sabato 3 marzo 2012

l’Unità 3.3.12
Dalla parte dell’Unità. Firme e diffusione per difendere un diritto
Continua la mobilitazione contro il divieto della Fiat Intervista a Landini
Firma anche tu per dire: ridateci l’Unità
Intervista a Maurizio Landini
«Cacciano l’Unità e la Fiom perché vogliono espellere il dissenso»
«Il governo batta un colpo: convochi Marchionne per far tornare subito negli stabilimenti sindacato e giornale. In gioco l’idea di democrazia»
di Massimo Franchi


L’ esclusione della Fiom e quindi de l’Unità dalle fabbriche conferma come la Fiat stia instaurando un regime autoritario in cui chiunque dissente è espulso. In gioco c’è l’idea stessa di democrazia e per questo continuo a chiedere l’intervento del governo: batta un colpo e convochi Marchionne per far tornare noi e il vostro giornale negli stabilimenti». Maurizio Landi-
ni sta girando l’Italia in vista dello sciopero e della manifestazione di venerdì prossimo a San Giovanni a Roma. Spiega le ragioni del suo sindacato senza dimenticare il nostro giornale, accomunato nell’ostracismo di Marchionne: «Sono i nostri delegati che lo hanno sempre affisso nelle bacheche».
Landini, martedì davanti alla Magneti Marelli di Bologna la Cgil manifesterà a sostegno de l’Unità.
«È un’iniziativa importante che abbiamo sollecitato. Però bisogna comprendere come la vicenda delle bacheche è dentro alla decisione della Fiat di escludere dalle fabbriche il più grande sindacato, la Fiom Cgil. L’attacco al sindacato e quello alla libertà di stampa sono due facce della stessa logica, quella di costruire un contratto che espelle i lavoratori che non abbassano la testa. Quando ai tre lavoratori di Melfi Fiat dice di rimanere a casa “tanto vi paghiamo lo stesso”, nonostante una sentenza che arriva dopo altre tre che hanno riconosciuto l’azienda colpevole di comportamento anti-sindacale, quando i capi reparto in tutte le fabbriche del gruppo si trasformano in delegati sindacali tenendo assemblee per spiegare il contratto, quando i lavoratori per andare al bagno devono chiedere le chiavi specificando per quanti minuti si assenteranno, siamo davanti a una discriminazione così grande che chiama in causa non la Fiom, la Cgil o l’Unità, ma tutto il mondo del lavoro. E non solo».
Per questo voi venerdì scioperate con lo slogan «Democrazia al lavoro». Da sindacalista che aria annusa in giro? Molti gioirebbero per un vostro flop...
«In queste settimane stiamo incontrando innanzitutto i lavoratori metalmeccanici che stanno vivendo sulla loro pelle un attacco senza precedenti ai loro diritti. In più intorno alla Fiom vedo crescere un consenso sociale che tocca il mondo della cultura (a cui ho rivolto un appello ricevendo adesioni importanti) e dell’università. La nostra battaglia Fiom si lega con una richiesta di partecipazione dal basso, per un nuovo modello di sviluppo e di democrazia partecipata. Sul palco infatti daremo spazio ai precari, agli studenti, al movimento per l’acqua pubblica. Dai segnali che ho, comunque, sono sicuro che la manifestazione sarà un successo».
Il paragone, scontato, è quello con la manifestazione del 16 ottobre 2010. Il clima però è cambiato...
«È cambiato il quadro politico. Non c’è più Berlusconi ed è evidente un indebolimento dei partiti che non considero positivo. Sul piano sociale invece la crisi è peggiorata e, soprattutto, quello che denunciavamo un anno e mezzo fa, il fatto che il contratto di Pomigliano non fosse un caso isolato ma l’inizio di un progressivo attacco ai diritti di tutti i lavoratori, si è sostanzialmente avverato: per questo abbiamo scelto la frase “Democrazia al lavoro”».
Nel Pd intanto la partecipazione alla vostra manifestazione è diventata una questione delicata. Quanti esponenti crede che alla fine verranno in piazza con voi?
«Spero e credo molti, naturalmente. Però posso dare una notizia: uno di loro parlerà dal palco. Si tratta del presidente della Comunità montana della Val di Susa Sandro Plano, che è del Pd e appoggia il movimento “No Tav”. Noi però abbiamo chiesto a tutti i parlamentari italiani ed europei di partecipare perché chi verrà in piazza non starà con la Fiom, ma appoggerà la libertà dei lavoratori di potersi scegliere il loro sindacato, la democrazia perché la Fiat sta attaccando direttamente la Costituzione e ogni parlamentare la dovrebbe difendere». Insisto, tanti esponenti Pd hanno annunciato la loro presenza...
«Io credo che un partito che vuole essere alternativa al berlusconismo deve avere a cuore questi temi. Negli ultimi anni il Pd come tutta la sinistra ha ceduto troppo al mercato e, se devo denunciare una questione, credo che la principale sia che non c’è adeguata rappresentanza politica per il mondo del lavoro».
Venerdì non ci sarà Susanna Camusso che sarà a New York per un impegno preso da mesi e concomitante con lo slittamento della vostra manifestazione. Ma con la Cgil in questo momento c’è grande sintonia. «Abbiamo avuto appoggio pieno per questa mobilitazione e sicuramente dal palco parlerà un esponente importante della segreteria. Anche per quanto riguarda la trattativa sul mercato del lavoro la posizione della Cgil è giusta: l’articolo 18 non si tocca, gli ammortizzatori si possono allargare facendo contribuire tutte le aziende e tutti i lavoratori. E per i disoccupati e i giovani noi proponiamo un assegno di cittadinanza finanziato con la patrimoniale».
Landini, in conclusione proviamo a essere ottimisti. Fra quanto rivredremo la Fiom e l’Unità nelle fabbriche della Fiat?
«Noi andiamo avanti e ci riusciremo. Andiamo avanti a chiedere a Fim, Uilm e Federmeccanica un’incontro sulla rappresentanza, a fare cause contro i soprusi della Fiat, a chiedere al governo di interventire».
Quale via, quella sindacale, politica o giudiziaria, vede più efficace? «Cause a parte, che comunque porteremo avanti finché la Fiat non le rispetterà, fare il sindacalista è il mio mestiere e continuerò a farlo. Detto questo, una legge sulla rappresentanza serve e il governo la potrebbe emanare domattina, così come deve convocare Marchionne e chiedergli di rispettare le sentenze e imporgli di non andarsene dall’Italia».

l’Unità 3.3.12
Articolo 21 celebra i primi dieci anni
«Ribellarsi subito o sarà troppo tardi»
Il caso de l’Unità cacciata dalla Marelli approda all’assemblea dei 10 anni dell’associazione Articolo 21. Il portavoce Giulietti: «Una prepotenza aberrante che non riguarda solo l’Unità: se non ci si ribella subito poi sarà tardi».
di Stefano Miliani


«È aberrante. L’Unità cacciata dalle bacheche è frutto di un’idea oligarchica della società. Dire “Non mi piace perciò la cancello”, dire “non mi piace Avvenire perché parla di morti in Africa e lo cancello”, è aberrante». Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21, dal tavolo dell’assemblea per i dieci anni dell’associazione, ritiene drammaticamente emblematica per l’Italia la cacciata della nostra testata dalle bacheche del sindacato alla Magneti Marelli di Bologna e Bari.
«È una cosa invereconda – puntualizza in una videointervista sul nostro sito – non mi piace quando si stacca un qualunque giornale dalla bacheca di una fabbrica, non mi piace quando un presidente Fiat dice fuori a tre operai reintegrati da una sentenza. È inaccettabile e bisogna presentarsi con l’Unità nei luoghi di lavoro. Questa prepotenza non riguarda solo l’Unità, se non ti ribelli subito poi sarà troppo tardi». Come ricordava una poesia di Brecht per situazioni certo più tragiche: un giorno tocca a un altro ma se non ti muovi in tempo poi toccherà a te.
Articolo 21 nacque nel marzo 2002, un mese dopo Berlusconi «emanò» il famoso diktat bulgaro che di lì a poco avrebbe estromesso dalla Rai Biagi, Luttazzi e Santoro. Un decennio dopo l’associazione che combatte affinché l’articolo della Costituzione sulla libertà di stampa sia rispettato e non calpestato si ritrova in una chiesa sconsacrata dalle vetrate gialle e azzurre nel centro di Roma.
I giornalisti e le giornaliste non celebrano una festa perché lo scenario è tutt’altro che idilliaco, pur se al momento privo degli estremismi del reuccio di Arcore. Infatti l’esclusione de l’Unità da fabbriche del gruppo Fiat è considerata emblematica. Il nostro direttore Claudio Sardo prende pubblicamente la parola: «Non si tratta solo della libertà di stampa di un giornale, in discussione c’è lo spazio di libertà dei lavoratori, c’è il principio dell’articolo 21 della Costituzione. Ci sono forze che tendono a costruire una democrazia senza partiti, a ridurre il pluralismo sociale in una società dove i cittadini sono soli davanti allo Stato e al mercato. Così impoveriamo l’idea della nostra democrazia».
IL CONFLITTO D’INTERESSI
Il motto del convegno è «quello di Scalfaro, né sotto dittatura, né sotto dettatura», segnala Corradino di Articolo 21. Con queste parole in mente Giulietti, parlamentare del gruppo Misto, butta sul tavolo delle proposte a Palazzo Chigi: «Il berlusconismo continua a vivere, a condizionare linguaggi e pratiche politiche». Dunque, in primo luogo, la tv e la Rai. «A Monti diciamo: il conflitto d’interessi va risolto a prescindere da Berlusconi. Da qui serve il divieto assoluto per chiunque di essere amministratore pubblico e contemporaneamente titolare di concessioni pubbliche».
Al presidente del Consiglio Giulietti pone una scadenza “televisiva”, anzi due: «Il premier indica entro maggio l’asta per le frequenze digitali. E a fine marzo scade il cda della Rai. Il governo proponga una nuova fonte di nomina che recida ogni cordone ombelicale con i governi, i partiti e anche con le logge e la banda del conflitto di interessi». Ma in dieci anni il mondo è andato molto al di là del teleschermo, internet è andato molto oltre. Infatti Vincenzo Vita, senatore Pd, annuncia un osservatorio per tutelare a libertà in rete: «Sì, lanciamo Articolo 21 bis perché l’informazione è ormai multimediale».

Corriere della Sera 3.3.12
«Aska» e anarchici, chi sono i duri
Identikit degli estremisti. Su 60 mila valligiani, solo 500 agli scontri
di Marco Imarisio


L'ala dura e gli altri. Dai centri sociali ai comitati di valle. La prima manifestazione contro l'Alta velocità porta la data del 2 marzo 1995. Da allora è cambiato molto. Volti, proposte e anche i modi di agire. La galassia dei movimenti No Tav.

BUSSOLENO (Torino) — La bandiera bianca dei No Tav doveva essere rossa. Nel 1999 i valligiani avevano scelto un colore, e un simbolo, con un forte segno politico. Furono i militanti di Askatasuna, proprio quelli che oggi mantengono un tratto ideologico più marcato all'interno del movimento, a convincere gli altri della necessità di una scelta più neutra.
Niente è come sembra, in questa storia dove ormai le distinzioni si fanno sempre più sottili. Lunedì scorso trenta persone si sono sedute sull'autostrada per impedire lo sgombero dell'autostrada. Accanto ad Alberto Perino, figura di riferimento della Val di Susa più intransigente, c'era Massimo Passamani, capo degli anarchici di Rovereto, diventato famoso nel 2006 per aver sottratto la fiamma olimpica al tedoforo che la portava per le strade di Trento, e non solo per quello. Nel dicembre 2009 alcuni membri del suo gruppo furono arrestati in Grecia dopo gli scontri avvenuti in seguito all'uccisione di uno studente da parte della polizia.
Questa commistione, magari involontaria, rende ancora più delicato l'equilibrio di un movimento che ha cambiato pelle, diventando un magma incontrollato. La divisione per categorie della sua parte più bellicosa va presa con beneficio di inventario, perché troppe sono ormai le incognite e i collegamenti interni di una protesta che rivendica l'unità di intenti in ogni sua scelta.
I valligiani
La prima manifestazione contro l'Alta velocità porta la data del 2 marzo 1995. Da allora è cambiato molto. Volti, proposte, e purtroppo anche le pratiche. Il nucleo originario è incarnato da Alberto Perino, bancario in pensione, incautamente definito come lo Josè Bove della Val di Susa, protagonista di una involuzione radicale che in qualche modo simboleggia la parabola di una parte di questo gruppo di militanti ben consapevole di essere minoranza a casa sua.
Gli abitanti che partecipano alle manifestazioni pacifiche sono circa 8.000 su un totale di 60.000 residenti in Alta e Bassa valle. Il numero si abbassa drasticamente quando si parla di scontri con le forze dell'ordine: 400-500 persone. Sempre determinati, decisi. La loro conoscenza del territorio li porta ad agire da sherpa per gli ospiti giunti da fuori. Nel 2005 furono decisivi per le sorti della cosiddetta battaglia di Venaus, quando riconquistarono il cantiere aperto nella notte dalle forze dell'ordine.
Forse fu quello l'ultimo episodio di lotta condotto quasi interamente in proprio. Ma non si pensi a un gruppo di maturi signori. Il sentimento valligiano di ribellione all'opera ha prodotto una generazione che ha elaborato una nuova forma di antagonismo radicale. Più aperta alla contaminazione con altre realtà, aggregata intorno a gruppi come il centro sociale Takùma di Avigliana, l'associazione Spinta dal bass, il presidio permanente Pikapera di Vaie. Capita spesso che i giovani della valle si rivelino come l'ala più radicale del movimento.
Gli autonomi
Da questo titolo manca il suffisso «ex» a ragion veduta. Askatasuna è una scheggia degli anni Settanta arrivata intatta fino ai giorni nostri. Il centro sociale torinese si ispira alla vecchia autonomia. Non alla versione intellettuale di Toni Negri, ma a quella romana di via dei Volsci, più portata all'azione diretta, alla contrapposizione violenta con lo Stato. «Per troppo tempo — raccontava qualche mese fa uno dei suoi capi — la sinistra è stata identificata con l'operatore sociale o il volontariato delle organizzazioni non governative. Noi siamo la sinistra dura, quella che un tempo spaccava il c... ai fascisti».
La storia di Askatasuna è ormai inscindibile da quella del movimento No Tav. Il primo comitato di lotta popolare a Bussoleno venne fondato da Giorgio Rossetto, pioniere del centro sociale nato nel 1996 con l'occupazione di un palazzo del Comune di Torino, arrestato per gli scontri del 3 luglio, che ha finito per prendere la residenza proprio in Val di Susa. Il legame è forte, figure come Francesco Richetto, nato a Bussoleno e militante del centro sociale, funzionano da cerniera.
«Aska» e i suoi militanti, 6-700 contando anche i collettivi studenteschi, è stata la porta del movimento No Tav. L'ha fatto uscire dall'ambito locale, inserendolo nel proprio network fatto di centri sociali di ispirazione simile — romani, bolognesi, trentini, genovesi — ben distanti dalla vocazione politica degli ormai ex Disobbedienti di Luca Casarini. Fa entrare i militanti della sua area ogni qual volta ce ne sia bisogno, gli scontri del 3 luglio furono preceduti da una lunga serie di inviti alla mobilitazione pubblicati sui propri siti di riferimento. In questi giorni si propongono come mediatori con i militanti più duri, consapevoli dell'impossibilità di reggere questa situazione di scontro permanente. A ben pensarci, un paradosso.
Gli anarchici
Da sempre l'area più misteriosa e insondabile, non solo in Val di Susa. Anni fa venivano allontanati come fossero monatti, oggi sono graditi ospiti, parenti strani che spesso danno in escandescenze. La componente più dura e incontrollabile, che spesso pesca nel bacino del disagio sociale. Il legame con questa protesta risale al 1998, al suicidio in carcere di Edoardo Massari e Maria Soledad Rosas, arrestati insieme all'anarchico valligiano Silvio Pelissero per la loro presunta partecipazione a una serie di attentati contro l'Alta velocità. Una vicenda terribile e ancora oggi oscura.
I torinesi gravitano intorno ai centri sociali El Paso e Barocchio, hanno organi propri di informazione come radio Black out, e mantengono collegamenti con i black bloc europei. Dall'Italia arrivano soprattutto da Milano e Roma, gli stranieri più presenti sono i francesi, tendenza anarco-ambientalista, ben connessi in valle con una rete di relazioni personali. Luca Abbà, il militante rimasto folgorato sul traliccio accanto alla baita Clarea, è sempre stato considerato anche dai suoi compagni come una sorta di ufficiale di collegamento con questo mondo.
Nel luglio scorso occupavano il settore più isolato del campeggio No Tav, ben distanti dagli altri. Non si fermano mai, non partecipano alle assemblee. Vanno e vengono solo quando c'è da menare le mani, arte che in questi mesi hanno esercitato spesso su giornalisti e operatori, oltre che sui poliziotti. Durante gli scontri sull'autostrada sono stati fermati anche due squatter di nazionalità turca, a conferma del grande richiamo che ormai esercita la Val di Susa. Le informative della polizia li inseriscono nella galassia riferibile alla Federazione anarchica informale. Ma spesso le galassie contengono al loro interno alcune nebulose.

l’Unità 3.3.12
Il Pd, né montiani né socialdemocratici
di Antonello Giacomelli


Il Pd sostiene lealmente il governo Monti, che ha fortemente voluto. In questo momento e con questi numeri parlamentari non c’era soluzione migliore per salvare il Paese dal disastro economico. Berlusconi guidava una destra incompetente e sguaiata, pretendeva di piegare le regole al proprio interesse e ha portato l’Italia quasi al disastro.
Monti è competente, serio, stimato a livello internazionale ed applica le regole. I risultati, per il Paese, si vedono e dunque il Pd fa bene, in questa fase, a sostenerlo. Anche se, questo è il punto vero, le politiche di questo governo non sono identificabili con il progetto riformista che noi sosteniamo. Intendiamoci, non mancano certo decisioni condivisibili nella politica di Monti: dal convinto europeismo
alla lotta all’evasione fiscale, molti sono i punti apprezzabili. È semmai l'impianto di fondo, la cultura che Monti esprime a rendere, almeno per me, impossibile collocarmi nella schiera di quanti si identificano senza riserve in lui e nella sua azione.
Lo dico non da aspirante laburista ma da cattolico democratico, fortemente convinto, senza clericalismi, che la dottrina sociale della Chiesa debba essere oggi, per un centrosinistra non velleitario e non settario il riferimento più forte per affermare nel nostro Paese una nuova cultura della persona e della libertà. Monti rispetta ed applica le regole; le regole di un sistema liberista, tutto fondato sul valore salvifico del mercato e della competizione, in cui si ritiene accettabile l’idea che c'è chi ce la fa e chi non ce la fa, in cui la ricchezza è la misura del valore delle persone, chi arranca merita solo la definizione sprezzante di «sfigati», e chi cerca qualche certezza di lavoro è percepito con fastidio come una persona «noiosa».
Monti applica le regole di un sistema che per funzionare chiede di rendere definitiva, a vantaggio di pochi, la precarietà di intere generazioni e la diminuzione di tutele e diritti. Un sistema che fa la voce grossa con tassisti e camionisti in nome della liberalizzazione, ma che non tocca l'inquietante intreccio fra editoria, credito, industria e finanza, come se il conflitto di interessi fosse limitato a Berlusconi e non riguardasse invece la concentrazione in poche mani, sempre le stesse, di enormi poteri. Del resto, meglio e più autorevolmente di me, è stato Stefano Zamagni, su Famiglia Cristiana, a dire, che questo governo non capisce cosa sia il Terzo settore, non capisce la rilevanza del modello italiano di welfare e sta distruggendo tutti i corpi intermedi fra lo Stato ed il mercato.
In una breve fase di emergenza nazionale, lo abbiamo sempre detto, tutto può essere sopportato; anche perchè il fallimento dell'Italia provocherebbe drammi che peserebbero soprattutto su chi è più debole e indifeso. Ma immaginare che questo impianto culturale sia quello con cui può identificarsi il Pd mi sembra inconcepibile. Al contrario, penso che il Pd sia nato esattamente per riformare quel sistema e quelle regole, per moltiplicare le opportunità, per rendere più moderno il sistema di protezione sociale, per assicurare alla persona, indipendendemente dal tipo di contratto, diritti e tutele fondamentali, per rendere tutti, in qualche misura, protagonisti della crescita, per una tutela vera della famiglia e della natalità, perché la qualità di scuola e formazione non siano privilegio di pochi, per avere istituzioni rappresentative, anche europee, in grado di governare con equità i processi finanziari e il mercato globale. In una parola, per mettere davvero la persona, nella sua interezza e nella sua libertà al centro dell'azione politica.
Certo, per raggiungere questo obiettivo ambizioso, occorre liberarsi di nostalgie ed illusioni ideologiche; non può essere la cultura socialista o socialdemocratica la cifra della nostra identità, non abbiamo voluto il Pd per appiccicare un’etichetta nuova a un contenuto vecchio e inadeguato. E, voglio dirlo con rispetto ma chiaramente, non aiutano certe scelte «personali»: è difficile capire come si possa stare nella segreteria nazionale del Pd, condividere lo sforzo del Pd per favorire un accordo del governo con le parti sociali e contemporaneamente aderire all’iniziativa della Fiom. A me la contraddizione pare evidente e, se non vi fosse contraddizione, sarebbe anche peggio. Monti, con il suo governo, sta facendo quanto deve per il Paese. Noi dobbiamo fare quanto è necessario per farci trovare preparati dopo questa fase, con un progetto che guarda al domani e che è capace di parlare ai cittadini di oggi. Polemizzare quotidianamente fra liberisti dell’ultima ora e nostalgici del socialismo serve solo a rendere muto il Pd.

