori di casa nostra avessero definitivamente rinunciato a fare. Dopo aver ricevuto rifiuti, consigli a recedere, silenzi e alzate di spalle (Rai, Medusa, i colleghi) Domenico Procacci di Fandango ha scelto di finanziare Diaz – in uscita il 13 aprile – in prima persona (partecipazioni romene e francesi per Mandragora e La Pacte). Sette milioni di cui 400.000 euro del Mibac. Pochi soldi, ma ben spesi questa volta anche se è prevedibile che il Parlamento (dopo aver affossato la commissione d’inchiesta sul G8) fingerà di indignarsi e le polemiche che hanno sfiorato in stagioni diverse La Prima Linea di De Maria o Acab di Sollima, sembreranno rugiada di fronte alla tempesta. Il capo della Polizia Antonio Manganelli si è rifiutato di visionare la sceneggiatura. Vicari è pronto. Ha scelto di non mettere i veri nomi di poliziotti e manifestanti: “Perché carnefici e vittime sono comunque riconoscibili e in ogni caso, mai come in questa occasione, a contare sono i fatti e non le parole”. Non gli interessano “le ideologie” – in Diaz non ci sono tesi né bandiere stancamente trascinate – “ma le dinamiche che precedono un’azione”. Così senza artifici, troviamo psicologie, responsabilità e identità. Vincenzo Canterini, il comandante del settimo reparto di Roma che alla Diaz si distinse. “Liberiamo un manufatto occupato da pericolosi anarcoinsurrezionalisti”. Il “celerino” di destra, Fournier appunto: “Io con questi macellai non ci lavoro più” dice un bravo Claudio Santamaria, capace di indignarsi e di urlare “basta” ma non fino in fondo: “Lascia stare, facciamo colazione” sussurra a un collega sulla porta di Bolzaneto. Arnaldo La Barbera (Mattia Sbragia), arrivato per esautorare la polizia locale e i funzionari che chinano il capo senza apparenti reazioni: “Predispongo, predispongo”.
Anatomia di un massacro
E poi i gregari, i capifiliera, le comparse. Funzionali a un falso di Stato, a una bugia costruite con dolo. Le finte coltellate ottenute da un agente all’ingresso della scuola, con tanto di intervista commossa. O il carico di molotov surrettiziamente portato dentro la Diaz per poi orchestrare una conferenza brezneviana senza domande, risposte o dubbi. Vicari li ha covati e con la sceneggiatrice Laura Paolucci ha lavorato 2 anni. Un viaggio tra le carte e le diffidenze. Un percorso onesto. Lasciando sedimentare le emozioni in modo analitico. Escludendo alla radice la narrazione di tutto ciò (o quasi) che a Genova era avvenuto prima della Diaz (echi della morte di Giuliani appena accennati) ma non dimenticando la prima buona regola di ogni film riuscito. Circoscrivere il campo d’azione. Togliere anziché aggiungere. Rispettare la verità con la certezza dei dati. Al di là di un complesso lavoro di regìa e di equilibrio in cui il personale trasmuta in universale, Vicari non ha aggiunto né inventato nulla. Ha assemblato tasselli, convinto che nella Storia, per dirla con Marc Bloch. “Le cause non si postulino, ma si cerchino”. Trasportando le testimonianze dal tribunale allo schermo e le preghiere delle vittime dall’oblìo all’eternità. Escluso Fournier, l’unico senza medaglie per gli “eroismi” genovesi tutti, ma proprio tutti gli altri poliziotti con le stellette coinvolti nel massacro sono stati promossi. Condannati per pestaggi o per “falso” come Francesco Gratteri allora capo dello Sco e passati ad altri importanti incarichi. Forse la Ps non è e non sarà più quella della Diaz, ma il film di Vicari è qui per questo. Per impedire che i fantasmi ritornino, le zone d’ombra ingialliscano e in una questura italiana, sotto il ritratto del presidente, si possa ancora ascoltare una nenia: “Un, due, tre, viva Pinochet” così simile al suono triste delle canzoni di Pietrangeli: “Eran 1.000 scalmanati / noi 200 baschi blu / son bastati due o tre morti / non si son sentiti più”.

il Fatto 29.2.12
L’Europa uccide la madre Grecia
di Angelo d’Orsi


Si susseguono appelli per la Grecia: gli ultimi due, in ordine di tempo, assai accorati, sono di una dozzina di intellettuali francesi e di un gruppo di cittadini greci. L’uno e l’altro chiedono adesioni a livello internazionale, sottolineando la gravità della situazione, ossia individuando nella Grecia una sorta di capro espiatorio su cui i corvi della grande finanza internazionale si aggirano sperando muoia, o si sottometta a un regime iugulatorio, che espropria non solo lo Stato greco, ma l’intera popolazione di qualsivoglia diritto a una esistenza dignitosa, e indipendente. La Grecia come modello della “nuova Europa”, davvero delle Banche, sia che Atene resti dentro il recinto dell’Unione, sia, preferibilmente, che ne esca: a quel punto si potrà persino accelerare il processo di unificazione, nel quale sta emergendo l’inedito accoppiamento tra tecnocrati e poliziotti: il potere gelido, apparentemente imparziale, dell’eurodollaro, gestito da asettici e quasi invisibili personaggi, sorretto dal visibilissimo potere del manganello: si sta facendo ricorso, dappertutto, a un impiego forsennato di forza pubblica (al servizio di interessi privati, della voce di chi è più forte), in azioni di “contenimento” sempre più dure, che vogliono sottolineare come il potere del dio denaro è intoccabile e non può essere sfiorato dal dubbio, dalla contestazione, dalla messa in discussione.
LA GRECIA come cavia di un esperimento che mira a costruire una società di spaventose disuguaglianze, di dominio dei ricchi sui meno ricchi, e subordinazione ed emarginazione totale dei poveri, di cancellazione del welfare, di erosione dei diritti politici e civili e, infine, di “superamento” della forma democratica, nonché di messa in mora della sua sostanza. Sì, la Grecia rappresenta un momento devastante della nostra storia, come si legge in uno di questi appelli. Come difenderla? Come difenderci? Probabilmente, in questa situazione, gli appelli, nobili e certo importanti, forse anche necessari, suonano forse già fuori tempo massimo. Mi chiedo, mentre li sottoscrivo, a che cosa possano servire. Forse più che a salvare quel paese (ma da cosa? Da se stesso? O piuttosto dalle rapaci mani della “Troika”?), mirano a salvare la nostra anima: quasi che pregassimo un qualche iddio dopo aver consumato il crimine.
PERCHÉ di questo si tratta; e del più efferato tra i crimini: l’uccisione della madre. E v’è, in quello che sta accadendo, una sorta di paradossale, involontario richiamo alla tragedia greca: è un dramma degno di Sofocle o di Euripide questa Europa che fa a pezzi, e si accinge a sbranare la madre Europa, in nome di se stessa, della sua unità, della moneta unica, della pretesa sua identità “giudaico-cristiana” (una delle tante sciocchezze che ci hanno ammannito in questi anni: e le culture pagane, a cui erano informate tanto la Grecia quanto Roma? E la cultura islamica, che ha colonizzato ampiamente il Continente? E le culture dei tanti popoli “barbari” del Nord?). L’Europa, insomma, cancella la sua propria scaturigine, elide la matrice da cui è sorta, uccide simbolicamente la madre Grecia, quella che addirittura ha partorito il suo nome, e il mito fondativo: la giovinetta Europa, la bellissima fanciulla rapita da Zeus sulla spiaggia di Tiro (o di Sidone, le due note città libanesi), sotto le spoglie di un bianco toro, che la portò, seduta sulla sua groppa, nel mare Egeo, giungendo fino all’isola di Creta, dove si accoppiò con lei sotto le fronde di un platano. Da loro nacquero tre figli, tra cui Minosse, che di Creta divenne re, e in suo onore, e di sua madre dai grandi occhi (tale il significato del termine, secondo un’etimologia peraltro incerta), fu dato il nome di Europa alle terre a nord del Mediterraneo.
Ebbene, ora quelle terre, guidate in modo dittatoriale da una leadership algida e feroce, sulla madre Europa gettano il peso della loro spada pesantissima, chiedendo in cambio non soltanto oro – come fece Brenno, il capo dei Galli, nella Roma conquistata e saccheggiata –, bensì il sangue e la dignità di un popolo. Che per ora è quello greco, domani sarà il nostro.

La Stampa 29.2.12
Francia-Turchia: braccio di ferro sulla storia
Genocidio armeno. No dei giudici alla legge di Sarkò
L’Alta corte: non punibile chi lo nega Ankara soddisfatta: decisione giusta
Il presidente, in lieve rimonta nei sondaggi, puntava ai 600 mila franco-armeni
di Alberto Mattioli


Come nel gioco dell’oca, si riparte dalla prima casella. Ieri il Consiglio costituzionale francese ha bocciato la legge Boyer, approvata dal Parlamento il 23 gennaio, che punisce con un anno di carcere e 45 mila euro di multa chi nega il genocidio degli armeni da parte dei turchi durante la Prima guerra mondiale. Per Nicolas Sarkozy, che l’aveva fortissimamente voluta per conquistare il voto dei circa 600 mila francesi di origine armena (il più famoso, Charles Aznavour, è anche un suo amico personale), è una netta sconfitta. Per la Turchia, che sulla questione aveva aperto una crisi con Parigi minacciando, in pratica, la rottura delle relazioni diplomatiche, un’altrettanto netta vittoria. Ma entrambe sono provvisorie perché, nemmeno un’ora dopo il verdetto, il Presidente ha ordinato al suo governo di presentare un altro progetto di legge, parlando di «immensa delusione e profonda tristezza» per la decisione dei Saggi.
Il ricorso al Consiglio costituzionale era stato firmato da 140 parlamentari, compresi molti di centrodestra («Non vedono più in là del loro naso», commentò Sarkò). E si sa che anche due ministri erano contrari: quello dell’Agricoltura, Bruno Le Maire, per allergia verso ogni legge sulla memoria, e quello degli Esteri, Alain Juppé, per salvare quel che resta dei rapporti con Ankara. I turchi, che avevano annunciato pesanti ritorsioni ma aspettavano la sentenza prima di metterle in pratica, ovviamente gongolano, anche perché la Francia è un partner commerciale troppo importante per rinunciarci a cuor leggero. «Questa decisione ha evitato una probabile grave crisi fra la Francia e la Turchia», ha infatti subito twittato il vicepremier di Ankara, Bülent Arinç.
Resta il problema sollevato da Valérie Boyer, la deputata di centrodestra che ha proposto la legge: la République riconosce due genocidi storici, la Shoah e appunto quello degli armeni, ma punisce solo chi nega il primo. E tuttavia molte voci avevano previsto la decisione di ieri, compresa quella, molto rispettata, di Robert Badinter, il guardasigilli di Mitterrand, l’uomo che abolì la pena di morte in Francia. Il Consiglio, un’assise formata da nove membri nominati dal Presidente della Repubblica e da quelli delle Camere più gli ex capi dello Stato, ha ritenuto che la legge può punire gli abusi della libertà d’espressione, ma non l’esercizio di questo diritto. E l’ha sotterrata.
La campagna elettorale, a 53 giorni dal voto, non dovrebbe esserne influenzata. L’iperattivismo del Presidente uscente paga ma, finora, non abbastanza: secondo l’ultimo sondaggio, al primo turno Sarkò sarebbe al 27% (in crescita del 2) contro il 31,5 (in calo di mezzo punto) dello sfidante socialista François Hollande; al secondo, perderebbe 58 a 42. Sarkozy, come annunciato, lancia una proposta al giorno: ieri ha promesso ai professori un aumento di stipendio del 25% in cambio di otto ore di lavoro settimanali in più, da 18 a 26.
Hollande invece si è improvvisamente ricordato di esser socialista e ha scatenato un putiferio con la proposta, che ha spiazzato i suoi stessi compagni, di elevare al 75% l’aliquota delle tasse per chi guadagna più di un milione di euro all’anno. E dire che in questi giorni la politica francese si fa soprattutto fra le vacche e le galline, perché tutti i candidati passano giornate al popolarissimo Salone dell’agricoltura di Parigi. Anche qui Hollande ha voluto strafare e ieri si è presentato alle sette del mattino, ci si è fatto fotografare mentre (in giacca e cravatta!) lavava una vacca e ci è rimasto dieci ore, battendo perfino il record (di nove) di Jacques Chirac, rimpianto campione della Francia più profonda e terragna.

l’Unità 29.2.12
La proposta riguarda i redditi annui sopra il miliardo di euro: tra 7mila e 30mila cittadini
Una risposta alla campagna elettorale populista che aveva fatto recuperare consensi all’Ump
Francia, Hollande lancia una super tassa al 75% sui grandi patrimoni
di Luca Sebastiani


Il candidato socialista Hollande lancia la proposta di tassare i grandi patrimoni fino a un pic- co del 75 per cento. Un sasso nello stagno che fa urlare alla «confisca» i vertici dell’Ump e cadere la maschera a Sarkozy.

