domenica 4 marzo 2012

l’Unità 4.3.12
Bersani: ora il governo risponda alla crisi sociale
«Tav, è una questione di democrazia. Attenti ai fuochi pericolosi»
«Il governo? Bene le prime risposte, ma bisogna dare subito segnali sulla questione sociale. La crisi picchia e ci sono troppi silenzi»
L’intervista «Mostri lo stesso piglio usato con le pensioni. A Parigi con la nostra identità»
di Simone Collini


Bene la «prima risposta» arrivata dal governo, «ora bisogna leggere la realtà un po’ più nel profondo». E poi, guardando al 2013, nessuna grande coalizione: «Democrazia significa confronto politico, con i cittadini che scelgono chi debba governare». E democrazia, dice Pier Luigi Bersani, significa anche «rispettare le decisioni prese attraverso meccanismi di rappresentanza e partecipazione». Parole non casuali. Il segretario del Pd parla mentre sono in corso manifestazioni dei No Tav in tutta Italia: «Si stanno accendendo fuochi pericolosi. Su questo tema il Parlamento deve discutere, va pronunciata una parola chiara».
Altra spina per un governo che deve affrontare non poche emergenze: un primo bilancio, dopo 100 giorni? «Una prima risposta è venuta, basta guardare alla credibilità internazionale di cui ora gode l’Italia, al linguaggio di verità a cui si ricorre, alle misure coerenti con la situazione da affrontare. Ora bisogna leggere la realtà un po’ più nel profondo». Cosa intende dire?
«La crisi picchia duro, nel corpo sociale ci sono paure e tensioni molto forti. Con lo stesso piglio con cui il governo è intervenuto sulle regole, sulle pensioni, intervenga per dare stimoli all’economia. Sugli esodati, persone che non avranno né stipendio né ammortizzatori sociali né pensione, il governo deve dire una parola chiara. Ci sono problemi da affrontare che riguardano la crisi industriale, le piccole imprese, gli enti locali. Pur nell'equlibrio dei conti pubblici, servono iniziative per lo sviluppo, con un occhio sempre attento alla questione sociale».
A proposito di enti locali, sindaci chiedono al governo di rivedere il patto di stabilità: cosa ne pensa? «Che è una battaglia sacrosanta. I sindaci sanno benissimo che c’è un problema di rigore ma sanno anche che il patto di stabilità contiene delle irrazionalità evidenti. I Comuni andrebbero vincolati su saldi di bilancio, non sulle singole voci. Bisogna dar loro la possibilità di far partire un po’ di investimenti. Di fronte alla crisi, i Comuni possono essere una parte della medicina, non li si può considerare la malattia».
I comuni come la “medicina” ma avete più volte affermato che il problema si affronta in una dimensione tutt’altro che locale, quella europea. «E continuiamo a pensarlo. Ma va rivista la politica europea. Anche la firma del Fiscal compact lo dimostra: appena è stata siglata l’intesa due paesi, uno comprensibilmente, la Spagna, e uno inaspettatamente, l’Olanda, hanno dovuto registrare che l’equilibrio dei conti economici non è compatibile con l’acuta recessione in atto. Il problema di fondo è attuare politiche economiche che diano il via a dinamiche antirecessione e per lo sviluppo. La crescita è il punto, ma non basta dirlo a parole, servono politiche concrete».
Il 17 lei firma a Parigi insieme a Hollande e a Gabriel una piattaforma programmatica comune sulle politiche europee: il senso dell’operazione?
«Lavorare per un’Europa che metta al centro equità, solidarietà, crescita e che abbia più fondamento democratico. Non si può solo puntare su politiche di contenimento e rigore senza mettere in moto dinamiche positive, espropriare i poteri nazionali senza basarsi su meccanismi di rappresentanza democratica. Se si continua così la questione diventa molto seria». C’è chi ha visto in questa operazione condotta con i vertici dei socialisti francesi e tedeschi il tentativo di fare del Pd un partito socialdemocratico.
«Il Pd va a Parigi con la sua voce, quella di un partito che riassume in sé culture socialiste, cattoliche, ambientaliste, liberaldemocratiche. E va lì e discute dando un impulso ad allargare la prospettiva progressista europea, sapendo che noi siamo portatori di una sensibilità particolare sui temi ambientali, del lavoro, sulle liberalizzazioni, sulla partecipazione e sul rapporto aperto con i movimenti. Noi vogliamo una piattaforma progressista firmata da tutti quelli che combattono contro la destra liberista, che in questi anni ha massacrato i singoli stati e l’Europa, una piattaforma che metta assieme culture anche diverse, senza settarismi, per inaugurare una battaglia elettorale che si giocherà in Francia, Italia, Germania».
In Italia c’è chi non vorrebbe nel 2013 una battaglia ma una grande coalizione guidata da Monti: il suo giudizio? «Il Pd in nome dell’Italia ha sostenuto un passaggio di transizione e di emergenza e in nome dell’Italia il Pd con altrettanta convinzione vuole costruire una democrazia riformata sì ma normale, dove il confronto politico possa esserci, i cittadini possano scegliere e la politica abbia il suo ruolo. Naturalmente, e questa è una novità che è molto coerente col Pd, dobbiamo immaginare una politica che parli di un progetto per il paese e abbia la capacità di sostenere una maggioranza e un governo in modo stabile, solido e univoco e non di una politica che produca il Cencelli o l'incompetenza al governo».
Qual è il progetto per il paese con cui il Pd si candida a governare?
«Per noi al centro del programma c’è il lavoro e un equilibrio sociale basato sulla redistribuzione. E c’è un’idea di democrazia rappresentativa riformata, non populista, saldamente costituzionale».
E gli alleati con cui vi candidate a sostenere il governo in modo “stabile, solido, univoco” chi sarebbero?
«Il baricentro è un centrosinistra di governo, che non si fa a tutti i costi. Deve avere coerenza sul programma e dare garanzia di stabilità. Chiederemo poi che questo centrosinistra si rivolga a forze civiche, moderate, che abbiano un’altra idea rispetto a quella populista mostrata dal centrodestra in tutti questi anni».
Il centrosinistra è Pd più Di Pietro e Vendola. Che sulla Tav hanno espresso posizioni diverse dalle vostre...
«Il problema non sono temi che dividono, ma avere dei meccanismi che garantiscano una soluzione. Se si pretende di governare insieme si possono anche avere opinioni diverse ma poi ci vuole una regola vincolante». Ad esempio?
«Dei gruppi parlamentari che su alcuni temi decidano a maggioranza e si comportino di conseguenza». Rimanendo alla Tav: perché non la convince la proposta di moratoria sostenuta da Vendola e Di Pietro?
«Qui c’è un problema che non riguarda una ferrovia ma cosa intendiamo per democrazia. Che è un sistema inventato per decidere attraverso meccanismi di rappresentanza e di partecipazione. Sulla Tav c’è stata un’ab-
bondanza di passaggi istituzionali democratici che vanno rispettati. Tutto il paese è investito da fenomeni che vanno sorvegliati e su cui va pronunciata una parola chiara. Non si può non vedere che è in corso sotto il titolo Tav, che c’entra fino a un certo punto, una sequenza che abbiamo già conosciuto».
Quale?
«Davanti a un problema, o in buona fede o per opportunismi più o meno pelosi, si mette in scena una battaglia alla Davide contro Golia. Da lì si passa alla sopraffazione del potere e quindi alla giustificazione della violenza cosiddetta resistente. A questo punto si inseriscono organizzazioni violente che non sanno nulla di ferrovie ma che hanno il loro folle disegno, che naturalmente si scagliano contro i riformisti. L'esito finale è che nell'opinione pubblica si determinano riflessi conservatori e autoritari. Questa sequenza l’abbiamo già vista, e ha portato anche a drammi sanguinosi. Si stanno accendendo fuochi molto pericolosi. Per questo abbiamo chiesto che il Parlamento discuta e pronunci una parola chiara».
A proposito di Davide contro Golia: è lo slogan di chi sfida la Borsellino... «Ho girato per Palermo e di Davide ne ho visti pochi. Ho visto una campagna molto impegnata, con visibilità da parte di tutti i candidati. Mi aspetto una grande partecipazione e i cittadini decideranno per il meglio. L’obiettivo sono le amministrative e il Sud e Palermo hanno bisogno di una riscossa civica e di dare un messaggio al resto d’Italia di forte impegno civico. Per questo ho chiesto a Rita Borsellino di partecipare alle primarie».
La Magneti Marelli ha smantellato le bacheche con l’Unità: la cosa che più l’ha colpita, passata una settimana? «A parte l’atto in sé, inconcepibile, trovo consolante la reazione molto larga che c’è stata, mentre mi sarei aspettato di sentire il pensiero di qualche liberale come De Bortoli, come Padellaro. Che venga impedito a dei lavoratori di esprimersi e di informarsi è una questione che non riguarda solo i sindacati o un singolo giornale».

Corriere della Sera 4.3.12
Il Rebus del Pd verso il 2013
E a Palermo Borsellino rischia contro il «ribelle»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Contrordine compagni: Bersani e i suoi innestano la retromarcia. Distinguersi dal governo va bene, criticarlo un giorno sì e l'altro pure non si può più fare. Si rischia di spaccare il partito, che è già abbondantemente lacerato. Oltre che di deludere l'elettorato del Pd che, stando ai sondaggi, per oltre l'80 per cento è favorevole a Monti. Per queste ragioni il segretario negli ultimissimi giorni ha spiegato a tutti i suoi interlocutori che «il Pd nei prossimi mesi non può discostarsi dal governo, sarebbe un errore».
La nuova linea viene confermata dalla decisione di Stefano Fassina e degli altri «giovani turchi» di non partecipare alla manifestazione della Fiom, come avevano inizialmente previsto. Osserva il responsabile economico del partito: «Io volevo andare all'iniziativa perché il tema della democrazia nei luoghi di lavoro mi sta molto a cuore, ma ora la cosa si è snaturata perché vi saranno anche i No Tav, quindi non sarò in piazza». Duro colpo per Maurizio Landini. Il 28 febbraio il segretario della Fiom aveva scritto a ogni deputato del Pd una lettera di questo tenore: «Ci rivolgiamo a lei, che è innanzitutto un rappresentante della nazione prima che un esponente del suo partito, per chiedere di aderire alla giornata di lotta che abbiamo indetto». Ma tant'è. Anche l'ala sinistra del Pd modera un po' i toni.
Solo il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi non demorde. Secondo lui «Monti è un Berlusconi sotto mentite spoglie». Un'uscita che ha spinto Rosy Bindi a replicare con queste parole: «Rossi faccia il governatore». E che ha stupito Enrico Letta: «Il presidente della giunta regionale toscana ha avuto un radicale cambiamento di posizioni su cui mi interrogo». Mentre il leader di Sel Vendola ha proposto a Rossi: «Vieni con noi».
Le vicende legate alla storia dei No Tav, comunque, hanno rafforzato i filomontiani, dal momento che il Pd si è schierato contro le proteste, mentre Antonio Di Pietro e Vendola stanno con i manifestanti. Dice il veltroniano Enrico Morando: «Presentarci alle elezioni con Vendola e Di Pietro? Ma nemmeno per sogno». Dello stesso tenore le riflessioni del senatore Stefano Ceccanti: «Quando abbiamo deciso di sostenere il governo Monti il solco con Sel e Idv si è fatto più profondo: l'alleanza modello foto di Vasto è improponibile». E anche i dalemiani frenano sull'ipotesi di una coalizione con Vendola e Di Pietro.
Dunque, nel Pd le divisioni non sono più sull'atteggiamento da tenere in questo frangente nei confronti del governo Monti, ma sul dopo. E non sono divisioni di poco conto se nel partito si sussurra ormai con una certa frequenza la parola «scissione». Beppe Fioroni sintetizza così la situazione: «Nel 2013 si andrà a un governo politico, per questa ragione i partiti, e il Pd per primo, devono scegliere già adesso le alleanze, che non devono essere obbligate: ci vogliono coalizioni coese sui programmi. Io sono per un'intesa con il Terzo polo e penso anche che non si possa non coinvolgere Monti. Dobbiamo stare tutti attenti: se la politica non riacquista la sua dignità verrà commissariata per sempre e saranno i tecnici a decidere quali politici andranno in Parlamento». Chi lo conosce bene, però, sostiene che Pier Luigi Bersani si sente ancora in pista e vuole candidarsi a premier del centrosinistra nella prossima legislatura. Con Vendola e Di Pietro, ma anche con il Terzo polo. Come? Magari convincendo Casini con un'offerta difficile da rifiutare: quella della presidenza della Repubblica.
Intanto anche un altro dei big del Pd sta giocando la sua partita: Veltroni. L'ex segretario non ha alcuna intenzione di candidarsi, ma sogna un cambiamento negli equilibri politici del suo partito. Perciò medita di sciogliere la corrente dei MoDem, in modo da avere le mani libere con Enrico Letta e Dario Franceschini, con cui i rapporti si sono intensificati. L'idea è quella di contrastare la prospettiva di un Pd trasformato in mega Partito socialista. Per questo motivo Veltroni, forzando il suo carattere, ha scelto di polemizzare con Vendola: vuole essere lui l'avversario della deriva di sinistra dei Democrat.
In tutto ciò la periferia ribolle. Bersani è riuscito a sistemare la pratica napoletana, imponendo al partito locale di non proseguire lungo la strada dell'inciucio con il presidente della Regione Stefano Caldoro. Ma in Puglia non gli è andata altrettanto bene. Il leader del Pd ha aperto all'idea di Michele Emiliano di fare un movimento tutto suo. E per «ringraziarlo» il sindaco di Bari, dalle pagine del Foglio, si è rivolto così al segretario: «Bersani deve tirare fuori le palle, siamo in campagna elettorale, ed è arrivata l'ora di scatenare l'inferno. Deve smetterla di fare solo il mediatore».
Un discorso a parte merita la Sicilia o, meglio, Palermo. Lì Bersani si gioca gran parte della sua credibilità. Se oggi, alle primarie per il candidato sindaco del centrosinistra, Rita Borsellino dovesse perdere e, a sorpresa, vincesse il candidato del Pd filo-Lombardo, cioè l'ex idv Fabrizio Ferrandelli, per il segretario sarebbero dolori. Il leader si è schierato sulla candidata appoggiata da Vendola e Di Pietro, sulla candidata che ha chiuso al Terzo polo, e se le cose non andassero come devono si troverebbe in difficoltà.
A Palermo la situazione è molto fluida. Di Pietro, caduto nello scherzo di una radio, pensando di parlare al telefono con Vendola si è lasciato sfuggire questa affermazione: «Non vorrei che quello che è uscito dal mio gruppo andasse a vincere, mentre noi abbiamo sostenuto Borsellino». Il timore è che il trio Lumìa, Cracolici e Totò Cardinale utilizzi il proprio potere per organizzare le truppe cammellate in favore del loro candidato, Ferrandelli. E il fatto che si siano registrati per votare oggi alle primarie più di ottocento immigrati desta qualche sospetto. Ci sono ghanesi, indiani, cinesi e tamil. Il presidente del comitato delle primarie, Domenico Pirrone, sconsolato, ha dovuto ammettere: «Qui è un mercato, tanti di loro non sanno neanche per che cosa si vota».
I veleni di Palermo rischiano di far fibrillare tutto il partito. Un altro candidato, Davide Faraone, esponente del Pd locale appoggiato da Matteo Renzi, ha deciso di polemizzare direttamente con il leader: «Bersani ha smesso di fare il segretario ed è sceso in campo per Rita. Io non gli ho chiesto di sostenermi perché ogni volta che sostiene qualcuno quello perde. Comunque il partito siciliano fa più schifo di quello che fa nel resto del Paese». Insomma, un bel problema, quello siciliano. Se Borsellino perde, Bersani rischia la brutta figura. Se vince, il Pd potrebbe subire una scissione capeggiata dai maggiorenti che sostengono la giunta Lombardo e l'accordo con il Terzo polo.

Corriere della Sera 4.3.12
E sei democratici su 10 aprono sull'articolo 18
Partito diviso anche su Tav e leadership: il 48% per Bersani premier
di Renato Mannheimer


La disputa tra Veltroni e Vendola su chi è veramente «di sinistra» costituisce un indicatore efficace delle significative fratture che attraversano l'elettorato del Pd e che vedono convivere, per ora, nello stesso partito i sostenitori di posizioni assai diverse.
La maggiore forza politica italiana è connotata (come peraltro accade per i grandi partiti anche in molti altri Paesi) da forti — talvolta addirittura contrastanti — differenziazioni nelle valutazioni politiche del suo elettorato. Si prenda, ad esempio, la questione dell'articolo 18, al centro in questi giorni di buona parte del dibattito sulla riforma del mercato del lavoro. L'intera popolazione è assai divisa al riguardo. Una consistente minoranza (39%) rifiuta qualunque ipotesi di mutamento del testo attuale della norma. Solo il 13% dichiara invece senza alcun dubbio l'utilità di un sensibile rinnovamento della stessa. Ma a costoro va forse aggiunto quel 44% che ritiene ammissibile una modifica «purché accompagnata da provvedimenti per una maggiore tutela e una formazione di chi rimane senza lavoro».
All'interno dell'elettorato del Pd si riproduce una suddivisione per molti versi analoga. Il 40% degli elettori del partito di Bersani si esprime contro ogni possibile modifica dell'articolo 18, riproducendo quindi, in parte, le posizioni di Vendola. Il 58% è invece più possibilista, benché, anche al suo interno, la gran parte richieda «maggiori tutele» a fronte di una attenuazione dei vincoli imposti dalla norma. Sulla base di questi dati si potrebbe dunque dire che la maggioranza della base elettorale del Partito democratico è più vicina alle posizioni dell'ex sindaco di Roma, piuttosto che a quelle del governatore della Puglia. Ma si tratta in realtà del mero segnale di una forte frattura interna (peraltro esistente, sia pure in misura minore, anche nel Pdl, ove ben il 31% si oppone, dissentendo dalla linea del partito, a mutare il testo attuale dell'articolo 18).
Non molto dissimile è l'immagine che emerge se si considera un'altra tematica di grande attualità, come l'atteggiamento verso la Tav. Anche in questo caso, di fronte a un quesito ove si chiede se le proteste in Val di Susa, al di là dell'ovvia condanna della violenza, siano «giustificate», la popolazione italiana si divide a metà. Il 44% si schiera dalla parte di chi si oppone alla nuova linea ferroviaria, a fronte di una percentuale di poco maggiore (50%) che, viceversa, è favorevole, in nome soprattutto dell'interesse generale del Paese. E, anche in questo caso, all'interno dell'elettorato del Pd si ritrova un quadro non molto dissimile. La maggioranza (50%) dei votanti per il partito di Bersani non condivide l'ostilità al progetto in questione, collocandosi così nella linea indicata dal segretario del partito. Ma si tratta di una maggioranza così risicata da mettere nuovamente in luce l'esistenza di una spaccatura interna (presente peraltro in qualche misura anche nel Pdl, ove una maggioranza assai più consistente — il 66% — approva il progetto Tav, ma un forse inaspettato 30% reputa «giustificata» l'opposizione).
Le fratture forse politicamente più significative emergono quando si tocca la questione della leadership. Nel Pd il consenso per Monti, che si colloca all'87%, supera addirittura, come peraltro accade in tutta la popolazione italiana, quello per il segretario Bersani, che si ferma nel suo partito all'85% (nel Pdl Berlusconi continua a essere il più popolare — 87% —, ma Monti lo segue con il 68%). E anche se si chiede esplicitamente chi dovrebbe essere il prossimo presidente del Consiglio, una quota significativa dell'elettorato pd (38%) dichiara di preferire Monti a Bersani, indicato «solo» dal 48% dei suoi elettori.
Dall'insieme di questi dati si ha conferma del fatto che l'elettorato del maggior partito italiano è (irrimediabilmente?) diviso al suo interno sui temi politici più significativi. Ma che anche nel Pdl emergono contrasti di opinione rilevanti. Ciò che può far immaginare come nei prossimi mesi si possa assistere a sommovimenti interni importanti in entrambi i partiti. Non a caso, secondo molti osservatori, la strutturazione dell'offerta politica in occasione delle elezioni del 2013 potrebbe essere assai diversa da quella attuale.

l’Unità 4.3.12
Camusso al corteo: «Il governo la smetta di guardare solo ai mercati, non resterà nulla»
I sindacati: le risorse per gli ammortizzatori sociali si trovino colpendo i patrimoni
«Non si salva l’Italia se non si salvano i lavoratori italiani»
Una giornata di fermezza sindacale quella dei tre segretari di Cgil, Cisl e Uil al corteo degli edili. Camusso, Angeletti e Bonanni hanno chiesto al governo risposte veloci e convincenti sul mercato del lavoro.
di Marco Tedeschi


Le risorse per gli ammortizzatori sociali, che il governo ha annunciato di stare cercando, «si potrebbero reperire ad esempio dai patrimoni». I tre leader sindacali ieri, anche nel giorno degli edili, hanno parlato del tema dei temi: il mercato del lavoro. Il suggerimento è del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso. A proposito del reperimento delle risorse, Camusso ha osservato che «siamo passati da una situazione in cui il governo diceva che non ci dovevano essere risorse a quella in cui le sta cercando e quindi lo valutiamo positivamente. Però, ha aggiunto, «vogliamo la riforma fiscale, non quando verrà, ora». «Una delle condizioni della crescita è la riduzione delle tasse sul lavoro dipendente e sulle imprese. Vorremmo che almeno per una volta si partisse dai lavoratori». Per ora ci sono le cifre che danno ragione al governo: il calo dello spread, il calo mese per mese del debito pubblico, il calo generale dei tassi anche a breve. C’è solo una cifra che dai rilevamenti statistici non torna a profitto: la disoccupazione. Stabilmente drammatica, stabil-
mente forte sotto i trent’anno di età. Dal palco Camusso ha inviato al governo diverse indicazioni di rotta. «Diciamo al governo che se si continua a guardare ai mercati e non al Paese gli resterà solo guardare, perché non ci sarà più il Paese. Non si salva l'Italia se non si salvano i lavoratori italiani». Che poi ha concluso:«Parlare di libertà di licenziamento è un insulto ai milioni di disoccupati che abbiamo nel Paese. Non ci convinceranno mai».
CISL E UIL
Angeletti e Bonanni hanno anche parlato d’altro. «Finora non abbiamo visto un euro», ha detto il leader della Uil, Luigi Angeletti, parlando alla manifestazione nazionale dei sindacati delle costruzioni rivolto alle banche.
«Chiediamo al ministro Fornero una proposta trasparente sul mercato del lavoro, così come è stata trasparente la proposta del sindacato su questioni che riguardano la cassa integrazione che ha retto le sorti del paese per 40 anni». È questo il messaggio che il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, ha inviato al ministro del Welfare dal palco della manifestazione degli edili.
«Ho l'impressione ha detto che con lo slogan dobbiamo dare a tutti si voglia togliere un po’ a tutti. Noi non ci stiamo. Vogliamo una discussione chiara, definita e trasparente da parte del Governo». Bonanni ha inoltre rivolto un «invito forte, risoluto al cambio di linguaggio da parte di chi governa», altrimenti si entra nella «beffa della logica per cui si fa la riforma del mercato del lavoro e magari si abolisce l'articolo 18 perché così si creano tanti posti di lavoro in più. È una bugia che noi rifiutiamo».
Infine dal segretario della Cisl è partito un segnale perentorio verso chi deve decidere, ma che sin qui sta troppo esitando. «In questo luogo ci sono le formiche italiane che dicono con chiarezza alle cicale che è venuto il momento di svegliarsi, di smettere di parlare e di fare. Non c'è altra possibilità per riprendere il cammino della crescita», ha aggiunto.

