venerdì 2 marzo 2012

Firma anche tu per dire: ridateci l’Unità: su www.unita.it
l’Unità 2.3.12
«L’Unità ha reso le fabbriche più libere. L’attacco è gravissimo»
Il giurista associa la decisione della Fiat con le norme che ledono i diritti dei lavoratori:
dalla deregulation di Berlusconi alle minori tutele di sicurezza con Monti
di Natalia Lombardo


Una regressione culturale e politica bruttissima. Io sono abbastanza vecchio per ricordare formule di anni lontani nei quali si rivendicava il diritto di entrare in fabbrica con l’Unità in tasca». Stefano Rodotà, giurista, colloca l’esclusione del quotidiano dalla Magneti Marelli come il segno di un’ulteriore e pericolosa perdita di garanzie costituzionali.
Lei ricorda gli anni 5060, un passo indietro notevole. Come mai? «Portare l’Unità in tasca è stata una delle tante molle che hanno fatto inserire nello Statuto dei Lavoratori il divieto di raccogliere informazioni sulle opinioni politiche, sindacali e religiose dei lavoratori. Insomma, rendere la fabbrica come luogo agibile per tutte le opinioni. Un principio che va assolutamente mantenuto». La possibilità di formarsi un’opinione, è un diritto di base.
«Certo, questa è una regressione culturale e politica gravissima, in cui un giornale non ha diritto di cittadinanza in fabbrica. È il diritto dei lavoratori di poter manifestare la propria opinione, mantenere attraverso i giornali la comunicazione reciproca e l’informazione come elemento per costruire liberamente la propria personalità. Ecco, senza questo la fabbrica torna a essere off limits per le opinioni».
Marchionne il modernizzatore che torna alla Fiat di Valletta?
«Mi tornano alla mente espressioni del tipo: “La democrazia si ferma ai cancelli della fabbrica”. Tutto ciò che è avvenuto per rendere la fabbrica un luogo dove non si è prigionieri del datore di lavoro, ma persone, come vuole la Costituzione, perché l’articolo 3 afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale. Sono punti di civiltà, mentre l’erosione di garanzie sui diritti è molto inquietante. Un altro tassello perso è nell’articolo 8 della manovra di Ferragosto del governo Berlusconi, che permette intese aziendali anche “in deroga alle disposizioni di legge” e alle regole dei “contratti collettivi nazionali di lavoro". Umberto Romagnoli ha scritto che ciò può rappresentare la ine del diritto sul lavoro, così si azzerano in vari modi le garanzie. È una norma anticostituzionale di una gravità assoluta, infatti la Cgil ha annunciato il ricorso alla Consulta e stava partendo una raccolta di forme per un referendum abrogativo».
Tutto ciò è avvenuto perché si è abbassata la guardia sui diritti?
«Si è stratificata una debolezza politica e culturale, e questi sono gli esiti. L’episodio della bacheca chiusa alla Magneti Marelli è un segnale del fatto che l’imprenditore in fabbrica può aggirare e eludere i diritti costituzionali. Purtroppo da alcuni anni c’è una deriva, e non è finita, ovvero pensare che i lavoratori debbano essere normalizzati, quindi lo Statuto del lavoratori, l’articolo 18, sono considerati ostacoli. Con un tale clima ognuno tende a fare delle norme per sé».
La bacheca negata quindi non è un episodio da sottovalutare?
«Non è un episodio, è la rivelazione di un atteggiamento: qualcuno ritiene che ci sia un potere imprenditoriale che può interdire le libertà garantite dalla Costituzione, è un’aggressione alla dignità del lavoratore. Luigi Mengoni, un professore di diritto civile della Cattolica, non un rivoluzionario, sull’articolo 1 della Costituzione dice: “Il diritto del lavoro instaura l’antropologia definitiva del diritto moderno”. Ricostruiva la figura dell’uomo accompagnato dalla dignità, e non solo forza lavoro. Invece questi sono tutti attacchi alle garanzie: la scomparsa del riferimento alla legge, l’abbandono dei principi costituzionali e l’aggressione alla figura dell’uomo degno».
Una visione ottocentesca in pieno Terzo Millennio?
«Sì, una brutta visione. Una gigantesca regressione, la riaffermazione del potere illimitato dell’imprenditore. Fa il paio con la revisione dell’articolo 41 della Costituzione, che vorrebbe come valore preminente la logica di mercato e della concorrenza, con libertà di violare tre elementi base: sicurezza, libertà e dignità della persona. E la tutela della sicurezza sul lavoro ora viene ridotta dal decreto Monti».
Nel decreto sulle semplificazioni, un altro diritto intaccato?
«E sì, l’azienda si fa certificare così non si fanno le ispezioni? Non è possibile. Berlusconi e Sacconi hanno delegato a Marchionne la politica industriale e della fabbrica, ignorando il sistema di garanzie costituzionali e legislative dei diritti dei lavoratori. Ma così si abbassano le garanzie per tutti. E ora un altra lesione è nel’articolo 1 del decreto Monti sulle liberalizzazioni».

l’Unità 2.3.12
«Non esiste in natura»
Bersani boccia la Grande coalizione
Il segretario Pd: nel 2013 sfida tra schieramenti alternativi Confronto con De Benedetti che attacca Marchionne
e difende l’articolo 18: «Una puttanata questa discussione»
di Simone Collini


Il Pd lavora per dar vita a un’alleanza di centrosinistra perché nel 2013 non ci sarà una “Grande coalizione” ma una sfida tra schieramenti alternativi. Le mosse di Berlusconi vengono guardate con un misto di attenzione e scarso credito dai vertici dei Democratici. Se l’ex premier dice che il prossimo governo potrebbe essere sostenuto da membri politici di Pdl, Pd e Terzo polo, Bersani fa notare che una sorta di «partitone unico» come quello a cui sembra pensare Berlusconi «non esiste in natura»: «Io ho un’altra idea di democrazia dice il leader del Pd ho sempre la speranza che noi possiamo essere una democrazia rappresentativa, ancorché riformata, e che il nostro Paese possa vivere in una buona dialettica democratica». E si meraviglia, Bersani, che Berlusconi lanci una simile ipotesi dopo aver partecipato al vertice del Ppe a Bruxelles: «I governi non si fanno con il Cencelli, devono avere autorevolezza tecnica e politica, ai cittadini va offerta una scelta, questa è la mia idea di democrazia, e nel mondo funziona così».
Una linea ribadita anche da Rosy Bindi, per la quale Monti «non ha il compito di commissariare la politica», e da Dario Franceschini, per il quale nel 2013 non potrà esserci nessuna «ambiguità».
Del resto, che non possano convivere Pd e Pdl (o quale che sia il nome del partito con cui Berlusconi si ripresenterà nel 2013) si vede non appena si discute di qualche tema concreto, che siano le liberalizzazioni o l’articolo 18. Due questioni di cui Bersani parla durante un incontro dedicato al libro “Green Italy” di Ermete Realacci, a cui partecipa anche Carlo De Benedetti.
Il leader del Pd non ha apprezzato che tutti i partiti, senza distinzione, venissero descritti come assediati dalle lobby a proposito delle liberalizzazioni. «Le lobby vanno dal governo e vanno dai partiti. Ma c’è anche qualche partito che le rimanda indietro. Quando è toccato a noi abbiamo cancellato dieci milioni di licenze commerciali. Ebbene ognuno ha le sue tifoserie. Ma io ricordo che andavo dalla mia gente e dicevo che liberalizzare è di sinistra».
Ed è lo stesso De Benedetti a fare l’elogio delle «lenzuolate» approvate dal governo Prodi: «Le uniche vere liberalizzazioni in Italia sono venute con Bersani ministro dell’Industria». Sintonia, tra il leader del Pd e il patron del gruppo Espresso, anche sulla riforma del lavoro: «Togliamo di mezzo questa puttanata del dibattito sull’articolo 18. Faccio l’imprenditore da 54 anni e non mi ci sono mai imbattuto».
Molto critico De Benedetti è anche con Confindustria («Mi sembra una lobby stanca in cui la domanda più ricorrente è cosa fa il paese per noi e non cosa facciamo noi per il paese») e con l’amministratore delegato della Fiat: «Quando sento Marchionne che dichiara che torna in Italia se l’Italia gli fa fare le automobili, vorrei sapere cosa fa lui per fare automobili che si vendono. L’Italia ha già pagato più volte per la Fiat, ora è il caso che la Fiat dica cosa fa lei per l’Italia».
Tra De Benedetti e Bersani va anche in scena un botta e risposta sulla famosa tessera numero 1 del Pd, che l’Ingegnere aveva chiesto ai tempi della nascita del nuovo partito: «Non l’ho mai avuta, non ho capito se il Pd non l’hanno fatto o non me l’hanno data. Ma io non l’ho mai chiesta». Bersani sorride: «Il bambino l’abbiamo fatto, non è più un’ipotesi, è il primo partito del Paese. Comunque chiunque voglia dare una mano è il benvenuto».

La Stampa 2.3.12
Il Cavaliere torna in campo e scompiglia le file del Pd
di Marcello Sorgi


Mario Monti ha appena fatto in tempo, mercoledì, a dire che se il suo governo riuscirà a raggiungere i propri obiettivi non gli sarà chiesto di proseguire anche dopo il 2013: un modo elegante per far capire che i partiti lo aiutano fino a un certo punto a fare quel che è necessario e ad attuare il programma per cui è stato chiamato. Ed ecco Berlusconi di nuovo in campo, ieri, a obiettare che nel 2013 la formula della larga coalizione di Pdl, Pd e Terzo polo potrebbe rafforzarsi e continuare con l'ingresso nel governo di ministri politici dei tre partiti e con l'obiettivo di realizzare (o completare) il programma delle riforme più urgenti, dalla giustizia al fisco all'architettura istituzionale.
Mossa del tutto imprevista, visto che il leader del Pdl aveva annunciato che si sarebbe tenuto alla larga dalla campagna elettorale per le amministrative, non volendo mettere la faccia su una possibile sconfitta. E tuttavia logica, visto che salta del tutto l'appuntamento con le urne di maggio, per proiettarsi direttamente sulla partita grossa delle politiche dell’anno venturo, a cui tutti i partiti guardano con l'intenzione di chiudere insieme la parentesi del governo tecnico e la lunga epoca berlusconiana. Il Cavaliere, al contrario, con congruo anticipo, conferma che non ha intenzione di farsi da parte e punta a mettere in imbarazzo il Pd.
Bersani non ha potuto far altro - dando ascolto alle molte voci interne che si levano dal suo partito per escludere un prolungamento dell’attuale governo - che rispondere: un esecutivo fondato su un'alleanza pienamente politica e con ministri provenienti dai partiti della maggioranza per il Pd non esiste. Una dichiarazione secca, mirata a non indebolire Monti proprio nel momento più delicato del negoziato sul mercato del lavoro.
Così, per capire cosa ha spinto il Cavaliere alla sua inattesa uscita, non restano che due possibilità: una, più probabile, che l'abbia fatta proprio per mettere in difficoltà il Pd. L'altra, da non scartare, che abbia capito che il Pd non può vivere senza il suo innato antiberlusconismo e abbia provato di conseguenza a stuzzicarlo. Nell’un caso o nell’altro, Berlusconi è riuscito a scaldare una campagna elettorale fin qui addormentata dalla «cura Monti» e dalla rottura delle due coalizioni che si trovano simmetricamente metà al governo e metà all'opposizione. Con quali conseguenze, non ci sarà molto da attendere per vederlo.

l’Unità 2.3.12
Dati Istat: 2,3 milioni i senza lavoro, 9,2%. Il livello più alto dal 2004
La Cgil: servono risorse per bloccare i licenziamenti. Allarme inflazione
Il lavoro non c’è più Cresce ancora la disoccupazione
Ancora un record per la disoccupazione in Italia e in Europa. Nel nostro Paese tocca il 9,2 per cento, mentre la “giovanile” tocca il 31,1%. I sindacati compatti: bisogna fermare i licenziamenti
di Massimo Franchi


Puntuale come la miseria. Ogni primo del mese, da un anno a questa parte, arriva la notizia del nuovo picco toccato dalla disoccupazione e, ancor di più, da quella giovanile. I record di ieri sono: 9,2 per cento di disoccupazione; 31,1 per cento di disoccupazione giovanile che si avvicina sempre di più alla fatidica quota “uno su tre”.
Percentuali a parte, i dati netti fanno più impressione. Il numero dei disoccupati in Italia è pari a 2 milioni e 312mila e aumenta del 2,8 per cento rispetto a dicembre (64 mila persone in più). Su base annua l’aumento è addirittura del 14,1 per cento (286mila persone in più). Il tutto mentre l’occupazione, anche se timidamente, cresce: il tasso di occupazione è pari al 57,0 per cento, in aumento nel confronto congiunturale di 0,1 punti percentuali e di 0,2 punti in termini tendenziali, pari a 8mila persone in più. Ciò significa però che il numero di licenziamenti, rispetto ai mesi scorsi, ha iniziato a correre molto più velocemente. Ed è questo che denunciano i sindacati, senza eccezione.
SINDACATI: FERMARE LICENZIAMENTI
«I dati mostrano con tutta evidenza che il problema dovrebbe essere fermare i licenziamenti e non facilitare la flessibilità in uscita», attacca il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, mentre per il segretario generale aggiunto della Cisl Giorgio Santini «si tratta di dati che rendono ancor più necessario chiudere positivamente la trattativa sul mercato del lavoro». Per il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy «i dati non fanno altro che avallare l’emergenza di risposte ad un mercato del lavoro che ha bisogno sia di buoni strumenti di ingresso soprattutto per i più giovani sia di altri strumenti che incentivino e incoraggino una ripresa occupazionale», mentre il segretario generale dell’Ugl Giovanni Centrella sottolinea come «il governo deve convincersi che gli ammortizzatori sociali vanno rafforzati, quantitativamente e qualitativamente, con risorse vere».
La notizia sulla disoccupazione è arrivata il giorno dopo lo stop al tavolo sulla riforma del lavoro. Il tema della ricerca di risorse per finanziare la riforma degli ammortizzatori sociali è stato fatto proprio dalla ministra Elsa Fornero. Ora tocca al viceministro all’Economia Vittorio Grilli trovarle. Ma è sull’entità che ora si concentra la “battaglia”: da Palazzo Chigi filtrano stime da 1-2 miliardi di euro. Numeri che lasciano molto perplessi i sindacati: «Mi pare una cifra bassa spiega Fulvio Fammoni ma finché Fornero non ci illustrerà i criteri dei nuovi ammortizzatori nessuna stima può essere fatta: va stabilita la platea delle persone da coprire, la durata di cassa integrazione e disoccupazione e il livello di copertura. Senza questi punti fermi sono tutti numeri a caso», conclude Fammoni.
AUMENTA ANCHE L’INFLAZIONE
A completare una giornata negativa arriva poi il dato sull’inflazione. Le stime preliminari sul mese di febbraio parlano di un aumento del 3,3%, dal 3,2% di gennaio mentre su base mensile l’aumento è dello 0,4%. In un solo mese il carrello della spesa costa lo 0,7% in più: il rialzo maggiore dall'ottobre 2008.
Dall’Europa intanto non giungono notizie migliori. Nell’area Euro a gennaio si sono registrati 185 mila disoccupati in più, rispetto al mese precedente, con cui il totale è salito a 16 milioni 925 mila. In questo modo, ha riferito Eurostat, il tasso di disoccupazione ha stabilito un nuovo massimo dal lancio dell'Euro, al 10,7 per cento dal 10,6 per cento di dicembre. Rispetto al gennaio del 2011 risultano 1 milione 221 mila disoccupati in più nell'area Euro, che accusa una dinamica peggiore rispetto a tutta l’Unione europea a 27, dove la disoccupazione è al 10,1 per cento.
CONVEGNO SUL WELFARE DEL FUTURO
Il tema è dunque quello di rilanciare lo Stato sociale. E proprio di nuovo welfare si è parlato ieri (e si parlerà oggi) a Roma. «Cresce il Welfare, cresce l’Italia» è il titolo del convegno organizzato da Cgil e tantissime associazioni del Terzo Settore al centro congressi Frentani a Roma. La prima giornata è stata caratterizzata dagli interventi di Paolo Leon, Chiara Saraceno e Stefano Rodotà. Per Chiara Saraceno «in Grecia, Italia e Portogallo aumentano i poveri per le decisioni dei governi» mentre «i servizi spariti dall’agenda nazionale sono relegati solo a scelte dei Comuni».

l’Unità 2.3.12
Intervista a Paolo Leon
«Il Welfare serve. Il pareggio di bilancio è un’idea sbagliata»
Il professore: lo Stato sociale ha un effetto potente
Sostituisce beni altrimenti da pagare con il salario, è uno stabilizzatore automatico del ciclo economico
di Laura Matteucci


Lo stato sociale non è beneficenza, è un diritto. Rende più forte la democrazia, ed è anche un elemento di sviluppo economico. È chiaro che mantenerlo e migliorarlo ha un costo, che però produce guadagno; smantellarlo, invece, significa finire per spendere molto di più». L’economista Paolo Leon ha appena terminato il suo intervento alla Conferenza nazionale «Cresce il welfare, cresce l’Italia», promossa da una cinquantina di organizzazioni sociali, centrato sul tema «Le politiche sociali e lo sviluppo», rovesciando in pochi minuti l’orientamento diffuso in Italia e in tutta Europa per cui a pochi soldi in cassa debba corrispondere poco stato sociale nel Paese.
Ovunque in Europa i governi ci dicono che la priorità sono i conti e che per mantenerli sotto controllo bisogna tagliare: un problema per il welfare sia a livello centrale che locale, con i Comuni che hanno sempre meno risorse dedicate.
«La cultura dominante conservatrice ha dimenticato ragioni e finalità dello stato sociale. L’importante è il rigore di bilancio, con il pareggio messo addirittura come vincolo legislativo, qualcosa che suona come una composizione di interessi egoistici e mentalità medioevale, e che nulla ha a che fare con le ragioni dell’economia. In tutto questo si dimenticano i punti fondamentali: lo stato sociale ha un effetto economico potente, innanzitutto, perché sostituisce beni altrimenti da acquistare col proprio salario, e perciò riduce la conflittualità tra azienda e lavoratore. Inoltre è uno stabilizzatore automatico del ciclo economico, perché la spesa è invariabile e perché la sua assenza renderebbe le crisi molto più profonde. Altro elemento: fornisce una sicurezza ai cittadini che li spinge ad essere meno avversi al rischio, più imprenditivi. Il che spiega tra l’altro il fiorire in Italia di migliaia di piccole aziende. Tutto questo produce ricchezza in un Paese, senza contare i costi dell’esplosione della rabbia sociale quando, viceversa, il welfare si assottiglia. Ora, il punto è tornare a dare priorità a questi elementi, al principio generale su cui lo stato sociale universale si fonda». La vede possibile? Come si inverte la tendenza?
«Il problema si deve risolvere in Europa, non tanto in Italia. Ma finché domineranno le forze conservatrici, finché non verranno defenestrati Merkel e Sarkozy, non potrà succedere granché di positivo. Devono cambiare alcune condizioni, e non solo politiche. La Bce di Draghi, per esempio, invece di sostenere che il modello sociale europeo è in via di estinzione, dovrebbe finanziare con emissione di moneta i disavanzi pubblici, consentendo agli Stati di fuggire dalla strettoia di debito e deficit. Una funzione da creare, certo, ma che sarebbe molto utile. Ci vuole anche una grande unità a sinistra, parlo sempre a livello europeo, perché solo così si possono rovesciare definitivamente gli strascichi delle politiche targate Reagan-Thatcher».
Un’Europa più potente e più capace di strategie, dice: il caso Grecia non sembra averlo dimostrato.
«La Grecia andava aiutata meglio e prima. Impoverita, non avrà mai i soldi per pagare il debito. E ricordiamo pure che il debitore ha una funzione economica importante, è la sua spesa ad arricchire il creditore. Eppure, il capitalismo non è stato sempre così buio....».
Il tavolo sul lavoro: che opinione s’è fatto finora?
«Credo che il governo con abile mossa scambierà il mantenimento della cig straordinaria con l’articolo 18. E la difesa del lavoro verrà messa ancor più in difficoltà. Qui c’è un elemento di inganno: con la scusa di un mercato del lavoro diviso tra tutelati e non a causa di leggi italiane si cerca di rendere tutti precari. Per estendere le tutele ci vuole un sacco di soldi, sono strumenti che possono adottare solo le economie che crescono. E comunque è il lavoro che crea la ricchezza, non la cig o il sussidio di disoccupazione».
Ma il lavoro non c’è: nell’ultimo anno i disoccupati sono aumentati del 14%. Pensa che la riforma in costruzione possa servire a qualcosa?
«A nulla, direi. Deve aumentare la domanda di beni e servizi, se si riduce il costo del lavoro ma il fatturato delle aziende non cresce, queste avranno forse più margini ma non maggiore vendita. E la disoccupazione continuerà ad aumentare, senza peraltro contare gli scoraggiati: per forza, mancano le politiche conomiche. Del resto, il Pil diminuisce di due punti, le imprese abbandonano l’Italia, l’unico spiraglio di modesta crescita è che l’euro è un po’ meno caro rispetto a un anno fa, il che favorisce le esportazioni. Forse serviranno un po’ le liberalizzazioni, di certo potrebbe essere utile una diversa politica delle banche, in questo momento di diffuso strangolamento del credito: giusto l’altro giorno c’è stata una notevole immissione di liquidità da parte della Bce, non accompagnata però da un “consiglio”, un indirizzo alle banche su come usare i soldi. Finirà che investiranno in speculazioni finanziarie...».

l’Unità 2.3.12
Il documento
Una sinistra moderna fondata sulla persona e non solo sul mercato
La tesi della non sostenibilità del sistema sociale europeo è sbagliata
Va contrastata sul piano politico e culturale
Il pensiero cattolico può aiutare molto il Partito democratico
Pubblichiamo stralci della relazione che ha aperto ieri
il seminario sulla crisi e le risposte del riformismo, promosso da “Rifare l’Italia” di Fassina, Orfini, Orlando e Verducci
di Massimo D’Antoni

qui

Corriere della Sera 2.3.12
Vittime delle stragi naziste Roma e Berlino verso l'intesa
di P. L.


BERLINO — I risarcimenti alle vittime italiane delle stragi naziste non saranno archiviati per sempre. Ci sono buoni motivi di sperarlo, nonostante la sentenza della Corte internazionale dell'Aia che ha stabilito l'immunità giurisdizionale dello Stato tedesco e bloccato le cause avviate. Germania e Italia, infatti, inizieranno presto negoziati bilaterali per una «soluzione concordata» di una questione ancora aperta e dolorosa. Lo ha garantito al ministro della Giustizia Paola Severino la collega tedesca Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, convinta che sia necessario tenere conto delle «grandi sofferenze inferte in un momento così buio della storia». «Le sentenze vanno rispettate, ma altrettanto rispetto è dovuto alle vittime. La strada del negoziato va percorsa per non dimenticare i diritti dei familiari. E da parte tedesca è stata espressa la volontà di percorrerla», ha detto il Guardasigilli incontrando la stampa nell'ambasciata italiana. Erano stati gli stessi giudici dell'Onu a invitare le parti al dialogo e il ministro degli Esteri Guido Westerwelle aveva assicurato un mese fa che il problema sarebbe stato affrontato «in uno spirito di piena fiducia». «La nostra richiesta è stata pienamente accolta», ha spiegato Paola Severino. I colloqui di Berlino tra i due ministri sono serviti anche a fare il punto sulle riforme italiane nel settore della giustizia, come l'ampliamento della mediazione civile e l'istituzione del tribunale delle imprese. E in un Paese di risparmiatori come la Germania, è stato accolto con interesse il piano del governo Monti sulla revisione della geografia giudiziaria che prevede una diminuzione delle spese per 80 milioni di euro all'anno.

