lunedì 5 marzo 2012

Corriere della Sera 5.3.12
Un nuovo caso per il Pd
La Borsellino sconfitta parla di brogli
Rita Borsellino sconfitta «Voti sospetti, ricontiamo»
di Dino Martirano


Un nuovo caso per il Pd. Ma anche un pasticcio per la macchina elettorale delle primarie. Rita Borsellino, sostenuta dal Pd, ha perso per una manciata di voti le primarie di Palermo, dopo un testa a testa durato per tutto lo scrutinio con Fabrizio Ferrandelli, consigliere comunale ex idv. Un risultato sul filo di lana contestato dalla sorella del giudice ucciso dalla mafia, che ha chiesto il riconteggio nella notte, parlando di situazioni poco chiare.
Per i Democratici è comunque un nuovo schiaffo. Rita Borsellino era la candidata unitaria scelta da Bersani, Di Pietro e Vendola. Mentre Ferrandelli è sostenuto da quella parte del Pd locale che guarda al Mpa di Lombardo.

Recupero al cardiopalma per Rita Borsellino, ma alla fine le speranze della candidata unitaria — scelta da Bersani, Di Pietro e Vendola — si sono infrante contro una manciata di voti che ha hanno fatto la differenza con lo sfidante Fabrizio Ferrandelli, ex Idv, sostenuto dal Pd locale e non sgradito al governatore Raffaele Lombardo. All'una del mattino ancora non c'era un risultato ufficiale e il comitato organizzatore ha stabilito il riconteggio di alcune schede, ma Ferrandelli già riteneva di avere la vittoria in tasca.
La sorella del magistrato ucciso nel '92 da Cosa ha tenuto nei seggi centrali (Politeama, piazza Europa, piazza don Bosco) dove vota la buona borghesia palermitana mentre è andata male nei quartieri popolari dove l'affluenza è stata particolarmente massiccia (in totale hanno votato in 30 mila) e molti consensi ha raccolto anche il terzo candidato Davide Faraone, l'unico iscritto al Pd, che si è messo di traverso contro il suo stesso partito e ha ottenuto 7743 voti. Determinante la ginecologa Antonella Monastra che ha raccolto un migliaio di voti potenzialmente destinati alla Borsellino.
Dal comitato Borsellino arriva una pesante denuncia di brogli: nella sede di via Mariano Stabile dicono che bisogna fare di nuovo il conteggio dei voti perché, precisa Dario Prestigiacomo, portavoce della Borsellino, «ci sono molte schede contestate e addirittura schede di colore diverso». In alcuni quartieri, poi, lo staff della Borsellino avrebbe notato alcuni «capigruppo» che dopo il voto ritiravano il tagliando rilasciato agli elettori per dimostrare che avevano portato al seggio amici e parenti.
Per tutti questi motivi Rita Borsellino è rimasta chiusa in una stanza del suo quartier generale e non ha voluto parlare con i giornalisti né coi numerosi simpatizzanti che affollavano la sede. Oggi alle 15 la Borsellino formalizzerà le sue accuse in una conferenza stampa. Ben diversa, invece, l'atmosfera nel comitato di Fabrizio Ferrandelli, attorniato da molti big del partito locale (Antonello Cracolici, Beppe Lumia, Costantino Garraffa) che hanno sfidato il segretario nazionale e hanno avuto la meglio riuscendo a raccogliere 8.780 voti contro gli 8.547 della Borsellino. I dati definitivi, comunque, sono affidati al riconteggio.
È stata una domenica grigia e fredda a Palermo ma le code davanti ai 31 seggi si sono formate fin dal mattino e sono andate avanti fino a sera. A piazza Politeama, dove ha votato la borghesia che abita in centro, l'elettorato era decisamente misto. A sostenere Rita Borsellino è arrivato l'ex segretario della Cisl, Sergio D'Antoni, che ha condiviso con il segretario Pier Luigi Bersani la scelta di «lanciare» la candidata unitaria anche contro le indicazioni del partito locale: «L'alta affluenza è un'ottima notizia per Rita Borsellino, una candidata che una volta tanto unisce il centro sinistra e che mette d'accordo Bersani, Di Pietro e Vendola», diceva il deputato del Pd quando il risultato ancora era incerto. Eppure, la nomenclatura del Pd siciliano, quella che appoggia dall'esterno la giunta Lombardo, ieri era fisicamente schierata a sostegno di Fabrizio Ferrandelli, il giovane consigliere comunale uscito dall'Idv: «La Borsellino non ha grande esperienza amministrativa e poi la sua candidatura è in grado di ricompattare il centro destra», osservava il «grande elettore» Antonello Cracolici che del Pd è il capogruppo all'assemblea regionale. Mentre il senatore democratico Costantino Garraffa aggiungeva che il vecchio elettorato dei Ds si è schierato per Ferrandelli mentre gli ex della Margherita hanno votato per la Borsellino.
A piazza Bellini hanno votato gli extracomunitari. Li hanno dirottati tutti qui per evitare il doppio voto registrato alle primarie di Napoli e tutto sommato si sono viste molte famiglie di stranieri. Allo Zen c'è stato qualche problema: è stata chiamata la Digos per allontanare dal seggio alcune persone che distribuivano soldi (un euro a testa, in realtà) forse nell'intento di convincere qualche ignaro passante.
A Palermo le cose non sono mai semplici. E così tra gli i «grandi elettori» di Rita Borsellino vanno registrati anche i socialisti di Riccardo Nencini che ieri è arrivato in città su invito del senatore Carlo Vizzini (ex Pdl) che ormai è uno dei leader nazionali del Psi: «A Palermo ci sono troppi comitati d'affari, ci vuole un sindaco intransigente come la Borsellino a costo di spaccare la città», è la diagnosi di Vizzini. Chiunque farà il sindaco, comunque, dovrà affrontare una situazione di cassa drammatica. Palazzo delle Aquile deve pagare 20.500 stipendi, può spendere 132 euro pro capite per i servizi sociali (a Milano sono 320 euro), riesce ad incassare 164 euro di imposte (la media del Sud è 326 euro) e a raccogliere 84 euro a testa per i servizi tariffati (media italiana 362 euro). Con questi numeri si gioca la sfida di maggio.

Corriere della Sera 5.3.12
Le fratture nel Pd. L'ex dipietrista vince con la regia di Lombardo
Per Bersani il nodo delle divisioni
di Alessandro Trocino


ROMA — Novecento chilometri separano Vasto da Palermo, ma mai come ora le due città sono state tanto vicine. Proprio nella cittadina in provincia di Chieti lo scorso settembre Pier Luigi Bersani salì sul palco, sulle note della «Canzone popolare», e fu immortalato in un'istantanea che ritraeva tre sorridenti leader del centrosinistra: oltre a lui, il padrone di casa Antonio Di Pietro e Nichi Vendola. Foto simbolica, che alludeva a una possibile alleanza, subito finita in disgrazia a Roma, sgretolata dall'avvento del governo tecnico e dagli ammiccamenti democratici al Terzo Polo. Ma, a sorpresa, più per circostanze locali che per una scelta nazionale, l'alleanza virtuale di Vasto è tornata di scena a Palermo. Dove i leader nazionali del centrosinistra, tutti uniti più o meno appassionatamente, hanno dato il loro sostegno a Rita Borsellino. La sorella del magistrato ucciso dalla mafia, candidata ufficiale, si è trovata sfidata da un «rottamatore» renziano, Davide Faraone, da un pd non ostile a Raffaele Lombardo, Fabrizio Ferrandelli, e da un esponente della «società civile», Antonella Monastra. Voto locale, dunque, ma anche voto nazionale. E il fatto che la Borsellino sia stata costretta fino a tarda notte ad una battaglia (persa) all'ultimo voto, nonostante il sostegno di tante forze politiche (Pd, Idv, Sel, ma anche Psi e Verdi), è un segnale d'allarme. Che da Palermo, passa per Vasto e arriva a Roma.
Bersani lo ha ripetuto spesso negli ultimi tempi, quasi a mettere le mani avanti: «Siamo un polmone aperto. Magari le primarie possono provocare qualche disordine, ma è tutta roba buona. Bisogna star larghi con la testa. E poi le primarie si giudicano dalle secondarie». Tutto vero, ma certo «qualche disordine» di troppo lo stanno provocando le primarie democratiche. A cominciare da Milano, dove Giuliano Pisapia ebbe la meglio sul pd Stefano Boeri anche per la presenza di un altro candidato democratico, Valerio Onida. Per finire con Genova, dove le democratiche Marta Vincenzi e Lorenza Pinotti sono state sbaragliate da Marco Doria, sostenuto da Sel. Che qualcosa non funzioni nel meccanismo lo dicono ormai in molti. Ma queste primarie palermitane, con ben tre candidati del Pd, sono un'ulteriore conferma che difficilmente potrà essere ancora ignorata e che spingerà qualcuno a rivendicare la necessità di primarie di partito.
Ma non è questo l'unico grattacapo per Bersani. Perché il voto di Palermo porta allo scoperto le diverse linee di frattura nel Pd. Quella giovani-vecchi, innanzitutto, con il rottamatore Matteo Renzi che gioca di sponda con Faraone per lanciare un preavviso di discesa in campo. Quella fondamentale sulle alleanze, tra sinistra e Terzo Polo. Ma anche quella del controllo del territorio, con un Pd siciliano sull'orlo di una scissione. Se il segretario Giuseppe Lupo ha puntato tutte le sue carte sulla Borsellino, una consistente parte del partito — da Giuseppe Lumìa a Antonello Cracolici — ha deciso di volgere lo sguardo verso Fabrizio Ferrandelli. E non è un segreto per nessuno che dietro ci sia l'ombra di Raffaele Lombardo, nonostante tutti i candidati del Pd abbiano dovuto firmare un documento che in sostanza dice no ad accordi con il Terzo Polo. E mentre a Palermo ci si interrogava sulla sfilata di immigrati tamil e di cooperative di ex detenuti, mentre Faraone denunciava finanziamenti del partito a favore della Borsellino (smentiti), Bersani, ormai «larghissimo con la testa», faceva i conti con i nuovi «disordini» causati dalle primarie. «Tutta roba buona», certo, che però potrebbe avere ripercussioni sul suo partito e sulla sua leadership.

Repubblica 5.3.12
L'Aquila

Larga vittoria di Cialente. Sel battuta

L´AQUILA - Larga vittoria del sindaco uscente, Massimo Cialente, nell´altro capoluogo dove il centrosinistra è andato alle primarie. All´Aquila, il primo cittadino che ha affrontato l´emergenza terremoto nel 2009 - sostenuto da Pd, Socialisti e Comunisti italiani - l´ha spuntata col 70 per cento sul candidato di Sel, Vittorio Festuccia.

La Stampa 5.3.12
Chiesa e sindacati dicono di no al lavoro domenicale
L’Avvenire: è un giorno speciale, va preservato Camusso: il consumo non può essere l’unico modello
di Rosaria Talarico


ROMA Domenica è sempre domenica: «Un giorno che è come nessun altro. Perché libero, festivo, speciale. E che perciò va preservato dall’obbligo invadente del lavoro, del vendere e del comprare». Lo ha scritto Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana. E sarebbe tutto normale per un giornale cattolico, se non fosse per l’inedita alleanza «pro domenica» con i sindacati. L’editoriale apparso sul quotidiano della Cei serviva infatti a presentare l’iniziativa in difesa della domenica che si è svolta ieri nelle piazze di 12 Paesi europei. Una «santa alleanza» di associazioni religiose e sindacati, riuniti nella European Sunday alliance. «Nel nostro Paese - sottolineava Avvenire - i volantinaggi che saranno organizzati dalle federazioni del commercio di
Cgil, Cisl e Uil in una decina di città assumono un significato particolare all’indomani del decreto Salva-Italia». Che con un provvedimento ad hoc ha stabilito che molti esercizi pubblici potranno restare aperti 24 ore su 24, e tutte le 52 domeniche di un anno.
«Una norma non ancora pienamente in vigore - e sulla quale alcune Regioni hanno già annunciato ricorso alla Consulta - ma che è emblematica di una deriva culturale». Così secondo Avvenire che ha benedetto l’iniziativa europea per la quale sono scesi in campo ottanta organismi (dai sindacati alle chiese cristiane) pronti a sostenere l’European Sunday alliance, fondata a Bruxelles nel giugno 2011. In Austria l’alleanza coinvolge anche le comunità musulmana ed ebraica. Quasi a sottolineare come il problema riguardi tutto il Vecchio Continente.
E ieri Avvenire ha rilanciato il tema con un’intervista alla leader della Cgil, Susanna Camusso: «Il consumo non può essere l’unico modello di vita sociale. Per questo la domenica va preservata nel suo valore» ha spiegato al quotidiano dei Vescovi, «l’unica offerta sociale che si avanza sembra quella di passare la propria vita in un centro commerciale. Il sindacato unitariamente sta già contrastando le aperture generalizzate e devo dire che anche nel mondo della grande distribuzione non c’è stato consenso unanime al provvedimento del governo». Il rischio sarebbe quello che le domeniche vengano frammentate, rese omogenee agli altri giorni della settimana. Tema questo sul quale anche gli altri sindacati hanno fatto sentire la propria voce. Secondo la Uil il lavoro domenicale «va regolamentato», spiega Carmelo Barbagallo, «per evitare un uso selvaggio da parte della grande distribuzione». Taglia corto l’Ugl: «Il riposo della domenica - afferma Giovanni Centrella non può essere compensato con il riposo in qualsiasi giorno della settimana, quindi va ripensato il sistema, salvaguardando la libertà del datore di lavoro e del dipendente di regolarsi secondo le proprie esigenze». Critica sulle domeniche anche Confcommercio, «questa deregulation non gioverà né ai consumi né al pluralismo distributivo del nostro Paese. Serve quindi, un’urgente rivisitazione della normativa». “Uil: va evitato un uso selvaggio, soprattutto da parte della grande distribuzione”

Repubblica 5.3.12
Val di Susa, Italia sui media senza mediazione
di Ilvo Diamanti