La Stampa 3.3.12
Grande coalizione e malumore nel Pd. “Da stoppare prima”
Ma soprattutto preoccupa quale futuro dare a Monti
di Carlo Bertini


Berlusconi vuole apparire riverniciato come l’uomo della pacificazione. Ma sulla grande coalizione bisognava stopparlo subito e senza mezzi termini, altrimenti sarebbe scattato il dubbio che potesse esserci un qualche disegno in tal senso». A sentire la spiegazione che uno dei primi tre dirigenti del Pd fornisce sotto garanzia di anonimato, questa è la ragione per cui Bersani l’altro ieri ha subito gelato Berlusconi e le sue «velleità» di governare insieme al Pd anche dopo il 2013. E a sentire i giudizi dell’entourage del segretario Pd su Berlusconi, dipinto come «un pugile in difficoltà che cerca di aggrapparsi all’avversario per tirarlo giù», si capisce meglio la reazione tranchant a questo abbraccio. A impensierire il leader Democratico non è tanto il Cavaliere, quanto il futuro politico che molti nel suo partito vorrebbero dare a Monti. Tanto che dalle parti di Bersani tengono a chiarire che «nel 2013 si tornerà ad una situazione bipolare anche se più civile, ma non ci sarà alcuna possibilità di un Monti bis con tutti dentro. Se lui lo vorrà potrà decidere di stare col centrosinistra o col centrodestra; ma dopo l’emergenza si torna alla democrazia».
Lo stesso Casini ammette che non è il momento di strattonare Bersani che «ha fatto una scelta impopolare per una parte del suo elettorato. Chiedergli oggi di fare un patto per dopo sarebbe assurdo, vedremo quel che capita». Inutile aggiungere che alla vigilia di primarie a dir poco complicate a Palermo e in piena campagna per le amministrative, sarebbe stato a dir poco imprudente mostrare la più flebile apertura ad un’ipotesi di grande coalizione. E in questo passaggio, il segretario Pd è voluto intervenire in prima persona anche per dare il senso di una compattezza del suo partito sul no all’inciucio. Visto che proprio su questo il Pd è stato bersagliato più volte da Di Pietro fino a sfiorare la rottura, e che qualsiasi apertura all’avversario più temuto fino a ieri verrebbe pagata duramente nei sondaggi.
Ma le divisioni nello stato maggiore dei Democratici in questa fase non riguardano la convinzione comune di doversi presentare al Paese come un’alternativa credibile ad un centrodestra spappolato; quanto piuttosto il futuro di Monti e i compagni di strada con cui condividere l’avventura delle politiche. Se la Bindi ripete che quella di Monti «è una stagione a termine e dopo non ci saranno larghe intese» e Di Pietro rilancia «la foto di Vasto con Pd e Sel per le prossime elezioni», il vice di Bersani, Enrico Letta, in un’intervista ad «Avvenire» suona un’altra musica: quella di «un bipolarismo dolce che compete al centro». Puntando più ad un’alleanza con il Terzo Polo e con Casini. Il quale l’altro ieri ha ribadito che se il Pd è quello dell’alleanza di Vasto lui c’entra «come il cavolo a merenda». E quindi va da sé che Letta, ascrivibile al partito dei «montiani» come il leader dell’Udc, abbia gioco facile nel tirare dalla sua parte. Perché se «il Pdl e la Lega difficilmente si rimetteranno insieme, il Pd non credo possa stringere un patto con chi si oppone a questo governo». Con una conclusione, «dobbiamo fare un Pd forte a prescindere dalle alleanze, un Pd autonomo», che ricorda tanto lo slogan veltroniano sulla «vocazione maggioritaria».
Tutto ciò si intreccia con le manovre sulla legge elettorale che il Pd vive con apprensione: se la riforma non andasse in porto, la reazione dell’«antipolitica» cadrebbe sulle spalle dei Democratici più che sui partiti di centrodestra. «Noi siamo consapevoli - spiegava un altro dirigente Pd giorni fa - che è il nostro elettorato che vuole scegliersi i parlamentari; e che non vuole esser chiamato a votare di nuovo col porcellum».

Repubblica 3.3.12
Pd compatto sulla linea della fermezza, rottura con Vendola e Di Pietro. Scende il gelo con la Fiom
 E Bersani attacca Landini: pensi a quegli operai
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Se Landini pensasse anche agli operai che lavorano nei cantieri della Tav, renderebbe un buon servizio al sindacato». Senza sbandamenti Pier Luigi Bersani prepara una battaglia contro la foto di Vasto e persino contro un pezzo delle sigle dei lavoratori. Un battaglia tutt´altro che solitaria perché l´intero Partito democratico è sulla linea della fermezza quando si parla della Torino-Lione: niente tavoli, niente moratoria, nessuna sospensione. Soprattutto, basta violenza. «Abbiamo già fatto tutto quello che dovevamo quattro anni fa - ricorda Enrico Letta, allora sottosegretario a Palazzo Chigi - . Mi stupisce che Vendola e Di Pietro facciano oggi la stessa richiesta di ieri. Loro c´erano e sanno. Dimostrano scarsa serietà». Ma la posizione di Idv e Sel non fa che confermare la scelta del vicesegretario: mai più alle elezioni con Nichi e Tonino. «È una questione di credibilità».
Anche Bersani pensa che il comportamento di Di Pietro e Vendola sia strumentale, poco adatto a un´alleanza di governo. Non romperà sulla Tav, ma neanche dimenticherà i difficili passaggi di questi giorni. La difesa dell´opera e la condanna delle violenze non lascia crepe nel Pd. Non a caso Bersani, durante la trasmissione di Santoro, ha usato anche l´argomento del terrorismo: conosce i dossier del Viminale, sa che emergono collegamenti tra il movimento gli anarco-insurrezionalisti. Nel silenzio dei giornalisti presenti, giovedì sera in tv ha lanciato l´allarme. A Largo del Nazareno sono indignati anche per il sostegno al movimento No-Tav, o meglio alle sue frange estreme di una parte importante del sindacato. «Landini, il segretario della Fiom, sta sbagliando sull´Alta velocità», avverte Matteo Orfini, membro della segreteria. Orfini, Fassina e Damiano sono attesi sabato alla manifestazione dei metalmeccanici contro Marchionne e la riforma del mercato del lavoro. «Ma se i No-Tav entrano nel corteo, se un solo esponente del movimento viene invitato sul palco, me resto a casa», annuncia Orfini. Tra i democratici non si vedono strappi e non si temono contraccolpi sulla base, cioè sul consenso. «I militanti soffrono le indecisioni - spiega il veltroniano Giorgio Tonini - ma quando la tenuta non è in discussione capiscono. E hanno assimilato una cultura di governo». Letta è ancora più malizioso: «Il video del manifestante che insulta il carabiniere ha fatto un danno enorme alla protesta. Santoro dovrà faticare parecchio per ridare un´immagine positiva ai contestatori». La frattura semmai è nel centrosinistra vecchio stile. Un appello per la moratoria, per la sospensione dei lavori promosso da Don Ciotti viene firmato da Vendola, De Magistris, dal sindaco di Bari (Pd) Michele Emiliano, dall´Arci. «La Val Susa non può essere trattata come una scuola materna, con il paternalismo autoritario», spiega il governatore pugliese. E anche Di Pietro chiede di riaprire un tavolo tecnico fermando i lavori.

Repubblica 3.3.12
Il riformismo del Pd
di Miguel Gotor


DOPO il governo Monti nulla sarà come prima, cantilenano i gattopardi italiani. Dal momento che siamo un Paese gerontocratico dobbiamo però chiederci a quale "prima" si vuol fare riferimento.
L´impressione è che ci sia in giro una gran voglia di riesumare un reperto archeologico, gli anni Settanta, con il suo inevitabile rosario di citazioni pasoliniane: a destra l´antagonismo è ridotto a terrorismo in base a un´inedita strategia del rancore, mentre tra i radicali il movimento No Tav è cavalcato per nuocere al Partito democratico, all´eterno grido del tradimento a sinistra. Riflessi antichi, quelli di un sistema anchilosato che si regge solo per il suo irrigidimento da paralitico, avrebbe detto Antonio Gramsci.
Spia di questa convergenza è la sottovalutazione di un fatto grave in una democrazia, ossia l´occupazione della sede nazionale del Pd da parte di un gruppo di No Tav, una distrazione che vela un evidente compiacimento: quello di vedere ancora una volta quel partito, proprio come il Pci che fu, in balia di «opposti estremismi», vittima della sua presunta ambiguità costitutiva.
Eppure la difficoltà del tempo presente può rivelarsi per il Pd una formidabile occasione per liberare il proprio profilo riformista, che anzitutto significa non farsi invischiare in queste provocazioni, basate sui meccanismi di un´Italia vecchia e immobile che teorizza il palingenetico cambiamento di ogni cosa, affinché tutto alla fine rimanga uguale.
Anzitutto però il Pd deve accettare l´esistenza di un radicalismo alla propria sinistra. È questa la conseguenza inevitabile della sua aspirazione a essere un partito nazionale di governo. All´atto della fondazione quel partito ha scelto di impugnare la bandiera del riformismo, ma non può limitarsi a sventolarla e deve trarne delle conseguenze sul piano dell´azione politica: guidare e non essere guidati è il compito, diciamo pure la responsabilità nazionale, del primo partito italiano in una crisi scivolosa come questa, dove la possibilità di un precipitare dello scontro tra forconi di destra ed estremismi di sinistra, leghismi del nord e del sud è a un passo e la politica nel suo insieme non è mai stata tanto debole.
«Pas d´ennemis à gauche» era il complesso atavico del vecchio Pci e non può esserlo anche per il nuovo Pd, in quanto proprio su questo punto deve misurarsi una discontinuità. Quella formula era il risultato di un mondo bloccato e di una democrazia zoppa, ove la Dc aveva il monopolio del governo e il Pci l´egemonia dell´opposizione, senza alcuna possibilità di realizzare l´alternanza. Un quadro statico che induceva quel partito a demonizzare qualunque fermento radicale alla sua sinistra: l´egemonia era una sorta di premio di consolazione che imponeva di sfidare, sviluppando una continua dialettica tra volontà di inglobamento e resistenza, ogni fermento vitale al di fuori di essa.
Allo stesso modo in quell´Italia lontana, che in tanti ricordano ancora bene con la sua speciale miscela di crisi economica, solidarietà nazionale, movimenti sociali e terrorismo, si andò sviluppando un´eterogenesi dei fini tra moderati e gruppi extraparlamentari: il ruolo «antipiccista» di quella sinistra radicale è stato la maggiore garanzia della sua sopravvivenza culturale, ben al di là del reale consenso politico che nel Paese non ha mai superato il 3%. Eppure l´influenza è stata assai maggiore perché era funzionale al consolidamento in senso moderato del quadro italiano: si soffiava sul fuoco del radicalismo di destra e di sinistra e ne usciva un miracoloso incenso conservatore, destabilizzando per stabilizzare come recitavano seguitissimi manuali.
I comportamenti di Bersani in questi giorni meritano di essere sottolineati perché lasciano prefigurare la consapevolezza di non cadere nelle trappole di quel passato. Sulla questione No Tav, ad esempio, nell´arena di Santoro, è stato assai efficace: solo contro tutti, le gambe larghe e la cravatta slacciata a rispondere colpo su colpo al moralismo di alcuni e alla demagogia di altri. La questione della Tav è stata tenuta al livello che merita, ossia una sfida democratica: ogni violenza deve essere bandita, non è vero che non si è dialogato con associazioni e comuni che hanno deliberato a maggioranza la loro decisione favorevole; discutere non può significare bloccare i lavori, ma piuttosto affrontare temi assai concreti come evitare le infiltrazioni mafiose nella gestione degli appalti, mantenere la massima sicurezza nei cantieri, dislocare risorse a vantaggio delle popolazioni danneggiate dai disagi. Ma la Tav va fatta perché risponde a un interesse italiano ed europeo e così è stato deliberato a ogni istanza rappresentativa: una democrazia che non realizza le sue decisioni non fa altro che aumentare il proprio discredito.
Sempre nelle stesse ore bene ha fatto il segretario del Pd a rispedire al mittente la proposta di una grande coalizione anche dopo le elezioni del 2013 rivendicando per l´Italia un destino normale, quello di una democrazia che respira con due polmoni e attraverso le elezioni confronta proposte alternative garantendo l´alternanza. Ma la confusione delle lingue ormai ha raggiunto livelli enormi e c´è chi considera un segno di riformismo prospettare l´eventualità di continuare a governare con Cicchitto e Gasparri, a prescindere dal risultato delle elezioni, anzi ritagliando su misura una legge elettorale nuova che possa favorire tale esito. Tutto questo i gattopardi italiani lo sanno bene e per questa ragione il Pd di Bersani disturba e dà fastidio. Continui pure a farlo elevando il senso riformista della sua sfida, che oggi significa proseguire a fare politica nel solco di rinnovamento e rigenerazione tracciato dal governo Monti, ma a testa alta, con lo sguardo rivolto all´Italia di oggi e a quella di domani.

l’Unità 3.3.12
Fondo per l’editoria: per la stampa di idee una boccata di ossigeno Ma restano i rischi
Il governo Monti rifinanzia il Fondo per l’editoria «assistita» che sale a 120 milioni. Fammoni (Cgil): è solo una boccata d’ossigeno. Per Mediacoop il rischio chiusura resta. Siddi (Fnsi) chiede una riforma a tutela del pluralismo.
di Roberto Monteforte


Una boccata d’ossigeno. Questo rappresenta il rifinanziamento del Fondo per l’editoria deciso giovedì sera da Palazzo Chigi con il decreto della presidenza del Consiglio che ha portato a oltre 120 milioni le risorse disponibili per il 2012 e relative alle spese sostenute l’anno precedente. È solo il primo passo.
Lo scorso anno erano stati 150 i milioni disponibili. L’anno prima 180. Per quest’anno per l’editoria assistita erano previsti solo 47 milioni di euro. Con quella cifra sarebbe stata morte sicura per molte delle cento testate non profit, cooperative, politiche e di idee alle quali è indirizzato il finanziamento pubblico diretto. Sono oltre quattromila i dipendenti che avrebbero potuto perdere il posto del lavoro. Quanto l’allarme fosse vero lo testimonia la chiusura di Liberazione, di Terra, de L’Informazione-Il Domani di Bologna e di altre testate cooperative e non profit. Il Manifesto è sotto il controllo di un commissario liquidatore.
Malgrado quei 120 milioni il destino dell’intero settore è ancora a rischio, perché quell’importo va a copertura di quanto le aziende editoriali hanno già speso nel 2011, prevedendo finanziamenti almeno del 15 per cento superiori. Non compensano i tagli dragoniani già imposti dal governo Berlusconi e poi confermati dall’esecutivo del professor Monti. Sulle aziende del settore pesano, infatti, sia i tagli retroattivi ai bilanci 2010 che quelli ai bilanci 2011. «Era un provvedimento lungamente atteso che però ancora non allontana lo spetto della chiusura di un centinaio di testate, in quanto copre solo parzialmente spese già fatte nel 2011 e quindi costi non comprimibili», lo conferma Lelio Grassucci presidente onorario di Mediacoop, che rappresenta le testate cooperative. Certo, qualcosa si è mosso grazie all’iniziativa incessante delle redazioni coinvolte, dei loro direttori, del Comitato per la libertà di informazione e del pluralismo, della Federazione della Stampa e dei sindacati, della stessa Mediacoop e delle altre sigle del mondo cooperativo e grazie, soprattutto, all’intervento del capo dello Stato Napolitano sulla linea «il pluralismo va tutelato nel rigore».
Così finalmente si è dato seguito all’impegno assunto dal governo Monti durante il dibattito parlamentare sulla recente Finanziaria. Sono circa 50 i milioni che dal cosiddetto «Fondo Letta» vanno ad irrobustire quello per l’editoria. Lo aveva preannunciato il sottosegretario Paolo Peluffo che ha anche rastrellato altri 23 milioni da risparmi della pubblica amministrazione. Ma è solo il primo passo. Lo sottolinea Fulvio Fammoni (Cgil): «Deve essere chiaro che i problemi non sono risolti e che comunque non si è trattato di un regalo commenta -. Si è riparato piuttosto ad un grave problema economico e di libertà di informazione che avevamo ereditato dal governo precedente». Fammoni ricorda l’impegno di quanti «hanno continuato a tenere viva l'iniziativa, insieme a molti parlamentari, anche quando tutto sembrava compromesso». Insomma la «lotta paga». «Ora però conclude non ci si deve fermare. Dobbiamo subito rimetterci al lavoro affinché non ci si ritrovi alla fine del 2012 nelle stesse condizioni di quest'anno». Quello che serve è la riforma del settore e la definizione di criteri rigorosi nella ripartizione delle risorse che «garantisca la libertà di informazione e che elimini le tante distorsioni ancora esistenti».
ORA I NUOVI CRITERI
È su questo che insiste anche Mediacoop, che indica come prossima tappa «il decreto per la trasparenza e la migliore finalizzazione delle risorse». Tra i nuovi criteri vi saranno le vendite in edicola e il numero dei dipendenti regolarmente assunti. C’è chi ipotizza anche un sostegno agli investimenti sul web. Di finanziamento ancora «parziale» parla anche il segretario Fnsi, Franco Siddi, che insiste sull’esigenza di una «puntuale svolta nella definizione rapida dei nuovi criteri di finanziamento, affinché ciascun soggetto beneficiario possa fare i conti per tempo». Ciò che va evitato è quanto è avvenuto nel 2011, con aziende che hanno sospeso l'attività perché non sapevano fino a qual punto avrebbero potuto godere ancora dell'aiuto pubblico. La Fnsi chiede una riforma a tutela del pluralismo e che «i fondi pubblici vadano a giornali veri, con giornalisti veri, con un minimo di rapporto con il pubblico».

il Fatto 2.3.12
Sussidi all’editoria: conteranno le vendite e non la tiratura
Un decreto per la riforma del sottosegretario Peluffo
Lo scopo è eliminare gli aiuti ai giornali che non arrivano in edicola
di Carlo Tecce


C’è una buona notizia per i giornali che ricevono il finanziamento pubblico: il fondo per l'editoria sarà di 120 milioni di euro, potrà crescere ancora, ma sarà inferiore ai 150 milioni stanziati l'anno scorso. É l'ultima concessione del governo, dicono i tecnici che lavorano al disegno di legge, prima di riformare il sistema: “Non possiamo chiedere sacrifici ai cittadini e poi distribuire denaro a pioggia senza un criterio valido”.
Martedì pomeriggio a Palazzo Chigi, durante un colloquio riservato assieme al sottosegretario Antonio Catricalà, il premier Mario Monti ha ricevuto il sottosegretario Paolo Peluffo (Editoria) per trovare nuove risorse per il fondo destinato ai quotidiani. Ma anche per scrivere il decreto legge che sarà approvato in Consiglio dei ministri entro fine marzo: “Aumentiamo le risorse per dare un segnale ai giornali e garantire loro la possibilità di ottenere i prestiti necessari per andare avanti, contestualmente, però, dovremo dimostrare che in futuro sarà tutto diverso”. Che vuol dire? “Mai più soldi a chi non li merita”.
E così il governo scriverà nel decreto legge di marzo che il finanziamento pubblico sarà calcolato (al 70 per cento) sulle vendite reali in edicola e sui costi di gestione (al 30 per cento): niente milioni sprecati ai più furbi che tirano migliaia di copie che morivano direttamente al macero senza farsi notare nemmeno dai lettori. Esempio: un grande quotidiano potrà avere al massimo 3,5 milioni di euro per le vendite e al massimo 2 milioni di euro per i rimborsi dei costi sostenuti. Non avrà un euro la testata che esiste soltanto virtualmente (ricordate l'Avanti! di Valter Lavitola?), che appare e scompare in edicola, ma che gonfia le voci di bilancio con migliaia di euro per telefonate, affitti, trasferte e consulenze. Tra i costi saranno conteggiate le spese per la distribuzione, la carta, la stampa e per il personale: “Ci teniamo a ripetere che le vendite saranno determinanti”.
Saranno esclusi, inoltre, i quotidiani che avranno meno di cinque dipendenti in
organico fra giornalisti e poligrafici, addio quotidiani di partiti sciolti e movimenti che vivevano di rendita. Per conoscere davvero i numeri sull'acquisto dei quotidiani, e scoraggiare i più esperti che truccavano le autocertificazioni aziendali, il decreto legge avrà un capitolo edicole: i circa 30 mila punti vendita saranno informatizzati, collegati attraverso un cervellone che permette di rintracciare le copie distribuite e conoscere le rese quasi in tempo reale. Non avranno il valore di una copia venduta quelle offerte in blocco e quelle appaltate agli strilloni ai semafori.
Il decreto legge fisserà i punti di partenza, poi un disegno di legge delega dovrà sviluppare le idee di Monti e Peluffo che, spiegano, “non vogliono limitarsi a fotografe il mercato attuale, ma vogliono cercare di aprire il settore a nuovi operatori”. La riforma dovrà anche prevedere incentivi per il passaggio su Internet dei quotidiani che non riescono a raggiungere un numero adeguato di copie vendute in edicola e anche per le società che intendono investire nel settore. Che sia utile e brillante oppure dannosa e vecchia, qualsiasi iniziativa del governo dovrà tenere conto che le risorse pubbliche non lieviteranno nei prossimi anni, semmai subiranno pesanti riduzioni. Forse la proposta del sottosegretario Catricalà, che ai suoi interlocutori è sembrata piuttosto prematura, potrà avere spazio nel testo che dovrà riformare l’editoria.
L’ex presidente Antitrust ha suggerito di utilizzare un modello “a rotazione”: nessuno avrà i contribuiti sicuri per sempre, anzi, ogni due o tre anni, il Tesoro potrebbe smettere di finanziare una testata già sul mercato per aiutarne una nuova. Prima di valutare le sue buone intenzioni, il governo deve, però, trovare i soldi per evitare il collasso dei giornali di partito e delle cooperative che non riescono nemmeno a pagare gli stipendi. Per adesso il fondo per l’editoria è di 120 milioni di euro, potrebbe arrivare a 140, ma sarà comunque l’ennesimo passo indietro rispetto all’anno scorso.