l’Unità 4.3.12
L’alternativa esiste
di Claudio Sardo


Non è vero che la tecnica può sostituire la politica. Non è vero che la Grande coalizione è la condanna ineluttabile per un Paese sempre in transizione. Non è vero che il vincolo esterno impedisce scelte alternative. Non è vero che la sola competizione possibile consiste nell’eseguire al meglio gli ordini degli organismi finanziari internazionali.
Non è vero che esiste un solo paradigma economico, incontestabile, non smentibile. È vero invece che c’è molto conformismo in giro. E opportunismo. Nel nostro bilancio pesa un deficit di pensiero critico. Le democrazie si nutrono di questo. E di coraggio. Se l’antipolitica cresce perché le istituzioni non appaiono più come decisori efficaci (e dunque deludono le domande di cambiamento, di equità, di mobilità sociale) di questo non si può dare solo colpa alla globalizzazione. I vincoli esterni ci sono, e sono anche aumentati. Ma la politica è appunto capacità di modificare l’inerzia delle cose.
La Bundesbank era contraria alla parità del marco ma Helmut Kohl la fece lo stesso, combinando l’unificazione tedesca con una strategia di allargamento dell’euro (anch’essa non poco osteggiata). Tornando a casa nostra, non erano scontate la caduta di Berlusconi e la nascita del governo Monti. Si deve molto alle scelte del Pd. Ma un ruolo decisivo ebbero anche le parti sociali firmando l’accordo del 28 giugno. Quell’atto segnò la fine, l’ultima delegittimazione del governo Berlusconi, che aveva fondato sulla divisione la propria strategia: diversi firmatari sono arrivati con colpevole ritardo, tuttavia quella fu una svolta politica che anche all’estero mutò la percezione dell’emergenza italiana.
Questo per dire che le teorie e le narrazioni sull’esaurimento della politica, dei partiti e di tutti i corpi intermedi sono interessate. Sono armi nella battaglia sul futuro del Paese. Quello di Monti è un governo politico, benché formato da tecnici. Anche nelle formule ricorrenti si nasconde un’ideologia: accettare l’idea dell’autosufficienza dei tecnici vuol dire accettare che c’è una verità precostituita, una sola politica da applicare, ovviamente determinata da agenzie esterne al circuito istituzionale. Il governo Monti invece vive per una scelta politica. E compie quotidianamente scelte politiche. Alcune buone, altre meno. Il decreto sulle liberalizzazioni, dopo i duri scontri tra lobby contrapposte, uscirà dal Parlamento migliorato rispetto al debole testo uscito da Palazzo Chigi.
Certo, Monti gode di consenso nell’opinione pubblica. Il merito gli va riconosciuto. Ma anche la campagna di chi contrappone il virtuoso Monti ai partiti viziosi riscuote successo. Questo vuol dire innanzitutto che i partiti sono malati. Il caso di Berlusconi che disinveste sul Pdl per rilanciare una nuova Forza Italia e il caso di Beppe Grillo che scomunica il dissenso interno sono la prova drammatica di quanto il populismo sia dilagato nella nostra politica. Ma non possiamo rassegnarci a questa inerzia. Non possiamo rinunciare a ricostruire partiti democratici e un sistema politico di tipo europeo.
Monti può dare una mano per far uscire l’Italia dall’incubo di questa Seconda Repubblica. Come può invece operare per tenerla imprigionata. Magari puntando anche lui su un esito oligarchico (o tecnocratico, ma il significato è lo stesso), come una parte non piccola dei poteri economici che contano nel nostro Paese. Per il presidente del Consiglio le priorità restano l’emergenza finanziaria e il recupero per l’Italia di quel prestigio e quel profilo europeista che Berlusconi aveva dissipato. Ma nella sua azione politica molte sono le scelte che incideranno sulla transizione. Anche la gestione della vicenda Tav in Val Susa è rilevante. Perché alla fermezza nel respingere ogni ricatto della violenza, è doveroso che corrisponda una capacità di ascolto dei disagi dei valligiani e delle loro domande: tentare di ridurre l’area del dissenso non è un optional per chi governa ed è un dovere per chi teme degenerazioni eversive.
Il governo Monti, nella transizione, inciderà sulle questioni sociali. A partire dal negoziato sul mercato del lavoro. E dalla sua capacità di tenere in equilibrio innovazione, equità e coesione dipenderà lo scenario in cui si svolgerà la prossima competizione elettorale. Speriamo davvero che il Porcellum sia abolito (nonostante i tanti, dissimulati difensori). Perché se l’Italia non sarà capace di dotarsi di una democrazia competitiva, la transizione fallirà quale che sia il livello dello spread. Per il centrosinistra, fin d’ora, il tema è tenere insieme questione sociale e questione democratica. Pur nel sostegno a Monti, questo è tempo di battaglia politica. Sono tanti i cantori della sospensione della politica, ma chi si batte contro le disuguaglianze, le iniquità, i conservatorismi, non può accettarla. È inaccettabile che si neghi l’esistenza di legittime alternative in Italia e in Europa.

il Fatto 4.3.12
Caro Monti, serve più laicità
di Marco Politi


Signor Presidente del Consiglio, tanti italiani laici e cattolici, credenti o diversamente credenti seguono con attenzione e simpatia la Sua azione di governo per eliminare incrostazioni di male pratiche, furberie e uso disinvolto del denaro pubblico lasciato in preda alle lobby. Non si tratta solo di risanare i conti pubblici – opera già meritoria – ma di portare trasparenza in un sistema appesantito dallo scarso senso dello Stato di troppi protagonisti della vita sociale. Nei giorni scorsi Lei ha iniziato una piccola rivoluzione, bloccando l’evasione fiscale di tanti enti ecclesiastici dall’attività “non prevalentemente commerciale”. Lei ha compiuto un gesto di normalità, laddove i passati partiti di governo avevano fallito per opportunismo elettorale o per debolezza. La stragrande maggioranza degli italiani – alla luce dei sondaggi sull’Ici del Suo collega accademico, il sociologo cattolico Franco Garelli – sono dalla Sua parte e si augurano che Lei proceda sino in fondo portando chiarezza nei rapporti finanziari tra Stato e Chiesa.
GLI ITALIANI sanno distinguere. Apprezzano il ruolo delle parrocchie, spesso unico riferimento sociale nel deserto delle città. Conoscono bene l’impegno delle suore di strada, che la notte soccorrono tossici, prostitute ed emarginati. Non chiedono certo irrazionalmente “tasse sulla carità”. Ma sanno distinguere a fiuto e per saggezza popolare tra le mense della Caritas o i volontari di Sant’Egidio, in cammino di notte per raggiungere i senzatetto, e i furbetti in tonaca che usano gli inghippi di legge per praticare lo sport dell’evasione. È giusto parlare, come Lei fa, di regole generali per il no profit. Ma gli italiani sanno anche che il dopolavoro ferroviario non è certo una lobby, la Conferenza episcopale invece sì. Lei ha l’opportunità di portare a termine un processo di rigenerazione cavouriano, da cattolico liberale: un assetto di gestione delle finanze in cui libero Stato e libera Chiesa operino ciascuno secondo le proprie funzioni. Nella chiarezza. Non c’è tuttora chiarezza nel trattamento delle scuole private cattoliche. Affidare l’esenzione dell’Ici-Imu al mero fatto dello status “paritario” e dell’impegno a reinvestire gli utili nell’attività didattica non è sufficiente. La fantasia italiana nell’utilizzare la legge è infinita. Lo si è visto anche nel campo delle (false) cooperative o nel finanziamento a (falsi) giornali di partito. Se si vogliono premiare le iniziative di solidarietà, allora servono parametri oggettivi: primo fra tutti quello che le rette delle scuole private, che chiedono l’esenzione, non siano superiori alle tasse scolastiche statali. Si possono costituire rendite di posizione anche con bilanci formalmente in pareggio. Tuttavia è l’insieme dei rapporti Chiesa-Stato ad avere bisogno di una ventata fresca di regolarità europea. Lei ha spiegato in queste settimane ai suoi interlocutori ecclesiastici che le misure da Lei prese non sono sotto il segno dell’“ostilità”. Un giusto criterio.
PROSEGUA su questa strada e precisi per legge che qualsiasi persona giuridica – anche le diocesi – laddove riceve finanziamenti statali è tenuta a esibire bilanci pubblici. Sarebbe un grande contributo alla chiarificazione. In Germania, che Lei conosce bene e dove La stimano molto, questo requisito minimo è seguito da tutti senza problemi. La diocesi di Colonia non ha segreti per il fisco né per i concittadini contribuenti. Non Le sarà sfuggito che in queste settimane si svolge nel Palazzo apostolico un braccio di ferro tra chi ritiene che la via migliore per la Chiesa sia una trasparenza totale nella gestione finanziaria e chi esita a esserlo sino in fondo. Promuovere la trasparenza è un regalo che il credente può fare alla propria Chiesa. E un premier ai suoi connazionali. Lei ha l’occasione, infine, di riportare ordine nella questione dell’8 per mille. I maggiori partiti, terrorizzati dalle elezioni, non ce la fanno. Lei può annunciare anzitutto ai contribuenti, prima della dichiarazione dei redditi, come saranno utilizzati i fondi che andranno allo Stato per iniziative umanitarie. È un modo corretto per garantire ai cittadini la dovuta libertà di scelta. Ma soprattutto Lei ha la facoltà di attivare la commissione ecclesiastico-governativa, incaricata di valutare l’andamento del gettito dell’8 per mille. È la sede in cui sarà facile rendersi conto che l’attuale gettito di un miliardo è cinque volte superiore a quella che una volta era la congrua, l’aiuto diretto dello Stato alla Chiesa. Riesaminare la somma e riportarla a una proporzione equa rispetto al momento della riforma del Concordato e alle intenzioni dei suoi negoziatori sarebbe un giusto atto di tutela del bilancio dello Stato. Specie adesso che ogni centinaio di milioni di euro risparmiato è provvidenziale. Nessuno si nasconde che liberare tutta questa materia da bizantinismi e rendite ingiustificate Le procurerebbe qualche stridula accusa e anche opposizione nell’eterogenea maggioranza, che La sorregge. Però avrebbe dalla Sua la maggioranza degli italiani di ogni fede. E dissiperebbe l’impressione che basta essere lobby tenaci come tassisti e avvocati per intralciare la Sua politica. Con stima, Marco Politi.

il Fatto 4.3.12
La voragine tra politica e cittadini
Ecco perché la gente non vota più
di Furio Colombo


Si allarga la fenditura. Di qua chi governa, a qualsiasi titolo. Di là tutti gli altri. Può darsi che annuncino il loro esodo in piccoli gruppi potenti (i banchieri, gli avvocati), in tribù che prescelgono la dimostrazione fisica e locale (i tassisti) in manifestazioni più disperate che violente (le testimonianze dei ricoverati del pronto soccorso e di chi li accompagna) o nel sottofondo di voci che segue e commenta con indignazione, protesta o scherno quasi ogni funzione pubblica del Paese, dal viaggiare infinito dei pendolari alla sorpresa male accolta per gli ospedali che chiudono. Ma sto parlando di un distaccarsi esteso, a volte silenzioso e ordinato, raramente rappresentato dalle rivolte come quella dei No Tav, di cui si discute con grande confusione su causa ed effetto (viene prima la solitudine o la rivolta?) in questi giorni. Chi governa è ormai visto sempre come tecnico, nel senso di non amico, non nemico, non mio. Viene visto come qualcuno che sa fare qualcosa e la fa secondo le sue regole che non toccano in nessun punto le mie attese e i miei desideri.
NON CI SONO più “nostri”, neppure per dirne male. Una prova sono i grandi giornali, con pagine e pagine di bollettini tecnici informativi non sugli eventi o sulla politica, ma su segmenti di vari progetti dei vari esperti, in cui non c'è una visione. C'è un prontuario di soluzioni a date domande. A volte c'è la soluzione a breve di un problema assillante, a volte di qualcosa di misterioso di cui non sapevi e non volevi sapere nulla, perché nessuno te ne aveva parlato. Ti guardi attorno e ti accorgi che la distanza fra cittadini e politica si è trasformata in una distanza almeno altrettanto grande fra i cittadini e tutte le istituzioni. Sbagliato farne la questione dei più che accettano i tempi difficili e dei ribelli che, ancheseviolenti, sonopochiesono una causa persa. Ma non sentite il peso sempre più grande della solitudine dei cittadini? Dove, a chi vanno a spiegare le loro ragioni, giuste o sbagliate, corporative o di estrema sopravvivenza? Sanno che nessuno li aspetta e nessuno li cerca. I No Tav, l'altro giorno a Roma, hanno tentato una cosa impossibile e anche priva di senso: entrare nella sede di un partito (il Pd) e parlare.
Per quanto ci hanno detto, la violenza è stata minima (quasi solo modi maleducati), il progetto antico (parliamo e sentiamo cosa ci dicono) l'esito nullo. Fuori da un talk-show nessuno parla con nessuno o ha niente da dire. Non esiste più, da molto tempo, l'incontro con cinquanta o sessanta persone (a meno che non siano raccolte tra i quadri interni di un partito) o l'ascolto magari sgradevole delle incompetenti opinioni di cittadini non invitati. C'è un abisso fra noi, che siamo preparati e abbiamo sentito anche i consulenti e loro, che esprimono soprattutto cattivi umori perché si limitano a guardare “nel loro giardino” (ho proprio sentito usare questa frase, forse come traduzione di Not in my backyard). Il fatto è che, anche volendo, i partiti non possono, non devono intervenire. Con un po’ di immaginazione puoi figurarti le truppe sulla collina, i cavalli tenuti al morso, ciascuna armata ferma e in attesa dietro al suo generale (l'ispirazione è ai quadri napoleonici di David). La consegna è che in questo frattempo, lungo anni, niente deve accadere. Niente che dipenda da queste armate dette partiti. Per la verità sono pronte e addestrate ad altro. Sono addestrate a propaganda, persuasione, promessa, futuro, tutto il peso scaricato sul mondo che viene dopo. Qui invece, avvertono i tecnici, i consulenti, gli esperti, il peso è già stato scaricato sul mondo venuto prima e bisogna saldare il conto oppure non si può proseguire. Vuol dire che non c'è vento per le bandiere.
VUOLE ANCHE dire che le lunghe fermate spostano l'attivismo da fuori a dentro, e ciascuno che conti qualcosa, privato del nemico da fuori, deve trovarsi un nemico nel rivale di partito. Lo combatte, lo dileggia, lo raccomanda al disprezzo. Il pubblico (ormai si dice così) si allontana. Ma se il blocco di ogni attività dei partiti, che non possono e non devono agire finché nella sala operativa ci sono i tecnici, non porta bene ai partiti, la solitudine non porta bene ai cittadini. Capiscono di essere tagliati fuori e si allontanano di più. Fate un giro, in qualunque momento in cui ci sia seduta di Parlamento, nella piazza di Montecitorio, davanti alla Camera. Una folla c'è sempre, ma non cerca e non guarda e non chiama e non insulta nessuno, anche se passa lì accanto ed è noto per il talk-show.
Ci sono le bandiere di una ditta, di un sindacato, di un Comune, qualche altoparlante per gli slogan. Quasi tutti in silenzio. Oppure gridano al muro, non a qualcuno. La sensazione è di un altrove che un montaggio abile ha collocato vicino. Vicino a niente. Nessuno cerca sostegno perché sembra spenta ogni fiducia e l'antagonismo ha una forma fredda e compatta non di scontro, ma di assenza. I cittadini che sono qui rappresentano, in modo paradossale, tutti coloro che non vogliono esserci. Tanti. Accade questo. Il governo dei tecnici non ha e non cerca relazioni o rapporti. Ognuno ne ha per suo conto nel giro della propria specializzazione. I leader di partito si scostano quasi istintivamente dalla loro base (o si confrontano solo con assemblee di quadri) per non correre il rischio di violare l'impegno a non agire. I cittadini se ne vanno. Dove, quando, con chi si troverà un punto di raccordo fra le parti smontate dell'enigma politico italiano? Ci arriveremo in tempo?

il Fatto 4.3.12
Storie di profughi a Mantova
di Silvia Truzzi


Arrivando alla stazione di Mantova (su un autobus “sostitutivo”, stipato in modo vergognoso, perché la linea ferroviaria è inagibile, dottor Moretti) capita d’incrociare gruppi di extracomunitari. E di chiedersi chi sono. Clandestini, direbbe qualche leghista giunto recentemente al governo di una città da sempre di sinistra. Invece no. Arrivano, qui come in tutta Italia, dalla Libia, scappati dalla guerra. Di loro si è a lungo parlato durante la primavera araba, a causa degli sbarchi a Lampedusa. Poi sono svaniti in una nuvola di oblio mediatico. Nel Mantovano sono un’ottantina, in Italia un po’ più di 22 mila. Da maggio dello scorso anno a gennaio 2012 sono arrivati in diversi gruppi. Il più numeroso è alloggiato in un hotel che sta di fronte alla stazione. Il governo stanzia 43 euro al giorno per il soggiorno di ciascuno. Sono profughi, dunque. Anche se, nel calderone della politica ignorante e dei media spesso non più raffinati, vengono bollati appunto come fuorilegge. E che fanno qui? Aspettano, da mesi, che si dica loro se hanno diritto di avere riconosciuto lo status di rifugiato politico. Decide una commissione territoriale che ha quattro soluzioni a disposizione: dichiarare lo status di profugo (prevede il soggiorno in Italia per 5 anni), la protezione sussidiaria (soggiorno di 3 anni), la protezione umanitaria (1 anno) o il respingimento. Quasi nessuno di loro però ha cittadinanza libica: vivevano lì, ma arrivano da Paesi dell’africa subsahariana. Gli unici ad avere qualche possibilità sono i cittadini del Congo, dove c’è la guerra. A molti di loro però basterebbe avere qualche certezza sul loro destino: anche se vengono trattati come numeri senza vita, hanno famiglie e legittime aspettative sul loro domani. Leggendo i giornali, sono tutti disperati, affamati, pronti a derubarci. Invece, racconta Sandro Saccani – presidente dell’associazione di volontari “Scuola senza frontiere” che si occupa dell’alfabetizzazione degli immigrati – sono tutte persone che in Libia avevano un lavoro e delle professionalità. Una settimana fa i profughi hanno osato scendere in piazza per chiedere una soluzione. Il corteo non era autorizzato, ma a parte un po’ di tensione e un contuso (lieve) non è successo nulla di grave. La Lega non ha gradito, sui giornali il solito allarme sicurezza. Possibile che nessuno capisca come dev’essere angosciosa un’attesa così lunga? La Caritas e le altre associazioni che si occupano dell’accoglienza (a Mantova anche il centro San Luigi) organizzano lezioni d’italiano, d’informatica, visite ai monumenti e altre attività, compreso il sostegno psicologico. Ma l’inoperosità genera frustrazione, paura, esasperazione. Si calcola che il 75 per cento di loro saranno respinti. Dovranno tornare a casa o diventeranno davvero – con buona pace del razzismo leghista – clandestini. Formalmente non hanno diritto allo status di rifugiato. Eppure sono scappati dalle bombe, tanti sono morti nelle traversate della vergogna. Forse qualcuno – magari un ministro tecnico che sotto il loden si ritrovi anche un’anima – potrebbe riconoscere che sono esseri umani fuggiti da una guerra. Sul sito di Scuola senza frontiere, un video mostra i ragazzi che tutti i giorni seguono le lezioni d’italiano: sorridono e amano il nostro Paese più di quanto ormai non sappiamo fare noi. Guardandoli, l’ultima parola che viene in mente è pericolo. Forse è perché hanno incontrato qualcuno che – invece di prenderli a calci come cani rabbiosi – ha teso loro una mano.

Corriere della Sera 4.3.12
La dittatura dell’incuria
di Gian Antonio Stella


«La bellezza è un valore morale». Era un tormentone quello dell'allora vescovo di Locri Giancarlo Bregantini. Non perdeva occasione per raccomandare di intonacare le case, sistemare le strade, curare i giardini, perché «in un posto brutto è facile che i ragazzi crescano brutti». Insomma, insiste nel libro Non possiamo tacere, l'estetica è etica: «i paesi più brutti e trascurati sono quelli segnati dalla mafia».
«Niente cultura, niente sviluppo», ha titolato Il Sole 24 Ore lanciando un appello per fare ripartire il Paese puntando su una «costituente» che «riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione». I confronti su 125 nazioni, stando ai dati dell'Università di Costanza, non lasciano dubbi: dove c'è più cultura c'è più innovazione, più sviluppo, più ricchezza e meno corruzione.
Rovesciamo: dove c'è meno cultura c'è meno innovazione, meno sviluppo, meno ricchezza, più corruzione. Nel 2001 investivamo sul nostro tesoro d'arte e paesaggi solo lo 0,39% del Pil, siamo precipitati a un miserabile 0,19%: è stato saggio? Colpa della crisi, dicono. Ma investendo nel «Guggenheim», spiega uno studio di Kea European Affairs per la Ue, Bilbao ha recuperato in 7 anni i soldi spesi «moltiplicati per 18», con la parallela creazione di migliaia di posti di lavoro. Al punto d'esser presa a modello dalla Francia, che per rianimare l'agonizzante area di Lens ha deciso di fare lì, tra le fabbriche dismesse, un nuovo «Louvre» col calcolo che, per ogni euro investito, ne torneranno «come minimo sette».
Dice uno spot girato da Berlusconi che l'Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall'Unesco». Magari! Ma è vero che su 911 ne abbiamo più di tutti nel pianeta: 45. Molti più di Francia o Stati Uniti che ci staccano nelle classifiche turistiche. Il guaio è che questo patrimonio, accusa un dossier PwC, lo usiamo male, ricavandone la metà rispetto a Gran Bretagna, Germania e Francia e un terzo rispetto alla Cina.
Ci vorrebbe più testa, per usarlo. E una classe politica più interessata, curiosa, colta. Alla Costituente, pur avendo la guerra ostacolato i percorsi universitari, era laureato il 92% dei parlamentari: oggi la quota si è inabissata al 64%. Ma è il Paese tutto ad arrancare: dai sindaci ai governatori, dagli assessori ai consiglieri regionali. E giù giù ai cittadini che, sempre più indifferenti al bello e al brutto, arrivano a costruire pattume cementizio abusivo sul promontorio di capo Vaticano o sul basolato della via Domiziana accanto alla tomba di Scipione l'Africano.
Da dove ripartire, per fermare la dittatura dell'incuria? Dalla scuola: da lì occorre ricominciare. Se è vero che la nostra stessa identità è definita dai nostri tesori artistici e paesaggistici al punto che noi italiani per gli altri «siamo» la torre di Pisa e Rialto e Pompei, la storia dell'arte via via più maltrattata («sarà possibile diplomarsi in Moda, Grafica e Turismo senza sapere chi sono Giotto, Leonardo o Michelangelo», si indigna Tomaso Montanari sull'ultimo bollettino di Italia Nostra) deve essere materia di interesse nazionale. E permeare i nostri figli fin dalle elementari. Investiamo sulla bellezza e sulle teste: è un affare.