Non sarà facile sbloccare i lavori della Tav in Val di Susa. Per fattori "ambientali" non indifferenti. Le opere richiederanno anni.
Come realizzarle in un contesto tanto ostile? Ma, soprattutto, perché le strategie adottate dai comitati No Tav hanno imposto la Val di Susa sulla scena nazionale. Costringendo le forze politiche nazionali - e lo stesso governo - a esprimersi, a "prendere parte". E a dividersi, al di là delle attuali alleanze.
La prima e principale ragione di questo "successo" - perché di tale si tratta - riguarda la strategia "mediatica" dei No Tav. Anzi: la scelta dei media come "campo" (utilizzo volutamente la definizione di Bourdieu) del confronto e dello scontro. Ogni loro iniziativa e azione, infatti, produce effetti rilevanti sul piano della comunicazione. Per scelta consapevole.
Quando la protesta si svolge nella valle: la ricerca del contatto diretto con le forze dell´ordine, il tentativo di superare ogni limite e ogni confine "di sicurezza" imposto. Testimoniata e ripresa da telecamere e giornali. Talora con effetti indesiderati, come nel caso delle provocazioni del militante No Tav contro il carabiniere (impassibile, di fronte agli insulti). Ma la protesta ha grande impatto - sociale e mediale - soprattutto quando la scena si trasferisce altrove. In teatri scelti accuratamente. Milano e Roma, in primo luogo. Le Capitali del Paese. Dove sono avvenute iniziative che hanno prodotto grande disagio ai cittadini e all´economia. Il blocco di linee ferroviarie e di autostrade. Manifestazioni in pieno centro, tali da provocare conseguenze clamorose sul traffico e, quindi, sulla vita quotidiana delle persone. Forme di protesta analoghe a quelle condotte nelle scorse settimane dai tassisti e dai camionisti. Che hanno paralizzato per giorni le principali città e alcune tra le maggiori arterie di comunicazione autostradale.
I No Tav hanno agito - continuano ad agire - allo stesso modo. In questo modo le loro proteste sono rimbalzate immediatamente sui media. Non solo sui blog e sui Social Network. Dove le immagini e le ragioni della protesta sono state rilanciate, grazie al sostegno dei movimenti critici e dei circoli antagonisti, che hanno grande confidenza con la Rete. Perché l´Altra Comunicazione non basta ai Comitati No Tav, ai quali interessa molto entrare sui media tradizionali: giornali, radio e soprattutto la tv. Attraverso cui si informa la maggior parte della popolazione (l´83%, secondo l´Osservatorio Demos-coop dicembre 2012). In questo modo, la Val di Susa è uscita dai confini locali ed è divenuta un caso "nazionale".
Ineludibile per i partiti e i soggetti politici più importanti. Tanto più perché l´opinione pubblica, al di là dei giudizi di merito, tende a mostrare comprensione verso le proteste di ceti e settori popolari, com´è avvenuto nei confronti dei camionisti e dei tassisti. E quasi metà della popolazione (il 44%, per la precisione), secondo l´Ispo di Mannheimer (per il Corriere della Sera), approva le rivendicazioni dei No Tav. I quali hanno riprodotto il repertorio della protesta "non convenzionale", condotta dalle categorie "minoritarie". Non solo i blocchi ferroviari, stradali e autostradali. Ma anche le iniziative individuali estreme, condotte da figure sociali altrimenti dimenticate (e dunque invisibili): i disoccupati che salgono sulle gru e i cassintegrati che si trincerano nel carcere dell´Asinara.
I No Tav, cioè, non solo cercano, ma "esigono" l´attenzione dei media. (E per questo hanno manifestato di fronte alla sede di Repubblica). Per far diventare il caso della Val di Susa di "pubblico interesse". In senso letterale: di interesse "del pubblico". Nazionale. A differenza di quel che è avvenuto per il Dal Molin. La nuova base militare americana, alle porte di Vicenza. Concessa - in segreto - dal governo Berlusconi e confermata dal governo Prodi nel 2007. Contro la volontà della maggioranza della popolazione, che partecipò ad alcune manifestazioni di massa. (Ho marciato anch´io, più volte). E votò un referendum, come quello proposto oggi da Sofri. Promosso nel 2008 con il consenso della nuova amministrazione di centro-sinistra (nonostante l´opposizione del Consiglio di Stato). Senza esiti concreti, visto che la base Usa, ora, è praticamente finita. Appariscente e inquietante, nella sua "grandezza" immobiliare. Tuttavia, a differenza della rivendicazione No Tav, il movimento No Dal Molin - tuttora attivo - è rimasto ancorato alla realtà locale. Lontano dagli occhi e dal cuore dell´Opinione Pubblica italiana, lontano dai centri del potere nazionale.
La protesta della Val di Susa, invece, ha rimesso in discussione le decisioni in merito alla Tav. Nonostante il governo e le forze politiche della maggioranza ribadiscano che la Tav verrà realizzata. Nel rispetto degli accordi presi in sede Ue. Tenendo conto dei colloqui e delle discussioni precedenti con i sindaci e i governi territoriali. Tuttavia, queste precisazioni suggeriscono come il caso sia stato comunque riaperto. Perché è "politicamente" e "mediaticamente" rilevante. In una fase, come questa, segnata dalla debolezza dei partiti. E da un governo (sedicente) "tecnico", che ha bisogno di garantirsi il consenso sociale bypassando i partiti. Dunque, riservando grande attenzione ai media.
È significativo, a questo proposito, come i partiti "esterni" alla maggioranza tentino di sfruttare la situazione a proprio favore. A costo di contraddire se stessi. L´Idv sostiene la protesta, anche se Antonio Di Pietro, quand´era ministro dei Lavori pubblici, aveva approvato la Tav. La Lega, al contrario, anche se sta all´opposizione, si associa alla maggioranza. E chiede, anzi, intransigenza contro la protesta dei No Tav. Per motivi tattici, anche in questo caso. Perché il movimento No Tav mette in discussione il monopolio della Lega nella rappresentanza delle rivendicazioni territoriali nel Nord. Anzi, la fa apparire "ostile" verso le domande dei cittadini del Piemonte, governato dalla Lega.
Così, i No Tav e la loro rivendicazione hanno assunto rilievo politico e mediatico nazionale. O viceversa. Il che è lo stesso. Perché la comunicazione - nuova e prima ancora tradizionale: la rete insieme ai giornali e alla tv - è ancora il vero "campo" dove avviene il confronto politico. E mentre gli attori e i leader politici, travolti dall´impopolarità, se ne stanno nascosti nel retroscena oppure passano il tempo nei salotti, sulla ribalta emergono nuovi interpreti. Da un lato: i "tecnici", che usano la "competenza" come risorsa di legittimazione politica e mediatica. Dall´altra: i movimenti e le comunità, impegnati a trasformare storie locali in romanzi popolari di grande impatto emotivo.

Repubblica 5.3.12
Il sociologo Marzio Barbagli: diminuiscono i delitti, ma non quelli in famiglia
"Killer che odiano le donne per loro sono una proprietà"
"Gelosia, possesso, auto affermazione: ecco perché alcuni uomini diventano assassini"
di Elsa Vinci


ROMA - Ancora una strage. Marzio Barbagli, sociologo, professore emerito all´università di Bologna, autore di numerosi studi sulla famiglia: di nuovo un padre, un marito omicida.
«Sono due i fattori in gioco. Primo, il fattore sociale: sono un uomo e devo far vedere che sono forte, competitivo, mi devo affermare. È un tratto culturale che connota la nostra storia, le nostre dinamiche sociali. E poi ci sono i disturbi di tipo psichiatrico. Purtroppo individuare in una persona i fattori di rischio, spesso non basta».
L´Associazione avvocati matrimonialisti sostiene: ne uccide più la famiglia che la mafia. È così?
«È un abbaglio. Dal 1992 il numero degli omicidi diminuisce costantemente, e fortemente quello dei delitti di mafia o di criminalità in genere. Mentre il numero delle morti violente in famiglia è rimasto costante, dunque gli omicidi in famiglia sono aumentati solo in percentuale. Gli stessi magistrati si basano sul numero delle denunce che spesso non fotografano la effettiva realtà. Ci sono studi Istat sul numero di casi, su atti commessi. Ma la verità è che è molto difficile quantificare la violenza in famiglia».
Le forme sono diverse, botte, persecuzioni, morte. Un fatto appare certo, le vittime sono soprattutto donne.
«Purtroppo il dato in letteratura scientifica è incontrovertibile».
Perché le donne?
«Gelosia, possesso, affermazione del sé. Nel passato l´uccisione delle mogli, delle amanti era incomparabilmente più frequente. Anche oggi i violenti socialmente sono soprattutto gli uomini. Tendono a considerare le compagne come proprietà».
Colpa del cromosoma Y?
«Non sono uno specialista, non mi avventurerei».
Come sociologo?
«Nella storia, nel passato gli uomini facevano la guerra, le donne procreavano. È un fatto, in tutte le forme di devianza, dal numero delle rapine agli incidenti d´auto, quello a rischio è il comportamento del maschio. E in base alla letteratura scientifica, c´è una fase della vita, tra i 15 e i 25 anni, in cui i maschi commettono più omicidi o reati in genere. Però se un ragazzo è fortemente integrato, cioè ha una fidanzata, degli amici, il rischio è frenato. Anche questo dato appare certo».
Le stragi in famiglia turbano per efferatezza. Lo Stato, la società quali strategie possono mettere in campo?
«Soluzioni? Lei crede che la violenza possa cessare nell´essere umano? Le forme di violenza fra uomini restano e resteranno».

La Stampa 5.3.12
Intervista “Ha condannato anche le bimbe”
Tutta colpa della gelosia «Si pensava che la razionalità permettesse di dominarla invece purtroppo non è così»"
Perché è l’uomo a uccidere «Negli uomini viene fuori il cacciatore, l’eroe greco che non si rassegna mai»
Lo psichiatra Andreoli: una ferita che non riusciranno mai a cancellare
di Flavia Amabile


Vittorino Andreoli, psichiatra, una vita trascorsa ad analizzare i meandri della mente nei crimini più efferati, che cos’è successo stavolta in questo delitto di Brescia?
«Ci troviamo di fronte ad una famiglia molto complicata, in una situazione in cui gli equilibri erano molto fragili. Il personaggio principale è la gelosia».
Personaggio?
«Sì, è il termine giusto per indicare chi o che cosa ha svolto il ruolo chiave in questa vicenda».
La gelosia, quindi.
«Si pensava che la razionalità permettesse di dominare questo sentimento, invece non è così. Ed è sempre più evidente che non è così. Queste famiglie complesse sono il frutto della società moderna, ci sono separazioni, figli nuovi: sono situazioni sopportabili se esiste tra le persone un legame razionale. Se invece esistono sentimenti di gelosia o frustrazione non fanno altro che aumentare».
Le famiglie allargate possono essere anche uno straordinario elemento di ricchezza. Perché condannarle?
«No, nessuna condanna. I nuovi matrimoni vanno rispettati e sono il risultato della società moderna; danno luogo a situazioni ricchissime ma sono anche armi nelle mani di alcune persone che possono non essere in grado di controllarsi e di fare stragi».
Com’è accaduto a Brescia. Le famiglie allargate però sono composte da uomini e donne ma le vittime sono sempre donne.
«È la verità. Ne ho seguiti tanti di casi del genere, alla fine le vittime sono sempre le donne».
Perché?
«Perché in caso di separazione le donne sono più capaci di mostrare il buonsenso necessario, sanno dominare il senso di sconfitta che si prova. Sono concrete, si occupano dei figli o, se non ne hanno, hanno sempre e comunque un padre o una madre a cui pensare, sono esseri dotati di una concezione sociale della vita».
E gli uomini?
«Negli uomini viene fuori il cacciatore, l’eroe greco, quello che non si rassegna ad essere sconfitto e che combatte comunque».
Ma perché ammazzare persone che non hanno nulla a che vedere con la persona di cui si è gelosi?
«In questo caso ha prevalso la distruttività, la voglia di distruggere l’intero mondo in cui si è vissuti. In genere, infatti, alla fine chi fa questo poi cancella anche sé stesso».
Qualcuno ancora lo chiama amore.
«Niente a che vedere con l’amore. È gelosia degenerata in malattia e delirio».
Qualcuno parla anche di raptus.
«Nessun raptus, nessun gesto di follia. Il raptus è un evento automatico, dura qualche secondo senza che ci si renda conto di quello che sta accadendo. Qui ci troviamo di fronte ad un atto meditato, voluto, deciso e messo in atto».
In questa storia ci sono anche dei figli sopravvissuti. Come potranno difendersi da tutto questo?
«Per loro è un vero disastro. Si sentiranno vittime e porteranno sempre dentro di loro questo dramma senza riuscire a elaborare il lutto. Purtroppo anche se venissero da me a chiedermi aiuto, probabilmente non saprei come farli venire fuori».
Alla fine il padre è riuscito a distruggere anche loro nella voglia di cancellare il suo mondo?
«Sì, sono vittime della stessa strage. Invece di essere morti sono feriti, ma la loro ferita non si potrà mai cancellare».

Corriere della Sera 5.3.12
Gli uomini e la violenza «Questa è una tragedia che li riguarda tutti»
di Daniela Monti


È un fatto privato di «quella» famiglia, di «quella» coppia. E poi solo un folle può compiere un gesto così, quattro persone uccise per un'ossessione, un'idea malata di dominio e di possesso. Chissà che patologia ha: avrebbero dovuto fermarlo prima, avrebbero dovuto curarlo prima.
Eppure c'è qualcosa che non torna in un ragionamento come questo. I primi a mettere in guardia sono i numeri: le violenze degli uomini sulle donne sono un fenomeno esteso, quasi quotidiano. Diventa difficile credere che siano tutte e solo relazioni sbagliate, rapporti sfortunati, situazioni al di fuori della «normalità». Lea Melandri, scrittrice, una lunga militanza nel femminismo che l'ha portata ad approfondire le dinamiche del rapporto fra i sessi, dà un'altra lettura della tragedia di Brescia. Macché fatto privato, macché patologia: il vero nocciolo sta in una questione infinitamente più complessa e che riguarda la nostra cultura dei rapporti fra uomini e donne. «Il fatto di considerare la violenza domestica come un fatto privato ostacola quell'assunzione di responsabilità da parte degli uomini, a livello culturale e politico, che sola potrebbe farci fare uno scatto avanti, spingendoci fuori dall'emergenza». Se sgombriamo il campo dalla figura del mostro, di quel mostro, tolto di mezzo il quale ci sentiamo tutti (falsamente) più sicuri, ciò che resta è una cultura, cristallizzata nel tempo, di rapporti fra i sessi fondata su legami di subalternità dell'universo femminile nei confronti di quello maschile di cui la violenza è l'espressione estrema, più bestiale.
I soliti vecchi discorsi? Melandri è convinta di no: «Di fronte a fatti atroci come questo, la reazione degli uomini, di quasi tutti gli uomini, è prenderne subito le distanze. Io non sono così, dicono, non ho nulla da spartire con tutto ciò. Vorrei invece vedere più coraggio, vorrei che gli intellettuali di questo Paese, gli stessi uomini di cui leggo gli scritti e dei quali condivido molto spesso le idee, dicessero finalmente: tutto ciò mi riguarda. Vorrei che qualcuno alzasse la voce e dicesse: la questione del rapporto fra uomini e donne è centrale e non più rinviabile. E cominciasse a interrogarsi sull'idea di mascolinità che abbiamo costruito nei secoli, sul nostro modello di civiltà, portandone allo scoperto punti di forza e nodi critici. Noto una difficoltà, che a volte sembra quasi insormontabile, a portare il tema della violenza sulle donne dentro un vero dibattito pubblico. Il massimo a cui ho assistito è stata la denuncia che alcuni uomini fanno del sessismo, sempre praticato dagli altri s'intende».
Perché tanta fragilità maschile? Perché basta un no o un addio per dare sfogo alla violenza?
«La fragilità maschile è un tema che andrebbe indagato a fondo. Gli uomini hanno costruito nei secoli un legame di dipendenza dalle donne molto forte. Imparano a conoscere il corpo femminile da piccolissimi, quando la dipendenza da quel corpo è totale. Poi il legame si prolunga nella figura della donna vista come madre. Le tante libertà acquisite negli ultimi decenni hanno però cambiato tutto. La dipendenza degli uomini resta, quella delle donne dai loro partner è stata invece messa in crisi da una nuova idea di se stesse».
Le donne troppo spesso non denunciano.
«Spesso è difficile distinguere fra amore e violenza, c'e da parte delle donne una complicità nel profondo con questi loro uomini che alzano le mani, c'è quell'idea dell'io ti salverò che le tiene prigioniere di un clima che diventa via via più pesante e drammatico. Ci sono anche donne che hanno denunciato e sono state uccise per questo. Non credo che sia dunque la soluzione a tutti i problemi. I centri antiviolenza, dove spesso le donne si rifugiano e vengono aiutate, chiudono per mancanza di fondi. È questa l'attenzione che siamo disposti a dare al problema?».
Ripensare al rapporto fra uomini e donne, d'accordo. E intanto?
«Intanto serve una forte e convinta campagna di informazione contro le violenze. Serve lavorare nelle scuole, introducendo un'educazione al rapporto fra i sessi e ai sentimenti che possa gettare basi nuove in questo Paese. Penso ad alcune esperienze positive realizzate all'estero di programmi specifici antiviolenza svolti nelle carceri. Dobbiamo trovare la forza di essere piu combattive su questi argomenti. Ci sarebbe tanto da fare invece di fingere di meravigliarsi, ogni volta, quando una donna viene uccisa da chi diceva d'amarla».