Corriere della Sera 2.3.12
Un metro e mezzo per un detenuto: le immagini-denuncia
di Antonio Crispino

Comincia oggi un viaggio sulla detenzione in Italia. Una videoinchiesta in quattro puntate di Corriere.it per tradurre in immagini e voci i numeri drammatici delle condizioni carcerarie.
Da Messina a Brescia, passando per Napoli, Roma, Pontremoli. Per toccare con mano cosa significa avere il peggiore sovraffollamento in Europa (148%) e il record di 68 mila detenuti stipati in spazi previsti per 45 mila persone.
La prima puntata parte oggi sul sito del Corriere della Sera dal carcere Gazzi di Messina. In una cella originariamente adibita al transito ci sono otto detenuti. Ognuno con a disposizione 1 metro e mezzo quadrato di spazio. Rinchiusi 23 ore su 24. Un solo water, proprio accanto al tavolino dove mangiano. I bisogni si fanno «a vista», davanti a tutti.
E poi l'abbandono nel centro clinico, dove si vede un anziano di 82 anni, malato, immobile su una branda insieme con altre undici persone. L'uomo verrà trasferito dopo la visita della telecamera di CorriereTv.
Da lì il viaggio passa a Roma, nel nuovo complesso di Rebibbia, ritenuto uno degli istituti detentivi più dignitosi. Da dietro le sbarre le grida di tredici persone ristrette in una ex sala adibita al ping pong. E il silenzio degli addetti che impediscono di andare a vedere e fare le riprese. E non sarà un caso isolato.
Nella seconda puntata il viaggio arriva in Lombardia, la regione con il più alto numero di detenuti. La visita è al Canton Mombello di Brescia. Un carcere al collasso. I detenuti sono il triplo di quelli che la struttura (vecchia e inadeguata) può contenere. Il 70% sono extracomunitari. C'è da capire perché, nonostante rappresentino solo l'8% della popolazione italiana, gli extracomunitari siano così sovrarappresentati in carcere. Per non parlare poi della rieducazione che non c'è e delle conseguenze per tutti di un sistema che non funziona.
Nella puntata successiva l'obiettivo è diretto su quella che è definita la zona d'ombra del carcere: la violenza dietro le sbarre. Quella subita dai detenuti ad opera degli operatori penitenziari ma anche quella che vede come vittime la polizia penitenziaria o i medici. Un argomento che spesso resta tabù per la difficoltà di far luce su episodi archiviati con troppa fretta. E poi il lavoro in carcere usato per mettere a tacere le proteste.
L'ultima puntata sarà dedicata alle donne e ai minori dietro le sbarre. Cercando di capire i perché di una legislazione carente, dei tanti luoghi comuni e dei pregiudizi che impediscono un approccio più corretto all'argomento. E infine i volontari, che salvano il salvabile.

Corriere della Sera 2.3.12
«Sì all'infanticidio» Lo studio contestato


MILANO — Minacce di morte. La condanna di gruppi religiosi e pro-life. E un fondo di Avvenire che parla di un «crepuscolo disumano della civiltà occidentale». Francesca Minerva, ricercatrice italiana all'università di Melbourne, ribadisce che il suo lavoro pubblicato sul Journal of Medical Ethics è «discussione teorica». Per molti è una provocazione inaccettabile. A partire dal titolo: «Aborto dopo la nascita, perché il neonato dovrebbe vivere?». La tesi di Minerva e di Alberto Giubilini, anche lui ricercatore italiano a Melbourne: il neonato è come il feto, non ha un «diritto morale» alla vita. «L'uccisione di un neonato potrebbe essere eticamente ammissibile in tutte le circostanze in cui lo è l'aborto».

Repubblica 2.3.12
Articolo-shock sul "Journal of Medical Ethics". "È legittimo come l´aborto". Pioggia di mail di insulti alla rivista. Avvenire: "Un orrore"
"Sì all´infanticidio", bufera su due ricercatori italiani


ROMA - Non c´è differenza c´è tra l´aborto e l´uccisione di un neonato, sostengono due giovani bioeticisti italiani emigrati in Australia. «Né il feto né il neonato hanno ancora lo status morale di persona» scrivono Alberto Giubilini e Francesca Minerva in un articolo sulla rivista specializzata Journal of Medical Ethics. «E poiché l´adozione non è sempre nel loro interesse, si può concludere che l´aborto post-nascita (l´uccisione di un neonato) è ammissibile in tutti i casi in cui l´aborto lo è. Inclusa l´ipotesi in cui il bambino nasca disabile».
Alberto Giubilini, lavora alla Monash University di Melbourne, ma è affiliato anche all´università di Milano dove ha da poco completato il dottorato. Francesca Minerva lavora invece all´università di Melbourne, sempre come esperta in bioetica e filosofia. I due giovani studiosi per le loro tesi - peraltro non nuove nel campo della bioetica - hanno ricevuto delle minacce di morte, mentre la rivista si è vista recapitare decine di mail di insulti e il suo direttore, Julian Savulescu - docente di etica all´università di Oxford - è dovuto intervenire per difendere la scelta di pubblicare l´articolo: «Lo scopo della rivista non è affermare la Verità, ma presentare opinioni ragionevoli». Secondo Giubilini e Minerva «sia il feto che il neonato sono privi di quelle caratteristiche che giustificano il diritto alla vita». Di «sgomento» in Italia ha parlato L´Avvenire: «Un orrore. A fare scalpore non è solo il contenuto del saggio, ma anche il prestigio accademico di cui godono certi argomenti».

Repubblica 2.3.12
Editoria, i fondi per il 2012 salgono da 47 a 120 milioni


ROMA - «I fondi per l´editoria per il 2012 salgono da 47 a 120 milioni». Franco Siddi, segretario della Federazione nazionale della stampa, annuncia la schiarita sulla sorte di molte testate alla fine di un colloquio con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Paolo Peluffo. Siddi spiega che «50 milioni arriveranno dal fondo di emergenza della presidenza del Consiglio e altri 23 dal recupero di risorse da risparmi interni dell´amministrazione».
La notizia, confermata da fonti governative, fa tirare un sospiro di sollievo in molte redazioni - tra cui Liberazione e il manifesto - a rischio chiusura. «Poiché entro il 2014 dovranno esserci nuove norme - spiega il segretario della Fnsi - era importante evitare che lo Stato nel frattempo staccasse la spina e molte testate non potessero nemmeno arrivare al 2014 con l´impoverimento dell´occupazione e del pluralismo. Il presidente Monti e il sottosegretario Peluffo hanno mantenuto gli impegni presi».

Repubblica 2.3.12
Quarto potere
Così D’Avanzo ha svelato le menzogne italiane
di Carlo Galli


Una mutazione colta mentre avveniva, negli scandali di cui è stata intessuta l´esperienza di governo del Cavaliere
Un perverso cortocircuito di manipolazione e falsità che non è più cronaca e non è ancora storia: forse, ne stiamo a fatica uscendo
"Il guscio vuoto" è il libro che raccoglie gli scritti del grande cronista scomparso
È il racconto di come è stata svuotata, negli ultimi 20 anni, la nostra democrazia

Si legge con passione, con piacere intellettuale, con ammirazione per il rigore dell´argomentazione e dello stile, con partecipazione non solo civile ma emotiva, e anche con angoscia, la raccolta di articoli di Giuseppe d´Avanzo per Repubblica, che Laterza ora pubblica col titolo Il guscio vuoto. Metamorfosi di una democrazia (Prefazione di Franco Cordero). È un libro i cui capitoli sono stati scritti giorno per giorno, con un assiduo lavoro di documentazione, di analisi, di critica, di smascheramento, che racconta la mutazione della politica e della società nell´Italia berlusconiana. Una mutazione che D´Avanzo ha colto mentre avveniva, leggendola nelle vicende della cronaca, nei mille scandali di cui è stata intessuta l´esperienza di governo della destra, e che ha descritto, nella sua pervasività, nella sua sistematicità, come il nuovo paradigma della politica postmoderna, come lo smottamento di una democrazia di impianto moderno in una informe Cosa postmoderna.
La chiave per decifrare questo passaggio sta in una coppia di concetti, eccezione e menzogna, che in sinergia reciproca hanno smontato i dispositivi e gli apparati dello Stato democratico costituzionale di diritto. Il cui funzionamento esige categorie, concetti, istituzioni e procedure fondate sulla ragione, sul senso della realtà e sullo sforzo cosciente e collettivo di progettarne trasformazioni, in un orizzonte di trasparenza e di partecipazione. L´età berlusconiana, invece, non ha nulla di questa chiarezza e di questa distinzione: il suo segno è piuttosto l´alterazione dei fatti, la confusione, la menzogna. Ovvero, è la narrazione mistificante, l´autocratica manipolazione del reale, interamente trasformato in rappresentazione e sostituito dall´immaginario. È attraverso la comunicazione e l´affabulazione, e non attraverso la Costituzione, che è passata la potenza politica di Berlusconi, cioè attraverso l´officina delle illusioni del populismo, da una parte, e la "fabbrica della menzogna" dall´altra: i falsi casi Boffo e Fini, e gli incredibili e spudorati sofismi per costruirsi con ogni strumento immunità e impunità, sono stati parti di una tecnica di governo che D´Avanzo ha implacabilmente denunciato e decifrato in tempo reale.
Questo illusionismo non è un gioco di prestigio: obbedisce a interessi precisi – del Capo che si pone sopra le leggi, e dei suoi soci in affari di ogni tipo – , e diviene efficace grazie all´uso sistematico dell´eccezione, ovvero alla confusione fra i poteri dello Stato, alla loro utilizzazione extra-istituzionale, al complessivo passaggio dallo Stato delle Leggi allo Stato dei Decreti. Da Bolzaneto alla gestione dell´immigrazione fino al governo, davvero biopolitico, dell´eterna emergenza di Napoli, il caso d´eccezione utilizzato per forzare le architetture della legalità e della Costituzione, il vuoto di diritto e di verità che ne conseguono, l´arbitrio di chi vuole avere l´intera realtà politica e sociale a propria piena e illimitata disposizione, si mostrano come l´altra faccia della riduzione della realtà a finzione. Parallelamente alla sua spettacolarizzazione, la politica diventa quindi opaca, si ritira dalle istituzioni democratiche – formalmente intatte ma sotto stress e svuotate di ogni efficacia – , si verticalizza e si concentra là dove si decidono le campagne di stampa e di televisione, dove si programma la macchina del fango per gli avversari politici, dove si architettano le vie brevi per scavalcare le norme, per sostituire a queste la normalità dell´eccezione, l´iterazione della decisione. La decisione, infatti, non è mai presa per dirimere realmente una questione, ma per lasciarla sempre aperta, perché anche in futuro si debba ricorrere a nuove decisioni, mai al diritto. Il potere non sta nello stabilizzare, nel normalizzare, ma nel togliere prevedibilità e certezza alla vita politica e sociale.
La democrazia è sostituita dall´intrecciarsi della manipolazione e della decisione, dalla confusione dei poteri e dalla confusione della realtà, dalla creazione di un mondo tanto immaginario – in cui nulla è ciò che è, e tutto è ciò che sembra, e in cui si può far sembrare vera qualunque cosa – quanto, evidentemente, instabile. Appunto in questa manipolazione senza limiti del reale, che d´Avanzo rende viva e palpitante nelle sue pagine, sta l´essenza stessa della destra.
Questa volontà di potenza – di Uno, osannato da molti – è parsa straordinariamente efficace. E lo è stata, per almeno due lustri. Ma è stata al tempo stesso anche inefficace, proprio perché non ha mai voluto risolvere i problemi collettivi, ma solo dissolverli in nebbia mediatica, ai concretissimi fini individuali del Capo. E la realtà si è vendicata, si sta vendicando. E ha imposto l´allontanamento dal potere dell´illusionista, e la sua sostituzione con élites serie e competenti, che con grandi sforzi – loro, e di tutti i cittadini – stanno riportando l´Italia a contatto con i problemi reali, enormi, che Berlusconi non ha neppure scalfito. Ma quel perverso cortocircuito di eccezione e di menzogna se non è più cronaca non è ancora storia: anche se, forse, ce ne stiamo faticosamente uscendo, continua a prenderci letteralmente alla gola, e ci appare come un rischio che sarà presente, finché questa fase politica che non avrà trovato nuovi equilibri. È questo rischio che dà al libro di D´Avanzo un significato non solo documentario ma anche civile; che ne fa un esempio di critica di ciò che ancora serve e servirà all´Italia: il coraggio di smascherare la menzogna e la passione per la realtà e per la verità.

Repubblica 2.3.12
Il vero profitto
Nussbaum, la filosofia del talento
“Investiamo su capacità e diritti”
di Roberto Festa


"Non ci si può fissare sui redditi, dobbiamo pensare alle reali libertà delle persone"
"Contano scuola e salute, emozioni ed immaginazione Queste cose danno qualità"
L´ultimo saggio della studiosa è una sorta di manifesto "Contro la dittatura del Pil", per un´altra ricchezza

«Per troppi anni abbiamo sopravvalutato il Pil, che non è un indicatore reale della qualità della vita. Sono altre le cose importanti, che rivelano la ricchezza di un Paese: sanità, educazione, rispetto delle minoranze, emozioni ed immaginazione». Martha Nussbaum, celebre per i suoi studi su etica, cittadinanza, mondo classico, educazione, sessualità, dice di aver pensato a Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil come a un´introduzione generale alla teoria dell´approccio delle capacità. «Me lo chiedevano insegnanti, lettori, persone impegnate nel settore dello sviluppo».
Poi, durante la fase dell´elaborazione e della scrittura, il discorso si è allargato. Le prospettive si sono arricchite. E questa teoria del Welfare, largamente discussa dagli economisti - Amartya Sen, James Foster, Sudir Anand - , utilizzata da grandi istituzioni internazionali come lo United Nations Development Programme, è diventata un modo per approfondire le cose da sempre più importanti per la Nussbaum: giustizia sociale, pluralismo, diritti, libertà di scelta.
Perché il Pil non è un buon indicatore della ricchezza di un Paese?
«Per due ragioni. Anzitutto, il Pil è una media, non prende in considerazione distribuzione della ricchezza e ineguaglianze. Anni fa il Sudafrica aveva un Pil altissimo e pareva lanciato sulla strada di uno sviluppo travolgente. I numeri trascuravano però il fatto che il 90% della popolazione era esclusa da questa ricchezza. In secondo luogo, il Pil non riesce a descrivere aspetti centrali dell´esperienza umana. Ci sono Paesi economicamente molto forti, che trascurano completamente la sanità e hanno un sistema educativo diseguale. È il caso degli Stati Uniti. Ci sono Paesi con ottimi Pil e scarse libertà religiose e politiche. È il caso della Cina».
In che modo l´approccio delle capacità è un modello migliore, più capace di rappresentare la reale ricchezza di un Paese?
«Perché permette di fissarci non più sui redditi, sui beni materiali, sulla percentuale pro capite del prodotto interno lordo, ma sulle "capacità" di uomini e donne: la loro libertà di scelta, le loro opportunità, che sono poi la combinazione delle doti e delle conoscenze di ciascuno all´interno di un determinato contesto sociale, economico, politico».
Lei identifica dieci "capacità", dieci "diritti universali" di cui ogni uomo dovrebbe godere. Tra questi, il diritto alla vita, alla salute, all´appartenenza. Ci sono però elementi - l´immaginazione, le emozioni - che pare difficile considerare diritti di rilievo pubblico...
«Immaginazione ed emozioni sono aspetti centrali dell´esperienza umana, e non fanno semplicemente parte della sfera privata. Pensiamo per esempio ai problemi di salute emotiva delle donne. Violenza domestica, stato di minorità sociale, paura di aggressioni e stupri nutrono e guastano le emozioni delle donne. Perché le donne non possono camminare la notte, da sole, senza provare spesso un sentimento di terrore? Perché la sfera pubblica - polizia, politica, leggi - non le tutela a sufficienza. Stesso discorso per l´immaginazione. Se la scuola educa i ragazzi costringendoli a una memorizzazione piatta, non stimola l´immaginazione. Con grave danno per la società e l´economia, dove la capacità di innovare e immaginare soluzioni nuove è cruciale».
Cosa risponde a chi rimprovera a questo modello un´eccessiva concentrazione sulle opportunità, piuttosto che sulle realizzazioni?
«Guardi, io non credo alla necessità di dire alla gente come comportarsi e vivere. Credo si debbano rimuovere gli ostacoli, offrire opportunità. Poi ognuno decide, sulla base delle proprie competenze, tradizioni, predilezioni. L´approccio delle capacità dice che ogni essere umano deve godere di un certo diritto alla salute, alle libertà politiche e religiose. Non chiede alle persone di agire in un certo modo, né si immischia con le coscienze individuali. Le faccio un esempio: l´obbligo di votare. Ci sono religioni, come quella degli Amish negli Stati Uniti, che impongono di non partecipare alla vita politica. È un loro diritto. Quello che le istituzioni statali e di governo devono fare è offrire strumenti di partecipazione, un´educazione adeguata, il diritto di arrivare fisicamente al seggio, la trasparenza delle procedure di voto. Poi, spetta al singolo decidere se collocare la scheda nell´urna».
L´approccio delle capacità è più un modello di rilevazione della ricchezza o più una teoria di giustizia sociale?
«È entrambe le cose. Per gli economisti, è stato un modello utile a misurare la qualità della vita nell´ambito di una teoria di Welfare avanzato. Per me, è stato un modello di giustizia e un appello all´azione. Quando si usa il termine giustizia e si afferma che un Paese che non rispetta determinati standard su sanità ed educazione non è giusto, si dà un enorme impulso all´azione. Penso al caso del Giappone, per decenni in cima a tutte le tabelle del Pil, ma che precipitò nelle classifiche, quando le istituzioni di sviluppo mondiali cominciarono a prendere in esame indicatori come il gender, il genere. Be´, negli ultimi anni molto è stato fatto in Giappone per migliorare la condizione delle donne. La teoria dell´approccio delle capacità, con la lista dei diritti che devono essere garantiti a ogni persona, ha fissato gli standard minimi per una vita decente ed è stata una grande alleata del movimento mondiale per i diritti umani».
Lei, Amartya Sen, gli altri teorici delle capacità rilanciate una teoria del Welfare in un momento di riduzione della spesa sociale in tutto il mondo. Non vi sembra una posizione antistorica?
«No. Sicuramente l´approccio delle capacità non corrisponde a certi trend del mio Paese, gli Stati Uniti. Ma sono convinta che, nonostante le difficoltà, l´Europa rappresenti ancora un luogo dove sicurezza e protezione sociale sono beni da tutelare. È a quel mondo che guardano quelli come me».
Eppure in Italia è aperta una discussione politica e culturale sull´abolizione dell´articolo 18. Per alcuni è una necessità, renderebbe più dinamico il mercato del lavoro. Per altri è un attacco a un diritto essenziale. Cosa risponde, sulla base dell´approccio delle capacità?
«Rispondo che il lavoro è un diritto ineliminabile di ogni uomo, e quindi lo Stato deve fare di tutto per garantirlo, al più alto numero di uomini e donne e per buona parte della loro vita. Penso per esempio al caso dell´India, dove il Congresso ha votato un numero minimo e stabilito di giornate di lavoro annue per ogni famiglia di agricoltori. Non vivere attraverso il proprio lavoro compromette la dignità umana. Per essere giuste, le politiche devono essere rivolte alla piena occupazione».

Repubblica 2.3.12
Eve Ensler ha fatto un libro raccogliendo testimonianze sulla violenza di genere
Quei nuovi monologhi in difesa delle donne
di Michela Marzano


L´autrice, che ha organizzato i V-day, sarà a Milano il 2 aprile per leggere i testi. Stavolta al volume partecipano molti autori celebri, compreso Dave Eggers

È conosciuta per i suoi Monologhi della vagina. Ormai tradotti in più di trenta lingue e portati in scena ogni anno in tutto il mondo. Ma Eve Ensler non è solo l´autrice di questa famosa pièce teatrale diventata un simbolo per molte. È anche e soprattutto una scrittrice impegnata e una femminista convinta che, da più di vent´anni, si batte contro le violenze sulle donne. La Ensler vuole che la gente si renda conto che, nonostante tutti i progressi e i discorsi e l´impegno, la violenza che subiscono le donne continua ad essere uno dei più grandi flagelli contemporanei. E per questo ha deciso di non fermarsi mai.
Così dopo aver dato vita nel 1998 al movimento del V-Day, che ogni anno organizza eventi e manifestazioni creative (sarà a Milano il 2 aprile al teatro dell´Elfo Puccini), continua a scrivere, a recitare, a pubblicare. Perché l´arma più efficace contro la violenza è la parola: parole per dire quello che per tanto tempo si è taciuto, parole per battere la vergogna, il senso di colpa, la paura, la solitudine.
Un metodo, il suo, che ha infranto molti tabù. "Parlare del non detto. Parlare del già detto in modo nuovo e vitale, parlare del dolore, parlare della fame. Parlare. Parlare della violenza sulle donne". È così che inizia l´ultimo libro di Eve Ensler, A Memory, a Monologue, a Rant and a Prayer. Una raccolta di memorie, monologhi, invettive e preghiere recitate a New York nel 2006, durante il festival Until the Violence Stops. Una serie di testi inediti sul tema delle violenze contro le donne che la Ensler aveva chiesto a scrittrici e scrittori (c´è anche Dave Eggers) per invitare i newyorchesi a prendere posizione e fare in modo che il mondo diventasse un luogo più sicuro per tutte le donne e tutte le bambine. Perché il meccanismo della violenza è perverso: non solo controlla e sminuisce le donne mantenendole al "loro posto", ma le distrugge. Visto che è estremamente difficile, per una donna che subisce violenze e umiliazioni, confessare ciò che ha vissuto o continua a vivere. Le parole mancano, si balbetta, non si riesce a spiegare esattamente ciò che è successo. Ci vogliono anni per poter riuscire ad integrare questi "pezzi di vita" all´interno di un racconto coerente. Eppure è solo raccontando le storie di questa violenza che si può legittimare l´esperienza femminile, svelando ciò che accade nell´oscurità, lontano dagli sguardi. Quando tutto sembra "perfetto", come il matrimonio di cui parla Edward Albee e che dopo qualche anno si frantuma, perché "lui" ama i lividi e il sangue, mentre "lei" non sa più che fare: "Chi ero io? Chi sono io? Non c´è niente da fare. Non posso andarmene". È solo scrivendo che si può veramente denunciare la barbarie del razzismo, quando sembra "normale" che una donna di colore sia violentata perché "il suo corpo, come i corpi di tutte le donne nere, non le è mai appartenuto davvero; o forse non è mai appartenuto solo a lei", come scrive Michael Eric Dyson. Solo le parole possono trasformarsi in preghiera, perché per fermare questa violenza, come dice Alice Walzer, la donna deve cominciare a "fermare la violenza contro se stessa".
L´antologia curata da Eve Ensler è libro particolare ed emozionante, tradotto ora anche in italiano da Annalisa Carena per Piemme. I monologhi e le invettive non sono tutti dello stesso livello. Ma esistono alcune perle che rendono il libro molto bello. Peccato che l´editore italiano abbia voluto cambiare il titolo per trasformarlo in un ormai banale: Se non ora quando? Anche perché l´antologia curata dalla Ensler non è solo un "evento editoriale". Era nato perché la parola delle donne si liberasse all´insegna della lettera "V" (Vittoria, Valentino - visto che il primo fu fatto il 14 febbraio - Vagina) del V-Day. Ma poi è diventato un´opera narrativa, sociale, politica, il cui messaggio universale non può ridursi ad un semplice slogan.
Certo, non si potrà mai definitivamente eliminare l´ambiguità profonda che ogni essere umano si porta dentro. Nessuno di noi è immune dall´odio, dall´invidia, dalla volontà di dominio. Ma le parole aiutano a ritrovare un senso. Aiutano, non solo a dire, ma anche a fare, come hanno spiegato bene i filosofi americani Austin e Searle. Perché il linguaggio è sempre performativo. È un azione, che può cambiare il mondo.