Corriere della Sera 4.3.12
Le due anime in conflitto di Nichi il coattocomunista
di Aldo Grasso


L’importante nella vita è avere due anime. Nichi Vendola le ha. Lo conferma lui stesso. C’è un Nichi « ludico, anarchico, infantile, narcisista » e un Nichi « instancabile, organizzatore, sorvegliato speciale delle sue stesse passioni » . Se A è cattolico, B è comunista. Se A si confronta con le ideologie B si abbandona alle visioni del mondo, le famose « narrazioni » . Giorni fa, una delle due anime ( il suo personale « scisma » ) ha attaccato duramente Walter Veltroni definendolo « di destra » , leader di una destra « colta, col loden » . Ma, tempo addietro, l’altra anima di Nichi, quella ludica, nell’intento di aprire un polo ospedaliero a Taranto nel segno del San Raffaele non esitava a fare affari con Don Verzé ricevendone in cambio una singolare investitura: « È un uomo di grandissimo valore, di grandissima cultura, in grado di trasmettere idee e calore. Anche Berlusconi mi ha detto che lo stima molto, lo ritiene una persona per bene... Sia Berlusconi sia Vendola possiedono un fondo di santità » . Nel nome della santità o della sanità, un giorno il Nichi « anarchico » si schiera a fianco dei No Tav ( « Sto con le ragioni del dissenso » ) e l’altro, come presidente della Regione Puglia e « sorvegliato speciale » , espropria terreni dove dovranno essere realizzati gli impianti del depuratore consortile Sava Manduria con scarico in mare. L’unico in grado di descrivere il suo scisma esistenziale è Checco Zalone, che di Nichi fa una parodia più vera del vero, con quella sua oratoria barocca e sghemba, con quel ritratto del nuovo intellettuale della Magna Grecia, riverniciato da un pasolinismo politicamente corretto. Claudio Cerasa, sul Foglio, ha collezionato una fantastica antologia del pensiero vendoliano dal titolo « Nichi ma che stai a di’? » . Eccone un esempio: « Dobbiamo bonificare il territorio abitato dalla materia semantica, dai depositi di parole » . Così, se l’anima A rimane fedele a una prosa vaporosa, agghindata, a un lirismo tanto ingenuo quanto kitsch, l’anima B non disdegna la demagogia trucida per spartirsi la memoria della sinistra. Dal cattocomunista al coattocomunista il passo è breve.

Corriere della Sera 4.3.12
Gli spiazzati (i cattolici anche di più)
Il progetto cattolico sbiadisce nella stagione del governo tecnico
di Giuseppe De Rita


L'ampia ribalta mediatica riservata ai primi cento giorni dell'attuale Governo
è stata accompagnata da una parallela distrazione sul cono d'ombra in cui sono relegate ambizioni di medio-lungo periodo.
In effetti son tanti coloro che vivono un imbarazzato spiazzamento di potere attuale e di prospettive future.
A parte le più che conosciute difficoltà dei partiti, gli «spiazzati» coprono un largo campo.
Penso ai cinque o sei aspiranti al Quirinale, obiettivo ormai perseguibile solo se vi rinuncia Monti; penso ai leader politici che, obbligati al presente, non riescono ad esprimere quelle istanze politiche di tempo lungo che sole legittimano la leadership; penso a quei protagonisti dell'associazionismo categoriale ridotti al silenzio da un governo che sa più di loro fare «rappresentazione» (magari al di là della rappresentanza) degli interessi in giuoco; e penso soprattutto al mondo cattolico, senza dubbio oggi in seria difficoltà.
Basta a tal proposito ricordare che solo ad ottobre un po' tutti (giornalisti, politici, cardinali, leader dell'associazionismo, ecc.) ritenevano alle porte una ricomposizione forte della presenza pubblica dei cattolici e probabilmente la nascita di un nuovo soggetto (forse un partito) su cui incardinare tale presenza. A distanza di soli quattro mesi tale prospettiva è scomparsa dall'ordine del giorno e i bollettini quotidiani su quel quadrante ci parlano di cose più terra-terra: dalle tenebrose vicende dei «corvi» vaticani alla patetica vicenda della infrazione della concorrenza alberghiera da parte di alcune monachelle romane. Una caduta verticale di ruolo per un mondo che, pur avendo grande vitalità interna, è poi incapace di metterla in campo nella polemica politica e mediatica.
Non è solo un momento congiunturale, visto che il rapporto del mondo cattolico con la logica culturale e politica del «governo tecnico» si sta dimostrando difficile e complicato. Non piace infatti a tale mondo lo spostamento verso l'alto di un potere di indirizzo e di governo che sacrifica gli spazi dei soggetti di base (individuali e familiari) e il ruolo dei soggetti intermedi: sono i primi infatti che soffrono o rischiano di più (per il prezzo dei carburanti, per l'imposta sulla case, per il rinvio della pensione, ecc.); mentre sui secondi incombe una azione di governo mirata su interventi generalizzati e automatici che mettono in secondo piano l'influenza dei soggetti collettivi, dalle grandi confederazioni sindacali e padronali agli ordini professionali, all'associazionismo di terzo settore.
In altre parole due cardini del pensiero sociale cattolico sono messi in discussione. E con un sovrappiù di esplicito giudizio negativo sulla storica indulgenza della cultura cattolica verso l'egoismo individuale, il familismo amorale, il particolarismo categoriale. Si è addirittura fatta strada l'idea che occorra rompere tale indulgenza e rieducare gli italiani alle logiche di produttività e di mercato necessarie nelle grandi sfide globali, e funzionali al rigore dei comportamenti che ci detta l'Europa. I cattolici sanno però bene, per esperienza diretta, che sotto ogni tentazione «pedagogica» si annidano sempre una tentazione alla verticalizzazione del potere e una strisciante tendenza a una stagione di neo-statalismo: gli individui gettati sul mercato cercano riparo alla loro precarietà in una responsabilità pubblica; il che produce una crescita degli strumenti di intermediazione statale; si rischia con ciò un aumento di spesa, cui corrisponde un aumento di imposizione fiscale senza un corrispettivo aumento dei servizi alla collettività; ed in più, per necessità, tutto viene deciso a colpi di decreti, di authority, di concentrazione finanziaria, di potere romano (magari vincolato se non eterodiretto da vincoli europei). In una direzione che sbilancerebbe il sistema sempre più verso l'alto.
Una società vive di equilibrio fra soggetti individuali, corpi collettivi intermedi, responsabilità statali, dinamica internazionale. I cattolici italiani sono sempre stati convinti di questa «complessa verità» e vedono quindi con sospetto tutte le politiche che turbano questo equilibrio. Sarebbe bello se potessero riprendere un ruolo dialettico nella gestione sociopolitica di questo delicato momento della società, evitando la condanna a doversi difendere in polemiche terra-terra.

Corriere della Sera 4.3.12
«No al lavoro domenicale». Sindacati alleati con la Chiesa
di G. Ca.


ROMA — «La domenica non ha prezzo» è lo slogan di chi vorrebbe che, almeno nel giorno di festa, negozi e centri commerciali restassero chiusi. Contro lo shopping 7 giorni su 7 — orario continuato — si celebra oggi la Giornata europea per le domeniche libere dal lavoro» ideata dalla European Sunday Alliance con manifestazioni, oltre che in Italia, in Austria, Belgio, Svizzera, Francia, Spagna, Grecia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Germania, Polonia. Una battaglia che ottiene il pieno sostegno della Chiesa: ieri Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani, pubblicava un editoriale per spiegare che «tutto in fondo oggi si può vendere e comprare, ma la domenica, che è la nostra libertà insieme personale e collettiva, non ha prezzo».
Secondo i promotori — tra i circa ottanta organismi che aderiscono all'alleanza ci sono sindacati, associazioni civili e religiose — «in questi tempi di crisi la domenica libera dal lavoro è la dimostrazione chiara e visibile che le nostre società non dipendono solamente dal lavoro e dall'economia». La Filcams Cgil (che con Cisl, Uil e Confesercenti partecipa all'iniziativa) ribadisce che la totale liberalizzazione di orari e aperture domenicali e festive nel commercio, prevista dal decreto «salva Italia» del governo Monti «non crea nuovi posti di lavoro ma esaurisce chi già c'è con turni pesanti e richieste eccessive di flessibilità».
A Roma, dalle 9.30 alle 12.30, presidio davanti al centro commerciale Cinecittà 2 a cui parteciperà il segretario Susanna Camusso. A cittadini e consumatori verranno offerti caffè e cornetti caldi in cambio della firma alla petizione «Liberi dalle liberalizzazioni». A Milano, dalle 14.30 alle 17.30, festa con giocolieri, clown e musicisti in largo Cairoli. A Napoli artisti di strada in via Scarlatti. A Bologna presidio e intrattenimento fuori dallo stadio.

La Stampa 4.3.12
Italia - India il braccio di ferro
Marò, carcere sempre più vicino De Mistura media
La stampa locale: “L’esame dei proiettili li inchioda” Giallo sulla scatola nera della nave, cancellati i dati
di Massimo Numa


L’Italia è fortemente preoccupata che si possa essere verificata una eccezione a principi fondamentali del diritto sulla sovranità nazionale delle navi in alto mare Sono stato con i nostri militari Sono sereni, determinati e in buone condizioni. Certo non possono andare dove vogliono ma direi che è una situazione dignitosa Giulio Terzi ministro degli Esteri della repubblica italiana Staffan de Mistura sottosegretario al ministero degli Esteri
Doveva essere un momento di riconciliazione, invece è saltato tutto dopo un intervento diretto da parte della polizia indiana, dettato da misteriose «ragioni di sicurezza»: niente messa, in programma stamane nella chiesa di Kollam nel cuore del quartiere dei pescatori per il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura. Alle sette il capo della delegazione italiana avrebbe dovuto essere in chiesa, poi in programma c’era un colloquio con il vescovo Stanley Roman e i familiari di uno dei pescatori uccisi nella sparatoria anti-pirati del 15 febbraio scorso, al largo delle costa di Kollam. Ma la polizia di Kollam ha sostenuto che sarebbe avvenuta una manifestazione di protesta contro gli italiani, proprio sul sagrato della chiesa e allora tutto è stato annullato, anche se i contatti con le famiglie proseguiranno ancora. L’agenzia indiana Pti sostiene che l’atmosfera è «carica di tensione» e che i familiari delle vittime si «sarebbero rifiutati di parlare con gli italiani». Nessun commento dal parte di De Mistura che domani sarà a Delhi per una serie di incontri con il governo indiano centrale. Domani scadono le ultime ore del fermo preventivo, prorogato per due volte e forse si apriranno le porte del carcere di Trivanduram per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, attualmente in stato di detenzione nel Police Club di Kollam. C’è un’unica flebile speranza, quella che vengano destinati a un carcere militare.
E cresce l’attesa per gli esiti delle perizie sui proiettili recuperati dai medici legali nei corpi dei pescatori uccisi. Ieri è iniziato a Trivandrum l’esame, alla presenza anche dei carabinieri dei Ros, che proseguirà ancora nelle prossime ore. Ma le indiscrezioni che filtrano da questa prima fase, secondo i media indiani strettamente collegati con gli inquirenti, sarebbero già da interpretare in senso negativo per la sorte dei fucilieri. Da giorni ripetono che una delle ogive avrebbe caratteristiche compatibili con le munizioni Nato. L’esame s’è iniziato «senza intoppi», spiega De Mistura dopo un’ennesima giornata estenuante. La base italiana ha lasciato il Trident di Kochi per un albergo di Kollam, sorvegliato da un complicato sistema di sicurezza, da parte della polizia ma anche da agenti in borghese, in un’atmosfera di grande tensione: jeep, forse dei servizi, davanti ai cancelli e i clienti diminuiti di colpo.
Ormai è un giallo internazionale sempre più intricato poiché esisterebbe anche un documento, redatto nel contesto dell’esame necroscopico, in cui vengono descritte le caratteristiche dell’ogiva e delle ferite provocate sulle vittime. Ebbene, le misurazioni effettuate (ma non da periti balistici) sembrerebbero appartenere invece a una munizione di un calibro leggermente più grosso. Il che sembrerebbe escludere le responsabilità da parte dei San Marco imbarcati sulla «Enrico Lexie», ora ancorata al largo delle coste di Kochi, a 10 miglia. Altro giallo riguarda la scatola nera della nave: secondo i media locali, i dati relativi alle ore in cui la Enrica Lexie si avvicinò al peschereccio indiano «sarebbero stati cancellati».
La Guardia Costiera indiana, subito dopo il fatto, aveva intimato al comandante della nave di rientrare immediatamente nel porto di Kochi. Anche con l’inganno, confermando la presenza di pirati in quel braccio di mare. E poi fu inviato un fax, alla società armatrice di Napoli in cui veniva ribadito l’ordine di riparare a Kochi. E proprio gli armatori avrebbero deciso di imporre al capitano di fare rotta verso il terminale petrolifero. Una decisione assai controversa, visto che il tragico episodio era avvenuto in acque internazionali e fuori dalla giurisdizione dello Stato del Kerala.
I media indiani si soffermano con insistenza sulla mancata visita di De Mistura alla famiglia del pescatore Valentine Jelastine a cui lo Stato del Kerala, per sostenerla in questo momento, ha deciso di donare una somma di denaro pari a 10 mila dollari. Ma specificando che «i familiari hanno rifiutato di incontrarsi con gli italiani», mentre quest’ultimi, per «timore delle reazioni popolari» avrebbe rinunciato a quella che era stata definita «una visita a sorpresa».
Il sottosegretario agli Esteri non ha voluto commentare l’episodio ma racconta invece della visita di ieri ai marò: «Li ho trovati decisi, fermi, pieni di coraggio e pronti a resistere. Sanno che stiamo facendo il possibile». Davanti al Police Club una folla di giornalisti di operatori tv e molti curiosi. Cancelli chiusi con le catene e mezzi militari davanti ai cancelli. Le divergenze tra India e Italia rischiano di diventare, con il trascorrere delle ore, insormontabili.

Corriere della Sera 4.3.12
Ma anche a Mosca sanno che qualcosa si è rotto
di Franco Venturini


Oggi in Russia si vota e Mosca vive con passione il suo catartico rovesciamento delle
parti. Sul capo del sicuro vincitore Vladimir Putin, nei caffè della Tverskaja pieni di giovani come nella folla indistinta della metropolitana, piove di tutto: ladro, incapace, dittatore, avanzo del passato. Il popolo dei putiniani invece in pubblico tace, e si prepara quasi segretamente alle manifestazioni oceaniche organizzate dall'alto.
In fondo è la solita storia, ma a ruoli invertiti: prima non era «in» criticare Putin, ora non è «in» mostrarsi suoi sostenitori.
Forse è proprio da questo capovolgimento di umori e di rispettabilità che viene il pericolo maggiore per lo Zar con i piedi d'argilla che sarà eletto oggi. Cosa è più uno Zar, infatti, quando chiunque può insolentirlo senza pagare dazio? La Tv addomesticata non basta, se in un Paese con cinquanta milioni di internauti la rete ospita le sfuriate di Andrej Navalny contro la corruzione dilagante, centinaia di manifesti libertari o quasi rivoluzionari, filmati di brogli, caricature e fotomontaggi di colui che dovrebbe essere l'uomo forte.
Certo, Mosca non è la Russia. E internet non è il popolo russo. Le presidenziali Putin le vincerebbe anche se fossero organizzate sul modello Westminster, perché sono ancora tante le memorie che può rinverdire nella massa degli elettori: il ristabilimento della dignità della Russia dopo i disastri del secondo Eltsin, otto anni di continuo miglioramento dei livelli di vita, la nascita proprio di quella classe media mai esistita nell'URSS e che ora reclama a gran voce il suo allontanamento.
Ma se un simile curriculum spiega la vittoria elettorale, verosimilmente al primo turno, non è detto che l'albo dei ricordi regga a qual che verrà da domani. «Dopo» è la parola magica che alimenta le speranze dei contestatari come le paure del potere. Dopo, perché non è sicuro che le elezioni, al di là delle accuse di broglio scontate e talvolta strumentali, riescano a sancire quella legittimità del potere di cui Vladimir Putin non può fare a meno. Non si allargherà piuttosto la protesta, non ci sarà il contagio dai grandi centri urbani a quelli minori e alle campagne, non si sveglierà il grande arcipelago della povertà oggi ancora passivo?
Sono parecchi a Mosca i politologi e i sociologi che vedono nell'attuale dinamica «l'inizio della fine di Putin». Che arrivano persino a ritenere improbabile il completamento dei suo mandato di sei anni. Ma in un tempo di passioni come questo una analisi più distaccata è nell'interesse dei russi, dell'Occidente e in particolare dell'Europa affamata di energia.
James Carville faceva dire a Bill Clinton «è l'economia, stupido!». Nella Russia odierna bisognerebbe almeno chiedersi: «è la democrazia, o l'economia?». La società russa è certamente cambiata negli ultimi quindici anni, sono nati gruppi di interesse che non hanno e vogliono avere una rappresentanza politica, è emersa una crescente insofferenza verso l'oligarchia putiniana, la corruzione, la censura informativa, la dipendenza dei giudici. La spinta democratica dunque esiste. Ma è lei, è la voglia di democrazia a spingere il vento che tira oggi sulla Moscova? No o comunque non da sola. Negli anni 2000-2007, quando Putin fece salire a razzo il reddito di alcuni gruppi sociali (i già ricchi e la nuova classe media, appunto), moltiplicò l'offerta di beni e servizi, aprì le porte ai capitali stranieri, nessuna rottura di un consenso quasi egemone venne a turbare il contratto sociale imposto dall'alto: io vi arricchisco, voi state fuori dalla politica. Non trovò riscontri, in quegli anni, la ben nota teoria secondo cui la crescita economica può avere un effetto rivoluzionario provocato dalle nuove aspettative. Ma con la crisi globale del 2008 la musica è cambiata. La Russia ha pagato più caro di tutti, il suo pil ha segnato l'anno seguente un clamoroso meno dieci per cento. Poi è venuta una parziale stabilizzazione, nel 2011 è tornata una crescita del quattro per cento (debole per la Russia), ma la psicologia collettiva aveva ormai recepito un messaggio divenuto ancor più forte con le ripercussioni delle difficoltà dell'euro: il grande balzo in avanti si è arenato, Putin non è più l'uomo del miracolo, chi è ricco rischia di perdere, chi appartiene alla classe media rischia di non diventare ricco o di retrocedere, chi è povero con qualche speranza rischia di dovervi rinunciare.
Questo è il vero serbatoio, immenso e destinato a crescere, della protesta anti-Putin. I suoi metodi sono andati bene nelle prime due presidenze. Poi con il fedelissimo Medvedev al Cremlino, e ancor più ora con il suo ritorno al vertice, Putin sembra a molti l'uomo sbagliato al momento sbagliato. Un uomo non in grado di rimettere l'economia sui binari di quella crescita impetuosa che è stata ormai assaporata, e alla quale tanti non intendono rinunciare.
Putin ha dalla sua, oggi e ancor più domani se dovesse esserci una guerra sul nucleare iraniano, le alte quotazioni del petrolio e del gas che riempiono i forzieri russi. Ma in realtà il dilemma del «dopo» non si riferisce tanto alle risorse disponibili quanto all'uomo Vladimir Putin. Se prevarrà il Putin che abbiamo conosciuto sin qui, l'ex colonnello del KGB deciso a controllare ogni ingranaggio della sua «democrazia gestita» e timoroso di colpire i suoi amici con una seria guerra alla corruzione, la vittoria elettorale gli servirà a poco e anche la durata del suo mandato risulterà a rischio. Se invece Putin sarà capace di trasformarsi in riformatore coraggioso nelle sfere già citate e di aprire così un nuovo tipo di dialogo con la società russa, l'attuale voglia di cambiamento finirà per accettare che sia lui ad amministrarla senza mettere a rischio il bene supremo della stabilità. L'Occidente, che alla stabilità russa è fortemente interessato, deve tifare per questa seconda ipotesi. Ma la ragione ci dice che non è la più probabile.

Repubblica 4.3.12
La Cina in soccorso dell´Europa compra bond Ue, dollaro addio
Pechino volta le spalle a Obama. "Vogliamo diversificare"
La Repubblica popolare ha già acquistato il 24% di 3 emissioni del Fondo salva-Stati
La percentuale di valuta americana nelle riserve degli asiatici è scesa dal 65 al 54%
di Federico Rampini


NEW YORK - La Cina si sta "sganciando" in parte dal dollaro, e finalmente si avvera il sogno europeo di un "cavaliere bianco" in arrivo da Pechino? Gli ultimi dati sugli investimenti cinesi in titoli esteri - quelli che riguardano la gestione delle riserve ufficiali - contengono una novità importante. A dicembre il valore dei Treasury bond americani detenuti dalla Repubblica Popolare è sceso di 156 miliardi, attestandosi a 1.150 miliardi di dollari. La tendenza a una diversificazione nelle riserve ufficiali della banca centrale più ricca del mondo (3.200 miliardi di dollari in totale) dura ormai da qualche tempo.
Lo rivela un´analisi compiuta dallo stesso Dipartimento del Tesoro Usa. Anche se il totale dei bond americani detenuti dalla Cina continua ad aumentare, questo investimento rallenta mentre gli acqusiti in titoli di altre valute crescono molto più rapidamente. E così la percentuale dei dollari, nelle riserve cinesi, è scesa dal 65% nel 2010 al 54% a metà dell´anno scorso. E da allora il movimento di disimpegno dal dollaro ha continuato ad accentuarsi, come dimostra il dato di dicembre. Alcuni interpretano queste scelte come una pura questione di opportunismo: avendo da tempo un obiettivo di riequilibrio del proprio portafoglio (eccessivamente concentrato sui bond Usa), alle autorità di Pechino conviene accelerare questa diversificazione in una fase in cui il dollaro ha ritrovato forza e l´euro è relativamente debole.
La diversificazione sembra anche rispondere a un obiettivo politico. Più volte la Cina si è dichiarata disponibile a contribuire al salvataggio dell´eurozona. L´ultima presa di posizione in questo senso è stata quella del primo ministro Wen Jiabao a febbraio, quando in un intervento al summit Cina-Ue ha dichiarato che «l´Europa è una primaria destinazione degli investimenti cinesi, in un obiettivo di diversificazione delle nostre riserve valutarie». Gli europei erano rimasti un po´ delusi perché a questi proclami di buona volontà non era seguito un immediato e massiccio intervento della Cina come co-finanziatore del fondo salva-Stati detto Efsf. Klaus Regling, chief executive dell´Efsf, si era recato a Pechino nell´ottobre scorso per dei colloqui con i dirigenti del Safe, acronimo per la denominazione Inglese della State Administration of Foreign Exchange, il braccio operativo del governo responsabile per la gestione delle riserve valutarie. Quell´incontro aveva suscitato grandi speranze, poi "gelate" dalla prudenza dei cinesi che sembravano delegare ogni scelta a sedi multilaterali come il Fondo monetario.
In realtà la Cina è stata più generosa di quanto si creda: le sue sottoscrizioni in tre successive aste di bond emessi dall´Efsf hanno rappresentato dal 14% al 24% degli acquisti. Sia pure con il gradualismo e la cautela tipica del processo decisionale di Pechino, l´appoggio all´eurozona si sta concretizzando, e non solo con l´acquisto di attivi industriali o di infrastrutture logistiche ma anche nelle aste dei bond. Non stupisce che sia così: l´Unione europea è un mercato di sbocco leggermente più importante degli stessi Stati Uniti per il made in China, e Pechino non ha nulla da guadagnare da un peggioramento della recessione europea. La diversificazione cinese non sembra però incidere sulla fiducia globale verso il dollaro. Il Wall Street Journal commenta questi dati con il titolo "La Cina si allontana dai dollari, e non è la fine del mondo". Una spiegazione sta nel fatto che la Repubblica Popolare sta anche ridimensionando i suoi attivi commerciali: dal 10% del Pil nel 2007 al 2,7% nel 2011. Un´altra spiegazione della buona salute del dollaro è nel fatto che i mercati ora guardano soprattutto ai differenziali di crescita tra Usa e Ue.