La Stampa 5.3.12
Israele - Iran
La via della pace che passa dalla Palestina
di Abraham B. Yeoshua


Ogni vero passo verso un accordo con i palestinesi farà sì che questi ultimi si uniscano alla ferma richiesta di bloccare le minacce di guerra iraniane Qualche giorno fa un giornalista televisivo olandese mi ha intervistato a proposito della questione nucleare iraniana. A quanto pare il primo ministro Netanyahu ha vietato ai politici di rilasciare interviste in merito e il giornalista olandese non ha avuto altra scelta che cercare altri candidati, forse più «intellettuali» ma privi di informazioni autorevoli e fondate.
Il giornalista mi ha chiesto se ritenevo che Israele avrebbe attaccato gli impianti nucleari in Iran. Gli ho risposto che non lo sapevo. Mi ha chiesto se ritenevo fosse il caso di colpire la ricerca nucleare iraniana per impedire la produzione di una bomba atomica. Ho risposto che non lo sapevo. Ha insistito a domandare se ritenevo che l’Iran potesse usare un’eventuale bomba contro Israele. Ho risposto che non lo sapevo. Ha poi proseguito chiedendomi se ritenevo che Israele potesse accontentarsi delle sanzioni imposte dall’Occidente contro l’Iran. Ancora una volta ho risposto che non lo sapevo. A questo punto ho notato che il giornalista stava cominciando a mostrare segni di disperazione per questo suo intervistato «intellettuale» che rispondeva a ogni domanda con un «non lo so» e mi ha chiesto: «Allora mi dica cosa sa». Ho immediatamente risposto che sapevo cosa andava fatto con urgenza perché tutte le sue domande si rivelassero inutili: riprendere con energia, onestà e serietà il processo di pace con i palestinesi e arrivare a ciò che persino l’attuale governo di destra ha apertamente dichiarato essere un obiettivo politico: due Stati per due popoli. E come atto di buona volontà interrompere l’ampliamento degli insediamenti esistenti e smantellare quelli illegali. E se ciò sarà fatto gli iraniani saranno costretti ad abbandonare la loro retorica esaltata e le loro perfide minacce.
Non intendo addentrarmi nella questione della minaccia reale o immaginaria dell’Iran verso i Paesi arabi suoi vicini: l’Arabia Saudita e gli Stati del Golfo. Né intendo addentrarmi nella questione del prezzo del petrolio e delle sue eventuali ripercussioni. Che i musulmani, sciiti o sunniti, si sbrighino le loro beghe fra loro. E che gli Stati Uniti e l’Occidente si preoccupino da sé dei loro interessi vitali. E se ritengono che un Iran nucleare possa rappresenta una minaccia per i loro alleati, penso che abbiano a disposizione i mezzi economici o militari e abbastanza portaerei per neutralizzare questa minaccia senza mettere a repentaglio l’incolumità delle loro città e dei loro cittadini.
Una cosa però mi è chiara alla luce dell’esperienza passata e presente.
Quando lo Stato di Israele fu fondato Iran e Turchia, due Stati musulmani, lo riconobbero. Di più. I rapporti con le antiche comunità ebraiche presenti sul loro territorio si mantennero relativamente corretti e tolleranti, diversamente da quanto avvenne in altri Paesi arabi - e anche in alcuni cristiani - dove agli ebrei fu riservato un trattamento duro e umiliante. E negli anni in cui l’ostilità araba verso Israele era assoluta e inequivocabile l’Iran e la Turchia continuarono a mantenere relazioni economiche, diplomatiche, e persino militari con Israele. Anche dopo la guerra dei Sei giorni e quella del Kippur, quando questi due Paesi islamici, come altri Paesi del mondo, chiesero la creazione di uno Stato palestinese a fianco di Israele, non interruppero le relazioni diplomatiche con Israele.
Lo Stato ebraico non ha mai ucciso un soldato iraniano né l’Iran ne ha mai ucciso uno israeliano. I due Paesi non hanno una frontiera comune e non vi è alcuna controversia territoriale tra loro.
Non sono un esperto dell’Iran per cui non so se l’odio cocente che i suoi leader manifestano contro Israele provenga dal profondo del cuore o se permetta loro di dare un contenuto e uno scopo al dominio oltranzista religioso che rappresentano. Le intenzioni e dichiarazioni degli iraniani sono serie o sono soltanto slogan intesi a rafforzare l’unità nazionale? L’Iran, nonostante il regime crudele e fanatico che lo governa, non è la Corea del Nord, e questo lo si può vedere dai film profondi e complessi che produce e certamente dalla rivolta popolare avvenuta due anni fa. Anche gli iraniani sono consapevoli dell’evoluzione della situazione in Medio Oriente e della primavera araba che ha indebolito tutti gli Stati arabi.
È vero che dopo l’Olocausto occorre prendere in seria considerazione qualsiasi dichiarazione folle e irrazionale di Paesi totalitari. Non posso quindi biasimare le autorità israeliane che minacciano di bombardare gli impianti nucleari iraniani e si preparano militarmente a una tale eventualità. Ma sono sicuro che ogni vero passo verso la pace con i palestinesi farà sì che questi ultimi si uniscano alla ferma richiesta di fermare le minacce di guerra iraniane perché un eventuale conflitto fra Israele e Iran distruggerebbe ogni possibilità di indipendenza nella loro patria.

Repubblica 5.3.12
Iran, Obama prova a frenare Israele
Oggi il vertice con Netanyahu: "La diplomazia può ancora vincere"
Secondo un dossier tedesco Teheran avrebbe effettuato dei test atomici in Corea del Nord
di Angelo Aquaro


NEW YORK - La guerra contro l´Iran che si sta armando dell´atomica deve ancora cominiciare ma c´è un´altra guerra che non vuole saperne di finire: quella tra gli Stati Uniti di Barack Obama e Israele. Alla vigilia della visita del premier Benjamin Netanyahu a Washington, il presidente si presenta davanti all´American Israel Public Affairs Community per ricordare quello che ha sempre detto: contro gli ayatollah nessuna opzione è esclusa «e quindi neppure quella militare». «La mia non è una politica di contenimento», chiarisce il presidente tra gli applausi: «La mia politica mira a prevenire l´Iran dal dotarsi dell´atomica. E non esiterò a usare la forza se necessario a difendere gli Stati Uniti e i suoi interessi».
Ma il nocciolo del discorso è un altro. Basta «con questi incontrollati discorsi di guerra: per il bene della sicurezza di Israele, della sicurezza dell´America e della pace e della sicurezza del mondo non è questo il momento di fare i gradassi». I gradassi? «L´Iran sarà fermato»: poco prima di Obama dalla stessa platea così dice il presidente israeliano. Certo: Shimon Peres ribadisce che Israele e Usa insegUono «lo stesso obiettivo», e che tra di loro su questo «non ci sono differenze». Ma Obama continua a dire che la via maestra resta quella della diplomazia. Che i servizi americani confermano che l´Iran è ancora lontano dalla capacità di ottenere l´atomica. E che soprattutto la strada diplomatica che stamattina Netanyahu continuerà a illustrare è impercorribile: stop completo dell´arricchimento dell´uranio.
La sfida a distanza insomma prosegue. E infiamma anche la battaglia politica interna. In questi giorni, dice il presidente, vedrete sfilare qui tanta gente che prometterà sostegno a Israele a parole. Il riferimento è ovviamente agli sfidanti repubblicani che lo accusano di non difendere Israele: a cominciare da quel Newt Gingrich che è ancora in piedi grazie alle decine di milioni di dollari versati da Sheldon Adelson, il re di Las Vegas e finanziatore della destra israeliana.
Non vi fidate, dice Barack, io vi ho difeso con i fatti: e sventola gli aiuti militari, il sistema missilistico di difesa e soprattutto il sofferto stop alle aspirazioni del riconoscimento all´Onu della Palestina. Di più. Obama invita a guardare a uno scenario più ampio: «Il regime iraniano è isolato e diviso, la diplomazia può ancora vincere». Proprio ieri nel voto di Teheran la destra vicina alla Guida Suprema Ali Khamenei ha battuto la fazione del presidente Muhammed Ahmadinejad: non è certo una buona notizia ma l´ulteriore prova di un Paese spaccato.
Eppure la strada della diplomazia sembra sempre più stretta. L´ultimo incubo è quello ventilato in un rapporto che arriva dalla Germania. L´Iran avrebbe addirittura già effettuato uno o due test atomici in Corea del Nord: così almeno sostiene un dossier segreto che è stato svelato da un noto esperto tedesco. Per questo Netanyahu, che ieri ha applaudito all´Obama «pronto all´intervento», glissando però sul suo appello alla calma, oggi a Washington cercherà maggiori assicurazioni: se noi in autunno colpiamo voi che fate? Dite che ci appoggerete: come e quando? Quali sono i vostri termini? «Io non bluffo», ha detto Barack in un´intervista ad Atlantic per rassicurare gli israeliani: oggi Bibi gli chiederà di mostrare le carte.

La Stampa 5.3.12
Cina - Usa. Il confronto nel Pacifico
Cina, armi e sicurezza Boom delle spese militari
Il budget sale dell’11 per cento e tocca 110 miliardi di dollari. I timori dei Paesi vicini
di Ilaria Maria Sala


Si apre a Pechino la riunione plenaria del Congresso Nazionale del Popolo, e uno dei primi annunci riguarda il budget militare per l’anno in corso: più 11.2%, ovvero le spese militari cinesi arriveranno a 110 miliardi di dollari (670 miliardi di yuan, la valuta locale). Ma quello che non si sa, sul budget militare cinese, resta molto: gli analisti infatti concordano nel reputare che la vera cifra dedicata da Pechino alle spese militari sia molto più alta, e proprio lo scorso mese un’inchiesta dell’Ihs Jane’s (una pubblicazione di Intelligence militare) prevedeva che il budget militare arriverà a 238 miliardi di dollari entro il 2015.
Le cifre ufficiali, infatti, mostrano che la Cina ha speso, nel 2011, meno dell’1.5% del suo Pil per la difesa, mentre i calcoli di analisti indipendenti metterebbero tale spesa a oltre il 2%. Nei loro calcoli viene tenuto conto anche delle spese per l’esplorazione spaziale, portata avanti dai militari cinesi. La spesa militare cinese è la seconda più alta al mondo, dopo gli Stati Uniti, prevista in 707 miliardi di dollari nel 2012, comprese le missioni militari all’estero.
In Cina, l’annuncio è stato dato da Li Zhaoxing, equivalente del presidente della Camera, che non ha però dato spiegazioni, in conferenza stampa, sul perché la Cina abbia bisogno di un budget militare in costante crescita, ribadendo soltanto che la Cina «è impegnata sul cammino dello sviluppo pacifico», e «segue una politica di difesa pacifica per natura», aggiungendo che «non costituisce una minaccia agli altri Paesi». Li ha dichiarato che la difesa cinese è per proteggere la sovranità nazionale, la sua sicurezza e integralità territoriale - una frase che viene ascoltata con apprensione a Taiwan, considerata da Pechino come «parte inalienabile» del suo territorio, ma attualmente sotto un governo indipendente da quello cinese.
Sta di fatto che negli ultimi venti anni il budget militare cinese ha registrato aumenti a due cifre, portando l’Esercito popolare di liberazione a essere, oggi, una forza dotata di armi sofisticate, fra cui la prima portaerei, adattata da una nave sovietica acquistata dall’Ucraina nel 1998, e i primi caccia Stealth J-20. Inoltre, la Cina sta approntando nuovi sottomarini e missili anti-navali.
L’annuncio di ieri è il primo da quando il presidente americano Obama ha reso noto il nuovo programma statunitense per la difesa, che vede un riposizionamento militare in Asia, con l’apertura di basi militari a Darwin, in Australia, da aggiungere a quelle già presenti nei Paesi del Pacifico. Mentre il resto della regione guarda con malcelata inquietudine l’aumentare del potere dell’Esercito popolare di liberazione, che, paradossalmente, sta avendo l’effetto di rafforzare i legami fra gli Stati Uniti e i vicini della Cina.
La Cina ha ancora molte dispute territoriali aperte: una, con l’India, per il confine dell’Arunchal Pradesh, poi un lungo contenzioso con il Giappone per le isole che chiama Diaoyutai (Senkaku per Tokyo), e per le isole Spratleys e Paracelse, nel Mar cinese meridionale, reclamate anche dagli altri Paesi del Sud Est asiatico. Negli ultimi tempi anche l’India, l’Indonesia e il Vietnam hanno aumentato i loro investimenti nella difesa.

La Stampa 5.3.12
Per Pechino e Washington “la guerra è una scelta”
Kissinger: il conflitto non è una necessità, ma i due Paesi faticano a capirsi
di Gianni Riotta


Se i marines arrivano in Australia, ci sono manovre militari congiunte tra Vietnam e gli antichi nemici yankee e la US Navy pattuglia l’Oceano Indiano, non si vuole così isolare la Cina? Meglio annunciare un aumento alle spese militari dell’11,2%, per un totale di 85 miliardi di euro (e restano fuori le milizie paramilitari). Altrettanto sostengono i falchi di Washington, per una volta però volando assieme alle colombe: studiosi come Kaplan vedono la guerra avvicinarsi con i monsoni dal Pacifico allo Stretto di Hormuz, a sinistra si crede che l’espansionismo cinese e la mancanza di diritti civili, vedi Tibet, finiranno in un conflitto. Insomma per interessi economici, geopolitica, cultura e valori, è «inevitabile» la guerra Usa-Cina?
Per scongiurare la catastrofe della III guerra mondiale, la prima del XXI secolo, interviene il decano della diplomazia Henry Kissinger, con il saggio «The future of U. S. Chinese relations», che qui anticipiamo dal prossimo numero della rivista Foreign Affairs, e che già sta facendo discutere Casa Bianca e Dipartimento di Stato. Con toni insolitamente appassionati per un cultore della gelida Realpolitik come l’ex segretario di Stato, capace negli Anni 70 di aprire alla Cina, favorire il golpe in Cile, bombardare la Cambogia, chiudere la guerra in Vietnam, scontrarsi con il premier italiano Moro, Kissinger scrive che la guerra può scoppiare, «ma sarà una scelta, non una necessità». Dopo aver criticato gli oltranzisti di Pechino e Washington, Kissinger compie il passo più astuto del buon stratega, cerca di capire quali sono le paure dei contendenti che possano scatenare mosse azzardate. La paura cinese, scrive, è essere accerchiati nei confini nazionali, senza accesso alle vie dei commerci e della comunicazione globale: ogni volta che la fobia scatta, Pechino va in guerra, Corea 1950, India 1962, Urss 1969, Vietnam 1979. La speculare angoscia americana è perdere accesso e influenza sull’Oceano Pacifico, e Kissinger, profugo europeo da bambino, ricorda che solo questo fattore trascina gli Usa in guerra nel 1941.
La preoccupazione di Kissinger è che le due capitali stiano leggendo male le rispettive culture. Se uno studioso come Aaron Friedberg scrive che è indispensabile una «Cina democratica» per restare in pace con gli Stati Uniti e che, di conseguenza, Washington deve sostenere i dissidenti contro il Partito comunista, è possibile che Pechino interpreti la mossa come un’aggressione politica. Reagiscono allora gli strateghi aggressivi alla Long Tao dell’Università Zhejiang, persuaso che la Cina, duellante oggi più debole, non può che colpire per prima, magari in conflitti locali ma che dissuadano l’America dalla guerra globale. E già Long Tao ha invitato Pechino a colpire nel Mar Cinese Meridionale.
Con freddezza che impressiona, Kissinger, l’uomo che col presidente Nixon ha riportato la Cina nel mondo e isolato l’Urss ai tempi della Guerra Fredda, ammonisce i rivali: non fatevi illusioni, lo scontro sarebbe nucleare, feroce e vi indebolirebbe entrambi per sempre. Devastando città ed economia e paralizzando anche, per la prima volta nella storia dell’umanità grazie alla cyber guerra, Internet e le comunicazioni, satelliti tv, Gps inclusi. «Le stesse culture» cinesi ed americane, conclude Kissinger, porterebbero i duellanti a non darsi tregua fino in fondo, lasciandosi alle spalle macerie e vittime.
Né è possibile una strategia di «contenimento» della Cina, come quella che George Kennan disegnò per la Russia, perché l’Urss non costituì mai pericolo economico per gli Usa, solo militare, al contrario della Cina superpotenza industriale e finanziaria. L’alternativa alle armi è l’idea di una «Comunità del Pacifico», con Pechino e Washington a convivere intorno ad organizzazioni tipo Trans-Pacific Partnership, zona di libero scambio economico cui il presidente Obama vuole associare la Cina. Se i due ultimi giganti si legano reciprocamente - sul modello di Usa e Europa - possono risolvere i conflitti negoziando, magari con maratone diplomatiche estenuanti. Washington, Londra, Parigi, Berlino e Roma possono dividersi e riunirsi, ma senza spargere mai sangue.
Presto la dissennata politica cinese di un solo bambino a famiglia vedrà, conclude Kissinger, «quattro nonni competere per l’attenzione di un solo figlio o nipote», la Cina dovrà dividere la ricchezza acquisita su una popolazione tre volte maggiore degli Usa e ormai in media più vecchia. Con l’ascesa al potere di Xi Jinping, nato nel 1953, la Cina, dal vertice ai villaggi, sarà governata da una generazione di leader che non ha conosciuto guerra civile, povertà, violenza: sarà possibile coinvolgerla nella pace, pur di non provocarla a dimostrare di essere patriottica come padri e nonni della Lunga Marcia. È la scommessa più grave del nostro tempo.