Tassare i ricchissimi al 75 per cento? Perché no. La proposta uscita dal cappello di François Hollande ha avuto l’effetto di una bomba sul dibattito politico francese a soli 54 giorni dal primo turno delle elezioni presidenziali.
In pochi minuti, con l’annuncio a sorpresa della sua intenzione di introdurre un’ulteriore tranche d’imposta sui redditi che superano il milione di
euro annui, il candidato socialista ha infatti piazzato il suo programma fiscale e il suo profilo à gauche al centro del campo, costringendo il suo rivale Nicolas Sarkozy a gettare la maschera del supposto candidat du peuple.
La proposta, che Hollande ha definito «patriottica», va letta nel contesto di una campagna che nelle ultime due settimane ha visto una flessione della dinamica favorevole al candidato socialista. Da quando, alla metà del mese, Sarkozy è ufficialmente sceso in campo, ha allineato una sequenza che gli ha permesso di occupare interamente lo spazio mediatico. Prima l’intervista fiume a Le Figaro, poi quella in tivvù, poi ancora il comizio a Marsiglia e a seguire un’uscita al giorno.
SARKO E L’ÉLITE
In ogni occasione il presidente uscente ha cercato di fare diversione sul proprio bilancio puntando su una campagna stile 2007, tutta volta a rivalutare il lavoro contro l’assistenzialismo, addirittura il popolo contro le élite, la France d’en bas contro il piccolo milieu parigino. In questo senso vanno lette le proposte referendarie di Sarkozy, demagogiche e populiste, e la medaglia che si è messo sulla giacchetta di «candidato del popolo».
La popolarità del presidente, al culmine dopo l’elezione, era caduta a picco quando Sarkozy aveva ostentato la frequentazione di ristoranti mondani in compagnia dei rampolli dei grandi patrimoni francesi, e dopo l’approvazione dello scudo fiscale che metteva nelle tasche dei ceti abbienti poste consistenti del bilancio gonfiando il deficit.
Da allora è passata l’etichetta del «presidente dei ricchi» che ora Sarkozy cerca di levarsi di dosso. Lunedì rispondendo alla radio ha addirittura accusato Hollande di essere il rappresentate delle élite, denunciando la sua amicizia col miliardario Pierre Berger e il banchiere Mathieu Pigasse, entrambe proprietari di Le Monde. O accusando la compagna del candidato socialista, Velérie Trierweiler, di lavorare per un canale televisivo di proprietà del miliardario Vincent Bolloré. Nonostante quest’ultimo sia in effetti un personale amico di Sarkozy (tanto che dopo la vittoria alle presidenziali gli mise a disposizione il suo yacht nel Mediterraneo), il martellamento mediatico sembra aver funzionato, almeno nell’immediato. I sondaggi lo danno infatti in recupero rispetto ad un Hollande in leggero calo. L’ultimo sondaggio Ifop di ieri dava il presidente al 28% (+2) delle intenzioni di voto contro il 30,5 (-0,5) del favorito socialista (Hollande vincerebbe comunque il ballottaggio col 58% dei voti).
TASSE PROGRESSIVE
Ecco allora che la proposta di tassare al 75% i redditi superiori al miliardo annuo, è un mezzo per Hollande di riprendere in mano l’agenda e costringere la destra a difendere le élite. All’unisono i colonnelli dell’Ump sono partiti alla carica contro una misura «confiscatoria», di «spoliazione», mentre Sarkozy è venuto allo scoperto denunciandola come «una proposta amatoriale».
In realtà la misura di Hollande non ha niente di rivoluzionario. Nonostante le paure che l’Ump vuole evocare e strumentalizzare, tassare al 75% i più ricchi non vuol dire sottrarre loro 3/4 del reddito. In Francia la tassazione è progressiva e quel 75 è un tasso marginale, applicato cioè alla parte di reddito che eccede il miliardo. Negli anni Venti e nel dopoguerra in Francia si è già applicato un tasso marginale del 90%, rimasto oltre il 60 fino agli anni ’80. Alla fine, con il nuovo tasso d’imposizione del 45% oltre i 150mila euro già proposto da Hollande, e quello avanzato lunedì del 75, la tassazione media di un reddito eccedente il miliardo si piazzerebbe intorno al 48%. Si tratta di una tassazione che colpirebbe meno dell’1% dei francesi, tra i 7mila e le 30mila persone. Una riforma simbolica, che ha però il pregio di svelare chi sia veramente «il presidente dei ricchi».

Corriere della Sera 29.2.12
L’Hollande furioso che ridisegna l'Europa
di Massimo Nava


È probabile, come ha detto Mario Draghi, che il modello sociale europeo sia superato
o addirittura morto. Meno probabile che gli elettori europei, soprattutto gli strati popolari, siano rassegnati ad assistere alle esequie senza reazioni imprevedibili (se non addirittura pericolose) e senza intravedere un'alternativa che attualizzi gli ideali dei padri fondatori.

Lo si intuisce dalla Grecia in bancarotta alla stessa Germania in buona salute, ma lo si avvertirà con prepotenza nelle prossime settimane in Francia, dove la sfida per l'Eliseo assume caratteristiche di partita doppia: per i destini nazionali e per il futuro dell'Europa.
Come al tempo del trattato costituzionale, e come prima ancora all'epoca della vittoria di Mitterrand, la Francia diventa ancora una volta il catalizzatore emblematico di tensioni e speranze che percorrono il Vecchio Continente e, al tempo stesso, può innalzarsi a punto di riferimento di un nuovo inizio per altre democrazie europee.
François Hollande, candidato socialista alla successione di Sarkozy, al momento largamente favorito dai sondaggi, fa sapere di non volere ratificare il trattato fiscale, senza riaprire un negoziato che tenga conto di altri indici e priorità. È quindi un'evidenza il fatto che la probabile vittoria della sinistra francese possa influenzare prossime scadenze elettorali in altri Paesi europei e mettere in circolo una profonda riflessione sull'Europa di domani, attenta sì al rigore di bilancio, ma anche allo «spread» della sicurezza sociale, dell'equità, del benessere allargato, ovvero delle ragioni più condivise dell'Europa stessa.
Ed è in quest'ottica che le questioni europee sono entrate con forza nella campagna elettorale francese e possono influenzarne il risultato. Gli elettori hanno percepito che nessun programma e nessun candidato saranno credibili se proiettati esclusivamente in ambito nazionale, mentre è in Europa che si condizionano crescita, bilanci, scelte di una nazione.
In questa partita doppia, la strategia del candidato socialista è di difendere per quanto possibile le prerogative del modello sociale francese (dalle pensioni alle 35 ore) dimostrando che il necessario risanamento delle finanze pubbliche non passa per la riduzione delle prestazioni bensì per una grande riforma fiscale che colpisca i redditi più alti e la rendita finanziaria. La presunzione è che la ricetta francese sia domani esportabile.
Non pochi in Francia cominciano a temere fughe di capitali e a rivalutare il carisma e l'esperienza di Sarkozy sulla scena europea (che, peraltro, sono proprio i punti deboli di Hollande) ma i proclami di una campagna esasperata non vanno presi alla lettera.
Hollande cerca di rassicurare l'elettorato moderato, facendo sapere di non avere affatto l'intenzione di azzerare riforme dell'era Sarkozy, ma casomai di correggerne gli aspetti considerati più ingiusti, quali appunto i regali fiscali ai ricchi o i meccanismi per ottenere la pensione a tasso pieno. Se si legge il programma, si scopre che agli annunci «di sinistra» non corrispondono dettagli tecnici rivoluzionari.
Come in tutte le elezioni giocate sulla contrapposizione di due principali schieramenti, la regola d'oro è consolidare la propria parte e poi conquistare il centro dell'elettorato. Hollande è a metà dell'opera: la disastrosa campagna dei Verdi e il contenuto consenso della sinistra radicale non fanno temere imboscate nel proprio campo. Al contrario, Sarkozy deve tentare il recupero dell'elettorato di estrema destra per potere accarezzare la speranza di una rielezione. Un'estrema destra che è d'altra parte un ribollente deposito di euroscetticismo.
Al momento, i sondaggi dicono che lo scarto sia quasi incolmabile. Ma comunque vada, sarà questa emozionante primavera francese a condizionare lo spartito dell'Europa di domani.

Repubblica 29.2.12
Ha dedicato la sua vita a scovare i carnefici Ora la Klarsfeld si candida in Germania
La corsa di Beate l´incubo dei nazisti sogna la presidenza
di Andrea Tarquini


La cacciatrice di nazisti contro il dissidente che sfidava la Stasi: in una Germania spesso stabile in politica quasi fino alla noia, l´elezione del nuovo capo dello Stato si trasforma in un duello tra due personaggi a forti tinte. L´esito appare scontato: Joachim Gauck, pastore evangelico e attivista dei diritti umani nella Ddr, candidato della coalizione, ha anche al momento l´appoggio di Spd e Verdi. Ma per una volta la Linke - il partito di sinistra radicale - ha avuto un colpo di immaginazione politica. Contro la volontà del suo uomo forte Oskar Lafontaine, ha designato Beate Klarsfeld, un´eroina mondiale della caccia agli ultimi grandi responsabili dell´Olocausto ancora vivi e liberi, come sua candidata. È data per perdente, ma come candidato di bandiera è una rara idea geniale della Linke. Figura bipartisan di fama mondiale, premiata da Mitterrand con la Legion d´onore. A lei la Memoria delle vittime della Shoah e degli altri crimini nazisti deve la cattura di non pochi "zelanti" carnefici del Terzo Reich.
È anche un atto di coraggio, quello cui Beate Klarsfeld, schierata sempre per la difesa d´Israele e del suo diritto all´esistenza, si è decisa accettando la candidatura per un partito dove la simpatia per i palestinesi radicali e ogni tipo di regime arabo, democratico o meno, fa decisamente premio su quella (scarsa) per lo Stato ebraico. Forse è una sua nuova testimonianza. Da una vita, si batte contro l´oblio, contro chi in Germania e altrove chiede di "voltare pagina" e dimenticare.
Il destino la coglie di sorpresa da una vita, e chiama a scegliere. Dall´infanzia. Nata Beate Kuenzel nel febbraio 1939 a Berlino, poco prima che Hitler scatenasse una guerra, suo padre era un soldato della Wehrmacht. Crebbe senza sapere: oggi nelle scuole tedesche s´insegna tutto sull´Olocausto fin dall´asilo, nell´immediato dopoguerra non era così. Solo nel 1960, giovane au-pair a Parigi, seppe dell´Olocausto e dell´occupazione nazista di quasi tutta Europa. Lo shock divenne vocazione. «Per quei bambini finiti nelle camere a gas, per i resistenti torturati a morte, porto una responsabilità, anch´io che allora ero troppo piccola». La battaglia cominciò presto. Con poi a fianco il marito Serge Klarsfeld, ebreo romeno, sopravvissuto per miracolo alla deportazione: ci aveva pensato Alois Brunner a spedire suo papà ad Auschwitz insieme ad altri 140mila ebrei di tutta Europa.
Ancora oggi, per la Germania, Beate è un personaggio controverso. Qualcuno non le ha ancora perdonato lo schiaffo che mollò in pubblico nel 1968 all´allora cancelliere democristiano Kurt Georg Kiesinger: lei denunciava il passato di lui al servizio propaganda nella radio del Reich. Fu condannata a un anno di carcere, poi ridotto a 4 mesi. «Clemenza esemplare», sentenziò l´influente Frankfurter Allgemeine. Tre anni prima, Beate era stata cacciata su due piedi dal Deutsch-franzoesisches Jugendwerk, l´organizzazione per l´amicizia tra le gioventù tedesca e francese, per aver smascherato gli "errori di gioventù" di Kiesinger.
La sua battaglia per la Memoria è continuata un decennio dopo l´altro. Nell´agosto 1970, si fece espellere dal regime comunista polacco. Era andata a Varsavia a denunciare la brutale purga antisemita, l´espulsione dal paese degli ultimi ebrei sopravvissuti alla Shoah e dei loro discendenti, con cui il regime - e l´ala dura guidata dal generale della Sicurezza Mieczyslaw Moczar - aveva reagito al ‘68 polacco. Un ‘68 sbocciato di marzo, due mesi prima di quello francese, e guidato da democratici (Kuron, Modzelewski, Michnik) accusati di "cospirazione sionista". Un anno dopo, Beate e Serge cercarono invano di rapire Kurt Lischka, un boia che viveva tranquillo in Germania Ovest il viale del tramonto. Arrestati, poi liberati per l´ondata di proteste mondiale, ottennero anni dopo la condanna di Lischka.
La Odessa, l´organizzazione segreta dei nazisti alla macchia, tentò di ucciderli con bombe sotto la loro auto, ma non ci riuscì. Beate rischiò ancor più grosso in Siria: fu arrestata ed espulsa nel 1991. Era andata a Damasco per denunciare Alois Brunner, l´assassino del padre di Serge, divenuto fondatore della Gestapo di famiglia del clan degli Assad. Colse successi, da buona testarda: riuscì a far arrestare Klaus Barbie, il "boia di Lione" che aveva torturato a morte il capo militare delle Forces françaises de l´interieur (resistenza) Jean Moulin, cioè il comunista amico di de Gaulle. O Maurice Papon, superpoliziotto di Vichy riciclatosi nel dopoguerra. Adesso si prende il gusto di correre per la presidenza. Non per vincere, ma per chiedere di non dimenticare.

l’Unità 29.2.12
Giochini sull’eroico Gramsci
di Bruno Gravagnuolo


L’onore di Gramsci. Offeso da letture pruriginose, scandalistiche, inverosimili. Come nel caso del Gramsci di Lo Piparo, che sarebbe uscito dal comunismo e di cui il «carceriere» Togliatti avrebbe nascosto un Quaderno eretico (socialdemocratico!). O del giovane Gramsci «interventista», sul quale ha ricamato Veneziani, a partire (e fraintendendolo) da un saggio di Leonardo Rapone. Ecco ora la bufala del Gramsci «ravveduto», a firma di Dario Biocca su Nuova Storia Contemporanea. A cui dà spazio acritico Repubblica, senza se e senza ma! La prova del ravvedimento starebbe nell’istanza di Gramsci a Mussolini del 24 settembre 1934. Nella quale il prigioniero si appellava all’art. 176 del Codice Rocco che stabiliva i benefici della libertà condizionale per buona condotta e comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento.
Bene, il «ravvedimento» nel codice fascista esisteva solo a discrezione di chi concedeva il beneficio, e non richiedeva atti positivi e misurabili o auto-emendativi. Né impegni scritti. E la libertà condizionale non era diritto soggettivo, né possibilità espiativa, come nel Codice Zanardelli. E come sarà, in condizioni date, con la Legge 1634 del 1962, che emendava l’art. 176 del 1931. Bensì era una potestà del giudice, in coerenza con una concezione poliziesca, fondata su premi e punizioni. In tale frangente, e in preda a drammatiche condizioni di salute (emottisi, tubercolosi, arteriosclerosi e attacchi psicotici), Gramsci usa l’art. 176, adducendo altresì ragioni di salute, oltre all’implicita(e coatta) buona condotta carceraria: per por fine alla situazione di piantonato e poter sopravvivere. Respingendo tutte le pressioni e senza abiure. Solo con l’impegno a non far politica nell’ospedale di Formia... Nessun compromesso quindi: puro e lucido eroismo. Mentre vergava tra gli stenti quei dirompenti Quaderni...