Corriere della Sera 4.3.12
La studentessa, l'insulto sessuale e la telefonata di Obama
di Massimo Gaggi


NEW YORK — «Sgualdrina!»: l'insulto nei confronti di una studentessa universitaria rea di aver criticato le assicurazioni sanitarie che non includono i sistemi di contraccezione tra le prestazioni fornite gratuitamente agli assistiti lanciata da Rush Limbaugh, il conduttore radiofonico di estrema destra più sboccato e criticato d'America, sta incendiando il dibattito politico americano alla vigilia del «Supermartedì» nel quale dieci Stati Usa voteranno per la scelta del candidato repubblicano alla Casa Bianca.
Una campagna elettorale in gran parte centrata sull'economia a causa della lunga recessione e della crisi occupazionale, da qualche tempo sta lasciando spazio anche ai temi etico-religiosi, soprattutto per le sortite di Rick Santorum: un esponente della destra cristiana che in questi giorni sta spostando sempre più la sua campagna verso la contraccezione, la formazione scolastica, la separazione Stato-Chiesa. Argomenti sui quali il suo integralismo cresce giorno dopo giorno. Tanto da far temere allo stesso partito repubblicano di perdere l'appoggio di molte donne e di regalare a Barack Obama i centristi moderati.
Timore che si è rafforzato ieri quando il presidente ha deciso di scendere in campo col massimo della visibilità possibile telefonando la sua solidarietà a Sandra Fluke, la studentessa della Georgetown University di Washington insultata da Limbaugh: l'ha, infatti, chiamata proprio mentre lei stava dando una serie di interviste televisive. Una lunga conversazione telefonica della quale il portavoce di Obama, Jay Carney, ha voluto dare ampio conto durante la quotidiana conferenza stampa alla Casa Bianca.
Quello della contraccezione è da settimane un tema molto caldo e lo stesso presidente, alcuni giorni fa, era stato costretto a una correzione di rotta sull'obiezione di coscienza delle organizzazioni cattoliche, dopo che il governo aveva inizialmente appoggiato una norma in base alla quale tutti i piani sanitari dovevano obbligatoriamente comprendere strumenti di controllo delle nascite.
Scendere di nuovo in campo su questo tema poteva essere politicamente rischioso: il presidente si espone all'accusa della destra di essere il paladino del «preservativo di Stato». Ma i democratici sono convinti che l'offensiva dei conservatori repubblicani sulla contraccezione, quasi sempre condotta da uomini, abbia ormai le caratteristiche di una sorta di «guerra alle donne». O che, comunque, possa essere presentata agli americani come tale. Così Sandra, una ragazza che è andata a spiegare davanti a un «panel» congressuale di avere problemi economici perché la sua mutua non le passa gli anticoncezionali, è diventata il simbolo di questa battaglia.
La Fluke, terzo anni di studi in giurisprudenza, ha, infatti, scelto la Georgetown, l'università dei gesuiti che ha sede a Washington e che nei giorni scorsi si era unita alle proteste delle altre organizzazioni cattoliche quando sembrava che il governo volesse inserire obbligatoriamente gli anticoncezionali in tutte le polizze sanitarie. Esclusa da un'audizione formale del Congresso, che sta discutendo di controllo delle nascite, la Fluke, che all'università è una donna politicamente molto impegnata, è stata invitata dai democratici a parlare davanti a un «panel» informale. Qui si è lamentata: «Spendo mille dollari l'anno di contraccettivi che la mutua dell'università non mi passa».
«Bagascia, quanto sesso fai per spendere tutti quei soldi. Fai vergognare i tuoi genitori», l'ha insultata il giorno dopo dai suoi microfoni Rush Limbaugh. Mentre Obama chiamava per confortarla e dirle che i suoi genitori devono, invece, essere orgogliosi di lei, il conduttore è stato criticato anche dai repubblicani: il capo della maggioranza conservatrice alla Camera, John Boehner, ha definito «inappropriato» l'attacco di Limbaugh. E alcuni inserzionisti della sua trasmissione hanno deciso di cancellare i loro contratti pubblicitari.
Limbaugh non ha più dato della prostituta alla studentessa, ma l'ha attaccata ancora, sostenendo che, se fosse nei panni dei genitori, si andrebbe a nascondere. Ambigua, come spesso accade, la reazione di Mitt Romney: «Io non avrei usato quel tipo di linguaggio».

Corriere della Sera 4.3.12
L'eterna paura, da Atteone ai lupi di Freud
di Silvia Vegetti Finzi


Molte e varie sono le notizie funeste che in questo periodo turbano l'opinione pubblica ma due avvenimenti si distaccano dallo scenario generale. Nel giro di pochi giorni due uomini, senza alcun motivo, sono stati sbranati da un branco di cani randagi, non in luoghi inospitali e selvaggi, ma ai margini di civili periferie urbane. L'imprevedibilità rende questi avvenimenti particolarmente minacciosi e inquietanti, quasi un presagio della catastrofe economica incombente, del malessere diffuso, dell'aggressività che, dilagando, richiama il famoso aforisma di Hobbes: homo homini lupus. Questa risonanza va ben al di là delle considerazioni razionali e coscienti perché la paura di essere sbranati dai cani, o dai lupi che ne rappresentano la natura inaddomesticata, è antica come il mondo. La ritroviamo nel mito di Atteone, il dio allevato dal centauro Chirone nell'arte della caccia, che sarà tramutato da cacciatore in preda. Reo di aver scorto, inavvertitamente, le divine nudità di Diana, il giovane viene trasformato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani. La scena è drammaticamente rappresentata nel gruppo marmoreo che adorna il parco della Reggia di Caserta (nella foto). E, con suggestioni alchemiche, nei dipinti del giovane Perugino che decorano una misteriosa saletta della Rocca di Fontanellato. Giordano Bruno, in «Degli eroici furori», scorge invece nella metamorfosi di Atteone un progresso dell'umanità: da una conoscenza sensuale, cieca e fantastica a un sapere razionale, prossimo alla bellezza e alla sapienza divine. Ma la paura del lupo, che non ci ha mai abbandonato, si ripete costantemente nella prima favola che si racconta ai bambini, quella di Cappuccetto Rosso, dove la piccina e la nonna vengono sì sbranate dal lupo, ma per essere prontamente salvate dal cacciatore, che fa giustizia della mala bestia. Queste figure dell'immaginario collettivo si ritrovano anche nell'inconscio individuale: nei giochi, nelle fantasie, nei sogni. Freud, analizzando a più riprese i sogni del cosiddetto «Uomo dei lupi», percorre uno dei sentieri più ricchi e complessi della sua ricerca. Una interpretazione che si rivela interminabile, anche per il perenne rinnovarsi delle nostre angosce.

Corriere della Sera 4.3.12
Florenskij, da Platone alla Trinità
di Armando Torno


Pavel A. Florenskij (1882-1937) si cominciò a conoscere in Italia allorché Alfredo Cattabiani, direttore della Rusconi, fece tradurre nel 1974 La colonna e il fondamento della verità, l'opera più fascinosa del pensatore russo. Da allora le versioni si sono moltiplicate e la figura di Florenskij — teologo oltre che filosofo, esperto di scienza e tecnica oltre che di iconologia — è diventata nota. In questi giorni ritorna Il significato dell'idealismo (Se, pp. 175, 20) nella versione riveduta di Rossella Zugan, con una postfazione di Natalino Valentini (prima edizione italiana, Rusconi 1999). Pagine che contengono le riflessioni che Florenskij scrisse per il platonismo o il problema degli universali; tuttavia in esse le analisi toccano i temi dell'arte, della teologia e del misticismo. Particolarmente attuali sono le parti che trattano la «dissoluzione della personalità in Picasso» o quelle dedicate a «l'idea, il volto, lo sguardo». Ovviamente il punto di partenza è Platone. Quello di arrivo, invece, sono le «prefigurazioni della Trinità».

l’Unità 4.3.12
Storia e antistoria
Il Gramsci di tutti
di Bruno Bongiovanni


Ètornato Gramsci. È tornato in primo luogo grazie all’edizione nazionale dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Fantastico è il primo volume dell’Epistolario (2009). Si va dal 1906 al 1922. Per quel che riguarda il periodo che va dalla fondazione del PcdI (21 gennaio 1921) sino alla partenza di Antonio, con Graziadei e Bordiga, per Mosca (arrivano il 2 giugno 1922), non si ha nessuna lettera. Poi vi sono le lettere, di enorme interesse, della seconda metà del 1922. Sappiamo, ed è positivo, che i Gramsci sono stati tanti. Quello del 1914, poi della rivoluzione leninista contro Il Capitale di Marx, dei consigli operai, del partito comunista bordighiano, della bolscevizzazione, della Costituente, della lettera di Grieco, della lotta contro la strategia del socialfascismo, dei Quaderni e dell’ultimo periodo in cui, fuori dal carcere, anche se non abbiamo fonti, è respinto sicurissimamente lo stalinismo. Eccellente è poi ora il volume di Rapone Cinque anni che paiono cinque secoli (2011) sul 1914-1919. Ed inutile è polemizzare con Veneziani o con Biocca, già noto, quest’ultimo, per le false denunce contro Silone. Li si lasci chiacchierare. Non li si ricorderà. Si presti attenzione invece a I due carceri di Gramsci (2012) di Lo Piparo, che, su questo giornale, ha pubblicato un intervento elegante. E non importa se crollerà il dogma della continuità tra Gramsci e Togliatti. E se apprenderemo con certezza che, all’uscita dal carcere (1934), per Gramsci l’Urss non rappresentava più il socialismo.
Usciamo dalla gran bonaccia delle Antille. Il Pci ha dato un enorme contributo all’antifascismo e alla nostra rinascita. Riconosciamone le differenze. E non rinunciamo, ventidue anni e mezzo dopo la Bolognina, al Gramsci antistalinista e libertario. È il Gramsci di tutti.

il Riformista Ragioni 4.3.12
Politica & cultura
Questione sociale questione democratica
Tra tanti temi, soprattutto uno ci affascina, quello del futuro del socialismo
Ma tra le polemiche che divampano nel Pd si avverte un certo qual odore di stantio
di Paolo Franchi

qui

il Riformista Ragioni 4.3.12
Ancora in cerca dell’ircocervo liberalsocialista
di Pasquale Terracciano

qui

il Riformista Ragioni 4.3.12
Di quali socialdemocrazie stiamo parlando?
di Dario Parrini

qui

il Riformista Ragioni 4.3.12
Wolfgang Amadeus compositore illuminista e pure riformatore
di Giuseppe Pennisi

qui

Il Tempo 4.3.12
La riflessione di Capelle Dumond con «Filosofia e teologia nel pensiero di Martin Heidegger»
Se la metafisica è la ricerca di «non so cosa»
di Antonio Saccà

qui

Corriere della Sera 4.3.12
L’encefalo di volontari studiato nel corso della vita
e sezionato dopo la morte servirà ai ricercatori del futuro
L’italiano che sta costruendo la biblioteca digitale dei cervelli
La sfida è conservare l'integrità L'italiano che sta costruendo la biblioteca digitale dei cervelli
di Elena Meli


Bette ha compiuto 93 anni alla fine di ottobre. Ha avuto una vita bella e intensa; ora abita da sola, ha molti amici ed è un perfetto esempio di come il cervello possa invecchiare "con successo". Nel novembre del 2009 Bette ha letto un articolo sul quotidiano di San Diego, la città californiana dove vive: parlava del Brain Observatory dell'Università della California e della "biblioteca dei cervelli" che si stava realizzando. Bette non ci ha pensato due volte: ha chiamato subito Jacopo Annese, il direttore italiano del Brain Observatory, ed è diventata "donatrice" per uno dei progetti di ricerca più ambiziosi e appassionanti delle neuroscienze attuali. Bette da allora si racconta allo staff di Annese e si sottopone a test cognitivi e psicologici di vario genere, eseguendo periodicamente risonanze magnetiche che scandagliano l'interno della sua testa; quando "si laureerà" (così lei chiama con molto ottimismo il suo trapasso) lei sa che sarà lo stesso Annese a eseguire l'autopsia e a prelevare il suo cervello per sezionarlo e crearne una mappa digitale tridimensionale, in cui i ricercatori di tutto il mondo poi potranno "navigare" con una risoluzione che arriverà al dettaglio delle singole cellule. Una specie di Google Earth cerebrale possibile grazie alla scelta di Bette e tante altre persone che, come lei, vogliono lasciare qualcosa di sé alla scienza: sono un altro centinaio i donatori che hanno aderito al progetto e già una cinquantina i cervelli al sicuro nel Brain Observatory. L'obiettivo è arrivare come minimo a mille cervelli sia "normali" che affetti da diverse condizioni neurologiche.
F in qui sembra la storia di una classica banca di tessuti, per quanto futuristica nel suo essere digitale e dedicata a un organo speciale come il cervello (il più prezioso da vivi, ma ritenuto di fatto clinicamente "inservibile" post mortem perché non trapiantabile). Invece, il lavoro di Annese è molto di più: servirà a indagare le radici profonde del nostro essere umani e a capire che cosa ci rende quello che siamo, perché nell'archivio digitale saranno raccolte, oltre alle immagini morfologiche, le esperienze dei donatori. «Il cervello umano non può essere studiato come quello di un topo: dentro ognuno ci sono storia, vicende, emozioni uniche e irripetibili. E le esperienze, ormai lo sappiamo, cambiano la trama stessa del tessuto cerebrale — spiega Annese —. L'approccio delle neuroscienze attuali è materialistico; anche il nostro progetto nelle premesse cataloga in modo obiettivo "fettine" di cervello, ma noi andiamo oltre perché indaghiamo la funzione di quell'organo mentre è ancora vivo e ne raccogliamo la storia con accuratezza, anche per celebrare e ricordare la vita di chi ha donato o donerà la parte più importante di sé. In realtà non abbiamo ancora le basi per raccogliere i frutti di tutto questo lavoro. Fra dieci o cento anni invece i ricercatori avranno, si spera, le conoscenze teoriche adatte per sfruttare le informazioni contenute nel catalogo che stiamo costruendo ora: potranno allora confrontare i loro dati di imaging con le nostre mappe morfologiche dettagliate e trovare nuove correlazioni fra la forma e la funzione delle diverse zone cerebrali. Vogliamo mantenere il legame fra l'anatomia della persona e la sua psicologia, vogliamo che gli scienziati del futuro sappiano il lavoro che faceva il donatore o, ad esempio, se era mancino o destrimano, perché questo li aiuterà a interpretare immagini e dati del catalogo digitale». Un archivio che offra anche informazioni su chi ha vissuto con quel cervello potrà svelare che cosa ci rende simili come esseri umani e cosa invece è una caratteristica unica dell'individuo, indicare che cosa di preciso si "guasta" quando funzioni cognitive sono compromesse, come nel caso dell'Alzheimer, come sono orchestrate specifiche attività o caratteristiche emotive e chissà che altro. Starà alle prossime generazioni di ricercatori fare ipotesi e verificarle sulle mappe conservate da Annese con un lavoro certosino che, a sentirne parlare, lascia sgomenti. Di ogni cervello vengono tagliate migliaia di fettine che poi sono colorate, conservate e soprattutto trasformate in dati elettronici. «Per digitalizzare ogni vetrino occorrono almeno sei ore e otteniamo circa mezzo terabyte di dati, perché ogni pixel "copre" meno di mezzo micron di tessuto: se stampassimo le nostre immagini computerizzate a misura reale ciascuna sezione del cervello coprirebbe la facciata di un palazzo — chiarisce Annese —. Archiviare questa enorme mole di dati è perciò una sfida: dobbiamo farlo con attenzione perché un giorno, magari fra un secolo, alcuni vetrini potrebbero andare persi o danneggiarsi. Inoltre, vogliamo che la collezione sia fruibile dagli scienziati ma anche dal grande pubblico, per cui occorre studiare strategie adeguate, dal disegno delle pagine web al catalogo delle informazioni, per garantire un'immediata e semplice accessibilità ai dati. E dobbiamo pensare a come conservare e trasferire il materiale elettronico perché possa rimanere consultabile anche in futuro: se avessimo fatto questo lavoro dieci anni fa e avessimo salvato i dati su floppy disk, oggi l'archivio sarebbe inutilizzabile». «La neuroinformatica — prosegue Annese — sarà perciò per la nostra "biblioteca" sempre più fondamentale, perché ci aiuterà a offrire ai ricercatori un database utile come le classiche illustrazioni anatomiche, ma con una complessità infinitamente maggiore».
Di certo il progetto sta toccando il cuore di chi ci lavora: i donatori raccontano che il laboratorio è per loro una seconda casa, i ricercatori partecipano alla vita di chi ha aderito al progetto, si commuovono alle storie di chi è malato. E quando hanno davanti il cervello di Bishop, che prima di morire per un tumore disse che Annese gli aveva dato una ragione per vivere più a lungo, oppure di Kay, che ha sofferto per anni di Alzheimer, i ricercatori del Brain Observatory non hanno certo bisogno di esortazioni a lavorare con cura: sanno che hanno fra le mani quanto di più sacro c'è in ciascuno di noi.

Corriere della Sera 4.3.12
La collezione è iniziata con Henry Molaison, il più famoso «smemorato» del '900


Uno dei primi cervelli a entrare nelle teche del Brain Observatory è stato quello di Henry Molaison, il paziente più famoso della neurologia moderna. Molaison è morto a 82 anni a fine 2008 e, a partire dall'anno seguente, il suo cervello è stato sezionato in 2401 fettine; le sezioni sono state poi archiviate e organizzate nel 2011 in una mappa virtuale che sarà presto disponibile online grazie al lavoro dei programmatori del Brain Observatory e di Fabrizio Scippa, grafico italiano che sta ultimando il design del sito attraverso cui i ricercatori potranno navigare dentro la mente del più studiato "smemorato" del '900. La storia del "caso clinico HM", come era noto fino alla morte per tutelarne la privacy, è iniziata nel 1953 quando il ventitreenne Henry venne sottoposto a un intervento chirurgico sperimentale per risolvere una grave forma di epilessia. Il chirurgo rimosse da entrambi gli emisferi l'ippocampo: una piccola quantità di materia cerebrale che proprio grazie a Henry si scoprì essere fondamentale per i processi di memoria. Dopo l'operazione i ricordi di Henry rimasero congelati a quel giorno e non fu più in grado di immagazzinarne di nuovi. Dimenticava nel giro di pochi secondi fatti, luoghi, volti. Per i medici Henry, che collaborò per tutta la vita con i neurologi sottoponendosi a test di ogni genere, aveva un valore inestimabile perché era un caso "puro", che mai si sarebbe potuto verificare se non ci fosse stata quell'operazione. E come spesso accade nel campo della neuropsicologia, gli scienziati hanno capito qualcosa di più della memoria da una lesione che ha rimosso in modo specifico proprio questa funzione. Ora il cervello di Henry è pronto per essere studiato in tutti i suoi dettagli, anche se, come spiega Jacopo Annese: «Con l'età si sono formate molte lesioni, per cui credo che tanti dati che si sarebbero potuti raccogliere su di lui saranno in qualche modo "oscurati". Non mi aspetto una rivoluzione nelle neuroscienze della memoria dopo la pubblicazione della mappa cerebrale di HM. Il significato più forte di quel cervello, oggi, è essere stato "banco di prova" per mettere a punto nuove tecniche neuroanatomiche, di imaging e di conservazione dei dati per una biblioteca che si prospetta unica e fondamentale per la conoscenza della mente umana».

l’Unità 4.3.12
Pasolini
I 90 anni del poeta corsaro
Anche se non c’è più continua a vivere nei suoi «anatemi» che sono diventati il nostro presente con mercificazione della cultura razzismo opportunismo e ignoranza assurti a valori della vita
di Giancarlo Liviano D’Arcangelo


Ècanuto e segaligno, aggraziato negli sguardi denudanti e per questo centellinati, intento a muovere con furia nevrotica gli arti affusolati, intricati, pungenti come rovi e duri come la quercia. Nascosto dietro un paio di ombreggianti occhiali da sole di celluloide nera, autoironica concessione al cliché del regista, dell’intellettuale santificato per ansia di disinnesco e relegato al ghetto sepolcrale dell’apparenza. È dura scorgere ciò che accade dietro quegli occhi artificiali dalle lenti ampie e nere di pece, dismessi solo per dormire o per leggere. Eppure Pasolini, prossimo al suo novantesimo compleanno, seppur stanco, depotenziato dalla fatica psichica profusa sulle pagine e ingobbito da quella fisica dissipata sul set, seppur seviziato nei nervi dalla propria ossessione auto-annichilente, è ancora il curculione dal pungiglione avvelenato che, per metà annidato in serra e per metà incalzato da furia insetticida, si nutre e prova a distruggere culture troppo sintetiche per essere trasfigurate in paradisi convincenti. Lampeggia idee. Protesta. Assomiglia al vecchio Hamm beckettiano di Finale di partita, che giunto alla fine della sua esistenza, un’esistenza fin dall’inizio votata alla sconfitta se correlata alla sua ambizione ancestrale, la liberazione dell’uomo, non può che sospendersi e perdersi fino all’eternità in una sorta di estraneazione fondata sulla ciclica e ineluttabile alternanza di mosse e contromosse, guerra spiroidale senza fine tra lui e il mondo esterno, divenuti archetipi. Il giocatore/individuo, ora santo ora demoniaco, in disperata competizione con avversari senza volto: i bari per eccellenza, il caos e «il potere». Vera e propria nemesi per l’outsider e palliativo per l’uomo, utile solo a rinviare ancora un po’ la fine, temuta e al tempo stesso desiderata. In questi anni, tra traduzioni e saggi critici, tra invettive e qualche annuncio apocalittico, Pasolini ha completato Petrolio, golem premiato, glorificato e al contempo demolito, com’è possibile fare in malafe-
de per ogni capolavoro inclassificabile, mastodontico per ambizione e urgenza e fallace per definizione. Ha girato l’opera definitiva su San Paolo, appuntandosi come una medaglia l’ennesima scomunica di una chiesa più che mai carnevalesca, facendo del guerriero di Tarso il primo traditore di Cristo e il primo mistificatore eretico del messaggio evangelico. Ha realizzato con Eduardo de Filippo e Franco Citti Porno-Teo-Kolossal, un film cosmogonico, eroicomico e grottesco, un’opera vagheggiata e organizzata tra mille ostacoli, voluta con prepotenza e imbellettata dal solito amore per il pastiche, in cui accade che una cometa, allegoria babilonese dell'ideologia, trascina dietro a sé un Re Magio interpretato dallo stesso Eduardo, un eroe puro che seguendo quella scia viaggia a lungo maturando esperienza dello scibile intero, del metafisico, del sensoriale e del mistico. L’opera di una vita, insomma. L’unica opera possibile dopo quell’incredibile profezia sulla furia mortuaria della modernità che è stata Salò e le 120 giornate di Sodoma, epigrafe sul potere anarchico dei giorni nostri, messa in evidenza funebre della promiscuità tra carnefici e vittime che s’immolano impotenti, ridotti a corpi-oggetto di sfruttamento, cronaca della perpetrazione fredda e alienante di vita e piacere come routine senza coinvolgimento, affresco dall’estetica cimiteriale tipica del mondo incancrenito dal capitale, che come il sadico non raggiunge mai il grado sublimato del piacere e non gode mai, nemmeno quando ha seviziato e ucciso l’oggetto del proprio godimento, che si tratti del corpo, dell’umanesimo o della natura.
A sorpresa, s’era ridotto all’eremitaggio Pasolini, negli anni 80, quelli in cui molti dei suoi anatemi hanno acquisito forma fenomenica: la vertiginosa mercificazione della cultura ad esempio, o il fascismo insito nel neocapitalismo edonista e consumista, «un potere che manipola i corpi in modo orribile e che non ha nulla da invidiare alla manipolazione fatta da Hitler». Durante gli anni di Drive In insomma. E ancor di più dopo la morte di Moravia nei 90, quelli dell’esplosione delle televisioni commerciali, colpo di grazia tecnologico agli ultimi afflati del mondo originale in cui, prima dell’odierna e placida vecchiaia, Pier Paolo aveva cercato accettazione.
PROFESSIONE BORGHESE
Lui, borghese per professione e paria rifiutato dalla stessa borghesia, immune per coscienza ipertrofica alla borghesia intesa come morbo svelato da una sintomatologia infallibile fatta di razzismo, opportunismo, utilitarismo e ignoranza assorti a valori della vita. Il mondo, quello che batteva, ormai altrettanto corrotto e che l’avrebbe di certo ucciso, se solo Pasolini, già allora ricco e ricattabile oltre che pieno di nemici, nella notte tra il primo e il due novembre si fosse presentato sulla spiaggia dell’Idroscalo con Pelosi e i tre milioni di lire necessari a recuperare le pizze di Salò, anziché ripensarci per miracolo, all’ultimo momento. Già allora, forse, per un uomo che l’amico Carmelo Bene chiamava violento e corruttore in quanto portatore vivente del dubbio e della crisi come ideologia, non c’era più niente da corrompere. E come testimonia il trattato pedagogico Gennariello, volutamente lasciato incompiuto, nemmeno più nulla da insegnare.
Guai a chiamarlo maestro, infatti. Perché mai come oggi, in procinto di compiere novant’anni, Pasolini, come se fosse destinato ad averne per sempre cinquantatré, predicherebbe deciso che i maestri non servono a niente, così come aveva predetto attraverso la voce stridula del corvo di Uccellacci e Uccellini. Vanno superati. E sono fatti, come lui ha sempre dimostrato, «solo per essere mangiati in salsa piccante».