La Stampa 5.3.12
Intervista
Brzezinski “Patto con l’Asia per salvare l’Occidente”
Il guru democratico: “Ma l’Europa resta un alleato cruciale per l’America”
di Maurizio Molinari


Se Henry Kissinger afferma che «la guerra fra Usa e Cina non è una necessità ma una scelta» per far capire che i due giganti possono convivere, Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, va oltre identificando in Pechino e più in generale nell’Asia l’orizzonte verso il quale l’Occidente può espandersi per diventare «più grande e vitale», scongiurando il rischio del declino nel XXI secolo.
Nel suo libro «Strategic Vision» lei afferma che l’Alleanza transatlantica deve guardare all’Asia per trovare nuove energie. Non è una scommessa rischiosa?
«Dipende da quanto il Nuovo Oriente sarà stabile, ovvero da quale equilibrio si creerà fra le potenze asiatiche e dalla natura dell’impegno Usa in questa parte del mondo».
A che cosa pensa quando suggerisce all’Occidente di guardare alle partnership con l’Asia?
«Al fatto che le democrazie dell’Estremo Oriente, da Taiwan alle Filppine ma in particolare Giappone e Corea del Sud, tendono a considerarsi nazioni democratiche di un Occidente più grande e vitale. La misura in cui ciò potrà realmente avvenire dipende dalla futura evoluzione di Cina e India e dunque è impossibile fare previsioni oltre i vent’anni».
Al summit della Nato che si svolgerà a Chicago in maggio si parlerà proprio dei nuovi rapporti di partnership con i Paesi dell’Oriente. Crede che in prospettiva l’Asia potrà gareggiare con l’Europa per il ruolo di più stretto partner strategico degli Stati Uniti?
«Non credo che l’Estremo Oriente potrà mai emulare l’Europa per la politica americana. Andiamo per il momento verso una presenza Usa in Asia più diluita e di basso profilo sul territorio rispetto a quanto abbiamo visto in Europa negli ultimi cinquant’anni».
Nella proiezione della Nato verso Oriente quanto pesano i rapporti con la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin?
«L’avvicinamento dell’Occidente a Turchia e Russia è una conseguenza dei cambiamenti in atto in queste due nazioni. A mio avviso a tale riguardo la Turchia ha fatto passi maggiori rispetto alla Russia ma è in Russia dove, in prospettiva, potremmo vedere più novità. Toccherà all’Occidente dimostrarsi capace di sfruttare questo potenziale di nuovi rapporti».
La conseguenza di quanto afferma è che l’America si sta allontanando dall’Europa: è il risultato della crisi del debito?
«Non credo che l’America cesserà di considerare l’Europa il suo più importante alleato ma se l’Europa non riuscirà ad agire assieme e dunque a diventare un partner più vitale nella gestione degli affari globali, allora l’Alleanza atlantica sarà destinata al declino. Questo è il motivo per cui mi batto tanto esplicitamente per la rivitalizzazione dell’allargamento dell’Occidente democratico che ha ancora un ruolo costruttivo da giocare negli affari globali».
Come spiega che dall’inizio delle primarie repubblicane tutti i candidati hanno criticato l’Europa per guadagnare sostegni?
«Molti americani non sono ben informati sui dettagli del sistema socioeconomico e democratico dell’Europa. Nell’attuale atmosfera, che riflette ignoranza e ansia, è facile sostenere argomenti demagogici per arrivare a concludere che l’Europa è socialista, neutralista e stagnante».
Che cosa prevede sull’evoluzione della Primavera araba?
«Dipende dal fatto se sarà evitato o meno il conflitto con l’Iran. Una guerra tra Usa e Iran, conseguente a un attacco militare israeliano contro l’Iran, avrebbe conseguenze devastanti nella regione, spingendo gli Stati Uniti in unaguerra con molte somiglianze, purtroppo, con la recente campagna militare in Iraq. Tornare alle politiche solitarie e unilaterali seguite dal secondo presidente Bush sarebbe molto controproducente».
Come spiega il crescente ruolo del Qatar come alleato degli Stati Uniti, dal sostegno all’intervento in Libia all’impegno per la transizione in Siria? È una potenza emergente?
«Il Qatar raccoglie i frutti per aver dato un contributo responsabile ed efficace all’esito positivo della crisi libica ma forse è ancora presto per definirlo una potenza regionale».
Che opinione si è fatto della politica estera di Barack Obama?
«Obama ha un’idea incisiva e realistica del perdurante ruolo degli Usa nel mondo ma è frenato dal fatto che al momento l’American Dream sta svanendo. Per rivitalizzarlo l’America deve prendere l’iniziativa in più direzioni, alcune delle quali ho spiegato nel mio libro “Strategic Vision”».

La Stampa 5.3.12
Lo zar obbligato a non cambiare
Non può più ignorare la piazza ma è legato agli appetiti delle nomenklature
di Mark Franchetti


Vladimir Vladimirovich Putin, VVP come lo chiamano in Russia, è apparso rilassato e sicuro di sé ieri, mentre si avviava al suo seggio nel centro di Mosca. Dopo una buona dormita si è svegliato presto, ha fatto i suoi esercizi quotidiani, ha raccontato ai giornalisti. A sorpresa, si è fatto accompagnare dalla moglie Liudmila, che negli ultimi due anni si è fatta vedere talmente poco accanto al marito da alimentare voci che la coppia avesse divorziato in segreto. Putin ha ottime ragioni per sentirsi al sicuro. Il risultato del voto non avrebbe potuto essere più prevedibile, ed è tornato a essere Presidente della Russia, con un record di tre mandati. Molto meno prevedibile è però quello che accadrà adesso, visto che dopo un decennio di apatia politica negli ultimi tre mesi nel Paese sono cambiate tante cose. Oggi decine di centinaia di manifestanti si riverseranno nelle strade del centro di Mosca per protestare contro il ritorno di Putin al Cremlino. Il raduno di massa, autorizzato dal potere, sarà il quarto dal dicembre scorso, quando le prove dei brogli elettorali a favore di Putin hanno innescato le più vaste manifestazioni anti-governative dal collasso del comunismo vent’anni fa. Finora le proteste sono state pacifiche, ma adesso ci sono timori che la violenza possa scoppiare oggi, in quanto un piccolo gruppo di oppositori irriducibili ha deciso di tenere una manifestazione separata e non autorizzata che certamente si concluderà con la polizia che picchia e ferma i partecipanti.
Alexei Navalny, il più famoso attivista anti-corruzione del Paese e blogger diventato l’icona del movimento di protesta, ha già annunciato che non riconoscerà il risultato dello scrutinio. Ancora prima della chiusura dei seggi, ha dichiarato che le elezioni sono state sporche quanto quelle di dicembre. In una mossa destinata ad aumentare la tensione e provocare la violenza della polizia, Navalny ha annunciato che gli attivisti dell’opposizione potrebbero fare una tendopoli in piazza a scrutinio avvenuto. «Il risultato, come sempre, si sapeva in anticipo», dice un diplomatico che lavora a Mosca: «Putin sarà Presidente di nuovo. Ma stavolta è diverso. È quello che accadrà dopo che è del tutto incerto. Mosca ribolle».
Altrettanto imprevedibile è che tipo di Presidente sarà in Putin al terzo mandato. Le opinioni divergono, ma la maggioranza concorda: le recenti proteste, mai viste prima, hanno spogliato Putin della sua aura di invincibilità e se pensa di poter rientrare al Cremlino come quello di prima, i suoi giorni sono contati. La domanda che molti si facevano nella notte in cui arrivavano i risultati elettorali, è: che tipo di Presidente sarà il Putin-3. Più autoritario o più liberale? Reagirà all’opposizione, la più forte che avesse mai avuto dalla sua ascesa al potere nel 2000, con un giro di vite o allentando la presa e introducendo riforme? Qualche giorno fa Putin, apparendo ringiovanito da quello che molti sospettano essere un trattamento al botox, ha detto alla stampa straniera che le paure di un’offensiva contro l’opposizione erano infondate.
Le riforme significano la reintroduzione delle elezioni regionali abolite da Putin nel 2004, l’ammissione dei veri partiti dell’opposizione a registrarsi e correre per il Parlamento, e maggiore libertà di stampa, soprattutto nella tv strettamente controllata dal Cremlino. Putin è un pragmatico, e molti dicono che lui ha ascoltato il messaggio gridato dalla piazza, per quanto alcuni suoi commenti particolarmente sprezzanti verso i manifestanti dimostrano che ascoltare non sempre significa comprendere.
Ma soprattutto: è lui l’uomo giusto per riformare il sistema che lui stesso ha creato? «Penso che lui capisca di dover promuovere riforme, ma per natura è un uomo molto cauto, uno che si tormenta sulle decisioni e le prende all’ultimo momento», dice Alexei Venediktov, direttore della radio Eco di Mosca, la più indomita emittente d’opposizione: «Il clima sta cambiando troppo rapidamente per lui, è ancora dietro la curva».
Il tallone d’Achille di Putin sono la corruzione e la «naglost», l’arroganza e la spudoratezza del sistema che ha creato. La Russia è sempre stata corrotta, ma se sotto Eltsin le ruberie erano rampanti, sotto Putin sono diventate un’istituzione. È un male che colpisce tutti i russi. Dal Cremlino in giù, la corruzione ha inquinato la società a tutti i livelli. E considerato che alcuni dei più stretti amici e alleati di Putin, inclusi quelli con i quali si allenava a judo fin da ragazzino, sono diventati miliardari, è difficile immaginare che il nuovo Presidente russo potrà seriamente combattere la corruzione e gli immensi conflitti d’interesse all’interno del Cremlino. Da dove cominciare? È una domanda che si fanno in tanti.
Negli anni Putin ha detto a chi lo conosceva bene che i due momenti più terribili della sua vita li ha vissuti a Dresda nel 1990 e a Pietroburgo nel 1991, e in entrambi i casi riguardavano una folla di persone. Nella prima occasione Putin, ancora un ufficiale del Kgb di stanza nella Germania dell’Est comunista, si scontrò con una folla arrabbiata che cercava di assaltare la sede della polizia segreta sovietica dove lavorava. Il futuro leader russo aveva chiamato disperatamente Mosca per istruzione, ma senza risultato, e bruciò rapidamente i documenti sensibili.
Il secondo episodio è avvenuto durante i tre giorni del tentato golpe comunista contro Gorbaciov, quando il destino della Russia era appeso a un filo e il mondo osservava con ansia. All’epoca era il vice del sindaco liberale della città, e disse agli amici che temeva soprattutto per le figlie.
Ora che grandi folle di manifestanti protestano per le strade di Mosca, la direzione che la Russia seguirà nel futuro dipenderà per buona parte dall’effetto che faranno a Putin nella sua terza riedizione. È un duro, la sua gente lo sa, ma è anche abbastanza abile per reinventarsi.
Un anno fa, a 58 anni, VVP ha cominciato a giocare a hockey. Gli è piaciuto così tantoche si allena anche dopo mezzanotte, qualche volta anche da solo. La scommessa, al suo ritorno al Cremlino per la terza volta, è se riuscirà a mostrare un simile talento per rinnovarsi anche fuori dal ghiaccio.
*Corrispondente da Mosca del Sunday Times di Londra

La Stampa 5.3.12
L’Occidente deve ripensare la Russia
di Kurt Volker


Lo Zar Putin si è reinstallato con successo alla presidenza della Russia: nonostante ciò si presenta la necessità di ripensare la politica del «reset», ovvero un nuovo inizio, che ha guidato l’approccio statunitense ed europeo verso la Russia negli anni passati. La Russia sta vivendo il periodo più dinamico di attività politica dai tempi di Boris Eltsin. Questo nonostante le restrizioni alle libertà politiche e di stampa, una crescente pressione sulla società civile, e la massiccia corruzione o, addirittura, a causa di queste stesse cose.
Centinaia di migliaia di manifestanti hanno partecipato alle proteste in tutto il Paese, non solo a Mosca e San Pietroburgo. I social media sono diventati uno strumento fondamentale per la comunicazione libera.
E ciò che la gente sta comunicando è che il partito di Putin, «Russia Unita», è il partito dei «truffatori e dei ladri», e che il piano del primo ministro Putin per reinstallarsi come presidente è fondamentalmente illegittimo. La dichiarazione dello stesso Putin - che lui e Medvedev avevano concordato anni fa, che Putin sarebbe tornato come presidente - significa che tutti coloro che credevano che Medvedev rappresentasse davvero un approccio diverso per la Russia, o che la Russia potesse ancora essere considerata come una sorta di democrazia, sono stati menati per il naso.
Proprio come nelle proteste che hanno lanciato la primavera araba, l’Occidente non ha avuto niente a che fare con queste proteste in Russia. Infatti, negli anni passati, la politica americana ed europea ha puntato in gran parte a cooperare con il governo russo su questioni fondamentali, modulando la critica alle restrizioni dei diritti politici e umani da parte del governo, e la sua pesante pressione sui Paesi confinanti.
Questo fatto, tuttavia, non ha impedito a Putin di usare la retorica anti-occidentale, orientando il suo governo come antagonista all’Occidente. Ciò include la vendita di armi alla Siria, il blocco all’azione delle Nazioni Unite, lo svuotamento delle sanzioni internazionali contro l’Iran, il blocco della cooperazione Nato-Russia sulla difesa missilistica, la minaccia dello sviluppo di nuovi missili diretti all’Europa, la minaccia dell’uscita della Russia dal Trattato Start II ha concluso durante l’amministrazione Obama. Ha anche accusato il Segretario di Stato Clinton di aver ispirato le proteste interne in Russia.
Questa nuova linea dura russa è di per sé un male e ancora peggio quando lo si vede come presagio della futura politica del ri-eletto presidente Putin.
E questo è il problema che i politici americani oggi devono affrontare. Immaginiamo quello che farà Putin tornando al Cremlino. Reprimerà con forza quelli che hanno protestato contro di lui e perseguirà con determinazione una nuova linea aggressiva verso i suoi vicini e l’Occidente. La politica di “reset” - che mirava a favorire un migliore comportamento russo, ponendo l’enfasi sui settori della cooperazione, piuttosto che sulle differenze - sarà rigettata dalla Russia. Se l’Occidente dovesse persistere in tale politica, vorrebbe dire de-enfatizzare la critica al Putinismo, mentre lo stesso Putin intensifica gli attacchi contro gli oppositori interni e l’Occidente e ostacola un ordine del giorno responsabile sulla sicurezza internazionale.
D’altro canto, anche se Putin risulterà indebolito internamente a causa di un’opposizione interna senza precedenti, ci troveremo ad affrontare un problema diverso. Coloro che lottano per una Russia meno corrotta e più democratica riterranno che gli Stati Uniti e l’Europa non sono riusciti a lottare per i diritti dei russi comuni, garantendo allo stesso tempo Putin e il suo regime. Riterranno che l’Occidente abbia cercato di tutelare i propri interessi a scapito del popolo russo.
Comunque la politica di «reset» degli Stati Uniti e dell’Europa è sempre più fuori sincronia perché si basava sulla collaborazione con il governo russo. Pur non rinunciando a sostenere la democrazia e i vicini della Russia in linea di principio, il punto era di non permettere che tale sostegno ostacolasse la prospettiva di realizzare un rapporto costruttivo con il governo russo.
Già Putin ha chiarito che tale rapporto costruttivo non sarà possibile. Inoltre, i nostri sforzi per perseguire un rapporto costruttivo con lui sono solo serviti a metterci nella scomoda posizione di schierarci con lui contro il popolo russo.
In questa nuova realtà - anche adesso - gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero cambiare rotta, prendendo una posizione pubblica forte contro la corruzione politica a Mosca, e in sostegno agli obiettivi legittimi del popolo russo, espressi attraverso un vero e proprio processo democratico. Il popolo russo ha bisogno di sapere che siamo dalla sua parte, e Putin ha bisogno di sapere che le sue azioni hanno delle conseguenze.
*Ex ambasciatore statunitense alla Nato, direttore del McCain Institute for International Leadership, organismo dell’Arizona State University. [Traduzione di Carla Reschia]

Corriere della Sera 5.3.12
Caroselli, schede alterate, seggi fantasma
L'opposizione denuncia la macchina dei brogli
di F. Dr.