Corriere della Sera 29.2.12
L'anticapitalismo all'italiana
Perché la crisi fa rivivere vecchi miti intellettuali che ora sono di moda in America
di Ernesto Galli della Loggia


Forse Roberto Esposito ha avuto un po' troppo fretta nel compiacersi (Il made in Italy della filosofia, «la Repubblica», 24 febbraio) della fortuna che da qualche tempo vanno mietendo in America l'Italian Theory — cioè l'opera di alcuni noti filosofi italiani: da Agamben, a Negri a Tronti, e non da ultimo allo stesso Esposito — e in qualche modo, per loro tramite, la tradizione intellettuale italiana.
Tale fortuna si dovrebbe, egli scrive, a tre elementi. Innanzi tutto alla naturale propensione del nostro pensiero — di quello antico così come di quello attuale — a ignorare i vincoli politico-statal-nazionali (per secoli, come si sa, non abbiamo avuto uno Stato nazionale); poi, alla sua tendenza a rompere gli steccati disciplinari, dando luogo viceversa a «un'inventiva semantica assente in altre culture irrigidite in ambiti specialistici»; e infine alla tensione polemica che il pensiero italiano avrebbe sempre avuto nei confronti del potere, ciò che spesso lo ha condotto a una «teoria della soggettività politica orientata al conflitto». Tutte cose che oggi negli Stati Uniti di «Occupy Wall Street» piacciono molto.
Ma che cos'è che piace davvero e di più dell'Italian Theory ce lo dicono forse le cose che sempre su «Repubblica» abbiamo letto di recente dello stesso Esposito (La mistica del capitalismo, 6 dicembre 2011) e, all'incirca sulla sua medesima linea, di Giorgio Agamben (Se la feroce religione del denaro divora il futuro, 16 febbraio 2012).
I titoli dicono già tutto. Il capitalismo, scrive Esposito, è ormai divenuto una vera e propria religione (parola di Benjamin, del 1921, cioè di circa un secolo fa: è sicuro che si tratti dello stesso capitalismo? Difficile pensarlo, ma sorvoliamo: le circostanze di tempo e di luogo sono, come si sa, ubbie fuori moda degli storici). La quale religione ci ha imposto un culto distruttivo: quello della merce, del consumo, raffigurato nel culto del brand, del marchio famoso. Poche righe sotto, per la verità, la nuova religione non è più quella del capitalismo ma quella del «capitale finanziario» (anche qui: forse sono cose alquanto diverse, ma non importa). La conclusione è un atto di fede nella politica, la sola forza capace di opporsi alla prospettiva del «mondo dentro il capitale», l'unica capace di contrastarne la «deriva autodissolutiva».
A ruota di Esposito, ma più spavaldamente e approssimativamente, Agamben. Il cui sfoggio di erudizione filologico-linguistica lo conduce alla straordinaria scoperta che «il capitalismo finanziario — e le banche che ne sono l'organo principale — funzionano giocando sul credito — cioè sulla fede (credito = fede) — degli uomini» (ma va?!). Proprio come — ecco il cuore della sua analisi — sulla fede funziona la religione. Insomma: fede = credito = futuro = religione. E dunque il credito governa il mondo e il nostro futuro; il potere finanziario ha sequestrato tutta la fede e tutto il futuro; il denaro, per l'appunto, è diventato «la più irrazionale di tutte le religioni».
Che dire? Innanzi tutto che in questi lacerti di Italian Theory applicata, chiamiamola così, riecheggia, mi pare, un suono assai antico. Lo stesso che si fa sentire puntualmente da 150 anni ogni volta che sopraggiunge una crisi economica: e cioè il suono dell'anticapitalismo. Nell'anticapitalismo, intendiamoci, non c'è niente di male. Ma a una condizione, direi: che esso stia ai fatti. Cioè che esso si misuri con i processi reali, metta il piede sul viscido terreno delle cause e degli effetti, che spinga il suo acuto sguardo fino a scorgere la vastità e la complessità delle forze in gioco. Troppo spesso invece, come in questo caso, l'anticapitalismo cui periodicamente amano dare voce i filosofi diviene l'esito ineluttabile di un'operazione totalmente astratta. E cioè l'esito di un processo di metaforizzazione etico-spirituale della realtà storica: quella metaforizzazione le cui prime grandi prove furono fornite tra Sette e Ottocento dall'idealismo tedesco riassumendosi nel nome esemplare di Hegel. L'idealismo, come si sa, è stato da tempo abbandonato, ma grazie a Marx quella metafora valoriale è scesa dal cielo della filosofia della storia a quello della lotta politico-ideologica. In tal modo essa si è resa e si rende disponibile a chiunque desideri dissociarsi dall'esistente (cioè dalla modernità), a chiunque voglia immaginare una posizione «antagonistica» — o, come anche ama dire Esposito, una «sporgenza» rispetto a tale modernità — e quindi auspichi sia pur fantasticamente un mondo nuovo e diverso da quello che c'è. Al tempo stesso sempre desiderando, però, di attribuire a questo atteggiarsi teorico-pratico un valore eticamente positivo: il che è possibile, come si capisce, solo se alla modernità vigente è attribuito un carattere intrinsecamente negativo o comunque difettivo. Infatti, una volta che siamo certi di aver smascherato il male che pervade la realtà, come dubitare che il nostro ragionare coglie la verità, e che noi siamo il bene? Da sempre l'anticapitalismo — cioè da due secoli la forma più diffusa di critica all'esistente — si regge su due gambe: l'esibita ambizione teorica e un (assai più sommesso ma non meno tenace) intento etico.
La critica all'esistente di Esposito e Agamben si manifesta oggi nella forma — se posso permettermi, non nuovissima — di una critica al consumismo, alla reificazione economicistica, alla deriva finanziaria, alla vera e propria religione distruttiva del dio denaro, che caratterizzerebbero il mondo capitalistico. Si tratta di fenomeni reali, non intendo negarlo. Ma il punto decisivo è che, astratti dal contesto in cui hanno visto la luce e operano, avulsi dalla storia (categoria sempre più tenuta in non cale, mi pare, dal discorso filosofico che solitamente si fa sulla modernità), quei fenomeni assumono un falso significato totalizzante e, presi di per sé, non ci aiutano per nulla a capire la situazione dell'epoca.
La quale, invece, prende tutto il suo senso vero e altamente drammatico solo se quei fenomeni vengono connessi con alcuni altri della scena storica. Mi limito ad accennare in forma apodittica tre solamente di tali connessioni, ognuna delle quali dà vita a un immane blocco di questioni.
Primo: il consumismo non è altro che il volto disetico della democrazia. Se esiste il suffragio universale, è inevitabile che il proprio voto venga adoperato dai più per ottenere sempre maggiori miglioramenti materiali. Cioè più reddito per acquistare più beni e servizi. Si potrà pure soddisfare tale richiesta ricorrendo a un'offerta di beni e di servizi di carattere, diciamo così, pubblico, ma solo in parte, per non restringere pericolosamente l'area della produzione e del mercato capitalistico dal momento che:
Secondo: il capitalismo si è dimostrato storicamente il sistema di combinazione dei fattori produttivi in grado di produrre al minor costo la maggiore quantità di beni e in una varietà la più ampia. Il che ha fatto sì che in una già vastissima area del mondo (che probabilmente tende ulteriormente ad aumentare) si sia stabilito un rapporto organico, un'intrinsichezza assoluta tra capitalismo e democrazia. Non tutti i Paesi con un'economia capitalistica sono democratici, ma tutti i Paesi democratici hanno un'economia capitalistica. Ciò implica che qualunque discorso sulla società, che parli di capitalismo senza parlare insieme di democrazia, risulti implausibile. Benjamin nel 1921 poteva non rendersene conto, ma noi oggi no.
Terzo: è in questo viluppo di fenomeni che la deprecata «religione del denaro» ha la sua vera ragion d'essere e la sua scaturigine. Così come in gran parte ce l'ha il ruolo soverchiante assunto dalla finanza. Da un lato, infatti, con la democrazia capitalistica tutte le persone e tutti i beni vengono immessi nel mercato dove domina il denaro, e dunque il denaro domina universalmente. Dall'altro lato nei regimi democratici governare significa in sostanza spendere, e quando le risorse a disposizione dei governi e degli Stati non sono più sufficienti non resta che ricorrere allo strumento finanziario del debito. Allo stesso modo i privati ricorrono al credito per mantenere o accrescere di continuo il proprio livello di consumi e di benessere.
Ma c'è una questione generale che in tema di «religione del capitalismo», «religione del denaro» e via seguitando è alquanto sorprendente non vedere per nulla affrontata dai nostri critici. È quella — ancora una volta eminentemente storica — della secolarizzazione. A me appare chiaro che se nel nostro mondo si è affermato il nuovo culto delle merci e del capitale, se tutto ha preso un tono di esasperato materialismo, ciò è avvenuto perché la vecchia religione cristiana ha progressivamente perso forza e autorità ed è stata messa ai margini della realtà sociale. Ma se ciò è vero, mi domando allora come si possa dare un giudizio etico così netto sulle forme del nuovo dominio «religioso» capitalistico, come danno Esposito e Agamben, senza esprimere contemporaneamente almeno una qualche valutazione circa il dominio antico, circa il ruolo sociale e spirituale del Cristianesimo nonché circa il significato del suo tramonto. E dunque come si possa evitare di pensare che il vero, grande problema irrisolto delle società democratiche sia precisamente quello della tendenziale dissoluzione di un abito etico comune. Non voglio pensare che ciò avvenga per il timore di contravvenire a qualche prescrizione dell'attuale mainstream «laico».
E vengo all'Italian Theory e alla sua fortuna americana da cui queste righe hanno preso le mosse. Per dire che forse le ragioni di tale fortuna vanno valutate in modo un po' più problematico di quanto abbia fatto, come ho detto all'inizio, Roberto Esposito. Egli sa meglio di me come da ormai mezzo secolo e oltre il mondo accademico degli Stati Uniti, in modo specialissimo quello delle humanities, sia bulimicamente affamato di «teorie» generali che gli permettano di leggere il mondo in modo per così dire «critico» e «antagonistico». Da Marcuse a Foucault, a Gramsci, a Derrida, a Lacan, a Toni Negri, nei campus americani è una caccia vorticosa e continua a sempre nuovi testi e ad autori esemplari, capaci di garantire che il mondo non è come appare, che esso nasconde chiavi di lettura ignote o non visibili ai più; che possedendo tali chiavi è magari possibile rovesciarne le regole; e insieme, e soprattutto, che chi ha il potere lo esercita, se non contro i più reali interessi delle maggioranze, comunque contraffacendo costantemente la verità. Verità di cui invece sono i naturali rappresentanti gli accademici abitatori delle torri d'avorio, cioè dei campus suddetti, destinati nel loro inesauribile radicalismo a cercare, senza mai trovarlo, il compenso alla percezione di una propria sottile ma non meno reale marginalità.
E allora ben venga anche l'Italian Theory, se serve a fornire nuovo combustibile al radicalismo dell'Ivy League. Come italiani non possiamo che rallegrarci che sia giunto anche il nostro turno. Ma allenati come pochi alle delusioni della storia, per favore non montiamoci la testa.