sabato 3 marzo 2012

l’Unità 3.3.12
Dalla parte dell’Unità. Firme e diffusione per difendere un diritto
Continua la mobilitazione contro il divieto della Fiat Intervista a Landini
Firma anche tu per dire: ridateci l’Unità
Intervista a Maurizio Landini
«Cacciano l’Unità e la Fiom perché vogliono espellere il dissenso»
«Il governo batta un colpo: convochi Marchionne per far tornare subito negli stabilimenti sindacato e giornale. In gioco l’idea di democrazia»
di Massimo Franchi


L’ esclusione della Fiom e quindi de l’Unità dalle fabbriche conferma come la Fiat stia instaurando un regime autoritario in cui chiunque dissente è espulso. In gioco c’è l’idea stessa di democrazia e per questo continuo a chiedere l’intervento del governo: batta un colpo e convochi Marchionne per far tornare noi e il vostro giornale negli stabilimenti». Maurizio Landi-
ni sta girando l’Italia in vista dello sciopero e della manifestazione di venerdì prossimo a San Giovanni a Roma. Spiega le ragioni del suo sindacato senza dimenticare il nostro giornale, accomunato nell’ostracismo di Marchionne: «Sono i nostri delegati che lo hanno sempre affisso nelle bacheche».
Landini, martedì davanti alla Magneti Marelli di Bologna la Cgil manifesterà a sostegno de l’Unità.
«È un’iniziativa importante che abbiamo sollecitato. Però bisogna comprendere come la vicenda delle bacheche è dentro alla decisione della Fiat di escludere dalle fabbriche il più grande sindacato, la Fiom Cgil. L’attacco al sindacato e quello alla libertà di stampa sono due facce della stessa logica, quella di costruire un contratto che espelle i lavoratori che non abbassano la testa. Quando ai tre lavoratori di Melfi Fiat dice di rimanere a casa “tanto vi paghiamo lo stesso”, nonostante una sentenza che arriva dopo altre tre che hanno riconosciuto l’azienda colpevole di comportamento anti-sindacale, quando i capi reparto in tutte le fabbriche del gruppo si trasformano in delegati sindacali tenendo assemblee per spiegare il contratto, quando i lavoratori per andare al bagno devono chiedere le chiavi specificando per quanti minuti si assenteranno, siamo davanti a una discriminazione così grande che chiama in causa non la Fiom, la Cgil o l’Unità, ma tutto il mondo del lavoro. E non solo».
Per questo voi venerdì scioperate con lo slogan «Democrazia al lavoro». Da sindacalista che aria annusa in giro? Molti gioirebbero per un vostro flop...
«In queste settimane stiamo incontrando innanzitutto i lavoratori metalmeccanici che stanno vivendo sulla loro pelle un attacco senza precedenti ai loro diritti. In più intorno alla Fiom vedo crescere un consenso sociale che tocca il mondo della cultura (a cui ho rivolto un appello ricevendo adesioni importanti) e dell’università. La nostra battaglia Fiom si lega con una richiesta di partecipazione dal basso, per un nuovo modello di sviluppo e di democrazia partecipata. Sul palco infatti daremo spazio ai precari, agli studenti, al movimento per l’acqua pubblica. Dai segnali che ho, comunque, sono sicuro che la manifestazione sarà un successo».
Il paragone, scontato, è quello con la manifestazione del 16 ottobre 2010. Il clima però è cambiato...
«È cambiato il quadro politico. Non c’è più Berlusconi ed è evidente un indebolimento dei partiti che non considero positivo. Sul piano sociale invece la crisi è peggiorata e, soprattutto, quello che denunciavamo un anno e mezzo fa, il fatto che il contratto di Pomigliano non fosse un caso isolato ma l’inizio di un progressivo attacco ai diritti di tutti i lavoratori, si è sostanzialmente avverato: per questo abbiamo scelto la frase “Democrazia al lavoro”».
Nel Pd intanto la partecipazione alla vostra manifestazione è diventata una questione delicata. Quanti esponenti crede che alla fine verranno in piazza con voi?
«Spero e credo molti, naturalmente. Però posso dare una notizia: uno di loro parlerà dal palco. Si tratta del presidente della Comunità montana della Val di Susa Sandro Plano, che è del Pd e appoggia il movimento “No Tav”. Noi però abbiamo chiesto a tutti i parlamentari italiani ed europei di partecipare perché chi verrà in piazza non starà con la Fiom, ma appoggerà la libertà dei lavoratori di potersi scegliere il loro sindacato, la democrazia perché la Fiat sta attaccando direttamente la Costituzione e ogni parlamentare la dovrebbe difendere». Insisto, tanti esponenti Pd hanno annunciato la loro presenza...
«Io credo che un partito che vuole essere alternativa al berlusconismo deve avere a cuore questi temi. Negli ultimi anni il Pd come tutta la sinistra ha ceduto troppo al mercato e, se devo denunciare una questione, credo che la principale sia che non c’è adeguata rappresentanza politica per il mondo del lavoro».
Venerdì non ci sarà Susanna Camusso che sarà a New York per un impegno preso da mesi e concomitante con lo slittamento della vostra manifestazione. Ma con la Cgil in questo momento c’è grande sintonia. «Abbiamo avuto appoggio pieno per questa mobilitazione e sicuramente dal palco parlerà un esponente importante della segreteria. Anche per quanto riguarda la trattativa sul mercato del lavoro la posizione della Cgil è giusta: l’articolo 18 non si tocca, gli ammortizzatori si possono allargare facendo contribuire tutte le aziende e tutti i lavoratori. E per i disoccupati e i giovani noi proponiamo un assegno di cittadinanza finanziato con la patrimoniale».
Landini, in conclusione proviamo a essere ottimisti. Fra quanto rivredremo la Fiom e l’Unità nelle fabbriche della Fiat?
«Noi andiamo avanti e ci riusciremo. Andiamo avanti a chiedere a Fim, Uilm e Federmeccanica un’incontro sulla rappresentanza, a fare cause contro i soprusi della Fiat, a chiedere al governo di interventire».
Quale via, quella sindacale, politica o giudiziaria, vede più efficace? «Cause a parte, che comunque porteremo avanti finché la Fiat non le rispetterà, fare il sindacalista è il mio mestiere e continuerò a farlo. Detto questo, una legge sulla rappresentanza serve e il governo la potrebbe emanare domattina, così come deve convocare Marchionne e chiedergli di rispettare le sentenze e imporgli di non andarsene dall’Italia».

l’Unità 3.3.12
Articolo 21 celebra i primi dieci anni
«Ribellarsi subito o sarà troppo tardi»
Il caso de l’Unità cacciata dalla Marelli approda all’assemblea dei 10 anni dell’associazione Articolo 21. Il portavoce Giulietti: «Una prepotenza aberrante che non riguarda solo l’Unità: se non ci si ribella subito poi sarà tardi».
di Stefano Miliani


«È aberrante. L’Unità cacciata dalle bacheche è frutto di un’idea oligarchica della società. Dire “Non mi piace perciò la cancello”, dire “non mi piace Avvenire perché parla di morti in Africa e lo cancello”, è aberrante». Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21, dal tavolo dell’assemblea per i dieci anni dell’associazione, ritiene drammaticamente emblematica per l’Italia la cacciata della nostra testata dalle bacheche del sindacato alla Magneti Marelli di Bologna e Bari.
«È una cosa invereconda – puntualizza in una videointervista sul nostro sito – non mi piace quando si stacca un qualunque giornale dalla bacheca di una fabbrica, non mi piace quando un presidente Fiat dice fuori a tre operai reintegrati da una sentenza. È inaccettabile e bisogna presentarsi con l’Unità nei luoghi di lavoro. Questa prepotenza non riguarda solo l’Unità, se non ti ribelli subito poi sarà troppo tardi». Come ricordava una poesia di Brecht per situazioni certo più tragiche: un giorno tocca a un altro ma se non ti muovi in tempo poi toccherà a te.
Articolo 21 nacque nel marzo 2002, un mese dopo Berlusconi «emanò» il famoso diktat bulgaro che di lì a poco avrebbe estromesso dalla Rai Biagi, Luttazzi e Santoro. Un decennio dopo l’associazione che combatte affinché l’articolo della Costituzione sulla libertà di stampa sia rispettato e non calpestato si ritrova in una chiesa sconsacrata dalle vetrate gialle e azzurre nel centro di Roma.
I giornalisti e le giornaliste non celebrano una festa perché lo scenario è tutt’altro che idilliaco, pur se al momento privo degli estremismi del reuccio di Arcore. Infatti l’esclusione de l’Unità da fabbriche del gruppo Fiat è considerata emblematica. Il nostro direttore Claudio Sardo prende pubblicamente la parola: «Non si tratta solo della libertà di stampa di un giornale, in discussione c’è lo spazio di libertà dei lavoratori, c’è il principio dell’articolo 21 della Costituzione. Ci sono forze che tendono a costruire una democrazia senza partiti, a ridurre il pluralismo sociale in una società dove i cittadini sono soli davanti allo Stato e al mercato. Così impoveriamo l’idea della nostra democrazia».
IL CONFLITTO D’INTERESSI
Il motto del convegno è «quello di Scalfaro, né sotto dittatura, né sotto dettatura», segnala Corradino di Articolo 21. Con queste parole in mente Giulietti, parlamentare del gruppo Misto, butta sul tavolo delle proposte a Palazzo Chigi: «Il berlusconismo continua a vivere, a condizionare linguaggi e pratiche politiche». Dunque, in primo luogo, la tv e la Rai. «A Monti diciamo: il conflitto d’interessi va risolto a prescindere da Berlusconi. Da qui serve il divieto assoluto per chiunque di essere amministratore pubblico e contemporaneamente titolare di concessioni pubbliche».
Al presidente del Consiglio Giulietti pone una scadenza “televisiva”, anzi due: «Il premier indica entro maggio l’asta per le frequenze digitali. E a fine marzo scade il cda della Rai. Il governo proponga una nuova fonte di nomina che recida ogni cordone ombelicale con i governi, i partiti e anche con le logge e la banda del conflitto di interessi». Ma in dieci anni il mondo è andato molto al di là del teleschermo, internet è andato molto oltre. Infatti Vincenzo Vita, senatore Pd, annuncia un osservatorio per tutelare a libertà in rete: «Sì, lanciamo Articolo 21 bis perché l’informazione è ormai multimediale».

Corriere della Sera 3.3.12
«Aska» e anarchici, chi sono i duri
Identikit degli estremisti. Su 60 mila valligiani, solo 500 agli scontri
di Marco Imarisio


L'ala dura e gli altri. Dai centri sociali ai comitati di valle. La prima manifestazione contro l'Alta velocità porta la data del 2 marzo 1995. Da allora è cambiato molto. Volti, proposte e anche i modi di agire. La galassia dei movimenti No Tav.

BUSSOLENO (Torino) — La bandiera bianca dei No Tav doveva essere rossa. Nel 1999 i valligiani avevano scelto un colore, e un simbolo, con un forte segno politico. Furono i militanti di Askatasuna, proprio quelli che oggi mantengono un tratto ideologico più marcato all'interno del movimento, a convincere gli altri della necessità di una scelta più neutra.
Niente è come sembra, in questa storia dove ormai le distinzioni si fanno sempre più sottili. Lunedì scorso trenta persone si sono sedute sull'autostrada per impedire lo sgombero dell'autostrada. Accanto ad Alberto Perino, figura di riferimento della Val di Susa più intransigente, c'era Massimo Passamani, capo degli anarchici di Rovereto, diventato famoso nel 2006 per aver sottratto la fiamma olimpica al tedoforo che la portava per le strade di Trento, e non solo per quello. Nel dicembre 2009 alcuni membri del suo gruppo furono arrestati in Grecia dopo gli scontri avvenuti in seguito all'uccisione di uno studente da parte della polizia.
Questa commistione, magari involontaria, rende ancora più delicato l'equilibrio di un movimento che ha cambiato pelle, diventando un magma incontrollato. La divisione per categorie della sua parte più bellicosa va presa con beneficio di inventario, perché troppe sono ormai le incognite e i collegamenti interni di una protesta che rivendica l'unità di intenti in ogni sua scelta.
I valligiani
La prima manifestazione contro l'Alta velocità porta la data del 2 marzo 1995. Da allora è cambiato molto. Volti, proposte, e purtroppo anche le pratiche. Il nucleo originario è incarnato da Alberto Perino, bancario in pensione, incautamente definito come lo Josè Bove della Val di Susa, protagonista di una involuzione radicale che in qualche modo simboleggia la parabola di una parte di questo gruppo di militanti ben consapevole di essere minoranza a casa sua.
Gli abitanti che partecipano alle manifestazioni pacifiche sono circa 8.000 su un totale di 60.000 residenti in Alta e Bassa valle. Il numero si abbassa drasticamente quando si parla di scontri con le forze dell'ordine: 400-500 persone. Sempre determinati, decisi. La loro conoscenza del territorio li porta ad agire da sherpa per gli ospiti giunti da fuori. Nel 2005 furono decisivi per le sorti della cosiddetta battaglia di Venaus, quando riconquistarono il cantiere aperto nella notte dalle forze dell'ordine.
Forse fu quello l'ultimo episodio di lotta condotto quasi interamente in proprio. Ma non si pensi a un gruppo di maturi signori. Il sentimento valligiano di ribellione all'opera ha prodotto una generazione che ha elaborato una nuova forma di antagonismo radicale. Più aperta alla contaminazione con altre realtà, aggregata intorno a gruppi come il centro sociale Takùma di Avigliana, l'associazione Spinta dal bass, il presidio permanente Pikapera di Vaie. Capita spesso che i giovani della valle si rivelino come l'ala più radicale del movimento.
Gli autonomi
Da questo titolo manca il suffisso «ex» a ragion veduta. Askatasuna è una scheggia degli anni Settanta arrivata intatta fino ai giorni nostri. Il centro sociale torinese si ispira alla vecchia autonomia. Non alla versione intellettuale di Toni Negri, ma a quella romana di via dei Volsci, più portata all'azione diretta, alla contrapposizione violenta con lo Stato. «Per troppo tempo — raccontava qualche mese fa uno dei suoi capi — la sinistra è stata identificata con l'operatore sociale o il volontariato delle organizzazioni non governative. Noi siamo la sinistra dura, quella che un tempo spaccava il c... ai fascisti».
La storia di Askatasuna è ormai inscindibile da quella del movimento No Tav. Il primo comitato di lotta popolare a Bussoleno venne fondato da Giorgio Rossetto, pioniere del centro sociale nato nel 1996 con l'occupazione di un palazzo del Comune di Torino, arrestato per gli scontri del 3 luglio, che ha finito per prendere la residenza proprio in Val di Susa. Il legame è forte, figure come Francesco Richetto, nato a Bussoleno e militante del centro sociale, funzionano da cerniera.
«Aska» e i suoi militanti, 6-700 contando anche i collettivi studenteschi, è stata la porta del movimento No Tav. L'ha fatto uscire dall'ambito locale, inserendolo nel proprio network fatto di centri sociali di ispirazione simile — romani, bolognesi, trentini, genovesi — ben distanti dalla vocazione politica degli ormai ex Disobbedienti di Luca Casarini. Fa entrare i militanti della sua area ogni qual volta ce ne sia bisogno, gli scontri del 3 luglio furono preceduti da una lunga serie di inviti alla mobilitazione pubblicati sui propri siti di riferimento. In questi giorni si propongono come mediatori con i militanti più duri, consapevoli dell'impossibilità di reggere questa situazione di scontro permanente. A ben pensarci, un paradosso.
Gli anarchici
Da sempre l'area più misteriosa e insondabile, non solo in Val di Susa. Anni fa venivano allontanati come fossero monatti, oggi sono graditi ospiti, parenti strani che spesso danno in escandescenze. La componente più dura e incontrollabile, che spesso pesca nel bacino del disagio sociale. Il legame con questa protesta risale al 1998, al suicidio in carcere di Edoardo Massari e Maria Soledad Rosas, arrestati insieme all'anarchico valligiano Silvio Pelissero per la loro presunta partecipazione a una serie di attentati contro l'Alta velocità. Una vicenda terribile e ancora oggi oscura.
I torinesi gravitano intorno ai centri sociali El Paso e Barocchio, hanno organi propri di informazione come radio Black out, e mantengono collegamenti con i black bloc europei. Dall'Italia arrivano soprattutto da Milano e Roma, gli stranieri più presenti sono i francesi, tendenza anarco-ambientalista, ben connessi in valle con una rete di relazioni personali. Luca Abbà, il militante rimasto folgorato sul traliccio accanto alla baita Clarea, è sempre stato considerato anche dai suoi compagni come una sorta di ufficiale di collegamento con questo mondo.
Nel luglio scorso occupavano il settore più isolato del campeggio No Tav, ben distanti dagli altri. Non si fermano mai, non partecipano alle assemblee. Vanno e vengono solo quando c'è da menare le mani, arte che in questi mesi hanno esercitato spesso su giornalisti e operatori, oltre che sui poliziotti. Durante gli scontri sull'autostrada sono stati fermati anche due squatter di nazionalità turca, a conferma del grande richiamo che ormai esercita la Val di Susa. Le informative della polizia li inseriscono nella galassia riferibile alla Federazione anarchica informale. Ma spesso le galassie contengono al loro interno alcune nebulose.

l’Unità 3.3.12
Il Pd, né montiani né socialdemocratici
di Antonello Giacomelli


Il Pd sostiene lealmente il governo Monti, che ha fortemente voluto. In questo momento e con questi numeri parlamentari non c’era soluzione migliore per salvare il Paese dal disastro economico. Berlusconi guidava una destra incompetente e sguaiata, pretendeva di piegare le regole al proprio interesse e ha portato l’Italia quasi al disastro.
Monti è competente, serio, stimato a livello internazionale ed applica le regole. I risultati, per il Paese, si vedono e dunque il Pd fa bene, in questa fase, a sostenerlo. Anche se, questo è il punto vero, le politiche di questo governo non sono identificabili con il progetto riformista che noi sosteniamo. Intendiamoci, non mancano certo decisioni condivisibili nella politica di Monti: dal convinto europeismo
alla lotta all’evasione fiscale, molti sono i punti apprezzabili. È semmai l'impianto di fondo, la cultura che Monti esprime a rendere, almeno per me, impossibile collocarmi nella schiera di quanti si identificano senza riserve in lui e nella sua azione.
Lo dico non da aspirante laburista ma da cattolico democratico, fortemente convinto, senza clericalismi, che la dottrina sociale della Chiesa debba essere oggi, per un centrosinistra non velleitario e non settario il riferimento più forte per affermare nel nostro Paese una nuova cultura della persona e della libertà. Monti rispetta ed applica le regole; le regole di un sistema liberista, tutto fondato sul valore salvifico del mercato e della competizione, in cui si ritiene accettabile l’idea che c'è chi ce la fa e chi non ce la fa, in cui la ricchezza è la misura del valore delle persone, chi arranca merita solo la definizione sprezzante di «sfigati», e chi cerca qualche certezza di lavoro è percepito con fastidio come una persona «noiosa».
Monti applica le regole di un sistema che per funzionare chiede di rendere definitiva, a vantaggio di pochi, la precarietà di intere generazioni e la diminuzione di tutele e diritti. Un sistema che fa la voce grossa con tassisti e camionisti in nome della liberalizzazione, ma che non tocca l'inquietante intreccio fra editoria, credito, industria e finanza, come se il conflitto di interessi fosse limitato a Berlusconi e non riguardasse invece la concentrazione in poche mani, sempre le stesse, di enormi poteri. Del resto, meglio e più autorevolmente di me, è stato Stefano Zamagni, su Famiglia Cristiana, a dire, che questo governo non capisce cosa sia il Terzo settore, non capisce la rilevanza del modello italiano di welfare e sta distruggendo tutti i corpi intermedi fra lo Stato ed il mercato.
In una breve fase di emergenza nazionale, lo abbiamo sempre detto, tutto può essere sopportato; anche perchè il fallimento dell'Italia provocherebbe drammi che peserebbero soprattutto su chi è più debole e indifeso. Ma immaginare che questo impianto culturale sia quello con cui può identificarsi il Pd mi sembra inconcepibile. Al contrario, penso che il Pd sia nato esattamente per riformare quel sistema e quelle regole, per moltiplicare le opportunità, per rendere più moderno il sistema di protezione sociale, per assicurare alla persona, indipendendemente dal tipo di contratto, diritti e tutele fondamentali, per rendere tutti, in qualche misura, protagonisti della crescita, per una tutela vera della famiglia e della natalità, perché la qualità di scuola e formazione non siano privilegio di pochi, per avere istituzioni rappresentative, anche europee, in grado di governare con equità i processi finanziari e il mercato globale. In una parola, per mettere davvero la persona, nella sua interezza e nella sua libertà al centro dell'azione politica.
Certo, per raggiungere questo obiettivo ambizioso, occorre liberarsi di nostalgie ed illusioni ideologiche; non può essere la cultura socialista o socialdemocratica la cifra della nostra identità, non abbiamo voluto il Pd per appiccicare un’etichetta nuova a un contenuto vecchio e inadeguato. E, voglio dirlo con rispetto ma chiaramente, non aiutano certe scelte «personali»: è difficile capire come si possa stare nella segreteria nazionale del Pd, condividere lo sforzo del Pd per favorire un accordo del governo con le parti sociali e contemporaneamente aderire all’iniziativa della Fiom. A me la contraddizione pare evidente e, se non vi fosse contraddizione, sarebbe anche peggio. Monti, con il suo governo, sta facendo quanto deve per il Paese. Noi dobbiamo fare quanto è necessario per farci trovare preparati dopo questa fase, con un progetto che guarda al domani e che è capace di parlare ai cittadini di oggi. Polemizzare quotidianamente fra liberisti dell’ultima ora e nostalgici del socialismo serve solo a rendere muto il Pd.