MOSCA — Le telecamere installate in quasi tutti i seggi e mezzo milione di osservatori hanno certamente limitato i brogli. Ma «aiutini» per il candidato Vladimir Putin ce ne sono stati, almeno stando alle tante denunce diffuse. Intanto i seggi non controllati da nessuno. Decine di fabbriche hanno dichiarato lavorativa la giornata di domenica, costringendo gli operai a votare in seggi volanti installati dentro gli stabilimenti dove, per ovvi motivi di sicurezza, nessun estraneo (leggi osservatore e/o oppositore) può entrare. Nelle unità militari i soldati votano agli ordini degli ufficiali. Naturalmente in tutta libertà, ma casualmente sono per più dell'80 per cento a favore di Putin.
Uno dei sistemi più vecchi è quello del carosello: gruppi di elettori fidati portati in autobus in vari seggi «amici» a votare più volte. Questa volta però c'era molto più controllo e i caroselli non hanno funzionato granché. I comunisti hanno denunciato un sistema nuovissimo, studiato per sfruttare al meglio le macchine automatiche che in alcuni seggi scrutinavano le schede. A Dzerzhinsk sul Volga il Pc giura che tutte le schede erano particolarmente ruvide in corrispondenza del nome di Putin. Così per le macchine erano tutte state votate «per Putin». Quelle bianche venivano quindi attribuite al primo ministro.
Quelle che avevano il segno su un altro nome venivano annullate, come se l'elettore avesse dato due preferenze. L'ultima sorpresa sono stati i seggi supplementari. Dovevano essere 94 mila in tutto il Paese, ma alla fine ne sarebbero spuntati altri duemila. Nessuno sa dove, come e perché e nessuno, naturalmente, è potuto andare a «osservarli».

Corriere della Sera 5.3.12
«Siamo un Paese feudale che cerca un leader forte»
Il regista Konchalovskij: mancano i valori borghesi Il blogger oppositore Navalny è coraggioso nel denunciare la corruzione, ma ricorda un po' Savonarola
di Paolo Valentino


MOSCA — Quando lo zar Alessandro I discusse il tema della corruzione con il capo della sua polizia segreta, il conte Alexandr Benkendorf, gli disse che bisognava punire tutti i colpevoli. Ma quello, allargando le braccia, rispose: «Ma allora con chi rimane, Maestà?».
Andrei Konchalovskij mi racconta l'aneddoto durante una pausa delle prove di «Tre Sorelle» di Cechov, che in primavera mette in scena al Teatro Mossoviet. E ricorda che anche Vladimir Putin lo ha evocato di recente.
Il celebre regista è da poco tornato dal seggio. Ha votato Vladimir Vladimirovich, «perché non c'era alternativa credibile, perché vince comunque e perché in ogni caso è meglio cercare di influenzarlo per risolvere il problema più difficile e complesso che abbiamo davanti: cambiare il sistema di valori medioevale di questo Paese».
L'analisi di Konchalovskij indulge spesso nel paradosso e non risparmia nulla al vecchio e nuovo leader del Cremlino. In fondo Andrei è l'erede meno allineato di una grande dinastia, che ha attraversato indenne le svolte brusche della storia russa: suo padre era lo scrittore e poeta Sergei Mikhalkov, autore dell'inno a Stalin e poi di quello a Eltsin; sua madre era la poetessa Natalia Konchalovskaya, suo fratello è il regista premio Oscar Nikita Mikhalkov, sempre sulla breccia da Breznev a Putin.
Il concetto di base del suo ragionamento è quello di una sorta di «jet-lag storico» di cui sarebbe preda la società russa, dove non è mai nata la borghesia e i valori dominanti sono anacronistici: «Il bisogno di un leader forte con un potere verticale, il successo finanziario altrui visto come minaccia al proprio benessere, un circolo di fiducia ristretto, il nepotismo, l'assenza di responsabilità personale». La conclusione del regista di «A trenta secondi dalla fine» è che la Russia sia ancora «troppo giovane per la democrazia» proprio perché «manca una vera borghesia, una classe di cittadini».
L'impressione immediata è che Konchalovskij si stia perdendo qualcosa, cioè l'esordio sulla scena pubblica di una nuova classe media, quella favorita proprio da Putin ma che ora rifiuta il patto scellerato della rinuncia alla politica.
«Non è così. Questa classe benestante non è una borghesia. Ha un certo livello di consumo, ma anche i suoi valori sono feudali. Dipendono totalmente dal Cremlino per il successo economico, non rischiano, non hanno impegni sociali».
Il cineasta cita il filosofo Konstantin Leontyev: «Diceva che la Russia dev'essere sempre un po' gelata, altrimenti marcisce. E cos'ha fatto Putin nei primi anni del suo potere, se non congelare un Paese che si stava liquefacendo? Quando nel 1991 i russi ottennero tutte le libertà, non seppero cosa farne e lo Stato cominciò a sciogliersi. Il primo risultato della fine del comunismo fu il ritorno ai valori storici nazionali, soppressi dal terrore sovietico. Ma erano i valori precedenti una rivoluzione borghese, quelli feudali di una Russia che non aveva mai avuto l'umanesimo. Tutta la cultura europea si basa sulla filosofia greca, la scolastica ebraica e il diritto romano. Noi non abbiamo avuto questa base».
L'errore del secondo Putin è stato di «non lottare contro il feudalesimo statale, che impedisce ogni sviluppo». «Non parlo neppure di corruzione — aggiunge Konchalovskij — qui rubano tutti, è un fatto della vita. Non c'è diritto, non c'è una polizia normale, il cittadino non è protetto dalla criminalità di ogni genere. Ecco perché i cosiddetti imprenditori russi sono totalmente collaborazionisti col potere. Sembra il Trecento, cioè sette secoli fa. Dopo la vittoria, Putin deve avere il coraggio di dire che viviamo in una società feudale e combattere questi valori. Creare un vero Stato civile di diritto. La democrazia verrà dopo. È l'ultima occasione che ha. Se facesse prevalere la fedeltà ai suoi amici, ci sarebbe un'esplosione».
La crisi demografica in atto in Russia è per il regista figlia di questo sistema: «Ci sono in Russia 5 milioni di bambini abbandonati dai genitori: ma non c'è responsabilità penale per questo delitto. Ogni anno vengono violentati e uccisi 1.600 minorenni, negli ultimi vent'anni la popolazione russa è diminuita di 7 milioni. Sono dati africani. Fatti più gravi della corruzione».
Eppure, in tanto pessimismo, neppure Andrei Konchalovskij rinuncia a un barlume di speranza: «C'è un processo di socializzazione su Internet che cresce e premerà sul potere. Ci vorrà tempo, non basteranno 5 anni. Andrei Navalny è coraggioso nella sua denuncia della corruzione, anche se assomiglia un po' a Savonarola. Tutto dipende però dalla saggezza di Putin. Se non l'avrà saranno guai».

Corriere della Sera 5.3.12
Perle: per lui la guerra fredda non è finita
Il disagio Usa per il «revanscista dell'Urss» che non si rassegna
di Ennio Caretto


«Negli ultimi anni ho visitato spesso la Russia cercando di aiutarne i movimenti dei diritti civili, e inizialmente ho nutrito buone speranze che diventasse una democrazia. Putin me le ha fatte svanire. Il mio giudizio sui suoi due mandati, e anche sul mandato di Medvedev, è negativo. Dopo un inizio cauto, in apparenza persino conciliante, Putin ci ha riportato ai tempi della guerra fredda. Temo che sarà così anche nei prossimi anni. È come se Putin non avesse mai digerito la sconfitta della Unione Sovietica, come se volesse una rivincita. Medvedev prima ha tentato di migliorare le cose, poi si è rassegnato».
L'ex sottosegretario alla difesa Richard Perle, il «cavaliere nero» del disarmo atomico, che un quarto di secolo fa impostò la graduale riduzione degli arsenali nucleari degli Usa e dell'Urss si dice deluso del dopo Eltsin in Russia. «Non so perché Eltsin consegnò il potere a Putin — afferma —. So che ci illudemmo che Putin accelerasse l'ingresso del Paese nel consesso democratico. E invece Putin ha dimostrato di essere rimasto in fondo un agente del Kgb, della polizia segreta sovietica. Ha seguito una politica piuttosto repressiva in casa e aggressiva fuori, dando anche l'impressione di volere ricostituire l'impero comunista».
Il suo non è un giudizio troppo pesante?
«Non sostengo che Putin sia un dittatore, ma penso che il suo sia stato e continuerà a essere un regime autoritario. Quando lo ritiene utile, Putin non esita a schiacciare gli avversari, i dissidenti e quant'altri con tutto il peso dello Stato. E in quella che considera la sfera di influenza russa non esita a ricorrere all'intervento militare, oltre che alle più gravi pressioni politiche, economiche, diplomatiche».
C'è chi gli attribuisce il merito di avere rilanciato l'economia.
«Conosco bene la Russia. La sua economia si regge sul petrolio, Putin non ha modernizzato il Paese, non ne ha fatto un colosso tecnologico mediatico ecc. Adopera il petrolio come strumento di ricatto non solo degli ex Stati comunisti ma anche dell'Europa occidentale. La quale Europa non deve lasciarsi ricattare, se permette».
La campagna elettorale non lo ha però indebolito?
«Ne ha intaccato l'immagine, evidenziando la sua caduta di popolarità. Ma l'opposizione non è ancora abbastanza forte da dimezzarne il potere. E non dubito che Putin la reprimerà, anche se cercherà di mascherarlo. Mi preoccupo per leader come Ryzhkov, un uomo molto articolato, un vero democratico, non vorrei che finisse in carcere o peggio».
Ma Putin non rischierebbe una sollevazione?
«Difficile dirlo. Ha a disposizione l'arma del fisco, che gli conferisce un che di legalità. Può sembrare sciocco, ma le disposizioni del fisco russo sono così contraddittorie che anche i più onesti possono essere processati a piacimento delle autorità. E non vedo sorgere un movimento di resistenza di massa a questi abusi a breve termine».
Non c'è nulla che l'Occidente possa fare?
«L'Occidente deve unirsi e coordinarsi nei rapporti con la Russia. In primo luogo deve prendere atto che Putin tenta di dividerlo, che è ostile agli Usa e alla Nato, che è ritornato alla guerra fredda, ripeto. In secondo luogo deve appoggiare l'opposizione, perché a media o lunga scadenza Putin dovrà concederle qualcosa. Le forze democratiche russe devono sapere che non le abbandoneremo».
Obama tuttavia ha dialogato e dialoga con Putin.
«Non ha alternative, dialogavamo con l'Urss anche in piena guerra fredda. Non si tratta di rompere i rapporti, si tratta di fare capire a Putin che la sua politica antiamericana è inaccettabile. Putin persegue il danno degli Usa anche quando va a scapito della stessa Russia. Basta pensare alla sua difesa della Siria, dove ogni giorno si violano i diritti umani».
C'è il pericolo di una nuova corsa al riarmo atomico?
«Non in Russia né da noi. Putin non intende certo mandare in Germania i carri armati e non ha interesse a evocare lo spettro nucleare. Il pericolo del riarmo atomico esiste nel Golfo Persico a causa dell'Iran. Prepariamoci comunque a dei bracci di ferro tra Washington e Mosca».
Di che tipo?
«Le cito il caso di Sergej Magmitsky, un giovane avvocato che scoprì un grosso scandalo concernente un fondo d'investimenti e che fu ucciso dal regime. Lavorava per il più grande investitore americano in Russia, William Browder, il figlio dell'ex segretario del Partito comunista americano, che ha chiesto al Congresso di intervenire. Il Congresso ha oggi sotto esame sanzioni contro i responsabili: a esempio verrà loro proibito di mettere piedi negli Usa. Le autorità russe sono furenti. Secondo me, questo è solo un inizio».