l’Unità 3.3.12
La bravura non ha nome e cognome
Altrove i ministri tornano a casa perché non hanno pagato i contributi alle colf. Da noi quelli come Luigi Frati si arrabbiano
di Claudio Fava


L a bravura non ha nome e cognome, dice Luigi Frati, rettore alla Sapienza di Roma. Nel corso degli anni, la «sua» facoltà di medicina (Frati ne è stato preside per quasi una vita) gli ha sistemato la moglie Luciana Rita Angeletti (laurea in lettere, cattedra di storia della medicina), la figlia Paola (laurea in giurisprudenza, cattedra di medicina legale) e adesso il figlio Giacomo, ricercatore a ventotto anni, associato a trentuno, diventato ordinario di cardiochirurgia a trentasei anni dopo aver superato l’attentissimo vaglio di una commissione d’esame formata da tre dentisti e due igienisti.
D’impronta britannica il commento di Frati senior sulla carriera del figlio: «Giacomo mio s’è fatto un culo come un pajolo... il merito, ahò, ‘ndove lo metti il merito?». Già, dove lo mettiamo il merito? Frati junior l’ha applicato ad alcuni manichini, esercitandosi ad operare a cuore aperto su di loro in attesa di diventare professore e di ricevere in dote il suo reparto, pazienti inclusi.
La notizia non è questa cronaca da hostaria romana (con l’acca, però). La notizia è che non c’è notizia, nel senso che non è successo nulla. Il rettore è al suo posto, i famigli pure, la straordinaria coincidenza di un intero nucleo familiare sistemato a prescindere da tutto (dai percorsi universitari, dai legami di parentela, da un elementare senso di decenza) è stata letta, commentata e archiviata come si fa con le partite della nazionale: andrà meglio la prossima.
In altri Paesi, non più civilizzati del nostro, i ministri tornano a casa perché non hanno pagato contributi alle colf, i capi di stato si dimettono perché hanno sollecitato contributi per la moglie, i manager pubblici si autosospendono perché si sono fatti offrire una cena non dovuta. In Italia quelli come Frati invece s’incazzano, minacciano querela e restano inchiavardati al loro posto, ossequiati e inamovibili. Colpa loro? No. Colpa di chi tollera, tace e guarda altrove.
S’è perduto il valore dei gesti, il linguaggio di chi mostra con un gesto da che parte sta da dignità delle cose e delle persone. Senza scomodare il re della Danimarca che s’appuntò sul petto la stella gialla di David quando i nazisti chiesero alle loro nuove colonie europee di procedere col censimento a vista dei giudei (con quel gesto salvò la vita ad alcune centinaia di migliaia di ebrei), senza evocare la sobria coerenza di quei dodici docenti (dodici su milleottocento...) che nel ’38 si rifiutarono di giurare fedeltà al duce (e persero il posto, ma preservarono un briciolo d’onore all’università italiana), senza dover ricorrere a Bartleby lo scrivano che disse, senza aggiungere altro, «preferirei di no» (e non cambiò idea), insomma senza scivolare nelle celebrazioni, è però possibile che non ci sia alta e pubblica istituzione che non proponga una parola, un pensiero preoccupato, una critica ai comportamenti e ai ragionamenti del rettore della più grande università d’Europa? Dal Quirinale, nei giorni scorsi, è stata recapitata ai giornali una lettera del Presidente che, garbatamente ma puntualmente, lamentava la critica formulata nei suoi confronti da un deputato del Pd: quella critica era solo un’opinione, ma è stata ritenuta meritevole di una replica personale dalla più alta carica dello Stato. Anche sul siparietto familiare del rettore della Sapienza, che intanto ci fa sapere di aver ricevuto anche la proposta di una candidatura per la carica di sindaco di Roma, il paese si sarebbe aspettato un qualche inarcarsi di sopracciglia. Per esempio, al posto del ministro dell’Università, anche per puro scrupolo di verità, avremmo chiesto che ci venissero inviati gli atti relativi al concorso vinto da figlio del rettore (quello che opera i manichini): se non altro per far sapere a igienisti e dentisti che – da commissari d’esame devono decidere sulla competenza di un futuro cardiochirurgo, che la salute materiale dei cittadini e quella morale dell’università sono in cima ai nostri pensieri.
Perché se nei nostri pensieri non c’è spazio per le fulminee carriere dei figli del rettore, con che titolo ce la prendiamo con i vigili urbani romani che chiedevano la mazzetta per arrotondare la paga e concedere licenze abusive e certificazioni taroccate? Lo so, quelli truffavano, è un reato, è colpa grave... Poi però s’è saputo che i colleghi, anche quelli onesti, sapevamo. Ma tacevano. Ecco il punto: a far sempre finta di niente, sul magnifico rettore o sui vigili urbani romani, si finisce per abituarsi a tutto. Anche al peggio.

l’Unità 3.3.12
Intervista a Nikolaj Lilin
«Qui ci vorrebbe un Gramsci russo»
Lo scrittore: «Dopo il voto temo il ritorno del terrorismo L’attentato a Putin? Un falso. Il sistema non è riformabile»
di Ma. M.


P er cambiare davvero ci vorrebbe un Gramsci russo, una persona di cultura. Non estremista, non violenta, che non sia espressione del sistema politico attuale». Nikolai Lilin, autore di Educazione siberiana e del più recente Il respiro del buio non ha nessuna fiducia nelle possibilità di auto-riforma della politica russa.
L’unica variabile alle presidenziali è tra una vittoria di Putin al primo o al secondo turno. Che cosa cambia questo voto?
«Non credo in un grande cambiamento. È impensabile che un apparato corrotto come è quello attuale lasci uno spazio aperto ad una politica diversa. Sarà solo peggio».
Un ulteriore giro di vite?
«Si, ci sarà sicuramente. Quello di cui ho più paura è la minaccia terroristica. In Russia quando il potere viene compromesso tende a riaffiorare. È un sistema che si conosce bene anche in Italia, che ha avuto gli anni di piombo, il sequestro Moro e altri atti terroristici di dubbia provenienza. Anche in Russia è così».
In questi giorni si è parlato di un attentato sventato contro Putin, una denuncia che è apparsa sospetta quanto meno nella scelta dei tempi.
«Un falso attentato. Chiunque sappia come vengono svolte le indagini su un atto terroristico di grande rilevanza sa pure che non possono concludersi in 24 ore. Anche se non ho dubbi sul fatto che a Odessa (dove si stava preparando il presunto attentato, ndr) ci sia la presenza di terroristi islamici come pure di una molteplicità di servizi segreti».
Ma una notizia simile può influenzare l’opinione pubblica? In fondo Putin è arrivato al potere dopo una sfilza di attentati molto sospetti a Mosca.
«Può fare presa, sì. Il popolo russo è povero, messo in ginocchio da un potere corrotto che finge la democrazia, ma pratica la dittatura. E quella post-sovietica è una dittatura neo-capitalista. I russi hanno paura della loro ombra: sceglieranno l’uomo forte, che garantisce sicurezza. Visto quante allusioni sessuali nella campagna elettorale? L’idea è che il popolo-mucca segua il leader-toro».
Le proteste di questi mesi sono state però una novità assoluta.
«Le proteste sono state grandi. Ma ho visto, tra tanta gente per bene, anche chi non avrei voluto vedere. Gruppi neonazisti, ultrà sportivi, organizzazioni estremistiche di sinistra. E anche personaggi pubblici alla Nemtsov o persino Kassianov, ex premier di Putin, che hanno sfruttato le proteste ma che non hanno lo spessore per promuovere un vero cambiamento».
In piazza però c’era soprattutto gente comune.
«È nata una generazione che ha imparato a contestare il potere. È un bene, ma è solo il primo passo. Poi bisogna saper proporre un’alternativa».
Nell’opposizione russa si parla di unificare le forze sotto un’unica sigla dopo il voto.
«È impossibile. La sola possibilità di cambiare può venire da una forza extraparlamentare non corrotta dal sistema politico. Dalle elezioni non ci si può aspettare nulla. Il sistema dei brogli è talmente forte che anche chi lo gestisce non potrà più fermarlo. Le sole elezioni vere in Russia ci sono state con Gorbaciov, l’unica persona che potrebbe ancora cambiare la Russia». Nessuno tra i più giovani?
«Ci servirebbe un Gramsci russo. E invece le nuove generazioni sono state rovinate dalla cultura hollywoodiana, cresciute con i film in cui i russi erano sempre i cattivi. Abbiamo interiorizzato una mancanza di dignità. Per questo non riusciamo a partorire una mente capace di sviluppare un pensiero positivo partendo dalla nostra storia».

Corriere della Sera 3.3.12
Cina, il villaggio della democrazia al voto
Oggi elezioni libere a Wukan, epicentro delle proteste popolari per la terra
di Marco Del Corona


PECHINO — Per adesso sembra un voto che tutti vinceranno: elettori e Partito comunista. Stasera, dopo lo spoglio, chissà. A Wukan, villaggio costiero del Guangdong, barche da pesca nel porticciolo e animi caldi, oggi è la giornata delle urne.
Nel settembre dell'anno scorso, qui era cominciata a montare una rivolta contro la confisca e la svendita di terreni a una joint venture sino-hongkonghese, e a dicembre l'insofferenza nei confronti dei leader locali del Partito aveva provocato una ribellione. Dieci giorni d'assedio medievale, arresti, minacce e la morte di uno dei capi della sollevazione, Xue Jinbo, mentre stava nelle mani della polizia. Non era bastata la fuga dei funzionari corrotti per bloccare la crisi che, nel frattempo, offriva un esempio da imitare a comunità vicine afflitte dagli stessi problemi di corruzione e complicità.
Le mosse dialoganti del segretario comunista della provincia del Guangdong, Wang Yang, avevano sparigliato le carte. Uno smilzo pool di mediatori, procedimenti disciplinari contro i compagni dirigenti che sbagliavano, congelamento delle confische e nomina a n. 1 locale del Partito di Lin Zuluan, anima dei ribelli. Non solo: le urne. A Wukan sono state applicate le procedure previste dalla legge per le elezioni a livello locale, le uniche consentite in Cina.
E se «le autorità hanno perso interesse per le elezioni "di base"», come diceva al Corriere l'attivista Li Fan prima delle consultazioni di novembre nei quartieri di Pechino, Wukan va invece in controtendenza. I circa 8 mila aventi diritto hanno 21 candidati tra i quali scegliere un comitato di 7 persone, capo villaggio incluso. Vigila un comitato di controllo di 107 membri.
Lin è certo di essere eletto. In settimana, durante i comizi di presentazione, giurava «di servire il popolo e di fare quel che c'è da fare». Applausi.
Non tutti coloro che si presentano godono però della stessa fiducia. In un clima vivace, con l'uso del cinese mandarino rimpiazzato con il dialetto locale man mano che la discussione si scaldava, chi è stato visto come possibile quinta colonna degli speculatori non ha avuto gloria, come tale Chen Chang, ascoltato nel silenzio.
Xue Jianwan, figlia della vittima di dicembre, ha invece ammesso all'Ansa che spera di non essere eletta: «C'è forte pressione da parte della mia famiglia. Hanno paura di quel che può succedere dopo».
Gli slogan sugli striscioni sono quelli ufficiali del Partito. Che rivendica la paternità dell'intera opera di normalizzazione, dalla fine delle violenze alla nomina di Lin a segretario locale, al voto.
Il segretario del Guangdong, Wang Yang, punta a un posto nel comitato permanente del politburo al congresso d'autunno. Il Quotidiano della gioventù è uno dei giornali che hanno lodato la soluzione della crisi e l'«approccio nuovo e lucido per risolvere i conflitti sociali, che tiene conto sia dei diritti del popolo sia della necessaria stabilità».
La cooptazione dei capi della rivolta è stata un successo strategico e d'immagine del Partito, che ha comunque lavorato per spaccare il fronte dei riottosi.
Proprio in contemporanea, tra oggi e lunedì, a Pechino si apre la sessione annuale del Parlamento, l'Assemblea nazionale del popolo. Migliaia di delegati che da Wukan aspettano solo buone notizie.

Corriere della Sera 3.3.12
L'uomo di Neanderthal scomparso per colpa del clima
di Giovanni Caprara


Che fine fecero i nostri cugini neandertaliani vissuti a lungo in Europa prima di noi? Ora scrutando nel Dna estratto nei resti fossilizzati di 13 uomini vissuti tra l'Europa e l'Asia in un periodo tra 100 mila e 35 mila anni fa, ricercatori svedesi e spagnoli sono riusciti a precisare che cosa accadde ai lontani parenti. Esattamente 50 mila anni fa la maggior parte di loro si estinse dalla scena europea, quindi migliaia di anni prima che i nostri antenati di Homo sapiens arrivassero dall'Africa. Un piccolo gruppo, però, riuscì a sopravvivere per altri 10 mila anni rifugiandosi verso l'ovest europeo. Poi la specie scomparve definitivamente.
«Il fatto che questi remoti primitivi fossero quasi estinti, che recuperassero in extremis e che tutto ciò succedesse prima di un possibile contatto con gli umani moderni è una sorpresa — ammette Love Dalén del Museo di storia naturale di Stoccolma —. Anche perché dimostra come quella specie fosse molto più sensibile e vulnerabile ai cambiamenti climatici in corso nel periodo conclusivo dell'ultima era glaciale rispetto a quanto si era pensato finora». La prova della debolezza sarebbe nascosta proprio nel Dna esaminato e appartenente all'ultimo gruppo emigrato ad ovest il quale presenta minori variazioni genetiche rispetto agli altri vissuti in precedenza in zone diverse.
L'uomo di Neanderthal era così battezzato perché le sue prime tracce vennero trovate da Johann Fuhlrott nel 1856 in una grotta di Feldhofer nella valle di Neander, in Germania. Ricostruendone la storia si stabilì la sua presenza già oltre centomila anni fa e sino a circa 40 mila anni fa. E qui è nato l'enigma scientifico al quale i paleontologi cercano di trovare risposta, soprattutto per quanto riguarda la sua fine. Intanto è dato ormai sicuro che tra la loro specie e la nostra ci sia stata un'ibridazione, prima esclusa, perché parte del loro materiale genetico è stato trovato anche nel nostro Dna. Poi si aggiungeva che la scomparsa fosse dovuta ad una eccessiva specializzazione e che il confronto con l'uomo moderno lo abbia visto perdente. Adesso la causa prevalente pare invece legata al cambiamento climatico, come spiegano i ricercatori sulla rivista Molecular Biology and Evolution. Neanderthal lavorava le pelli e le usava per vestirsi unendole con fermagli d'osso: una prova, questa, di una certa abilità tecnica.

La Stampa TuttoLibri 3.3.12
Jung. I seminari Anni Trenta, straordinario esempio di «analisi» su un prodotto culturale
Caro Zarathustra ognuno deve portare la propria croce
Perché è indispensabile l’Ombra, quella parte della psiche rimossa perché non coerente con il canone corrente
di Augusto Romano


Carl G. Jung LO ZARATHUSTRA DI NIETZSCHE, vol. I Bollati Boringhieri, pp. 484,

Appare finalmente in italiano la trascrizione dei seminari che Jung tenne negli anni 1934-39 su Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Dico «finalmente» perché il testo è di straordinario interesse, anzitutto perché mostra come l’indagine psicoanalitica condotta su di un prodotto culturale possa contribuire a metterne in evidenza i presupposti e i significati che gli sono propri, senza per questo ridurlo a un epifenomeno della biografia psichica dell’autore. Ma anche perché, in questo come negli altri suoi seminari, Jung dà il meglio di sé. Il fatto di parlare a braccio e la sua caratteristica tendenza a divagare tolgono al discorso ogni intonazione accademica e professorale e gli permettono di combinare in un impasto inimitabile cultura, penetrazione psicologica, coinvolgimento personale.
A differenza del modello dello scienziato sperimentale, che si nasconde dietro i dati, Jung è sempre interamente presente in ciò che dice e non teme di manifestare simpatie e idiosincrasie. Ne risulta un discorrere sciolto, chiaro, spiritoso, avvincente, ricco di battute icastiche (ad esempio: «La gente avrebbe di gran lunga meno fantasie sessuali, se se ne andasse in giro nuda»; oppure: «Ci sono così tante persone che predicano per evitare di dover fare ciò che predicano»; e infine: «L’aver commesso una certa percentuale di crimine dà alle persone una bella sensazione»), di aneddoti, di riflessioni che vanno dai rapporti tra il pensiero di Nietzsche e il nazismo allo stile narrativo di Joyce, di abbozzi di storie cliniche e di sogni di pazienti.
Da questo modo di raccontare trae vantaggio anche l’esposizione dei temi essenziali del suo pensiero, che Jung intreccia al commento del testo nicciano. Chi ha letto il Libro Rosso troverà in questo Seminario, esposte in una forma più distesa e discorsiva, molte delle fulminee illuminazioni che erano state registrate in quel libro segreto.
Il testo ora pubblicato è soltanto il primo di tre volumi; gli altri appariranno entro il 2012. Può essere però tranquillamente letto da solo: sia perché ha la compiutezza di un arazzo policromo, sia perché una lettura distanziata dei tre volumi può evitare eventuali effetti di sovradosaggio. Rinviando a traduzione conclusa il commento al rapporto Jung-Nietzsche, accennerò qui soltanto a un tema centrale nel pensiero junghiano, che in questo volume è costantemente richiamato: si tratta della costruzione di un’etica personale, un argomento strettamente connesso a quel percorso di autorealizzazione che Jung chiama «processo di individuazione».
Punto di partenza della riflessione junghiana è l’esigenza di accogliere nello spazio della coscienza egoica la figura dell’Ombra, cioè di quella parte della psiche che è stata rimossa, negata, rifiutata in quanto non coerente con il canone culturale corrente. L’Ombra, dice Jung, è «indispensabile per la realizzazione della totalità di una personalità». Accogliere l’Ombra e legittimarne la presenza significa però accettare il conflitto tra istanze contraddittorie e assumersi la responsabilità delle proprie scelte, rinunciando a ogni garanzia offerta da un potere sovraordinato. Viene qui in primo piano l’importanza dell’esperienza individuale, contrapposta al «tu devi» formulato da un codice preesistente, che presume di dare risposte di validità universale. E’ questa la radice della polemica che oppone Jung alle istituzioni religiose e alla «moralità da pulpito» che, additando l’imitatio Christi, offrono delle ricette di salute spirituale già perfettamente confezionate. «Ognuno deve portare la propria croce, il proprio problema individuale, la propria difficoltà e sofferenza individuale. Un problema è reale solo in quanto è a te che si presenta, solo in quanto sei tu che ti fai carico della tua vita».
Il libro si avvale di una eccellente traduzione e di accurate note esplicative di Alessandro Croce.""