La Stampa 3.3.12
Grande coalizione e malumore nel Pd. “Da stoppare prima”
Ma soprattutto preoccupa quale futuro dare a Monti
di Carlo Bertini


Berlusconi vuole apparire riverniciato come l’uomo della pacificazione. Ma sulla grande coalizione bisognava stopparlo subito e senza mezzi termini, altrimenti sarebbe scattato il dubbio che potesse esserci un qualche disegno in tal senso». A sentire la spiegazione che uno dei primi tre dirigenti del Pd fornisce sotto garanzia di anonimato, questa è la ragione per cui Bersani l’altro ieri ha subito gelato Berlusconi e le sue «velleità» di governare insieme al Pd anche dopo il 2013. E a sentire i giudizi dell’entourage del segretario Pd su Berlusconi, dipinto come «un pugile in difficoltà che cerca di aggrapparsi all’avversario per tirarlo giù», si capisce meglio la reazione tranchant a questo abbraccio. A impensierire il leader Democratico non è tanto il Cavaliere, quanto il futuro politico che molti nel suo partito vorrebbero dare a Monti. Tanto che dalle parti di Bersani tengono a chiarire che «nel 2013 si tornerà ad una situazione bipolare anche se più civile, ma non ci sarà alcuna possibilità di un Monti bis con tutti dentro. Se lui lo vorrà potrà decidere di stare col centrosinistra o col centrodestra; ma dopo l’emergenza si torna alla democrazia».
Lo stesso Casini ammette che non è il momento di strattonare Bersani che «ha fatto una scelta impopolare per una parte del suo elettorato. Chiedergli oggi di fare un patto per dopo sarebbe assurdo, vedremo quel che capita». Inutile aggiungere che alla vigilia di primarie a dir poco complicate a Palermo e in piena campagna per le amministrative, sarebbe stato a dir poco imprudente mostrare la più flebile apertura ad un’ipotesi di grande coalizione. E in questo passaggio, il segretario Pd è voluto intervenire in prima persona anche per dare il senso di una compattezza del suo partito sul no all’inciucio. Visto che proprio su questo il Pd è stato bersagliato più volte da Di Pietro fino a sfiorare la rottura, e che qualsiasi apertura all’avversario più temuto fino a ieri verrebbe pagata duramente nei sondaggi.
Ma le divisioni nello stato maggiore dei Democratici in questa fase non riguardano la convinzione comune di doversi presentare al Paese come un’alternativa credibile ad un centrodestra spappolato; quanto piuttosto il futuro di Monti e i compagni di strada con cui condividere l’avventura delle politiche. Se la Bindi ripete che quella di Monti «è una stagione a termine e dopo non ci saranno larghe intese» e Di Pietro rilancia «la foto di Vasto con Pd e Sel per le prossime elezioni», il vice di Bersani, Enrico Letta, in un’intervista ad «Avvenire» suona un’altra musica: quella di «un bipolarismo dolce che compete al centro». Puntando più ad un’alleanza con il Terzo Polo e con Casini. Il quale l’altro ieri ha ribadito che se il Pd è quello dell’alleanza di Vasto lui c’entra «come il cavolo a merenda». E quindi va da sé che Letta, ascrivibile al partito dei «montiani» come il leader dell’Udc, abbia gioco facile nel tirare dalla sua parte. Perché se «il Pdl e la Lega difficilmente si rimetteranno insieme, il Pd non credo possa stringere un patto con chi si oppone a questo governo». Con una conclusione, «dobbiamo fare un Pd forte a prescindere dalle alleanze, un Pd autonomo», che ricorda tanto lo slogan veltroniano sulla «vocazione maggioritaria».
Tutto ciò si intreccia con le manovre sulla legge elettorale che il Pd vive con apprensione: se la riforma non andasse in porto, la reazione dell’«antipolitica» cadrebbe sulle spalle dei Democratici più che sui partiti di centrodestra. «Noi siamo consapevoli - spiegava un altro dirigente Pd giorni fa - che è il nostro elettorato che vuole scegliersi i parlamentari; e che non vuole esser chiamato a votare di nuovo col porcellum».

Repubblica 3.3.12
Pd compatto sulla linea della fermezza, rottura con Vendola e Di Pietro. Scende il gelo con la Fiom
 E Bersani attacca Landini: pensi a quegli operai
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Se Landini pensasse anche agli operai che lavorano nei cantieri della Tav, renderebbe un buon servizio al sindacato». Senza sbandamenti Pier Luigi Bersani prepara una battaglia contro la foto di Vasto e persino contro un pezzo delle sigle dei lavoratori. Un battaglia tutt´altro che solitaria perché l´intero Partito democratico è sulla linea della fermezza quando si parla della Torino-Lione: niente tavoli, niente moratoria, nessuna sospensione. Soprattutto, basta violenza. «Abbiamo già fatto tutto quello che dovevamo quattro anni fa - ricorda Enrico Letta, allora sottosegretario a Palazzo Chigi - . Mi stupisce che Vendola e Di Pietro facciano oggi la stessa richiesta di ieri. Loro c´erano e sanno. Dimostrano scarsa serietà». Ma la posizione di Idv e Sel non fa che confermare la scelta del vicesegretario: mai più alle elezioni con Nichi e Tonino. «È una questione di credibilità».
Anche Bersani pensa che il comportamento di Di Pietro e Vendola sia strumentale, poco adatto a un´alleanza di governo. Non romperà sulla Tav, ma neanche dimenticherà i difficili passaggi di questi giorni. La difesa dell´opera e la condanna delle violenze non lascia crepe nel Pd. Non a caso Bersani, durante la trasmissione di Santoro, ha usato anche l´argomento del terrorismo: conosce i dossier del Viminale, sa che emergono collegamenti tra il movimento gli anarco-insurrezionalisti. Nel silenzio dei giornalisti presenti, giovedì sera in tv ha lanciato l´allarme. A Largo del Nazareno sono indignati anche per il sostegno al movimento No-Tav, o meglio alle sue frange estreme di una parte importante del sindacato. «Landini, il segretario della Fiom, sta sbagliando sull´Alta velocità», avverte Matteo Orfini, membro della segreteria. Orfini, Fassina e Damiano sono attesi sabato alla manifestazione dei metalmeccanici contro Marchionne e la riforma del mercato del lavoro. «Ma se i No-Tav entrano nel corteo, se un solo esponente del movimento viene invitato sul palco, me resto a casa», annuncia Orfini. Tra i democratici non si vedono strappi e non si temono contraccolpi sulla base, cioè sul consenso. «I militanti soffrono le indecisioni - spiega il veltroniano Giorgio Tonini - ma quando la tenuta non è in discussione capiscono. E hanno assimilato una cultura di governo». Letta è ancora più malizioso: «Il video del manifestante che insulta il carabiniere ha fatto un danno enorme alla protesta. Santoro dovrà faticare parecchio per ridare un´immagine positiva ai contestatori». La frattura semmai è nel centrosinistra vecchio stile. Un appello per la moratoria, per la sospensione dei lavori promosso da Don Ciotti viene firmato da Vendola, De Magistris, dal sindaco di Bari (Pd) Michele Emiliano, dall´Arci. «La Val Susa non può essere trattata come una scuola materna, con il paternalismo autoritario», spiega il governatore pugliese. E anche Di Pietro chiede di riaprire un tavolo tecnico fermando i lavori.

Repubblica 3.3.12
Il riformismo del Pd
di Miguel Gotor


DOPO il governo Monti nulla sarà come prima, cantilenano i gattopardi italiani. Dal momento che siamo un Paese gerontocratico dobbiamo però chiederci a quale "prima" si vuol fare riferimento.
L´impressione è che ci sia in giro una gran voglia di riesumare un reperto archeologico, gli anni Settanta, con il suo inevitabile rosario di citazioni pasoliniane: a destra l´antagonismo è ridotto a terrorismo in base a un´inedita strategia del rancore, mentre tra i radicali il movimento No Tav è cavalcato per nuocere al Partito democratico, all´eterno grido del tradimento a sinistra. Riflessi antichi, quelli di un sistema anchilosato che si regge solo per il suo irrigidimento da paralitico, avrebbe detto Antonio Gramsci.
Spia di questa convergenza è la sottovalutazione di un fatto grave in una democrazia, ossia l´occupazione della sede nazionale del Pd da parte di un gruppo di No Tav, una distrazione che vela un evidente compiacimento: quello di vedere ancora una volta quel partito, proprio come il Pci che fu, in balia di «opposti estremismi», vittima della sua presunta ambiguità costitutiva.
Eppure la difficoltà del tempo presente può rivelarsi per il Pd una formidabile occasione per liberare il proprio profilo riformista, che anzitutto significa non farsi invischiare in queste provocazioni, basate sui meccanismi di un´Italia vecchia e immobile che teorizza il palingenetico cambiamento di ogni cosa, affinché tutto alla fine rimanga uguale.
Anzitutto però il Pd deve accettare l´esistenza di un radicalismo alla propria sinistra. È questa la conseguenza inevitabile della sua aspirazione a essere un partito nazionale di governo. All´atto della fondazione quel partito ha scelto di impugnare la bandiera del riformismo, ma non può limitarsi a sventolarla e deve trarne delle conseguenze sul piano dell´azione politica: guidare e non essere guidati è il compito, diciamo pure la responsabilità nazionale, del primo partito italiano in una crisi scivolosa come questa, dove la possibilità di un precipitare dello scontro tra forconi di destra ed estremismi di sinistra, leghismi del nord e del sud è a un passo e la politica nel suo insieme non è mai stata tanto debole.
«Pas d´ennemis à gauche» era il complesso atavico del vecchio Pci e non può esserlo anche per il nuovo Pd, in quanto proprio su questo punto deve misurarsi una discontinuità. Quella formula era il risultato di un mondo bloccato e di una democrazia zoppa, ove la Dc aveva il monopolio del governo e il Pci l´egemonia dell´opposizione, senza alcuna possibilità di realizzare l´alternanza. Un quadro statico che induceva quel partito a demonizzare qualunque fermento radicale alla sua sinistra: l´egemonia era una sorta di premio di consolazione che imponeva di sfidare, sviluppando una continua dialettica tra volontà di inglobamento e resistenza, ogni fermento vitale al di fuori di essa.
Allo stesso modo in quell´Italia lontana, che in tanti ricordano ancora bene con la sua speciale miscela di crisi economica, solidarietà nazionale, movimenti sociali e terrorismo, si andò sviluppando un´eterogenesi dei fini tra moderati e gruppi extraparlamentari: il ruolo «antipiccista» di quella sinistra radicale è stato la maggiore garanzia della sua sopravvivenza culturale, ben al di là del reale consenso politico che nel Paese non ha mai superato il 3%. Eppure l´influenza è stata assai maggiore perché era funzionale al consolidamento in senso moderato del quadro italiano: si soffiava sul fuoco del radicalismo di destra e di sinistra e ne usciva un miracoloso incenso conservatore, destabilizzando per stabilizzare come recitavano seguitissimi manuali.
I comportamenti di Bersani in questi giorni meritano di essere sottolineati perché lasciano prefigurare la consapevolezza di non cadere nelle trappole di quel passato. Sulla questione No Tav, ad esempio, nell´arena di Santoro, è stato assai efficace: solo contro tutti, le gambe larghe e la cravatta slacciata a rispondere colpo su colpo al moralismo di alcuni e alla demagogia di altri. La questione della Tav è stata tenuta al livello che merita, ossia una sfida democratica: ogni violenza deve essere bandita, non è vero che non si è dialogato con associazioni e comuni che hanno deliberato a maggioranza la loro decisione favorevole; discutere non può significare bloccare i lavori, ma piuttosto affrontare temi assai concreti come evitare le infiltrazioni mafiose nella gestione degli appalti, mantenere la massima sicurezza nei cantieri, dislocare risorse a vantaggio delle popolazioni danneggiate dai disagi. Ma la Tav va fatta perché risponde a un interesse italiano ed europeo e così è stato deliberato a ogni istanza rappresentativa: una democrazia che non realizza le sue decisioni non fa altro che aumentare il proprio discredito.
Sempre nelle stesse ore bene ha fatto il segretario del Pd a rispedire al mittente la proposta di una grande coalizione anche dopo le elezioni del 2013 rivendicando per l´Italia un destino normale, quello di una democrazia che respira con due polmoni e attraverso le elezioni confronta proposte alternative garantendo l´alternanza. Ma la confusione delle lingue ormai ha raggiunto livelli enormi e c´è chi considera un segno di riformismo prospettare l´eventualità di continuare a governare con Cicchitto e Gasparri, a prescindere dal risultato delle elezioni, anzi ritagliando su misura una legge elettorale nuova che possa favorire tale esito. Tutto questo i gattopardi italiani lo sanno bene e per questa ragione il Pd di Bersani disturba e dà fastidio. Continui pure a farlo elevando il senso riformista della sua sfida, che oggi significa proseguire a fare politica nel solco di rinnovamento e rigenerazione tracciato dal governo Monti, ma a testa alta, con lo sguardo rivolto all´Italia di oggi e a quella di domani.

l’Unità 3.3.12
Fondo per l’editoria: per la stampa di idee una boccata di ossigeno Ma restano i rischi
Il governo Monti rifinanzia il Fondo per l’editoria «assistita» che sale a 120 milioni. Fammoni (Cgil): è solo una boccata d’ossigeno. Per Mediacoop il rischio chiusura resta. Siddi (Fnsi) chiede una riforma a tutela del pluralismo.
di Roberto Monteforte


Una boccata d’ossigeno. Questo rappresenta il rifinanziamento del Fondo per l’editoria deciso giovedì sera da Palazzo Chigi con il decreto della presidenza del Consiglio che ha portato a oltre 120 milioni le risorse disponibili per il 2012 e relative alle spese sostenute l’anno precedente. È solo il primo passo.
Lo scorso anno erano stati 150 i milioni disponibili. L’anno prima 180. Per quest’anno per l’editoria assistita erano previsti solo 47 milioni di euro. Con quella cifra sarebbe stata morte sicura per molte delle cento testate non profit, cooperative, politiche e di idee alle quali è indirizzato il finanziamento pubblico diretto. Sono oltre quattromila i dipendenti che avrebbero potuto perdere il posto del lavoro. Quanto l’allarme fosse vero lo testimonia la chiusura di Liberazione, di Terra, de L’Informazione-Il Domani di Bologna e di altre testate cooperative e non profit. Il Manifesto è sotto il controllo di un commissario liquidatore.
Malgrado quei 120 milioni il destino dell’intero settore è ancora a rischio, perché quell’importo va a copertura di quanto le aziende editoriali hanno già speso nel 2011, prevedendo finanziamenti almeno del 15 per cento superiori. Non compensano i tagli dragoniani già imposti dal governo Berlusconi e poi confermati dall’esecutivo del professor Monti. Sulle aziende del settore pesano, infatti, sia i tagli retroattivi ai bilanci 2010 che quelli ai bilanci 2011. «Era un provvedimento lungamente atteso che però ancora non allontana lo spetto della chiusura di un centinaio di testate, in quanto copre solo parzialmente spese già fatte nel 2011 e quindi costi non comprimibili», lo conferma Lelio Grassucci presidente onorario di Mediacoop, che rappresenta le testate cooperative. Certo, qualcosa si è mosso grazie all’iniziativa incessante delle redazioni coinvolte, dei loro direttori, del Comitato per la libertà di informazione e del pluralismo, della Federazione della Stampa e dei sindacati, della stessa Mediacoop e delle altre sigle del mondo cooperativo e grazie, soprattutto, all’intervento del capo dello Stato Napolitano sulla linea «il pluralismo va tutelato nel rigore».
Così finalmente si è dato seguito all’impegno assunto dal governo Monti durante il dibattito parlamentare sulla recente Finanziaria. Sono circa 50 i milioni che dal cosiddetto «Fondo Letta» vanno ad irrobustire quello per l’editoria. Lo aveva preannunciato il sottosegretario Paolo Peluffo che ha anche rastrellato altri 23 milioni da risparmi della pubblica amministrazione. Ma è solo il primo passo. Lo sottolinea Fulvio Fammoni (Cgil): «Deve essere chiaro che i problemi non sono risolti e che comunque non si è trattato di un regalo commenta -. Si è riparato piuttosto ad un grave problema economico e di libertà di informazione che avevamo ereditato dal governo precedente». Fammoni ricorda l’impegno di quanti «hanno continuato a tenere viva l'iniziativa, insieme a molti parlamentari, anche quando tutto sembrava compromesso». Insomma la «lotta paga». «Ora però conclude non ci si deve fermare. Dobbiamo subito rimetterci al lavoro affinché non ci si ritrovi alla fine del 2012 nelle stesse condizioni di quest'anno». Quello che serve è la riforma del settore e la definizione di criteri rigorosi nella ripartizione delle risorse che «garantisca la libertà di informazione e che elimini le tante distorsioni ancora esistenti».
ORA I NUOVI CRITERI
È su questo che insiste anche Mediacoop, che indica come prossima tappa «il decreto per la trasparenza e la migliore finalizzazione delle risorse». Tra i nuovi criteri vi saranno le vendite in edicola e il numero dei dipendenti regolarmente assunti. C’è chi ipotizza anche un sostegno agli investimenti sul web. Di finanziamento ancora «parziale» parla anche il segretario Fnsi, Franco Siddi, che insiste sull’esigenza di una «puntuale svolta nella definizione rapida dei nuovi criteri di finanziamento, affinché ciascun soggetto beneficiario possa fare i conti per tempo». Ciò che va evitato è quanto è avvenuto nel 2011, con aziende che hanno sospeso l'attività perché non sapevano fino a qual punto avrebbero potuto godere ancora dell'aiuto pubblico. La Fnsi chiede una riforma a tutela del pluralismo e che «i fondi pubblici vadano a giornali veri, con giornalisti veri, con un minimo di rapporto con il pubblico».

il Fatto 2.3.12
Sussidi all’editoria: conteranno le vendite e non la tiratura
Un decreto per la riforma del sottosegretario Peluffo
Lo scopo è eliminare gli aiuti ai giornali che non arrivano in edicola
di Carlo Tecce


C’è una buona notizia per i giornali che ricevono il finanziamento pubblico: il fondo per l'editoria sarà di 120 milioni di euro, potrà crescere ancora, ma sarà inferiore ai 150 milioni stanziati l'anno scorso. É l'ultima concessione del governo, dicono i tecnici che lavorano al disegno di legge, prima di riformare il sistema: “Non possiamo chiedere sacrifici ai cittadini e poi distribuire denaro a pioggia senza un criterio valido”.
Martedì pomeriggio a Palazzo Chigi, durante un colloquio riservato assieme al sottosegretario Antonio Catricalà, il premier Mario Monti ha ricevuto il sottosegretario Paolo Peluffo (Editoria) per trovare nuove risorse per il fondo destinato ai quotidiani. Ma anche per scrivere il decreto legge che sarà approvato in Consiglio dei ministri entro fine marzo: “Aumentiamo le risorse per dare un segnale ai giornali e garantire loro la possibilità di ottenere i prestiti necessari per andare avanti, contestualmente, però, dovremo dimostrare che in futuro sarà tutto diverso”. Che vuol dire? “Mai più soldi a chi non li merita”.
E così il governo scriverà nel decreto legge di marzo che il finanziamento pubblico sarà calcolato (al 70 per cento) sulle vendite reali in edicola e sui costi di gestione (al 30 per cento): niente milioni sprecati ai più furbi che tirano migliaia di copie che morivano direttamente al macero senza farsi notare nemmeno dai lettori. Esempio: un grande quotidiano potrà avere al massimo 3,5 milioni di euro per le vendite e al massimo 2 milioni di euro per i rimborsi dei costi sostenuti. Non avrà un euro la testata che esiste soltanto virtualmente (ricordate l'Avanti! di Valter Lavitola?), che appare e scompare in edicola, ma che gonfia le voci di bilancio con migliaia di euro per telefonate, affitti, trasferte e consulenze. Tra i costi saranno conteggiate le spese per la distribuzione, la carta, la stampa e per il personale: “Ci teniamo a ripetere che le vendite saranno determinanti”.
Saranno esclusi, inoltre, i quotidiani che avranno meno di cinque dipendenti in
organico fra giornalisti e poligrafici, addio quotidiani di partiti sciolti e movimenti che vivevano di rendita. Per conoscere davvero i numeri sull'acquisto dei quotidiani, e scoraggiare i più esperti che truccavano le autocertificazioni aziendali, il decreto legge avrà un capitolo edicole: i circa 30 mila punti vendita saranno informatizzati, collegati attraverso un cervellone che permette di rintracciare le copie distribuite e conoscere le rese quasi in tempo reale. Non avranno il valore di una copia venduta quelle offerte in blocco e quelle appaltate agli strilloni ai semafori.
Il decreto legge fisserà i punti di partenza, poi un disegno di legge delega dovrà sviluppare le idee di Monti e Peluffo che, spiegano, “non vogliono limitarsi a fotografe il mercato attuale, ma vogliono cercare di aprire il settore a nuovi operatori”. La riforma dovrà anche prevedere incentivi per il passaggio su Internet dei quotidiani che non riescono a raggiungere un numero adeguato di copie vendute in edicola e anche per le società che intendono investire nel settore. Che sia utile e brillante oppure dannosa e vecchia, qualsiasi iniziativa del governo dovrà tenere conto che le risorse pubbliche non lieviteranno nei prossimi anni, semmai subiranno pesanti riduzioni. Forse la proposta del sottosegretario Catricalà, che ai suoi interlocutori è sembrata piuttosto prematura, potrà avere spazio nel testo che dovrà riformare l’editoria.
L’ex presidente Antitrust ha suggerito di utilizzare un modello “a rotazione”: nessuno avrà i contribuiti sicuri per sempre, anzi, ogni due o tre anni, il Tesoro potrebbe smettere di finanziare una testata già sul mercato per aiutarne una nuova. Prima di valutare le sue buone intenzioni, il governo deve, però, trovare i soldi per evitare il collasso dei giornali di partito e delle cooperative che non riescono nemmeno a pagare gli stipendi. Per adesso il fondo per l’editoria è di 120 milioni di euro, potrebbe arrivare a 140, ma sarà comunque l’ennesimo passo indietro rispetto all’anno scorso.

l’Unità 3.3.12
La bravura non ha nome e cognome
Altrove i ministri tornano a casa perché non hanno pagato i contributi alle colf. Da noi quelli come Luigi Frati si arrabbiano
di Claudio Fava


L a bravura non ha nome e cognome, dice Luigi Frati, rettore alla Sapienza di Roma. Nel corso degli anni, la «sua» facoltà di medicina (Frati ne è stato preside per quasi una vita) gli ha sistemato la moglie Luciana Rita Angeletti (laurea in lettere, cattedra di storia della medicina), la figlia Paola (laurea in giurisprudenza, cattedra di medicina legale) e adesso il figlio Giacomo, ricercatore a ventotto anni, associato a trentuno, diventato ordinario di cardiochirurgia a trentasei anni dopo aver superato l’attentissimo vaglio di una commissione d’esame formata da tre dentisti e due igienisti.
D’impronta britannica il commento di Frati senior sulla carriera del figlio: «Giacomo mio s’è fatto un culo come un pajolo... il merito, ahò, ‘ndove lo metti il merito?». Già, dove lo mettiamo il merito? Frati junior l’ha applicato ad alcuni manichini, esercitandosi ad operare a cuore aperto su di loro in attesa di diventare professore e di ricevere in dote il suo reparto, pazienti inclusi.
La notizia non è questa cronaca da hostaria romana (con l’acca, però). La notizia è che non c’è notizia, nel senso che non è successo nulla. Il rettore è al suo posto, i famigli pure, la straordinaria coincidenza di un intero nucleo familiare sistemato a prescindere da tutto (dai percorsi universitari, dai legami di parentela, da un elementare senso di decenza) è stata letta, commentata e archiviata come si fa con le partite della nazionale: andrà meglio la prossima.
In altri Paesi, non più civilizzati del nostro, i ministri tornano a casa perché non hanno pagato contributi alle colf, i capi di stato si dimettono perché hanno sollecitato contributi per la moglie, i manager pubblici si autosospendono perché si sono fatti offrire una cena non dovuta. In Italia quelli come Frati invece s’incazzano, minacciano querela e restano inchiavardati al loro posto, ossequiati e inamovibili. Colpa loro? No. Colpa di chi tollera, tace e guarda altrove.
S’è perduto il valore dei gesti, il linguaggio di chi mostra con un gesto da che parte sta da dignità delle cose e delle persone. Senza scomodare il re della Danimarca che s’appuntò sul petto la stella gialla di David quando i nazisti chiesero alle loro nuove colonie europee di procedere col censimento a vista dei giudei (con quel gesto salvò la vita ad alcune centinaia di migliaia di ebrei), senza evocare la sobria coerenza di quei dodici docenti (dodici su milleottocento...) che nel ’38 si rifiutarono di giurare fedeltà al duce (e persero il posto, ma preservarono un briciolo d’onore all’università italiana), senza dover ricorrere a Bartleby lo scrivano che disse, senza aggiungere altro, «preferirei di no» (e non cambiò idea), insomma senza scivolare nelle celebrazioni, è però possibile che non ci sia alta e pubblica istituzione che non proponga una parola, un pensiero preoccupato, una critica ai comportamenti e ai ragionamenti del rettore della più grande università d’Europa? Dal Quirinale, nei giorni scorsi, è stata recapitata ai giornali una lettera del Presidente che, garbatamente ma puntualmente, lamentava la critica formulata nei suoi confronti da un deputato del Pd: quella critica era solo un’opinione, ma è stata ritenuta meritevole di una replica personale dalla più alta carica dello Stato. Anche sul siparietto familiare del rettore della Sapienza, che intanto ci fa sapere di aver ricevuto anche la proposta di una candidatura per la carica di sindaco di Roma, il paese si sarebbe aspettato un qualche inarcarsi di sopracciglia. Per esempio, al posto del ministro dell’Università, anche per puro scrupolo di verità, avremmo chiesto che ci venissero inviati gli atti relativi al concorso vinto da figlio del rettore (quello che opera i manichini): se non altro per far sapere a igienisti e dentisti che – da commissari d’esame devono decidere sulla competenza di un futuro cardiochirurgo, che la salute materiale dei cittadini e quella morale dell’università sono in cima ai nostri pensieri.
Perché se nei nostri pensieri non c’è spazio per le fulminee carriere dei figli del rettore, con che titolo ce la prendiamo con i vigili urbani romani che chiedevano la mazzetta per arrotondare la paga e concedere licenze abusive e certificazioni taroccate? Lo so, quelli truffavano, è un reato, è colpa grave... Poi però s’è saputo che i colleghi, anche quelli onesti, sapevamo. Ma tacevano. Ecco il punto: a far sempre finta di niente, sul magnifico rettore o sui vigili urbani romani, si finisce per abituarsi a tutto. Anche al peggio.

l’Unità 3.3.12
Intervista a Nikolaj Lilin
«Qui ci vorrebbe un Gramsci russo»
Lo scrittore: «Dopo il voto temo il ritorno del terrorismo L’attentato a Putin? Un falso. Il sistema non è riformabile»
di Ma. M.