Corriere della Sera 29.2.12
Gli autori che hanno forgiato la coscienza dell'Occidente
Non bisogna idealizzare l'antichità, ma coglierne il vero insegnamento L'abitudine alla discussione critica è il presidio più valido della libertà
di Eva Cantarella


«I classici, ora — scriveva dieci anni fa Giuseppe Pontiggia — sono minacciati da un nemico che non li affronta. Li ignora». E aggiungeva: «C'è un aspetto della nuova battaglia contro i classici che delude, amareggia, scoraggia per la sua stupidità. Ed è la sua programmazione scolastica. L'appiattimento sul presente erode proprio alla radice l'obiettivo che la riforma vorrebbe: la formazione di una coscienza critica. E il dilapidare — noi che ne saremmo i beneficiari diretti — l'eredità classica, è una ignominia e uno spreco che nessuna nazione consapevole si permetterebbe». Difficile trovare qualcosa che esprima meglio le ragioni dell'importanza della collana di testi classici proposta dal «Corriere della Sera».
In un momento nel quale alla crisi economica si aggiunge — non meno grave — uno sbandamento dei valori e la necessità di ridefinirli per ritrovare il senso del vivere insieme, è importante leggere (o rileggere) i testi dei classici. Come infatti scriveva alcuni anni fa Arnaldo Momigliano, il più grande storico dell'antichità del secolo scorso, «là dove tutta la civiltà è minacciata la conoscenza delle radici della civiltà diventa essenziale».
Cosa questa, è bene chiarirlo subito, che non significa minimamente riproporre i valori classici come eterni e immutabili. Per troppo tempo così si è fatto, idealizzando un mondo, quello greco in particolare, visto come un modello atemporale di civiltà. I classici non sono un deposito di valori esemplari ai quali continuare ad attingere. Molti di quei valori sono oggi inaccettabili: i greci e i romani, per dire la cosa più nota e più ovvia, ritenevano gli schiavi naturalmente inferiori. «Strumenti animati», addirittura, per Aristotele, al cui peraltro indiscutibile genio si deve anche la teoria secondo la quale le donne non avevano il logos, la ragione privilegio dei maschi. Aristotele non ha incertezze: le donne, dice «non sono del tutto prive della capacità di deliberare, ma la possiedono senza autorità». Di qui la loro incapacità di controllare la loro parte concupiscibile, e la necessità di sottometterle per tutta la vita a un uomo, padre, marito, fratello o tutore che fosse: «Nella relazione del maschio verso la femmina — scrive il filosofo di Stagira — l'uno è per natura superiore, l'altra è comandata, ed è necessario che fra tutti gli uomini sia proprio in questo modo».
Superfluo dire delle conseguenze millenarie di questa teoria sulla vita delle donne. Ma come non ricordare, passando ad altro campo, il trattamento riservato a un altro gruppo di persone, i poveri pharmakoi? Miseri derelitti sociali, i pharmakoi erano mantenuti a spese pubbliche al solo scopo di essere messi crudelmente a morte quando, per evitare sciagure annunziate o temute, si riteneva necessario eliminarli per purificare la città. Anche la Grecia aveva i suoi lati oscuri. Ma oggi finalmente della sua grandissima civiltà, accanto agli enormi meriti e gli infiniti nostri debiti nei suoi confronti, si riconosce anche l'incommensurabile distanza che la separa da noi. Finalmente anche loro, i più amati e quindi i più mitizzati dei nostri più lontani antenati, sono stati restituiti alla storia. Ed è proprio grazie a questa distanza che i classici, tutti, sono più che mai importanti: perché abbiamo imparato a leggerli constatando sia la loro alterità, con le rotture che ne seguono, sia il legame di continuità che li unisce a noi. Una sorta di filo che a tratti riemerge, aiutandoci a ragionare su problemi che sia pur in forma diversa si ripropongono anche a noi.
L'Orestea di Eschilo, per limitarci a un esempio, è fondamentale per ripensare al passaggio dal mondo della vendetta allo Stato di diritto, e valutare i rischi del riemergere, oggi, di desideri di vendetta non di rado rivendicati come se fossero un'esigenza etica. I classici, insomma, non sono attuali perché danno risposte ai nostri problemi (come potrebbero, dalla loro siderale distanza?), ma perché inducono a ragionare su di essi. Si potrebbe anche dire di più: perché insegnano a ragionare, tout court.
Un esempio: nel Simposio di Platone un gruppo di ateniesi si riunisce per passare una serata bevendo, ascoltando musica e canti, e nel frattempo discutendo un tema di comune interesse. Nel caso di quel simposio, l'amore. E poiché alla serata partecipa anche Socrate, eccolo dar prova della sua proverbiale abilità maieutica: per insegnare, Socrate non dava soluzione ai problemi, non offriva verità. Interrogava e suscitava il dubbio, mettendo i suoi interlocutori di fronte a opinioni diverse dalle loro, e insegnando a trovare e proporre argomenti a favore delle proprie. La sua era un'educazione alla cittadinanza democratica. Atene garantiva a tutti i suoi cittadini la libertà di parola e il diritto a discutere le questioni di pubblica rilevanza, ma secondo Socrate (come gli fa dire Platone nell'Apologia) la polis era «un grande cavallo di razza, che proprio per la sua grandezza è un po' pigro, e ha bisogno di essere pungolato da un tafano». Per questo insegnava ai suoi concittadini a ragionare: per far vivere la democrazia. A questo serviva la sua filosofia e a questo dovrebbe servire l'educazione scolastica. Ma non sempre è così.
Ecco perché i classici, oggi, sono più che mai importanti: quando il primo obiettivo di un Paese diventa il benessere economico e di conseguenza il profitto viene anteposto alla cultura, la loro lettura contribuisce a formare la coscienza critica di cittadini capaci di valutare le idee degli altri, di discuterle e di sostenere le proprie con valide argomentazioni. Una collana come questa, che tra l'altro offre il testo nella lingua originale e nella traduzione italiana a fronte, ha anche il merito di essere accessibile a un pubblico molto ampio di lettori, offrendo loro il privilegio di accostarsi a capolavori insuperati della letteratura mondiale. Una volta entrati a far parte del patrimonio interiore di chi li ha incontrati, i classici sono (per dirla con Tucidide) uno ktema es aiei: «un possesso per sempre», una ricchezza che nessuna crisi potrà mai dilapidare.

Corriere della Sera 29.2.12
Leggere può cambiare la vita: la preziosa inutilità di libri che alimentano la speranza
Quelle opere sono per noi come l'acqua per i pesci
di Nuccio Ordine


L' incontro con un classico può provocare una metamorfosi o, addirittura, può cambiare la vita. Basta scorrere le biografie o le autobiografie di scrittori e di filosofi, di poeti e di scienziati per trovarne testimonianza. Non si tratta però di un'esperienza riservata solo a persone eccezionali. La lettura di una poesia o di un romanzo può incidere segni profondi in qualsiasi lettore appassionato, pronto a lasciarsi infiammare dalle scintille che si sprigionano nel dialogo con un testo letterario o filosofico.
La lodevole iniziativa del «Corriere della Sera», di riproporre per un vasto pubblico una serie di testi latini e greci, si colloca in un momento difficile per la sopravvivenza dei classici. Negli ultimi decenni, purtroppo, gloriose collane hanno chiuso i battenti: si pensi, solo per fare qualche esempio, ai preziosi volumi della Ricciardi e della Utet, degli Scrittori d'Italia Laterza e dei classici Mondadori. Senza contare che, molto spesso, le opere esaurite di grandi autori non vengono più ristampate. Il mercato editoriale, invece, privilegia ormai la cosiddetta letteratura secondaria. La moltiplicazione dei manuali, dei bignamini, dei commenti, dei riassunti, delle antologie provoca un pericoloso paradosso: gli studenti, nelle scuole e nelle università, sentono parlare di opere che non hanno mai letto per intero o, nel peggiore dei casi, che non hanno mai avuto tra le mani. Sarà difficile, in questo contesto, che un amore improvviso possa nascere per Dante o per Lucrezio, per Cervantes o per Shakespeare.
Ma c'è di più. Assistiamo da decenni, come ha recentemente ricordato anche la filosofa americana Martha Nussbaum, al progressivo depotenziamento di tutte le discipline umanistiche che, su scala planetaria, vengono considerate «inutili», vengono marginalizzate non solo nei programmi scolastici, ma soprattutto nelle voci dei bilanci statali e nelle risorse di enti privati e di fondazioni. Perché impegnare denaro in un ambito condannato a non produrre profitto? Perché destinare fondi a saperi che non apportano una rapida e tangibile utilità economica?
All'interno di questo contesto, fondato esclusivamente sulla necessità di pesare e misurare in base a criteri che privilegiano la quantitas, la letteratura e i classici (ma lo stesso discorso potrebbe valere per altri saperi umanistici) possono invece assumere una funzione fondamentale, importantissima: proprio il loro essere immuni da qualsiasi aspirazione al profitto potrebbe porsi, di per sé, come forma di resistenza agli egoismi del presente, come antidoto alla dittatura dell'utilitarismo che è arrivata perfino a corrompere le nostre relazioni sociali e i nostri affetti più intimi. L'esistenza stessa della letteratura e dei classici, infatti, richiama l'attenzione sulla «gratuità» e sul «disinteresse», valori ormai considerati controcorrente e fuori moda.
A questo proposito mi sembra illuminante un passaggio di un discorso che David Foster Wallace tenne il 21 maggio del 2005 ai laureandi di Kenyon College, negli Stati Uniti. Lo scrittore — morto nel 2008, a 46 anni — si rivolge agli studenti raccontando una breve storiella che riesce a esemplificare in maniera egregia il ruolo e la funzione della cultura umanistica. Foster Wallace immagina l'incontro in un acquario tra due pesci giovani e un pesce anziano. Quest'ultimo rivolge una domanda ai suoi casuali interlocutori: «Salve, ragazzi. Com'è l'acqua?». «I due pesci giovani — scrive Foster Wallace — nuotano un altro po', poi uno guarda l'altro e fa: Che cavolo è l'acqua?».
È lo stesso Foster Wallace a fornirci la chiave di lettura del suo racconto: «Il succo della storiella dei pesci — spiega lo scrittore americano — è semplicemente che le realtà più ovvie, onnipresenti e importanti sono spesso le più difficili da capire e da discutere». Come i due pesci più giovani, noi non ci rendiamo conto di che cosa sia veramente l'«acqua» nella quale viviamo ogni minuto della nostra esistenza. Non ci rendiamo conto, infatti, che la letteratura e i saperi umanistici, che la cultura e l'insegnamento costituiscono il liquido amniotico ideale in cui le idee di democrazia, di libertà, di uguaglianza, di diritto alla critica, di laicità, di giustizia, di tolleranza, di solidarietà, di bene comune, possono trovare un vigoroso sviluppo.
L'elogio dell'utile inutilità della letteratura e dei classici non deve però trarre in inganno. Non si tratta di ricreare la contrapposizione tra saperi umanistici e saperi scientifici. Al contrario: nella consapevolezza dei distinti ruoli, anche la scienza ha occupato e occupa un posto importante nella battaglia contro le leggi del mercato e del guadagno. È risaputo come da lavori scientifici considerati apparentemente inutili, non finalizzati cioè a un preciso scopo pratico, sia poi derivata un'inattesa utilità. Sarebbero state impensabili le invenzioni di Guglielmo Marconi senza gli studi sulle onde elettromagnetiche di James Clerk Maxwell e di Heinrich Rudolf Hertz: studi ispirati esclusivamente dal bisogno di soddisfare curiosità teoriche. Del resto, come ha suggerito egregiamente Abraham Flexner, scienziati del calibro di Galileo, di Bacone o di Newton hanno coltivato le loro curiosità, producendo grandi rivoluzioni, senza essere ossessionati dall'utile e dal profitto.
Certo, anche i classici — lo ricordava Italo Calvino — non si leggono perché debbono servire a qualcosa: si leggono solo per la gioia di leggerli, per l'esclusivo desiderio di conoscere. A tal proposito, lo scrittore romeno Emile Cioran — ispirato probabilmente dall'Apologia e dal Simposio: due opere di Platone presenti nella collana del «Corriere della Sera» — racconta che Socrate, mentre gli preparavano la cicuta, si esercitava sul flauto per imparare un'aria. E alla domanda «A cosa ti servirà?», il filosofo impassibile risponde: «A sapere quest'aria prima di morire». Ma — nonostante la consapevolezza che qualsiasi creazione letteraria o artistica non è legata a un fine — non c'è dubbio che, nell'inverno della coscienza che stiamo vivendo, alla letteratura e ai saperi umanistici, a quei lussi ritenuti inutili, spetti sempre più il compito di alimentare la speranza, di trasformare la loro inutilità in un utilissimo strumento di opposizione alla barbarie del presente, in un immenso granaio dove preservare la memoria e quegli avvenimenti ingiustamente destinati all'oblio.