La Stampa TuttoLibri 3.3.12
Crisi di un papato
Secondo Politi, leadership carente e «incertezza di conduzione strategica»
Ratzinger, le riforme che non vuole (o non può) fare
di Andrea Tornielli


Marco Politi JOSEPH RATZINGER. CRISI DI UN PAPATO Laterza, pp. 328, 18

Politi, commentatore de Il Fatto Quotidiano, è stato per diciassette anni corrispondente vaticano di Repubblica e, prima ancora, del Messaggero. Ha scritto con il premio Pulitzer Carl Bernstein la biografia best-seller di Giovanni Paolo II «Sua Santità» (Rizzoli)
La tesi dell’autore è chiarissima fin dal titolo: Joseph Ratzinger. Crisi di un papato. Secondo il vaticanista Marco Politi, autore del saggio, quello di Benedetto XVI, a sei anni e mezzo dall’elezione, sarebbe dunque un pontificato «in crisi». Politi mette in fila e analizza tutti gli episodi «critici» che hanno caratterizzato il papato ratzingeriano, dalle reazioni al discorso di Ratisbona al caso Williamson, dalla risposta sul preservativo durante il viaggio in Africa del marzo 2009 allo scandalo dei preti pedofili.
L’autore riconosce le indubbie doti intellettuali e di predicatore del Pontefice tedesco, ne apprezza l’essenzialità del messaggio, giudica positivamente anche l’attività di scrittore e di teologo che Ratzinger ha continuato anche da Papa, attraverso i libri su Gesù di Nazaret: «Al di là della battaglia teologica», scrive Politi riferendosi al primo volume sul Nazareno, «il libro appare una splendida catechesi letteraria, un ritratto avvincente, un inno alla sequela di Gesù. Pagina dopo pagina il pontefice propone con essenzialità una spiritualità intensa, rigorosa, gioiosa». E riconosce anche una caratteristica peculiare di Benedetto XVI, l’umiltà: «Raramente un Papa ha espresso in maniera così toccante la propria fragilità», osserva Politi, riferendosi al libro-intervista nel quale il Pontefice racconta la sua reazione all’elezione e il suo rivolgersi a Dio per dirgli: «Tu mi devi condurre! Io non ce la faccio».
Ma Politi rivolge anche, pagina dopo pagina, una critica serrata al «governo» di Ratzinger e conclude che l’attuale papato appare caratterizzato da uno stallo delle riforme necessarie per la Chiesa e per la Curia romana. Come pure osserva la carenza di una visione geopolitica da parte della Santa Sede e un venir meno dell’incidenza che la voce vaticana aveva sulla scena internazionale fino a qualche anno fa, nonostante molti viaggi di Benedetto XVI – anche quelli considerati più difficili – riconosce l’autore, siano stati «coronati da grande successo».
Il Papa «si dedica scrupolosamente allo studio dei dossier che gli vengono sottoposti», ma «crisi dopo crisi, resta insoluta la questione della solitudine decisionale... Il cosiddetto deficit di comunicazione rimanda piuttosto ad una carenza di leadership» e a un’«incertezza di conduzione strategica».
È indubbio che le crisi del pontificato abbiano messo in luce reali problemi di governo (meglio, di assenza di governo) che non sono soltanto comunicativi, nonostante molti in Vaticano continuino purtroppo a pensare in modo auto-assolutorio che tutte le responsabilità siano dei giornali e dei giornalisti. È al contempo vero, però, che la figura e il magistero del Papa teologo sia ben più articolato e complesso di quanto vorrebbero farlo apparire certe semplificazioni tendenti a schiacciarlo sui cliché conservatori. Ed è probabile che alcuni aspetti indicati come negativi da Politi – ad esempio la minore incidenza geopolitica della Santa Sede – appartengano volutamente allo stile pontificale di un Papa più concentrato sulla comunicazione dell’essenziale della fede cristiana.

La Stampa TuttoLibri 3.3.12
Trent’anni dopo «Il pensiero debole»: la lunga fedeltà all’ermeneutica, mancando i fatti
Vattimo, la libertà il nostro abisso
di Federico Vercellone


Gianni Vattimo DELLA REALTÀ Garzanti, pp. 231, 18

«Della realtà»: il nichilismo come caratteristica saliente della cultura contemporanea Un mondo che moltiplica vorticosamente le sue prospettive, venuta meno ogni ipotesi metafisica

Sono ormai trascorsi quasi trent'anni da quando apparve presso Feltrinelli, a cura di Gianni Vattimo e di Pier Aldo Rovatti, un volume che ha smosso gli animi e fatto epoca, Il pensiero debole. Fu subito chiaro che si era toccato un nervo scoperto. In breve la questione era la seguente: si doveva constatare che la società di massa era andata trasformandosi in una civiltà dei media dominata dall' immagine. I grandi guru della critica della cultura, non importa se di sinistra e di destra, avevano guardato al fenomeno con un occhio implacabilmente critico. Ma, come sempre, non tardò ad arrivare il tradimento di un chierico. E non poteva che essere un transfuga di grande livello a difendere l'avversario di sempre. L'interrogativo posto da Vattimo era se davvero il mondo immaginario dominato dai media fosse un vuoto fantasma. O se non si trattasse invece di un universo che possedeva impreviste chances di emancipazione. Se non si trattasse di una cultura - era questa l'ipotesi «debolista» - che consentiva davvero il realizzarsi del sogno liberale e illuminista di un mondo pluralista, ove tutte le individualità potevano esser contemplate e riconosciute nella loro peculiarità. E' il sogno postmoderno.
Gianni Vattimo enunciò l'idea che la possibilità di possedere molte televisioni si configurava come un pluralismo inedito, sconosciuto ai mondi precedenti che si erano fissati sull'unicità della verità. Grazie a questo passo egli incarnò, agli occhi di una parte consistente dell'élite culturale, l'immagine di colui che ha cambiato sponda per unirsi ai vincitori. La polemica contro il pensiero debole divenne così una polemica contro la cultura dominante da parte di un settore significativo della casta dominante della cultura. E la cosa è continuata sino a tempi recentissimi anche grazie al recente dibattito sul «nuovo realismo».
E' venuto dunque il momento di fare bilanci equilibrati di una vicenda filosofica in trasformazione e ancora in atto, che ha attraversato fasi diverse e anche autocritiche. Proprio Gianni Vattimo ci fornisce questa occasione grazie al suo libro più recente, Della realtà, pubblicato ora da Garzanti nel quale raccoglie e rielabora scritti degli ultimi quindici anni raccolti intorno a due nuclei di lezioni tenute nel 1998 a Lovanio e nel 2010 a Glasgow (le prestigiosissime «Gifford Lectures»).
Com'è ben noto, il pensiero di Vattimo fa riferimento a una tesi di Nietzsche, secondo la quale «non ci sono fatti, solo interpretazioni», laddove anche questa «è un' interpretazione». Le obiezioni principali formulate contro questa tesi sono due. La prima è di natura epistemologica: su questa via viene messa in questione la verità della scienza. La seconda è invece di ordine pratico-morale: se tutto è interpretazione, ogni cosa diviene opinabile. Così diventa lecito negare l'Olocausto ma anche, perché no?, viaggiare in controsenso sull'autostrada. Ora, per quanto mi risulta, né Gianni Vattimo né altri rappresentanti del pensiero ermeneutico hanno mai rifiutato di farsi visitare dal medico a causa di una sfiducia preconcetta nei confronti della scienza o, anche tralasciando l'Olocausto, hanno attentato in automobile, emuli di Marinetti, alla vita propria e a quella altrui. Se le cose stanno così, ci sarà qualche buon motivo per rivisitare la questione da un altro punto di vista.
Anche in questo libro Vattimo afferma che il nichilismo, che si prospetta con forza nella tradizione NietzscheHeidegger, costituisce una caratteristica saliente della cultura contemporanea (postmoderna e oltre...). Il nichilismo comporta che l'universo abbia perduto il proprio cardine, l'idea di Dio come Essere Supremo, certezza ultima della consistenza del creato, della sua coerenza, garanzia della verità delle nostre conoscenze, sigillo di un ordine buono e giusto. Quando il fulcro di quest'ordine grandioso viene meno, quando, per dirla con Nietzsche, si scopre che «Dio è morto», si spalanca un abisso. Alla verità ultima sancita dalle salde architetture della metafisica, si sostituisce un mondo che, in assenza di un fuoco dello sguardo, moltiplica vorticosamente le proprie prospettive. In questo ambito si diviene consapevoli della radicale storicità dell'esistenza, dei saperi, e di tutto il tessuto di concetti che li compongono. E' il mondo totalmente tecnicizzato che ci è consueto, nel quale tuttavia si spalanca un'altra volta, grazie alla consapevolezza profonda del carattere divenuto di noi stessi e del mondo, l'abisso della libertà. Quali criteri, per scegliere secondo verità e giustizia, vanno adottati in questo contesto nel quale non siamo confortati da alcuna oggettività stabile? Probabilmente, per cominciare a sbrogliare la matassa, dobbiamo ricordarci, come ci insegna molta biologia contemporanea, che neppure la natura è «oggettiva», ma è attraversata da moti di autorganizzazione creativa che la rendono molto prossima alla cultura.

Repubblica 3.3.12
Così il comunismo fu il primo network internazionale
di Niguel Gotor


L´Urss crollò perché perse la gara dell´egemonia combattuta con gli Stati Uniti
Un´utopia fatta di slanci libertari e ugualitari che si è rovesciata nel suo esatto contrario
L´ultimo libro di Silvio Pons ripercorre la storia del movimento mondiale. Dall´ascesa alla caduta

Nel cimitero della storia, sulla tomba senza fiori dedicata al "Comunismo Sovietico", c´è scritto "1917-1991": una vita breve quanto quella di un uomo, ma tragica e intensa, che ha mobilitato i cuori e le menti, le speranze e gli odii di milioni di persone nel corso del Novecento.
Il "caro estinto" ha avuto un´esistenza strana perché è cresciuto oltre ogni aspettativa fino agli anni Cinquanta, ha subito un declino altrettanto rapido nei due decenni successivi ed è morto tra l´ignominia e lo stupore delle genti nel volgere di un solo biennio, tra il 1989 e il 1991. Certo, non si può dire che non abbia vissuto: ha creduto nella rivoluzione proletaria come fatale compimento progressivo di quella francese del 1789 che aveva emancipato la borghesia, ha contribuito a sconfiggere il cancro nazifascista, pagando un tributo di sangue forse senza uguali nella storia dell´umanità, e ha osato proporre l´utopia di una modernità alternativa a quella capitalistica, carica di slanci messianici, libertari, ugualitari e universalistici, che si è rovesciata nel suo esatto contrario, l´orrore dei Gulag e la repressione totalitaria di ogni forma di dissenso.
Negli ultimi anni si sono moltiplicati i tentativi della storiografia internazionale di riassumere il senso di quella vicenda in termini propriamente storici e non più ideologici, dopo un ventennio di accesso alle fonti d´archivio liberate dalla fine dell´Urss. Una tendenza verso la sintesi interpretativa della storia del comunismo a cui gli studiosi italiani hanno partecipato attivamente come conferma anche l´ultimo libro di Silvio Pons La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991 (pubblicato da Einaudi, pagg. 419, euro 35).
Pons affronta una sfida complessa poiché la vita del comunismo sovietico ha trovato la sua cifra più autentica nella contraddittorietà. Esso, infatti, «è stato molte cose insieme: una realtà e una mitologia, un sistema statuale e un movimento di partiti, una élite chiusa e una politica di massa, una ideologia progressista e un dominio imperiale, un progetto di società giusta e un esperimento sull´umanità, una retorica pacifista e una strategia di guerra civile, un´utopia liberatrice e un sistema concentrazionario, un polo antagonistico dell´ordine mondiale e una modernità anticapitalistica».
L´autore, ordinario di storia dell´Europa orientale all´Università di Tor Vergata di Roma e direttore dell´Istituto Gramsci, gioca e vince la partita perché delinea un affresco a tutto tondo della vita storica del comunismo internazionale scegliendo due opzioni interpretative forti e originali. La prima lo induce a concentrarsi sul carattere transnazionale del movimento comunista, assumendolo per ciò che fu e volle essere sin dalle sue origini, ossia il primo network politico-mondiale su scala globale. In questa chiave di lettura l´identificazione tra gli interessi dell´Urss e la prospettiva di una rivoluzione degli altri partiti comunisti disseminati nel mondo assegna un significato cruciale al momento della legittimazione internazionale di quel disegno di potenza e modernizzazione. Una legittimazione che bisognava costruire quotidianamente attraverso l´organizzazione e la disciplina, l´agire e il farsi partito, l´inesorabile edificazione di un "uomo nuovo".
La seconda opzione consente all´autore di rifiutare un´interpretazione monolitica del movimento nato dalla Rivoluzione d´Ottobre, quella che di solito scaturiva dalle passioni e dalle propagande dell´anticomunismo militante occidentale. Piuttosto, prevalgono le tensioni fra il centro e la periferia, le sfumature e le variabili interne e il dato di fatto che quei conflitti minarono l´edificio comunista molto prima di quanto è stato immaginato sinora. Il comunismo entrò in crisi già all´inizio degli anni Sessanta, quando le rivoluzioni dall´alto degli Stati dell´Europa centro-orientale e l´emergere della frattura con il colosso cinese, cominciarono a disarticolare il progetto imperiale dell´Urss, ledendone la legittimità internazionale, ossia il fulcro su cui aveva costruito il proprio successo. Fu anzitutto una crisi di egemonia, quindi di carattere politico e culturale, a ledere la sovranità sovietica e le sue capacità di attrazione simbolica nel mondo. Le difficoltà economiche seguirono senza svolgere un ruolo decisivo nel determinarne la caduta.
L´impero sovietico venne sconfitto dal momento che non seppe esercitare un´autentica egemonia paragonabile a quella realizzata dagli Stati Uniti nel corso della Guerra fredda nell´altro campo. Un´influenza basata sulla flessibilità, ossia sulla capacità di adattare il capitalismo ai diversi gradi di sviluppo delle singole nazioni, e alimentata dalla costruzione di uno spazio geopolitico transatlantico e di un compromesso socialdemocratico su cui si fondò lo Stato sociale. Pons dissente dall´idea di Eric Hobsbawm, ossia che il comunismo abbia avuto il merito di costringere il capitalismo a riformarsi inventando il welfare state. Non è vero: con l´afflato riformista del suo maestro Giuliano Procacci, egli ricorda che «le forze socialdemocratiche, liberali, cattoliche protagoniste della riforma del capitalismo dopo la guerra furono più danneggiate che favorite dall´esistenza del comunismo come modello e come movimento», che condizionò assai di più la Guerra fredda.
La globalizzazione fu il fattore che determinò la fine dell´assetto bipolare del mondo, in cui il sistema chiuso socialista si rivelò sempre meno funzionale allo sviluppo di più ampi mercati di consumatori richiesti dalla rivoluzione tecnologica e generati dalla vorticosa velocità delle comunicazioni e degli scambi. Poi venne l´ictus della caduta del muro di Berlino, la sera del 9 novembre 1989, l´improvviso scoppio di una vena ostruita che da ormai trent´anni impediva la libera circolazione di una parte troppo importante del mondo. Ancora due anni di paralisi e il giorno di Natale del 1991 la bandiera rossa con la falce e il martello venne ammainata dal Cremlino: era davvero finita, iniziava un´altra storia, confusa e incerta, in cui siamo ancora immersi.

Repubblica 3.3.12
Perché non c'è stato nessun ravvedimento da parte di Gramsci
di Joseoph Buttigieg


Pochissimi sono i temi trattati da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere che non siano stati discussi e analizzati minuziosamente da numerosi studiosi in ogni parte del mondo. Uno di questi è il Lorianismo, un termine coniato da Gramsci per indicare un fenomeno socioculturale che è insieme sintomo e causa della corruzione della società civile. Nella sua introduzione al Quaderno 28, dedicato al Lorianismo, Gramsci spiega che si tratta di «assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell´attività scientifica [... ], irresponsabilità verso la formazione della cultura nazionale». Un tema inattuale, rilevante soltanto per l´epoca fascista? Gramsci aggiunge che «ogni periodo ha il suo lorianismo più o meno compiuto e perfetto, e ogni paese ha il suo».
La figura di Gramsci ha attirato l´attenzione di parecchi loriani. Qualche anno fa un arcivescovo fece notizia dichiarando, in una conferenza tenuta in Vaticano, che Gramsci si era convertito in punto di morte grazie all´effigie di Santa Teresa. Le polemiche suscitate furono comiche e divertenti. La più recente manifestazione di lorianismo è invece sconcertante. In uno scritto prodotto per Nuova Storia Contemporanea, anticipato in sintesi su Repubblica sabato scorso, Dario Biocca ha sostenuto che Gramsci fu un pentito, pronto a fare un atto di ravvedimento al cospetto del duce. La tesi di Biocca è basata sulla supposizione che – con la richiesta per la libertà condizionale che Gramsci indirizzò a Mussolini nel settembre del 1934, invocando l´articolo 176 del codice penale – il comunista sardo si sia automaticamente ravveduto. Per confermare la sua ipotesi, Biocca cita il testo del codice penale: «Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla libertà condizionale». Questo, però, non è il testo dell´articolo 176 in vigore negli anni Trenta quando Gramsci fece la sua domanda, ma il testo di quello stesso articolo così come fu riscritto nel novembre 1962. Come spiega il professore Nerio Naldi, in una lettera diffusa tramite la listserve della IGS-Italia (International Gramsci Society), il testo dell´articolo 176 nel codice in vigore nell´anno in cui Gramsci presentava la sua domanda recitava così: «Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni». Perciò, aggiunge Naldi, «la richiesta di liberazione condizionale presentata da Antonio Gramsci nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la «buona condotta» è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche il semplice sospetto che egli volesse presentarla».
Può darsi che Biocca abbia consultato qualche edizione del codice penale che non indica la revisione del articolo 176 effettuata nel 1962. In tal caso il suo travisamento dell´evidenza testuale sarebbe la conseguenza di un´incompetenza filologica piuttosto che di una lettura intenzionalmente ingannevole. Sorprende che Biocca non citi testualmente una dichiarazione che Gramsci fece nella sua lettera del 14 ottobre 1934 ad Antonio Valenti (l´immagine del documento appare di fianco al suo articolo su Repubblica): «Sono d´avviso che il beneficio che sta per essermi concesso non è da attribuirsi a cause politiche». Questa lettera e tanti altri documenti rilevanti sono stati pubblicati ed analizzati da biografi più attendibili (come Giuseppe Fiori e Paolo Spriano) e dal curatore delle lettere di Gramsci, Antonio Santucci. Studiosi seri che, a differenza di Biocca, non cercano lo scoop con ipotesi stravaganti.
Biocca vuol distruggere un mito. Gramsci, però, non è un mito ma un persona storica, la cui vita è ben documentata e i cui scritti sono facilmente accessibili in edizioni critiche curate con rigore filologico. Le fantasie di Biocca sulle vicende di Gramsci a Roma, prima del suo arresto, sono anch´esse contraddette da documenti e testimonianze ben note. Basterebbe leggere le lettere che Gramsci scrisse in quegli anni per vedere che il leader comunista rimaneva politicamente molto attivo, in contatto regolare con i suoi amici e compagni.
In conclusione, questo uso scorretto dei documenti intorno a Gramsci è da prendere sul serio solo perché è un sintomo del lorianismo attuale, e ci induce a riflettere – come ha fatto Gramsci – «sulla debolezza, anche in tempi normali, degli argini critici». Argini critici che ci è sembrato opportuno ripristinare.
(L´autore è presidente dell´International Gramsci Society e ha curato l´edizione critica dei "Quaderni dal carcere" per la Columbia University Press)

l’Unità 3.3.12
Tiziano, la storia prima di tutto
Albe e tramonti nel Vecellio non diventano mai protagonisti. La scena appartiene ai personaggi
di Renato Barilli


Tiziano e la nascita del paesaggio moderno, a cura di M. Lucco, Milano, Palazzo Reale, fino al 20 maggio, catalogo Giunti

Non tutte le mostre che al giorno d’oggi movimentano capolavori del passato rispondono a stringenti fini scientifici, tra queste il dubbio può riguardare anche la rassegna ospitata al Palazzo Reale di Milano col titolo di Tiziano e la nascita del paesaggio moderno, seppure curata da Mauro Lucco, attualmente il nostro miglior esperto di arte veneto-veneziano, come ha dimostrato conducendo le rassegne monografiche che le romane Scuderie del Quirinale hanno dedicato ad Antonello da Messina e a Giovanni Bellini.
Il titolo di questa mostra effettua con evidenza una surrogazione, il nome giusto da accampare avrebbe dovuto essere quello di Giorgione, al quale notoriamente si deve il primo paesaggio, La tempesta, dove i protagonisti umani si fanno piccoli piccoli mettendosi in disparte, per lasciare che sia appunto una apparizione mista di case, di acque, di terre, a dominare la scena, immersa in freschi e vivaci effetti meteorologici. Ma quest’opera eccelsa non era disponibile, e neppure un altro capolavoro del Maestro di Castelfranco, I tre filosofi, dove le figure richiamate nel titolo si collocano di lato per consentire il dispiegarsi di un vasto sfondo paesistico. Al di fuori di questi passi in avanti, in quasi tutti i dipinti presenti in mostra il paesaggio compare nel retro di gruppi umani destinati a dominare il campo, non esiste, tra secondo Quattrocento e primo Cinquecento, la libertà di mosse che consente un sovvertimento gerarchico, l’azione umana detiene ancora fermamente il primo posto. Certo, se ci si rivolge al Bellini, dossi collinari, case, cieli alti occupati da soffici nuvole, recitano già una parte importante, ma se ne stanno dietro, in sott’ordine, il che vale ancor di più per altri rappresentanti della «seconda maniera», per dirla col Vasari, quali Cima da Conegliano, Marco Basaiti, Andrea Previtali, non toccati dalla rivoluzione leonardesca della «maniera moderna» che scopre l’esistenza dell’atmosfera.
ORFEO E EURIDICE
Quanto a Tiziano, egli è certo il degno continuatore di Giorgione, e dunque, dietro ai suoi personaggi, si accendono albe o tramonti che respirano con ampi polmoni e sfumano con deliziose screziature, ma pur sempre facendo da sfondo ai dati della «storia», laica o religiosa che sia, grandeggianti in primo piano. Semmai, bisogna andare a cogliere il Vecellio in momenti di vacanza, quando il protagonista umano esce dalla ribalta, e i dati paesistici dominano in primo piano, come succede in Orfeo e Euridice. Ma, finito l’intervallo, i primi attori rientrano a occupare il posto principale. E anche spingendosi più avanti nel grande secolo veneziano, non è che il paesaggio la faccia da padrone, con Jacopo Bassano quello che conta è il peculio, cioè la solida proprietà di tante pecore cui va in primis l’attenzione del pittore. Quanto al Tintoretto, egli allaccia figure e fronde in un unico ghirigoro di tracce luminose fosforescenti. Il paesaggio, per rendersi davvero autonomo, deve attendere che arrivi il secolo successivo.