La Stampa 2.3.12
Come valuta di riserva lo yuan cinese è sempre meno credibile
di Johon Foley


La marcia della Cina verso il predominio sul mercato delle valute sembra diventata un po’ più lunga. Secondo i dati del 1˚ marzo, a gennaio i depositi di yuan detenuti a Hong Kong hanno registrato una diminuzione, che a partire dalla fine di novembre a oggi è arrivata all’8%. Di fronte a minori prospettive di apprezzamento dello yuan, gli investitori esteri hanno molte ragioni in meno per detenere la divisa cinese. E questo, per una moneta che aspira a diventare valuta di riserva, non è un ostacolo da poco.
Quando lo yuan sembrava sottovalutato, tutti lo volevano. Oggi si continuano ad aprire nuovi canali per l’acquisto di yuan e si parla di istituire nuovi hub di scambio a Londra e in altre città. Ma in questo momento è difficile immaginare perché gli investitori dovrebbero utilizzarli. Il valore dello yuan sembra abbastanza corretto. Con il rallentamento dell’economia, non vi sono molti fattori che possano determinare un suo deciso rialzo. D’altra parte, lo yuan non è pronto a diventare una valuta di riserva perché la Cina non presenta i requisiti necessari: inflazione stabile, politiche trasparenti e libera convertibilità.
Le banche cinesi, che erano solite acquistare fondi offshore, hanno iniziato a rimpatriare il denaro per sostenere i propri bilanci. Anche le aziende sembrano adottare la stessa linea, a giudicare dall’inspiegabile impennata dei flussi legati agli scambi registrata a dicembre. Del resto, i depositi in yuan detenuti a Hong Kong hanno ancora un misero rendimento dello 0,5%, contro il tasso a tre mesi del 3,1% applicato nella Cina continentale. Nel periodo in cui i depositi in yuan si stavano gonfiando, sembrava che Pechino potesse eludere la necessità di offrire agli investitori la piena convertibilità della valuta, offrendo in cambio la prospettiva di un sostanziale apprezzamento del renminbi. Anche senza questi profitti, la Cina arriverà un giorno ad avere una valuta globale; quando però si tratta di detronizzare il dollaro, non esistono scorciatoie per nessuno.

l’Unità 2.3.12
Quanti errori sulla vita di Gramsci
Soprattutto nelle interpretazioni legate agli anni del carcere. Come la ricostruzione proposta da Dario Biocca che fa riferimento a una richiesta di «libertà condizionale» che il fondatore del Pci, in realtà, non presentò mai
di Piero Naldi


Purtroppo è ormai lunga la serie degli scritti che propongono ricostruzioni di aspetti della vita di Antonio Gramsci, e in particolare delle vicende che la segnarono dal 1926 al 1937, gli anni del carcere, basate su gravi errori interpretativi, se non addirittura su contraffazioni. Su questa linea, probabilmente in modo non voluto, si colloca anche un articolo a firma di Dario Biocca pubblicato il 25 febbraio da La Repubblica. Alcune delle considerazioni che si possono leggere in quell’articolo, che in realtà riassume il contenuto di un saggio in corso di pubblicazione sulla rivista Nuova Storia Contemporanea, sono svolte in modo troppo sintetico per poterle discutere senza attendere la pubblicazione del saggio completo. Ma quanto si afferma sulla richiesta presentata da Gramsci nel settembre del 1934 di accedere ai benefici previsti dalla legge per la concessione della libertà condizionale e si tratta del punto più importante discusso nell’articolo è espresso con grande chiarezza e merita già ora una risposta altrettanto chiara.
Secondo la ricostruzione proposta da Biocca, l’articolo 176 del Codice Penale in vigore negli anni in cui Gramsci presentò quella richiesta prevedeva che a tal fine il detenuto dovesse aver mostrato «ravvedimento», e che in questo senso la procedura poteva e può essere considerata «analoga alla domanda di grazia». Ma tutto ciò bisogna dire che semplicemente non è vero. Un riferimento al «ravvedimento» era contenuto nell’articolo 16 del Codice Penale del 1889 (il cosiddetto «Codice Zanardelli»): «Il condannato alla reclusione per un tempo superiore ai tre anni, che abbia scontato tre quarti della pena e non meno di tre anni, se si tratti della reclusione, o la metà, se si tratti della detenzione, e abbia tenuto tale condotta da far presumere il suo ravvedimento, può, a sua istanza, ottenere la liberazione condizionale, sempre che il rimanente della pena non supera i tre anni» (Codice Penale per il Regno d’Italia, Roma, Stamperia Reale, 1889). Ma questo codice fu riformato nel 1930 con l’introduzione del cosiddetto «Codice Rocco». E nel Codice Rocco l’articolo 176 recitava in questo modo: «Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni» (Il nuovo codice penale, Edizioni nuovo diritto, Roma, 1931; Codice Penale, Hoepli, Milano, 1939).
QUALE TRADIMENTO
Dunque la richiesta di liberazione condizionale presentata da Gramsci nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la «buona condotta» è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche il semplice sospetto che egli volesse presentarla. E anche la dichiarazione che Gramsci firmò nell’autunno del 1934 impegnandosi a non utilizzare il beneficio ottenuto per fare propaganda politica in Italia o all’estero non aveva nulla a che fare con una «sottomissione» o un «ravvedimento»... Certamente anche Mussolini sapeva che su questo terreno Gramsci non avrebbe accettato compromessi e capiva che era inutile sperare in una sua capitolazione. Forse però Biocca non ha studiato né il Codice Zanardelli, né il Codice in vigore negli anni Trenta, ma il testo dell’articolo 176 secondo le modifiche introdotte nell’anno 1962; infatti è da questo che Biocca cita: «Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale» (Codice Penale, Giuffrè Editore, Milano, 1987) ... non era questo il testo in vigore quando Gramsci presentava la sua domanda. Ovviamente tutto ciò toglie ogni fondamento alle affermazioni di Biocca circa la possibilità che, presentando una richiesta di liberazione condizionale, Gramsci «tradisse» i propri compagni di partito.

La Stampa 2.3.12
Gramsci, il mistero del quaderno scomparso
di Mario Baudino


L’inconsapevole Julca «Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto, di cui il tribunale speciale non è stato che l’indicazione esterna e materiale, che ha compilato l’atto legale di condanna. Devo dire che tra questi “condannatori” c’è stata anche Julca». Così il padre del comunismo italiano scriveva a Tania il 27 febbraio 1933. Julca è il nome della sua prima moglie, ma nel linguaggio cifrato della lettera allude al blocco comunista. Il documento è noto, ed è stato oggetto di ampie discussioni. Ora però il linguista Franco Lo Piparo, nel suo I due carceri di Gramsci (Donzelli), è andato oltre. E studiando appunto da linguista questa e altre lettere, è giunto a conclusioni che hanno riacceso lo scandalo. Una su tutte: è indubbiamente sparito un «quaderno dal carcere»: dovevano essere 34, Togliatti ne ha fatti pubblicare 33. Il leader del Pci avrebbe insomma censurato gli ultimi scritti, quando Gramsci, ormai in libertà condizionata, si sarebbe molto allontanato dalla politica del partito e forse dalla stessa idea di comunismo. Immediato il seguito di stroncature anche piuttosto indignate (per esempio sul Manifesto e sull’ Unità ) ma anche di forti aperture di credito, come quella di Luciano Canfora - che non è certo un «revisionista» - sul Corriere . Rimane Julca, che per Gramsci è inconsapevole, e quindi innocente. Ma non l’ambiente che essa rappresenta, spiega Lo Piparo, quello cioè di «altre persone meno inconscie». Le stesse che avevano interesse a far sparire il quaderno?

Corriere della Sera 2.3.12
Tanti saluti al progresso È il tramonto di un'idea
Sono venute meno molte illusioni del passato
di Giuseppe Bedeschi


P er molto tempo la cultura europea ha nutrito una ferma fede nel progresso: essa ha creduto che il cammino della civiltà non avrebbe incontrato ostacoli né subito interruzioni, e che avrebbe accumulato conquiste (non solo scientifiche e tecniche, ma anche morali e politiche) sempre più elevate. Nel Settecento, questa è stata la convinzione di autori come Voltaire, Turgot, Condorcet (il cui Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain è del 1793). Nell'Ottocento l'idea di progresso ha costituito il fulcro delle concezioni di tre giganti del pensiero: Hegel, Comte e Marx.
Potente e suggestivo il disegno tracciato da Hegel. Per lui la storia universale era stata un processo ascendente, nel quale il popolo più evoluto in una data epoca aveva espresso un principio, che comprendeva in sé tutti i principi dei popoli passati, tutte le loro conquiste (nulla andava perduto nella storia), ma in una sintesi nuova e più ricca. Tale processo tendeva a una meta, a un fine ultimo: la piena realizzazione della libertà. E infatti nel mondo orientale uno solo era libero; nel mondo greco-romano solo alcuni erano liberi; nel mondo cristiano-germanico tutti sono liberi.
Anche Comte elaborò uno schema storico di tipo ascendente (sviluppando temi già presenti in Saint-Simon). Per lui la storia umana aveva percorso tre stadi mentali (teologico, metafisico e scientifico), che avevano dato origine a tre grandi tipi di organizzazione sociale, a tre grandi epoche: l'epoca «teologica e militare», l'epoca «metafisica e giuridica», l'epoca «scientifica e industriale». In quest'ultima il potere era esercitato, razionalmente, dagli scienziati e dagli industriali.
Uno schema ascendente ha caratterizzato anche la riflessione di Marx, al quale lo sviluppo storico appariva come «una serie coerente di forme di relazioni, la cui connessione consiste in questo, che al posto della forma di relazioni precedente, divenuta un intralcio, viene sostituita una nuova, corrispondente alle forze produttive più sviluppate». Il «motore» dello sviluppo storico era quindi la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione (o «forme di relazioni»), che sarebbe sfociata in una società superiore materialmente e spiritualmente: la società comunista, la quale era la «soluzione dell'enigma della storia».
Questo ottimismo storico entra in crisi già negli ultimi decenni dell'Ottocento, come ci ricorda Pietro Rossi nel suo bel libro Il senso della storia. Dal Settecento al Duemila, appena edito da Il Mulino (466 pagine, 27 ). Un grande umanista come Jacob Burckhardt (reso celebre da un'opera affascinante: La civiltà del Rinascimento in Italia), nelle sue Considerazioni sulla storia universale (1868-1873) svolge motivi assai diversi da quelli fino ad allora prevalenti: per lui la storia, lungi dal poter essere considerata come «un crescente perfezionamento (il cosiddetto progresso)», è piuttosto un processo al quale è essenziale la lotta (come avviene nel regno animale). La storia ci mostra la presenza costante del male, della violenza, della sopraffazione dei più forti sui più deboli, un «quadro spaventoso», fatto «di disperazione e di strazio».
Nel pubblico che assisteva alle lezioni di Burckhardt a Basilea c'era anche il giovane Nietzsche. Anch'egli ripudierà interamente l'idea di progresso, ma rifacendosi a motivi assai diversi da quelli svolti da Burckhardt, e che definirei antiumanistici (critica del cristianesimo come religione dei deboli, critica della democrazia e del suo egualitarismo, esaltazione degli eroi, dei superuomini, eccetera). Ma il pensatore più emblematico nel processo di dissoluzione dell'idea di progresso è Spengler, col suo famoso libro Il tramonto dell'Occidente (il cui primo volume appare nel 1918, quando l'Europa esce dissanguata dalla guerra, e riscuote un enorme successo in Germania). Spengler afferma che le civiltà sono organismi che, come nascono, crescono e vigoreggiano, così decadono, invecchiano e muoiono. La nostra civiltà europea è sul punto di estinguersi. Essa si trova (come tutte le civiltà che hanno esaurito il loro corso) in una fase di Zivilisation: la religione decade, e ciò determina il tracollo di tutti i valori del passato; all'anima, ormai morta, è subentrato l'intelletto come putrefazione dell'anima; nella democrazia il popolo si è ormai dissolto in una massa amorfa e manipolata; la politica non dirige più l'economia ma è subordinata a essa; il denaro è divenuto la suprema potenza della società.
Rossi si sofferma anche, e giustamente, su autori come Alfred e Max Weber (come non ricordare la sua tesi che l'organizzazione razionale-burocratica del mondo moderno ha costruito una «gabbia d'acciaio» che isterilisce la spontaneità e la creatività degli uomini?) o come Sorel (il suo Les illusions du progrès è del 1908).
Io aggiungerei Pareto e Croce. Pareto rifiutava tutte le filosofie della storia, sia idealistiche che materialistiche. L'unica cosa che la storia ci mostra, egli diceva, è il succedersi delle élite, la loro continua trasformazione, la loro decadenza, la loro scomparsa (più o meno rapida, più o meno violenta). Questa successione di élite non è regolata da nessuna legge storica, da nessuna scansione dialettica; in essa si manifesta solo una sorta di «moto ondoso», nel senso che le varie élite si formano e si dissolvono come le onde del mare.
Era una visione sconsolata, quella di Pareto, ma il suo pessimismo storico si sarebbe manifestato anche in autori che per decenni erano stati sostenitori dell'idea di progresso. È il caso di Croce, che nella sua vecchiaia, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, scriverà che «talvolta popoli civili si imbarbariscono, si inselvatichiscono, si animalizzano o ridiventano bestie feroci, e tornano nella natura». Il fatto è, egli diceva, che c'è in noi un «Anticristo, distruttore del mondo, godente della distruzione». Con queste parole il vecchio filosofo non era molto lontano da un pensatore da lui non amato, Sigmund Freud, che aveva parlato della pulsione di distruzione presente in ognuno di noi, sicché il processo di edificazione della civiltà si configura come una grandiosa e drammatica lotta tra Eros e Thànatos.

La Stampa 2.3.12
Alla corte di Peggy danzano Miró, Mondrian e Calder
I tre artisti protagonisti della mostra di opere dalla collezione Guggenheim che si inaugura oggi a Vercelli
di Marco Vallora


A sinistra Interno Olandese II di Miró, 1928, sopra Natura morta con vaso II, di Piet Mondrian, 1911-12, sotto Peggy Guggenheim monta dei Mobiles di Calder La mostra i Giganti dell’Avanguardia sarà visibile all’Arca di Vercelli fino al 10 giugno
Attenzione, attenzione, non cadere nella trappola. Letta così, con sbadata distrazione e condivisibile prevenzione, tutta «italiana», la triade «Miró, Mondrian, Calder» (difficile persino metterli in riga, non alfabetica) così, sulla carta, può anche suonar sospetta e suscitar perplessità. Ma che ci vado mai a fare a Vercelli? Potrebbe parere una delle tante sottoesibizioni assessoriali, in cui si sfruttano nomi-civetta, per convogliare folle affamate di chicchessia, e metter insieme qualche uggioso scartino, trovato qui e là nei fondi di collezioni e gallerie. E buggerato sia, chi paga e s’accontenta. Ed invece no, attenzione. Vercelli con la sua Arca preziosa ed un pedigree ormai di mostre nobilissime e soprattutto il nome affidabile del curatore Luca Massimo Barbero (che l’agonizzante politica ce lo conservi e non s’azzardi a toccarlo) dovrebbero averci abituati ormai a far fermare a mezza-strada il trenino Torino-Milano a non mancare una delle poche mostre remunerative in corso, in questa stagione confusa e scricchiolante.
Basterebbe, all’entrata, quell’incontro-choc con un’opera poco vista ma basilare, come Il vaso di zenzero di Mondrian, ansimante e letteralmente «sbavante» (di bleu, di luci, di piani, riferimenti, ansietà strutturali e bulimie formali, che aspirano esalando ad una dieta mentale) per capire in che capsula e a quale livello di qualità siamo penetrati (accanto, una sorta di bozzetto-ripensamento-variazione del Vaso stesso. Idem per quella superba Composizione a losanga Anni 30, spavalda e post-malevitciana, con il suo pargolodisegno preparatorio a lato). E se poi l’occhio-periscopio si permette di regalarsi un periplo a 180 gradi in quella stanzetta introduttiva, non poi così slanciata, ma sufficiente, per afferrare e carezzare in un panopticum folgorante i vari periodi d’un genio respirante della pittura e dell’architettura visiva, si renderà subito conto che certe volte bastan poche opere ben scelte e sintomatiche, secondo un progetto critico consapevole e prestabilito, per dare un significato sensato a queste operazioni di azzardata miscela. Non necessariamente capolavori assoluti (anche se qui per lo più di questo si tratta e di opere simboliche, passate sotto lo sguardo vigile di Peggy Guggenheim).
Per esempio, quel primo paesaggio di Mondrian, in stile scuoiato-Scuola dell’Aja, che potrebbe anche essere un Duchamp giovanile od un Fontanesi avvinazzato, non ancora tocco dalle suggestioni simbolistico-teosofiche successive, anche se c’è l’acqua di palude, il riflesso navigante, lo spettinarsi a spettro della pennellata-riverbero. Ma c’è già soprattutto in nuce, appunto, quel Mondrian che aspirerà ad una pulizia religiosa della mente e a una visione cartesiano-ortogonale della costruzione pittorica (neoplastica). Che sbraca assai presto, nei primi anni Dieci, a Parigi e certo rimane sedotto da quelle impalcature di città moderna, che ri-racconta in parte come interni matissiani, in parte come scontro-incontro maschile-femminile di ascisse, appunto razionalistico-cartesiane, ma soprattutto vede e scopre e centellina Cézanne, in modo diverso da Braque e da Picasso. Così il genio prensile di Apollinaire si rende conto che quella è comunque una declinazione di cubismo, di «sensibile cerebralità», che sta per maritare una semplificazione sempre più estrema e protestante. Comunque respirante. Nonostante l’apparente gabbia geometrico-inesorabile-chirurgica: ma se ci si avvicina con sensibilità, si ausculta come la sua mano trema, esita, flauta colori elementari, danza. Allora, ci si chiederà: ma cosa c’entra tutto questo con l’onirismo pneumatico di Mirò o con Calder, l’artista più vitale, yankee, leggero, persino leggiadro, mondo di gravità, acrobatico, scappato dal circo uggioso della monumentalità rodiniana?
C’entra e non è solo l’aneddotica a provarcelo. Quando è un giovane ancora indifferente all’arte (nonostante il padre sia scultore) e vorrebbe fare l’ingegnere, il caso lo porta nella casa americana di Mondrian e qui è proprio quel luogo asettico (inesorabile bianco e nero, nessuna sporcizia della vita, luce vermeeriana e geometria) a convincerlo a diventare un artista astratto. Con capricciosa agilità.
Come il vento che scompiglia e ricompone i capelli di ferro dei suoi ondeggianti mobiles, che lo salvano dalla monumentalità ingegneresca del ferro di Eiffel e lo portano verso la spiaggia argentata della testiera di letto (arricciata di paraffi liberi come una voliera) che Peggy Guggenheim mette dietro la propria vulcanica testa di dogaressa veneziana. E, sbarcando a New York, un orecchino di Calder, che significa astrattismo, l’altro di Tanguy, che significa Surrealismo.
Quando incontra Mondrian a Londra, l’olandese non le chiede di poter accedere nella sua collezione, ma dove può andare a ballare con lei, ed ha già sessantasei anni (forse sta pensando a Boogie Woogie, chissà). Vogliamo dire che questa è una mostra «danzata», un «galop» di capolavori, di passi allacciati e dionisiaci, tra le braccia generose di Peggy esplosioni pittoriche che si rispondono a distanza, come le liriche Costellazioni di Calder e di Miró, che si guardano a vicenda e battibeccano, secondo un sistema Morse-affettivo, che distrugge la vulgata avanguardistica degli «ismi»? Diciamolo pure, e fermiamoci a Vercelli.

Corriere della Sera 2.3.12
Mondrian, Mirò, Calder alla corte di Peggy
Surreali, astratti e poetici: l'incrocio di tre destini all'ombra della donna che allevò l'arte del '900
di Francesca Montorfano


Uno spagnolo, un olandese, un americano. Personalità e destini differenti che, in un magico momento della storia culturale e artistica del Novecento, si sono incontrati, hanno intrecciato esperienze e linguaggi, cambiando il modo stesso di fare arte, diventando il punto di riferimento per le generazioni a venire. Joan Miró con il suo poetico surrealismo, con quelle rappresentazioni fantastiche e oniriche dove la creazione è anche gioco, divertimento, ironia. Piet Mondrian, alla ricerca di quella superiore armonia dell'universo che lo porterà ad allontanarsi dalla raffigurazione della realtà per arrivare a una semplificazione assoluta di linee e colori. Alexander Calder, che saprà riflettere suggestioni surrealiste e astratte insieme e rivoluzionare il concetto stesso di scultura, facendo dell'aria e del vento, della fluidità e del movimento, gli elementi costitutivi delle sue opere, i suoi celeberrimi mobiles come li definirà Duchamp. Sarà proprio un giovane Calder, arrivato a Parigi nel 1926, a legarsi d'amicizia con Miró e il gruppo surrealista e a entrare poi in contatto anche con Mondrian, restando affascinato dallo studio dell'artista, con le pareti dipinte di bianco e suddivise da linee nere e rettangoli luminosi, come i suoi quadri. «In quel momento pensai a come sarebbe stato bello se tutto avesse preso a muoversi», racconterà in seguito, quasi a sottolineare come da quella visione fosse nata l'idea che sarà alla base del suo universo creativo. Inizia così quel dialogo continuo fra i tre grandi protagonisti dell'avanguardia, quello scambio di stimoli ed esperienze che durerà tutta la vita e li porterà a frequentare il circolo di artisti e intellettuali riuniti nei primi anni Quaranta intorno alla casa e alla galleria newyorkese di Peggy Guggenheim, grande collezionista e mecenate e, insieme allo zio Solomon, capace di entusiasmarsi per le sperimentazioni più avanzate.
Sarà oggi la nuova mostra all'Arca di Vercelli a raccontare le vicende di quegli anni così ricchi di fermenti creativi e di quegli artisti nei quali Peggy e Solomon avevano creduto, vincendo la sfida. Una quarantina di dipinti ad olio, tempere, gouaches, pastelli e sculture provenienti dalle collezioni Guggenheim e da altre prestigiose raccolte ne traccerà il percorso creativo dalle prove giovanili ai traguardi finali. «Oggi più che mai l'Arca si presenta come uno scrigno, un "concentrato" di capolavori straordinari. Ad andare in scena è uno spettacolo dalle tante letture, cronologico e al tempo stesso emblematico dell'opera dei tre grandi artisti, visti nella specificità e nel valore del proprio linguaggio ma anche nel gioco di confronti che li ha portati a rispecchiarsi, a inanellarsi l'uno nell'altro. Sarà proprio Calder il magnete delle diverse esperienze, il traghettatore in America di quella vicenda astratta e surrealista che era nata in Europa e si proponeva di riformulare il mondo esistente, di dare un'interpretazione nuova della realtà», commenta Luca Massimo Barbero, curatore dell'evento.
Ad aprire il percorso è Mondrian, con un nucleo strepitoso di opere che ne seguono l'evoluzione creativa da una pittura ancora legata ad echi postimpressionisti e simbolisti e a lavori che riflettono suggestioni cubiste, come «Calla»; «Fiore Blu», «Estate», «Duna in Zelanda» o le due «Nature morte con vaso di zenzero», ad altri, come «Composizione I», dove il passaggio ai colori primari è compiuto, dove la realtà è ricostruita in un intreccio ortogonale di linee verticali e orizzontali, archetipo di un rigoroso ordine cosmico. Ed ecco Miró, con quelle visioni immaginifiche, quei segni grafici, quelle forme antropomorfe che paiono fluttuare nello spazio, con quell'«Interno Olandese II» ispirato a un capolavoro seicentesco, con «Donna seduta II», dove la figura femminile è ormai trasfigurata o «Pittura» del 1953, summa di tutto il suo universo.
Nello splendido scenario dell'Arca e degli antichi affreschi di recente riportati alla luce è adesso la volta di Calder. Di lui la mostra mette in luce l'intera vicenda artistica dai lavori degli anni Trenta, «Senza Titolo» o «Mobile», agli stabiles, forme astratte immobili a terra, ai ritratti in filo di ferro, ai dipinti su carta, agli oggetti più intimi, personali, realizzati per Peggy. Sarà proprio Calder infatti a creare per lei i famosi orecchini mobiles e la testiera di letto in argento per Palazzo Venier de' Leoni, misteriosa e viva nel suo disegno di luce. Sempre a lui toccherà l'onore di vedere il suo «Arco di petali», con la sua cascata di forme e colori, fotografato insieme al presidente della Repubblica Einaudi e alla grande collezionista alla storica Biennale di Venezia del 1948.