La Stampa 29.2.12
Hobbes e il governo tecnico
di Massimiliano Panarari


In Italia si respira aria di Hobbes Renaissance. A partire dagli scaffali delle librerie, dove si moltiplicano i volumi sul teorico dello Stato assoluto (o direttamente suoi). Come Sul Leviatano (il Mulino) di uno dei suoi massimi esegeti novecenteschi, Carl Schmitt, o la nuova edizione di quell’opera monumentale e fondamentale curata da Carlo Galli per i tipi di Rizzoli. E come Ragione e retorica nella filosofia di Hobbes, appena uscito da Cortina, saggio ponderoso (e assai importante) scritto qualche anno fa da un famoso storico britannico del pensiero rinascimentale, Quentin Skinner, che ne ha rivoluzionato l’interpretazione.
Sostiene Skinner che sono esistiti, di fatto, due Hobbes. Quello degli Elementi di legge naturale e politica (1640) e del De cive (1642), che, rigettando la propria formazione classica, aveva voluto fondare una «scienza della politica» sulle orme della geometria di Euclide e del meccanicismo. E quello del Leviatano (1651), nel quale compie una sorta di marcia indietro, recuperando l’umanesimo e le strategie della retorica, e ponendo l’accento sulla negoziazione e il dialogo come strumenti principe per la risoluzione dei problemi politici. E così, guardando con gli occhi dell’oggi, l’ermeneutica «da sinistra» del grande filosofo politico inglese si arricchisce di una nuova chiave interpretativa.
Non soltanto, dunque, il preoccupato indagatore del fondo intrinsecamente cinico e, in definitiva, malvagio della natura umana contrapposto all’ottimismo «senza se e senza ma» che nutrono in materia i discepoli e i figliocci di Rousseau. E neppure solo la bandiera della sinistra del realismo politico in guerra con il sovreccitato spinozismo di Toni Negri e di tutto un filone di pensiero già no global e ora indignato (senza dimenticare, però, gli anatemi che proprio il filosofo seicentesco scagliava nei confronti di chi intendeva la politica senza la dovuta tensione morale). Ma anche, trasponendo (e forzando un po’) il rigoroso lavoro filologico skinneriano ai giorni nostri, un Thomas Hobbes da governo tecnico, alfiere del modello deduttivo e della politica come governance .

Corriere della Sera 29.2.12
Girardi, un teologo nel Sessantotto
di Dario Fertilio


C i fu un tempo, durante il Sessantotto, in cui molti cattolici immaginarono di poter svolgere un ruolo autonomo significativo — allora si diceva «d'avanguardia» — all'interno del movimento di contestazione. Furono anni a forte tasso utopico, in cui la Croce veniva sventolata al fianco della Falce e Martello, e la «teologia della liberazione» sembrò una concorrente credibile dell'ideologia marxista. C'era un gran bisogno di modelli religiosi e insieme rivoluzionari, in quegli anni: come quello del prete colombiano Camilo Torres, caduto durante un'azione di guerriglia; e come, in tutt'altro contesto, quello offerto da Giulio Girardi, sacerdote salesiano, filosofo e teologo. Proprio lui, tra i fondatori della «teologia della liberazione» e promotore del movimento Cristiani per il Socialismo, è pianto oggi dai suoi amici e seguaci dopo la scomparsa a 86 anni.
Una vita vissuta avventurosamente, quella di padre Girardi, perito del Concilio Vaticano II in qualità di esperto del marxismo e dell'ateismo contemporaneo, poi espulso nel '69 dall'Università Salesiana di Roma in seguito a «divergenze ideologiche», per aver sostenuto la necessità di una collaborazione stretta tra marxisti e cattolici. In tempi che sembravano ormai all'insegna dell'eurocomunismo e del compromesso storico, Giulio Girardi apparve un profeta; salvo che, arrivato troppo in anticipo, dovette pagarne il prezzo: espulso da vari atenei religiosi, poi dalla congregazione salesiana e, infine, sospeso a divinis. Tutto ciò non lo indusse a ritrattazioni né a compromessi: i suoi numerosi libri (uno per tutti: Cristianesimo, liberazione umana, lotta di classe) si mossero sempre nello stesso solco, benché il terreno fosse minato. Anche l'Europa cominciò a sembrargli stretta: collaborò con il movimento sandinista in Nicaragua, divenne membro del Tribunale Russell sull'America Latina, finì addirittura col frequentare gli ambienti del regime cubano. Le dure repliche della storia non hanno confermato le sue teorie, ma nessuno — anche fra i suoi avversari — gli ha mai rimproverato l'incoerenza.

Repubblica 29.2.12
Perché le nuove regole sulla ricerca rischiano di penalizzarla
Cultura umanistica bene da proteggere
Sia i criteri di valutazione e che quelli per i fondi sono modellati sui lavori scientifici
di Agostino Giovagnoli


Sulle sorti della cultura umanistica In Italia – dalla letteratura alla filologia, dalla storia alla filosofia, dall´arte all´archeologia - si è aperta una discussione sempre più accesa. Dubbi e interrogativi sono stati suscitati da una serie di questioni specifiche, ciascuna in sé di portata limitata, ma che nell´insieme sembrano indicare una chiara linea di tendenza: una netta preferenza per le "scienze dure" a danno della cultura umanistica.
Per la guida dell´ANVUR ad esempio – la nuova Agenzia nazionale per la valutazione della ricerca – il ministro Gelmini ha scelto sei esperti su sette nei settori tecnico-scientifici e una sola studiosa che si avvicina agli altri saperi. Ma la valutazione di un testo filosofico, di una narrazione letteraria o di una ricostruzione storica, in cui la densità del linguaggio costituisce a volte un elemento cruciale, è profondamente diversa da quella di un articolo scientifico in cui contano soprattutto l´informazione sul procedimento seguito e l´indicazione quantitativa dei risultati raggiunti esposte nell´inglese della comunità scientifica internazionale.
Intorno ai metodi di valutazione è partita, perciò, una vasta mobilitazione nel timore che fosse adottata per tutti un´impostazione modellata sui prodotti scientifici (come criteri bibliometrici, metodi quantitativi ecc). Ciò non ha impedito che alla fine risultasse impossibile eliminare un´equiparazione tra articoli su riviste e volumi monografici che gli umanisti considerano penalizzante. Non si può certo parlare di ostilità preconcetta verso gli studi umanistici da parte dei membri dell´ANVUR che, anzi, mostrano attenzione e rispetto per tali studi, come emerge dall´intervista, di qualche settimana fa, a Repubblica di Sergio Benedetto. Ma la loro buona volontà potrebbe non bastare.
La tendenza a privilegiare i settori tecnico-scientifici, infatti, è sempre più diffusa, come conferma anche l´orientamento dei finanziamenti nazionali per la ricerca. I bandi PRIN e FIRB di quest´anno, ad esempio, prevedono condizioni adatte soprattutto alle discipline scientifiche e rinviano a priorità europee modellate nello stesso senso. Privilegiando i gruppi di lavoro più numerosi e le ricerche più onerose, si penalizzano studi umanistici che raggiungono spesso l´eccellenza grazie a piccoli gruppi e senza grandi attrezzature. Più adatto ai settori scientifici appare anche il nuovo regolamento dei dottorati di ricerca, che obbliga più università a consorziarsi tra loro, ad impegnare un alto numero di docenti e trovare ingenti risorse finanziarie. Tendenze simili, infine, sono emerse anche nel recente dibattito sull´abolizione del valore legale del titolo di studio, segnato da una certa passione ideologica e poco attento ai legami tra i nostri atenei e il sistema universitario europeo.
Nelle resistenze ai cambiamenti si nascondono sempre una certa nostalgia per i bei tempi passati, che in realtà tanto belli non erano, e la paura di misurarsi con le sfide della storia o, quantomeno, con le urgenze del confronto internazionale. È pienamente comprensibile che si punti oggi sulla ricerca tecnico-scientifica per accrescere la competitività del sistema-Italia, mentre è giusto sottoporre a valutazione l´operato, ad esempio, di filologi romanzi o filosofi morali come si fa per ingegneri elettronici o chirurghi cardiovascolari.
Non c´è dubbio, inoltre, che si debba puntare di più su competenze e meriti anche nell´impiego di laureati in lettere o in giurisprudenza all´interno della pubblica amministrazione. Non ha senso, però, perseguire questi obiettivi penalizzando altri saperi che per sopravvivere non hanno bisogno di ingenti mezzi ma solo di maggiore attenzione.
Anche la cultura umanistica, infatti, ha legami profondi con il sistema paese che sarebbe rischioso recidere. Stiamo parlando di un vastissimo patrimonio, di un´eredità plurimillenaria, della sostanza profonda di ciò che chiamiamo Europa ed Italia. In tutti i paesi occidentali è noto che senza le humanities è difficile avere buoni cittadini e senza le tradizioni dell´umanesimo laico e di quello religioso non si sarebbe mai formata un´identità italiana. La poesia e la letteratura, la storia e la geografia, la filosofia e l´arte e tanti altri saperi - che solo un giudizio superficiale può ritenere "inutili" - nascono e fioriscono anche in luoghi diversi da quelli accademici, ma beneficiano della ricerca e dell´insegnamento universitari più di studi tecnico-scientifici sostenuti dall´industria privata.
È perciò necessario rilanciare anche la cultura non riconducibile alle "scienze dure" e monitorare in questo senso la ristrutturazione del sistema universitario avviata dalla riforma del 2010. Nel complesso, malgrado perplessità e resistenze, il mondo degli studi umanistici sta accettando la sfida della valutazione della ricerca, con la speranza che la serietà e il rigore possano aiutare il rilancio di una tradizione culturale tanto importante in Italia. Sarebbe un danno per tutti se questa speranza venisse delusa.

Repubblica 29.2.12
Giorgio Bocca
La passione e le storie del cronista-partigiano
La capacità straordinaria di suscitare sentimenti forti nei lettori
di Piero Colaprico


Intere generazioni di giornalisti sono cresciute leggendo gli articoli di Giorgio Bocca. Certo, anche intere generazioni di lettori. Ma il fatto è che, per chi faceva e fa informazione, quella firma, sopra un punto di vista e una rubrica, un resoconto, un´inchiesta, obbligava a fermarsi, a leggere «attacchi» entrati nella leggenda: «Mi volto e vedo Eichmann», oppure «Vigevano, soldi per fare soldi per fare soldi». E ognuno ha il suo. Persino durante il funerale, nella via San Vittore che come dice la canzone «l´è tutta sassi», c´era chi ricordava l´inchiesta sui computer negli anni Ottanta, i servizi sul terremoto del Friuli nel ´76, o le periferie milanesi nel ´91, quando a settant´anni passati Bocca si rimette in marcia come cronista, attraversando quella che chiamerà la "barriera corallina" della periferia.
Lasciando perdere se fossero positivi o negativi, Bocca suscitava nei lettori e nei giornalisti sentimenti, questa la sua grande forza. E talvolta risentimenti. Ma nessuno poteva e potrà mai accusarlo di aver tratto profitto da qualche cosa che non fosse giornalismo, non fosse la passione di dire le cose come stavano, o come gli pareva che stessero. Racchiudere in un libro un uomo simile, che fa il partigiano e finita la guerra comincia il «mestiere di scrivere correndo», che è quello dell´inviato speciale, e finisce di scrivere quando la malattia incombe, a 91 anni, sarebbe sbagliato, e minimalista in ogni caso. Meglio sorvolare a bassa quota l´enorme lavoro di Bocca, entrato a Repubblica dal primo numero, nel gennaio del 1976. E suggerire quel "qualcosa" che faceva fermare noi giornalisti quando leggevano quella firma. C´è la sua prima inchiesta, «come un giudice istruttore», sulla morte della vecchia fabbrica Innocenti. La storia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che gli dette una clamorosa intervista, poco prima di essere ammazzato da Cosa Nostra. Le catastrofi e gli eccidi, con alcune pagine sul terrorismo capaci, ancora oggi, di non subire l´influenza del tempo trascorso. Ci sono una piccola vicenda di "nera" e alcune delle sue inchieste in giro per l´Italia. Ma anche pagine in cui Bocca fa sorridere parlando della barca a vela e della vita in famiglia. O regala intuizioni sorprendenti, come quando racconta di aver giocato a pallone con Giuseppe Meazza, a Cuneo, o rilegge la morte del ciclista Marco Pantani.
Oggi, grazie a questo libro, è facile rendersi conto che Giorgio Bocca manteneva una qualità di scrittura efficace, potente, rara, nel grande affresco come nella rubrica di quaranta righe. Al lettore può sembrare di essere a Palermo, quando «le vele palpitano» mentre il prefetto Dalla Chiesa fa capire che lui, e la giovane moglie, hanno messo nel conto la morte violenta. Oppure, seguendo Bocca quando intervista il Berlusconi imprenditore, lo analizza poi come presidente del Milan, infine ne segue l´avventura politica, riappare quel giornalismo che sa mescolare l´esperienza con la curiosità, il disincanto con l´ascolto. Rileggere Bocca, insomma, è come respirare nel giornalismo l´aria di montagna, quelle che ha descritto – anche in queste pagine – e quelle dove, defunto, è tornato a dimorare. Aria che sa d´aria, e mai di fritto.