Repubblica 5.3.12
Quella sposa spaccata in due
La Russia è stanca di Rivoluzioni ma vuole dialogo per cambiare
di Viktor Erofeev


Attualmente almeno una metà della Russia è degna di Vladimir Putin, e lui è degno di questa metà del Paese. Le nostre elezioni presidenziali assomigliano a un matrimonio. Putin si è preparato, ha dato al proprio volto un aspetto giovanile, ha scritto o si è fatto scrivere sette articoli con le promesse per la sua sposa, la Russia: di esserne difensore, patrono, comandante in capo e fratello.
Queste due metà non si possono più incollare e non è neppure possibile costringere chi si oppone a rinunciare al suo dissenso
C´è una parte di questo Paese che è insorta contro di lui per difendere i nostri valori più importanti, per il presidente è stato uno shock
Alle nozze ha invitato i suoi fan dalle varie regioni della Russia e ha promesso loro di farli mangiare e bere in abbondanza, e a sbafo. C´è solo un problema: la sposa si è spaccata in due. Una parte di essa - in sostanza, la metà inferiore - fatta di operai, di soldati, di lacchè, la parte più corrotta, menefreghista, e, per dirla tutta, senza un´istruzione superiore, attende con ansia il suo sposo ed è pronta a concedersi a lui, se non per sempre, almeno per i prossimi sei o addirittura per i prossimi dodici anni. Chissà che figli potranno nascere da questa unione. Non è chiaro nemmeno se questa sposa potrà generare qualcosa di degno. Ma il suo sposo le ha promesso mari e monti, e fa finta di credere lui stesso alle sue promesse. Egli difenderà questa metà inferiore della Russia dagli americani, e non permetterà che essi la disonorino.
La farà voltare verso l´Asia e le dirà che laggiù, dentro delle scatole cinesi, ci sono i suoi nuovi gioielli. Se lei avrà una crisi, lui la prenderà per un lembo del vestito e con le sue mani le applicherà gli impiastri sulle ferite e le sanguisughe. E poi, l´amerà ardentemente, perché i due sposi condividono le stesse inclinazioni. Naturalmente, lui come ogni uomo le terrà nascosto qualcosa: magari il suo reddito e alcuni degli amici che compongono il suo inner circle, che lo aiutano con il petrolio e con il gas, ma che non amano farsi notare. Putin spiegherà alla sua sposa perché Khodorkovskij deve restare in prigione; eppure non escludo che per la gioia lo sposo si mostrerà più accondiscendente con Khodorkovskij e dal Nord lo farà trasferire in un carcere sul Mar Nero.
Ma come dovrà comportarsi con la metà superiore della sua sposa, con quella Russia che lo scorso inverno è insorta contro di lui, non ha voluto sposarlo per la terza volta ed è fuggita dall´altare? Per lo sposo è stato un terribile choc. La metà superiore non sono i compagni di potere di Putin, anche se persino tra i suoi sodali si è delineato uno scisma. La metà superiore è la parte illuminata della società russa: scienziati, giornalisti di rilievo, scrittori, attori, registi, stelle del pop. Ovviamente, anche tra di loro Putin ha trovato qualche sostenitore, e si fa bello del loro appoggio: di certo li saprà generosamente ricompensare della loro fiducia. Ma l´opinione diffusa tra l´intelligencija è un «no». E le decine di migliaia di giovani che sono scesi in piazza per manifestare rappresentano anch´essi un chiaro "no" indirizzato a Putin.
Beh, dirà Putin tra sé e sé, questa gente ha perso la testa per i valori dell´Occidente e si è venduta all´Europa. Ma così dicendo non si accorgerà che questi valori noi non li abbiamo importati. Sono sempre stati i valori della nostra cultura, da Pushkin a Malevich, da Cechov a Schnittke; è l´Occidente, piuttosto, ad aver importato i nostri valori russi, i valori della nostra cultura, e non il contrario.
Comunque sia, la sposa si è spaccata in due metà. E queste metà ormai non si possono più incollare. Si potrebbe fare un tentativo, ma come? Si potrebbe costringere la metà superiore della sposa a prendere Putin per marito. Mettere in prigione qualcuno degli oppositori più agguerriti, spedire qualcun altro all´estero a soggiornarvi a tempo indeterminato, e la metà superiore della sposa scoppierebbe in lacrime, disperata: è terribilmente triste restare zitelle per dodici anni.
Io augurerei a questa parte della sposa e a Putin di instaurare un dialogo, così da poter diventare, se non marito e moglie, almeno due tranquilli parenti, che anche se non si amano, almeno non fanno a botte. Non abbiamo bisogno di una guerra civile. Non abbiamo bisogno di sconvolgimenti epocali: la Russia negli ultimi cent´anni se n´è giustamente stancata. Abbiamo bisogno di dialogare tranquillamente intorno a un tavolo. Credo che la metà superiore della sposa su questo sia d´accordo. È una ragazza colta, sorridente, ironica. Non ci prenderà in giro.
La metà inferiore della sposa sarà fedele fino alla fine del mandato? Non finirà per sciogliersi come un gelato, non darà ragione alla metà superiore? Bisogna tenerla ben d´occhio - potrebbe combinare qualcosa di scandaloso, come una rivoluzione tutta sua, in stile nazionalistico. Questa parte dirà: «Non mi somigli abbastanza! Datemi un contadino russo con un bastone in mano!».
Putin è in mezzo tra le due metà della sposa. Si sta provando l´abito nuziale, si sta mettendo un fiore all´occhiello. Putin si sposa. Viva gli sposi!

Repubblica 5.3.12
La rivoluzione lenta della nuova borghesia
di Bernard Guetta


MOSCA. L´opposizione russa non manca di teste pensanti, e ha una sua strategia. Essenzialmente moscovita, questa piccola rete di figli del post-comunismo è fatta di imprenditori, giornalisti, architetti, avvocati o medici: un nuovo ceto le cui figure di prua provengono dalle stesse scuole, frequentano gli stessi locali.
Ma che hanno anche la stessa visione delle prossime tappe da affrontare. Per quanto le frodi del voto di ieri siano state massicce, l´opposizione non vuole svenarsi in una lunga e vana contestazione delle presidenziali. È ben consapevole che fin dalla settimana precedente erano già pronti i risultati precisi da assegnare all´apparato dello Stato. Di fatto la paura si è ormai attenuata, tanto che non sono mancate le informazioni lasciate filtrare, a tutti i livelli, da giovani funzionari. Si sapeva le cifre sarebbero state diverse a seconda delle zone di città o di campagna, delle regioni centrali o periferiche, e che la consegna era di rispettare la verosimiglianza, evitando il pienone nelle urne e modificando i risultati gradualmente, in crescendo verso le aree più centrali, tenuto conto anche della possibilità di votare in seggi diversi da quelli corrispondenti al domicilio degli elettori.
Ecco perché le manifestazioni di protesta erano previste fin da prima del voto. Ma agli occhi degli strateghi dell´opposizione la questione essenziale è un´altra. Tutti sanno che al di là delle frodi, Vladimir Putin ha una sua base nelle campagne, così come nelle città industriali colpite dai fallimenti, in quella Russia ove la miseria è tanto grande che non si vuole rischiare di aggravarla ulteriormente con una crisi politica. Ma soprattutto, gli oppositori non hanno alcuna voglia di impegnarsi in una prova di forza persa in partenza.
Come previsto, Putin ha vinto. Dopo aver ceduto il posto per un quadriennio - data l´impossibilità di candidarsi per un terzo mandato consecutivo - a Dmitri Medvedev, è tornato al Cremlino. È un dato di fatto, e con tranquillo realismo l´opposizione non vuole tentare di cacciarlo da lì, ma cerca invece di imporgli un compromesso che non ritiene impossibile.
Vorrebbe indurlo a non rimangiarsi le riforme promesse dal potere nel dicembre scorso, quando i brogli alle elezioni legislative avevano indotto i ceti medi alla dissidenza. E ottenere che, come promesso, i governatori delle regioni non siano più nominati ma eletti; che la creazione dei partiti politici e le leggi inerenti divengano diritto effettivo e non più solo teorico; e soprattutto chiedono che i partiti possano formare coalizioni elettorali, oggi vietate.
La battaglia sarà dura, e certamente la vittoria è tutt´altro che a portata di mano; ma secondo gli strateghi dell´opposizione, Vladimir Putin non è Mubarak, e meno ancora Bashar al-Assad. È consapevole - dicono - che a manifestare è la Russia efficiente, quella capace di innovare, di creare imprese, di far girare l´economia. E sa che non potrà governare durevolmente contro di essa, ma dovrà pur trovare un modus vivendi col ceto medio urbano, poiché non vuole scontri armati in piena Mosca, ma desidera salvaguardare una rispettabilità internazionale, e la possibilità di ritirarsi un giorno per godersi il denaro che ha ammassato.
Gli oppositori non vogliono la rivoluzione, anche perché, come dice uno dei suoi esponenti, «a loro è andata bene»; in altri termini, è gente che a suo tempo ha approfittato della liberalizzazione economica per arricchirsi; che si era perfettamente adeguata al Far West degli anni di Eltsin, così come al laissez faire del periodo di Putin, ma oggi non sopporta più l´arbitrio, la corruzione e soprattutto l´abbandono in cui la Russia è lasciata dai dirigenti che sfruttano a dismisura le sue risorse naturali, al pari delle monarchie petrolifere.
La nuova borghesia nata nel post-comunismo si è ormai consolidata; i suoi figli, formatisi a Londra o a New York, aspirano alle libertà, e vorrebbero vivere e costruire imprese con dignità e sicurezza, senza più dipendere da un potere politico che giudicano "anacronistico". Questa borghesia vuole il potere; nata com´è dalla stessa frattura storica che lo ha consegnato ai suoi attuali detentori, e date le innumerevoli passerelle che la collegano a questi ultimi, crede di poterglielo strappare senza bagni di sangue, a tappe successive, mediante una serie di riforme e compromessi, per costruire in Russia una vita politica e ridestare le regioni con l´elezione di governatori, dando vita a un´opposizione credibile attraverso la costituzione di coalizioni democratiche.
Potrebbe non essere un´illusione. Al Cremlino c´è chi si rende conto della necessità di negoziare una svolta. Ma anche qualora Vladimir Putin vi si rassegnasse, le scosse non potranno che essere dure.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 5.3.12
L’attivista: "È tutto finto, stabilito a tavolino. Che ci arrestino pure. Ci saranno altri a continuare e sempre di più"
La Chirikova, eroina "verde" della protesta "Voto truccato, noi torniamo in piazza"
"Annuncio un martellamento continuo e logorante che porterà a un cambio di potere pacifico"
di Nicola Lombardozzi


Mosca - «Andiamo in piazza perché è tutto finto, tutto stabilito a tavolino. Che ci arrestino pure. Ci saranno altri a continuare e saranno sempre di più». Evgenja Chirikova arrossisce e fissa il pavimento come a scusarsi per la rabbia che le esplode dentro. E´ il suo limite ma anche il suo fascino: un´aria da ragazzina spaurita e un carattere da vero leader della rivolta anti Putin; la più amata insieme al blogger anticorruzione Aleksej Navalnyj. Ingegnere, ecologista per caso, 35 anni e due bambine piccole. E un sogno: «Una Russia democratica».
Ma non è possibile che Putin abbia recuperato i consensi che sembravano perduti?
«Ditemi un solo motivo perché la gente avrebbe dovuto votarlo in massa. Il crollo della sua popolarità è evidente. Per le strade, su internet. Io stessa ne sono una prova».
In che senso?
«Che la mia piccola battaglia per salvare dagli speculatori la foresta di Khimki, raccoglie decine di migliaia di sostenitori da tutto il Paese. Pensate che abbiano a cuore le betulle di casa mia? No, ce l´hanno a morte con questo regime opprimente e bugiardo».
Ma intanto Putin sarà presidente per altri sei anni. Che farete?
«Le rispondo da ingegnere: quando la radioattività raggiunge la massa critica, la reazione nucleare a catena è inevitabile. Continueremo a protestare e prima o poi dovrà andarsene. Più cercherà di restare al potere, più la sua fine sarà spiacevole per lui».
Che fa, minaccia? Avete in preventivo anche azioni violente?
«Non minaccio. Annuncio un martellamento continuo e logorante che porterà a un cambio di potere pacifico. E´ ineluttabile».
Putin ha promesso che non userà la forza per fermarvi. Ci crede?
«Non si può credere a uno che ha fatto quello che sappiano nel Caucaso. E che ha sulla coscienza le finte bombe terroristiche del ‘99 con tutti quei morti a Mosca e dintorni».
Ma allora come pensa di continuare davanti a una eventuale repressione?
«Ma pensate che, quando hanno arrestato Navalnyj, il suo blog anticorruzione sia morto? I suoi hanno continuato e le adesioni sono cresciute. Cosa possono fare? Chiudere i siti? Qualcuno ne aprirebbe altri. Chiudere Internet? Gli crollerebbe l´economia. Per non parlare dell´immagine internazionale».
Ma voi non sembrate così forti e uniti. Tra di voi c´è di tutto: liberali, comunisti, nazionalisti, atei e cristiani ortodossi, perfino qualche razzista.
«Ed è questa la nostra forza. Non diamo punti di riferimento. Possono colpire me, Navalnyj, altri leader. Ma non hanno una forca in gradi di impiccarci tutti».
Siete senza un leader, un gruppo di comando. Come potete andare avanti?
«La centralizzazione è una antica piaga della Russia. La gente invece è felice di far parte di un esercito, finalmente senza generali. I leader verranno. Sarà Navalnyj o forse un altro. Ma ora l´obiettivo è uno solo e non servono Comitati Centrali: Una Russia senza Putin».
(n.l.)

Corriere della Sera 5.3.12
Una giornata europea per ricordare i Giusti del mondo
di Antonio Carioti


MILANO — Siamo a quota 109 adesioni e bisogna arrivare a 369, la maggioranza assoluta, perché la mozione passi al Parlamento europeo. Se così sarà, verrà istituita in tutta Europa una Giornata dei Giusti, per celebrare coloro che si opposero ai totalitarismi e ai crimini contro l'umanità, salvando vite innocenti.
La data proposta è il 6 marzo, giorno della scomparsa di Moshe Bejski, il magistrato israeliano che fu presidente della commissione dei Giusti di Yad Vashem, il sacrario della Shoah a Gerusalemme, dove sono ricordati personaggi come Giorgio Perlasca e Oskar Schindler. Proprio il 6 marzo, domani, si tiene una grossa manifestazione al Teatro Parenti di Milano per appoggiare l'iniziativa.
La proposta è partita su impulso dell'associazione Gariwo (sigla che sta per Gardens of the Righteous Worldwide, «Giardini dei Giusti di tutto il mondo»), diretta da Gabriele Nissim, cui si deve la creazione del Giardino dei Giusti milanese. A presentare la mozione sono stati tre deputati europei eletti in Italia, Gabriele Albertini (Pdl), Niccolò Rinaldi (Idv) e David Maria Sassoli (Pd), e una parlamentare polacca, Lena Kolarska-Bobinska. Migliaia di persone hanno sottoscritto il relativo appello: tra loro Dario Fo, Franca Rame, Andrée Ruth Shammah, Tadeusz Mazowiecki, Umberto Eco e Umberto Veronesi.
L'incontro al Teatro Parenti è una maratona aperta a tutti, dalle ore 16 alle 20. Ci saranno racconti di testimoni, proiezioni di filmati, letture di testi, contributi di Ferruccio de Bortoli, Antonio Ferrari, Stefano Levi della Torre, Salvatore Natoli, Vittorio Emanuele Parsi. Infine l'esibizione del jazzista Gaetano Liguori.
L'appuntamento milanese fa seguito a un convegno organizzato da Gariwo in febbraio a Praga con i dissidenti di Charta 77, che hanno aderito all'idea della Giornata dei Giusti, mentre un grande concerto si svolgerà il 30 marzo al Palazzo Reale di Varsavia.
Vi sono però, tra gli storici, voci che avanzano delle riserve su questa iniziativa, che si aggiunge alle numerose giornate celebrative, ufficiali o no, già esistenti in Italia e altrove. «Un problema — osserva Marcello Flores, studioso dei genocidi — è chi sceglie i Giusti. Per la Shoah ci pensa lo Stato d'Israele, mentre un'iniziativa a più vasto raggio può incontrare delle difficoltà, anche perché a volte chi salvò delle vittime aveva appoggiato in precedenza i regimi totalitari. Più in generale queste iniziative non aiutano molto a cogliere la complessità della storia, anche se resta utile far conoscere esempi di alto valore etico».
«Io sono allergico a tutti gli eventi celebrativi — dichiara invece Aldo Giannuli, autore del libro L'abuso pubblico della storia (Guanda) — e temo soprattutto l'effetto saturazione. Con troppe giornate dedicate alle diverse memorie si finisce per banalizzare la storia e paradossalmente si favorisce l'oblio, perché alla fine la gente non se ne accorge più».
Nissim replica che si tratta di un'iniziativa diversa dalle altre: «Non vogliamo coltivare il ricordo del male ma quello del bene, per alimentare la speranza, soprattutto nei giovani. E abbiamo dato alla proposta un respiro universale, legato a tutte le grandi tragedie: la Shoah come il genocidio armeno e il Gulag denunciato da Solženicyn. L'intento è evitare le strumentalizzazioni e superare la concorrenza tra memorie diverse».

