giovedì 8 marzo 2012

l’Unità 8.3.12
Sciopero generale e corteo domani mattina: da piazza Esedra a piazza San Giovanni
Alla vigilia della manifestazione una lettera di operai di Pomigliano: basta attaccare il Lingotto
La Fiom a Roma «Per i diritti di tutti anche dentro la Fiat»
Alla vigilia della manifestazione della Fiom di Roma, alcuni operai di Pomigliano scrivono una lettera sorprendente: basta parlare male della Fiat, così le macchine non si vendono e chiudiamo davvero.
di Marco Tedeschi


Al centro dello sciopero generale indetto per domani a Roma dai metalmeccanici Fiom, c’è il tentativo di «non lasciare soli i lavoratori della Fiat e di impedire che quel modello si estenda», come ha spiegato Maurizio Landini. Il Lingotto insomma è al centro della chiamata alla mobilitazione, insieme alla riconquista del contratto nazionale, del lavoro, ai giovani e alla richiesta al governo di politiche più equilibrate, che si discostino dall’intervento sulle pensioni o dalla strada che si sta intraprendendo sull’articolo 18.
TUTE BLU NELLA CAPITALE
Le tute blu Cgil saranno in sciopero e in corteo a Roma. Si troveranno domani alle 9,30 in piazza della Repubblica per sfilare fino a piazza San Giovanni, dove dopo gli interventi dei lavoratori e degli esponenti dei movimenti, tra i quali i No-Tav, chiuderà Maurizio Landini. Sono attesi almeno 600 pullman da tutta Italia, anche da Bologna, dove ieri i metalmeccanici Cgil denunciavano che alla Magneti Marelli l’azienda avrebbe minacciato provvedimenti nei confronti di chi parteciperà allo sciopero.
Ma alla vigilia dello sciopero Fiom arriva una lettera che sembra ispirata dai sindacati che hanno firmato l’accordo, e non avrà fatto certamente piacere ai metalmeccanici di Maurizio Landini, da tempo in conflitto aperto con il Lingotto, ma sempre dalla parte dei lavoratori, anche quelli che non sono iscritti al suo sindacato.. Ufficialmente l’hanno firmata cassintegrati e dipendenti del Vico di Pomigliano D’Arco, lo stabilimento del napoletano che per primo, con il referendum voluto dalla casa torinese, ha accettato le condizioni imposte da Marchionne per garantire gli investimenti nelle fabbriche del Paese. Scrivono a Monti e alla stampa gli operai, chiedono una maggiore «imparzialità da parte di molti rappresentanti della stampa e dei media», perché la «vicenda Pomigliano è strumentalizzata in ogni dove, creando divisioni nell’intera classe operaia».
«Vogliamo ricordare sostengono i firmatari della lettera che parlare male della Fiat significa far odiare il prodotto, e se l’opinione pubblica odia la Fiat non compra auto prodotte in Italia, e ciò comporterà la reale chiusura di fabbriche e di conseguenza la reale possibilità di perdita di posti di lavoro».
LE ULTIME INDISCREZIONI
Il riferimento è ovviamente alle ultime indiscrezioni, smentite poi dallo stesso Marchionne, secondo cui il Lingotto avrebbe previsto la chiusura di due stabilimenti italiani se le condizioni di mercato lo avessero reso necessario. Nella lettera, che sta circolando in rete e nello stabilimento per una raccolta firme (sarebbero già un centinaio), gli operai criticano il lavoro di alcune trasmissioni televisive e di alcuni giornali, che avrebbero descritto l’accordo sottoposto a referendum nello stabilimento campano come un’intesa che «straccia la Costituzione, toglie i diritti, e che ci vede passare come uomini e donne privi di ogni dignità e coraggio».
E invece, dice all’Ansa uno di loro, «vorremmo precisare che la malattia ci è consentita, la mensa è sempre aperta, i 10 minuti di sosta in meno vengono pagati, i 18 turni esistevano anche nel vecchio contratto nazionale del lavoro, e possiamo scioperare quando vogliamo».