Corriere della Sera 3.3.12
Il cotto con lo sponsor in piazza. La disputa sul cuore di Firenze
Signoria, divide l'idea di rifare la vecchia pavimentazione

di Paolo Conti

ROMA — Più di qualsiasi ricostruzione virtuale, c'è l'efficacia immediata di un'immagine del 1498: il rogo di Girolamo Savonarola, opera attribuita (senza sicurezze) a Francesco Rosselli e conservata a Firenze al museo di San Marco. Lì piazza della Signoria, a Firenze, appare con il suo aspetto originario: soprattutto con i riquadri di marmo che incorniciano il pavimento di cotto veneziano. Proprio il calpestìo che oggi il sindaco di Firenze, tra mille polemiche, vorrebbe ripristinare, come ha spiegato nei giorni scorsi: «Potrebbe essere fatta dal 2015 in poi, ma sarebbe bello poterne discutere. Mi piacerebbe che si facesse lo sforzo per dialogare più serenamente». Il vulcanico sindaco di Firenze parte da un presupposto: «Piazza della Signoria sarebbe più bella se al posto di quel grigio delle pietre, che sono almeno di 4 tipi diversi, si potesse tornare al cotto. Su questo tema abbiamo già discusso in passato con i sovrintendenti ed è un'idea che io considero molto bella e che dovrebbe essere realizzata con sponsor: cioè non dovrebbe costare un centesimo ai cittadini».
Il pavimento in cotto in piazza della Signoria ha in effetti resistito per secoli, fino al 1795 quando Ferdinando III di Asburgo-Lorena, terzo Granduca del ramo della famiglia imperiale austriaca succeduta agli estinti Medici, decise di sostituire il rovinatissimo cotto con l'austera e resistentissima pietra grigia. Poi l'interminabile cantiere che sconvolse il cuore di Firenze tra il 1988 e il 1991, la decisione di riaffidarsi alla pietra, un risultato finale «moderno» che scontentò tutti.
Adesso la riapertura del dibattito su quel cotto che Ferdinando III dovette togliere dopo quasi quattrocento anni di servizio perché era diventato poco più che polvere. Una prima risposta dialogante è arrivata da Cristina Acidini, soprintendente del Polo museale fiorentino: «Visto che oggi abbiamo strumenti più efficaci, potremmo realizzare una ricostruzione virtuale della piazza e verificarne prima l'impatto. Non abbiamo fretta. Non c'è dubbio che attualmente la piazza subisca una pesante discontinuità e che rispetto alla sistemazione settecentesca sarebbero necessari interventi di riordino».
Favorevolissimo è per esempio l'architetto Paolo Portoghesi: «Mi pare un'ottima idea. La stessa che avanzai io esattamente vent'anni fa quando si trattò di ripavimentare la piazza. Oggi la piazza, con quel grigio su grigio, è poco percepibile e leggibile. Direi che tecnicamente, rispetto al cotto originale, sarebbe la rimozione di una superfetazione, cioè di una sovrapposizione, anche se storicizzata. Dal punto di vista delle teorie del restauro si tratterebbe di una scelta forse paradossale: ci vorrà un pizzico di eroismo, comunque benvenuto quando c'è immobilità». Dello stesso avviso Vittorio Sgarbi («Si toglierebbe una pavimentazione nuova e brutta per collocarne una di tipo "prettamente archeologico" e questo intento è senza dubbio positivo»). E anche Paolo Marconi, ordinario di Restauro architettonico a La Sapienza di Roma (sta, per esempio, finendo il restauro delle Scuderie della Venaria Reale a Torino): «Si tratterebbe di un intervento filologicamente correttissimo e si tradurrebbe in un bel complimento a Firenze. Bisognerebbe ritrovare tutte le immagini che raccontano quel cotto e metterne un tipo capace di resistere all'usura e al continuo cammino dei passanti».
Ma non tutti sono d'accordo. Fieramente ostile è per esempio Alberto Asor Rosa, critico letterario e scrittore, campione della battaglia contro l'ecomostro di Monticchiello e per la salvaguardia del Paesaggio in Italia: «Una proposta distruttiva almeno quanto lo possono essere interventi di degrado in ambito edile o territoriale. Anche l'antiquaria ed il restauro obbediscono alle leggi della storia. Se si dovesse ragionare col criterio di Renzi, dovremmo rifare il Colosseo e, perché no, magari in cemento armato. Dubito che si possa ritrovare il cotto così come si faceva nel Rinascimento». E poi c'è la Cgil, con Luca Pasqualetti della Funzione pubblica di Firenze: «È avvilente, i lavoratori e le lavoratrici dei servizi scolastici e dell'assistenza domiciliare sono in attesa di risposte per il loro posto, i nostri amministratori pensano bene di spendere i soldi dei contribuenti non nei servizi per i cittadini, ma, nella migliore delle ipotesi, per rifare il look ad un pezzo della città».

Repubblica 3.3.12
Finita la chioccia
Benvenuti nell’epoca della mamma tigre
"Ho imparato la tolleranza, la capacità di ascoltare e la gioia di vivere"
di Federico Rampini


Cinese o francese, purché non americana: qui la mamma piace d´importazione. Esattamente un anno fa l´America veniva scossa dal "ciclone" Amy Chua, la docente universitaria sino-americana che illustrò nel suo libro sulla "madre tigre" i pregi di un´educazione severa e repressiva di stampo asiatico-confuciano.
Più di recente, un tentativo di emulazione ha spacciato come superiori le madri francesi. Ne è seguita una divertente parodia di un umorista che sul Wall Street Journal si è divertito a immaginare i prossimi best seller, in un crescendo surreale di mamme mongole e boliviane. Il finale di quella parodia era dedicato al trionfo delle madri italiane e dei loro manicaretti. In Italia hanno abboccato scambiando lo sfottò per una vera "consacrazione": scherzi che gioca un deficit nazionale di autostima. Ma questo infortunio italiano ci riporta proprio all´inizio del gioco. Il libro più serio, quello di Amy Chua che ha dato il via al dibattito, ha avuto proprio il merito di rivelare una tremenda insicurezza nei genitori americani. Il successo del best seller è stato accompagnato da una sua lettura unilaterale: i commentatori - gli entusiasti e gli indignati - hanno ignorato i capitoli finali in cui la brillante Chua confessa alcune sconfitte, davanti alla ribellione adolescenziale della figlia minore. Gli americani, e soprattutto le americane, hanno voluto prendere dalla Chua solo un´esaltazione della "madre tigre". Perché? Questo fraintendimento è rivelatore.
Il fenomeno della "mamma tigre" avviene sullo sfondo di una psicosi del declino. Che è un fatto storico innegabile: il baricentro della forza economica, del dinamismo, torna a Oriente dopo cinque secoli di egemonia della razza bianca. Ma a questo ribaltamento delle gerarchie geostrategiche si accompagna un preciso riscontro nell´educazione: le classifiche Ocse ci dicono che i nostri ragazzi vengono su piuttosto ignoranti, rispetto ai loro coetanei cinesi, giapponesi, sudcoreani. Ed ecco che la decadenza dell´Occidente si proietta nel microcosmo familiare: dove sbagliano le mamme, se sui banchi di scuola finisce una generazione di serie B? La ricerca di "modelli esteri" in realtà rafforza una tendenza in atto da molti anni.
Le "mamme ebree" di New York godevano già di una fama leggendaria, per avere allevato geni della finanza e talenti dell´arte. Le loro concorrenti e rivali dell´alta borghesia Wasp (bianca e anglosassone) nell´Upper East Side di Manhattan, da trent´anni investono sull´istruzione dei figli allenandosi nella gimcana delle eliminatorie per iscriverli alle scuole più elitarie e selettive. La meritocrazia l´hanno inventata i cinesi ai tempi di Voltaire, ma poi la classe dirigente americana si è data da fare per non restare indietro. Mamme per prime, con gli artigli acuminati.

venerdì 2 marzo 2012

Firma anche tu per dire: ridateci l’Unità: su www.unita.it
l’Unità 2.3.12
«L’Unità ha reso le fabbriche più libere. L’attacco è gravissimo»
Il giurista associa la decisione della Fiat con le norme che ledono i diritti dei lavoratori:
dalla deregulation di Berlusconi alle minori tutele di sicurezza con Monti
di Natalia Lombardo


Una regressione culturale e politica bruttissima. Io sono abbastanza vecchio per ricordare formule di anni lontani nei quali si rivendicava il diritto di entrare in fabbrica con l’Unità in tasca». Stefano Rodotà, giurista, colloca l’esclusione del quotidiano dalla Magneti Marelli come il segno di un’ulteriore e pericolosa perdita di garanzie costituzionali.
Lei ricorda gli anni 5060, un passo indietro notevole. Come mai? «Portare l’Unità in tasca è stata una delle tante molle che hanno fatto inserire nello Statuto dei Lavoratori il divieto di raccogliere informazioni sulle opinioni politiche, sindacali e religiose dei lavoratori. Insomma, rendere la fabbrica come luogo agibile per tutte le opinioni. Un principio che va assolutamente mantenuto». La possibilità di formarsi un’opinione, è un diritto di base.
«Certo, questa è una regressione culturale e politica gravissima, in cui un giornale non ha diritto di cittadinanza in fabbrica. È il diritto dei lavoratori di poter manifestare la propria opinione, mantenere attraverso i giornali la comunicazione reciproca e l’informazione come elemento per costruire liberamente la propria personalità. Ecco, senza questo la fabbrica torna a essere off limits per le opinioni».
Marchionne il modernizzatore che torna alla Fiat di Valletta?
«Mi tornano alla mente espressioni del tipo: “La democrazia si ferma ai cancelli della fabbrica”. Tutto ciò che è avvenuto per rendere la fabbrica un luogo dove non si è prigionieri del datore di lavoro, ma persone, come vuole la Costituzione, perché l’articolo 3 afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale. Sono punti di civiltà, mentre l’erosione di garanzie sui diritti è molto inquietante. Un altro tassello perso è nell’articolo 8 della manovra di Ferragosto del governo Berlusconi, che permette intese aziendali anche “in deroga alle disposizioni di legge” e alle regole dei “contratti collettivi nazionali di lavoro". Umberto Romagnoli ha scritto che ciò può rappresentare la ine del diritto sul lavoro, così si azzerano in vari modi le garanzie. È una norma anticostituzionale di una gravità assoluta, infatti la Cgil ha annunciato il ricorso alla Consulta e stava partendo una raccolta di forme per un referendum abrogativo».
Tutto ciò è avvenuto perché si è abbassata la guardia sui diritti?
«Si è stratificata una debolezza politica e culturale, e questi sono gli esiti. L’episodio della bacheca chiusa alla Magneti Marelli è un segnale del fatto che l’imprenditore in fabbrica può aggirare e eludere i diritti costituzionali. Purtroppo da alcuni anni c’è una deriva, e non è finita, ovvero pensare che i lavoratori debbano essere normalizzati, quindi lo Statuto del lavoratori, l’articolo 18, sono considerati ostacoli. Con un tale clima ognuno tende a fare delle norme per sé».
La bacheca negata quindi non è un episodio da sottovalutare?
«Non è un episodio, è la rivelazione di un atteggiamento: qualcuno ritiene che ci sia un potere imprenditoriale che può interdire le libertà garantite dalla Costituzione, è un’aggressione alla dignità del lavoratore. Luigi Mengoni, un professore di diritto civile della Cattolica, non un rivoluzionario, sull’articolo 1 della Costituzione dice: “Il diritto del lavoro instaura l’antropologia definitiva del diritto moderno”. Ricostruiva la figura dell’uomo accompagnato dalla dignità, e non solo forza lavoro. Invece questi sono tutti attacchi alle garanzie: la scomparsa del riferimento alla legge, l’abbandono dei principi costituzionali e l’aggressione alla figura dell’uomo degno».
Una visione ottocentesca in pieno Terzo Millennio?
«Sì, una brutta visione. Una gigantesca regressione, la riaffermazione del potere illimitato dell’imprenditore. Fa il paio con la revisione dell’articolo 41 della Costituzione, che vorrebbe come valore preminente la logica di mercato e della concorrenza, con libertà di violare tre elementi base: sicurezza, libertà e dignità della persona. E la tutela della sicurezza sul lavoro ora viene ridotta dal decreto Monti».
Nel decreto sulle semplificazioni, un altro diritto intaccato?
«E sì, l’azienda si fa certificare così non si fanno le ispezioni? Non è possibile. Berlusconi e Sacconi hanno delegato a Marchionne la politica industriale e della fabbrica, ignorando il sistema di garanzie costituzionali e legislative dei diritti dei lavoratori. Ma così si abbassano le garanzie per tutti. E ora un altra lesione è nel’articolo 1 del decreto Monti sulle liberalizzazioni».

l’Unità 2.3.12
«Non esiste in natura»
Bersani boccia la Grande coalizione
Il segretario Pd: nel 2013 sfida tra schieramenti alternativi Confronto con De Benedetti che attacca Marchionne
e difende l’articolo 18: «Una puttanata questa discussione»
di Simone Collini


Il Pd lavora per dar vita a un’alleanza di centrosinistra perché nel 2013 non ci sarà una “Grande coalizione” ma una sfida tra schieramenti alternativi. Le mosse di Berlusconi vengono guardate con un misto di attenzione e scarso credito dai vertici dei Democratici. Se l’ex premier dice che il prossimo governo potrebbe essere sostenuto da membri politici di Pdl, Pd e Terzo polo, Bersani fa notare che una sorta di «partitone unico» come quello a cui sembra pensare Berlusconi «non esiste in natura»: «Io ho un’altra idea di democrazia dice il leader del Pd ho sempre la speranza che noi possiamo essere una democrazia rappresentativa, ancorché riformata, e che il nostro Paese possa vivere in una buona dialettica democratica». E si meraviglia, Bersani, che Berlusconi lanci una simile ipotesi dopo aver partecipato al vertice del Ppe a Bruxelles: «I governi non si fanno con il Cencelli, devono avere autorevolezza tecnica e politica, ai cittadini va offerta una scelta, questa è la mia idea di democrazia, e nel mondo funziona così».
Una linea ribadita anche da Rosy Bindi, per la quale Monti «non ha il compito di commissariare la politica», e da Dario Franceschini, per il quale nel 2013 non potrà esserci nessuna «ambiguità».
Del resto, che non possano convivere Pd e Pdl (o quale che sia il nome del partito con cui Berlusconi si ripresenterà nel 2013) si vede non appena si discute di qualche tema concreto, che siano le liberalizzazioni o l’articolo 18. Due questioni di cui Bersani parla durante un incontro dedicato al libro “Green Italy” di Ermete Realacci, a cui partecipa anche Carlo De Benedetti.
Il leader del Pd non ha apprezzato che tutti i partiti, senza distinzione, venissero descritti come assediati dalle lobby a proposito delle liberalizzazioni. «Le lobby vanno dal governo e vanno dai partiti. Ma c’è anche qualche partito che le rimanda indietro. Quando è toccato a noi abbiamo cancellato dieci milioni di licenze commerciali. Ebbene ognuno ha le sue tifoserie. Ma io ricordo che andavo dalla mia gente e dicevo che liberalizzare è di sinistra».
Ed è lo stesso De Benedetti a fare l’elogio delle «lenzuolate» approvate dal governo Prodi: «Le uniche vere liberalizzazioni in Italia sono venute con Bersani ministro dell’Industria». Sintonia, tra il leader del Pd e il patron del gruppo Espresso, anche sulla riforma del lavoro: «Togliamo di mezzo questa puttanata del dibattito sull’articolo 18. Faccio l’imprenditore da 54 anni e non mi ci sono mai imbattuto».
Molto critico De Benedetti è anche con Confindustria («Mi sembra una lobby stanca in cui la domanda più ricorrente è cosa fa il paese per noi e non cosa facciamo noi per il paese») e con l’amministratore delegato della Fiat: «Quando sento Marchionne che dichiara che torna in Italia se l’Italia gli fa fare le automobili, vorrei sapere cosa fa lui per fare automobili che si vendono. L’Italia ha già pagato più volte per la Fiat, ora è il caso che la Fiat dica cosa fa lei per l’Italia».
Tra De Benedetti e Bersani va anche in scena un botta e risposta sulla famosa tessera numero 1 del Pd, che l’Ingegnere aveva chiesto ai tempi della nascita del nuovo partito: «Non l’ho mai avuta, non ho capito se il Pd non l’hanno fatto o non me l’hanno data. Ma io non l’ho mai chiesta». Bersani sorride: «Il bambino l’abbiamo fatto, non è più un’ipotesi, è il primo partito del Paese. Comunque chiunque voglia dare una mano è il benvenuto».

La Stampa 2.3.12
Il Cavaliere torna in campo e scompiglia le file del Pd
di Marcello Sorgi


Mario Monti ha appena fatto in tempo, mercoledì, a dire che se il suo governo riuscirà a raggiungere i propri obiettivi non gli sarà chiesto di proseguire anche dopo il 2013: un modo elegante per far capire che i partiti lo aiutano fino a un certo punto a fare quel che è necessario e ad attuare il programma per cui è stato chiamato. Ed ecco Berlusconi di nuovo in campo, ieri, a obiettare che nel 2013 la formula della larga coalizione di Pdl, Pd e Terzo polo potrebbe rafforzarsi e continuare con l'ingresso nel governo di ministri politici dei tre partiti e con l'obiettivo di realizzare (o completare) il programma delle riforme più urgenti, dalla giustizia al fisco all'architettura istituzionale.
Mossa del tutto imprevista, visto che il leader del Pdl aveva annunciato che si sarebbe tenuto alla larga dalla campagna elettorale per le amministrative, non volendo mettere la faccia su una possibile sconfitta. E tuttavia logica, visto che salta del tutto l'appuntamento con le urne di maggio, per proiettarsi direttamente sulla partita grossa delle politiche dell’anno venturo, a cui tutti i partiti guardano con l'intenzione di chiudere insieme la parentesi del governo tecnico e la lunga epoca berlusconiana. Il Cavaliere, al contrario, con congruo anticipo, conferma che non ha intenzione di farsi da parte e punta a mettere in imbarazzo il Pd.
Bersani non ha potuto far altro - dando ascolto alle molte voci interne che si levano dal suo partito per escludere un prolungamento dell’attuale governo - che rispondere: un esecutivo fondato su un'alleanza pienamente politica e con ministri provenienti dai partiti della maggioranza per il Pd non esiste. Una dichiarazione secca, mirata a non indebolire Monti proprio nel momento più delicato del negoziato sul mercato del lavoro.
Così, per capire cosa ha spinto il Cavaliere alla sua inattesa uscita, non restano che due possibilità: una, più probabile, che l'abbia fatta proprio per mettere in difficoltà il Pd. L'altra, da non scartare, che abbia capito che il Pd non può vivere senza il suo innato antiberlusconismo e abbia provato di conseguenza a stuzzicarlo. Nell’un caso o nell’altro, Berlusconi è riuscito a scaldare una campagna elettorale fin qui addormentata dalla «cura Monti» e dalla rottura delle due coalizioni che si trovano simmetricamente metà al governo e metà all'opposizione. Con quali conseguenze, non ci sarà molto da attendere per vederlo.

l’Unità 2.3.12
Dati Istat: 2,3 milioni i senza lavoro, 9,2%. Il livello più alto dal 2004
La Cgil: servono risorse per bloccare i licenziamenti. Allarme inflazione
Il lavoro non c’è più Cresce ancora la disoccupazione
Ancora un record per la disoccupazione in Italia e in Europa. Nel nostro Paese tocca il 9,2 per cento, mentre la “giovanile” tocca il 31,1%. I sindacati compatti: bisogna fermare i licenziamenti
di Massimo Franchi