Corriere della Sera 2.3.12
Tra dissolvenze e contorni Da Leonardo ai moderni la doppia scelta di uno stile
Il mix di forma e colore divide i grandi pittori
di Francesca Bonazzoli


C i sono molti punti di contatto che uniscono Calder, Miró e Mondrian. Oltre a Peggy Guggenheim e alla città di Parigi, anche l'uso degli stessi, pochi e scelti colori: il giallo, il rosso, il blu, il bianco e il nero. E anche, non ultima, l'appartenenza a un'unica grande famiglia i cui membri si possono rintracciare a ritroso lungo diverse generazioni di artisti. È la famiglia di coloro che stendono il colore in campiture nette, disegnano forme che appaiono ritagliate dallo sfondo e utilizzano la linea di contorno nera.
Per capire di cosa stiamo parlando basta pensare alla Nascita di Venere di Botticelli e, per contrasto, alla Gioconda di Leonardo da Vinci. I due artisti sono entrambi campioni del Rinascimento fiorentino e solo sette anni separano la nascita del primo dal secondo. Tuttavia la differenza del loro modo di dipingere non potrebbe essere maggiore: Botticelli disegna le figure circoscrivendole con una netta linea di contorno; crea le ombre con il nero e separa un colore dall'altro accentuando l'effetto attraverso i contrasti cromatici, per esempio, fra le scure ali di Zefiro e il suo luminoso drappo azzurro. Tutti i dettagli sono disegnati e rigidi, certi, dall'ombelico di Venere alle increspature del mare dipinte come tante V messe in fila una dietro l'altra.
Al contrario, nella Gioconda, Leonardo raggiunge l'acme della tecnica da lui introdotta dello sfumato, ovvero di una pittura che passa gradualmente da un tono all'altro di colore, sfumando le tinte anziché giustapporle le une alle altre in contrasti anche violenti. Leonardo aborrisce la linea di contorno persino nei disegni che appaiono come grovigli di segni accumulati gli uni sugli altri, incapace com'era di sopportare una forma chiusa, finita, congelata una volta per tutte perché le forme, come le osservava da scienziato, in natura non si presentano mai fisse.
Molti artisti seguirono la sfumato leonardesco, mentre altri scelsero consapevolmente i canoni quattrocenteschi. Così fece, per esempio, Lorenzo Lotto, il quale costruiva quadri stupendi che sembravano composti da pezzi di smalto accostati per contrasti luminosi, il chiaro contro lo scuro, nettamente delineati nei contorni. Ma il suo pur affascinante arcaismo non suscitò lo stesso entusiasmo della pittura tonale di Tiziano che, al contrario, rincorreva una fusione sempre più intima di luce e di ombra ed esibiva la sua spregiudicata bravura in quadri sempre più monocromi, giocati su pochi colori delle stesse tonalità come il superbo Ritratto di Paolo III con i nipoti, a Capodimonte, che può considerarsi una variazione virtuosistica sui toni del rosso.
Gli esempi di queste due famiglie «geneticamente» opposte possono portarci, applicando lo stesso schema, fino al Novecento e ai tre artisti da cui siamo partiti. Se osserviamo il movimento a posteriori, di solito a soccombere è la prima famiglia, quella di Botticelli e di Mondrian, della pittura di linea, per intenderci; ma in realtà il movimento è ciclico, quasi un'alternanza perfetta. Heinrich Wölfflin, nel 1915, ci scrisse addirittura un celeberrimo saggio «I concetti fondamentali della storia dell'arte», che offre ancora oggi spunti interessanti, in cui proponeva l'analisi sistematica di cinque coppie antitetiche delle «forme di visibilità» con le quali poter leggere i tratti caratteristici dell'arte rinascimentale in antitesi a quelli barocchi. Naturalmente lo schema di Wölfflin ha un impianto troppo rigido, ma è indubbio che certe coppie come lineare-pittorico, forma chiusa-forma aperta, chiarezza assoluta-chiarezza relativa, offrono dei passepartout applicabili alla lettura trasversale delle forme di tutte le epoche.
Non è forse un movimento di tesi-antitesi anche quello che separò il Neoclassicismo e l'Impressionismo? Da una parte la linea chiusa e i colori giustapposti a contrasto della fanciulla dipinta da Ingres ne «La sorgente», non a caso un chiaro riferimento alla Venere botticelliana; dall'altro lo sfarfallio di luce che sfuma i corpi delle Veneri di Renoir sempre sul punto di sfaldarsi nei trapassi tonali e nelle forme aperte dello spazio circostante. Come la Fenice, l'arte rinasce sempre dalle sue ceneri.

giovedì 1 marzo 2012

l’Unità 1.3.12
La rete di solidarietà «Siamo con l’Unità voce fuori dal coro»
Quasi duemila firme alla nostra lettera a Marchionne: «L’Unità torni in fabbrica». Veltroni: rimuovere le bacheche un gesto di intolleranza. Di Pietro: una ritorsione. Natale (Fnsi): «Stupisce il silenzio del governo»
di Andrea Carugati


«Marchionne, rimetti l’Unità al suo posto». In redazione continuano ad arrivare centinaia di firme in calce al nostro appello per chiedere ai dirigenti della Magneti Marelli del Gruppo Fiat di rimettere al loro posto le bacheche che da 50 anni ospitavano l’Unità nelle fabbriche. Da oggi iniziamo la pubblicazione sul giornale delle firme, con le prime 750.
Tra i tanti che hanno voluto far sentire la loro voce, anche sui social network (su Twitter con la parola chiave #iostoconlunita), anche Walter Veltroni, che in un articolo che pubblichiamo a pagina 23, scrive: «Solo uno spirito di intolleranza può pensare di rimuovere l’Unità dalle bacheche di una fabbrica pensando di sottrarre un punto di vista che ha fatto bene al giornalismo, alla cultura e alla politica italiana». Antonio Di Pietro parla di «deplorevoli atti di ritorsione da parte di alcuni imprenditori che vogliono costringere i lavoratori a diventare servi e a rinunciare a diritti fondamentali». E aggiunge: «Siccome ci sono alcuni organi di informazione, come l’Unità, che denunciano la violazione dei diritti sindacali, allora vengono esclusi dalle fabbriche».
ADESIONI E SOSTEGNO
Giuseppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci, racconta: «Quando ho iniziato a fare politica, nel 1961, portavo in tasca ben visibile una copia de l’Unità, come segno delle distinzioni fondamentali che attraversavano il Paese». «Se è così ancora oggi, vuol dire che i conflitti sociali sono fondamentalmente gli stessi, così come l’arroganza dei grandi padroni divenuti multinazionali. Ma tanto più aspro si fa il conflitto, tanto più quelli che stanno sotto possono prendere coscienza per imparare a rovesciare quelli che stanno sopra». Andrea Orlando, responsabile Giustizia Pd, ha ricordato come l’Unità sia «il giornale su cui mi sono formato e che ha guidato le mie battaglie, una voce fuori dal coro che resta indispensabile». Così anche l’europarlamentare Pd Salvatore Caronna, e il sindaco di Pisa Marco Filippeschi. «Dobbiamo ribellarci, c’è un’aria di discriminazione come quella che si viveva alla Fiat di Marina di Pisa e alla Piaggio di Pontedera negli anni ‘50», scrive Filippeschi. Voci che si uniscono alle tante che si erano già fatte sentire, da Bersani a Vendola, tanti parlamentari Pd a partire dall’ex presidente del Senato Franco Marini, direttori di quotidiani come Ezio Mauro, Mario Sechi (Il Tempo) ed Emanuele Macaluso (Il Riformista), leader sindacali di oggi e di ieri come Susanna Camusso e Pierre Carniti, artisti come Roberto Vecchioni.
«Nell’atteggiamento della Fiat vedo la pessima aria dei tempi che stiamo respirando in questi anni, in cui le voci che non piacciono vengono cacciate», ha detto il presidente della Fnsi Roberto Natale, in una puntata speciale che ieri Youdem ha dedicato alla vicenda. «Viene fuori una strana idea di cittadinanza, in cui nelle fabbriche non si ha diritto di pensare, come se fosse arrivato il momento di pentirsi e di fare marcia indietro rispetto a un eccesso di diritti e partecipazione che ha contrassegnato gli ultimi 40 anni». Natale sottolinea il silenzio del governo: «Forse chi si occupa di lavoro dovrebbe spendere una parola su questa vicenda». Molto netto anche il giudizio di Giuseppe Giulietti, deputato e portavoce di Articolo 21: «Fiat ha perso il senso del limite, sente che la democrazia può essere commissariata e coglie l’occasione per regolare alcuni conti. Mi auguro che Marchionne chieda scusa e torni indietro rapidamente, e che Bombassei vada di persona a riattaccare le bacheche. Sarebbe un gesto di stile che gli gioverebbe».
Il 7 marzo, intanto, si terrà a Bologna davanti al giudice del lavoro la prima udienza del ricorso presentato dalla Fiom per l’esclusione dalle rappresentanze sindacali della Magneti Marelli. Una vicenda strettamente legata all’espulsione dell’Unità delle bacheche di quell’azienda.

l’Unità 1.3.12
Perché colpiscono l’Unità e il sindacato
di Paolo Nerozzi


N egli ultimi giorni si sono verificati due eventi su cui credo sia opportuno riflettere: la recente intervista dell’Ad di Fiat Sergio Marchionne sullo stato produttivo dell’azienda e la «sbullonatura» della bacheca dell’Unità alla Magneti Marelli. Due fatti apparentemente diversi, ma non del tutto dissimili.
Marchionne con la sua intervista al Corriere di fatto smentisce ed archivia il progetto di «Fabbrica Italia»: l’Ad di Fiat sostiene che «... abbiamo deciso di non parlare più di fabbrica Italia. Siamo l’unica azienda al mondo da cui si pretendono informazioni così di dettaglio... », rivendicando così la cacciata della Fiom dalla Fiat e non escludendo la chiusura di alcuni stabilimenti. E tutto ciò senza che i sindacati firmatari dell’accordo, che aveva quale premessa gli investimenti, trovino il modo di far sentire la loro voce e senza una presa di posizione netta da parte del Governo che vede mettere in discussione una parte fondamentale della produzione industriale del nostro Paese. Né un accenno sulla politica industriale di questo Paese, né un richiamo all’esigibilità degli accordi (per dirla come Marchionne) o alla mancata applicazione, nel caso di Melfi, di una sentenza della magistratura. Nello stesso tempo la Magneti Marelli, azienda del Gruppo Fiat, dopo cinquant’anni, ha deciso di smantellare le bacheche dove veniva affissa l’Unità, compiendo un gesto che non sarebbe stato immaginabile neanche durante gli anni di maggiore scontro ideologico. Credo che questi due avvenimenti, se pur diversi tra loro, abbiamo un forte legame. Da un lato si vuole mano libera nei confronti di tutti (siano essi i sindacati e lo stesso governo) e nelle scelte di politica industriale e di investimenti senza la minima volontà di mediazione, e dall’altro si sceglie un atto simbolico per dimostrare la rimozione del dibattito e del confronto nei luoghi di lavoro. Siamo di fronte al tema centrale: la democrazia. È pensabile che un’azienda, che ha ricevuto tanto dall’Italia per contributi economici e posizione dominante, possa non interloquire con i territori, con le parti sociali, con l’esecutivo? Ed è sostenibile la cacciata dell’Unità dopo cinquant’anni da una fabbrica? Ed è accettabile al tempo stesso che si trovi il modo di non reintegrare dei lavoratori sul luogo di lavoro come stabilito da una sentenza?
Io credo che a questi interrogativi dovremo provare a dare delle risposte e, come è evidente, si tratta di domande che interrogano innanzitutto la politica, almeno la buona politica e che dovrebbero interrogare anche i tanti «liberal» del nostro Paese. Provare a rispondere a queste domande potrebbe aiutare anche a decidere se andare o meno alla manifestazione della Fiom. Io una risposta l’ho trovata e ho deciso di andare».

il Riformista 1.3.12
Cara Unità, la tua storia è anche la nostra storia
di Alessandro Calvi


Il titolone è: «Breznev e Carter discutono i punti di crisi nel mondo». La data è quella di una domenica di giugno del 1979. E l’Unità costava 250 lire. Non era un momento qualsiasi, quello: il 3 di quel mese si era votato per le politiche, il 10 per le europee e per il Pci non era andata granché; si veleggiava, comunque, sul 30%. E di questo, soprattutto, si scriveva sulla prima pagina di quella copia. La quale copia era stata sputata dal mostro rumoroso che si nascondeva nel ventre del palazzo di via dei Taurini dove all’epoca era acquartierata la redazione de l’Unità e, fino al 1979, anche quella di Paese Sera.
Ecco: capitava che di tanto in tanto, la sera, al seguito di mio papà, finissi per passare qualche mezzora nei corridoi di quel palazzo a San Lorenzo, quartiere allora ancora popolare di Roma. E una volta i «compagni de l’Unità» era un tutt’uno inscindibile: i compagnidellunità mi fecero un regalo: mi portarono a vedere la rotativa, poi mi consegnarono una copia del giornale che sarebbe uscito in edicola l’indomani. Anzi: ordinarono al macchinario di impacchettare singolaremente proprio quella copia che poi, con bonaria solennità, venne consegnata nelle mie mani.
Ebbene, qulla copia trent’anni dopo ancora la conservo. Nel 1979 avevo 9 anni; non so se la decisione di diventare giornalista sia dipesa anche dallo stupore di quella sera, dal fragore della rotativa, e da quell’aria familiare, come di essere a casa, tra amici, anzi: compagni, che mi sembrava di respirare in quei corridoi, o anche dall’aver conosciuto nel tempo certi futuri colleghi che in quel giornale, sebbene non a Roma, ci hanno passato la vita, come Ibio Paolucci.
Comunque sia, è proprio con quella copia del 1979 regalatami dai «compagni de l’Unità» che oggi sono venuto al lavoro. Perché se questo giornale viene espulso dalla Magneti-Marelli, e se c’è chi vuole sbullonare le bacheche de l’Unità, c’è davvero di che preoccuparsi. Soprattutto, poi, se ciò avviene mentre anche la Fiom è finita sotto attacco e viene tenuta fuori dalle fabbriche.
E allora dovrebbe essere chiaro a tutti che il dibattito sulla abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è una questione molto meno simbolica di quanto in molti vogliono far credere. Altro che simboli: ci sono giornali e sindacati che vengono tenuti fuori dalle fabbriche! Sembrano tornati gli anni Cinquanta.
E, però, a differenza di allora manca un grande partito di sinistra manca quel partito, il Pci che sostenga le lotte dei lavoratori. Ecco, allora, che a maggior ragione certi giornali come l’Unità sono l’ultima trincea di un certo mondo che deve essere difeso. Ed è questa la ragione per la quale, con quella copia datata 1979 sul mio tavolo qui al Riformista, difendo la vostra storia. E, con la vostra, anche la mia.

l’Unità 1.3.12
Il welfare e le donne
di Francesca Izzo


Le donne non sono più all’attenzione del dibattito pubblico e del governo. Eppure nei mesi passati avevamo letto e ascoltato analisi, e persino buoni propositi, circa la necessità di creare per loro finalmente opportunità di lavoro e servizi adeguati per renderle possibili. Dopo le mobilitazioni e la pubblicazione dei dati Istat era cresciuto l’interesse di media, partiti e sindacati.
Sembrava acquisito il convincimento che la marginalità femminile nel mercato del lavoro, il superlavoro domestico non pagato, la bassa natalità fossero fenomeni collegati e convergenti nel delineare il generale declino dell’Italia. Del resto, lo stesso Monti all’esordio del suo governo aveva indicato questo tema tra le emergenze del Paese.
Sembrava insomma che, sotto l’urto di una crisi non contingente, finalmente le classi dirigenti italiane cominciassero a considerare essenziali, per ridare prospettive di sviluppo all’Italia, le richieste avanzate dalle donne su lavoro, maternità, servizi, in sintesi, la richiesta di un mercato del lavoro e di un welfare anche a loro misura.
Sembrava chiaro insomma che queste richieste, insieme alla presenza paritaria nelle istituzioni e al rispetto del valore dell’identità femminile in tutte le forme di rappresentazione, non fossero esigenze collaterali, secondarie rispetto agli altri grandi problemi aperti del Paese (Nord-sud, giovani, liberalizzazione e coesione sociale, ecc.) ma costituissero anch’esse una grande questione nazionale.
Le donne non solo sono la metà della popolazione. Sono soprattutto il tramite essenziale tra produzione e riproduzione, mercato e lavoro di cura: chiamano in gioco una diversa regolazione dei rapporti tra Stato, impresa e famiglie. Notiamo invece che mentre il dibattito nel Paese va facendosi più stringente, mentre opzioni sulle riforme e relativi cambiamenti si fanno più definiti, le donne scivolano in secondo piano. Non se ne parla quasi più. Come a dire, quando il gioco si fa duro non è più aria per voi, donne. Ce ne occuperemo in tempi migliori, ora è tempo di articolo 18, Cassa integrazione straordinaria, giovani; giovani e basta, senza più riferimento alla questione di genere.
Ma il governo Monti una certa attenzione alle donne però l’ha riservata: ha varato una riforma delle pensioni che ha eliminato l’ultima importante tutela a loro vantaggio in un sistema di welfare di stampo patriarcale. E quindi proprio ora si deve, è anzi urgente, mettere al centro le donne, ora che si sta discutendo di mercato del lavoro, di ammortizzatori sociali e protezione sociale, di regolare cioè il rapporto lavoro/vita.
A meno che non si voglia ribadire, in forme ancora più selvagge e punitive, un sistema produttivo e sociale che utilizza le donne come serbatoio di lavoro (domestico) non pagato e considera il lavoratore sul mercato assolutamente libero dai vincoli della riproduzione della vita.
Ignorare la differenza di genere e rimodulare i sistemi di protezione sociale in maniera apparentemente neutra, ma in realtà solo maschile, è un danno per tutti. Stato e impresa devono essere chiamati a pensare l’insieme della riproduzione. Non si risolve nessuna delle anomalie sociali italiane se come è accaduto nei decenni passati si procede separatamente: intervenendo sul mercato in modo neutro, pensando di attuare poi politiche per la famiglia.
Occorre invece che tutti i soggetti coinvolti nelle imminenti decisioni cambino prospettiva: non si governano più le nostre società se non ci si rende per davvero conto che sono abitate da uomini e donne. Differenti e alla pari.

l’Unità 1.3.12
A fine 2011 adesioni in crescita al sindacato di Corso Italia: raggiunta quota 5milioni 686mila
di Luigina Venturelli


Le categorie con i maggiori incrementi sono precari (14,5%), commercio (8,3%), scuola (5,3%)
Cgil: 700mila nuovi iscritti Più «attivi» nonostante la crisi
Il tesseramento del sindacato nel 2011 si chiude con 700mila nuove adesioni. Crescono dell’1,24% le iscrizioni tra gli attivi, in particolare nel commercio (8,3%), nella scuola (5,3%) e tra i precari (14,5%).

Nel corso di un 2011 eccezionalmente duro per il mondo del lavoro, la Cgil conta 700mila nuove tessere ed arriva così a sfiorare i sei milioni d’iscritti. Gli italiani con in tasca l’adesione al sindacato di Corso Italia nel 2010 erano 5 milioni e 658mila, di cui 2 milioni e 618mila tra i lavoratori attivi. Oggi, invece, sono 5 milioni e 686mila, di cui 2 milioni e 651mila tra meccanici, tessili, chimici, addetti dei servizi e del pubblico impiego in attività.
UN SUCCESSO DEL SINDACATO
Numeri che, sommati al fisiologico turn-over dell’organizzazione in particolare generato dalle persone che negli ultimi mesi hanno perso il posto di lavoro e, di conseguenza, la tessera sindacale il saldo attivo arriva ben oltre 650mila ingressi alla confederazione, pari alla popolazione di un’intera provincia italiana di media grandezza.
La confederazione di Corso Italia, comprensibilmente, festeggia i dati sulle adesioni come un grande successo per l’organizzazione. Perché guadagnato nonostante gli effetti devastanti della recessione, che ha determinato milioni di ore di cassa integrazione e il licenziamento di moltissimi dipendenti che erano stati posti nelle liste di mobilità. E perché ottenuto a dispetto della persistente strategia di isolamento e demonizzazione messa in atto dal vecchio governo Berlusconi e da una parte della classe imprenditoriale, a cominciare dalla Fiat. «Certo, quello del tesseramento 2011 è un risultato molto bello per il sindacato, tanto più considerando gli attacchi politici pesantissimi a cui è stata sottoposta la Cgil, i contratti separati nei settori del commercio e dell’ortofrutta, i due scioperi generali e le tante iniziative di mobilitazione» commenta Enrico Panini, segretario confederale responsabile dell’organizzazione. «L’aumento dell’1,24% degli iscritti tra gli attivi, in particolare, ci dice del lavoro minuto svolto fabbrica per fabbrica da oltre 100mila delegate e delegati, nostro vero punto di forza. La confederazione si è dimostrata punto di riferimento costante per la difesa dei diritti, ha saputo dire dei no, ma ha anche presentato proposte concrete stando nel merito dei problemi».
Non a caso, le categorie ad aver registrato i maggiori incrementi sono state quelle più esposte al «taglieggiamento» datoriale: i lavoratori della conoscenza della Flc sono cresciuti dell’8,3%, quelli del commercio e dei servizi della Filcams del 5,3% e, su tutti, i precari del Nidil del 14,5%.
UNA DIMOSTRAZIONE DI DEMOCRAZIA
Eppure, prima ancora che del sindacato, questi numeri sono «un successo del Paese, un segnale importante per la salute e la maturità della sua democrazia in questo Paese» spiega ancora Panini, poichè «la crisi tende ad individualizzare, ad isolare le persone nei propri problemi. Invece tra i lavoratori italiani resiste l’idea di collettività nell’affrontarli».
E per la Cgil sono già chiare le prossime sfide: rendere operativo entro il 2012 il meccanismo di certificazione degli iscritti concordato con Cisl e Uil, e raggiungere i 6 milioni di tesserati entro il 2013.

l’Unità 1.3.12
Nuovi appalti per gestire i Centri di identificazione ed espulsione
La denuncia da Modena «A queste cifre favorito chi lavora in nero»
Cie, un bando dimezza le risorse Il governo «taglia» sui clandestini
Cie verso il collasso: da Modena il caso di un centro che per il nuovo bando nazionale dovrà più che dimezzare le cifre disponibili per la gestione. Le società, dicono, saranno costrette a lavorare in nero e a tagliare sui servizi.
di Salvatore Maria Righi


Ci sono anche i Cie, i famigerati Centri di identificazione ed espulsione, sotto alla mannaia dei tagli messi in atto dal governo. Anche loro, clandestini e «ospiti» di varie nazionalità che secondo la legge possono rimanere fino a 18 mesi in queste strutture, finiranno per pagare le scelte drastiche dell’esecutivo. È di questi giorni infatti la notizia di un nuovo bando emesso per «l’affidamento della gestione» dei Cie presenti sul territorio. Il caso di quello di Modena è uno specchio per una situazione che si annuncia sempre più problematica ed esplosiva. La struttura emiliana può ospitare fino a 60 persone e il bando prevede un importo triennale di 1.971.000, ossia significa che all’anno saranno a disposizione 657.000 euro. Qualcuno ha fatto i conti, scoprendo che dividendo la cifra per 365 giorni e per il numero di “ospiti”, sarebbero a disposizione 30 euro pro capite al giorno. E, come ogni bando che si rispetti, al ribasso. Più che un ridimensionamento, è un colpo di mannaia al bilancio e quindi per conseguenza alle condizioni di vita nei centri. Al momento, le società e le associazioni che gestino queste strutture ricevono 75 euro pro capite al giorno, stiamo parlando quindi per il futuro di cifre più che dimezzate. L’ultima gara risaliva al 2009, nel frattempo le strutture hanno anche cambiato nome da Cpt a Cie.
In queste cifre, ovviamente, va considerato tutto. Vitto e alloggio, cibo, vestiti, lenzuola (di carta), ma anche medicine e ogni tipo di assistenza che almeno in teoria deve essere garantita a chi viene sistemato nei Cie: operatori, infermieri, psicologi, assistenti sociali e anche mediatori culturali. Va anche ricordato che dai Cie non si esce quasi mai, perché la procedura si conclude con l’espulsione degli immigrati tramite rimpatrio. Nel conto vanno messi anche i servizi di vigilanza che vengono svolti, o almeno dovrebbero, di concerto con le forze di polizia.
Dalla struttura di Modena viene quindi lanciato un allarme che riguarda tutte le altre previste e realizzate in Italia, tra lo scetticismo di molti e con grandi dubbi sulla loro legittimità. È fin troppo prevedibile, fanno notare dall’Emilia, una ricaduta negativa sui trattenuti nel centro, sotto forma di minor servizi erogati in realtà dove le tensioni e la conflittualità sono di per sé già abbastanza alte. C’è anche l’aspetto funzionale, però, a preoccupare gli addetti ai lavori. Come fa notare qualcuno che opera in un’associazione già impegnata all’interno del Cie emiliano: a queste cifre, dicono, non è possibile non gestire la struttura in modo dignitoso.
A meno che, appunto, non si trucchino i conti e le carte, scivolando magari verso forme di lavoro nero o innescando altre problematiche legate alla poca o scarsa trasparenza delle procedure e di chi incassa i soldi pubblici e governa i servizi. È il caso, per esempio, del Cie di Ponte Galeria a Roma, nel quale la procedura di rinnovo dell’appalto col bando emesso dal ministero dell’Interno pare sia stata bloccata per una situazione da chiarire legata ad una delle società che concorrono. Su questa vicenda dei nuovi bandi per la gestione dei Cie il Pd ha presentato un’interpellanza urgente al governo, promotrice la deputata Sandra Zampa. A Ponte Galeria, del resto, uno dei Cie piu grandi d’Italia, risale a poco tempo fa la vicenda di un minorenne nord africano che era stato trattenuto nella struttura contro la legge.

il Fatto 1.3.12
Quella “macelleria” che cambiò la polizia
Diaz, le parole choc del questore Fournier
di Silvia D’Onghia e Malcom Pagani