l’Unità 8.3.12
Perché ci saremo
di Claudio Sardo


La filosofia che ispira la rimozione delle bacheche de l’Unità in fabbrica è la stessa che porta a limitare la rappresentanza sindacale e le libertà costituzionali dei lavoratori. La solidarietà che abbiamo dato e ricevuto in questi giorni ci ha accomunato nella battaglia sui diritti violati. Per questo domani l’Unità sarà nella piazza dei metalmeccanici.
Racconteremo lo sciopero con l’animo di chi è parte di quel popolo e non è disposto ad accettare le pulsioni autoritarie, né le ferite inferte alla Costituzione, né le discriminazioni sfacciate, come l’esclusione degli iscritti alla Fiom dalle assunzioni a Pomigliano. È spaventoso, quasi incredibile, che in un Paese occidentale si possa procedere ad oltre duemila assunzioni utilizzando come criterio selettivo (negativo) l’iscrizione ad un sindacato. Se qualcuno lo avesse pronosticato qualche anno fa, non gli avremmo creduto. Invece lo spettro è diventato realtà in questa Italia della crisi, dove c’è chi vuole ricostruire per tornare in serie A e chi invece pensa di lucrare nella sconfitta cospicue rendite di potere.
La scelta della Fiom di far parlare sul palco della manifestazione un rappresentante dei No Tav ha creato divisione. La scelta ci pare sbagliata, perché accentua il carattere antagonista e antigovernativo dello sciopero che invece ha nel richiamo ai valori costituzionali, in fabbrica e fuori dalla fabbrica, il suo tratto più importante, e potenzialmente unificante. Sarebbe un errore, oltre che un atto di debolezza, rispondere a una intollerabile aggressione alle libertà sindacali, come quella perpetrata dalla Fiat, configurando uno schieramento tutto politico. In Italia sono già troppi quelli che vogliono farsi un partito, e di solito aiutano ad aggravare la crisi anziché a risolverla. Anche in Confindustria si combatte una battaglia più politica che sindacale, perché c’è una parte degli imprenditori, non a caso quella di Marchionne, che scommette sull’esito oligarchico della crisi e vuole crearsi un «partito» (non necessariamente da presentare alle elezioni) capace di pesare negli equilibri di domani.
La difesa delle libertà sindacali invece deve diventare innanzitutto il terreno di una nuova unità dei lavoratori. E, nel momento in cui vengono coinvolti i principi della Costituzione, può e deve favorire un coinvolgimento ancora più ampio del mondo delle professioni, della cultura, dei giovani. È questo lo spirito con cui saremo alla manifestazione della Fiom. Perché si possono criticare le scelte compiute, si può anche discutere se sia stato giusto o meno negare la firma dopo i referendum di Pomigliano e Mirafiori, ma non si possono chiudere gli occhi su ciò che sta avvenendo. La Fiom, il maggiore sindacato dei metalmeccanici, è escluso d’imperio dalla rappresentanza nelle fabbriche del gruppo Fiat. Tre operai di Melfi non vengono reintegrati nel loro posto di lavoro nonostante una sentenza del giudice. L’uscita di Marchionne da Confindustria ha aperto la strada ad un contratto separato della Fiat e contiene una contestazione radicale al principio stesso del contratto nazionale di lavoro. Qualcuno vuole far passare l’idea che la competitività del Paese si recupera comprimendo il diritto del lavoro. E qualche altro pensa che anche la dignità dei lavoratori sia una variabile dipendente. La vicenda della bacheche de l’Unità alla Magneti Marelli, in fondo, allude al tema della libertà di espressione e dell’autonomia personale in un luogo di lavoro: c’è un clima che le forze di centrosinistra devono riuscire a cambiare. È una grande battaglia sindacale, culturale, politica. Da condurre con visione unitaria.
Sono altri che hanno scommesso sulla divisione. Il governo Berlusconi-Sacconi ha fatto della divisione sindacale la propria strategia. E quel governo è stato sconfitto definitivamente proprio quando è stato firmato l’accordo del 28 giugno. Un possibile nuovo patto sociale contro gli strateghi della rottura e dell’esclusione. Ora costoro vogliono prendersi la rivincita. E il tavolo sul mercato del lavoro sarà decisivo. Chi agita la modifica dell’articolo 18 come se fosse lo scalpo dei lavoratori da offrire sull’altare dell’ortodossia liberista, ovviamente a prescindere da ogni seria analisi nel merito, vuole esattamente questo risultato. Ci auguriamo che tra le rappresentanze sociali ci siano forze e intelligenze sufficienti per superare l’insidia e costruire, nel tempo del governo Monti, un patto sociale come quello del ’93. Lo sciopero di domani può essere un contributo alla ricostruzione di un tessuto civile e democratico. Una risposta a chi vuole la democrazia senza partiti, le relazioni industriali senza sindacati, la società senza corpi intermedi. Una risposta a chi vuole isolare i lavoratori e i cittadini per renderli impotenti davanti allo Stato e al mercato. Noi siamo per la libertà sindacale e per l’autonomia dei corpi intermedi, espressione autentica dei principi solidaristici e personalistici della Costituzione.