Repubblica 29.2.12
I maestri dalla penna nera
Quando la stampa italiana si convertì al fascismo
di simonetta Fiori


Un saggio raccoglie quel che nomi e firme celebri, da Piovene ad Alvaro, scrissero sui giornali prima del 1943
Il lavoro è stato fatto da un giovane storico che ha utilizzato documenti e testi sulle orme di Zangrandi e Forcella
Molti di loro, dopo la caduta del regime, ebbero una parte importante nel dare un´immagine indulgente dell’epoca

Esce da Carocci un saggio che per la prima volta approfondisce il rapporto tra giornalisti italiani e regime fascista, e la loro transizione al postfascismo, rovesciando la memorialistica autoassolutoria di quei padri nobili. Un volume serio e documentato che senza accenti scandalistici ci mostra quanta parte ebbero le grandi firme nella "defascistizzazione del fascismo", ossia nella rappresentazione banalizzante e indulgente del ventennio nero finalizzata ad annacquare non solo il carattere della dittatura ma anche le responsabilità dei nuovi professionisti delle comunicazioni di massa.
L´autore di Giornalisti di regime (pagg. 278, euro 23) è un giovane allievo di Emilio Gentile, Pierluigi Allotti, che sulle tracce di Ruggero Zangrandi e soprattutto di Enzo Forcella ci fornisce una fotografia dei nostri avi che non è una campionatura luminosa di figure epiche ma il conturbante ritratto d´una categoria pronta a mettere il proprio talento al servizio di Mussolini, per distaccarsene solo davanti all´esito catastrofico della guerra. Prìncipi della penna fulminei nell´indossare la camicia nera, ma nel dopoguerra operosi e indenni sulle prime pagine della stampa indipendente. Per raccontarci come il fascismo fosse stato un regime da operetta.
Attori principali di questo saggio sono i giornalisti di due generazioni, quella dei nati intorno al 1890 e la classe del 1910, ossia la leva dei "padri" e dei "fratelli maggiori" che scelsero di continuare a primeggiare sui giornali - oppure di esordire nel mestiere - nel pieno del fascismo. Giornalisti, dunque, che avevano l´età e gli strumenti per comprendere la natura illiberale del regime in cui vollero - e seppero - diventare firme da prima pagina. Nel primo gruppo sfilano personalità come Mario Missiroli e Giovanni Ansaldo, Paolo Monelli e Augusto Guerriero. Nel secondo ci imbattiamo nelle penne di Vittorio Gorresio e Indro Montanelli, Guido Piovene e Luigi Barzini junior, Vitaliano Brancati e Dino Buzzati. Mancano in questa ricognizione sulla carta stampata dell´epoca - e può sorprendere - i nomi di Mario Pannunzio ed Arrigo Benedetti, esclusi da Allotti perché artefici di settimanali e non "opinion makers" dei grandi quotidiani. Scelta un po´ arbitraria perché anche rotocalchi come Oggi contribuirono a fare opinione. E fu per anticonformismo che Mussolini ne decretò la morte nel gennaio del 1942.
L´inclusione di Oggi ed anche di altre testate avrebbe fatto fare miglior figura alla famiglia del giornalismo italiano. Una brigata di talentuosi che - salvo alcune eccezioni, da Mario Borsa a Luigi Albertini, da Alfredo Frassati ad Alberto Bergamini e Mario Vinciguerra - di fronte all´avanzata del fascismo «quasi si compiacque di perdere la propria indipendenza», come sintetizza Aldo Valori, all´epoca capo della redazione romana del Corriere della Sera. In qualche caso il cambio di bandiera fu clamoroso. Corrado Alvaro, firmatario del manifesto di Croce, avrebbe celebrato la bonifica dell´Agro Pontino «come un simbolo della rigenerazione nazionale promossa dal fascismo». E il critico Emilio Cecchi, anche lui partito da posizioni antifasciste, durante la campagna razziale tra l´estate e l´autunno del 1938, scrisse sul Corriere una serie di articoli dagli Stati Uniti per dimostrare come "razzismo" e "antisemitismo" fossero giustificatamente presenti nella società americana.
Quella contro gli ebrei fu una delle pagine in cui il giornalismo italiano - e la quasi totalità dell´élite intellettuale - diede il peggio di sé. Giovanni Ansaldo, nell´autunno del 1938, produsse veementi articoli contro "l´ebreo Morghentau" (Segretario al Tesoro degli Stati Uniti), accusato di aver ereditato "la cupidigia esosa di generazioni di strozzini". E Mario Missiroli, il "grande mago del giornalismo italiano", accolse con grandi plausi sul Messaggero la bibbia dell´antisemitismo Contra Judaeos di Telesio Interlandi, spalleggiato dal concorrente Guido Piovene che sul Corriere della Sera tesse le lodi dell´orribile summa, riconoscendole il merito di essere "il miglior libro uscito sull´argomento". Anche un inviato leggendario quale Paolo Monelli - stimato dai colleghi per cultura e rigore - nella primavera del 1939 si distinse per una corrispondenza da Varsavia impregnata di giudizi antiebraici. Singolare cedimento per un giornalista che in precedenza aveva dato mostra di non condividere la campagna antisemita.
Ma il terreno in cui "i militi della carta stampata" - così li celebrava il duce - poterono agitare il turibolo con maggiore plasticità furono le imprese belliche del fascismo. Prima in Etiopia, poi in Spagna, più tardi nel Mediterraneo, nei Balcani e in Africa settentrionale, infine in Russia. I protagonisti di queste guerre furono i giornalisti arruolati nei vari reparti. Nel 1935 partirono volontari due direttori, Aldo Borelli del Corriere della Sera e Francesco Malgeri del Messaggero. Gli inviati Barzini junior e Alfio Russo celebrarono in ampie corrispondenze le prime brillanti vittorie degli italiani, ritratti come "virtuosi colonizzatori" di un popolo sostanzialmente troglodita. L´arte dell´epinicio fu affinata in Spagna, dove i giornalisti - in mancanza di pagine gloriose da raccontare - venivano sollecitati a esercitare la propria fantasia. Se l´inviato del Corriere Achille Benedetti si limita a ignorare la sconfitta di Guadalajara, Barzini senjor sul Popolo d´Italia fa molto di più, incensando la drammatica avventura dell´eroico legionario che resiste al contrattacco nemico nascondendosi per tre giorni in una botte. L´inventiva di Barzini, nutrita di letture classiche, procura un attacco di allergia al direttore del Corriere, che mortifica il suo cronista facendogli recapitare sul fronte "il bellissimo scritto" della concorrenza. Ma nel descrivere i nemici repubblicani come "combattenti pavidi", "capaci delle peggiori brutalità", si distinsero altre due firme, quelle di Indro Montanelli e Guido Piovene, assai efficaci nell´esaltare le imprese dei legionari italiani contro autentici "criminali dalle facce bestiali". Seppure con qualche insofferenza, l´intonazione non muterà nel corso del secondo conflitto mondiale.
La parte più interessante del saggio riguarda ciò che accadde all´indomani del crollo del regime fascista, nell´estate del 1943. Con la medesima disinvoltura con cui era traslocata dall´antifascismo al fascismo, l´élite giornalistica italiana cominciò a fare il percorso inverso. All´esame di coscienza si preferisce la scorciatoia della colpa collettiva. Allotti indica come esemplare il caso di Monelli. Per le sue compromissioni con il regime, il nuovo direttore del Corriere della Sera Ettore Janni, subentrato dopo il 25 luglio, gli chiede con garbo una temporanea sospensione nella collaborazione. Monelli non la prende bene. «E i colleghi che hanno divinizzato uomini e fatti del regime? E i redattori ligi agli ordini di Roma che bocciavano o castravano o lardellavano di aggettivi le mie corrispondenze?». Le sue responsabilità, rispetto al servilismo diffuso, gli paiono poca cosa. Lo stesso genere di argomenti ricorre nell´autodifesa di tante firme illustri. Un´autoassoluzione granitica, che non ammette crepe.
Molti di loro avrebbero presto riconquistato le prime pagine della stampa libera, confluendo in larga parte in una zona politica di moderatismo prossima alla Democrazia Cristiana. E poi la memorialistica. Da Piovene a Montanelli, definito "il giornalista che più contribuì alla defascistizzazione del fascismo", fu tutt´un proliferare di testimonianze indulgenti che fecero calare il sipario sulle compromissioni di "padri" e "fratelli maggiori". La rimozione è destinata a segnare parte delle generazioni successive, quella viziata da "una concezione del potere politico" - lo rilevò Forcella - come qualcosa di "ineluttabile" e "pericoloso", verso il quale è consigliabile la remissività. Una distorsione che - se colpisce ma è interpretabile sotto una dittatura - in democrazia appare ancora meno tollerabile.

Repubblica 29.2.12
Sabina, la vendetta
"Non solo satira voglio svegliare il pubblico tv"
di Giuseppe Videtti


A nove anni da "Raiot" la Guzzanti il 14 marzo su La7 con il nuovo show
L´idea stessa del governo tecnico merita un discorso satirico e critico. Per eventuali parodie c´è solo l´imbarazzo della scelta

Meglio non guardarla negli occhi. Troppo grandi, ti spiazzano. Parli dell´Annunziata, sono strabici; alludi alla Palombelli, ammiccano; tiri in ballo il Cavaliere, scagliano dardi; ricordi Moana Pozzi, sguardo dolce e seducente. «Già, tornerà anche Moana, parlerà dal paradiso. Ormai beata, dispenserà perle di erotica saggezza da un´altalena di fiori tra le nuvole», dice Sabina Guzzanti, arrivata negli Studios di Via Tiburtina, a Roma, per ambientarsi nello spazio (ancora in allestimento) che per otto settimane, a partire da mercoledì 14 marzo, diventerà il teatro di Un due tre stella, la sua rentrée televisiva che La 7 trasmetterà in prima serata - a nove anni dalla brusca interruzione di Raiot, censurato dalla Rai dopo il debutto. L´atmosfera è quella del teatro Valle occupato, ma con molte macerie in più. Sulla sinistra una dj carismatica, Lady Coco, al centro un albero di sette metri che squarcia la struttura, sulla destra un gruppo di attori in assemblea permanente, sulle gradinate il pubblico.
«Non sarà un Sabina Guzzanti Show», precisa subito l´artista, 48 anni, look dinamico, motivazioni di ferro per ripartire dopo il grande freddo. «Ci sarà una fiction in otto puntate, La Banca della Magliana, con gli attori di Romanzo criminale impegnati nella parodia. Ci saranno anche Nino Frassica, che ho sempre trovato un comico formidabile, mia sorella Caterina e giovani attori che ho scovato nei teatri occupati. Il tentativo sarà quello di ristabilire i principi del dibattito; un elemento fondamentale della democrazia, perché è dal dibattito che ci facciamo le opinioni, soprattutto in tv».
Chi parteciperà al dibattito?
«Ci stiamo lavorando, non è facile convincere i politici a discutere con noi in questi termini. La regola ferrea è: vietato interrompere, vietato divagare dal tema, niente comizi elettorali o spot pubblicitari. Abbiamo già incassato un sacco di no. Meglio così, i politici sono spesso impreparati. Sulla democrazia mi piacerebbe far parlare D´Alema, che ha già detto no. Eventualmente lo farò io, che mi viene anche bene. Ci saranno personaggi nuovi, uno in particolare che ho messo a punto quando pensavo di andarmene dall´Italia…».
Dove? In India? Lei è notoriamente buddista.
«No, in America. Mi avevano offerto di lavorare lì, fare dei film… sa queste cose che capitano».
Non a tutti, non tutti i giorni.
«Beh a me è capitato e non ho accettato, perché in fondo ho uno spirito patriottico. Ma c´è stato un momento in cui stavo per trasferirmi, e avevo preparato un personaggio da presentare in uno di quei Comedy Club newyorkesi, una presa in giro degli americani. La tentazione di scomparire c´è sempre. Il sistema mediatico di fare politica alimenta calunnie, insulti infondati, campagne denigratorie: questo per chi non fa politica è pesante. Sono una persona normale, non mi fa certo piacere leggere che sono una pazza isterica indemoniata. E´ una violenza, imparare a conviverci e reagire non è facile».
L´assenza di Berlusconi rischia di rendere la satira meno graffiante?
«Su di lui ho detto tutto quello che si poteva dire. Per anni abbiamo commentato le sue affermazioni violente, assurde e false; altro che satira, il nostro lavoro si era ridotto a spalare m...».
Prenderà di mira il governo Monti?
«L´idea stessa del governo tecnico merita un discorso satirico e critico. Per eventuali parodie c´è solo l´imbarazzo della scelta».
E´ passato un po´ di tempo dall´ultima volta in tv. Molta trepidazione?
«Le regole sono cambiate, riuscirà questa narco-tv a riconoscermi? Quel che voglio fare è sicuramente molto diverso da quel che ho fatto fino ad ora… ma pur sempre una tv a cui la gente non è più abituata, narcotizzata da trasmissioni fatte apposta per rintronare. C´è chi ci ha fatto il callo. Io no, mi sono fatta sbattere fuori. E, come tanti altri, in questi anni non ho guardato quella tv. Se la televisione generalista ha perso telespettatori è per legittima difesa».
È stata dura tornare in questa tv?
«La guerra non è finita. Mica è stato facile avere un contratto con La 7 che garantisse alla satira i diritti umani, per così dire; mostrare i testi con quindici giorni di anticipo, controllo sulle prove… tutte clausole per me inaccettabili che ho faticato non poco a stralciare».
A Celentano hanno dato carta bianca.
«E´ sbagliato, disonesto e pericoloso confondere la questione Celentano con i problemi legati alla libertà d´espressione. La polemica Celentano-Sanremo è l´ultima ipocrisia di una Rai che Berlusconi ha voluto annullare come valore simbolico, come punto di riferimento».
Spesso, in questi anni, si sarà chiesta qual è il confine tra satira e politica.
«Le due cose sono sempre rimaste divise. Se vado a una manifestazione non mi sento in dovere di far ridere. La piazza è stato il luogo dove io come cittadina cosciente di una situazione allarmante ho espresso il mio pensiero. Il senso della democrazia è la partecipazione, non solo mettere la croce su un nome che non hai neanche scelto. Tutti hanno il diritto di parlare e di fare politica, anche quelli che fanno satira. A me viene più facile e spontaneo che ad altri».