Sembrava una macelleria messicana” disse in tribunale Michelangelo Fournier ai giudici genovesi. Il vicecapo del VII nucleo del reparto mobile di Roma in servizio effettivo alla Diaz. L’enigma vivente di una lunga notte iniziata il 22 luglio 2001 e non ancora terminata. Né santo né eroe, ma l’unico individuo in divisa che entrò in relazione con le vittime di un assalto brutale, si tolse il casco, allontanò spintonando aguzzini con la pettorina: “Basta, basta” e temendo che la tedesca Melanie Jonasch fosse morta: “Io sono rimasto terrorizzato, basito quando ho trovato la ragazza con la testa aperta” interruppe il massacro. Una figura complessa che, fotografata nelle sue contraddizioni e senza beatificazioni, il regista Daniele Vicari traspone nel film Diaz con fedele aderenza alla dialettica esposta da Fournier in un’aula giudiziaria. FOURNIER, l’unico poliziotto in grado non promosso sul campo per la mattanza di via Cesare Battisti, parlò di “macelleria messicana” in due distinte occasioni. Deposizioni sofferte, in bilico tra verità e senso della comunità da preservare: “Sono nato in una famiglia di poliziotti, non ebbi il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei miei colleghi”. L’ultima volta, nel giugno 2007, ammise di non aver avuto la forza di dire tutto ciò che sapeva “per spirito di appartenenza”. Michelangelo Fournier, l’uomo d’ordine con il cuore a destra che divideva le ricreazioni scolastiche con l’ex parlamentare verde Paolo Cento. Il “pentito” come semplicisticamente dissero in molti. Il dirigente detestato da un pezzo consistente di movimento secondo il quale non si decise a confessare sulla spinta dell’indignazione, ma solo perché riconosciuto da alcune vittime dell’assalto alla Diaz. Fournier, il funzionario avversato dai quadri che videro nella sua opposizione a Canterini, un’eversione inaccettabile per tempi, modi e forma. Nella pellicola prodotta da Fandango si vede Claudio Santamaria (che lo interpreta) con la maglietta della Folgore, mentre all’alba delle dieci di sera (circa un’ora prima dell’assalto alla Diaz) tenta di consumare in compagnia di un paio di colleghi un pasto nel ristorante improvvisato per le Forze dell’ordine in zona Fiera. Viene avvicinato da Vincenzo Canterini. I due sono diversissimi per carattere e inclinazione. Entrambi stravolti. Svegli da ore. Davanti ai Pm Zucca e Cardona, il racconto di Fournier è una lama: “Il comandante Canterini poi venne da me e disse: ‘C’è la necessità di raggruppare immediatamente gli uomini, è stata individuata una struttura presso la quale sembra abbiano trovato ricovero buona parte degli Anarco Insurrezionalisti’”. Le stesse frasi del film. Una menzogna. Troppi “sembra”. Un’unica conseguenza. Oltre 90 feriti. Due tentati omicidi. Fratture multiple. I reparti di Canterini e Fournier, seguendo strade diverse, arrivano alla scuola Diaz. Il secondo giunge quando le operazioni di sfondamento del cancello sono in corsa, ma è tra i primi a entrare. Sale le scale, forse sferra qualche colpo (c’è concitazione, molti testimoni glielo imputano e Vicari, in ogni caso, non opta per il manicheismo e lo mostra) poi arriva al primo piano. Lì si ferma. “Ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra (…) ”. Fournier vede la Jonasch, chiede aiuto: “C’erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale. Ho ordinato per radio ai miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze”. Così nella realtà ricordata da Fournier. Così nella finzione sinistramente reale riproposta da Vicari. Fournier domanda scusa all’amica della Jonasch, Jennette Dreyer. UNA REAZIONE incongrua, spiegabile solo con un cambio di prospettiva definitivo, che è quello che sembra aver colpito, forse anche oltre le sue volontà, il Fournier del dopo G8. Non lo stesso uomo che sapeva dirigere l’ordine pubblico allo stadio con il dialogo e la fermezza. Ma un altro da sé. Nella terra di mezzo tra l’essere poliziotto o cittadino. Non più innocente comunque, dopo aver visto e partecipato agli interni della Diaz. Vicari lo inquadra mentre esce dalla scuola e si avvicina a Canterini. Il comandante gli ordina di sistemare i “prigionieri” sui blindati. Fournier si ribella. L’altro ribadisce l’ordine. I due si perdono di vista. Fournier va brevemente a Bolzaneto. Poi va altrove. Cerca di allontanarsi da una storia che comunque lo inseguirà per tutta l’esistenza. Quando il pm gli chiede dei Tonfa, i manganelli che hanno mandato in ospedale decine di ragazzi, Fournier sembra il marziano di Flaiano. Afferma che “il Tonfa è una cosa più seria, una cosa più complicata” e davanti alle domande del pubblico ministero si spiega meglio: “È uno sfollagente che non può essere utilizzato con la leggerezza con la quale si utilizza quello ordinario... può produrre grossi danni... i colpi in testa possono essere mortali con una buona percentuale di possibilità… è una follia perché si può ammazzare”. Nel film Diaz questo passaggio non c’è, perché le immagini descrivono quella pazzia meglio di qualsiasi istruttoria.

il Fatto 1.3.12
Le spese per la Difesa
F35, progetto irreversibile all’insaputa del Parlamento
di Caterina Perniconi


Di aereo qui c è solo il C130 su cui siamo arrivati... ”. Ieri mattina un Twitter della democratica Federica Mogherini raccontava la scena a cui hanno assistito i deputati della Commissione Difesa appena scesi dall’aereo militare che li ha portati a Cameri, in provincia di Novara, nella base dove saranno assemblati gli F35. NEANCHE L’OMBRA di un velivolo: Tornado ed Eurofighter in manutenzione erano chiusi negli hangar, mentre dove fino all’anno scorso c’era un grande prato, ora c’è un cantiere Alenia quasi pronto per accogliere le ali dei nuovi strumenti da combattimento. L’Italia infatti è acquisitore ma anche produttore degli F35. A maggio cominceranno ad essere assemblate le “braccia” dei nuovi prototipi. I primi 29 andranno in America, 3 resteranno in Italia, 2 raggiungeranno l’Olanda. “La sensazione che abbiamo avuto atterrando a Cameri – spiega Mogherini – è quella di un progetto a uno stadio irreversibile. Purtroppo dall’aprile del 2009, quando la Commissione Difesa votò a favore dell’acquisto degli aerei, con i consensi dell’ex maggioranza, non abbiamo più avuto informazioni. Il documento votato impegnava il governo a riferire al Parlamento annualmente sullo stadio del progetto, ma la trasparenza è stata nulla e per più di due anni non abbiamo avuto alcuna notizia. Abbiamo visto più volte il ministro in questi mesi che quello precedente da allora. Così scopriamo che c’è un cantiere già impiantato, che stiamo per firmare un contratto per i primi prototipi e che tra qualche mese da Cameri usciranno le ali dei nuovi aerei. Troppo tardi”. Non è troppo tardi, però, per rivedere la scelta politica di proseguire o meno con l’acquisto degli aerei. “Finalmente – continua Mogherini – abbiamo capito a che punto è la trattativa per l’acquisizione. L’Italia sta completando l’ordine per i primi tre mezzi, ma la produzione vera e propria partirà dopo il 2017. Il che significa che ci sarà il tempo per valutare le reali necessità future”. Anche se il ministro Giampaolo di Paola – ascoltato in Commissione Difesa dai deputati al ritorno da Cameri – non sembra intenzionato a fermarsi: “Compreremo 90 F35 e 90 nuovi Eurofighter. Nel 2025 avremo un parco aereo di 180 velivoli, tenendo anche conto che non si tratta di sostituzioni uno-contro-uno ma di aerei di tecnologia superiore rispetto a quelli del passato (gli attuali 160 saranno via via rottamati, ndr). Quanto al piano di acquisto degli F-35 – ha detto ancora Di Paola – nelle prossime settimane, o al massimo fra pochi mesi, piazzeremo l’ordine per i primi 3 velivoli e poi di anno in anno saranno fra i 3 e i 5”. Il costo di ogni F35 sarà di 80 milioni. Scenderà se gli ordini dall’estero saranno alti. Per Di Paola “la metà del costo degli Eurofighter”. CONTINUANO intanto le iniziative dei cittadini contro l’acquisto dei velivoli da combattimento. A Cameri i parlamentari Ramponi (Pdl), Mogherini e Pinotti (Pd) e Di Stanislao (Idv) hanno incontrato il comitato locale Noeffe35. “Non vogliamo un’enorme fabbrica di morte a pochi chilometri da casa nostra” hanno spiegato i novaresi ai rappresentanti della politica, “e non stiamo facendo solo una battaglia ambientalista, perché la base esiste da alcuni anni e gli espropri sono stati fatti da tempo, ma davvero non vogliamo che la nostra terra ospiti ordigni in grado di uccidere”. Inoltre sabato le associazioni Tavola della Pace, Rete italiana disarmo, Sbilanciamoci, Unimondo e le Acli raccoglieranno le firme in cento piazze d’Italia contro per provare a frenare un processo che ai deputati è apparso ormai irreversibile.

Repubblica 1.3.12
L’antipolitica o l’altrapolitica?
di Stefano Rodotà


Con gli ultimi provvedimenti, il profilo del governo "tecnico" si è ormai chiaramente definito e le caratteristiche dei suoi interventi rappresentano anche una messa in mora (una sfida?) per un mondo "politico" che non riesce a trovare una sua misura di fronte ad una novità che si conferma sempre più profonda. E i partiti devono fronteggiare anche una ineludibile questione: antipolitica o altrapolitica?
Infatti, la lunga ondata antipolitica, alimentata ogni giorno da scandali e debolezze del sistema dei partiti, non può occultare il fatto che l´Italia sia pure un Paese pieno di politica, reattivo in forme né populiste né qualunquiste. Ma quest´altra politica viene temuta dai partiti, che magari ne parlano e poi la tengono lontana, la trascurano, continuano ad abbandonarsi all´esorcismo del "non cedere ai movimenti", formula divenuta ormai l´emblema dell´immobilismo e dell´autoreferenzialità. Così stando le cose, potranno i partiti realizzare quel mutamento che tanti invocano come indispensabile?
Nella sua lezione all´università di Bologna, il presidente della Repubblica ha associato la fiducia nel governo Monti ad un invito ai partiti ad "autorinnovarsi", a realizzare una "riqualificazione culturale e programmatica". E il presidente del Consiglio ha parlato di un compimento del suo mandato che restituirà l´iniziativa appunto ai partiti. Ma quali dovrebbero essere le condizioni perché, rigenerati, i partiti possano di nuovo guadagnare quella fiducia dell´opinione pubblica che oggi appare perduta? E quali i temi con i quali cimentarsi per l´auspicato ritorno ad una seria elaborazione culturale, per mettere a punto programmi non raffazzonati? Comincio con l´indicarne tre: i diritti fondamentali; i servizi pubblici; i limiti alla libertà d´iniziativa economica privata. Non li scelgo a caso. Dietro ciascuno di questi temi si trovano soggetti reali, iniziative concrete. Molti comuni e gruppi si adoperano ogni giorno perché trovino effettivo riconoscimento i diritti degli immigrati, delle coppie di fatto, di quanti vogliono liberamente decidere sulla fine della loro vita. La questione dei servizi è simboleggiata dal servizio idrico, dall´acqua come bene comune: l´Italia è l´epicentro di un largo movimento, che ha visto ventisette milioni di elettori votare contro la privatizzazione dell´acqua, che produce analisi sempre più accurate, che ha visto convenire a Napoli e Roma rappresentanti da molti Paesi, che è all´origine di una rete di comuni europei e di iniziative popolari rivolte alla Commissione di Bruxelles. Altrettanto intensa è la discussione intorno ai limiti del mercato, accesissima intorno ai temi del lavoro e che vede l´inquietante tentativo di cancellare l´articolo 41 della Costituzione che congiunge il decreto berlusconiano di luglio e il decreto "Cresci Italia", ponendo il problema se sia ancora possibile in economia una politica "costituzionale". Questa è l´altra politica. E ciascuno di questi temi pone la questione di quale idea di società debba oggi sostenere l´azione politica.
E i partiti? Silenziosi o diffidenti, timorosi della loro ombra. Si pensi a quel che è avvenuto a Milano, dove una meritoria iniziativa del sindaco riguardante le coppie di persone dello stesso sesso ha provocato sconcertanti reazioni di rigetto all´interno dello stesso Pd, dove evidentemente si ignora che una sentenza della Corte costituzionale ha affermato che queste persone hanno un diritto fondamentale a veder riconosciuta la loro condizione. La questione non può essere considerata minore o locale, poiché rivela come all´interno di quel partito non vi sia una elaborazione programmatica riconoscibile, si è paralizzati dall´irrisolto rapporto tra le diverse forze che hanno dato origine al Pd e che troppe volte fanno emergere tentazioni integraliste e incapacità di altri settori del partito di definire una posizione netta proprio sui diritti fondamentali delle persone. Non diversa è la condizione del Pdl, prigioniero di fondamentalismi figli soprattutto d´una stagione d´un collateralismo strumentale, quando il partito si presentava come il portavoce della gerarchia vaticana.
Stanno così nascendo due circuiti: quello, talora discutibile ma dinamico, dell´altra politica e quello congelato del sistema dei partiti. Quest´ultimo si chiude sempre più in se stesso, rifiuta il dialogo, e ne paga i prezzi. Quando le condizioni istituzionali rendono inevitabile il contatto tra i due circuiti, infatti, è quasi sempre quello dell´altra politica a prevalere. Lo dimostra, per il Pd, l´esperienza negativa di primarie e elezioni, da Milano a Cagliari, da Napoli all´ultimo episodio di Genova. Davvero si può credere che da questa difficoltà politica si possa uscire con espedienti procedurali o accentuando il controllo partitico sulle candidature alle primarie? Il nodo è altrove, e riguarda la necessità di prendere atto non solo dell´esistenza di nuovi attori politici, ma delle realtà che sono capaci di rappresentare. Proprio qui, nella perdita di capacità rappresentativa, ha una sua radice profonda la crisi dei partiti.
L´esistenza di circuiti politici diversi, che s´intersecano e configgono, non è esperienza soltanto italiana. Ricordo solo il rapporto tra sfera politica e blogsfera, che ha conosciuto momenti di tensione negli Stati Uniti. L´intelligenza politica ha consentito ad Obama di rendersi conto che la novità di Internet non era tecnologica, ma incideva sulla qualità della politica. E così, attraverso una accorta connessione dei due circuiti, ha pure costruito il suo successo elettorale. Ma i partiti italiani rimangono arretrati, le ricerche serie mostrano la povertà del loro uso delle risorse della Rete. Qui si riflette una più generale debolezza: l´incapacità di confrontarsi con il cambiamento radicale imposto dalla rivoluzione scientifica e tecnologica, che giunge a configurare nuove antropologie, individua dinamiche e spazi inediti. Anche, per certi versi soprattutto, su questo terreno si deve compiere la "riqualificazione" dei partiti.
Ma chi dev´essere protagonista di questo processo? Possono farcela le attuali oligarchie, logorate in mille modi, responsabili del loro discredito per non aver voluto comprendere che l´abbandono d´una rigorosa etica pubblica avrebbe fatto dilagare la corruzione, che ci assedia e che ha già destrutturato la società italiana? La costituzione di un governo tecnico si rivela anche come un diverso modo di selezione del ceto politico. È rivelatrice la mossa di indicare in Corrado Passera un possibile leader del centrodestra. È questa la strada o la riqualificazione deve riguardare non solo cultura e programmi, ma pure la capacità dei partiti di modificare i criteri di selezione e legittimazione democratica al loro interno, in un contesto di rinnovata moralità civile?

Repubblica 1.3.12
Dal dialogo alla violenza le tante vie di chi sfida il potere
di Carlo Galli


Con le proteste in Val di Susa contro i lavori della Tav si riapre la discussione sul confine tra le forme legittime di contestazione e le azioni inaccettabili
Attraverso lunghe lotte e aspri conflitti durante il Ventesimo secolo la democrazia è riuscita veramente a dare la voce a molti
La strategia non è rivoluzionaria, ma piuttosto fuga secessione resistenza passiva disobbedienza non collaborazione

L´antagonismo non è estremismo. Quest´ultimo, infatti, è concepibile solo all´interno di una concezione lineare della politica, appunto raffigurata, in via di metafora, come un segmento orizzontale, nella quale c´è un centro e ci sono gli estremi, oppure verticale, come la scala di un termometro, che ha temperature accettabili e altre, invece, polari o tropicali. L´estremismo è quindi un concetto statico, posizionale; e soprattutto è una posizione politica vista e interpretata dal potere, che fissa e stabilisce in piena autonomia limiti e gradazioni.
Al contrario, c´è nella nozione di antagonismo una concezione agonale della politica; e c´è una idea di movimento – qualcuno, qualcosa, va contro il potere, che è sì protagonista, ma che trova un avversario – . L´antagonismo è una politica che vuol essere non statica ma dinamica; una politica che possa essere vista anche da una prospettiva diversa da quella del potere, anche nell´ottica di chi al potere si oppone, da chi lotta contro di esso. Nell´antagonismo non c´è più l´Uno: c´è il Due. Il potere non è più libero di definire sovranamente i propri avversari; questi prendono la parola, lo chiamano a gran voce, lo provocano. Il potere ha finalmente trovato un soggetto che non si assoggetta, che lo sfida. Un Altro, insomma.
Fin qui nulla di male, anzi. L´armonia nasce dal conflitto, come insegnava già Eraclito; e l´idea che solo il potere abbia la parola sarebbe realmente insopportabile. La dialettica, il discorso che si scontra e che passa dall´uno all´altro, è vita. E la democrazia è appunto l´insieme delle istituzioni e delle pratiche che danno voce a tutti, che rendono possibile il conflitto regolato, che non accettano – o almeno non dovrebbero – l´idea che c´è una Voce sola, quella del Potere. E veramente, attraverso lunghe lotte e aspri conflitti, la democrazia nel XX secolo ha dato voce a molti, ed è stata un´arena di conflitti civili, sociali, economici e ideali. La democrazia ha reso produttivi gli antagonismi, insomma.
Ma è anche vero che all´interno delle istituzioni democratiche esistono da tempo forze che non danno credito ad esse, che praticano l´antagonismo non come una dialettica, cioè per dialogare, alla pari, col potere; forze che non chiedono l´inclusione paritaria nell´arena politica; che non esigono il riconoscimento all´interno di una comune cittadinanza: che col potere, anche democratico, non vogliono avere nulla da spartire, neppure lo spazio del conflitto. Che rifiutano dialogo, cittadinanza, spazio, inclusione, perché li ritengono già pregiudicati, perché li vedono come un Sistema col quale non vogliono avere nulla da spartire, un Tutto di cui non vogliono essere Parte, una falsità in cui non ci può essere alcuna verità. Il Soggetto antagonista non vuol essere né ragionevole né dialettico: non si lascia inserire, in alcun ruolo, nel Sistema. Semplicemente, vi si oppone, lo combatte frontalmente, esistenzialmente: cioè per il fatto che esiste, e, esistendo, nega la sua libertà.
Non necessariamente l´Antagonismo entra nella logica amico/nemico, della violenza mortale, anche se non la rifiuta in linea di principio; quando vi entra, tuttavia, non lo fa per motivi strategici, per ottenere qualcosa: al sistema non chiede nulla, dopo tutto – lo provoca con richieste assurde, per farsi dire di No, e per dirgli di No – . Del resto, l´antagonismo non ha la forza di prendere il potere con una rivoluzione e di rovesciarlo, per farsi esso stesso Potere. Quando l´antagonismo ricorre alla violenza (il che avviene, peraltro, di frequente) lo fa per colpire (non simbolicamente) dei simboli, realizzando così una spersonalizzazione dell´avversario uguale e contraria a quella che imputa al Potere. Per definire la strategia dell´antagonista si può parlare non di rivoluzione né tantomeno di opposizione, quanto piuttosto di fuga, di secessione, di resistenza passiva, di non collaborazione, di disobbedienza, di potere destituente, di "passaggio al bosco", di contestazione (cioè di un´accusa che si esprime con un linguaggio che non appartiene all´imputato ma solo all´accusatore).
Per tacere di settari e fanatici di ogni tempo, e per restare alle esperienze contemporanee, questi atteggiamenti – tanto più diffusi quanto più lo spazio politico appare conformista, o inospitale, o paludoso – si ritrovano sia negli anarchici sia nell´ecologismo radicale, sia in autori un tempo "maledetti" come Céline (nel suo antisemitismo), o come Pound (nel suo silenzio postbellico), sia in personalità un tempo alla moda come Marcuse (nel Gran Rifiuto) sia in figure elitarie come Jünger (nel suo Anarca).
Accanto a poche posizioni alte e faticose ve ne sono però molte di infantili e di troppo facili, di irresponsabili, e ancora di più di teppistiche e di criminali (dai black bloc a Unabomber, solo per fare qualche esempio). Soprattutto, c´è nell´antagonismo il rischio di non avere nulla da dire: il rischio, cioè, per sottrarsi alla dialettica, di agire in una sorta di muto automatismo, di presentarsi puntualmente, dove c´è un problema, una criticità, non per affermare una ragione ma per lanciarsi, per partito preso, contro il potere. Così l´antagonismo, per non avere nulla a che fare col potere, finisce per dipenderne esistenzialmente, per esserne l´ombra, non la negazione ma il negativo, il semplice rovescio, la fastidiosa appendice. E il suo preteso dinamismo si rivela così solo una contrapposizione statica, sterile, dannosa. Non politica, dopo tutto.

Repubblica 1.3.12
Le differenze con gli anni Settanta
La strategia del rancore
di Miguel Gotor


Anche allora l´economia era in crisi e il quadro politico molto "accentrato". Ma oggi sono scomparse le grandi culture ideologiche e i partiti di massa, mentre la rappresentanza vive una fase di grave difficoltà

Dissenso, conflitto, antagonismo, violenza, lotta armata: per comprendere la realtà bisogna anzitutto distinguere fenomeni assai diversi tra loro. Il dissenso e il conflitto sono il sale della democrazia, la violenza e la lotta armata ne sono l´esatta negazione, mentre l´antagonismo è un´ambigua terra di confine che le istituzioni (governo e forze dell´ordine) e la politica (partiti e movimenti) hanno il dovere di non ignorare, né di sottovalutare per evitare il rischio di ulteriori e più pericolose radicalizzazioni. Non è facile, ma è proprio lungo quello scivoloso crinale che si misura da sempre la qualità di una democrazia.
L´errore peggiore è fare di ogni erba un fascio utilizzando in modo indiscriminato la categoria "monstre" di terrorismo. Chi lo commette spesso evoca gli anni Settanta nel tentativo di riattivare i meccanismi di una microstrategia della tensione alimentando il circuito provocazione/repressione/resistenza. Purtroppo, per una certa destra nostrana si tratta di un riflesso istintivo, lo scatto di una tagliola ideologica che si direbbe sallustiana (e il riferimento non è all´insigne storico latino…). E così, sulle pagine de il Giornale, il contadino No Tav Luca Abbà, nelle ore in cui sta lottando per la vita, è definito un "cretinetti" ed equiparato all´editore rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli, dilaniato da una bomba nel 1972, mentre voleva far saltare un traliccio per boicottare il congresso del Pci (quest´ultimo dato è omesso non essendo funzionale al disegno disinformativo). I due uomini in comune hanno soltanto un traliccio, ma tanto basta per sfoderare la similitudine allusiva e rancorosa, che serve a soffiare sul fuoco dello scontro.
In realtà, tra l´Italia attuale e quella degli anni Settanta le differenze prevalgono sulle analogie. I parallelismi sono essenzialmente due: il primo riguarda una crisi economica bruciante, ieri di carattere energetico, oggi di segno finanziario. Il secondo concerne il funzionamento del sistema politico in quanto sia negli anni Settanta, con Aldo Moro e la solidarietà nazionale, sia oggi, con Mario Monti e il governo dei tecnici, è in corso un processo di accentramento del quadro generale per rispondere a una situazione di emergenza. Negli anni Settanta gli esiti di quest´azione furono drammatici perché la reazione a essa produsse un lungo ciclo di violenza extra-parlamentare, di stragismo neofascista e di terrorismo rosso che favorirono una soluzione moderata della crisi.
Le differenze toccano anzitutto la politica che allora era robusta e innervata come le ideologie che la sostenevano lungo l´asse anticomunismo/antifascismo. Inoltre, vi era un quadro di attivismo operaio, studentesco e femminile che si confrontava con eventi sociali e culturali epocali come l´immigrazione interna, la diffusione dell´università di massa, la rivoluzione nel mondo dei consumi e dei costumi. Infine, oggi manca la dimensione internazionale della Guerra fredda che allora favorì l´esplosione e il radicamento destabilizzante di quegli avvenimenti.
Per queste ragioni la violenza diffusa, lo stragismo e la lotta armata degli anni Settanta costituiscono un evento difficilmente ripetibile. Ciò non significa che quanto sta avvenendo debba essere sminuito poiché la crisi di rappresentanza della politica e la sua continua svalutazione, così come la riluttanza di questo governo a "metterci la faccia" laddove ci sono problemi di ordine sociale denunciano l´ampiezza di un deserto che purtroppo non promette nulla di buono.