il Fatto 8.3.12
Domani con la Fiom
Perché mi ribello al Pd
di Furio Colombo


Domani parteciperò alla manifestazione di Roma della Cgil-Fiom. Ritengo si tratti della questione più importante per chi vota a sinistra e sa che il lavoro è il cuore di ogni cosa si voglia definire di sinistra.
Voglio dire che domani, parteciperò alla manifestazione di Roma della Cgil-Fiom in difesa del lavoro e dei diritti di chi lavora. Lo farò perché ritengo che si tratti della questione più importante per chi ha votato e vota a sinistra e sa che il lavoro è il senso e il cuore di qualunque cosa si voglia definire sinistra. Da deputato Pd dovrò confrontarmi con un fatto difficile da capire e difficile da spiegare. Il Partito democratico ha annunciato che nessuno (nessuno che sia Pd o parlamentare del Pd o a nome e per conto del Pd) dovrà partecipare alla manifestazione Fiom-Cgil di venerdì 9 marzo a Roma. Ho detto "annunciato" perché è il verbo giusto quando si emanano ordini o decisioni definitive. Dunque, ti dici, ci devono essere delle ragioni gravi. Infatti la drastica decisione ha provocato subito conseguenze importanti. Fassina, che nel Pd è il responsabile del lavoro (vuol dire sindacati, operai, contratti, politica del lavoro) aveva detto di sì e adesso sarà no. Lo stesso è accaduto per Orfini. Non andrà.
CI SONO SOLO due vie per capire. O il Pd ha ritrovato la ferrea forza disciplinare dei tempi in cui il Pci ha radiato i fondatori del manifesto. O un fatto grave si è verificato all'improvviso, qualcosa che peserebbe sulla reputazione e la credibilità degli eventuali partecipanti all'evento Fiom. Per esempio scoprire che Fiom è l'altro nome di Casa Pound. Però nulla di tutto ciò è avvenuto e bisognerà accontentarsi di interpretare la realtà con i fatti della realtà. Il primo sembra essere una profonda irritazione verso la Fiom vista all'improvviso come un agitatore che spinge verso il passato. O peggio, come il luogo infido di una rivolta. Eppure questo Pd non è (non è ancora) il partito di Matteo Renzi, autorizzato dalla faccia tosta e dagli anni, a non sapere niente del prima. Qui, nel Pd di adesso, c'è ancora gente che c'era quando Cgil e Fiom erano la sinistra perché la sinistra è la difesa del lavoro. Gente che assieme alla Cgil e alla Fiom si è fatta trovare parecchie volte, cercando, anzi, di essere vista bene dai giornalisti e dagli elettori.
CHE COSA è cambiato? Che io sappia è cambiato il mondo (o almeno il mondo dell'impresa e di una certa cultura prevalente fondata sulla coincidenza inventata fra benessere dell'impresa e benessere di tutti) ma non è cambiato il lavoro e non è cambiata la necessità e l'urgenza di difendere il lavoro, che vuol dire la grande maggioranza dei cittadini, occupati e disoccupati. O perché si diffonde la tendenza a negare i diritti del cittadino che lavora, negando non tanto, non solo il regolamento di una fabbrica o il comma di un patto, ma tutto il patto (i contratti nazionali) fondato sul rispetto dei diritti umani e civili e della Costituzione. O perché imprenditori animati da una strana ansia di provocazione si divertono, nel silenzio benevolo di governo e Parlamento, ad annunciare ogni due giorni la chiusura immotivata e insensata di una grande fabbrica italiana, arrecando anche un danno non da poco alla reputazione, già così provata, del Paese. Dunque se il lavoro è in pericolo dentro la fabbrica dei diritti negati, e fuori dalla fabbrica del precariato e dell'abbandono, che cosa motiva il bollettino di guerra del più grande dei partiti della sinistra italiana, il Pd? Senza intenzioni di satira o di malevolo umorismo, devo per forza riferire la ragione ufficialmente diramata che ha bloccato all'istante la partecipazione degli ultimi due dirigenti Pd: alla manifestazione della Fiom ci saranno anche i No-Tav (uno, Pd, ex sindaco e ora presidente delle Comunità montane della Valle di Susa). E avranno persino il diritto di parola. Qui sul dissenso prevale l'angoscia.
VOLETE dirmi che il nuovo valore che anima e tiene insieme il Partito democratico non è più la sinistra, non è più il lavoro, ma è l'Alta velocità? Volete dirmi che adesso ci inchiniamo all'Alta velocità eletta a valore e riferimento politico (ma, più che politico, direi religioso) come gli stravolti personaggi di una parodia di Odissea nello Spazio? Tutti a casa, e il lavoro vada al diavolo o dove vuole Marchionne, pur di non essere nella stessa piazza di uno contaminato dalla malattia degenerativa detta No-Tav? Io fingerò di non sapere le ragioni del Pd tutto assente. Anche perché, oso un piccolo azzardo, mi sento di prevedere che non sarà tutto assente. E poi l'importante è che non si possa dire: del Pd non c'era nessuno. È la stessa ragione per cui due di noi, il giorno del trattato con la Libia e del regalo indecente di Bossi e Berlusconi a Gheddafi, hanno votato contro e impedito che si dicesse che "il voto della sinistra è stato unanime". Non lo è stato. Ora proviamo di nuovo a salvare la reputazione del maggior partito della sinistra, nel giorno di lotta per il lavoro.