La Stampa 29.2.12
Il bebé perfetto dice sempre bonjour
Il bestseller di una reporter americana a Parigi riapre il dibattito sul modello dell’educazione perfetta
Tra sogno e realtà «Dopo i sei mesi i piccoli non svegliano più i genitori di notte»
di Alberto Mattioli


Francia Figli educati I bambini, dopo i sei mesi, non svegliano più i genitori di notte e, se lo fanno, vengono lasciati piangere; mangiano quattro volte al giorno e sempre cibi sani, niente patatine o «junk food», sempre a tavola e a orari stabili. Gli viene insegnato a dire «bonjour» e «bonsoir» fin dall’età più tenera. Sono alcuni dettagli dell’educazione francese che hanno colpito Pamela Druckerman, autrice del libro «Bringing Up Bébé», best seller in America. Usa Genitori stressati L’«hyperparenting» (traducibile con «eccesso di protezione») carica i genitori di una dose abnorme di preoccupazioni, premure, ansie e sensi di colpa. Negli Usa papà e mamme divorano manuali, navigatori nei siti specializzati, mentre i figli sono sommersi da un eccesso di impegni e giornate colme di appuntamenti da rispettare. Cina I bambini tigre Esiste un modello educativo cinese, escludendo dal panorama il best-seller sulle madri-tigre della professoressa sino-americana (Amy Chua, «Il ruggito della mamma tigre»)? La questione è dibattuta con ansietà in Cina, dove la competizione per aggiudicarsi un posto all’università comincia fin dall’asilo. Il percorso è incanalato fin dagli inizi, con interviste selettive che, per accedere ad alcune materne quotate, cominciano ai due anni di età. Un buon asilo dovrebbe aiutare a mettersi sulla lista vincente e far procedere sui binari giusti, si spera, fino alla laurea. Ma se gli studenti cinesi, abituati a lunghe ore chini sui libri, eccellono in matematica, molti educatori lamentano che un insegnamento che privilegia la memoria atrofizza la creatività e il pensiero laterale. Non solo: la forte enfasi sulla disciplina, l’educazione patriottica, nonché la supervisione ufficiale su tutti i temi che vengono considerati politicamente delicati fa sì che gli studenti cinesi, pur preparatissimi e competitivi, possano dar mostra di una certa rigidità mentale. [Ilaria Maria Sala] Italia Viva le mamme Su quale sia il modello educativo vincente ha detto la sua Joe Queenan sul «Wall Street Journal»: «Le madri migliori sono le italiane, sono calorose e appassionate e soprattutto cucinano bene. Le mamme italiane vogliono bene ai figli, li seguono, li difendono e spesso quei ragazzi da grandi sono le colonne della loro comunità. Se potessi tornare indietro, vorrei rinascere italoamericano».
Ciclicamente, riscoppia l’amore fra francesi e americani. Ci sono momenti storici in cui i francesi smettono di pensare che gli americani siano dei selvaggi che bevono Coca-Cola con il foie gras e gli americani che i francesi siano dei palloni gonfiati di besciamella. E allora «The Artist» vince cinque Oscar e, ancor più incredibile, una madre americana trapiantata in Francia spiega alle sue compatriote rimaste in America che per essere brave mamme devono imitare quelle francesi.
La signora si chiama Pamela Druckerman ed è una giornalista che vive a Parigi, dove ha anche fatto tre figli con un collega inglese. Poi è diventata famosa pubblicando un bestseller nel quale racconta come li sta allevando. L’opera s’intitola in America «Bringing up bébé», «Tirare su il bébé» (sottotitolo: «Una mamma americana scopre la saggezza dell’educazione alla francese») e in Inghilterra «French children don’t throw food», «I bambini francesi non buttano il cibo». Ma da entrambe le parti anglosassoni dell’Atlantico ha avuto un successo travolgente, specie dopo che il «Wall Street Journal» ne ha pubblicato degli estratti sotto un titolo provocatorio («Perché i genitori francesi sono superiori») e l’autrice si è fatta intervistare dall’Nbc a pranzo con i pupi, che stavano a tavola composti, senza guardare la tv, usando le posate.
Miss Druckerman sembra davvero la solita americana a Parigi, stupefatta per quel che vede intorno a lei (e anche in casa sua). Racconta che i bambini francesi, dopo i sei mesi, non svegliano più i genitori di notte e, se anche lo fanno, vengono lasciati piangere; che mangiano quattro volte al giorno a orari stabili, secondo la sequenza colazione-pranzomerenda-cena, senza ingozzarsi di patatine, popcorn e altre schifezze; e infine che, o meraviglia, ai pupi viene insegnato a dire «bonjour» e «bonsoir» ai vicini di casa. Tutte virtù ignote ai bimbi yankee.
Druckerman si è documentata. Ha chiesto di assistere alle riunioni della Commissione asili del Comune di Parigi e ha partecipato a quelle di «Message», «support group» per mamme anglosassoni sperse nell’Île-de-France che ne riunisce 2500, anche se più per fare nuove conoscenze che per risolvere emergenze educative (perché, come spiega una di loro, quanto a rapporti umani i francesi sono noci di cocco, duri fuori e teneri dentro, gli americani pesche, teneri fuori e duri dentro).
Insomma, più che far luce sui metodi francesi, il successo del libro sembra una critica a quelli americani, a quell’«hyperparenting» che finisce per caricare il genitore di una dose abnorme di preoccupazioni e sensi di colpa. Per papà e mamma «made in Usa», divoratori di manuali, sempre con il filo diretto con lo psicologo e la maestra, l’invidia è leggere che, come scrive Druckerman, «i genitori francesi non sanno forse esattamente quello che fanno, ma sembrano fare tutti, più o meno, le stesse cose». Già. Il buonsenso, questo sconosciuto.

La Stampa TuttoScienze 29.2.12
È scritto nel Dna
Dal sonno al cibo, un orologio ticchetta in ogni organismo
Nell’uomo è la luce a sincronizzarlo, ma in alcuni pesci i meccanismi cambiano Protagoniste dei cicli vitali sono alcune proteine codificate dai “geni del clock”
di Viola Calabrò


Ha collaborato Girolama La Mantia A cura dell’Agi - Associazione Genetica Italiana

Chi affronta viaggi «mordi e fuggi» che sconvolgono i ritmi naturali o ha avuto l'opportunità di raggiungere Paesi lontani, cambiando rapidamente diversi fusi orari, conosce sicuramente il «jet-lag». A causare questo malessere psicologico e fisico è una perturbazione del ciclo biologico, che soffre i cambiamenti repentini di latitudine, perché è sincronizzato prevalentemente con il tempo solare. Per fortuna, invece, sono poche le persone che conoscono gli effetti destabilizzanti di una permanenza al buio protratta per settimane, o addirittura per mesi. Che cosa succede all'orologio biologico di speleologi e minatori che decidono di rimanere nelle viscere della Terra o vi restano intrappolati? E che cosa succede alle creature adattate a vivere negli abissi?
Il ritmo circadiano è un ciclo di circa 24 ore, caratterizzato da variazioni ormonali e dell'attività cerebrale, in grado di far funzionare bene e in armonia, di giorno e di notte, importanti funzioni vitali. Dal sonno all'attività cardiaca, dalla forza muscolare alla pressione sanguigna, senza dimenticare la capacità di coordinazione o di reazione. In assenza di luce la durata si allunga un po' ed è una costante geneticamente determinata, tipica di ogni specie. Nell'uomo è di circa 25 ore, ma in condizioni estreme può estendersi notevolmente, rendendo il ritorno alla normalità molto difficile.
Il ritmo circadiano del nostro organismo si adatta al tempo dell' orologio endogeno e, in assenza di luce, questa condizione è definita «free-running». In condizioni normali, invece, la luce sincronizza il ritmo, riconducendolo ad un periodo di 24 ore. Il cuore del meccanismo dell'orologio circadiano è costituito da proteine, le proteine del «clock», che fungono da attivatori o repressori dell'espressione genica. Queste proteine sono codificate dai cosiddetti «geni del clock», che sono regolati mediante fotorecettori. Nei mammiferi i principali fotorecettori circadiani sono le cellule fotosensibili del ganglio della retina, mentre nei vertebrati non-mammiferi vi sono recettori periferici di cui devono ancora essere chiariti l’identità e il funzionamento.
L'abilità del genetista molecolare è quella di estrarre informazioni sul funzionamento dell'orologio biologico attraverso la misurazione dell'accensione e dello spegnimento dei «geni del clock». Studiando un pesce, il Phreatichthys andruzzii, un gruppo di ricercatori, guidato da Nicholas Foulkes dell'Istituto di Tecnologia di Karlsruhe, in Germania, ha messo in evidenza la presenza di un orologio circadiano alquanto insolito. Questa specie vive in Somalia, in caverne buie. Nel corso della sua evoluzione, circa 2 milioni di anni al buio, completamente isolato dal ciclo giorno-notte, ha perso la vista e gli occhi.
Nell'articolo pubblicato sulla rivista «PLoS Biology» gli scienziati si sono chiesti se possegga ancora un orologio circadiano in grado di rispondere alla luce. Confrontando la risposta agli stimoli luminosi e alla somministrazione di cibo di Phreatichthys andruzzii con quella di Danio rerio, un piccolo pesce tropicale che vive invece alla luce, gli scienziati hanno dimostrato che il pesce cavernicolo conserva un ritmo biologico. Il suo tempo interno è caratterizzato da un periodo particolarmente lungo, di circa 47 ore, scandito dalla disponibilità di cibo e insensibile alla luce. Sorprendentemente gli scienziati hanno trovato che la causa della foto-insensibilità del ritmo biologico non è la perdita della funzionalità degli occhi, ma la presenza di mutazioni nei geni che codificano per alcuni fotorecettori periferici (Melanopsina e TMT-opsina). Sono queste mutazioni a impedire al pesce cavernicolo di percepire e rispondere alla luce.
Oltre a descrivere un interessante sistema di adattamento biologico a condizione estreme, Foulkes e i colleghi, alcuni dei quali italiani, hanno scoperto l'esistenza di un oscillatore biologico, il cui controllo può ottimizzare l'utilizzazione dei nutrienti. Vale solo per i pesci? Difficile dirlo. Ma di certo la luce non è il solo regolatore dell'orologio circadiano e, almeno in alcune specie, il ritmo circadiano viene attivato anche dall' assunzione del cibo.

Viola Calabrò Genetista RUOLO: E’ PROFESSORESSA DI GENETICA PRESSO LA FACOLTÀ DI SCIENZE BIOTECNOLOGICHE DELL’UNIVERSITÀ FEDERICO II DI NAPOLI

La Stampa TuttoScienze 29.2.12
La violenza e i suoi falsi stereotipi
Così le donne attenuano le violenze famigliari
di Maurilio Orbecchi Psicoterapeuta