La Stampa 5.3.12
E Saramago arruolò Caino per la resa dei conti con Dio
Una lezione di Scurati sul biblico fratricida nella rilettura del premio Nobel, ateo accanito che non cessa di interrogare
di Antonio Scurati


Il suo ultimo romanzo, uscito nel 2009 (e tradotto l’anno dopo per Feltrinelli), è dedicato alla figura biblica di Caino

“La storia degli uomini è la storia del loro fraintendimento con dio, né lui capisce noi, né noi capiamo lui».
Probabilmente, però, c’è un fraintendimento anche all’origine di Caino, il libro con cui, tre anni fa, José Saramago volle riscrivere la più terribile e meno letteraria di tutte le grandi figure bibliche regolando, poco prima di morire, a modo suo, i conti con la religione del suo Paese e dei suoi padri. Il Nobel portoghese si scaglia, infatti, con furia iconoclasta contro il Dio del Vecchio Testamento - definito «vendicativo, rancoroso, cattivo e indegno di fiducia» - come se volesse strappare dal suolo d’Europa la radice prima della mala pianta da cui crebbe la sua storta civilizzazione. Contrariamente a quanto lascia intendere questo impeto da riparatore dei torti, la civiltà occidentale d’Europa non ha, però, alla propria origine dei testi sacri custoditi da una casta di sacerdoti ma due testi profani, due opere che oggi definiremmo «letterarie», composte da uomini per uomini, cantate e ricantate variando liberamente generazione dopo generazione.
La cultura occidentale inizia con due poemi epici scritti in lingua greca. Nel primo si narra di una lunga guerra, nel secondo di un’avventura per mare e per terra. Il primo è poema della forza, il secondo dell’astuzia. Il primo racconta di uomini in armi intenti alla distruzione del mondo, il secondo di un uomo che fa vela alla scoperta del mondo. La storia del primo è senza ritorno, quella del secondo piega la linea retta del racconto fino a saldarla nell’anello del ritorno. Achille e Ulisse, non Caino, sono i primi uomini della civiltà letteraria d’Occidente. Essa comincia con la parola di Omero, non con quella di un dio.
Non è un caso, dunque, se, secondo quanto ci ricorda Ugo Dettori, «nessun personaggio è stato più di Caino evitato da tutte le letterature: si direbbe che la terribile universalità del primo omicida abbia sempre reso perplessi gli scrittori e i poeti, incapaci di aggiungere nuovi valori e di considerare sotto nuovi aspetti la sua antica realtà biblica». (Caino comincerà a nascere come personaggio letterario soltanto nel Settecento, per poi svilupparsi nell’Ottocento quale figura eminente dell’insubordinazione cosmica romantica grazie a Byron, che gli dedicherà il dramma omonimo, sebbene derivi la sua figura più dalla tradizione greca di Aiace e Capaneo che non da quella biblica, e a Victor Hugo che gli consacrerà una celebre poesia).
Saramago sembra invece voler a tutti i costi - anche a costo dell’equivoco totale, della polemica feroce e, talora, dell’irrisione offensiva, fino alla blasfemia fortemente voluta - contendere al Dio degli ebrei e dei cristiani il primato della parola creatrice. È con la parola di dio (che lui scrive ostinatamente con l’iniziale minuscola), non con quella di Omero, che lo scrittore portoghese, già entrato nella sua vecchiaia, ingaggia un antagonismo accanito. In quella che rimarrà la sua ultima opera di narrativa pubblicata in vita, si butta dunque a capofitto nella riscrittura proprio di Caino. E forse qui si delinea un possibile criterio per distinguere due grandi famiglie di scrittori: quelli che scrivono sotto l’influsso dell’autorità suprema della Bibbia (prevalenti nell’ambito di lingua inglese) e quelli che invece stanno sotto l’egida di Iliade eOdissea (prevalenti nelle letterature del continente europeo). In entrambi i casi, non può essere estranea a questo discendere da una matrice insuperabile una certa dose di angoscia dell’influenza, di rivalità magari mimetica. Quando, però, il rivale sia Dio, non c’è che la dannazione.
È in quest’ottica - a partire da questa contesa per l’autorità a pronunciare una parola primogenitrice - che andrebbero valutati, non soltanto l’ateismo professo e militante della scrittura di Saramago, ma anche le indubbie tracce di anticlericalismo e perfino di antisemitismo in essa presenti. Nel caso di Saramago, e delle sue riscritture del Vecchio e del Nuovo Testamento (ricordiamo Il Vangelo secondo Gesù Cristo del 1991), la rivalità si modula, infatti, nei toni accorati e accesi di una vera e propria inimicizia ideologica. Saramago prende quasi a pretesto la figura del fratricida, del portatore di una colpa inemendabile, per un viaggio fantastico (i salti di spazio e tempo sono frequenti, data la brevità del libro, e consentiti da un elementare artificio narrativo) che passi in rassegna molte delle scene fondamentali dell’Antico Testamento, scegliendole di preferenza tra quelle in cui Dio si manifesta direttamente agli uomini.
Il risultato è una galleria di orrori ed errori la cui rappresentazione letteraria viene reiterata e interrogata con acribia neo-illuministica ostinata e disperata, una collezione di gravi imperfezioni nella quale l’imperfetto è sempre un Dio collerico, ingiusto e, soprattutto, illogico del quale, però, fosse anche soltanto per poterlo sbugiardare, contraddire o biasimare, il vecchio scrittore José Saramago, giunto al passo estremo nei suoi quasi novant’anni, deve sempre presupporre, non soltanto la presenza e, forse, l’esistenza, ma anche e soprattutto la parola, il verbo. Una parola che, perfino nella versione caricaturale e ostile fornita dal suo tardo, involontario esegeta, suona come da sempre già pronunciata. Una parola il cui insondabile segreto anche l’ateo accanito Saramago José non cessa, volente o nolente, di interrogare.

La Stampa 5.3.12
Alla Maniera di Tintoretto
Roma Era veneto e per questo la critica non l’ha mai considerato accanto a Pontormo & C. Un omaggio alle Scuderie del Quirinale
di Marco Vallora


Fino a giugno La mostra Tintoretto , curata da Vittorio Sgarbi, sarà visibile alle Scuderie del Quirinale di Roma fino al 10 giugno

Impresa titanica, quasi disperante, riuscire a «mettere in scena», cioè praticamente in gabbia, arrestandolo e riassumendolo, quel fulminante ed anguilloso, imprendibile ed impressionante furetto della pittura intemporale, che fu il Tintoretto (1519-1594). Pressoché impossibile: in quanto felicemente disperso in chilometri galoppanti di teleri spettrali e spiritici, per lo più intrasportabili o inaccessibili. Perché scorbutico maestro, prolificissimo ed effettivamente discontinuo, e non soltanto a causa della sua prodigiosa «prestezza» (spesso tallonato dalla sua vasta bottega e da attribuzioni fin troppo generose e generiche). Talvolta - manierista sommo e borderline, ma chissà perché non contemplato in quella categoria oggi redenta e glamour, in quanto venezianissimo e non tosco-romano
(alle spalle, sempre, a fiatare, le prevenzioni del fiorentinissimo Vasari) - vien liquidato in fondo più come miracolisticamente bravo e bravaccio, virtuosisticamente imbattibile, tecnicamente folgorante, però sempre un po’ laterale e scomodo, nel cammino nella diligente classificazione percettiva della storia dell’arte. Per poterlo poi immacolatamente adottare, nel «gradus ad Parnassum» ufficiale del Gusto Accreditato.
«Il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura», secondo l’ammirata presa di distanza del Vasari, irretito sì e come abbacinato, ma subito redarguendolo, come un’inaddomesticabile serpe demonica: «Nelle cose della pittura stravagante, capriccioso, presto e risoluto». Ma in modo ben diverso e meno cortigiano, dall’altrettanto facondo e celere freschista mediceo, rivale Vasari. E comunque sempre temibile, irrisolto, intrattenibile ed intrattabile, per quel suo carattere spavaldo e spadaccino, sottilmente indagatore e ricattatorio, luminosamente e pastosamente gradasso, che ci vien scagliato contro sin dalla prima sala, da quel ribaldo Autoritratto di Londra, che inaugura la mostra, sprizzando come un tappo incontenibile di scura sciampagna, strappata berlioziana di narcisismo sinfonico-fantastico. Che si chiude coerentemente con il tardissimo autoritratto, auto-spettro e spettrale, del vecchio Jacopo, tabaccoso e soffocato di barba arruffata, gli occhi liquidi perduti nel vuoto, come un falò rutilante, che arrendevolmente si spenga e consumi, d’innanzi a noi, congedandosi pietoso. E tutti dietro a sparlar di bizzarrie, ghiribizzi, sagitte e sbattimenti, e «peregrini pensieri».
Certo, a ri-confrontarsi, via via nelle sale, con quelle sue figure ectoplasmatiche e sulfuree, arroventate come sfibrati filamenti elettrici ed annodantesi in diretta, quasi rettili sibilanti ed agonizzanti, che evaporano e s’inseguono disorientati e burrascosi, in sansovinesche palestre spettrali e fumiganti quinte alla Serlio, si può anche capire come la sua sintassi libera e spiritistica, sfaldata e sfondata, in ogni fibra e tangenti, sconvolgesse i suoi contemporanei e turbasse gli sconcertati committenti. Ma lui, modernissimo e già mediatico, li aggirava e bruciava nella sorpresa. In attesa di responso, già ricopriva le promesse pareti di cascate di cromie fumiganti, di capricciosissime «notti finte», di favolistiche narrazioni almanaccate e teatrali. E gliele donava pure gratis, aggirando le burocrazie di bandi e concorsi, tappando loro l’eventuale bocca d’ogni replica titubante. Fregando i convocati con lui «zellenti maestri» della Maniera: Salviati, Zuccari, Veronese. Via dunque con il risentimento dei rivali, oculati ed attenti all’altalena del mercato. Che lui teppistizzava alla grande (e ben lo sapeva d’esser sprezzato, e si fregiava: «odiato da quelli dell’arte mia»).
In fondo, diciamolo e sarebbe bello in questa sede indagarne il motivo, inviso ai più anche della critica, nella sua smisuratezza sisifea e nella smodata pittura di scorci vertiginosi e di febbrili scorciatoie, senza confronti (salvo forse che nel suo emulo El Greco, ottimamente rappresentato in mostra, con un vibrante, minuscolo miracolo cromatico). Per non parlare di Longhi, che, al finire del Trentennio, lo tratta da capo-popolo rètore e mestierante facilone: «un Piacentini» del Rinascimento littorio. Persino il suo difensore Boschini finiva per impaurirsi, di tutto quel suo pirotecnico turbinio verdiano: «Che gran stupore, che cose tremende/ Tuto bulega e salta come frezze. / No' fu visto in virtù cose più orrende». Rendendo guardingo pure il protettivo Aretino, per non dispiacere all’amico Tiziano, che notoriamente odiava Tintoretto. Pare lo avesse licenziato bambino dalla sua bottega, consapevole e geloso del suo istintivo talento. E non lo volle, simbolicamente, nella squadra-amica degli «operai» alla Libreria Marciana, ove premia Veronese, quasi per fargli dispetto. E chiama a sé tutti quei pittori, dal cui prezioso serbatoio il curatore Vittorio Sgarbi ha tratto linfa, per la stanza, inevitabilmente discontinua, dei confronti. Dal dalmata Schiavone al veronese de' Pitati, da Bassano a de Mio, da Sustris a Veronese, convocato con un’inconsueta Predica di Sant' Antonio, acquatica e pesciolante, a mezz'aria color bottiglia. E poi un inedito busto di Vittoria, dal piglio curiosamente risorgimentale. Ma Sgarbi ritiene che tutto passi attraverso la cerniera affusolata di Parmigianino. Che dire della mostra, che potendo spiegare (la Scuola di San Rocco in restauro) alcuni teleri sensazionalistici e miracolati, ed alcuni intensi ritratti (ma il figlio Domenico rischia qui di superarlo) si profila molto più soddisfacente di quanto si poteva sperare? Che, riletto anche attraverso l'entusiasmo di Sartre rimane un enigma. E come un incantesimo fugace «scoppia» d'innanzi a noi, con «opere dipinte in meno spazio di tempo che non si mise in pensare al ciò che doveva dipingere». Ma in catalogo Giovanni Villa ci spiega, riflettografie alla mano, quanto l’idea e la pratica michelangiolesca del disegno fosse per lui quasi maniacale e determinante. Visivamente esplosiva.

Corriere della Sera 5.3.12
Contro la tribù delle tartarughe
Sennett denuncia l'assenza moderna di collaborazione, dall'infanzia al lavoro
di Maria Laura Rodotà


C'è una nicchia di lettori di saggi che attende l'uscita dei libri di Richard Sennett come farebbero con un romanziere preferito.
Sennett è un sociologo americano che insegna alla London School of Economics e alla New York University; scrive con chiarezza e passione affabulatoria di «città, lavoro e cultura». È autore di libri stimolanti come Il declino dell'uomo pubblico (1982), La coscienza dell'occhio (1991), L'uomo flessibile (2000), Rispetto (2003). È stato un contestatore negli anni Sessanta, poi uno studioso disilluso e centrista. Dopo i quaranta è tornato a sinistra, «quando ho cominciato a intervistare lavoratori della new economy», precarizzati, sempre meno integrati in comunità lavorative. E sempre meno in grado di operare in gruppo per produrre e vivere meglio. Da questa esperienza (tra l'altro) nasce il suo nuovo libro, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, in libreria da mercoledì per Feltrinelli e tradotto da Adriana Bottini. Trecentosei pagine (per 25) che si possono amare o detestare, dipende dai punti di vista. Di certo, la tesi del libro fa pensare: secondo Sennett, i non-detti della non-collaborazione hanno contribuito al disastro dell'economia mondiale. Di certo, vale la pena di leggere Insieme perché:
1) È un manuale di self-help per (non solo per) il ceto medio riflessivo. Quello con una storia di sinistra come la sua, e molti dubbi. Politici (sulle coalizioni; secondo Sennett, un Paese funziona meglio con una classe politica litigiosa e una cittadinanza variamente coalizzata). Sociali (Sennett critica la sinistra che liquida gli attivismi privati per i ceti disagiati e la formazione professionale come «beneficenza», e racconta come nella natìa Chicago hanno cambiato molte vite). Sul diritto del lavoro (Sennett prende in giro i liberisti ma rivaluta la capacità di fare rete dei bistrattati cinesi). Umani (Sennett sfotte la simpatia pelosa alla Bill Clinton, genere «sento la vostra sofferenza»; e spiega come l'empatia vera, comprensiva di distacco analitico, è molto più utile a chi soffre).
2) Sennett ragiona su questioni che moltissimi notano e/o patiscono, ma non hanno mai sviluppato. Per esempio, sul multiculturalismo; che polarizza ma non è affrontato seriamente. Non da chi se ne riempie la bocca ma rifiuta di vedere quel che succede nelle scuole dei figli: «A sette anni sono tutti amici; a quattordici c'è una specie di separazione chimica, non si parlano più tra ragazzi dal colore e dall'accento differente». Non da chi «si ritrae a tartaruga» alla vista del diverso. E si creano barriere sociali, e anche l'economia è meno dinamica. Perché «La polis si compone di uomini di tipi differenti; popolazioni simili non possono dare luogo a una polis». Non l'ha detto Nichi Vendola ma Aristotele, e Sennett lo cita.
3) Ci sono molte tartarughe sul lavoro. La flessibilità, la separazione fisica-gerarchica-emotiva, la penuria di tempi e luoghi in cui socializzare nelle ore lavorative, producono secondo Sennett un «effetto silos»: ci si chiude, non si collabora, non si producono nuove idee. Sennett racconta del tentativo fallito di creare un gruppo di studio su Google Wave (non a caso chiuso nel 2010). Ci si scriveva, si chattava, si mettevano online ricerche e dati. Ma poi, quando c'era da discutere e lavorare veramente, «si saltava su un aereo», per vedersi di persona.
4) La narrazione di Richard Sennett, a volte romanzesca sul serio, a volte appesantita dagli anda e rianda sugli stessi temi, ripercorre le evoluzioni del concetto e della pratica della collaborazione. Che oggi vede indebolita nell'infanzia, nel lavoro, nella formazione culturale del sé. Lo fa con excursus storici, e con un efficace parallelo tra gli operai irlandesi di Boston nel 1970 e i quadri licenziati da Wall Street nel 2009. Nelle fabbriche bostoniane da lui studiate funzionava un faticoso ma virtuoso triangolo sociale. Fatto di ruvido rispetto per i «capi decenti», dialogo continuo sui problemi comuni e sostegno tra colleghi, e abitudine a impegnarsi ben oltre la routine quando in fabbrica c'erano problemi. Quarant'anni dopo, gli impiegati vittime della crisi finanziaria erano isolati, stressati, risentiti (il risentimento, orizzontale e verticale, è uno dei grandi temi del libro). Depressi per lo scarso rispetto degli ex capi, la solidarietà solo superficiale tra colleghi, e soprattutto il debole spirito di collaborazione nelle aziende. Dove anche nei bassi ranghi c'era stata consapevolezza del disastro incombente: gli impiegati intervistati da Richard Sennett descrivevano i prodotti finanziari delle loro banche come «oro dei Puffi» e «obbligazioni-porcata»; ma il loro contributo critico non era mai stato richiesto. Perché, calcola Sennett, nella finanza globale c'è un front office di sessantamila persone (quindicimila a Manhattan) che vive isolato dal resto del mondo e continua a fare profitti. Il resto del mondo è messo peggio.
5) E allora, scrive Sennett, «la debolezza del triangolo sociale dovrebbe suscitare qualche allarme». Perché «quando i canali di comunicazione informale vacillano, la gente si tiene per sé idee e valutazioni sul reale funzionamento dell'azienda, oppure difende il proprio territorio». Mentre servirebbe «una riequilibrante cultura dell'urbanità, capace di rendere più ricchi di senso i rapporti sociali sul lavoro». Difficile da creare in tempi di «capitale impaziente» che cerca profitti a breve termine e inaridisce il capitale umano.
Ma Sennett prova a fare il narratore-terapeuta, suggerendo strategie e riti per ottenere un clima collaborativo. Nei posti di lavoro, per esempio reinventando le riunioni «come nel laboratorio di un liutaio» (Richard Sennett, violoncellista mancato per un infortunio alla mano, usa spesso metafore musicali). Nella società, riprendendo la pratica dell'impegno civile. Individualmente, recuperando le molte potenzialità degli umani, specie quelle manuali (a cui è dedicato il saggio precedente, L'uomo artigiano; primo di una «trilogia dell'homo faber» di cui fa parte Insieme; il prossimo sarà di nuovo sulle città).
6) Insieme si conclude con una «esplorazione della speranza» articolata seppur non sempre convincente (siamo tutti un po' giù di morale). Comunque, nel frattempo ci si fa o ci si rifà una cultura. Leggendo di Martin Lutero e Martha Nussbaum, di Freud e Tocqueville, di Amartya Sen e di Michel de Montaigne. Alla fine il più attuale e stimolante di tutti nel trattare di collaborazione, empatia, attenzione agli altrui pensieri (anche a quelli della sua gatta).
Si chiude il libro, se non più ottimisti, più empatici, in effetti.