P er cambiare davvero ci vorrebbe un Gramsci russo, una persona di cultura. Non estremista, non violenta, che non sia espressione del sistema politico attuale». Nikolai Lilin, autore di Educazione siberiana e del più recente Il respiro del buio non ha nessuna fiducia nelle possibilità di auto-riforma della politica russa.
L’unica variabile alle presidenziali è tra una vittoria di Putin al primo o al secondo turno. Che cosa cambia questo voto?
«Non credo in un grande cambiamento. È impensabile che un apparato corrotto come è quello attuale lasci uno spazio aperto ad una politica diversa. Sarà solo peggio».
Un ulteriore giro di vite?
«Si, ci sarà sicuramente. Quello di cui ho più paura è la minaccia terroristica. In Russia quando il potere viene compromesso tende a riaffiorare. È un sistema che si conosce bene anche in Italia, che ha avuto gli anni di piombo, il sequestro Moro e altri atti terroristici di dubbia provenienza. Anche in Russia è così».
In questi giorni si è parlato di un attentato sventato contro Putin, una denuncia che è apparsa sospetta quanto meno nella scelta dei tempi.
«Un falso attentato. Chiunque sappia come vengono svolte le indagini su un atto terroristico di grande rilevanza sa pure che non possono concludersi in 24 ore. Anche se non ho dubbi sul fatto che a Odessa (dove si stava preparando il presunto attentato, ndr) ci sia la presenza di terroristi islamici come pure di una molteplicità di servizi segreti».
Ma una notizia simile può influenzare l’opinione pubblica? In fondo Putin è arrivato al potere dopo una sfilza di attentati molto sospetti a Mosca.
«Può fare presa, sì. Il popolo russo è povero, messo in ginocchio da un potere corrotto che finge la democrazia, ma pratica la dittatura. E quella post-sovietica è una dittatura neo-capitalista. I russi hanno paura della loro ombra: sceglieranno l’uomo forte, che garantisce sicurezza. Visto quante allusioni sessuali nella campagna elettorale? L’idea è che il popolo-mucca segua il leader-toro».
Le proteste di questi mesi sono state però una novità assoluta.
«Le proteste sono state grandi. Ma ho visto, tra tanta gente per bene, anche chi non avrei voluto vedere. Gruppi neonazisti, ultrà sportivi, organizzazioni estremistiche di sinistra. E anche personaggi pubblici alla Nemtsov o persino Kassianov, ex premier di Putin, che hanno sfruttato le proteste ma che non hanno lo spessore per promuovere un vero cambiamento».
In piazza però c’era soprattutto gente comune.
«È nata una generazione che ha imparato a contestare il potere. È un bene, ma è solo il primo passo. Poi bisogna saper proporre un’alternativa».
Nell’opposizione russa si parla di unificare le forze sotto un’unica sigla dopo il voto.
«È impossibile. La sola possibilità di cambiare può venire da una forza extraparlamentare non corrotta dal sistema politico. Dalle elezioni non ci si può aspettare nulla. Il sistema dei brogli è talmente forte che anche chi lo gestisce non potrà più fermarlo. Le sole elezioni vere in Russia ci sono state con Gorbaciov, l’unica persona che potrebbe ancora cambiare la Russia». Nessuno tra i più giovani?
«Ci servirebbe un Gramsci russo. E invece le nuove generazioni sono state rovinate dalla cultura hollywoodiana, cresciute con i film in cui i russi erano sempre i cattivi. Abbiamo interiorizzato una mancanza di dignità. Per questo non riusciamo a partorire una mente capace di sviluppare un pensiero positivo partendo dalla nostra storia».

Corriere della Sera 3.3.12
Cina, il villaggio della democrazia al voto
Oggi elezioni libere a Wukan, epicentro delle proteste popolari per la terra
di Marco Del Corona


PECHINO — Per adesso sembra un voto che tutti vinceranno: elettori e Partito comunista. Stasera, dopo lo spoglio, chissà. A Wukan, villaggio costiero del Guangdong, barche da pesca nel porticciolo e animi caldi, oggi è la giornata delle urne.
Nel settembre dell'anno scorso, qui era cominciata a montare una rivolta contro la confisca e la svendita di terreni a una joint venture sino-hongkonghese, e a dicembre l'insofferenza nei confronti dei leader locali del Partito aveva provocato una ribellione. Dieci giorni d'assedio medievale, arresti, minacce e la morte di uno dei capi della sollevazione, Xue Jinbo, mentre stava nelle mani della polizia. Non era bastata la fuga dei funzionari corrotti per bloccare la crisi che, nel frattempo, offriva un esempio da imitare a comunità vicine afflitte dagli stessi problemi di corruzione e complicità.
Le mosse dialoganti del segretario comunista della provincia del Guangdong, Wang Yang, avevano sparigliato le carte. Uno smilzo pool di mediatori, procedimenti disciplinari contro i compagni dirigenti che sbagliavano, congelamento delle confische e nomina a n. 1 locale del Partito di Lin Zuluan, anima dei ribelli. Non solo: le urne. A Wukan sono state applicate le procedure previste dalla legge per le elezioni a livello locale, le uniche consentite in Cina.
E se «le autorità hanno perso interesse per le elezioni "di base"», come diceva al Corriere l'attivista Li Fan prima delle consultazioni di novembre nei quartieri di Pechino, Wukan va invece in controtendenza. I circa 8 mila aventi diritto hanno 21 candidati tra i quali scegliere un comitato di 7 persone, capo villaggio incluso. Vigila un comitato di controllo di 107 membri.
Lin è certo di essere eletto. In settimana, durante i comizi di presentazione, giurava «di servire il popolo e di fare quel che c'è da fare». Applausi.
Non tutti coloro che si presentano godono però della stessa fiducia. In un clima vivace, con l'uso del cinese mandarino rimpiazzato con il dialetto locale man mano che la discussione si scaldava, chi è stato visto come possibile quinta colonna degli speculatori non ha avuto gloria, come tale Chen Chang, ascoltato nel silenzio.
Xue Jianwan, figlia della vittima di dicembre, ha invece ammesso all'Ansa che spera di non essere eletta: «C'è forte pressione da parte della mia famiglia. Hanno paura di quel che può succedere dopo».
Gli slogan sugli striscioni sono quelli ufficiali del Partito. Che rivendica la paternità dell'intera opera di normalizzazione, dalla fine delle violenze alla nomina di Lin a segretario locale, al voto.
Il segretario del Guangdong, Wang Yang, punta a un posto nel comitato permanente del politburo al congresso d'autunno. Il Quotidiano della gioventù è uno dei giornali che hanno lodato la soluzione della crisi e l'«approccio nuovo e lucido per risolvere i conflitti sociali, che tiene conto sia dei diritti del popolo sia della necessaria stabilità».
La cooptazione dei capi della rivolta è stata un successo strategico e d'immagine del Partito, che ha comunque lavorato per spaccare il fronte dei riottosi.
Proprio in contemporanea, tra oggi e lunedì, a Pechino si apre la sessione annuale del Parlamento, l'Assemblea nazionale del popolo. Migliaia di delegati che da Wukan aspettano solo buone notizie.

Corriere della Sera 3.3.12
L'uomo di Neanderthal scomparso per colpa del clima
di Giovanni Caprara


Che fine fecero i nostri cugini neandertaliani vissuti a lungo in Europa prima di noi? Ora scrutando nel Dna estratto nei resti fossilizzati di 13 uomini vissuti tra l'Europa e l'Asia in un periodo tra 100 mila e 35 mila anni fa, ricercatori svedesi e spagnoli sono riusciti a precisare che cosa accadde ai lontani parenti. Esattamente 50 mila anni fa la maggior parte di loro si estinse dalla scena europea, quindi migliaia di anni prima che i nostri antenati di Homo sapiens arrivassero dall'Africa. Un piccolo gruppo, però, riuscì a sopravvivere per altri 10 mila anni rifugiandosi verso l'ovest europeo. Poi la specie scomparve definitivamente.
«Il fatto che questi remoti primitivi fossero quasi estinti, che recuperassero in extremis e che tutto ciò succedesse prima di un possibile contatto con gli umani moderni è una sorpresa — ammette Love Dalén del Museo di storia naturale di Stoccolma —. Anche perché dimostra come quella specie fosse molto più sensibile e vulnerabile ai cambiamenti climatici in corso nel periodo conclusivo dell'ultima era glaciale rispetto a quanto si era pensato finora». La prova della debolezza sarebbe nascosta proprio nel Dna esaminato e appartenente all'ultimo gruppo emigrato ad ovest il quale presenta minori variazioni genetiche rispetto agli altri vissuti in precedenza in zone diverse.
L'uomo di Neanderthal era così battezzato perché le sue prime tracce vennero trovate da Johann Fuhlrott nel 1856 in una grotta di Feldhofer nella valle di Neander, in Germania. Ricostruendone la storia si stabilì la sua presenza già oltre centomila anni fa e sino a circa 40 mila anni fa. E qui è nato l'enigma scientifico al quale i paleontologi cercano di trovare risposta, soprattutto per quanto riguarda la sua fine. Intanto è dato ormai sicuro che tra la loro specie e la nostra ci sia stata un'ibridazione, prima esclusa, perché parte del loro materiale genetico è stato trovato anche nel nostro Dna. Poi si aggiungeva che la scomparsa fosse dovuta ad una eccessiva specializzazione e che il confronto con l'uomo moderno lo abbia visto perdente. Adesso la causa prevalente pare invece legata al cambiamento climatico, come spiegano i ricercatori sulla rivista Molecular Biology and Evolution. Neanderthal lavorava le pelli e le usava per vestirsi unendole con fermagli d'osso: una prova, questa, di una certa abilità tecnica.

La Stampa TuttoLibri 3.3.12
Jung. I seminari Anni Trenta, straordinario esempio di «analisi» su un prodotto culturale
Caro Zarathustra ognuno deve portare la propria croce
Perché è indispensabile l’Ombra, quella parte della psiche rimossa perché non coerente con il canone corrente
di Augusto Romano


Carl G. Jung LO ZARATHUSTRA DI NIETZSCHE, vol. I Bollati Boringhieri, pp. 484,

Appare finalmente in italiano la trascrizione dei seminari che Jung tenne negli anni 1934-39 su Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Dico «finalmente» perché il testo è di straordinario interesse, anzitutto perché mostra come l’indagine psicoanalitica condotta su di un prodotto culturale possa contribuire a metterne in evidenza i presupposti e i significati che gli sono propri, senza per questo ridurlo a un epifenomeno della biografia psichica dell’autore. Ma anche perché, in questo come negli altri suoi seminari, Jung dà il meglio di sé. Il fatto di parlare a braccio e la sua caratteristica tendenza a divagare tolgono al discorso ogni intonazione accademica e professorale e gli permettono di combinare in un impasto inimitabile cultura, penetrazione psicologica, coinvolgimento personale.
A differenza del modello dello scienziato sperimentale, che si nasconde dietro i dati, Jung è sempre interamente presente in ciò che dice e non teme di manifestare simpatie e idiosincrasie. Ne risulta un discorrere sciolto, chiaro, spiritoso, avvincente, ricco di battute icastiche (ad esempio: «La gente avrebbe di gran lunga meno fantasie sessuali, se se ne andasse in giro nuda»; oppure: «Ci sono così tante persone che predicano per evitare di dover fare ciò che predicano»; e infine: «L’aver commesso una certa percentuale di crimine dà alle persone una bella sensazione»), di aneddoti, di riflessioni che vanno dai rapporti tra il pensiero di Nietzsche e il nazismo allo stile narrativo di Joyce, di abbozzi di storie cliniche e di sogni di pazienti.
Da questo modo di raccontare trae vantaggio anche l’esposizione dei temi essenziali del suo pensiero, che Jung intreccia al commento del testo nicciano. Chi ha letto il Libro Rosso troverà in questo Seminario, esposte in una forma più distesa e discorsiva, molte delle fulminee illuminazioni che erano state registrate in quel libro segreto.
Il testo ora pubblicato è soltanto il primo di tre volumi; gli altri appariranno entro il 2012. Può essere però tranquillamente letto da solo: sia perché ha la compiutezza di un arazzo policromo, sia perché una lettura distanziata dei tre volumi può evitare eventuali effetti di sovradosaggio. Rinviando a traduzione conclusa il commento al rapporto Jung-Nietzsche, accennerò qui soltanto a un tema centrale nel pensiero junghiano, che in questo volume è costantemente richiamato: si tratta della costruzione di un’etica personale, un argomento strettamente connesso a quel percorso di autorealizzazione che Jung chiama «processo di individuazione».
Punto di partenza della riflessione junghiana è l’esigenza di accogliere nello spazio della coscienza egoica la figura dell’Ombra, cioè di quella parte della psiche che è stata rimossa, negata, rifiutata in quanto non coerente con il canone culturale corrente. L’Ombra, dice Jung, è «indispensabile per la realizzazione della totalità di una personalità». Accogliere l’Ombra e legittimarne la presenza significa però accettare il conflitto tra istanze contraddittorie e assumersi la responsabilità delle proprie scelte, rinunciando a ogni garanzia offerta da un potere sovraordinato. Viene qui in primo piano l’importanza dell’esperienza individuale, contrapposta al «tu devi» formulato da un codice preesistente, che presume di dare risposte di validità universale. E’ questa la radice della polemica che oppone Jung alle istituzioni religiose e alla «moralità da pulpito» che, additando l’imitatio Christi, offrono delle ricette di salute spirituale già perfettamente confezionate. «Ognuno deve portare la propria croce, il proprio problema individuale, la propria difficoltà e sofferenza individuale. Un problema è reale solo in quanto è a te che si presenta, solo in quanto sei tu che ti fai carico della tua vita».
Il libro si avvale di una eccellente traduzione e di accurate note esplicative di Alessandro Croce.""

La Stampa TuttoLibri 3.3.12
Crisi di un papato
Secondo Politi, leadership carente e «incertezza di conduzione strategica»
Ratzinger, le riforme che non vuole (o non può) fare
di Andrea Tornielli


Marco Politi JOSEPH RATZINGER. CRISI DI UN PAPATO Laterza, pp. 328, 18

Politi, commentatore de Il Fatto Quotidiano, è stato per diciassette anni corrispondente vaticano di Repubblica e, prima ancora, del Messaggero. Ha scritto con il premio Pulitzer Carl Bernstein la biografia best-seller di Giovanni Paolo II «Sua Santità» (Rizzoli)
La tesi dell’autore è chiarissima fin dal titolo: Joseph Ratzinger. Crisi di un papato. Secondo il vaticanista Marco Politi, autore del saggio, quello di Benedetto XVI, a sei anni e mezzo dall’elezione, sarebbe dunque un pontificato «in crisi». Politi mette in fila e analizza tutti gli episodi «critici» che hanno caratterizzato il papato ratzingeriano, dalle reazioni al discorso di Ratisbona al caso Williamson, dalla risposta sul preservativo durante il viaggio in Africa del marzo 2009 allo scandalo dei preti pedofili.
L’autore riconosce le indubbie doti intellettuali e di predicatore del Pontefice tedesco, ne apprezza l’essenzialità del messaggio, giudica positivamente anche l’attività di scrittore e di teologo che Ratzinger ha continuato anche da Papa, attraverso i libri su Gesù di Nazaret: «Al di là della battaglia teologica», scrive Politi riferendosi al primo volume sul Nazareno, «il libro appare una splendida catechesi letteraria, un ritratto avvincente, un inno alla sequela di Gesù. Pagina dopo pagina il pontefice propone con essenzialità una spiritualità intensa, rigorosa, gioiosa». E riconosce anche una caratteristica peculiare di Benedetto XVI, l’umiltà: «Raramente un Papa ha espresso in maniera così toccante la propria fragilità», osserva Politi, riferendosi al libro-intervista nel quale il Pontefice racconta la sua reazione all’elezione e il suo rivolgersi a Dio per dirgli: «Tu mi devi condurre! Io non ce la faccio».
Ma Politi rivolge anche, pagina dopo pagina, una critica serrata al «governo» di Ratzinger e conclude che l’attuale papato appare caratterizzato da uno stallo delle riforme necessarie per la Chiesa e per la Curia romana. Come pure osserva la carenza di una visione geopolitica da parte della Santa Sede e un venir meno dell’incidenza che la voce vaticana aveva sulla scena internazionale fino a qualche anno fa, nonostante molti viaggi di Benedetto XVI – anche quelli considerati più difficili – riconosce l’autore, siano stati «coronati da grande successo».
Il Papa «si dedica scrupolosamente allo studio dei dossier che gli vengono sottoposti», ma «crisi dopo crisi, resta insoluta la questione della solitudine decisionale... Il cosiddetto deficit di comunicazione rimanda piuttosto ad una carenza di leadership» e a un’«incertezza di conduzione strategica».
È indubbio che le crisi del pontificato abbiano messo in luce reali problemi di governo (meglio, di assenza di governo) che non sono soltanto comunicativi, nonostante molti in Vaticano continuino purtroppo a pensare in modo auto-assolutorio che tutte le responsabilità siano dei giornali e dei giornalisti. È al contempo vero, però, che la figura e il magistero del Papa teologo sia ben più articolato e complesso di quanto vorrebbero farlo apparire certe semplificazioni tendenti a schiacciarlo sui cliché conservatori. Ed è probabile che alcuni aspetti indicati come negativi da Politi – ad esempio la minore incidenza geopolitica della Santa Sede – appartengano volutamente allo stile pontificale di un Papa più concentrato sulla comunicazione dell’essenziale della fede cristiana.

La Stampa TuttoLibri 3.3.12
Trent’anni dopo «Il pensiero debole»: la lunga fedeltà all’ermeneutica, mancando i fatti
Vattimo, la libertà il nostro abisso
di Federico Vercellone


Gianni Vattimo DELLA REALTÀ Garzanti, pp. 231, 18

«Della realtà»: il nichilismo come caratteristica saliente della cultura contemporanea Un mondo che moltiplica vorticosamente le sue prospettive, venuta meno ogni ipotesi metafisica

Sono ormai trascorsi quasi trent'anni da quando apparve presso Feltrinelli, a cura di Gianni Vattimo e di Pier Aldo Rovatti, un volume che ha smosso gli animi e fatto epoca, Il pensiero debole. Fu subito chiaro che si era toccato un nervo scoperto. In breve la questione era la seguente: si doveva constatare che la società di massa era andata trasformandosi in una civiltà dei media dominata dall' immagine. I grandi guru della critica della cultura, non importa se di sinistra e di destra, avevano guardato al fenomeno con un occhio implacabilmente critico. Ma, come sempre, non tardò ad arrivare il tradimento di un chierico. E non poteva che essere un transfuga di grande livello a difendere l'avversario di sempre. L'interrogativo posto da Vattimo era se davvero il mondo immaginario dominato dai media fosse un vuoto fantasma. O se non si trattasse invece di un universo che possedeva impreviste chances di emancipazione. Se non si trattasse di una cultura - era questa l'ipotesi «debolista» - che consentiva davvero il realizzarsi del sogno liberale e illuminista di un mondo pluralista, ove tutte le individualità potevano esser contemplate e riconosciute nella loro peculiarità. E' il sogno postmoderno.
Gianni Vattimo enunciò l'idea che la possibilità di possedere molte televisioni si configurava come un pluralismo inedito, sconosciuto ai mondi precedenti che si erano fissati sull'unicità della verità. Grazie a questo passo egli incarnò, agli occhi di una parte consistente dell'élite culturale, l'immagine di colui che ha cambiato sponda per unirsi ai vincitori. La polemica contro il pensiero debole divenne così una polemica contro la cultura dominante da parte di un settore significativo della casta dominante della cultura. E la cosa è continuata sino a tempi recentissimi anche grazie al recente dibattito sul «nuovo realismo».
E' venuto dunque il momento di fare bilanci equilibrati di una vicenda filosofica in trasformazione e ancora in atto, che ha attraversato fasi diverse e anche autocritiche. Proprio Gianni Vattimo ci fornisce questa occasione grazie al suo libro più recente, Della realtà, pubblicato ora da Garzanti nel quale raccoglie e rielabora scritti degli ultimi quindici anni raccolti intorno a due nuclei di lezioni tenute nel 1998 a Lovanio e nel 2010 a Glasgow (le prestigiosissime «Gifford Lectures»).
Com'è ben noto, il pensiero di Vattimo fa riferimento a una tesi di Nietzsche, secondo la quale «non ci sono fatti, solo interpretazioni», laddove anche questa «è un' interpretazione». Le obiezioni principali formulate contro questa tesi sono due. La prima è di natura epistemologica: su questa via viene messa in questione la verità della scienza. La seconda è invece di ordine pratico-morale: se tutto è interpretazione, ogni cosa diviene opinabile. Così diventa lecito negare l'Olocausto ma anche, perché no?, viaggiare in controsenso sull'autostrada. Ora, per quanto mi risulta, né Gianni Vattimo né altri rappresentanti del pensiero ermeneutico hanno mai rifiutato di farsi visitare dal medico a causa di una sfiducia preconcetta nei confronti della scienza o, anche tralasciando l'Olocausto, hanno attentato in automobile, emuli di Marinetti, alla vita propria e a quella altrui. Se le cose stanno così, ci sarà qualche buon motivo per rivisitare la questione da un altro punto di vista.
Anche in questo libro Vattimo afferma che il nichilismo, che si prospetta con forza nella tradizione NietzscheHeidegger, costituisce una caratteristica saliente della cultura contemporanea (postmoderna e oltre...). Il nichilismo comporta che l'universo abbia perduto il proprio cardine, l'idea di Dio come Essere Supremo, certezza ultima della consistenza del creato, della sua coerenza, garanzia della verità delle nostre conoscenze, sigillo di un ordine buono e giusto. Quando il fulcro di quest'ordine grandioso viene meno, quando, per dirla con Nietzsche, si scopre che «Dio è morto», si spalanca un abisso. Alla verità ultima sancita dalle salde architetture della metafisica, si sostituisce un mondo che, in assenza di un fuoco dello sguardo, moltiplica vorticosamente le proprie prospettive. In questo ambito si diviene consapevoli della radicale storicità dell'esistenza, dei saperi, e di tutto il tessuto di concetti che li compongono. E' il mondo totalmente tecnicizzato che ci è consueto, nel quale tuttavia si spalanca un'altra volta, grazie alla consapevolezza profonda del carattere divenuto di noi stessi e del mondo, l'abisso della libertà. Quali criteri, per scegliere secondo verità e giustizia, vanno adottati in questo contesto nel quale non siamo confortati da alcuna oggettività stabile? Probabilmente, per cominciare a sbrogliare la matassa, dobbiamo ricordarci, come ci insegna molta biologia contemporanea, che neppure la natura è «oggettiva», ma è attraversata da moti di autorganizzazione creativa che la rendono molto prossima alla cultura.