Chi non è preoccupato per l'aumento degli omicidi in famiglia? Tutto quello che sentiamo e leggiamo a questo proposito ci trasmette un profondo sentimento d'inquietudine. I media sviscerano per mesi casi impressionanti, come quelli di Sarah Scazzi e Annamaria Franzoni. Rinomati istituti scrivono rapporti che lascerebbero intuire un aumento degli omicidi totali e famigliari. Movimenti femministi pongono l'accento su presunti aumenti delle vittime in famiglia.
Ebbene, nulla di tutto questo è vero: non solo gli omicidi sono in netta diminuzione da secoli e decenni, ma c'è anche un netto calo degli omicidi in famiglia, quelli che fanno più impressione perché smuovono i sentimenti degli affetti più cari. Sono soprattutto gli omicidi in famiglia che stimolano i luoghi comuni sulla degenerazione della nostra cultura sociale. Eppure i dati della ricerca che ho effettuato con Paola Rocca, professore straordinario di psichiatria, nel Dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Torino diretto da Filippo Bogetto, professore ordinario di psichiatria, non lasciano adito a dubbi. I risultati sono controintuitivi e strabilianti rispetto a quanto possiamo pensare: in Italia il numero delle vittime totali di omicidio è in calo da molti anni, così come quello degli omicidi in famiglia.
In quest'ultimo ambito diminuiscono sia le vittime maschili sia il numero delle donne uccise dai mariti.
Gli omicidi diminuiscono in maniera costante per un insieme di motivi, che vanno dalla formazione degli Stati moderni alla femminilizzazione della società e dello stesso genere maschile.
La ricerca conferma, infatti, che la violenza omicida appartiene al genere maschile, per un sonante 90% dei casi. Ma mette anche in risalto un dato spesso trascurato: anche le vittime degli omicidi sono, in grande prevalenza, maschi (quasi l'80% dei casi).
Gli omicidi in famiglia sono circa un terzo degli omicidi totali. In quest'ambito i maschi uccidono percentualmente meno che nel resto della società, passando da più del 90% a poco più dell'80%, mentre aumentano dal 10% al 20% le autrici femminili.
Questi dati, insieme con altri esposti nella ricerca, significano diverse cose. La più interessante è la conferma di alcune ipotesi evoluzionistiche: i maschi umani, come quelli di altre specie a noi vicine, tendono a uccidere soprattutto altri maschi, eccetto che in famiglia, dove le vittime femminili superano quelle maschili di 20 punti percentuali. Il motivo è probabilmente dovuto al fatto che i maschi competono soprattutto tra loro nella lotta per lo status gerarchico. In famiglia, però, sentono una maggiore competizione femminile, che in diversi casi risolvono, ancora troppo spesso, anche con l'omicidio.
Perché gli uomini, più delle donne, arrivano a uccidere per motivi di competizione? La quasi totalità delle risposte che comunemente si sentono chiama in causa il nostro modello culturale, la società capitalistica, i falsi valori, la televisione o i videogiochi. Ebbene, anche queste analisi appaiono superficiali, per non dire errate; basti pensare che non esiste società umana dove non vi sia una lotta maschile, anche sanguinaria, per stabilire le gerarchie. La smentita più importante deriva, però, dal fatto che nelle specie di animali dove esiste dimorfismo sessuale, ossia differenza fisica tra i due sessi, si trovano spesso feroci lotte maschili per il potere. Quest'ultimo serve allo scopo di ottenere l’obiettivo più prezioso per i maschi: l'accesso alle femmine, indispensabile per trasmettere i propri geni alla generazione successiva. Più lo status del maschio è elevato, maggiore è il numero di femmine con cui può avere rapporti e quindi figli.
L'interesse nei confronti della salvaguardia delle proprie linee genetiche è così marcato da rivelarsi il più importante fattore che ostacola gli omicidi in famiglia: nei due terzi dei casi le vittime non sono parenti biologici dell'assassino.
Per l'insieme dei risultati ottenuti la nostra ricerca ci ha suggerito una teoria che si contrappone alle ipotesi dominanti: le donne potrebbero rappresentare un fattore che attenua la violenza maschile. Probabilmente ciò avviene per fattori legati alla psicologia femminile, all'amore, al sesso e al comune interesse nell'allevamento dei figli. È possibile addirittura ipotizzare che, se i maschi eterosessuali convivessero tra di loro per decine di anni, invece che con femmine, gli omicidi in famiglia diventerebbero più frequenti di quanto sono oggi.

La Stampa TuttoScienze 29.2.12
Se i neutrini rallentano la ricerca non perde
Con le particelle più veloci della luce sarebbero stati contraddetti non soltanto la Relatività ma anche l’elettromagnetismo
di Enrico Pedrazzi


Archiviata, conviene sperare, la ventata di entusiasmo per l'ipotesi dei neutrini superluminali, è utile fare alcune riflessioni per mettere qualche puntino sulle i, perché sono davvero molti gli insegnamenti che si possono trarre da questa storia e non tutti negativi.
In primo luogo, però, mentre ai miei occhi non c’era alcun dubbio che dovesse trattarsi di un abbaglio, se non di uno sbaglio, questo tutto era meno che grossolano.
Perché un abbaglio? non solo per una importante, se non decisiva, riserva nell'ammettere un fallimento della Relatività che da sola, tuttavia, bastava a sollevare dubbi molto consistenti e di cui i proponenti dell'esperimento Opera erano ben consapevoli. E, infatti, loro hanno ripetutamente e convintamente asserito che l'esperimento andava verificato e riverificato e ripetuto molte volte prima di poter dire che si erano eliminate tutte le remore ad accettarlo. E' stato detto da tanto autorevoli quanto troppo frettolosi divulgatori che si sarebbero dovuti rivedere i paradigmi della Relatività.
Questa era certamente una possibilità, anche se rinunciare a tutto quello che la Relatività ci ha insegnato era già molto difficile. Peggio, ai miei occhi (anche se, in fondo, era poi praticamente la stessa cosa) era, però, che contemporaneamente bisognava rinunciare all'elettromagnetismo.
Tutti sanno che l'elettromagnetismo, teoria formulata da Maxwell intorno al 1860, è una brillante unificazione di elettricità e magnetismo. Ma pochi, fuori dal mondo dei professionisti della fisica (e neppure tutti al suo interno), tengono conto del fatto che l'elettromagnetismo è una teoria non soltanto assolutamente straordinaria, bellissima e delicatissima, ma - per quel che ci riguarda qui - già relativistica con circa 40 anni di anticipo sulla Relatività ristretta di Einstein. Di conseguenza, una velocità limite superiore a quella della luce nel vuoto voleva anche dire rinunciare all'elettromagnetismo e quindi, tra le altre cose, decidere che i quanti di luce - i fotoni debbano essere particelle di massa non nulla, mentre tutta la teoria (per gli esperti l'invarianza Abeliana di Gauge) è centrata su questa proprietà. Per chi conosce gli straordinari successi dell'elettromagnetismo, rinunciarvi significava rinunciare a una delle teorie più sofisticate e produttive e della quale, nei suoi 150 anni di vita, non si aveva mai avuto il minimo segno di mal funzionamento.
Certo, nulla è sacro e a tutto si può dire di no, ma occorre che la prova sia veramente e definitivamente incontrovertibile.
Diciamo che per me (come per molti altri fisici) l'evidenza non era provata a sufficienza e che rinunciare alla Relatività e all’elettromagnetismo era davvero un po' troppo. In aggiunta, poi, negli ambienti scientifici fatti consistenti, legati a sofisticate considerazioni fisiche, avevano già portato molti a dubitare fortemente dei risultati annunciati dall’esperimento Opera, anche se nessuno poteva dire di aver individuato l'errore. Di fatto, se di errore si può parlare, questo era veramente molto sofisticato, dato che si trattava di mettere in discussione una misura di 60 nanosecondi (60 miliardesimi di secondo!): come dire circa 20 metri di anticipo dei neutrini sul tempo che avrebbe impiegato la luce a percorre i circa 735 chilometri della distanza tra il Cern a Ginevra e i laboratori del Gran Sasso.
Qui, contrariamente a quello che molti come me avevano a priori pensato, non si trattava di non avere una misura sufficientemente precisa di questa distanza nè del tempo impiegato a percorrerla. Su questo, ahimè (pardon, per fortuna), le misure non prestavano adito a dubbi. Con il senno di poi (di oggi, cioè) quello che è andato storto pare essere ancora più semplice e cioè il non perfetto funzionamento di un cavo di connessione.
Al di là, comunque, di questi sia pur importantissimi antefatti, fatti e misfatti, e al di là delle molte considerazioni che sentiamo fare in questi giorni e che vanno da difetti di comunicazione a rimproveri più seri, vorrei soffermarmi su due punti che mi sembrano quelli fondamentali e su cui non mi pare di aver sentito finora alcun commento.
Il primo è che la fisica e la scienza italiana non ne escono assolutamente impoverite e nemmeno dequalificate. Il fatto stesso che, nell'ambito di un esperimento che aveva (ed ha) tutte altre motivazioni, ci si sia posta la domanda di quale potesse essere la velocità dei neutrini è, secondo me, già un merito. Mai dare nulla per scontato e risottoporre a verifica ogni paradigma è una grande prova di serietà. E' vero: oggi possiamo dire che meglio sarebbe stato temporeggiare ancora, ma - immagino - dev’essere stata enorme la pressione sui membri dell'esperimento. E alla fine si sono lasciati convincere ad uscire con lo straordinario risultato che non riuscivano in nessun modo a falsificare e sul quale avevano già speso un mucchio di tempo (e su questa uscita e su quelle che l'hanno comunque anticipata in maniera «ufficiosa» c'è da sperare che qualcuno, prima o poi, riuscirà a fare luce completa).
Il secondo punto è, secondo me, ancora più importante ed è quello che mi pare andrebbe sottolineato più di ogni altro. Alla fine tutti possono sbagliare, ma la scienza è l'unica attività umana che io conosco nella quale l'errore sarà eventualmente riscontrato e corretto dalla scienza stessa, che lo farà appena se ne persuade: questo - credo - è davvero un insegnamento importante. Non lo si ripete mai abbastanza: compito primo della scienza non è tanto quello di dare risposte certe quanto quello di sollevare dubbi, porre domande e, se possibile, dare risposte. Non era proprio un grande scienziato come Descartes ad averci lasciato l'impronta decisiva, partendo dal famoso «cogito ergo sum», per dissipare il primo e più esistenziale dubbio?

Enrico Predazzi Fisico: E’ PROFESSORE PRESSO IL CORSO DI LAUREA IN COMUNICAZIONE SCIENTIFICA DELL’UNIVERSITA’ DI TORINO E PRESIDENTE DEL CENTRO AGORÀ SCIENZA PER LA DIFFUSIONE DELLA CULTURA SCIENTIFICA"

La Stampa 29.2.12
Il fagiolino africano seminato in Italia
Burkina Faso, un progetto che dà frutti
di Sandro Cappelletto


KONGOUSSÌ (BURKINA FASO) A Kongoussì ottomila contadini lavorano 140 ettari di terra
La Repubblica del Burkina Faso occupa la casella 174 nella «graduatoria dello sviluppo umano» compilata dalle Nazioni Unite; più poveri, nel mondo, sono soltanto il Mali, la Sierra Leone, il Niger L’aspettativa di vita è di 51 anni , l’età media di 17 La mortalità infantile è di 83 ogni 1.000 bambini nati Il reddito annuo pro-capite è di 1.200 dollari
Le 863 famiglie della cooperativa agricola ce l’hanno fatta, proprio quando la collaudata macchina della corruzione e degli sprechi che spesso si nasconde sotto il nome di cooperazione internazionale era ormai certa di aver celebrato un’altra delle sue vittorie.
I camion sono partiti dal loro villaggio, hanno raggiunto l’aeroporto di Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, dove li attendevano i cargo di Air France per Parigi; da lì, altri camion hanno trasportato la merce in Toscana e da qualche giorno 120 tonnellate di fagiolini freschi del Burkina Faso sono in vendita nei nostri supermercati.
L’OBIETTIVO La verdura in inverno senza creare competizione con i nostri produttori

Questa storia inizia nel 2005, quando il Movimento Shalom, una onlus fondata nel 1974 a San Miniato e presente in molti Paesi africani, tenta di salvare dalla liquidazione la cooperativa di Kongoussì: i 140 ettari di terra dove lavorano 8000 contadini avevano già attirato l’attenzione di commercianti tedeschi e francesi, ma il raccolto rimaneva scarso e le difficoltà logistiche troppo elevate per consentire dei costi accettabili. Parte allora l’idea di far arrivare i fagiolini in Italia nei mesi invernali, in contro stagione rispetto al nostro mercato, senza creare competizione con i produttori nostrani e a un prezzo finale accessibile. Shalom ottiene la collaborazione di Coop Italia e il progetto decolla, consentendo un margine di guadagno a tutti i soggetti coinvolti: non assistenzialismo a fondo perduto, ma imprenditorialità.
L’Unido, agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo agro-industriale, definisce questa esperienza un «modello di cooperazione internazionale», la segnala con una menzione speciale ad una conferenza sui nuovi modelli di sviluppo a Nuova Delhi e decide di estenderla ad altri Paesi africani. Coinvolge l’Unione Europea e la Cooperazione governativa italiana, che partecipa con due milioni di euro, mentre altri trecentomila sono offerti dalla Regione Toscana.
Viene fondata, in Burkina Faso, una società pubblica incaricata di gestire il progetto, si forma un sontuoso apparato burocratico, largamente incompetente: si comprano pompe per l’irrigazione che dopo un anno sono da buttare, si scelgono le sementi sbagliate e la catena della logistica si inceppa. La gestione fa morire il progetto e i contadini di Kongoussì restano senza lavoro.
«Gli aiuti Stato-Stato sono la tomba della cooperazione. Non c’è controllo, tutto diventa possibile», dice Valter Ulivieri, ex-dirigente della Unicoop Tirreno e coordinatore del progetto.
«Se vuoi salvare dalla fame e dalla malattie i bambini degli stati più poveri del mondo, se vuoi fermare la fuga dei milioni di disperati che emigrano, devi migliorare la vita degli adulti. A Kongoussi c’eravamo riusciti, ma in meno di due anni l’elefantiasi delle organizzazioni internazionali e la corruzione hanno bloccato tutto».
L’estate scorsa, mentre il Burkina è colpito da una forte siccità alla quale seguono piogge tropicali che devastano campagne e città, mentre un’impennata dei prezzi riduce ancor più il fiacco mercato interno e provoca numerose manifestazioni di protesta, i contadini di Kongoussì decidono di riprendere l’iniziativa. Rompono i rapporti con l’Unido, contattano di nuovo il Movimento Shalom, ottengono un prestito, comprano le sementi. Un loro delegato, Jonas Guatin, arriva in Italia e firma un nuovo accordo con la Coop, senza altri mediatori: «Se la filiera rimane corta, ce la faremo - dice Jonas -. Restituiremo il prestito, porteremo lavoro e guadagno, avremo un margine per altri investimenti. Se nell’economia globale contemporanea un progetto equo è possibile, questo lo è».