Repubblica 1.3.12
Amarezza
Quella vita da Black bloc
di Luca Rastello


La testimonianza di Michael, da Genova a oggi
"Non c´è nessun odio, ma solo una grande amarezza Siamo una generazione privata del futuro, nessuno ti darà un mutuo, non puoi contare su un lavoro per più di sei mesi e sai che non avrai mai figli"

Michael, 30 anni, sguardo limpido, una vita da hinterland e da raid in nero, in giro per il mondo. Di quelli che chiamano black bloc: «Ma in Italia un black bloc organizzato, alla tedesca o all´americana, non c´è. Mi fa ridere chi pensa a reti internazionali e scambi in internet. Al massimo c´è qualche amicizia nata nei cortei». Frequentati sempre da cane sciolto, senza aderire a gruppi o sigle, nell´allergia per i servizi d´ordine organizzati: «Quelli, dopo le cariche, spariscono. Noi siamo fluidità: recuperi le posizioni e provi a tenerle, appari e scompari. Sono cose che fai in gruppi di 3 o 4. È per questo che l´organizzazione può essere orizzontale. Ed è per questo che gente come le tute bianche, legata al principio del capo, ci odia». Serve il sostegno della piazza: «Non sempre l´ho sentito, ma in val Susa sì. Martedì mentre la polizia bersagliava la gente che si ritirava dal presidio un gruppo di donne si è seduto sull´asfalto: "Se dovete punire il movimento, punite noi". Resistere significava semplicemente sedersi con loro».
Inizia con un Michael quindicenne, affascinato da Sepulveda e dalle lotte in Patagonia, che si avvicina ai collettivi studenteschi: «Per fortuna erano collettivi di provincia. A Milano dominavano i più grandi, noi eravamo pischelli della stessa età, nel periodo dei treni e delle grandi manifestazioni: Praga, Davos, Genova, la notte dei tempi. La prima pietra la tirai a Praga, a 15 anni. Stavo con i "Pink", pacifisti e clown, facevamo teatro per i disabili, la polizia caricò noi e loro. Lanciai per istinto». Michael scopre la sigla black bloc, attratto da quel sit-in di ragazzi in nero che a Seattle rispondono alla carica di polizia tirando bottiglie di plastica piene d´acqua. Quando la polvere delle Torri Gemelle travolge il movimento no global, lui ha già iniziato a vivere nelle case occupate, «dove non c´è logica di denaro né di carisma. Magari si scazza, ma come in famiglia». Dice di non conoscere l´odio: «Solo la grande amarezza di una generazione privata del futuro: sai che nessuno ti darà mai un mutuo, non puoi fare figli, non puoi contare su un lavoro per più di sei mesi. E sei espulso da tutto: anche nei centri sociali, ormai sei in discoteca. Se il modo di partecipare è quello del Leoncavallo, un ragazzo che entra nel movimento pensa che tanto vale la disco. Per le "pantere grigie" sei solo un cliente». E la violenza allora? «Ha senso se è diretta sui simboli. Se uno non è cosciente di quel che fa, lo fermi. Gli incazzati puri, senza obiettivi, quelli che bruciano le Punto lavoriamo per fermarli. Non parlo di infiltrati, parlo di gente che non si sogna nemmeno di avere un´idea – anarchica o meno – e vive di rabbia. Quando partiranno questi – e sarà per fame – dilagherà la distruzione. Noi preveniamo la deriva, dirottando l´azione sui simboli: non è la furia delle banlieues, ma quella di Toronto contro gli sprechi olimpici». Colpire simboli e creare intoppi: «Oggi uno con l´etica di Bresci non spara, oggi Bresci è uno che inceppa i siti delle banche. È azione diretta, efficace: grazie all´Animal Liberation Front in Inghilterra non c´è più un centro commerciale che venda pellicce. Chiunque può fare azioni e rivendicarle, purché si riconosca nel nostro orizzonte: difesa dei deboli, rifiuto dell´autoritarismo, conoscenza dell´individuo e della sua grandezza, misurata nelle capacità. Fallite le ideologie, resta solo la responsabilità personale: quello che puoi fare con le tue mani». E adesso, Michael? Sorride, si guarda le mani: «Invecchio, sto diventando sedentario. La mia utopia sta in quello che provo a realizzare da me: un lavoro e un piccolo territorio liberato dove fare comunità e trovare equilibrio con la mia ragazza». Vivere in pace, Michael? Vivere in pace.

il Fatto 1.3.12
Vaticano. Bertone infuriato per i documenti pubblicati dal Fatto
Guerre vaticane, tutta la rabbia di Bertone
Il segretario di Stato: “Guardare a documenti veri, non ad altro”
di Luca De Carolis


Sul volto e nei gesti, i segni della tensione. Nelle parole, la curiale eppure chiara risposta a settimane di rivelazioni e scricchiolii: “Questi sono i documenti da vedere e presentare, che mostrano la verità storica”. I documenti sono quelli dell’Archivio segreto vaticano, e a parlare è il segretario di Stato del Vaticano, Tarcisio Bertone. Ieri mattina il cardinale ha incontrato la stampa, per la prima volta dopo l’esplodere del caso Vatileaks: i documenti riservati della Santa Sede, pubblicati dal Fatto, che raccontano di lotte di potere e veleni infiniti nella Curia che governa la Chiesa. Bertone ha concesso poche battute, a margine della sua visita privata (e blindatissima) alla mostra nei Musei Capitolini sui documenti dell’Archivio segreto vaticano. UN APPUNTAMENTO dal grande interesse storico, che però suona come una beffa della sorte sulla Santa Sede: nella bufera per i tanti, troppi segreti che non ha saputo trattenere Oltretevere. Al centro della tempesta c’è proprio Bertone, segretario di Stato e principale collaboratore di Papa Benedetto XVI. Rumorose voci, dentro e fuori il Vaticano, lo danno in bilico. E ieri il segretario di Stato ha indirettamente risposto. Bertone arriva in Campidoglio assieme a una folta delegazione, di cui fa parte anche il cardinale Gian-franco Ravasi. Ad attenderlo, il sindaco Alemanno, il ministro per i Beni culturali Lorenzo Ornaghi e Gianni Letta. Accesso vietato ai tanti giornalisti. Bertone è protetto da parecchi agenti e gendarmi vaticani. Ha l’espressione tirata, qualcuno nota i suoi movimenti poco fluidi, forse nervosi. Il cardinale entra nei musei, e può guardare da vicino le carte del processo a Galileo e i documenti che provano il sostegno di Papa Pio XII ai prigionieri di guerra, durante la Seconda guerra mondiale. All’uscita, il cordone di sicurezza prova a tenere lontani taccuini e telecamere. Ma è proprio Bertone ad avvicinarsi ai giornalisti, per dire: “Questi sono i documenti da vedere e presentare, quelli mostrano la verità storica”. Bertone spiega poi di essere rimasto particolarmente colpito dalla documentazione su Pio XII. Ma tutti i cronisti pensano a Vatileaks. E arriva la domanda: i documenti della mostra, veri, vanno contrapposti ad altri che si presumono falsi? Bertone sorride, fa un gesto con la mano. Ma non si sbilancia: “Voi lo sapete, voi siete bene informati”. Di più non può e non vuole dire. Il cardinale torna in Vaticano, lasciandosi dietro interrogativi e previsioni. C’è chi parla di una prossima rimozione del segretario di Stato, e chi rinvia la sua sostituzione al prossimo dicembre, quando Bertone compirà 78 anni. La stessa età in cui lasciò il suo predecessore, il cardinale Angelo Sodano. Ipotesi, a fronte della certezza di un Vaticano in costante ebollizione. TROPPO rumorosi, quei documenti che parlano di scontri al calor bianco ai vertici della Chiesa. Troppo forte, l’impatto del carteggio tra Bertone e il cardinale Dionigi Tettamanzi, pubblicato due giorni fa dal Fatto. Nel marzo 2011, il segretario di Stato scrive all’allora arcivescovo di Milano Tettamanzi, e lo invita a lasciare la presidenza dell’Istituto Toniolo. Per giunta, precisando di parlare a nome del Papa: “Il Santo Padre intende procedere a un rinnovamento, in connessione col quale Vostra Eminenza è sollevata da questo oneroso incarico. Adempiendo pertanto a tale Superiore intenzione, sono a chiederle di fissare l’adunanza del Comitato Permanente entro il giorno 10 del prossimo mese di aprile”. Bertone indica anche il sostituto, l’ex ministro alla Giustizia Giovanni Maria Flick. Ma Tettamanzi non cede, e scrive al Pontefice, chiedendogli di annullare la decisione. Annullamento che, nei fatti, arriva, sconfessando un documento del segretario di Stato. Basterebbe questo, per capire che aria tira in Vaticano. Eppure c’è tanto altro. Pesa il complotto per uccidere il Papa, paventato in un documento che dalle pagine del Fatto è rimbalzato in mezzo mondo. E pesano le lettere dell’ex segretario del Governatorato, il nunzio apostolico negli Usa Carlo Maria Viganò. Missive che denunciavano al Papa e a Bertone episodi di corruzione. Lo stesso Viganò, in un’altra lettera al Papa del marzo 2011, chiedeva di non essere nominato nunzio apostolico, “perché un mio trasferimento provocherebbe smarrimento e scoramento in quanti hanno creduto fosse possibile risanare tante situazioni di corruzione”. Storie complicate, dolorose. Ieri il Corriere della Sera raccontava che a qualcuno, Oltretevere, era venuta la tentazione di rispondere al flusso di notizie riservate con una protesta ufficiale nei confronti dello Stato italiano. Idea che sarebbe stata respinta, per motivi di opportunità politica.

La Stampa 1.3.12
Intervista
Cofferati: “Non si può morire per una ferrovia”
“L’opera è fondamentale per il corridoio europeo: va fatta”
di Federico Geremicca


Lui, che qualche movimento lo ha organizzato e anche qualche manifestazione: per esempio quella dei tre milioni radunati al Circo Massimo comincia ricordando, prima di tutto, la regola numero uno: «Il modo con il quale cerchi di dar peso alle tue opinioni le forme di lotta che usi, insomma non è mai irrilevante rispetto al consenso e al risultato finale». Che è un modo per dire che anche la più giusta delle cause può esser mandata in malora da metodi di protesta sbagliati. Sergio Cofferati la pensa così: ed è per questo che è quanto mai severo con i fatti che vanno in scena in Val di Susa. Tanto da voler rivolgere un appello al popolo dei No-Tav.
Un appello alla calma?
«Alla lucidità, più che alla calma. Io non chiedo al movimento di rinunciare alle sue ragioni, ma di capire che la strada imboccata li porterà rapidamente all’isolamento».
Hanno alternative?
«I valligiani che manifestano da anni contro l’alta velocità possono fare un passo di lato non indietro, ma di lato per evitare che il loro legittimo dissenso vanga utilizzato da elementi esterni per altri fini. Ne guadagnerebbero certamente in attenzione e rispetto».
Altrimenti nessuna comprensione è possibile, intende questo?
«Già ora ci sono cose che non hanno alcuna giustificazione possibile: per esempio, l’uso della violenza per impedire all’informazione di fare il suo lavoro. O l’incomprensibile attacco a Gian Carlo Caselli».
Cosa l’ha colpita?
«Il fatto che ne ignorino il rigore professionale e l’onestà intellettuale. E perfino la modalità con cui ha operato ed è intervenuto».
Cioè?
«Provvedimenti individuali, nessuna aggravante associativa. Non era scontato, per altro. In passato, infatL’appello a chi protesta
I valligiani evitino che il loro legittimo dissenso venga utilizzato da elementi esterni per altri fini
Sull’attacco a Caselli
Hanno ignorato il suo rigore professionale e l’onestà intellettuale E perfino che abbia preso provvedimenti senza aggravanti associative
Il No Tav caduto dal traliccio
Mi auguro che Luca Abbà possa tornare presto a manifestare contro la Tav: ma non con i metodi di lotta utilizzati finora
Le infiltrazioni terroristiche
Non ho mai apprezzato l’uso dell’allarme Se ci sono problemi la strada maestra è agire nel silenzio e non denunciare
ti, gli interventi della magistratura non di rado avevano configurato un rapporto tra comportamenti individuali. Si tratta di fatti insisto: fatti che un movimento d’opinione non può assolutamente valutare con approssimazione».
Al di là delle non condivisibili forme di lotta, lei concorda con i motivi della protesta in Val di Susa?
«L’opera di cui si parla è importante. Come tutti gli interventi di infrastrutturazione pesante, comporta difficoltà oggettive e anche cambiamenti del territorio. Ma in Europa il completamento di quel corridoio è utile, e rappresenta un contributo efficace per il rilancio dell’economia».
Non vede alternative possibili?
«Credo che la ricerca di soluzioni diverse, alternative appunto, fosse ipotesi realistica qualche anno fa... Oggettivamente, al punto in cui siamo, mi pare che la scelta secca sia tra un sì e un no».
Lei sa che lì in Val di Susa non tutti la pensano così...
«Ed ho il massimo rispetto per quelle opinioni. Ma c’è troppa enfasi, sia da una parte che dall’altra. Ed uno scarto evidente e drammatico tra certi gesti e gli obiettivi che si intendono raggiungere».
A cosa pensa, in particolare?
«A quanto accaduto a Luca Abbà. È incomprensibile e preoccupante che per difendere le proprie convinzioni si metta a rischio la vita: e non di fronte a violazioni della libertà o alla negazione di diritti democratici, ma per un atto materiale come la costruzione di una ferrovia. Io mi auguro che Luca Abbà possa tornare presto a manifestare contro la Tav: ma non con i metodi e forme di lotta utilizzate fino ad ora».
Il ministro dell’Interno si è detto pronto al confronto ma fermo nella difesa delle scelte fatte. È una posizione che la convince?
«La disponibilità all’ascolto annunciata dal ministro Cancellieri è importante e utile. Naturalmente occorre che il tutto avvenga nella massima trasparenza e non si lasci il confronto a questa o quella interpretazione: come, ad esempio, al fatto che siano possibili modifiche dell’opera, che a mio avviso oggi sono impensabili. E un’ultima cosa, poi».
Dica.
«Personalmente non ho mai apprezzato l’uso dell’allarme: intendo allarme circa infiltrazioni terroristiche nel movimento e via discorrendo. Perché se ci sono problemi davvero, allora la strada maestra è agire, non denunciare. E agire nel silenzio: perché la riservatezza favorisce il lavoro di inquirenti e forze dell’ordine e soprattutto allontana ogni sospetto di un uso strumentale dell’allarme stesso... ».

il Fatto 1.3.12
Intervista Walter Verini, deputato democratico, risponde a Orfini
“Anche nel Pd vogliono delegittimare Veltroni”
di Luca Telese


Orfini è archeologo: forse per questo ha molta più dimestichezza con le cose del passato che con quelle del futuro”. La prova che il dibattito nel Pd sta toccando livelli di guardia è nel fatto che un dirigente compassato come Walter Verini ricorra a un sarcasmo affilatissimo: “L’attacco contro Veltroni e il tono della polemica politica sta toccando livelli di guardia”. Non sta esagerando? Scherza? Nel 1984 Luciano Lama va in tv portandosi dietro Agostino Marianetti, dirigente socialista, con cui c'era appena stata una dura polemica sul decreto di San Valentino. Erano questi gli uomini, questo lo stile della sinistra riformista. Vuole dire che nel Pd è venuto meno questo stile? Il clima nel quale si affronta la questione minoranza-maggioranza è ormai esasperato. Faccia un esempio Quando parla Orfini, e non solo lui, sento il piacere dell'esibizione muscolare. Insultare Veltroni dandogli del conservatore è grave, visto che è rivolto a uno che ha fatto dell'innovazione della sinistra il cuore della sua politica. A cos'altro si riferisce? A questo incredibile modo di discutere. Quando gli Orfini, o i Fassina dicono a Ichino, con sprezzo: “Le sue idee valgono il 2% del partito”. O quando si dice agli altri: “Contiamoci! ”. Non vuole un Congresso? Non crede che ci siano maggioranze? Certo. Ma attenzione, che vuol dire congresso? Nella mia città, Città di Castello per esempio, lo abbiamo appena fatto: c'erano 120 iscritti al Pd, in una settimana sono diventati 1100! Di questi casi ce ne sono stati tanti. Mi pare che la grossa differenza nel Pd sia il giudizio sul governo Monti. Orfini lo dipinge quasi come un male necessario. Ma sta cercando di cambiare l'Italia e nelle sue scelte c'è molto delle nostre sfide riformiste. C'è un'altra cosa che mi ha colpito. Quale? Le battute di Orfini sulla distanza dei ministri di Monti dal popolo e i loro redditi... È un fatto, però. Mi pare un'involuzione. Noi siamo abituati all'idea, con Olof Palme, che va combattuta la povertà, non la ricchezza! Oggi leggiamo che un imprenditore e un elettricista si suicidano. É una coincidenza casuale ed emblematica: lo stesso giorno un dipendente e un imprenditore. Cosa vuol dire? La parole di Orfini esprimono un sentimento minoritario. Tutti i sondaggi dicono che la maggioranza dei nostri elettori apprezzano Monti. Lei crede? Monti riduce le spese militari, dice no alle Olimpiadi, recupera 15 miliardi di imposte, mette l'Ici alla Chiesa e vara provvedimenti anti-precari. Non sono cose di sinistra, queste? Molte sono solo annunciate, per ora... Sono cose che piacciono. Il consenso di Monti sale, quello dei partiti scende. Ne è contento? Per niente. Gli italiani non considerano i partiti la soluzione, ma il problema. Quanto alla sensibilità sociale non mi faccio insegnare nulla dagli Orfini: vertenze come Trafomec, ThyssenKrupp, Merloni le abbiamo seguite da vicino. Orfini dice: i Veltroniani non criticano Marchionne. Per me Marchionne è un innovatore, non un nemico: ma voglio che faccia le sue riforme rispettando i lavoratori. Che cosa apprezza del nuovo corso Fiat? Marchionne ha una visione globale della competizione e cerca di adattare un modello competitivo a queste sfide. Se la Fiat avesse fatto solo scelte nazionali avrebbe già chiuso. Però è condannata tre volte per scelte antisindacali. Se a Melfi viola delle regole lo dobbiamo dire tutti. Ma in America la Fiat è sostenuta da Obama. E questo cosa significa? Follini ha detto di preferire Aristotele a Fassina. Se permette io fra Orfini e Obama mi fido più di Obama. Vede, non ci sono buoni e cattivi. Avrei voluto per esempio, che il clamoroso astensionismo a Pomigliano lo avesse denunciato il sindacato. Nel Pd ci sono differenze. La bellezza della politica è la complessità. Vedo invece antenne limitate. E molto dogmatismo. Si riferisce a Fassina? Stimo la sua tenacia e competenza. Non la sua irruenza. Ma posizioni come le sue riportano le lancette indietro agli anni Settanta. Quando c'era Veltroni regnava il pluralismo? Bè, all'epoca Fassina era consigliere del segretario del Pd e del governo ombra. Si rischia una scissione? No. Ma dare a Veltroni l'etichetta di conservatore significa cercare di delegittimarlo. Questo fa male a tutti noi.

il Riformista 1.3.12
Veltroni, Vendola e il futuro del Pd
di Emanuele Macaluso


Assimilare le posizioni politiche di Veltroni a quelle della destra, come ha fatto Vendola è una sciocchezza, ma non un’eccezione. Bollare non solo l’alleato, ma il compagno di partito che ha una posizione diversa da quella “ufficiale”, è un vizio antico e attraversa ancora tutta la sinistra. Walter ha addirittura convocato una conferenza stampa per richiamare i dirigenti del suo partito a reagire. Esagerazione. Anche perché in occasioni che non lo riguardavano non ha reagito.
Nel 1995 scrissi due articoli sul Manifesto dedicati al processo Andreotti e alcuni dirigenti del Pds palermitani reagirono dichiarando che con quegli scritti avevo “oggettivamente” delegittimato la procura di Palermo e dato una mano alla mafia. Come avevamo fatto con Sciascia. Nessun dirigente nazionale del Pds (D’Alema, Veltroni, Fassino ecc.) reagì. Sul Manifesto apparve solo una lettera indignata di Giorgio Napolitano.
Per anni, io e altri compagni dell’area riformista siamo stati bollati come “craxiani”, (perché sui rapporti a sinistra, col Psi, avevamo una posizione diversa da quella “ufficiale”), senza una parola dei dirigenti del partito, anzi con il loro avallo. Si discutano seriamente le posizioni politiche per quel che sono. E in questa occasione Veltroni ha legittimamente, espresso una linea politica che non coincide con quella che sommariamente viene indicata con la “foto di Vasto”.
Il fatto che il Pd non sia in grado di definire una linea politica chiara, provoca continue discussioni in attesa di un approdo che ormai ha, o dovrebbe avere, una scadenza: le elezioni del 2013. Discussioni che non riguardano solo i rapporti con i suoi possibili o impossibili alleati, ma il partito stesso, e su tutti i campi. Ieri uno dei due giornali del Pd, l’Europa, ha pubblicato un articolo del vice direttore Mario Lavia con questo titolo: «La foto di Parigi» città dove si sono incontrati Hollande, Gabriel e Bersani, per rilanciare l’unità politica dell’Europa.
Sarebbe “puerile”, dice Lavia, vedere nelle “foto di Parigi” la proiezione di quella di Vasto. Ma, nota, «è un fatto che Bersani vada a stipulare un patto con due forze che in questa fase stanno spostando il loro asse politico-ideologico su posizioni molto diverse da quelle del Pd». Quali sono quelli “compatibili” né Lavia, né altri lo dicono. I quali temono che il Pd assuma le posizioni dei socialisti francesi e tedeschi, troppo a sinistra, come piattaforma per governare l’Italia.
Ora sappiamo bene che ogni partito socialista ha una sua piattaforma politico-programmatica e non vedo come possano “infettare” quella del Pd. Tuttavia, è emerso un problema che non può essere eluso: i caratteri globali della crisi e l’interventismo delle strutture europee sulle politiche nazionali (non solo la Bce) richiedono una politica europea comune al centrosinistra.
Oggi i partiti socialisti europei pongono questo tema. Cosa deve fare il Pd? Restare isolato e impotente? In questo caso la pregiudiziale ideologica è posta proprio da chi subordina ad essa la necessità, tutta politica, di stare in Europa con i partiti socialisti e con essi elaborare una piattaforma comune per fronteggiare la crisi. Tuttavia, temo che l’essere e non essere del Pd paralizzerà ancora questo partito. Sino a quando?.