Repubblica 3.3.12
Così il comunismo fu il primo network internazionale
di Niguel Gotor


L´Urss crollò perché perse la gara dell´egemonia combattuta con gli Stati Uniti
Un´utopia fatta di slanci libertari e ugualitari che si è rovesciata nel suo esatto contrario
L´ultimo libro di Silvio Pons ripercorre la storia del movimento mondiale. Dall´ascesa alla caduta

Nel cimitero della storia, sulla tomba senza fiori dedicata al "Comunismo Sovietico", c´è scritto "1917-1991": una vita breve quanto quella di un uomo, ma tragica e intensa, che ha mobilitato i cuori e le menti, le speranze e gli odii di milioni di persone nel corso del Novecento.
Il "caro estinto" ha avuto un´esistenza strana perché è cresciuto oltre ogni aspettativa fino agli anni Cinquanta, ha subito un declino altrettanto rapido nei due decenni successivi ed è morto tra l´ignominia e lo stupore delle genti nel volgere di un solo biennio, tra il 1989 e il 1991. Certo, non si può dire che non abbia vissuto: ha creduto nella rivoluzione proletaria come fatale compimento progressivo di quella francese del 1789 che aveva emancipato la borghesia, ha contribuito a sconfiggere il cancro nazifascista, pagando un tributo di sangue forse senza uguali nella storia dell´umanità, e ha osato proporre l´utopia di una modernità alternativa a quella capitalistica, carica di slanci messianici, libertari, ugualitari e universalistici, che si è rovesciata nel suo esatto contrario, l´orrore dei Gulag e la repressione totalitaria di ogni forma di dissenso.
Negli ultimi anni si sono moltiplicati i tentativi della storiografia internazionale di riassumere il senso di quella vicenda in termini propriamente storici e non più ideologici, dopo un ventennio di accesso alle fonti d´archivio liberate dalla fine dell´Urss. Una tendenza verso la sintesi interpretativa della storia del comunismo a cui gli studiosi italiani hanno partecipato attivamente come conferma anche l´ultimo libro di Silvio Pons La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991 (pubblicato da Einaudi, pagg. 419, euro 35).
Pons affronta una sfida complessa poiché la vita del comunismo sovietico ha trovato la sua cifra più autentica nella contraddittorietà. Esso, infatti, «è stato molte cose insieme: una realtà e una mitologia, un sistema statuale e un movimento di partiti, una élite chiusa e una politica di massa, una ideologia progressista e un dominio imperiale, un progetto di società giusta e un esperimento sull´umanità, una retorica pacifista e una strategia di guerra civile, un´utopia liberatrice e un sistema concentrazionario, un polo antagonistico dell´ordine mondiale e una modernità anticapitalistica».
L´autore, ordinario di storia dell´Europa orientale all´Università di Tor Vergata di Roma e direttore dell´Istituto Gramsci, gioca e vince la partita perché delinea un affresco a tutto tondo della vita storica del comunismo internazionale scegliendo due opzioni interpretative forti e originali. La prima lo induce a concentrarsi sul carattere transnazionale del movimento comunista, assumendolo per ciò che fu e volle essere sin dalle sue origini, ossia il primo network politico-mondiale su scala globale. In questa chiave di lettura l´identificazione tra gli interessi dell´Urss e la prospettiva di una rivoluzione degli altri partiti comunisti disseminati nel mondo assegna un significato cruciale al momento della legittimazione internazionale di quel disegno di potenza e modernizzazione. Una legittimazione che bisognava costruire quotidianamente attraverso l´organizzazione e la disciplina, l´agire e il farsi partito, l´inesorabile edificazione di un "uomo nuovo".
La seconda opzione consente all´autore di rifiutare un´interpretazione monolitica del movimento nato dalla Rivoluzione d´Ottobre, quella che di solito scaturiva dalle passioni e dalle propagande dell´anticomunismo militante occidentale. Piuttosto, prevalgono le tensioni fra il centro e la periferia, le sfumature e le variabili interne e il dato di fatto che quei conflitti minarono l´edificio comunista molto prima di quanto è stato immaginato sinora. Il comunismo entrò in crisi già all´inizio degli anni Sessanta, quando le rivoluzioni dall´alto degli Stati dell´Europa centro-orientale e l´emergere della frattura con il colosso cinese, cominciarono a disarticolare il progetto imperiale dell´Urss, ledendone la legittimità internazionale, ossia il fulcro su cui aveva costruito il proprio successo. Fu anzitutto una crisi di egemonia, quindi di carattere politico e culturale, a ledere la sovranità sovietica e le sue capacità di attrazione simbolica nel mondo. Le difficoltà economiche seguirono senza svolgere un ruolo decisivo nel determinarne la caduta.
L´impero sovietico venne sconfitto dal momento che non seppe esercitare un´autentica egemonia paragonabile a quella realizzata dagli Stati Uniti nel corso della Guerra fredda nell´altro campo. Un´influenza basata sulla flessibilità, ossia sulla capacità di adattare il capitalismo ai diversi gradi di sviluppo delle singole nazioni, e alimentata dalla costruzione di uno spazio geopolitico transatlantico e di un compromesso socialdemocratico su cui si fondò lo Stato sociale. Pons dissente dall´idea di Eric Hobsbawm, ossia che il comunismo abbia avuto il merito di costringere il capitalismo a riformarsi inventando il welfare state. Non è vero: con l´afflato riformista del suo maestro Giuliano Procacci, egli ricorda che «le forze socialdemocratiche, liberali, cattoliche protagoniste della riforma del capitalismo dopo la guerra furono più danneggiate che favorite dall´esistenza del comunismo come modello e come movimento», che condizionò assai di più la Guerra fredda.
La globalizzazione fu il fattore che determinò la fine dell´assetto bipolare del mondo, in cui il sistema chiuso socialista si rivelò sempre meno funzionale allo sviluppo di più ampi mercati di consumatori richiesti dalla rivoluzione tecnologica e generati dalla vorticosa velocità delle comunicazioni e degli scambi. Poi venne l´ictus della caduta del muro di Berlino, la sera del 9 novembre 1989, l´improvviso scoppio di una vena ostruita che da ormai trent´anni impediva la libera circolazione di una parte troppo importante del mondo. Ancora due anni di paralisi e il giorno di Natale del 1991 la bandiera rossa con la falce e il martello venne ammainata dal Cremlino: era davvero finita, iniziava un´altra storia, confusa e incerta, in cui siamo ancora immersi.

Repubblica 3.3.12
Perché non c'è stato nessun ravvedimento da parte di Gramsci
di Joseoph Buttigieg


Pochissimi sono i temi trattati da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere che non siano stati discussi e analizzati minuziosamente da numerosi studiosi in ogni parte del mondo. Uno di questi è il Lorianismo, un termine coniato da Gramsci per indicare un fenomeno socioculturale che è insieme sintomo e causa della corruzione della società civile. Nella sua introduzione al Quaderno 28, dedicato al Lorianismo, Gramsci spiega che si tratta di «assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell´attività scientifica [... ], irresponsabilità verso la formazione della cultura nazionale». Un tema inattuale, rilevante soltanto per l´epoca fascista? Gramsci aggiunge che «ogni periodo ha il suo lorianismo più o meno compiuto e perfetto, e ogni paese ha il suo».
La figura di Gramsci ha attirato l´attenzione di parecchi loriani. Qualche anno fa un arcivescovo fece notizia dichiarando, in una conferenza tenuta in Vaticano, che Gramsci si era convertito in punto di morte grazie all´effigie di Santa Teresa. Le polemiche suscitate furono comiche e divertenti. La più recente manifestazione di lorianismo è invece sconcertante. In uno scritto prodotto per Nuova Storia Contemporanea, anticipato in sintesi su Repubblica sabato scorso, Dario Biocca ha sostenuto che Gramsci fu un pentito, pronto a fare un atto di ravvedimento al cospetto del duce. La tesi di Biocca è basata sulla supposizione che – con la richiesta per la libertà condizionale che Gramsci indirizzò a Mussolini nel settembre del 1934, invocando l´articolo 176 del codice penale – il comunista sardo si sia automaticamente ravveduto. Per confermare la sua ipotesi, Biocca cita il testo del codice penale: «Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla libertà condizionale». Questo, però, non è il testo dell´articolo 176 in vigore negli anni Trenta quando Gramsci fece la sua domanda, ma il testo di quello stesso articolo così come fu riscritto nel novembre 1962. Come spiega il professore Nerio Naldi, in una lettera diffusa tramite la listserve della IGS-Italia (International Gramsci Society), il testo dell´articolo 176 nel codice in vigore nell´anno in cui Gramsci presentava la sua domanda recitava così: «Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni». Perciò, aggiunge Naldi, «la richiesta di liberazione condizionale presentata da Antonio Gramsci nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la «buona condotta» è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche il semplice sospetto che egli volesse presentarla».
Può darsi che Biocca abbia consultato qualche edizione del codice penale che non indica la revisione del articolo 176 effettuata nel 1962. In tal caso il suo travisamento dell´evidenza testuale sarebbe la conseguenza di un´incompetenza filologica piuttosto che di una lettura intenzionalmente ingannevole. Sorprende che Biocca non citi testualmente una dichiarazione che Gramsci fece nella sua lettera del 14 ottobre 1934 ad Antonio Valenti (l´immagine del documento appare di fianco al suo articolo su Repubblica): «Sono d´avviso che il beneficio che sta per essermi concesso non è da attribuirsi a cause politiche». Questa lettera e tanti altri documenti rilevanti sono stati pubblicati ed analizzati da biografi più attendibili (come Giuseppe Fiori e Paolo Spriano) e dal curatore delle lettere di Gramsci, Antonio Santucci. Studiosi seri che, a differenza di Biocca, non cercano lo scoop con ipotesi stravaganti.
Biocca vuol distruggere un mito. Gramsci, però, non è un mito ma un persona storica, la cui vita è ben documentata e i cui scritti sono facilmente accessibili in edizioni critiche curate con rigore filologico. Le fantasie di Biocca sulle vicende di Gramsci a Roma, prima del suo arresto, sono anch´esse contraddette da documenti e testimonianze ben note. Basterebbe leggere le lettere che Gramsci scrisse in quegli anni per vedere che il leader comunista rimaneva politicamente molto attivo, in contatto regolare con i suoi amici e compagni.
In conclusione, questo uso scorretto dei documenti intorno a Gramsci è da prendere sul serio solo perché è un sintomo del lorianismo attuale, e ci induce a riflettere – come ha fatto Gramsci – «sulla debolezza, anche in tempi normali, degli argini critici». Argini critici che ci è sembrato opportuno ripristinare.
(L´autore è presidente dell´International Gramsci Society e ha curato l´edizione critica dei "Quaderni dal carcere" per la Columbia University Press)

l’Unità 3.3.12
Tiziano, la storia prima di tutto
Albe e tramonti nel Vecellio non diventano mai protagonisti. La scena appartiene ai personaggi
di Renato Barilli


Tiziano e la nascita del paesaggio moderno, a cura di M. Lucco, Milano, Palazzo Reale, fino al 20 maggio, catalogo Giunti

Non tutte le mostre che al giorno d’oggi movimentano capolavori del passato rispondono a stringenti fini scientifici, tra queste il dubbio può riguardare anche la rassegna ospitata al Palazzo Reale di Milano col titolo di Tiziano e la nascita del paesaggio moderno, seppure curata da Mauro Lucco, attualmente il nostro miglior esperto di arte veneto-veneziano, come ha dimostrato conducendo le rassegne monografiche che le romane Scuderie del Quirinale hanno dedicato ad Antonello da Messina e a Giovanni Bellini.
Il titolo di questa mostra effettua con evidenza una surrogazione, il nome giusto da accampare avrebbe dovuto essere quello di Giorgione, al quale notoriamente si deve il primo paesaggio, La tempesta, dove i protagonisti umani si fanno piccoli piccoli mettendosi in disparte, per lasciare che sia appunto una apparizione mista di case, di acque, di terre, a dominare la scena, immersa in freschi e vivaci effetti meteorologici. Ma quest’opera eccelsa non era disponibile, e neppure un altro capolavoro del Maestro di Castelfranco, I tre filosofi, dove le figure richiamate nel titolo si collocano di lato per consentire il dispiegarsi di un vasto sfondo paesistico. Al di fuori di questi passi in avanti, in quasi tutti i dipinti presenti in mostra il paesaggio compare nel retro di gruppi umani destinati a dominare il campo, non esiste, tra secondo Quattrocento e primo Cinquecento, la libertà di mosse che consente un sovvertimento gerarchico, l’azione umana detiene ancora fermamente il primo posto. Certo, se ci si rivolge al Bellini, dossi collinari, case, cieli alti occupati da soffici nuvole, recitano già una parte importante, ma se ne stanno dietro, in sott’ordine, il che vale ancor di più per altri rappresentanti della «seconda maniera», per dirla col Vasari, quali Cima da Conegliano, Marco Basaiti, Andrea Previtali, non toccati dalla rivoluzione leonardesca della «maniera moderna» che scopre l’esistenza dell’atmosfera.
ORFEO E EURIDICE
Quanto a Tiziano, egli è certo il degno continuatore di Giorgione, e dunque, dietro ai suoi personaggi, si accendono albe o tramonti che respirano con ampi polmoni e sfumano con deliziose screziature, ma pur sempre facendo da sfondo ai dati della «storia», laica o religiosa che sia, grandeggianti in primo piano. Semmai, bisogna andare a cogliere il Vecellio in momenti di vacanza, quando il protagonista umano esce dalla ribalta, e i dati paesistici dominano in primo piano, come succede in Orfeo e Euridice. Ma, finito l’intervallo, i primi attori rientrano a occupare il posto principale. E anche spingendosi più avanti nel grande secolo veneziano, non è che il paesaggio la faccia da padrone, con Jacopo Bassano quello che conta è il peculio, cioè la solida proprietà di tante pecore cui va in primis l’attenzione del pittore. Quanto al Tintoretto, egli allaccia figure e fronde in un unico ghirigoro di tracce luminose fosforescenti. Il paesaggio, per rendersi davvero autonomo, deve attendere che arrivi il secolo successivo.

Corriere della Sera 3.3.12
Il cotto con lo sponsor in piazza. La disputa sul cuore di Firenze
Signoria, divide l'idea di rifare la vecchia pavimentazione

di Paolo Conti

ROMA — Più di qualsiasi ricostruzione virtuale, c'è l'efficacia immediata di un'immagine del 1498: il rogo di Girolamo Savonarola, opera attribuita (senza sicurezze) a Francesco Rosselli e conservata a Firenze al museo di San Marco. Lì piazza della Signoria, a Firenze, appare con il suo aspetto originario: soprattutto con i riquadri di marmo che incorniciano il pavimento di cotto veneziano. Proprio il calpestìo che oggi il sindaco di Firenze, tra mille polemiche, vorrebbe ripristinare, come ha spiegato nei giorni scorsi: «Potrebbe essere fatta dal 2015 in poi, ma sarebbe bello poterne discutere. Mi piacerebbe che si facesse lo sforzo per dialogare più serenamente». Il vulcanico sindaco di Firenze parte da un presupposto: «Piazza della Signoria sarebbe più bella se al posto di quel grigio delle pietre, che sono almeno di 4 tipi diversi, si potesse tornare al cotto. Su questo tema abbiamo già discusso in passato con i sovrintendenti ed è un'idea che io considero molto bella e che dovrebbe essere realizzata con sponsor: cioè non dovrebbe costare un centesimo ai cittadini».
Il pavimento in cotto in piazza della Signoria ha in effetti resistito per secoli, fino al 1795 quando Ferdinando III di Asburgo-Lorena, terzo Granduca del ramo della famiglia imperiale austriaca succeduta agli estinti Medici, decise di sostituire il rovinatissimo cotto con l'austera e resistentissima pietra grigia. Poi l'interminabile cantiere che sconvolse il cuore di Firenze tra il 1988 e il 1991, la decisione di riaffidarsi alla pietra, un risultato finale «moderno» che scontentò tutti.
Adesso la riapertura del dibattito su quel cotto che Ferdinando III dovette togliere dopo quasi quattrocento anni di servizio perché era diventato poco più che polvere. Una prima risposta dialogante è arrivata da Cristina Acidini, soprintendente del Polo museale fiorentino: «Visto che oggi abbiamo strumenti più efficaci, potremmo realizzare una ricostruzione virtuale della piazza e verificarne prima l'impatto. Non abbiamo fretta. Non c'è dubbio che attualmente la piazza subisca una pesante discontinuità e che rispetto alla sistemazione settecentesca sarebbero necessari interventi di riordino».
Favorevolissimo è per esempio l'architetto Paolo Portoghesi: «Mi pare un'ottima idea. La stessa che avanzai io esattamente vent'anni fa quando si trattò di ripavimentare la piazza. Oggi la piazza, con quel grigio su grigio, è poco percepibile e leggibile. Direi che tecnicamente, rispetto al cotto originale, sarebbe la rimozione di una superfetazione, cioè di una sovrapposizione, anche se storicizzata. Dal punto di vista delle teorie del restauro si tratterebbe di una scelta forse paradossale: ci vorrà un pizzico di eroismo, comunque benvenuto quando c'è immobilità». Dello stesso avviso Vittorio Sgarbi («Si toglierebbe una pavimentazione nuova e brutta per collocarne una di tipo "prettamente archeologico" e questo intento è senza dubbio positivo»). E anche Paolo Marconi, ordinario di Restauro architettonico a La Sapienza di Roma (sta, per esempio, finendo il restauro delle Scuderie della Venaria Reale a Torino): «Si tratterebbe di un intervento filologicamente correttissimo e si tradurrebbe in un bel complimento a Firenze. Bisognerebbe ritrovare tutte le immagini che raccontano quel cotto e metterne un tipo capace di resistere all'usura e al continuo cammino dei passanti».
Ma non tutti sono d'accordo. Fieramente ostile è per esempio Alberto Asor Rosa, critico letterario e scrittore, campione della battaglia contro l'ecomostro di Monticchiello e per la salvaguardia del Paesaggio in Italia: «Una proposta distruttiva almeno quanto lo possono essere interventi di degrado in ambito edile o territoriale. Anche l'antiquaria ed il restauro obbediscono alle leggi della storia. Se si dovesse ragionare col criterio di Renzi, dovremmo rifare il Colosseo e, perché no, magari in cemento armato. Dubito che si possa ritrovare il cotto così come si faceva nel Rinascimento». E poi c'è la Cgil, con Luca Pasqualetti della Funzione pubblica di Firenze: «È avvilente, i lavoratori e le lavoratrici dei servizi scolastici e dell'assistenza domiciliare sono in attesa di risposte per il loro posto, i nostri amministratori pensano bene di spendere i soldi dei contribuenti non nei servizi per i cittadini, ma, nella migliore delle ipotesi, per rifare il look ad un pezzo della città».

Repubblica 3.3.12
Finita la chioccia
Benvenuti nell’epoca della mamma tigre
"Ho imparato la tolleranza, la capacità di ascoltare e la gioia di vivere"
di Federico Rampini


Cinese o francese, purché non americana: qui la mamma piace d´importazione. Esattamente un anno fa l´America veniva scossa dal "ciclone" Amy Chua, la docente universitaria sino-americana che illustrò nel suo libro sulla "madre tigre" i pregi di un´educazione severa e repressiva di stampo asiatico-confuciano.
Più di recente, un tentativo di emulazione ha spacciato come superiori le madri francesi. Ne è seguita una divertente parodia di un umorista che sul Wall Street Journal si è divertito a immaginare i prossimi best seller, in un crescendo surreale di mamme mongole e boliviane. Il finale di quella parodia era dedicato al trionfo delle madri italiane e dei loro manicaretti. In Italia hanno abboccato scambiando lo sfottò per una vera "consacrazione": scherzi che gioca un deficit nazionale di autostima. Ma questo infortunio italiano ci riporta proprio all´inizio del gioco. Il libro più serio, quello di Amy Chua che ha dato il via al dibattito, ha avuto proprio il merito di rivelare una tremenda insicurezza nei genitori americani. Il successo del best seller è stato accompagnato da una sua lettura unilaterale: i commentatori - gli entusiasti e gli indignati - hanno ignorato i capitoli finali in cui la brillante Chua confessa alcune sconfitte, davanti alla ribellione adolescenziale della figlia minore. Gli americani, e soprattutto le americane, hanno voluto prendere dalla Chua solo un´esaltazione della "madre tigre". Perché? Questo fraintendimento è rivelatore.
Il fenomeno della "mamma tigre" avviene sullo sfondo di una psicosi del declino. Che è un fatto storico innegabile: il baricentro della forza economica, del dinamismo, torna a Oriente dopo cinque secoli di egemonia della razza bianca. Ma a questo ribaltamento delle gerarchie geostrategiche si accompagna un preciso riscontro nell´educazione: le classifiche Ocse ci dicono che i nostri ragazzi vengono su piuttosto ignoranti, rispetto ai loro coetanei cinesi, giapponesi, sudcoreani. Ed ecco che la decadenza dell´Occidente si proietta nel microcosmo familiare: dove sbagliano le mamme, se sui banchi di scuola finisce una generazione di serie B? La ricerca di "modelli esteri" in realtà rafforza una tendenza in atto da molti anni.
Le "mamme ebree" di New York godevano già di una fama leggendaria, per avere allevato geni della finanza e talenti dell´arte. Le loro concorrenti e rivali dell´alta borghesia Wasp (bianca e anglosassone) nell´Upper East Side di Manhattan, da trent´anni investono sull´istruzione dei figli allenandosi nella gimcana delle eliminatorie per iscriverli alle scuole più elitarie e selettive. La meritocrazia l´hanno inventata i cinesi ai tempi di Voltaire, ma poi la classe dirigente americana si è data da fare per non restare indietro. Mamme per prime, con gli artigli acuminati.