Puntuale come la miseria. Ogni primo del mese, da un anno a questa parte, arriva la notizia del nuovo picco toccato dalla disoccupazione e, ancor di più, da quella giovanile. I record di ieri sono: 9,2 per cento di disoccupazione; 31,1 per cento di disoccupazione giovanile che si avvicina sempre di più alla fatidica quota “uno su tre”.
Percentuali a parte, i dati netti fanno più impressione. Il numero dei disoccupati in Italia è pari a 2 milioni e 312mila e aumenta del 2,8 per cento rispetto a dicembre (64 mila persone in più). Su base annua l’aumento è addirittura del 14,1 per cento (286mila persone in più). Il tutto mentre l’occupazione, anche se timidamente, cresce: il tasso di occupazione è pari al 57,0 per cento, in aumento nel confronto congiunturale di 0,1 punti percentuali e di 0,2 punti in termini tendenziali, pari a 8mila persone in più. Ciò significa però che il numero di licenziamenti, rispetto ai mesi scorsi, ha iniziato a correre molto più velocemente. Ed è questo che denunciano i sindacati, senza eccezione.
SINDACATI: FERMARE LICENZIAMENTI
«I dati mostrano con tutta evidenza che il problema dovrebbe essere fermare i licenziamenti e non facilitare la flessibilità in uscita», attacca il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, mentre per il segretario generale aggiunto della Cisl Giorgio Santini «si tratta di dati che rendono ancor più necessario chiudere positivamente la trattativa sul mercato del lavoro». Per il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy «i dati non fanno altro che avallare l’emergenza di risposte ad un mercato del lavoro che ha bisogno sia di buoni strumenti di ingresso soprattutto per i più giovani sia di altri strumenti che incentivino e incoraggino una ripresa occupazionale», mentre il segretario generale dell’Ugl Giovanni Centrella sottolinea come «il governo deve convincersi che gli ammortizzatori sociali vanno rafforzati, quantitativamente e qualitativamente, con risorse vere».
La notizia sulla disoccupazione è arrivata il giorno dopo lo stop al tavolo sulla riforma del lavoro. Il tema della ricerca di risorse per finanziare la riforma degli ammortizzatori sociali è stato fatto proprio dalla ministra Elsa Fornero. Ora tocca al viceministro all’Economia Vittorio Grilli trovarle. Ma è sull’entità che ora si concentra la “battaglia”: da Palazzo Chigi filtrano stime da 1-2 miliardi di euro. Numeri che lasciano molto perplessi i sindacati: «Mi pare una cifra bassa spiega Fulvio Fammoni ma finché Fornero non ci illustrerà i criteri dei nuovi ammortizzatori nessuna stima può essere fatta: va stabilita la platea delle persone da coprire, la durata di cassa integrazione e disoccupazione e il livello di copertura. Senza questi punti fermi sono tutti numeri a caso», conclude Fammoni.
AUMENTA ANCHE L’INFLAZIONE
A completare una giornata negativa arriva poi il dato sull’inflazione. Le stime preliminari sul mese di febbraio parlano di un aumento del 3,3%, dal 3,2% di gennaio mentre su base mensile l’aumento è dello 0,4%. In un solo mese il carrello della spesa costa lo 0,7% in più: il rialzo maggiore dall'ottobre 2008.
Dall’Europa intanto non giungono notizie migliori. Nell’area Euro a gennaio si sono registrati 185 mila disoccupati in più, rispetto al mese precedente, con cui il totale è salito a 16 milioni 925 mila. In questo modo, ha riferito Eurostat, il tasso di disoccupazione ha stabilito un nuovo massimo dal lancio dell'Euro, al 10,7 per cento dal 10,6 per cento di dicembre. Rispetto al gennaio del 2011 risultano 1 milione 221 mila disoccupati in più nell'area Euro, che accusa una dinamica peggiore rispetto a tutta l’Unione europea a 27, dove la disoccupazione è al 10,1 per cento.
CONVEGNO SUL WELFARE DEL FUTURO
Il tema è dunque quello di rilanciare lo Stato sociale. E proprio di nuovo welfare si è parlato ieri (e si parlerà oggi) a Roma. «Cresce il Welfare, cresce l’Italia» è il titolo del convegno organizzato da Cgil e tantissime associazioni del Terzo Settore al centro congressi Frentani a Roma. La prima giornata è stata caratterizzata dagli interventi di Paolo Leon, Chiara Saraceno e Stefano Rodotà. Per Chiara Saraceno «in Grecia, Italia e Portogallo aumentano i poveri per le decisioni dei governi» mentre «i servizi spariti dall’agenda nazionale sono relegati solo a scelte dei Comuni».

l’Unità 2.3.12
Intervista a Paolo Leon
«Il Welfare serve. Il pareggio di bilancio è un’idea sbagliata»
Il professore: lo Stato sociale ha un effetto potente
Sostituisce beni altrimenti da pagare con il salario, è uno stabilizzatore automatico del ciclo economico
di Laura Matteucci


Lo stato sociale non è beneficenza, è un diritto. Rende più forte la democrazia, ed è anche un elemento di sviluppo economico. È chiaro che mantenerlo e migliorarlo ha un costo, che però produce guadagno; smantellarlo, invece, significa finire per spendere molto di più». L’economista Paolo Leon ha appena terminato il suo intervento alla Conferenza nazionale «Cresce il welfare, cresce l’Italia», promossa da una cinquantina di organizzazioni sociali, centrato sul tema «Le politiche sociali e lo sviluppo», rovesciando in pochi minuti l’orientamento diffuso in Italia e in tutta Europa per cui a pochi soldi in cassa debba corrispondere poco stato sociale nel Paese.
Ovunque in Europa i governi ci dicono che la priorità sono i conti e che per mantenerli sotto controllo bisogna tagliare: un problema per il welfare sia a livello centrale che locale, con i Comuni che hanno sempre meno risorse dedicate.
«La cultura dominante conservatrice ha dimenticato ragioni e finalità dello stato sociale. L’importante è il rigore di bilancio, con il pareggio messo addirittura come vincolo legislativo, qualcosa che suona come una composizione di interessi egoistici e mentalità medioevale, e che nulla ha a che fare con le ragioni dell’economia. In tutto questo si dimenticano i punti fondamentali: lo stato sociale ha un effetto economico potente, innanzitutto, perché sostituisce beni altrimenti da acquistare col proprio salario, e perciò riduce la conflittualità tra azienda e lavoratore. Inoltre è uno stabilizzatore automatico del ciclo economico, perché la spesa è invariabile e perché la sua assenza renderebbe le crisi molto più profonde. Altro elemento: fornisce una sicurezza ai cittadini che li spinge ad essere meno avversi al rischio, più imprenditivi. Il che spiega tra l’altro il fiorire in Italia di migliaia di piccole aziende. Tutto questo produce ricchezza in un Paese, senza contare i costi dell’esplosione della rabbia sociale quando, viceversa, il welfare si assottiglia. Ora, il punto è tornare a dare priorità a questi elementi, al principio generale su cui lo stato sociale universale si fonda». La vede possibile? Come si inverte la tendenza?
«Il problema si deve risolvere in Europa, non tanto in Italia. Ma finché domineranno le forze conservatrici, finché non verranno defenestrati Merkel e Sarkozy, non potrà succedere granché di positivo. Devono cambiare alcune condizioni, e non solo politiche. La Bce di Draghi, per esempio, invece di sostenere che il modello sociale europeo è in via di estinzione, dovrebbe finanziare con emissione di moneta i disavanzi pubblici, consentendo agli Stati di fuggire dalla strettoia di debito e deficit. Una funzione da creare, certo, ma che sarebbe molto utile. Ci vuole anche una grande unità a sinistra, parlo sempre a livello europeo, perché solo così si possono rovesciare definitivamente gli strascichi delle politiche targate Reagan-Thatcher».
Un’Europa più potente e più capace di strategie, dice: il caso Grecia non sembra averlo dimostrato.
«La Grecia andava aiutata meglio e prima. Impoverita, non avrà mai i soldi per pagare il debito. E ricordiamo pure che il debitore ha una funzione economica importante, è la sua spesa ad arricchire il creditore. Eppure, il capitalismo non è stato sempre così buio....».
Il tavolo sul lavoro: che opinione s’è fatto finora?
«Credo che il governo con abile mossa scambierà il mantenimento della cig straordinaria con l’articolo 18. E la difesa del lavoro verrà messa ancor più in difficoltà. Qui c’è un elemento di inganno: con la scusa di un mercato del lavoro diviso tra tutelati e non a causa di leggi italiane si cerca di rendere tutti precari. Per estendere le tutele ci vuole un sacco di soldi, sono strumenti che possono adottare solo le economie che crescono. E comunque è il lavoro che crea la ricchezza, non la cig o il sussidio di disoccupazione».
Ma il lavoro non c’è: nell’ultimo anno i disoccupati sono aumentati del 14%. Pensa che la riforma in costruzione possa servire a qualcosa?
«A nulla, direi. Deve aumentare la domanda di beni e servizi, se si riduce il costo del lavoro ma il fatturato delle aziende non cresce, queste avranno forse più margini ma non maggiore vendita. E la disoccupazione continuerà ad aumentare, senza peraltro contare gli scoraggiati: per forza, mancano le politiche conomiche. Del resto, il Pil diminuisce di due punti, le imprese abbandonano l’Italia, l’unico spiraglio di modesta crescita è che l’euro è un po’ meno caro rispetto a un anno fa, il che favorisce le esportazioni. Forse serviranno un po’ le liberalizzazioni, di certo potrebbe essere utile una diversa politica delle banche, in questo momento di diffuso strangolamento del credito: giusto l’altro giorno c’è stata una notevole immissione di liquidità da parte della Bce, non accompagnata però da un “consiglio”, un indirizzo alle banche su come usare i soldi. Finirà che investiranno in speculazioni finanziarie...».

l’Unità 2.3.12
Il documento
Una sinistra moderna fondata sulla persona e non solo sul mercato
La tesi della non sostenibilità del sistema sociale europeo è sbagliata
Va contrastata sul piano politico e culturale
Il pensiero cattolico può aiutare molto il Partito democratico
Pubblichiamo stralci della relazione che ha aperto ieri
il seminario sulla crisi e le risposte del riformismo, promosso da “Rifare l’Italia” di Fassina, Orfini, Orlando e Verducci
di Massimo D’Antoni

qui

Corriere della Sera 2.3.12
Vittime delle stragi naziste Roma e Berlino verso l'intesa
di P. L.


BERLINO — I risarcimenti alle vittime italiane delle stragi naziste non saranno archiviati per sempre. Ci sono buoni motivi di sperarlo, nonostante la sentenza della Corte internazionale dell'Aia che ha stabilito l'immunità giurisdizionale dello Stato tedesco e bloccato le cause avviate. Germania e Italia, infatti, inizieranno presto negoziati bilaterali per una «soluzione concordata» di una questione ancora aperta e dolorosa. Lo ha garantito al ministro della Giustizia Paola Severino la collega tedesca Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, convinta che sia necessario tenere conto delle «grandi sofferenze inferte in un momento così buio della storia». «Le sentenze vanno rispettate, ma altrettanto rispetto è dovuto alle vittime. La strada del negoziato va percorsa per non dimenticare i diritti dei familiari. E da parte tedesca è stata espressa la volontà di percorrerla», ha detto il Guardasigilli incontrando la stampa nell'ambasciata italiana. Erano stati gli stessi giudici dell'Onu a invitare le parti al dialogo e il ministro degli Esteri Guido Westerwelle aveva assicurato un mese fa che il problema sarebbe stato affrontato «in uno spirito di piena fiducia». «La nostra richiesta è stata pienamente accolta», ha spiegato Paola Severino. I colloqui di Berlino tra i due ministri sono serviti anche a fare il punto sulle riforme italiane nel settore della giustizia, come l'ampliamento della mediazione civile e l'istituzione del tribunale delle imprese. E in un Paese di risparmiatori come la Germania, è stato accolto con interesse il piano del governo Monti sulla revisione della geografia giudiziaria che prevede una diminuzione delle spese per 80 milioni di euro all'anno.

Corriere della Sera 2.3.12
Un metro e mezzo per un detenuto: le immagini-denuncia
di Antonio Crispino

Comincia oggi un viaggio sulla detenzione in Italia. Una videoinchiesta in quattro puntate di Corriere.it per tradurre in immagini e voci i numeri drammatici delle condizioni carcerarie.
Da Messina a Brescia, passando per Napoli, Roma, Pontremoli. Per toccare con mano cosa significa avere il peggiore sovraffollamento in Europa (148%) e il record di 68 mila detenuti stipati in spazi previsti per 45 mila persone.
La prima puntata parte oggi sul sito del Corriere della Sera dal carcere Gazzi di Messina. In una cella originariamente adibita al transito ci sono otto detenuti. Ognuno con a disposizione 1 metro e mezzo quadrato di spazio. Rinchiusi 23 ore su 24. Un solo water, proprio accanto al tavolino dove mangiano. I bisogni si fanno «a vista», davanti a tutti.
E poi l'abbandono nel centro clinico, dove si vede un anziano di 82 anni, malato, immobile su una branda insieme con altre undici persone. L'uomo verrà trasferito dopo la visita della telecamera di CorriereTv.
Da lì il viaggio passa a Roma, nel nuovo complesso di Rebibbia, ritenuto uno degli istituti detentivi più dignitosi. Da dietro le sbarre le grida di tredici persone ristrette in una ex sala adibita al ping pong. E il silenzio degli addetti che impediscono di andare a vedere e fare le riprese. E non sarà un caso isolato.
Nella seconda puntata il viaggio arriva in Lombardia, la regione con il più alto numero di detenuti. La visita è al Canton Mombello di Brescia. Un carcere al collasso. I detenuti sono il triplo di quelli che la struttura (vecchia e inadeguata) può contenere. Il 70% sono extracomunitari. C'è da capire perché, nonostante rappresentino solo l'8% della popolazione italiana, gli extracomunitari siano così sovrarappresentati in carcere. Per non parlare poi della rieducazione che non c'è e delle conseguenze per tutti di un sistema che non funziona.
Nella puntata successiva l'obiettivo è diretto su quella che è definita la zona d'ombra del carcere: la violenza dietro le sbarre. Quella subita dai detenuti ad opera degli operatori penitenziari ma anche quella che vede come vittime la polizia penitenziaria o i medici. Un argomento che spesso resta tabù per la difficoltà di far luce su episodi archiviati con troppa fretta. E poi il lavoro in carcere usato per mettere a tacere le proteste.
L'ultima puntata sarà dedicata alle donne e ai minori dietro le sbarre. Cercando di capire i perché di una legislazione carente, dei tanti luoghi comuni e dei pregiudizi che impediscono un approccio più corretto all'argomento. E infine i volontari, che salvano il salvabile.

Corriere della Sera 2.3.12
«Sì all'infanticidio» Lo studio contestato


MILANO — Minacce di morte. La condanna di gruppi religiosi e pro-life. E un fondo di Avvenire che parla di un «crepuscolo disumano della civiltà occidentale». Francesca Minerva, ricercatrice italiana all'università di Melbourne, ribadisce che il suo lavoro pubblicato sul Journal of Medical Ethics è «discussione teorica». Per molti è una provocazione inaccettabile. A partire dal titolo: «Aborto dopo la nascita, perché il neonato dovrebbe vivere?». La tesi di Minerva e di Alberto Giubilini, anche lui ricercatore italiano a Melbourne: il neonato è come il feto, non ha un «diritto morale» alla vita. «L'uccisione di un neonato potrebbe essere eticamente ammissibile in tutte le circostanze in cui lo è l'aborto».

Repubblica 2.3.12
Articolo-shock sul "Journal of Medical Ethics". "È legittimo come l´aborto". Pioggia di mail di insulti alla rivista. Avvenire: "Un orrore"
"Sì all´infanticidio", bufera su due ricercatori italiani


ROMA - Non c´è differenza c´è tra l´aborto e l´uccisione di un neonato, sostengono due giovani bioeticisti italiani emigrati in Australia. «Né il feto né il neonato hanno ancora lo status morale di persona» scrivono Alberto Giubilini e Francesca Minerva in un articolo sulla rivista specializzata Journal of Medical Ethics. «E poiché l´adozione non è sempre nel loro interesse, si può concludere che l´aborto post-nascita (l´uccisione di un neonato) è ammissibile in tutti i casi in cui l´aborto lo è. Inclusa l´ipotesi in cui il bambino nasca disabile».
Alberto Giubilini, lavora alla Monash University di Melbourne, ma è affiliato anche all´università di Milano dove ha da poco completato il dottorato. Francesca Minerva lavora invece all´università di Melbourne, sempre come esperta in bioetica e filosofia. I due giovani studiosi per le loro tesi - peraltro non nuove nel campo della bioetica - hanno ricevuto delle minacce di morte, mentre la rivista si è vista recapitare decine di mail di insulti e il suo direttore, Julian Savulescu - docente di etica all´università di Oxford - è dovuto intervenire per difendere la scelta di pubblicare l´articolo: «Lo scopo della rivista non è affermare la Verità, ma presentare opinioni ragionevoli». Secondo Giubilini e Minerva «sia il feto che il neonato sono privi di quelle caratteristiche che giustificano il diritto alla vita». Di «sgomento» in Italia ha parlato L´Avvenire: «Un orrore. A fare scalpore non è solo il contenuto del saggio, ma anche il prestigio accademico di cui godono certi argomenti».

Repubblica 2.3.12
Editoria, i fondi per il 2012 salgono da 47 a 120 milioni


ROMA - «I fondi per l´editoria per il 2012 salgono da 47 a 120 milioni». Franco Siddi, segretario della Federazione nazionale della stampa, annuncia la schiarita sulla sorte di molte testate alla fine di un colloquio con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Paolo Peluffo. Siddi spiega che «50 milioni arriveranno dal fondo di emergenza della presidenza del Consiglio e altri 23 dal recupero di risorse da risparmi interni dell´amministrazione».
La notizia, confermata da fonti governative, fa tirare un sospiro di sollievo in molte redazioni - tra cui Liberazione e il manifesto - a rischio chiusura. «Poiché entro il 2014 dovranno esserci nuove norme - spiega il segretario della Fnsi - era importante evitare che lo Stato nel frattempo staccasse la spina e molte testate non potessero nemmeno arrivare al 2014 con l´impoverimento dell´occupazione e del pluralismo. Il presidente Monti e il sottosegretario Peluffo hanno mantenuto gli impegni presi».

Repubblica 2.3.12
Quarto potere
Così D’Avanzo ha svelato le menzogne italiane
di Carlo Galli


Una mutazione colta mentre avveniva, negli scandali di cui è stata intessuta l´esperienza di governo del Cavaliere
Un perverso cortocircuito di manipolazione e falsità che non è più cronaca e non è ancora storia: forse, ne stiamo a fatica uscendo
"Il guscio vuoto" è il libro che raccoglie gli scritti del grande cronista scomparso
È il racconto di come è stata svuotata, negli ultimi 20 anni, la nostra democrazia

Si legge con passione, con piacere intellettuale, con ammirazione per il rigore dell´argomentazione e dello stile, con partecipazione non solo civile ma emotiva, e anche con angoscia, la raccolta di articoli di Giuseppe d´Avanzo per Repubblica, che Laterza ora pubblica col titolo Il guscio vuoto. Metamorfosi di una democrazia (Prefazione di Franco Cordero). È un libro i cui capitoli sono stati scritti giorno per giorno, con un assiduo lavoro di documentazione, di analisi, di critica, di smascheramento, che racconta la mutazione della politica e della società nell´Italia berlusconiana. Una mutazione che D´Avanzo ha colto mentre avveniva, leggendola nelle vicende della cronaca, nei mille scandali di cui è stata intessuta l´esperienza di governo della destra, e che ha descritto, nella sua pervasività, nella sua sistematicità, come il nuovo paradigma della politica postmoderna, come lo smottamento di una democrazia di impianto moderno in una informe Cosa postmoderna.
La chiave per decifrare questo passaggio sta in una coppia di concetti, eccezione e menzogna, che in sinergia reciproca hanno smontato i dispositivi e gli apparati dello Stato democratico costituzionale di diritto. Il cui funzionamento esige categorie, concetti, istituzioni e procedure fondate sulla ragione, sul senso della realtà e sullo sforzo cosciente e collettivo di progettarne trasformazioni, in un orizzonte di trasparenza e di partecipazione. L´età berlusconiana, invece, non ha nulla di questa chiarezza e di questa distinzione: il suo segno è piuttosto l´alterazione dei fatti, la confusione, la menzogna. Ovvero, è la narrazione mistificante, l´autocratica manipolazione del reale, interamente trasformato in rappresentazione e sostituito dall´immaginario. È attraverso la comunicazione e l´affabulazione, e non attraverso la Costituzione, che è passata la potenza politica di Berlusconi, cioè attraverso l´officina delle illusioni del populismo, da una parte, e la "fabbrica della menzogna" dall´altra: i falsi casi Boffo e Fini, e gli incredibili e spudorati sofismi per costruirsi con ogni strumento immunità e impunità, sono stati parti di una tecnica di governo che D´Avanzo ha implacabilmente denunciato e decifrato in tempo reale.
Questo illusionismo non è un gioco di prestigio: obbedisce a interessi precisi – del Capo che si pone sopra le leggi, e dei suoi soci in affari di ogni tipo – , e diviene efficace grazie all´uso sistematico dell´eccezione, ovvero alla confusione fra i poteri dello Stato, alla loro utilizzazione extra-istituzionale, al complessivo passaggio dallo Stato delle Leggi allo Stato dei Decreti. Da Bolzaneto alla gestione dell´immigrazione fino al governo, davvero biopolitico, dell´eterna emergenza di Napoli, il caso d´eccezione utilizzato per forzare le architetture della legalità e della Costituzione, il vuoto di diritto e di verità che ne conseguono, l´arbitrio di chi vuole avere l´intera realtà politica e sociale a propria piena e illimitata disposizione, si mostrano come l´altra faccia della riduzione della realtà a finzione. Parallelamente alla sua spettacolarizzazione, la politica diventa quindi opaca, si ritira dalle istituzioni democratiche – formalmente intatte ma sotto stress e svuotate di ogni efficacia – , si verticalizza e si concentra là dove si decidono le campagne di stampa e di televisione, dove si programma la macchina del fango per gli avversari politici, dove si architettano le vie brevi per scavalcare le norme, per sostituire a queste la normalità dell´eccezione, l´iterazione della decisione. La decisione, infatti, non è mai presa per dirimere realmente una questione, ma per lasciarla sempre aperta, perché anche in futuro si debba ricorrere a nuove decisioni, mai al diritto. Il potere non sta nello stabilizzare, nel normalizzare, ma nel togliere prevedibilità e certezza alla vita politica e sociale.
La democrazia è sostituita dall´intrecciarsi della manipolazione e della decisione, dalla confusione dei poteri e dalla confusione della realtà, dalla creazione di un mondo tanto immaginario – in cui nulla è ciò che è, e tutto è ciò che sembra, e in cui si può far sembrare vera qualunque cosa – quanto, evidentemente, instabile. Appunto in questa manipolazione senza limiti del reale, che d´Avanzo rende viva e palpitante nelle sue pagine, sta l´essenza stessa della destra.
Questa volontà di potenza – di Uno, osannato da molti – è parsa straordinariamente efficace. E lo è stata, per almeno due lustri. Ma è stata al tempo stesso anche inefficace, proprio perché non ha mai voluto risolvere i problemi collettivi, ma solo dissolverli in nebbia mediatica, ai concretissimi fini individuali del Capo. E la realtà si è vendicata, si sta vendicando. E ha imposto l´allontanamento dal potere dell´illusionista, e la sua sostituzione con élites serie e competenti, che con grandi sforzi – loro, e di tutti i cittadini – stanno riportando l´Italia a contatto con i problemi reali, enormi, che Berlusconi non ha neppure scalfito. Ma quel perverso cortocircuito di eccezione e di menzogna se non è più cronaca non è ancora storia: anche se, forse, ce ne stiamo faticosamente uscendo, continua a prenderci letteralmente alla gola, e ci appare come un rischio che sarà presente, finché questa fase politica che non avrà trovato nuovi equilibri. È questo rischio che dà al libro di D´Avanzo un significato non solo documentario ma anche civile; che ne fa un esempio di critica di ciò che ancora serve e servirà all´Italia: il coraggio di smascherare la menzogna e la passione per la realtà e per la verità.