Corriere della Sera 1.3.12
L'ossessione della sinistra per la destra
di Pierluigi Battista


E stromesso il «nemico» Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi, un nuovo (ma vecchissimo) fantasma popola gli incubi di una parte della sinistra italiana: l'ossessione della «destra». L'Italia è in confusione politica? Le categorie vacillano, le appartenenze appaiono incerte e da rifondare? Si riafferma allora l'angoscia del confine identitario, delle colonne d'Ercole oltre le quali ci si avventura nella palude del tradimento.
Perciò rifiorisce la vecchia scomunica. Walter Veltroni, sostiene perentoriamente Nichi Vendola, è andato a «destra», sia pur nella destra «colta» e non sbracata come quella berlusconiana. E pure Mario Monti: attenzione perché è di «destra», si comincia a mormorare nella stampa di sinistra.
È un bisogno spasmodico di crearsi un nuovo nemico, una smania di purificazione che comporta sempre il prezzo feroce delle «purghe». Purgarsi dal nemico «interno», da sempre, nella tradizione più autoritaria della sinistra, il più pericoloso. Per cui non si dice: Veltroni è di un'altra sinistra, giacché le sinistre possono essere più d'una. No, si dice: Veltroni è «di destra». Per cui, come accade con Stefano Fassina, responsabile per l'economia del Pd, anche Pietro Ichino che vuole mettere in discussione l'articolo 18 sarebbe «oggettivamente» di destra. E anche il ministro Elsa Fornero. Quindi meglio non rischiare, non sfidare l'ignoto che inevitabilmente scaraventa chi ci prova nel campo infetto del nemico. Una logica abbastanza conosciuta nella storia di una parte della sinistra. Perché anche la sinistra non è mai stata una, come invece si è detto per tutti gli anni della sbornia bipolarista della Seconda Repubblica. Un tempo c'era la sinistra comunista, quella socialista, quella cattolica, quella radicale, quella liberal-democratica, quella post-azionista e così via. Era di sinistra Enrico Berlinguer. Ma era di sinistra Bettino Craxi. Era di sinistra Marco Pannella, ed era pure di sinistra Carlo Donat Cattin (di cui recentemente il giornale web L'inkiesta ha riesumato le appassionate difese dell'articolo 18 quando venne approvato lo Statuto dei lavoratori, per dire). Però c'era sempre qualcuno che si arrogava il diritto di rappresentare l'unica vera e autentica sinistra. Caduto il Muro di Berlino si sperava che si fosse chiusa anche l'epoca dei distributori delle patenti di sinistra, i vidimatori dell'autentica sinistra, i custodi dell'ortodossia. E invece no, l'eredità del passato non è stata smaltita.
Invece di spiegare cosa fosse accaduto alla sinistra per accogliere tra le sue braccia un uomo della destra più genuina come Antonio Di Pietro, la destra «law and order» e «tutti in galera», si è ricominciato con il giochetto del sospetto su chi, un po' troppo riformista e «revisionista», vorrebbe portare la sinistra nella destra (o forse inoculare il virus della destra nella sinistra, non è chiaro). Già qualche tempo fa Rosy Bindi, esponente di una robusta tradizione di sinistra cristiana, decretò che addirittura Tony Blair non potesse essere definito di «sinistra». Uno dei pilastri della sinistra mondiale, il laburismo inglese, veniva espulso dalla sua casa e rigettato nelle contrade contaminate della destra. Qualche mese fa è toccato a Matteo Renzi, neutralizzato e spintonato nei cortei del suo partito, il Pd, con lo stesso refrain intimidatorio e censorio: fai finta di essere di sinistra. Ma ora, con la fine del cemento antiberlusconiano che aveva tenuto insieme anime diverse e persino opposte, l'ossessione della destra non ha più argini. Veltroni viene accostato alla destra. Ma è lo stesso sostegno al governo Monti che comincia a diventare uno psicodramma: non stiamo forse perdendo la nostra anima, la purezza della nostra «sinistra», sostenendo un tecnico che certo non è impresentabile come Berlusconi ma di fatto conduce una politica che per semplicità emotiva possiamo definire non di sinistra, e dunque di destra?
Sembra una baruffa nominalistica, è vero. Ma è dall'esito di questa baruffa che può determinarsi il prossimo destino del Pd: se coltivare il proprio orticello di sinistra, oppure se fare del governo Monti la base delle scelte politiche ed elettorali che si imporranno entro al massimo un anno. L'ossessione della «destra» è solo un pretesto per non scegliere.

il Fatto 1.3.12
Renzi e l’arte di promuoversi
di Tomaso Montanari


Parlando lunedì in Consiglio comunale, Matteo Renzi ha rilanciato la vecchia idea di ripristinare l’antica pavimentazione in cotto di Piazza della Signoria a Firenze, annullando i due secoli di storia che hanno storicizzato le pietre volute dai Lo-rena. Non è un caso isolato: con cadenza regolare, Renzi prende un tema della storia dell’arte fiorentina e lo brandisce come una clava mediatica. Ha cominciato con la rivendicazione della proprietà comunale del David di Michelangelo, ha continuato con l’idea di costruire la facciata di San Lorenzo secondo i progetti dello stesso Michelangelo, quindi si è gettato a capofitto nella tragicomica ricerca della Battaglia di Anghiari di Leonardo. IL MOVENTE politico è trasparente: usare il patrimonio storico e artistico della città come una potentissima arma di distrazione di massa. In tutto questo c’è una buona dose di cinismo, perché Renzi sa benissimo che Piazza della Signoria non tornerà mai al cotto (ipotesi già bocciata, in passato, dal ministero per i Beni culturali), che la facciata di Michelangelo non si farà, che la Battaglia di Anghiari non si troverà: ma ciò che conta è l’effetto notizia. Ma sono i presupposti culturali di questa strategia a far cadere le braccia. Innanzitutto, non c’è niente di nuovo: l’indubbia abilità mediatica di Renzi proietta su un palcoscenico globale i peggiori vizi della Firenzina abituata a vivere sullo sciacallaggio del passato. In questo momento, la Provincia di Firenze promuove una grottesca campagna di scavo per cercare le ossa della Gioconda (intesa come Lisa Gherardini), mentre si raccolgono firme per indurre il Louvre a prestare a Firenze la stessa Gioconda (intesa come quadro, o meglio come feticcio). L’arcivescovo, e neocardinale, Giuseppe Betori usa una pala del giovane Giotto come merce di scambio nella propria promozione personale, e la Confindustria fiorentina sostiene Florens, manifestazione culminata nel collocamento di un’oscena copia in vetroresina del David su un castelletto di tubi piazzato su uno dei contrafforti del Duomo, in un penoso tentativo di mimare la collocazione originaria della statua. MA CIÒ CHE colpisce veramente è il disprezzo per la cultura che traspare dalle parole e dagli atti del sindaco, che è ora anche assessore alla Cultura. Quando i più importanti storici dell’arte di tutto il mondo gli hanno chiesto di smettere di bucare gli affreschi di Vasari per cercare il Leonardo fantasma, Renzi ha risposto con una newsletter piena di insulti verso questi “presunti scienziati”, accusandoli di non essere “stupiti dal mistero” a causa di un “pregiudizio ideologico”. Non siamo al “culturame”, ma poco ci manca. Per Renzi la cultura è quella di Voyager, il programma tv di Roberto Giacobbo: complotti e misteri, templari e santi graal. Evasione, vaghezza misticheggiante, suggestione a buon mercato. Proponendo di riportare Piazza della Signoria alla pavimentazione tardogotica egli sfoglia il libro della storia come se fosse il book di un chirurgo estetico. Un libro dei sogni che non serve più a crescere e ad aver presa sulla realtà, e dunque a imparare come cambiare il mondo, ma – al contrario – a cancellare le tracce del tempo e a rimanere eternamente immaturi. Non uno strumento per formare cittadini consapevoli dotati di senso critico, ma un mezzo per plasmare un pubblico passivo, destinatario perfetto di una martellante propaganda che invita non a pensare, ma a sognare. Si dice che Silvio Berlusconi si compiaccia da tempo di questo nipotino ideologico: è sempre più difficile dargli torto.

Corriere della Sera 1.3.12
Il leader dei taxisti: aiutati da Gasparri Il governo era su una strada rischiosa
di Fabrizio Roncone


ROMA — «E certo... mo' venite a cercà Loreno Bittarelli...».
Il potente capo del radiotaxi romano 3570.
«Beh, potente...».
Voi tassisti avete stravinto la battaglia anti-liberalizzazioni. E lei, Bittarelli, è stato il protagonista della trattativa con il governo.
«Diciamo che il governo è stato bravo a capire che aveva imboccato una strada sbagliata, rischiosa...».
Rischiosa, scusi, in che senso?
«Beh... intanto hanno capito che applicare una liberalizzazione sfrenata nel settore dei taxi avrebbe provocato solo sfruttamento e miseria per migliaia di tassisti. Poi... sì, insomma: all'inizio, per venti giorni, si sono rifiutati di riceverci. No, dico: e che decidete da soli? E che si fa così? E che modo è? Allora ci siamo un po' arrabbiati e...».
E avete assediato Palazzo Chigi per due giorni e due notti.
«Diciamo che è stato un sit-in ben riuscito».
Avete lanciato bombe carta.
«Eh...».
Io c'ero. Avete lanciato bombe carta davanti al portone di Palazzo Chigi, Bittarelli.
«Vabbé, gli animi si erano un po' surriscaldati... ma alla fine non abbiamo fatto male a nessuno...». (qui Bittarelli ridacchia)
Nel 2007 tiraste fuori di peso dalla sua auto Fabio Mussi, all'epoca ministro, e lo prendeste a ceffoni.
«Ma no... solo qualche calcione alla macchina... ma ceffoni no, non mi sembra».
L'altro leader sindacale protagonista con lei nella trattativa è stato Pietro Marinelli, dell'Ugl-taxi, che ha lo stemma della X Mas tatuato sul braccio.
«Embè? Che è colpa mia se Marinelli s'è fatto quel tatuaggio? Io sono sempre stato contrario a certi estremismi, anche se, certo, non nego di avere un orientamento politico preciso: Bittarelli è un uomo di cen-tro-de-stra!».
Qualcuno, in questi giorni di trattativa, deve avervi certamente aiutato all'interno delle aule parlamentari e...
«Alt! La precedo: e certo che siamo stati aiutati. Ma uno, uno più di tutti s'è speso per noi e per la nostra causa».
Chi?
«Maurizio Gasparri, il capogruppo del Pdl al Senato. Il lavoro di Maurizio è stato commovente. S'è battuto come un leone. Roba da nominarlo "tassista onorario"».
Oltre a Gasparri?
«Beh, la senatrice del Pdl Vicari, che era una delle relatrici in commissione... il senatore Augello... e poi, ovviamente, il sindaco Alemanno... Che pure è amico mio. Del resto, con Alemanno e Gasparri facemmo tante iniziative insieme anche nel 2008, durante la campagna elettorale...».
Lei fu il secondo dei non eletti al Senato per il Pdl.
«Come si dice? Mancò la fortuna, non l'onore... Ma se adesso lei ha intenzione di far intendere che i tassisti sono stati aiutati solo dal centrodestra, sbaglia, farebbe cattiva informazione».
Prosegua.
«Proseguo come?».
Continui, mi spieghi chi altro vi ha appoggiato...
«Ah, beh, sì... ecco, per dire: anche Fassina è stato molto comprensivo».
Stefano Fassina del Pd?
«Esattamente».
Non ci credo.
«E invece deve! Del resto è stato comprensivo perfino il senatore Bubbico, che era l'altro relatore, pure lui del Pd... tutti disponibili ad ascoltare le nostre ragioni. Sì, è andata veramente bene».
Bittarelli, capisco la sua soddisfazione: purtroppo noi continueremo a non trovare taxi e a pagarli tantissimo.
«Allora, con ordine: i taxi ci sono, eccome se ci sono! E poi...».
Senta: in tutte le capitali europee, uno alza la mano e si fermano almeno due taxi. A Roma, trovare un taxi è un gioco di fortuna.
«Guardi che noi abbiamo fatto proposte concrete per migliorare il servizio e abbassare le tariffe e...».
Bittarelli, lasci stare. Tanto ha già stravinto, no?
«Ah ah ah! E mo' che scriverà? Che figura mi farà fare?».
Bittarelli, che le importa? Dia retta, ha stravinto.
«Eh, beh... ho stravinto... Ah ah ah!».
(Loreno Bittarelli detto «Bitta» ha voluto che il suo radiotaxi avesse una sede prestigiosa: così comprò da Roger Moore, l'ex 007 cinematografico, una villa in via Casal Lumbroso. «Cinque miliardi di lire e dieci anni di mutuo. Un affarone, no?»).

La Stampa 1.3.12
Il capitano del peschereccio “Ho visto gli italiani sparare”
India, nuove tensioni sui marò fermati: i carabinieri esclusi dall’esame balistico
di Massimo Numa


La «Enrica Lexie» è ancora ferma in una zona del porto di Kochi, a bordo ci sono quattro marò e i membri dell’equipaggio

Siamo partiti per due settimane di pesca al largo la mattina del 7 febbraio scorso». Parla Fredy John Bosco, il proprietario-capitano del peschereccio su cui sono morti Valentine Jalastein e Ajeesh Binki, colpiti da proiettili esplosi in circostanze non ancora chiare. «Nel pomeriggio di mercoledì 15 febbraio ero sotto coperta a riposarmi. L’equipaggio è composto in genere da 11 uomini, tra cui alcuni parecchio anziani. Io generalmente sto al timone ma quel pomeriggio invece c’era Valentine, che era bravo quanto me». Poi: «Ero nel dormiveglia quando ho sentito strani rumori, come se qualcuno avesse colpito il ponte con un martello. Sono salito in fretta e, nella cabina centrale, c’era Valentine, a terra. Perdeva sangue dalla bocca, dalle orecchie, dal naso. In agonia. Ho alzato lo sguardo e ho visto esanime il corpo di Binki. A centocinquanta metri c’era la nave italiana, di dimensioni molto grandi. Ho visto distintamente uomini che, armati, dalla nave, continuavano ancora a sparare contro di noi. Quante volte? Sicuramente ho visto una ventina di lampi, tutti ravvicinati. Non saprei dire esattamente quanto è durata l’azione». Dopo? «Subito ho pensato che quella nave era stata catturata dai pirati e volevano farci allontanare, poi mi sono preoccupato di proteggere il resto dell’equipaggio. Infine, con il cellulare, ho avvisato gli altri pescatori che incrociavano nella zona e, contestualmente, la Guardia Costiera».
Secondo il capitano del St. Anthony, la «Enrica Lexie», subito dopo la sparatoria, si è allontanata velocemente, senza soccorrere le persone colpite. Gli italiani sostengono però di aver segnalato al timoniere, secondo norma, che l’imbarcazione si stava avvicinando troppo. Vero o falso? «Valentine era un marinaio esperto, conosceva i segnali, tendo ad escluderlo. Era una giornata di sole, il mare calmo, come è stato possibile confondere il peschereccio con i pirati? Non riesco ancora a spiegarmelo», dice Fredy John Bosco. I media indiani hanno diffuso un documento che, se vero, dimostrerebbe che la nave italiana, al momento del fatto, non navigava ancora in acque internazionali. Lo spiega padre Richard Regison, segretario del vescovado di Kollam, che conosce bene e assiste ogni giorno i familiari delle vittime: «Sul giornale Matrhubhumi è stato pubblicato il log della nave, tracciato al momento degli spari. Le miglia sarebbero 20,5, dunque nelle acque indiane». Il proprietario del peschereccio rivela che i nove sopravvissuti dell’equipaggio non riescono più a lavorare, alcuni sono ancora in ospedale: «Sono sotto choc, soprattutto i più anziani, non possono più mantenere le loro famiglie, hanno diritto anche loro a un risarcimento».
Le famiglie si sentono abbandonate. Nella casa di Kollam, la moglie di Valentine Jalastein chiede che «sia fatta giustizia» e idem i familiari di Binki, che ha lasciato sole due sorelle giovanissime. I media locali dubbi non ne hanno. E padre Regison, che ha studiato sei anni in Italia e che ha la casa di famiglia a pochi metri da quella della vedova di Valentine, spiega: «Leggo cose non vere, a proposito di una presunta strumentalizzazione dell’episodio per fini politici. Gli indiani vogliono semplicemente che chi ha sbagliato, ovviamente senza intenzione di farlo, paghi le sue colpe e non dica bugie che sono offensive per noi. C’è stata una piena concordanza tra tutti i partiti politici sulla posizione da tenere. Vogliamo la verità, quindi i giusti risarcimenti. La vendetta non serve a nessuno».
Sul fronte delle indagini, fumata nera. Il giudice di Kollam ha disposto che, nel corso degli accertamenti balistici, non ci siano i carabinieri; al contrario potranno assistere alle successive prove di sparo. Oggi comunque è una giornata decisiva per le sorti di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò del San Marco. Potrebbero essere infatti resi ufficiali gli esiti della perizia sui proiettili che deve accertare se si tratta di ogive esplose dai Beretta Arx 160 in dotazione ai fucilieri o se sparati da armi di calibro diverso. La sensazione è che gli inquirenti indiani abbiano già le idee chiare sulle responsabilità. Il ministro degli Esteri Giulio Terzi ha espresso il suo disappunto per il prima promesso e poi mancato coinvolgimento dei nostri periti nell’indagine. Oggi verrà presentata dai legali della difesa un’istanza per riottenere le «garanzie necessarie», come ha sottolineato il sottosegretario agli Esteri, Staffan De Mistura. «Anche noi vogliamo sapere la verità, esattamente come loro».

La Stampa 1.3.12
L’Italia all’Onu: fermate le mutilazioni genitali
Ogni anni tre milioni di bambine restano vittime della barbarie
Il ministro Fornero al Palazzo di Vetro: risoluzione entro l’anno
di Paolo Mastrolilli


Il dramma Bambine del Kenya Il fenomeno della mutilazione genitale è diffuso soprattutto nell’Africa più povera dove da anni diverse ong cercano di combattere la pratica
Martedì sera l’Assemblea Generale dell’Onu si è alzata in piedi, per cantare e ballare. Il «parlamento del mondo» si è preso un’ora di intervallo per ascoltare la voce di Angélique Kidjo, la cantante del Benin vincitrice del premio Grammy. Ma la ragione di questa iniziativa, presa dall’Italia, era seria e per nulla allegra: mettere fine alla mutilazione genitale femminile. Angélique, ambasciatore dell’Unicef, è salita sul palco insieme al ministro del Lavoro Elsa Fornero, per scuoterci dall’apatia e spingere l’Assemblea Generale ad approvare una risoluzione che condanni la pratica e porti al suo divieto in tutto il mondo.
I numeri sono impressionanti. Ogni anno circa tre milioni di bambine e ragazze sono vittime della mutilazione genitale: ottomila al giorno. Una marea di esseri umani, che porteranno per tutta la vita i segni di questa inutile superstizione, quando non moriranno per le complicazioni. Per quale motivo? Nessuno, con tutto il rispetto per la cultura e la tradizione dei Paesi dove questa pratica continua da secoli. Non c’è una ragione religiosa, e tanto meno sanitaria, per giustificare questa violazione dei diritti umani. Basta ascoltare la testimonianza di Sarah Dioubate, una ragazza della Guinea: «Un giorno mia zia mi portò ad essere tagliata. Avevo sei anni, ricordo solo il dolore. Ebbi la sensazione che mi veniva rubata qualcosa, per sempre. Qualche anno dopo, una volta cresciuta, chiesi a mia madre perché aveva permesso che subissi questa violenza. Mi rispose che la pressione della società era troppo forte, per opporsi».
Naturalmente l’eliminazione di una pratica del genere non è un risultato che si ottiene schioccando le dita. «E’ molto radicata spiega Angélique e bisogna lavorare sulla persuasione per cambiare gli animi. Poi in Africa ci sono parecchie persone che vivono di questo: tagliare le ragazze dà loro un lavoro, se possiamo definirlo così, e uno status nella società. Bisogna offrire alternative, per sradicare la pratica. Però, è ora che gli africani comincino a prendere le decisioni giuste per il loro futuro. Abbiamo le nostre leadership legittime, che devono affrontare i problemi che ci affliggono. A partire dalla povertà, che spesso è l’origine di tutti questi mali. All’Occidente chiediamo di aiutarci, rispettandoci: non venite a dirci cosa dobbiamo fare, perché abbiamo il cervello e lo sappiamo da soli. Sosteneteci nel farlo, però».
Nel 2007 Unfpa e Unicef hanno lanciato un programma in 12 Paesi africani per fermare la mutilazione genitale, attraverso aiuti economici e informazione. Il piano ha dato i primi risultati, visto che circa 8.000 comunità hanno rinunciato alla pratica. Però non basta. Perciò l’Italia ha approfittato dell’incontro annuale della UN Commission on the Status of Women, per spingere la risoluzione all’Assemblea Generale: «E’ realistico sperare ha detto la Fornero che sia approvata entro l’anno».

Corriere della Sera 1.3.12
Francia, quei giovani fanatici e l'eterna ossessione antisemita
di Stefano Montefiori


Audrey Pulvar, 40 anni, è di origine antillese, il 49enne Arnaud Montebourg ha antenati algerini. La prima è un'attraente giornalista e commentatrice su radio e tv, il secondo un esponente di spicco del Partito socialista. Martedì sera erano appena usciti da un ristorante parigino quando sono stati aggrediti da un quindicina di ventenni. «Gridavano Juden, Juden Juden (ebrei in tedesco, ndr)! e Le Pen président, Le Pen président!», ha raccontato la Pulvar. «Jean-Marie Le Pen ci ha dato il permesso di ripulire Parigi dagli ebrei, la Francia ai francesi», hanno continuato, prima di tirare sulla coppia bicchieri pieni e bottiglie di birra, e di aggiungere «negra!» per lei e «babbucce!» per lui (in omaggio alle origini arabe). A parte la polemica politica che ne è seguita, con Marine Le Pen che parla di «hooligan estranei al Front National» e «calunnie», non si può non notare quanto l'ossessione antisemita resti nascosta ma presente in Francia. Tanto da colpire anche chi ebreo non è. Lo stilista John Galliano che ubriaco insulta dei ragazzi al bar augurando loro le camere a gas e ripetendo «Amo Hitler»; il deputato Ump Christian Jacob che accusava Dominique Strauss-Kahn (lui sì ebreo) di non rappresentare la «Francia vera»; e ora l'aggressione a Pulvar e Montebourg (peraltro filopalestinesi): non c'è come l'antisemitismo quando si tratta di lasciarsi andare agli istinti più bassi e radicati.

Corriere della Sera 1.3.12
Democrazia e partiti islamici Primavere arabe a confronto
di Maurizio Caprara


ROMA — «Costruire una democrazia è opera più difficile e complessa che distruggere una dittatura», diceva ieri a Roma Rachid Ghannouchi, il capo del partito di maggioranza nella Tunisia del dopo-Ben Ali. Benché la tirannia in Siria sia ancora in piedi e sanguinaria, il leader della formazione musulmana «Ennahda», costretto in passato all'esilio, aveva talmente ragione che poco dopo il suo intervento due donne con l'hijab, velo islamico che copre molti dei capelli o tutti, giravano non distanti da lui accusandolo di aver abitato in Gran Bretagna mentre, stando al loro racconto, il figlio di una delle due veniva ferito nella «Rivoluzione» tunisina. «Si chiama Mohammed Rawafi, 19 anni. È scappato in Italia via mare, non si sa dov'è», diceva la donna con l'hijab nero, Rebeh Krahiem, assistendo, nel chiedere aiuto a quanti incontrava, la sua amica con il fazzoletto rosa che definiva madre del disperso.
Non succedeva alla Moschea di Monte Antenne. Sono scene a ridosso della Basilica di Santa Maria in Trastevere ai margini di un convegno della Comunità di Sant'Egidio, «Primavera araba, verso un nuovo patto nazionale». La strage degna di cronaca, in questo caso, è consistita in un'ecatombe di stereotipi.
Invitati di spicco, alcuni dirigenti dei «Fratelli musulmani». «Non si può dividere la società in base a credo, sesso e idee, ma solo sulla base di diritti e doveri. Noi abbiamo subito l'esser tenuti "fuori", non cadiamo in questa trappola», sosteneva Abdul Rahman al Barr, «fratello» egiziano. Impegni da verificare nei fatti, certo, perché la loro interpretazione può essere molteplice, come una frase di Abdul Malek, della stessa affiliazione in Libia: «La democrazia è un requisito imprescindibile del nostro movimento, ma deve essere compatibile con la nostra cultura e la nostra religione».
Nei suoi dialoghi interreligiosi, «Sant'Egidio» ha sempre rivendicato che non si possono dettare le tesi agli interlocutori. Suo merito è stato radunare nella stessa sala voci diverse mentre i cambiamenti nei Paesi arabi richiedono coltivazione di nuove relazioni per classi politiche e governi europei privi dei vecchi alleati nel resto del Mediterraneo. «C'è bisogno di improntare il nostro rapporto con l'altro e anche con il mondo islamico sulla simpatia e far cadere distanza e diffidenza», ha affermato Andrea Riccardi, fondatore della Comunità, oggi ministro della Cooperazione.
Pierluigi Pizzaballa, custode di Terra Santa, ha sottolineato che in Medio Oriente non si può «costruire una nazione senza tener conto anche dell'elemento religioso». Nel ricordare che «in Siria i cristiani sono sempre stati garantiti», ha esortato a puntare sul «partecipare» alla politica più che su «protezioni», invitando tutti a rileggere il proprio passato: «"I musulmani sono tutti vittime": non è vero. "I cristiani sono tutti vittime": non è vero». E un oppositore siriano, Haytham Manna, ha condannato l'ipotesi di soldati stranieri in Siria a vigilare su corridoi umanitari. «Può dividere», ha obiettato.

il Fatto 1.3.12
Repressione ieri e oggi
La Turchia e la censura continua del genocidio armeno
di Roberta Zunini


Si riacutizza il dolore, per molti armeni della diaspora, per i loro figli e nipoti. In Francia, dove risiede la più grande comunità armena rifugiata in Europa, la Corte costituzionale ha rigettato la recente proposta di legge contro il negazionismo del genocidio, premeditato e realizzato dai turchi nel 1915. Il verdetto della Corte costituzionale francese ha bocciato la recente norma, che avrebbe punito con il carcere chi lo nega, perché la ritiene contraria alla libertà di espressione. Il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, ha immediatamente applaudito la decisione dichiarando che “crea un precedente contro altri possibili tentativi di sfruttamento della questione”. Le istituzioni turche continuano a opporsi ufficialmente alla definizione di genocidio, archiviando l'annientamento di almeno un milione di armeni come “incidenti”. Molti studiosi e intellettuali turchi, a partire dal premio Nobel Oran Pamuk, però non la pensano allo stesso modo. La loro posizione è riemersa non più tardi di due mesi fa, quando il Tribunale di Istanbul ha attribuito l'omicidio del giornalista-editore turco armeno Hrat Dink – avvenuto sei anni fa – all'azione di singoli e non a un gruppo nazionalista che vorrebbe la fuoriuscita di tutti i turchi-armeni dal Paese della mezza luna. La Corte ha dunque bocciato l'ipotesi di un omicidio di natura politica. Uno dei più noti editorialisti turchi, Ergun Babahan, ha recentemente scritto sul quotidiano Star: “Il genocidio armeno è un fatto vero. Le autorità turche dovrebbero almeno smetterla di opporsi al suo riconoscimento da parte degli altri Stati”. In altri editoriali aveva sostenuto che “chi rifiuta la legge contro il negazionismo, con la scusa di proteggere la libertà d'espressione, è come se difendesse il fascismo”. MOLTI GIORNALISTI turchi che hanno criticato il governo per la sua posizione intransigente sulla questione armena, sono stati in seguito perseguiti e alcuni sono finiti in carcere con l'accusa di aver preso parte al progetto eversivo Ergenekon. “Le due questioni non sono direttamente collegate, se non per il fatto che i giornalisti critici nei confronti del rifiuto turco di ammettere il genocidio, hanno investigato e cercato di svelare cosa si nascondesse dietro il piano eversivo antigovernativo, Ergenekon. Ma investigare e scrivere articoli non significa cospirare contro il governo bensì informare. Esercitare la libertà d'espressione. Non il contrario, come invece ritengono le autorità turche. I turchi che si schierano a favore della legge contro il negazionismo, sono gli stessi che si schierano contro ogni tipo di censura”. A parlare è Alin Tasciyan, un'altra columnist di Star. A differenza di Babahan è di origine armena. “Una sola volta ho detto a mia madre che se avesse voluto sarei stata pronta ad abbandonare la mia vita qui in Turchia, il paese dove sono nata e vissuta, per raggiungere i nostri parenti all'estero. È stato il giorno dell'omicidio di Dink. Ero sconvolta, come lo ero il giorno in cui la corte ha escluso l'omicidio politico. Abbiamo anche manifestato contro questa sentenza talmente ingiusta che è stata criticata persino dal premier Erdogan”. Alin Tasciyan dice al Fatto che nella sua vita quotidiana non ha mai avuto problemi per le sue origini armene. Il problema si innesca quando si diventa un forte punto di riferimento per la società turca, come lo era diventato Dink. “A questo punto può intervenire quello che noi definiamo ‘lo Stato profondo’, qualcosa di simile ai vostri servizi segreti deviati. Essere di origine armena offre una scusa in più a chi vuole cucirti la bocca. Non ritengo però che definire quanto è successo ‘genocidio’, cambi le cose. Anche un solo armeno ucciso, perché armeno, è un fatto intollerabile. La Turchia teme questa definizione perché potrebbe galvanizzare gli animi dei separatisti curdi, delle minoranze che vorrebbero l'autonomia. Ma, in Turchia tutti sanno che c'è stato un genocidio”. Gli armeni della diaspora invece vorrebbero il riconoscimento dell'annientamento dei loro padri e nonni: lenirebbe il dolore e il rimpianto per la terra da cui sono stati cacciati.