Repubblica 5.3.12
Quel romanzo sul colonialismo che fa discutere Parigi
di Bernardo Valli


L´esordio di Alexis Jenni vincitore del Goncourt racconta i conflitti in Indocina e Algeria
A dargli candore è la passione per il disegno esercitata tra cannonate e tiri di mortaio
Il testimone protagonista è un ufficiale a riposo che rievoca con orrore e pudore

L´autore di L´Art français de la guerre, Alexis Jenni, che ha vinto l´ultimo Premio Goncourt, insegna biologia in un liceo di Lione, la sua città. Ha quarantotto anni e tre figli, e quello che campeggia ormai da mesi nelle librerie di Francia (in Italia uscirà da Mondadori nel 2013) è il suo primo romanzo. Il suo primo romanzo pubblicato. Lui ne ha scritti molti altri rimasti inediti. Da anni, dopo la scuola, si rifugiava in un bistrot e riempiva pagine che gli editori puntualmente rifiutavano. Era ormai rassegnato ad essere un "écrivain du dimanche", un inventore di storie senza avvenire, insomma a scrivere come altri vanno a pescare, dice adesso ridendo. Poi, all´improvviso, dopo tanti insuccessi, dopo tante bocciature in letteratura, bocciature probabilmente immeritate, è arrivata la consacrazione del Goncourt, la promozione che ha fatto di lui uno dei romanzieri più letti di Francia. Mi conforta l´idea di avere dedicato quattro giorni a un libro (di più di seicento pagine) in compagnia di tanti altri ammalati di lettura.
La storia parte da un presente grigio, appesantito dalle frustrazioni, e risale alle guerre francesi degli ultimi decenni. Guerre che incollate le une alle altre, cancellati gli intermezzi, fanno una guerra di vent´anni. Una lunga guerra dimenticata. Il testimone-protagonista è un ufficiale a riposo, combattente nella resistenza contro gli occupanti tedeschi e poi paracadutista nei conflitti coloniali d´Indocina e d´Algeria. Il narratore è un giovane anonimo. Un giovane sfaticato alla ricerca di espedienti per giustificare le frequenti assenze dal lavoro. Che fa l´amore. Che sbevazza. Che guarda film di guerra. E che un giorno incontra per caso, in un caffè, un anziano capitano, incarnazione dei suoi finti eroi dello schermo.
Si chiama Victorien Salagnon ed è disposto a rievocare, con un misto d´orrore e pudore, e con inevitabile ambiguità, le sue campagne militari. L´ex paracadutista Salagnon ne ha viste di tutti i colori sui campi di battaglia. Onore e vergogna. Dipende dalle guerre. Ce ne sono infatti di tanti tipi. E lui, Salagnon, non ne ha persa una. Giuste o sbagliate le ha fatte tutte. Se quella che ha combattuto per cacciare gli occupanti nazisti dal suo paese merita rispetto, o addirittura la gloria, quelle coloniali successive, l´Indocina e l´Algeria, l´hanno trascinato dritto nell´ignominia. Stragi, torture. Lui ha cercato di limitarsi al dovere di soldato, ha dato il suo coraggio personale. Ma nella memoria, non solo storica, la complicità nelle azioni criminali travolge gli argini individuali. La ferita inferta all´umanità diventa collettiva.
Un eroe? Chi è? Meglio, che cos´è? Uno scrittore-filosofo (Paul Quignard) ha una sua teoria: non è né un uomo vivo né un uomo morto. È uno che finisce nell´altro mondo e ritorna. Traduco: può andare all´inferno come in paradiso e ritorna sulla terra. Il capitano Salagnon è stato dappertutto. Su e giù. Non ha in merito idee molto chiare.
A dargli un certo candore è la sua passione per il disegno a inchiostro, in cui si è perfezionato con passione in Estremo Oriente, tra due cannonate o tiri di mortaio. Adesso racconta le imprese belliche cui ha partecipato all´amico occasionale, incontrato all´osteria, e al tempo stesso gli insegna a tracciare punti e linee, alla base di quel disegno che si pratica con una penna o un pennello o un aerografo. Il continuo passaggio dalla sanguinosa e caotica arte della guerra alla limpida precisa arte della pittura gli ha consentito di sfuggire ogni tanto alla puzza dei cadaveri e agli interrogativi morali, e di aspirare boccate di purezza. Come se gli ampi spazi vuoti, sui fogli popolati di sofisticate figure, fossero serbatoi di ossigeno incontaminato. Il vuoto è meglio del pieno perché il pieno è immobile, ma il pieno esiste e a un certo punto bisogna violare il vuoto. Questo insegna all´allievo il maestro, per il quale il disegno era un antidoto ai veleni della violenza.
Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che il capitano Salagnon fosse l´unico pittore a inchiostro dell´esercito coloniale francese in Indocina e in Algeria. Gli capitava di dipingere per giorni e giorni, senza fare nient´altro. Aveva così l´impressione di salvare l´anima. E con l´anima la vita. Eccentrico ma generoso maestro, il capitano a riposo inizia a quell´attività catartica il giovane, gli regala un pennello con i peli di lupo, continuando nei suoi ricordi di guerra. Cosi il giovane diventa l´allievo di un improvvisato corso di Belle Arti e il narratore senza nome nel romanzo nato dalle confessioni del reduce.
Seicento e più pagine! Si è tentati di dire tante, troppe, ma la lettura scorre veloce, con un diagramma tutt´altro che piatto, anzi con punte avvincenti, con impennate sollecitate da uno stile destinato, si spera, a non disperdersi nella traduzione. Il passaggio da una lingua latina all´altra è fitto di trappole, proprio per la parentela. La guerra del capitano Salagnon è lunga. L´autore usa la sua forte prosa alternando capitoli ricchi di meditazioni, in cui non mancano toni da requisitoria, e capitoli d´azione sui teatri di guerra indocinesi e algerini, che non di rado raggiungono i ritmi dei classici. Il professore di liceo, sia pure di biologia, non ha dimenticato i grandi poemi di guerra.
Il titolo viene da lontano, da almeno cinque secoli prima di Cristo e dalla Cina. Alexis Jenni si deve essere ispirato a quello del primo celeberrimo trattato di strategia militare attribuito a Sun Tzu, e tradotto dal cinese duemila duecento anni dopo dal gesuita Amiot. Alexis Jenni ha infatti battezzato il suo romanzo L´Art français de la guerre, aggiungendo al titolo di Sun Tzu l´aggettivo che gli dà un´identità nazionale. L´arte della guerra può essere riassunta in poche parole, stando alla dottrina cinese delle origini. Essa si basa sul principio del non fare, non per pigrizia, ma perché bisogna seguire il corso degli avvenimenti. Il francese Jenni dice ancor più razionalmente che la guerra è una pulsione infantile, è il modo più semplice di gestire le cose, la pace essendo più complicata.
Alcune pagine del romanzo, che invito ancora una volta a leggere, mi sono dispiaciute. Quelle in cui l´autore insulta Gillo Pontecorvo per il suo film La battaglia d´Algeri, denunciando omissioni e inesattezze. Gillo apparteneva a una grande famiglia ebrea e durante la Seconda guerra mondiale era stato uno dei responsabili della resistenza in una grande città, a Milano. È anche ricordando quell´esperienza, di cui non parlava mai, che dopo lunghi soggiorni ad Algeri, quando il conflitto era ancora in corso, ha ricostruito la guerriglia urbana e la repressione in quella città. La guerriglia urbana non la guerra d´Algeria. Il suo è un film epico su quel preciso capitolo. Strano, anzi peccato, che Alexis Jenni non l´abbia capito.

La Stampa 5.3.12
L’artista e la Chiesa
“Lui come Pasolini Le vie del Signore...”
Corigliano, ex portavoce dell’Opus Dei: “Irregolare? Aveva il profilo ideale del credente, cuore e laboriosità”
di Giacomo Galeazzi


Il Vangelo secondo Lucio Dalla si dichiarava un profondo credente Andava a messa, rifiutava l'aborto («La vita va difesa sempre e comunque»), cercava Dio («La ricerca del divino e della trascendenza fanno parte della natura umana»)

Lucio in the sky. «C’è una grande affinità fra il messaggio di Dalla, con la sua umanità e anche con la sua professionalità, e lo stile cristiano proposto dal Fondatore dell’Opus Dei». Pippo Corigliano, per oltre quarant’anni portavoce dell’Opus Dei, racconta il «suo» Dalla, dopo le voci di questi giorni che hanno descritto il cantante come molto vicino all’associazione cattolica fondata da Escrivà. «Dalla era estremamente umano, toccava tutte le corde del cuore, come piaceva a San Josemaría, non mi risulta che sia stato formalmente membro dell’Opus Dei ma questo non vuol dire: il messaggio dell’Opera è rivolto a tutti coloro che vivono la vita ordinaria, normale - racconta Corigliano -. La stima che Dalla aveva per il lavoro quotidiano, ben fatto, coincide con l'insegnamento di San Josemaría che proponeva la santificazione del lavoro mediante l’amore non solo per senso del dovere» .
Tante sue canzoni hanno al centro la fede. «Altroché se è un dato significativo! - commenta Corigliano -. Tutti i grandi artisti si confrontano col senso più profondo della vita, anzi lo fanno meglio degli altri perché hanno una via privilegiata verso il mistero. " Tu, tu dolce terra mia, dove non sono stato mai" dice una sua canzone: ora Lucio è finalmente in quella terra, circondato dall’Amore che ha sempre espresso». L'Opus Dei è un «distributore» di fede, poi ciascuno ne fa l'uso che crede. «Può darsi che Dalla abbia letto o avuto contatti a Bologna con qualcuno dell’Opera, che da tanti anni è attiva in città. Dio non sta nelle organizzazioni, sta nel profondo del cuore». Proprio oggi, in occasione del 90˚ anniversario della nascita, «ricordiamo a Roma la collaborazione tra Pasolini e il primo italiano dell'Opus Dei, don Francesco Angelicchio che lo sostenne e consigliò nel film Il Vangelo secondo Matteo ».
Pasolini e Dalla. Entrambi credenti «irregolari» e gay. Devoti ed eretici. I funerali di Dalla sono «uno degli esempi più forti di quello che significa essere gay in Italia», ha evidenziato ieri Lucia Annunziata nel corso di In 1/2 h su Rai3. «Vai in chiesa, ti concedono i funerali e ti seppelliscono con il rito cattolico, basta che non dici di essere gay. È il simbolo di quello che siamo: permissivismo purché ci si volti dall’altra parte». «Le vie del Signore sono infinite», osserva Corigliano. Mai come ora la questione dell’omosessualità è fonte di «inopportune polemiche».
Per dialogare con l’Opus Dei, Dalla, praticante e devoto, aveva «il profilo ideale, cuore e laboriosità». Il cuore «lo abbiamo sentito esprimersi nella sua arte». La laboriosità è stata «la condizione necessaria per il continuo successo, alimentato da un lavoro altrettanto continuo». La musica leggera può essere strumento di fede. «E come no! - sottolinea -. I santi cantavano. San Filippo Neri, Giovanni Paolo II, San Josemaria cantavano e come! In particolare San Josemaría disse che il giorno della sua morte avremmo dovuto cantare Aprite le finestre, la canzone vincitrice di un Sanremo anni '50». Del resto Dalla lo aveva sempre detto: «Nessuno può impedire all'uomo di aspirare al divino. Dio è in ogni luogo, nel sorriso di un bambino, anche in una canzone ben eseguita».
Nel Natale 2007, sul sito cattolico Petrus, il cantante aveva rivelato di essere appunto un devoto di Escrivá per la sua logica del lavoro: «Io credo nella ricerca del bello, nella santità e nella mistica del lavoro, che poi vuol dire santificarsi per mezzo della propria professione». E aggiunse: «Il fondatore dell’Opus Dei non faceva del lavoro un idolo, ma affermava che qualsiasi attività dovesse essere eseguita con scrupolo, professionalità e dedizione. Così ci si santifica nel lavoro e si santifica il lavoro». Il pericolo, Dalla dixit, è «ogni forma di ateismo e di secolarismo, fenomeni che mortificanopurtroppo i nostri tempi». Si dichiarava un profondo credente. Andava a Messa, rifiutava l'aborto («La vita va difesa sempre e comunque»), cercava Dio («La ricerca del divino e della trascendenza fanno parte della natura umana»). Cantò a Loreto per Benedetto XVI, «un grande e fine intellettuale», di cui apprezzava particolarmente Spe salvi, l'enciclica sulla speranza: «Il livello della sua catechesi è così elevato da sfuggire a quelle menti che ricercano, nel mondo attuale, solo l'insulto». In Se io fossi un angelo parlava con Dio chiedendogli: «I potenti che mascalzoni, e tu cosa fai li perdoni? ». In I. N.R. I. («La dedicherei al Papa») si rivolgeva al crocefisso: «Io non ho dubbi Tu esisti e splendi con quel viso da ragazzo con la barba senza età, di cercarti io non smetterò abbiamo tutti voglia di parlarti». Il Vangelo secondo Lucio.