Repubblica 2.3.12
Il vero profitto
Nussbaum, la filosofia del talento
“Investiamo su capacità e diritti”
di Roberto Festa


"Non ci si può fissare sui redditi, dobbiamo pensare alle reali libertà delle persone"
"Contano scuola e salute, emozioni ed immaginazione Queste cose danno qualità"
L´ultimo saggio della studiosa è una sorta di manifesto "Contro la dittatura del Pil", per un´altra ricchezza

«Per troppi anni abbiamo sopravvalutato il Pil, che non è un indicatore reale della qualità della vita. Sono altre le cose importanti, che rivelano la ricchezza di un Paese: sanità, educazione, rispetto delle minoranze, emozioni ed immaginazione». Martha Nussbaum, celebre per i suoi studi su etica, cittadinanza, mondo classico, educazione, sessualità, dice di aver pensato a Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil come a un´introduzione generale alla teoria dell´approccio delle capacità. «Me lo chiedevano insegnanti, lettori, persone impegnate nel settore dello sviluppo».
Poi, durante la fase dell´elaborazione e della scrittura, il discorso si è allargato. Le prospettive si sono arricchite. E questa teoria del Welfare, largamente discussa dagli economisti - Amartya Sen, James Foster, Sudir Anand - , utilizzata da grandi istituzioni internazionali come lo United Nations Development Programme, è diventata un modo per approfondire le cose da sempre più importanti per la Nussbaum: giustizia sociale, pluralismo, diritti, libertà di scelta.
Perché il Pil non è un buon indicatore della ricchezza di un Paese?
«Per due ragioni. Anzitutto, il Pil è una media, non prende in considerazione distribuzione della ricchezza e ineguaglianze. Anni fa il Sudafrica aveva un Pil altissimo e pareva lanciato sulla strada di uno sviluppo travolgente. I numeri trascuravano però il fatto che il 90% della popolazione era esclusa da questa ricchezza. In secondo luogo, il Pil non riesce a descrivere aspetti centrali dell´esperienza umana. Ci sono Paesi economicamente molto forti, che trascurano completamente la sanità e hanno un sistema educativo diseguale. È il caso degli Stati Uniti. Ci sono Paesi con ottimi Pil e scarse libertà religiose e politiche. È il caso della Cina».
In che modo l´approccio delle capacità è un modello migliore, più capace di rappresentare la reale ricchezza di un Paese?
«Perché permette di fissarci non più sui redditi, sui beni materiali, sulla percentuale pro capite del prodotto interno lordo, ma sulle "capacità" di uomini e donne: la loro libertà di scelta, le loro opportunità, che sono poi la combinazione delle doti e delle conoscenze di ciascuno all´interno di un determinato contesto sociale, economico, politico».
Lei identifica dieci "capacità", dieci "diritti universali" di cui ogni uomo dovrebbe godere. Tra questi, il diritto alla vita, alla salute, all´appartenenza. Ci sono però elementi - l´immaginazione, le emozioni - che pare difficile considerare diritti di rilievo pubblico...
«Immaginazione ed emozioni sono aspetti centrali dell´esperienza umana, e non fanno semplicemente parte della sfera privata. Pensiamo per esempio ai problemi di salute emotiva delle donne. Violenza domestica, stato di minorità sociale, paura di aggressioni e stupri nutrono e guastano le emozioni delle donne. Perché le donne non possono camminare la notte, da sole, senza provare spesso un sentimento di terrore? Perché la sfera pubblica - polizia, politica, leggi - non le tutela a sufficienza. Stesso discorso per l´immaginazione. Se la scuola educa i ragazzi costringendoli a una memorizzazione piatta, non stimola l´immaginazione. Con grave danno per la società e l´economia, dove la capacità di innovare e immaginare soluzioni nuove è cruciale».
Cosa risponde a chi rimprovera a questo modello un´eccessiva concentrazione sulle opportunità, piuttosto che sulle realizzazioni?
«Guardi, io non credo alla necessità di dire alla gente come comportarsi e vivere. Credo si debbano rimuovere gli ostacoli, offrire opportunità. Poi ognuno decide, sulla base delle proprie competenze, tradizioni, predilezioni. L´approccio delle capacità dice che ogni essere umano deve godere di un certo diritto alla salute, alle libertà politiche e religiose. Non chiede alle persone di agire in un certo modo, né si immischia con le coscienze individuali. Le faccio un esempio: l´obbligo di votare. Ci sono religioni, come quella degli Amish negli Stati Uniti, che impongono di non partecipare alla vita politica. È un loro diritto. Quello che le istituzioni statali e di governo devono fare è offrire strumenti di partecipazione, un´educazione adeguata, il diritto di arrivare fisicamente al seggio, la trasparenza delle procedure di voto. Poi, spetta al singolo decidere se collocare la scheda nell´urna».
L´approccio delle capacità è più un modello di rilevazione della ricchezza o più una teoria di giustizia sociale?
«È entrambe le cose. Per gli economisti, è stato un modello utile a misurare la qualità della vita nell´ambito di una teoria di Welfare avanzato. Per me, è stato un modello di giustizia e un appello all´azione. Quando si usa il termine giustizia e si afferma che un Paese che non rispetta determinati standard su sanità ed educazione non è giusto, si dà un enorme impulso all´azione. Penso al caso del Giappone, per decenni in cima a tutte le tabelle del Pil, ma che precipitò nelle classifiche, quando le istituzioni di sviluppo mondiali cominciarono a prendere in esame indicatori come il gender, il genere. Be´, negli ultimi anni molto è stato fatto in Giappone per migliorare la condizione delle donne. La teoria dell´approccio delle capacità, con la lista dei diritti che devono essere garantiti a ogni persona, ha fissato gli standard minimi per una vita decente ed è stata una grande alleata del movimento mondiale per i diritti umani».
Lei, Amartya Sen, gli altri teorici delle capacità rilanciate una teoria del Welfare in un momento di riduzione della spesa sociale in tutto il mondo. Non vi sembra una posizione antistorica?
«No. Sicuramente l´approccio delle capacità non corrisponde a certi trend del mio Paese, gli Stati Uniti. Ma sono convinta che, nonostante le difficoltà, l´Europa rappresenti ancora un luogo dove sicurezza e protezione sociale sono beni da tutelare. È a quel mondo che guardano quelli come me».
Eppure in Italia è aperta una discussione politica e culturale sull´abolizione dell´articolo 18. Per alcuni è una necessità, renderebbe più dinamico il mercato del lavoro. Per altri è un attacco a un diritto essenziale. Cosa risponde, sulla base dell´approccio delle capacità?
«Rispondo che il lavoro è un diritto ineliminabile di ogni uomo, e quindi lo Stato deve fare di tutto per garantirlo, al più alto numero di uomini e donne e per buona parte della loro vita. Penso per esempio al caso dell´India, dove il Congresso ha votato un numero minimo e stabilito di giornate di lavoro annue per ogni famiglia di agricoltori. Non vivere attraverso il proprio lavoro compromette la dignità umana. Per essere giuste, le politiche devono essere rivolte alla piena occupazione».

Repubblica 2.3.12
Eve Ensler ha fatto un libro raccogliendo testimonianze sulla violenza di genere
Quei nuovi monologhi in difesa delle donne
di Michela Marzano


L´autrice, che ha organizzato i V-day, sarà a Milano il 2 aprile per leggere i testi. Stavolta al volume partecipano molti autori celebri, compreso Dave Eggers

È conosciuta per i suoi Monologhi della vagina. Ormai tradotti in più di trenta lingue e portati in scena ogni anno in tutto il mondo. Ma Eve Ensler non è solo l´autrice di questa famosa pièce teatrale diventata un simbolo per molte. È anche e soprattutto una scrittrice impegnata e una femminista convinta che, da più di vent´anni, si batte contro le violenze sulle donne. La Ensler vuole che la gente si renda conto che, nonostante tutti i progressi e i discorsi e l´impegno, la violenza che subiscono le donne continua ad essere uno dei più grandi flagelli contemporanei. E per questo ha deciso di non fermarsi mai.
Così dopo aver dato vita nel 1998 al movimento del V-Day, che ogni anno organizza eventi e manifestazioni creative (sarà a Milano il 2 aprile al teatro dell´Elfo Puccini), continua a scrivere, a recitare, a pubblicare. Perché l´arma più efficace contro la violenza è la parola: parole per dire quello che per tanto tempo si è taciuto, parole per battere la vergogna, il senso di colpa, la paura, la solitudine.
Un metodo, il suo, che ha infranto molti tabù. "Parlare del non detto. Parlare del già detto in modo nuovo e vitale, parlare del dolore, parlare della fame. Parlare. Parlare della violenza sulle donne". È così che inizia l´ultimo libro di Eve Ensler, A Memory, a Monologue, a Rant and a Prayer. Una raccolta di memorie, monologhi, invettive e preghiere recitate a New York nel 2006, durante il festival Until the Violence Stops. Una serie di testi inediti sul tema delle violenze contro le donne che la Ensler aveva chiesto a scrittrici e scrittori (c´è anche Dave Eggers) per invitare i newyorchesi a prendere posizione e fare in modo che il mondo diventasse un luogo più sicuro per tutte le donne e tutte le bambine. Perché il meccanismo della violenza è perverso: non solo controlla e sminuisce le donne mantenendole al "loro posto", ma le distrugge. Visto che è estremamente difficile, per una donna che subisce violenze e umiliazioni, confessare ciò che ha vissuto o continua a vivere. Le parole mancano, si balbetta, non si riesce a spiegare esattamente ciò che è successo. Ci vogliono anni per poter riuscire ad integrare questi "pezzi di vita" all´interno di un racconto coerente. Eppure è solo raccontando le storie di questa violenza che si può legittimare l´esperienza femminile, svelando ciò che accade nell´oscurità, lontano dagli sguardi. Quando tutto sembra "perfetto", come il matrimonio di cui parla Edward Albee e che dopo qualche anno si frantuma, perché "lui" ama i lividi e il sangue, mentre "lei" non sa più che fare: "Chi ero io? Chi sono io? Non c´è niente da fare. Non posso andarmene". È solo scrivendo che si può veramente denunciare la barbarie del razzismo, quando sembra "normale" che una donna di colore sia violentata perché "il suo corpo, come i corpi di tutte le donne nere, non le è mai appartenuto davvero; o forse non è mai appartenuto solo a lei", come scrive Michael Eric Dyson. Solo le parole possono trasformarsi in preghiera, perché per fermare questa violenza, come dice Alice Walzer, la donna deve cominciare a "fermare la violenza contro se stessa".
L´antologia curata da Eve Ensler è libro particolare ed emozionante, tradotto ora anche in italiano da Annalisa Carena per Piemme. I monologhi e le invettive non sono tutti dello stesso livello. Ma esistono alcune perle che rendono il libro molto bello. Peccato che l´editore italiano abbia voluto cambiare il titolo per trasformarlo in un ormai banale: Se non ora quando? Anche perché l´antologia curata dalla Ensler non è solo un "evento editoriale". Era nato perché la parola delle donne si liberasse all´insegna della lettera "V" (Vittoria, Valentino - visto che il primo fu fatto il 14 febbraio - Vagina) del V-Day. Ma poi è diventato un´opera narrativa, sociale, politica, il cui messaggio universale non può ridursi ad un semplice slogan.
Certo, non si potrà mai definitivamente eliminare l´ambiguità profonda che ogni essere umano si porta dentro. Nessuno di noi è immune dall´odio, dall´invidia, dalla volontà di dominio. Ma le parole aiutano a ritrovare un senso. Aiutano, non solo a dire, ma anche a fare, come hanno spiegato bene i filosofi americani Austin e Searle. Perché il linguaggio è sempre performativo. È un azione, che può cambiare il mondo.

La Stampa 2.3.12
Come valuta di riserva lo yuan cinese è sempre meno credibile
di Johon Foley


La marcia della Cina verso il predominio sul mercato delle valute sembra diventata un po’ più lunga. Secondo i dati del 1˚ marzo, a gennaio i depositi di yuan detenuti a Hong Kong hanno registrato una diminuzione, che a partire dalla fine di novembre a oggi è arrivata all’8%. Di fronte a minori prospettive di apprezzamento dello yuan, gli investitori esteri hanno molte ragioni in meno per detenere la divisa cinese. E questo, per una moneta che aspira a diventare valuta di riserva, non è un ostacolo da poco.
Quando lo yuan sembrava sottovalutato, tutti lo volevano. Oggi si continuano ad aprire nuovi canali per l’acquisto di yuan e si parla di istituire nuovi hub di scambio a Londra e in altre città. Ma in questo momento è difficile immaginare perché gli investitori dovrebbero utilizzarli. Il valore dello yuan sembra abbastanza corretto. Con il rallentamento dell’economia, non vi sono molti fattori che possano determinare un suo deciso rialzo. D’altra parte, lo yuan non è pronto a diventare una valuta di riserva perché la Cina non presenta i requisiti necessari: inflazione stabile, politiche trasparenti e libera convertibilità.
Le banche cinesi, che erano solite acquistare fondi offshore, hanno iniziato a rimpatriare il denaro per sostenere i propri bilanci. Anche le aziende sembrano adottare la stessa linea, a giudicare dall’inspiegabile impennata dei flussi legati agli scambi registrata a dicembre. Del resto, i depositi in yuan detenuti a Hong Kong hanno ancora un misero rendimento dello 0,5%, contro il tasso a tre mesi del 3,1% applicato nella Cina continentale. Nel periodo in cui i depositi in yuan si stavano gonfiando, sembrava che Pechino potesse eludere la necessità di offrire agli investitori la piena convertibilità della valuta, offrendo in cambio la prospettiva di un sostanziale apprezzamento del renminbi. Anche senza questi profitti, la Cina arriverà un giorno ad avere una valuta globale; quando però si tratta di detronizzare il dollaro, non esistono scorciatoie per nessuno.

l’Unità 2.3.12
Quanti errori sulla vita di Gramsci
Soprattutto nelle interpretazioni legate agli anni del carcere. Come la ricostruzione proposta da Dario Biocca che fa riferimento a una richiesta di «libertà condizionale» che il fondatore del Pci, in realtà, non presentò mai
di Piero Naldi


Purtroppo è ormai lunga la serie degli scritti che propongono ricostruzioni di aspetti della vita di Antonio Gramsci, e in particolare delle vicende che la segnarono dal 1926 al 1937, gli anni del carcere, basate su gravi errori interpretativi, se non addirittura su contraffazioni. Su questa linea, probabilmente in modo non voluto, si colloca anche un articolo a firma di Dario Biocca pubblicato il 25 febbraio da La Repubblica. Alcune delle considerazioni che si possono leggere in quell’articolo, che in realtà riassume il contenuto di un saggio in corso di pubblicazione sulla rivista Nuova Storia Contemporanea, sono svolte in modo troppo sintetico per poterle discutere senza attendere la pubblicazione del saggio completo. Ma quanto si afferma sulla richiesta presentata da Gramsci nel settembre del 1934 di accedere ai benefici previsti dalla legge per la concessione della libertà condizionale e si tratta del punto più importante discusso nell’articolo è espresso con grande chiarezza e merita già ora una risposta altrettanto chiara.
Secondo la ricostruzione proposta da Biocca, l’articolo 176 del Codice Penale in vigore negli anni in cui Gramsci presentò quella richiesta prevedeva che a tal fine il detenuto dovesse aver mostrato «ravvedimento», e che in questo senso la procedura poteva e può essere considerata «analoga alla domanda di grazia». Ma tutto ciò bisogna dire che semplicemente non è vero. Un riferimento al «ravvedimento» era contenuto nell’articolo 16 del Codice Penale del 1889 (il cosiddetto «Codice Zanardelli»): «Il condannato alla reclusione per un tempo superiore ai tre anni, che abbia scontato tre quarti della pena e non meno di tre anni, se si tratti della reclusione, o la metà, se si tratti della detenzione, e abbia tenuto tale condotta da far presumere il suo ravvedimento, può, a sua istanza, ottenere la liberazione condizionale, sempre che il rimanente della pena non supera i tre anni» (Codice Penale per il Regno d’Italia, Roma, Stamperia Reale, 1889). Ma questo codice fu riformato nel 1930 con l’introduzione del cosiddetto «Codice Rocco». E nel Codice Rocco l’articolo 176 recitava in questo modo: «Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni» (Il nuovo codice penale, Edizioni nuovo diritto, Roma, 1931; Codice Penale, Hoepli, Milano, 1939).
QUALE TRADIMENTO
Dunque la richiesta di liberazione condizionale presentata da Gramsci nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la «buona condotta» è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche il semplice sospetto che egli volesse presentarla. E anche la dichiarazione che Gramsci firmò nell’autunno del 1934 impegnandosi a non utilizzare il beneficio ottenuto per fare propaganda politica in Italia o all’estero non aveva nulla a che fare con una «sottomissione» o un «ravvedimento»... Certamente anche Mussolini sapeva che su questo terreno Gramsci non avrebbe accettato compromessi e capiva che era inutile sperare in una sua capitolazione. Forse però Biocca non ha studiato né il Codice Zanardelli, né il Codice in vigore negli anni Trenta, ma il testo dell’articolo 176 secondo le modifiche introdotte nell’anno 1962; infatti è da questo che Biocca cita: «Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale» (Codice Penale, Giuffrè Editore, Milano, 1987) ... non era questo il testo in vigore quando Gramsci presentava la sua domanda. Ovviamente tutto ciò toglie ogni fondamento alle affermazioni di Biocca circa la possibilità che, presentando una richiesta di liberazione condizionale, Gramsci «tradisse» i propri compagni di partito.

La Stampa 2.3.12
Gramsci, il mistero del quaderno scomparso
di Mario Baudino


L’inconsapevole Julca «Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto, di cui il tribunale speciale non è stato che l’indicazione esterna e materiale, che ha compilato l’atto legale di condanna. Devo dire che tra questi “condannatori” c’è stata anche Julca». Così il padre del comunismo italiano scriveva a Tania il 27 febbraio 1933. Julca è il nome della sua prima moglie, ma nel linguaggio cifrato della lettera allude al blocco comunista. Il documento è noto, ed è stato oggetto di ampie discussioni. Ora però il linguista Franco Lo Piparo, nel suo I due carceri di Gramsci (Donzelli), è andato oltre. E studiando appunto da linguista questa e altre lettere, è giunto a conclusioni che hanno riacceso lo scandalo. Una su tutte: è indubbiamente sparito un «quaderno dal carcere»: dovevano essere 34, Togliatti ne ha fatti pubblicare 33. Il leader del Pci avrebbe insomma censurato gli ultimi scritti, quando Gramsci, ormai in libertà condizionata, si sarebbe molto allontanato dalla politica del partito e forse dalla stessa idea di comunismo. Immediato il seguito di stroncature anche piuttosto indignate (per esempio sul Manifesto e sull’ Unità ) ma anche di forti aperture di credito, come quella di Luciano Canfora - che non è certo un «revisionista» - sul Corriere . Rimane Julca, che per Gramsci è inconsapevole, e quindi innocente. Ma non l’ambiente che essa rappresenta, spiega Lo Piparo, quello cioè di «altre persone meno inconscie». Le stesse che avevano interesse a far sparire il quaderno?