Corriere della Sera 1.3.12
Sulle tracce dei codici antichi
di Armando Torno


Se qualcuno citasse gli Exempla di Origene o la Cronaca di Eusebio, purtroppo parlerebbe di opere perdute. Peccato. Erano importanti. Nella prima vennero raccolte le più rilevanti traduzioni greche del Vecchio Testamento e fu posto accanto a esse il testo originale ebraico; la seconda raccontò le vicende di Greci, Romani ed Ebrei, nonché di altri popoli presenti nella Bibbia, in parallelo. Se gli Exempla consentivano di verificare cambiamenti e interpretazioni durante la diffusione delle Scritture, la Cronaca permetteva di cogliere i diversi aspetti di una storia che stava diventando comune. Ora Anthony Grafton e Megan Williams, con il loro fascinoso saggio Come il Cristianesimo ha trasformato il libro (Carocci editore, pp. 356, 29), spiegheranno anche ai lettori italiani le genesi di queste opere di Origene ed Eusebio. Ma anche quella che fu la loro «forma libraria», l'ambiente culturale che le vide nascere, le reazioni che suscitarono. Un'avventura che si svolge tra studiosi, biblioteche e impresari cristiani di codici.

Corriere della Sera 1.3.12
La follia sacra che distrusse Pasolini
Termina dove il poeta venne ucciso il viaggio agli Inferi di Emanuele Trevi
di Pietro Citati


Come altri libri di Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie, pp. 242, 16,80) è una specie di lento, stravagante viaggio alla ricerca di qualcosa. Con una specie di atonia e di indifferenza attraversa il mondo: bighellona, cercando indizi che gli permettano di percorrere e di capire le cose: si ferma di continuo, e poi riprende il cammino: la sua pigrizia gli regala una specie di felicità: non è mai certo se vive davvero, o soltanto in parte; tutto è avvolto dalla nebbia, ma la nebbia è attraversata dai suoi occhi che posseggono una grande penetrazione. Così Qualcosa di scritto è riuscito un libro bello e singolare. Non è un'autobiografia né una biografia né un romanzo né un saggio né un libro di versi né un trattato filosofico: eppure è tutte queste cose insieme; una divagazione incessante della mente, dove le idee e le sensazioni si intrecciano e si fondono tra loro. Conosce ogni tono: il lirico, l'analitico, il capriccioso, il metafisico, lo svagato, il paradossale, il furibondo, che esprimono felicemente tutto quello che il mondo ha nascosto e coltivato dentro di lui.
Lo spazio che Trevi attraversa è molto vasto. Comincia cogli Inferi, la casa di Laura Betti a Roma: dove una scala minima porta nelle cantine: un sinistro mondo sotterraneo, un imbuto, un pozzo, una catacomba, una galleria, un magazzino, una cripta; e, sempre più in giù, grotte, spesso occupate da larghe e fredde masse d'acqua, che non hanno mai conosciuto esseri viventi, nemmeno un topo; e, ancora più sotto, ombre sterminate che rivelano le forme innumerevoli del nulla, da dove salgono miasmi così potenti e insidiosi che raggiungono il mondo dei vivi, penetrando nei muri, infilandosi nei tessuti, possedendo gli esseri umani. Trevi è quasi prigioniero di questa tenebra, ma se ne libera, giungendo nella località fuori Roma, dove Pier Paolo Pasolini, in una notte del 1975, è stato ucciso. «Turpi brughiere suburbane gremite di sozzi relitti»: discariche a cielo aperto, cosparse di ferraglie arrugginite, materassi putrescenti, siringhe abbandonate da tossicodipendenti, preservativi, scarti di un cantiere edile, la massa informe di quello che avrebbe dovuto diventare un monumento a qualcuno. Ormai si avvicina la primavera. La luce si trasforma di minuto in minuto con una repentinità e una trasparenza meravigliose. Le nubi rossastre procedono veloci nel cielo. Folate di vento riempiono le narici con l'odore salmastro del mare. Il sole riversa il suo oro, quasi accecante, su quella terra martoriata: una luce gloriosa che erompe dagli squarci delle nuvole con la maestà di una musica sacra. A un certo punto, un'ombra livida, di un freddo violaceo, prende il sopravvento nella terribile terra del delitto, alla quale il libro aspira come alla sua condizione fatale.
Qualcosa di scritto non è un romanzo: ma Trevi rivela, nel suo cammino oscillante e zigzagante, doti di eccellente romanziere. Penso soprattutto al lunghissimo ritratto di Laura Betti, dove si trasforma in una specie di Balzac che cerca di ripetere le fantasie più grottesche di Rabelais. Eccola, «quel mostro dantesco, circondato dal fumo delle sigarette che lasciava consumare nel posacenere, con la sua mole spropositata, e i capelli, di una terrificante tinta tra l'arancione e il rossiccio, annodati in un ciuffo che faceva pensare, quando lo agitava, allo spruzzo di una balena, o al pennacchio di un ananas psicotico». Di solito Trevi è dolce, mite, privo di qualsiasi aggressività, ma di fronte alla Betti non riesce a trattenere il furore. La Betti è pazza, volgare, frenetica, chiassosa, sgradevole, isterica, esibizionista. Si nutre di paranoia, come se la paranoia fosse per lei un cibo che fa ingrassare molto rapidamente, riempie le carni, e poi fuoriesce dagli occhi dilatati e dalla bocca che rovescia parolacce e ingiurie.
Trevi nutre molto rispetto per la follia: Rousseau fu pazzo in tutto il corso della sua vita e, grazie alla sua follia, inventò la letteratura moderna: Hölderlin, Nerval, Nietzsche, Artaud, Robert Walser furono pazzi per molti anni, sebbene la follia di Nerval lasciasse trasparire una dolcezza morbida e sognante, che continua ad affascinare Trevi. Laura Betti era soltanto un'attrice forsennata e paranoica, che recitava le parti della follia: la follia che non si può mai imitare. Col passare degli anni, mentre il corpo ispessiva, diventò il monumento grandiosamente grottesco di se stessa. Tutto, attorno a lei, respirava furia, disperazione, delitto sognato: Trevi continuava a osservarla: registrava i suoi gesti e le sue parole, che lo conducevano in un luogo sconosciuto, dove la paranoia rivelava un aspetto profondo e inquietante dell'essere umano.
Trevi ha tutti i doni e le qualità del letterato: qualche volta ne ha anche i vizi; ma ne ha soprattutto il pregio supremo, quello di possedere qualsiasi punto di vista, spostando lo sguardo, modulando la voce, occupando ogni spazio reale o immaginario dell'universo. Eppure, credo proprio per questo, non ama la letteratura, e le imputa quello che è il suo vanto: la compiutezza. Non vuole la forma perfetta: preferisce la forma ferita, offesa, squilibrata, piena di fori, che lascia intravedere, attraverso ciascuno di questi fori, una parte sconosciuta del mondo. Pensa che una vera opera d'arte supponga una catastrofe: una catastrofe accaduta sia nello spirito dello scrittore sia nel centro del libro, che genera attorno a sé ondate di inquietudini e di follia.
Così si guarda intorno e vede un esempio di questa letteratura in Petrolio di Pasolini: libro che io non conosco. Petrolio lo affascina e lo soggioga completamente, forse non per ciò che è, ma soprattutto per le possibilità che, secondo lui, offre alla letteratura. Noi immaginiamo che i libri, soprattutto i grandi libri, quando sono conchiusi, abbandonino ogni rapporto con la mano che li ha scritti e il corpo che li ha generati. Ma Trevi non vuole contemplare il mondo il settimo giorno, quando Dio si riposa dalla sua fatica. Sopporta la letteratura solo se gli offre questa stessa creazione in movimento: il corpo umano, in parte ancora feto, che cresce, tenta, sbaglia, indietreggia, scruta, conosce, fino a giungere a un momento di eterna contraddizione o di eterno disordine o di eterna violenza.
Ai tempi di Petrolio, Pasolini aveva quasi completamente perduto la squisita gioia erotica, che aveva dato tenerezza e morbidezza alle sue opere giovanili, come le poesie friulane, e soprattutto quel capolavoro ancora inesplorato che è L'usignolo della chiesa cattolica. Ora voleva andare molto oltre il suo eros giovanile: voleva essere posseduto, dominato, violentato. Voleva cambiare sesso: abitare senza resistenze la condizione dell'androginia; conoscere la vita nel momento della lacerazione e della morte. Solo così poteva contemplare il sacro: quel sacro che, secondo Trevi, possiamo possedere soltanto nella catastrofe, o dopo aver attraversato la catastrofe, o portandola gelosamente nella memoria.
Nel libro di Trevi, c'è una coscienza e una rivelazione del sacro, molto più intense che negli scorci e nei lampi che attraversano Petrolio. Trevi lascia l'Italia: la Roma di Laura Betti e del litorale romano, dove Pasolini conobbe la morte che aveva tanto inseguito. Ora, la sua patria è la Grecia. La sua dea è Demetra, e la figlia di Demetra, Persefone, che Plutone, il dio del sottosuolo, rapì in Sicilia mentre giocava con le amiche, e trascinò con sé nelle tenebre dell'Ade, di cui la costrinse a diventare regina.
Demetra e Persefone erano il cuore dei Misteri eleusini, ai quali Trevi dedica le ultime, bellissime pagine del suo libro. Nei Misteri — scriveva Plutarco — «dapprima si erra faticosamente, smarriti, correndo timorosi attraverso le tenebre senza raggiungere alcuna meta; poi si è invasi da ogni tipo di terrore, spavento, tremore, sudore e angoscia. Alla fine, una meravigliosa luce viene incontro e si vedono danze, si odono solenni canti ieratici e si hanno sante apparizioni». La visione conclusiva era, probabilmente, l'esposizione di una spiga, levata in alto e mostrata agli iniziati di Eleusi. Questa esposizione indicava insieme la morte e la resurrezione: «Dai morti viene il nutrimento e la crescita e il seme»; «Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore». In quel momento si instaurava il nuovo inizio: la vita beata; e la luce, una «grande luce», una «mirabile luce», come dicevano i poeti, illuminava la notte.
La visione di Eleusi ha attraversato, sotterranea, migliaia di anni, fondendosi nascostamente con la visione cristiana. Nel secolo scorso la grande letteratura è stata quasi sempre eleusina: Yeats, Proust, la Woolf, Musil hanno conosciuto l'esperienza suprema della morte e della resurrezione, la spiga nascosta e rivelata, il nuovo inizio, e la luce folgorante nella notte, che vince qualsiasi luce del giorno. Così pensa anche Emanuele Trevi.

Corriere della Sera 1.3.12
Un Canova autentico del 2012
Ricostruite le braccia della «Danzatrice con i cembali»
di Paolo Conti


Un risultato perfetto, dove il massimo errore di misura è nell'ordine di 0,05-0,1 millimetri, quindi invisibile a occhio nudo e impercettibile persino al tatto. Un restauro peraltro reversibile perché, volendo, i due «nuovi» arti possono essere eliminati in qualsiasi momento e senza problemi.
Il modello originale in gesso della Danzatrice con i cembali (1809) di Antonio Canova, conservata nell'Ala Scarpa della Gipsoteca di Possagno (Treviso), torna all'antico splendore con le magnifiche braccia al loro posto quasi cent'anni dopo la granata austroungarica che, durante i cannoneggiamenti del novembre 1917 a ridosso del Monte Grappa, colpì la collezione canoviana e danneggiò molte opere. Tra cui proprio lei, la Danzatrice, che perse entrambi gli arti nonché il bacino e la ciotola, cioè i cembali: tutto in mille pezzi, polverizzato. E sarà sempre lei, la Danzatrice ripristinata, protagonista della mostra «Canova e la danza» che si aprirà dopodomani, sabato 3 marzo, a Possagno.
Impossibile, dal punto di vista tecnico, parlare di un falso. Semplicemente perché le braccia recuperate sono il frutto di una scansione in 3D realizzata sulla scultura in marmo, copiata per l'ambasciatore russo a Vienna Andrej Razumovskij, ora patrimonio inamovibile del Bode Museum di Berlino. Come si legge nella relazione tecnica firmata da Ivano Ambrosini, responsabile della ditta Unocad che ha realizzato i rilievi, «in questo impegnativo progetto due tecniche collaudate come l'ingegneria inversa e la prototipazione rapida testimoniano il crescente connubio tra tecnologia e arte, sia nelle metodologie utilizzate che per i risultati ottenuti».
Per i particolari tecnici, nel singolo scan shot due camere in alta risoluzione colore catturano più di 1,4 milioni di coordinate 3D ciascuna. Ancora altri dati: 310 scan shots (cioè scatti su prospettive diversamente angolate tra loro), 8 milioni di punti alla massima risoluzione, diciotto ore di scansione, altre diciotto di elaborazione per l'ottimizzazione del modello poligonale 3D.
La Gipsoteca canoviana è la collezione dei gessi originali del grande maestro, che li realizzava come «originali» per poi passare alla produzione delle copie in marmo, come testimoniano i buchi lasciati dalle «repere», i chiodini-punti di riferimento per permettere ai lavoranti della bottega di riportare col pantografo le misure esatte sul marmo: in questo caso l'opera commissionata dall'ambasciatore Andrej Razumovskij. Sostiene Mario Guderzo, direttore del museo: «Questo risultato si propone come un interessantissimo paradigma non solo per la conservazione, ma anche per il ripristino delle opere d'arte danneggiate. Qui, vorrei sottolinearlo, non stiamo ragionando su un "falso", poiché è tutto perfettamente autentico grazie alla strumentazione elettronica più sofisticata ed efficace esistente sul mercato internazionale. In più le braccia realizzate grazie alle indicazioni della scansione sono perfettamente eliminabili. Quindi l'originale canoviano non solo non soffre di un'aggiunta posticcia, ma ritrova la sua integrità con un intervento non invasivo. E si aprono orizzonti concreti di intervento anche per le altre dieci opere danneggiate nel 1917».
Guderzo ricostruisce due anni di lavoro tra analisi della fattibilità, primi studi operativi, scansione vera e propria («grazie alla cortese disponibilità del Bode Museum di Berlino»). Quanto è costato tutto questo? «Circa 30 mila euro, ma abbiamo potuto contare sul supporto di uno sponsor, la ditta Fassa Bortolo, specializzata in intonaci e in lavorazioni del gesso, che non è intervenuta nel merito, ma ha aderito per interesse legato al proprio lavoro». Il risultato finale, agli occhi di Guderzo, «è anche la cancellazione di una traccia legata all'idea di guerra, di distruzione. In più il pubblico può constatare come oggi esistano mezzi e strumenti non solo per conservare i beni culturali, ma anche per riportarli alla loro antica bellezza, seguendo con la dovuta attenzione tutte le regole per un buon restauro».
Come spiega il restauratore dell'opera Giordano Passarella, «per fissare le parti ricostruite alla scultura sono stati inseriti dei perni in alluminio e acciaio (maschio-femmina) fissati con resina epossidica», quindi «niente materiali collanti, e immediata reversibilità». Durante l'operazione di ripristino sono state rimosse le tracce di altri interventi di restauro, tentati negli anni Venti dal restauratore Stefano Serafin.
Nelle Memorie (1890) del pittore Francesco Hayez si trovano parole di grande ammirazione per la «modernità» di Canova, per la sua capacità di realizzare una vera e propria «fabbrica di multipli» in marmo di incommensurabile qualità, alla guida di una squadra di operai specializzati. E addirittura oggi, nel 2012, da quel modernissimo Canova arriva una lezione per la contemporaneità.

Sette del Corriere della Sera 1.3.12
Feltrinelli, le ombre sotto il traliccio
di Ferruccio Pinotti, Antonio Ferrari

qui

Repubblica 1.3.12
Egonomia
Così l’individuo senza società ha cancellato la politica
di Franco Cassano


Ci sono sempre meno luoghi di formazione delle domande collettive e sempre più interessi privati
Perché le democrazie stanno perdendo forza? E come possono ritrovarla? Ecco le riflessioni del sociologo che affronta il tema della necessità di superare l´idea che conti solo l´affermazione del singolo

Tutto è iniziato quando le conquiste degli anni Sessanta (diritti del lavoro, consumi di massa ed espansione dello stato sociale) hanno incrinato il compromesso tra capitalismo e democrazia nato in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale. Lo stato nazionale, divenuto democratico, si rivela pericolosamente esposto alle pressioni provenienti dal basso: la massima "un uomo - un voto" ha una grammatica ugualitaria difficilmente compatibile con gli imperativi della redditività e del profitto. La controffensiva capitalistica che parte negli anni Settanta segue quindi una strategia nuova: essa non cerca lo scontro frontale, ma svuota la politica, ne ridimensiona drasticamente la sfera.
I flussi del capitale finanziario si sottraggono sempre più al controllo degli stati nazionali e, liberi da ogni vincolo, moltiplicano a dismisura la propria forza. La politica invece rimane ancorata alla vecchia casa dello stato nazionale, costretta a fronteggiare, con budget sempre più ridotti e contestati, le pressioni che vengono dai cittadini. Nel nuovo quadro dell´economia globalizzata il suo compito principale non è più quello di dirigere, ma di garantire un certo grado di coesione sociale; essa non può più coltivare disegni ambiziosi, ma solo rattoppare e tamponare. E´ allora che la politica e i suoi interpreti iniziano a perdere autorità e qualità: le loro "disinvolture" etiche, che le ideologie avevano permesso di riscattare e trasfigurare, non possono più nascondersi sotto la gonna di una grande giustificazione. E questa politica degradata e improduttiva appare al senso comune sempre più solo come lo strumento attraverso cui una "casta" custodisce la propria auto-riproduzione. E´ una sorta di delitto perfetto: la decadenza della politica, che nasce soprattutto dal fatto che il grande capitale l´ha abbandonata al suo destino, viene tranquillamente imputata all´insaziabile appetito dei suoi protagonisti, mentre il potere vero gode della massima libertà di movimento e di tutte le franchigie.
Ma sarebbe profondamente sbagliato limitarsi ad osservare solo ciò che avviene nei piani alti della società, il conflitto tra le élites. Se la controffensiva liberista fosse rimasta nelle stanze del nuovo potere non sarebbe riuscita ad affermarsi, come poi è successo, e si sarebbe trovata di fronte ad una massa immensa di nemici. Invece essa ha sbaragliato l´avversario perché si è rivelata capace di produrre una forte e capillare egemonia. La grande narrazione che essa propone sa parlare anche al popolo, perché ha messo al centro dell´immaginario il tema dell´affermazione individuale, del successo: per realizzare i nostri sogni non abbiamo bisogno degli altri, ma solo di una grande fiducia in noi stessi. Il legame con gli altri può solo bloccarci, mentre, se saremo compiutamente individui, un intero mondo è a disposizione. Non è un caso che proprio negli anni Settanta questo mito conquisti il centro della scena: Rocky Balboa e Tony Manero sono i protagonisti di due film famosi, due favole popolari sul tema del successo e della redenzione individuale. Stallone e Travolta (testimonial perfetti in quanto figli di immigrati) diventano delle star perché i loro film parlano di eroi che provengono dai piani bassi della società. E anche se è vero che solo "uno su mille ce la fa", sono in mille a sognare di farcela specialmente quando le altre vie non sembrano praticabili.
E´ questa irruzione dell´individuo a completare dal basso quel ridimensionamento della politica a cui il grande capitale aveva dato inizio dall´alto. "La società non esiste, esistono solo gli individui", diceva la Thatcher, e l´unica mediazione possibile tra individui soli di fronte al proprio destino, è quella del mercato. Il primato del mercato tiene insieme i capitali senza confini e i sogni degli individui. E una società siffatta, che non vede più contraddizioni sociali, ma solo successi o sconfitte individuali, non sembra aver più bisogno della politica. Dal Quarto Stato di Pellizza da Volpedo siamo passati alle solitudini di Hopper. I progetti e il cuore degli uomini sono trasmigrati fuori della politica. A quest´ultima spetta solo il compito di garantire la libertà di movimento degli individui e delle merci, e un grado minimo di ordine pubblico. La società civile non è più il luogo di formazione delle domande collettive, ma la trama degli interessi privati, non è l´agorà, ma il mercato.
Ma dopo tre decenni di egemonia incontrastata questa cura fondata sulla libertà dei capitali e dell´individuo inizia a mostrare la corda. La nostra società è attraversata da lacerazioni e disuguaglianze crescenti prodotte in gran parte dai giochi spericolati del capitale finanziario. Ma l´egemonia liberista inizia a logorarsi anche ai piani bassi, perché la carta dell´individualismo non riesce più a reggere il peso che le è stato scaricato addosso, a risalire il piano inclinato delle disuguaglianze crescenti. Certo, essa riesce ancora a tenere gli uomini lontani gli uni dagli altri, a impedire che riconoscano ciò che hanno in comune, ma remunera sempre di meno. Né sarà l´ideologia debole e ambigua della meritocrazia a riassestare l´edificio. Certo, essa può lubrificare i canali della mobilità sociale, ma si tratta di ben poca cosa se tanto commosso rigore serve solo a cooptare i migliori nelle aree più forti, mentre lascia cadere via con l´altra mano tutto il resto, le Grecie del mondo. Ma sono proprio le Grecie a smascherare il gioco, che si gioca solo fino a quando giova ai più forti. Se si avrà la forza di non lasciarle sole, potrebbero diventare l´inizio di un´altra storia.
Dal canto suo l´individuo, costretto a vivere in una costante precarietà ed incertezza, ha iniziato a sospettare di non essere più quello che ce la fa, ma uno dei novecentonovantanove. Anche per questo ogni tanto una politica diffusa sembra riaffacciarsi nella società: per macchie, per ondate che, pur disperdendosi, mostrano che le crepe dell´edificio in cui abitiamo si stanno allargando, anche se l´orchestra ha l´ordine di continuare a suonare. Eppure queste tensioni rifluiscono troppo spesso su se stesse, non riescono a decollare ed espandersi, a costruire una cornice teorica e pratica stabile per la politica, un nuovo paradigma di riferimento. E qui si torna a quanto si è detto all´inizio: fino a quando la politica si confronterà con le tensioni sociali rimanendo priva di ogni peso sulle grandi decisioni, non riuscirà a produrre soluzioni e finirà per avvitarsi nella spirale dello screditamento.
Se vuole ripartire la politica democratica deve far capire a tutti qual è il punto decisivo: essa deve tornare ad avere potere, costruire meccanismi di controllo sui movimenti del capitale finanziario, porre fine alla latitanza di quest´ultimo rispetto alle sofferenze di quel pianeta in cui si aggira come un uccello predatore. Essa deve mutare il proprio rapporto di forza con l´economia, ri-costruire un rapporto equilibrato tra capitalismo e democrazia, tra consumatori e cittadini, tra libertà ed uguaglianza, tra il presente e il futuro. Si tratta di un passo tutt´altro che semplice: un paradigma in declino, si sa, continua ad avere influenza e ad essere popolare mentre quello in gestazione è visibile solo a pochi, che è facile scambiare per visionari. Ma la direzione di marcia è tracciata perché l´irresponsabilità del capitale finanziario è diventata indecente e la timidezza con cui essa viene affrontata dai governi del mondo è sempre meno accettabile. Ciò che appare innegabile è che confidare nella politica senza porre il problema del suo ricongiungimento con il potere è tempo gettato via. Chi esita e ha paura ricorda quella poesia di Brecht in cui gli abitanti di una casa in fiamme, invece di uscire si attardano a chiedere a Buddha che tempo fa fuori, se piove o tira vento. A costoro, risponde Buddha, non abbiamo niente da dire.