Corriere della Sera 2.3.12
Tanti saluti al progresso È il tramonto di un'idea
Sono venute meno molte illusioni del passato
di Giuseppe Bedeschi


P er molto tempo la cultura europea ha nutrito una ferma fede nel progresso: essa ha creduto che il cammino della civiltà non avrebbe incontrato ostacoli né subito interruzioni, e che avrebbe accumulato conquiste (non solo scientifiche e tecniche, ma anche morali e politiche) sempre più elevate. Nel Settecento, questa è stata la convinzione di autori come Voltaire, Turgot, Condorcet (il cui Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain è del 1793). Nell'Ottocento l'idea di progresso ha costituito il fulcro delle concezioni di tre giganti del pensiero: Hegel, Comte e Marx.
Potente e suggestivo il disegno tracciato da Hegel. Per lui la storia universale era stata un processo ascendente, nel quale il popolo più evoluto in una data epoca aveva espresso un principio, che comprendeva in sé tutti i principi dei popoli passati, tutte le loro conquiste (nulla andava perduto nella storia), ma in una sintesi nuova e più ricca. Tale processo tendeva a una meta, a un fine ultimo: la piena realizzazione della libertà. E infatti nel mondo orientale uno solo era libero; nel mondo greco-romano solo alcuni erano liberi; nel mondo cristiano-germanico tutti sono liberi.
Anche Comte elaborò uno schema storico di tipo ascendente (sviluppando temi già presenti in Saint-Simon). Per lui la storia umana aveva percorso tre stadi mentali (teologico, metafisico e scientifico), che avevano dato origine a tre grandi tipi di organizzazione sociale, a tre grandi epoche: l'epoca «teologica e militare», l'epoca «metafisica e giuridica», l'epoca «scientifica e industriale». In quest'ultima il potere era esercitato, razionalmente, dagli scienziati e dagli industriali.
Uno schema ascendente ha caratterizzato anche la riflessione di Marx, al quale lo sviluppo storico appariva come «una serie coerente di forme di relazioni, la cui connessione consiste in questo, che al posto della forma di relazioni precedente, divenuta un intralcio, viene sostituita una nuova, corrispondente alle forze produttive più sviluppate». Il «motore» dello sviluppo storico era quindi la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione (o «forme di relazioni»), che sarebbe sfociata in una società superiore materialmente e spiritualmente: la società comunista, la quale era la «soluzione dell'enigma della storia».
Questo ottimismo storico entra in crisi già negli ultimi decenni dell'Ottocento, come ci ricorda Pietro Rossi nel suo bel libro Il senso della storia. Dal Settecento al Duemila, appena edito da Il Mulino (466 pagine, 27 ). Un grande umanista come Jacob Burckhardt (reso celebre da un'opera affascinante: La civiltà del Rinascimento in Italia), nelle sue Considerazioni sulla storia universale (1868-1873) svolge motivi assai diversi da quelli fino ad allora prevalenti: per lui la storia, lungi dal poter essere considerata come «un crescente perfezionamento (il cosiddetto progresso)», è piuttosto un processo al quale è essenziale la lotta (come avviene nel regno animale). La storia ci mostra la presenza costante del male, della violenza, della sopraffazione dei più forti sui più deboli, un «quadro spaventoso», fatto «di disperazione e di strazio».
Nel pubblico che assisteva alle lezioni di Burckhardt a Basilea c'era anche il giovane Nietzsche. Anch'egli ripudierà interamente l'idea di progresso, ma rifacendosi a motivi assai diversi da quelli svolti da Burckhardt, e che definirei antiumanistici (critica del cristianesimo come religione dei deboli, critica della democrazia e del suo egualitarismo, esaltazione degli eroi, dei superuomini, eccetera). Ma il pensatore più emblematico nel processo di dissoluzione dell'idea di progresso è Spengler, col suo famoso libro Il tramonto dell'Occidente (il cui primo volume appare nel 1918, quando l'Europa esce dissanguata dalla guerra, e riscuote un enorme successo in Germania). Spengler afferma che le civiltà sono organismi che, come nascono, crescono e vigoreggiano, così decadono, invecchiano e muoiono. La nostra civiltà europea è sul punto di estinguersi. Essa si trova (come tutte le civiltà che hanno esaurito il loro corso) in una fase di Zivilisation: la religione decade, e ciò determina il tracollo di tutti i valori del passato; all'anima, ormai morta, è subentrato l'intelletto come putrefazione dell'anima; nella democrazia il popolo si è ormai dissolto in una massa amorfa e manipolata; la politica non dirige più l'economia ma è subordinata a essa; il denaro è divenuto la suprema potenza della società.
Rossi si sofferma anche, e giustamente, su autori come Alfred e Max Weber (come non ricordare la sua tesi che l'organizzazione razionale-burocratica del mondo moderno ha costruito una «gabbia d'acciaio» che isterilisce la spontaneità e la creatività degli uomini?) o come Sorel (il suo Les illusions du progrès è del 1908).
Io aggiungerei Pareto e Croce. Pareto rifiutava tutte le filosofie della storia, sia idealistiche che materialistiche. L'unica cosa che la storia ci mostra, egli diceva, è il succedersi delle élite, la loro continua trasformazione, la loro decadenza, la loro scomparsa (più o meno rapida, più o meno violenta). Questa successione di élite non è regolata da nessuna legge storica, da nessuna scansione dialettica; in essa si manifesta solo una sorta di «moto ondoso», nel senso che le varie élite si formano e si dissolvono come le onde del mare.
Era una visione sconsolata, quella di Pareto, ma il suo pessimismo storico si sarebbe manifestato anche in autori che per decenni erano stati sostenitori dell'idea di progresso. È il caso di Croce, che nella sua vecchiaia, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, scriverà che «talvolta popoli civili si imbarbariscono, si inselvatichiscono, si animalizzano o ridiventano bestie feroci, e tornano nella natura». Il fatto è, egli diceva, che c'è in noi un «Anticristo, distruttore del mondo, godente della distruzione». Con queste parole il vecchio filosofo non era molto lontano da un pensatore da lui non amato, Sigmund Freud, che aveva parlato della pulsione di distruzione presente in ognuno di noi, sicché il processo di edificazione della civiltà si configura come una grandiosa e drammatica lotta tra Eros e Thànatos.

La Stampa 2.3.12
Alla corte di Peggy danzano Miró, Mondrian e Calder
I tre artisti protagonisti della mostra di opere dalla collezione Guggenheim che si inaugura oggi a Vercelli
di Marco Vallora


A sinistra Interno Olandese II di Miró, 1928, sopra Natura morta con vaso II, di Piet Mondrian, 1911-12, sotto Peggy Guggenheim monta dei Mobiles di Calder La mostra i Giganti dell’Avanguardia sarà visibile all’Arca di Vercelli fino al 10 giugno
Attenzione, attenzione, non cadere nella trappola. Letta così, con sbadata distrazione e condivisibile prevenzione, tutta «italiana», la triade «Miró, Mondrian, Calder» (difficile persino metterli in riga, non alfabetica) così, sulla carta, può anche suonar sospetta e suscitar perplessità. Ma che ci vado mai a fare a Vercelli? Potrebbe parere una delle tante sottoesibizioni assessoriali, in cui si sfruttano nomi-civetta, per convogliare folle affamate di chicchessia, e metter insieme qualche uggioso scartino, trovato qui e là nei fondi di collezioni e gallerie. E buggerato sia, chi paga e s’accontenta. Ed invece no, attenzione. Vercelli con la sua Arca preziosa ed un pedigree ormai di mostre nobilissime e soprattutto il nome affidabile del curatore Luca Massimo Barbero (che l’agonizzante politica ce lo conservi e non s’azzardi a toccarlo) dovrebbero averci abituati ormai a far fermare a mezza-strada il trenino Torino-Milano a non mancare una delle poche mostre remunerative in corso, in questa stagione confusa e scricchiolante.
Basterebbe, all’entrata, quell’incontro-choc con un’opera poco vista ma basilare, come Il vaso di zenzero di Mondrian, ansimante e letteralmente «sbavante» (di bleu, di luci, di piani, riferimenti, ansietà strutturali e bulimie formali, che aspirano esalando ad una dieta mentale) per capire in che capsula e a quale livello di qualità siamo penetrati (accanto, una sorta di bozzetto-ripensamento-variazione del Vaso stesso. Idem per quella superba Composizione a losanga Anni 30, spavalda e post-malevitciana, con il suo pargolodisegno preparatorio a lato). E se poi l’occhio-periscopio si permette di regalarsi un periplo a 180 gradi in quella stanzetta introduttiva, non poi così slanciata, ma sufficiente, per afferrare e carezzare in un panopticum folgorante i vari periodi d’un genio respirante della pittura e dell’architettura visiva, si renderà subito conto che certe volte bastan poche opere ben scelte e sintomatiche, secondo un progetto critico consapevole e prestabilito, per dare un significato sensato a queste operazioni di azzardata miscela. Non necessariamente capolavori assoluti (anche se qui per lo più di questo si tratta e di opere simboliche, passate sotto lo sguardo vigile di Peggy Guggenheim).
Per esempio, quel primo paesaggio di Mondrian, in stile scuoiato-Scuola dell’Aja, che potrebbe anche essere un Duchamp giovanile od un Fontanesi avvinazzato, non ancora tocco dalle suggestioni simbolistico-teosofiche successive, anche se c’è l’acqua di palude, il riflesso navigante, lo spettinarsi a spettro della pennellata-riverbero. Ma c’è già soprattutto in nuce, appunto, quel Mondrian che aspirerà ad una pulizia religiosa della mente e a una visione cartesiano-ortogonale della costruzione pittorica (neoplastica). Che sbraca assai presto, nei primi anni Dieci, a Parigi e certo rimane sedotto da quelle impalcature di città moderna, che ri-racconta in parte come interni matissiani, in parte come scontro-incontro maschile-femminile di ascisse, appunto razionalistico-cartesiane, ma soprattutto vede e scopre e centellina Cézanne, in modo diverso da Braque e da Picasso. Così il genio prensile di Apollinaire si rende conto che quella è comunque una declinazione di cubismo, di «sensibile cerebralità», che sta per maritare una semplificazione sempre più estrema e protestante. Comunque respirante. Nonostante l’apparente gabbia geometrico-inesorabile-chirurgica: ma se ci si avvicina con sensibilità, si ausculta come la sua mano trema, esita, flauta colori elementari, danza. Allora, ci si chiederà: ma cosa c’entra tutto questo con l’onirismo pneumatico di Mirò o con Calder, l’artista più vitale, yankee, leggero, persino leggiadro, mondo di gravità, acrobatico, scappato dal circo uggioso della monumentalità rodiniana?
C’entra e non è solo l’aneddotica a provarcelo. Quando è un giovane ancora indifferente all’arte (nonostante il padre sia scultore) e vorrebbe fare l’ingegnere, il caso lo porta nella casa americana di Mondrian e qui è proprio quel luogo asettico (inesorabile bianco e nero, nessuna sporcizia della vita, luce vermeeriana e geometria) a convincerlo a diventare un artista astratto. Con capricciosa agilità.
Come il vento che scompiglia e ricompone i capelli di ferro dei suoi ondeggianti mobiles, che lo salvano dalla monumentalità ingegneresca del ferro di Eiffel e lo portano verso la spiaggia argentata della testiera di letto (arricciata di paraffi liberi come una voliera) che Peggy Guggenheim mette dietro la propria vulcanica testa di dogaressa veneziana. E, sbarcando a New York, un orecchino di Calder, che significa astrattismo, l’altro di Tanguy, che significa Surrealismo.
Quando incontra Mondrian a Londra, l’olandese non le chiede di poter accedere nella sua collezione, ma dove può andare a ballare con lei, ed ha già sessantasei anni (forse sta pensando a Boogie Woogie, chissà). Vogliamo dire che questa è una mostra «danzata», un «galop» di capolavori, di passi allacciati e dionisiaci, tra le braccia generose di Peggy esplosioni pittoriche che si rispondono a distanza, come le liriche Costellazioni di Calder e di Miró, che si guardano a vicenda e battibeccano, secondo un sistema Morse-affettivo, che distrugge la vulgata avanguardistica degli «ismi»? Diciamolo pure, e fermiamoci a Vercelli.

Corriere della Sera 2.3.12
Mondrian, Mirò, Calder alla corte di Peggy
Surreali, astratti e poetici: l'incrocio di tre destini all'ombra della donna che allevò l'arte del '900
di Francesca Montorfano


Uno spagnolo, un olandese, un americano. Personalità e destini differenti che, in un magico momento della storia culturale e artistica del Novecento, si sono incontrati, hanno intrecciato esperienze e linguaggi, cambiando il modo stesso di fare arte, diventando il punto di riferimento per le generazioni a venire. Joan Miró con il suo poetico surrealismo, con quelle rappresentazioni fantastiche e oniriche dove la creazione è anche gioco, divertimento, ironia. Piet Mondrian, alla ricerca di quella superiore armonia dell'universo che lo porterà ad allontanarsi dalla raffigurazione della realtà per arrivare a una semplificazione assoluta di linee e colori. Alexander Calder, che saprà riflettere suggestioni surrealiste e astratte insieme e rivoluzionare il concetto stesso di scultura, facendo dell'aria e del vento, della fluidità e del movimento, gli elementi costitutivi delle sue opere, i suoi celeberrimi mobiles come li definirà Duchamp. Sarà proprio un giovane Calder, arrivato a Parigi nel 1926, a legarsi d'amicizia con Miró e il gruppo surrealista e a entrare poi in contatto anche con Mondrian, restando affascinato dallo studio dell'artista, con le pareti dipinte di bianco e suddivise da linee nere e rettangoli luminosi, come i suoi quadri. «In quel momento pensai a come sarebbe stato bello se tutto avesse preso a muoversi», racconterà in seguito, quasi a sottolineare come da quella visione fosse nata l'idea che sarà alla base del suo universo creativo. Inizia così quel dialogo continuo fra i tre grandi protagonisti dell'avanguardia, quello scambio di stimoli ed esperienze che durerà tutta la vita e li porterà a frequentare il circolo di artisti e intellettuali riuniti nei primi anni Quaranta intorno alla casa e alla galleria newyorkese di Peggy Guggenheim, grande collezionista e mecenate e, insieme allo zio Solomon, capace di entusiasmarsi per le sperimentazioni più avanzate.
Sarà oggi la nuova mostra all'Arca di Vercelli a raccontare le vicende di quegli anni così ricchi di fermenti creativi e di quegli artisti nei quali Peggy e Solomon avevano creduto, vincendo la sfida. Una quarantina di dipinti ad olio, tempere, gouaches, pastelli e sculture provenienti dalle collezioni Guggenheim e da altre prestigiose raccolte ne traccerà il percorso creativo dalle prove giovanili ai traguardi finali. «Oggi più che mai l'Arca si presenta come uno scrigno, un "concentrato" di capolavori straordinari. Ad andare in scena è uno spettacolo dalle tante letture, cronologico e al tempo stesso emblematico dell'opera dei tre grandi artisti, visti nella specificità e nel valore del proprio linguaggio ma anche nel gioco di confronti che li ha portati a rispecchiarsi, a inanellarsi l'uno nell'altro. Sarà proprio Calder il magnete delle diverse esperienze, il traghettatore in America di quella vicenda astratta e surrealista che era nata in Europa e si proponeva di riformulare il mondo esistente, di dare un'interpretazione nuova della realtà», commenta Luca Massimo Barbero, curatore dell'evento.
Ad aprire il percorso è Mondrian, con un nucleo strepitoso di opere che ne seguono l'evoluzione creativa da una pittura ancora legata ad echi postimpressionisti e simbolisti e a lavori che riflettono suggestioni cubiste, come «Calla»; «Fiore Blu», «Estate», «Duna in Zelanda» o le due «Nature morte con vaso di zenzero», ad altri, come «Composizione I», dove il passaggio ai colori primari è compiuto, dove la realtà è ricostruita in un intreccio ortogonale di linee verticali e orizzontali, archetipo di un rigoroso ordine cosmico. Ed ecco Miró, con quelle visioni immaginifiche, quei segni grafici, quelle forme antropomorfe che paiono fluttuare nello spazio, con quell'«Interno Olandese II» ispirato a un capolavoro seicentesco, con «Donna seduta II», dove la figura femminile è ormai trasfigurata o «Pittura» del 1953, summa di tutto il suo universo.
Nello splendido scenario dell'Arca e degli antichi affreschi di recente riportati alla luce è adesso la volta di Calder. Di lui la mostra mette in luce l'intera vicenda artistica dai lavori degli anni Trenta, «Senza Titolo» o «Mobile», agli stabiles, forme astratte immobili a terra, ai ritratti in filo di ferro, ai dipinti su carta, agli oggetti più intimi, personali, realizzati per Peggy. Sarà proprio Calder infatti a creare per lei i famosi orecchini mobiles e la testiera di letto in argento per Palazzo Venier de' Leoni, misteriosa e viva nel suo disegno di luce. Sempre a lui toccherà l'onore di vedere il suo «Arco di petali», con la sua cascata di forme e colori, fotografato insieme al presidente della Repubblica Einaudi e alla grande collezionista alla storica Biennale di Venezia del 1948.

Corriere della Sera 2.3.12
Tra dissolvenze e contorni Da Leonardo ai moderni la doppia scelta di uno stile
Il mix di forma e colore divide i grandi pittori
di Francesca Bonazzoli


C i sono molti punti di contatto che uniscono Calder, Miró e Mondrian. Oltre a Peggy Guggenheim e alla città di Parigi, anche l'uso degli stessi, pochi e scelti colori: il giallo, il rosso, il blu, il bianco e il nero. E anche, non ultima, l'appartenenza a un'unica grande famiglia i cui membri si possono rintracciare a ritroso lungo diverse generazioni di artisti. È la famiglia di coloro che stendono il colore in campiture nette, disegnano forme che appaiono ritagliate dallo sfondo e utilizzano la linea di contorno nera.
Per capire di cosa stiamo parlando basta pensare alla Nascita di Venere di Botticelli e, per contrasto, alla Gioconda di Leonardo da Vinci. I due artisti sono entrambi campioni del Rinascimento fiorentino e solo sette anni separano la nascita del primo dal secondo. Tuttavia la differenza del loro modo di dipingere non potrebbe essere maggiore: Botticelli disegna le figure circoscrivendole con una netta linea di contorno; crea le ombre con il nero e separa un colore dall'altro accentuando l'effetto attraverso i contrasti cromatici, per esempio, fra le scure ali di Zefiro e il suo luminoso drappo azzurro. Tutti i dettagli sono disegnati e rigidi, certi, dall'ombelico di Venere alle increspature del mare dipinte come tante V messe in fila una dietro l'altra.
Al contrario, nella Gioconda, Leonardo raggiunge l'acme della tecnica da lui introdotta dello sfumato, ovvero di una pittura che passa gradualmente da un tono all'altro di colore, sfumando le tinte anziché giustapporle le une alle altre in contrasti anche violenti. Leonardo aborrisce la linea di contorno persino nei disegni che appaiono come grovigli di segni accumulati gli uni sugli altri, incapace com'era di sopportare una forma chiusa, finita, congelata una volta per tutte perché le forme, come le osservava da scienziato, in natura non si presentano mai fisse.
Molti artisti seguirono la sfumato leonardesco, mentre altri scelsero consapevolmente i canoni quattrocenteschi. Così fece, per esempio, Lorenzo Lotto, il quale costruiva quadri stupendi che sembravano composti da pezzi di smalto accostati per contrasti luminosi, il chiaro contro lo scuro, nettamente delineati nei contorni. Ma il suo pur affascinante arcaismo non suscitò lo stesso entusiasmo della pittura tonale di Tiziano che, al contrario, rincorreva una fusione sempre più intima di luce e di ombra ed esibiva la sua spregiudicata bravura in quadri sempre più monocromi, giocati su pochi colori delle stesse tonalità come il superbo Ritratto di Paolo III con i nipoti, a Capodimonte, che può considerarsi una variazione virtuosistica sui toni del rosso.
Gli esempi di queste due famiglie «geneticamente» opposte possono portarci, applicando lo stesso schema, fino al Novecento e ai tre artisti da cui siamo partiti. Se osserviamo il movimento a posteriori, di solito a soccombere è la prima famiglia, quella di Botticelli e di Mondrian, della pittura di linea, per intenderci; ma in realtà il movimento è ciclico, quasi un'alternanza perfetta. Heinrich Wölfflin, nel 1915, ci scrisse addirittura un celeberrimo saggio «I concetti fondamentali della storia dell'arte», che offre ancora oggi spunti interessanti, in cui proponeva l'analisi sistematica di cinque coppie antitetiche delle «forme di visibilità» con le quali poter leggere i tratti caratteristici dell'arte rinascimentale in antitesi a quelli barocchi. Naturalmente lo schema di Wölfflin ha un impianto troppo rigido, ma è indubbio che certe coppie come lineare-pittorico, forma chiusa-forma aperta, chiarezza assoluta-chiarezza relativa, offrono dei passepartout applicabili alla lettura trasversale delle forme di tutte le epoche.
Non è forse un movimento di tesi-antitesi anche quello che separò il Neoclassicismo e l'Impressionismo? Da una parte la linea chiusa e i colori giustapposti a contrasto della fanciulla dipinta da Ingres ne «La sorgente», non a caso un chiaro riferimento alla Venere botticelliana; dall'altro lo sfarfallio di luce che sfuma i corpi delle Veneri di Renoir sempre sul punto di sfaldarsi nei trapassi tonali e nelle forme aperte dello spazio circostante. Come la Fenice, l'arte rinasce sempre dalle sue ceneri.