il Fatto 8.3.12
Nel nome di ognuno di noi
Quei diritti sono di tutti
di Paolo F. d’Arcais


Domani scioperano in tutta Italia gli operai metalmeccanici. Organizzati dalla Fiom, incrociano le braccia per difendere i loro diritti, ma anche per custodire i nostri. Scendono in piazza per arginare condizioni di lavoro sempre più dure, prevaricatorie, avvilenti e precarie, ma insieme per difendere libertà e diritti costituzionali che tutelano ognuno di noi. Il diktat-Marchionne, che esilia la Fiom dalla fabbrica, cioè il sindacato dal suo paese, si è fatto legge contro la legge, nella svagata disattenzione dei più e nell’omertoso applauso di troppi. Eppure, l’intera memoria storica ci ammonisce che la libertà è indivisibile, vive in vasi comunicanti, calpestata e avvelenata a Pomigliano è a repentaglio non solo in ogni fabbrica e luogo di lavoro, ma in ogni agorà della politica, in ogni valle, fin dentro il focolare domestico (costituito ormai dalla tv). Scendere in piazza con la Fiom dovrebbe perciò essere un riflesso istintivo per qualsiasi cittadino che ancora non consideri carta straccia la Costituzione repubblicana che la Resistenza ci ha regalato. Di più. Una democrazia ha bisogno di un’opposizione, cessa di essere viva e vegeta se nel suo orizzonte circola solo il corrivo plauso al governo. Poiché opposizione democratica non è certo lo spurgo di pulsioni separatiste e razziste che si riconosce nei Bossi e altri Calderoli, oggi l’Italia è una democrazia dimezzata. L’opposizione esiste nella società civile, vitalissima anzi da oltre dieci anni, a partire da un indimenticabile “resistere, resistere, resistere”, nelle sue lotte e nei suoi movimenti di opinione, nella sua screziata realtà dai girotondi ai No Tav.
MA NON È rappresentata in Parlamento e nella vita politica. Anomalia che dovrebbe preoccupare ogni democratico. Anche perché lotte sacrosante inascoltate, intorno alle quali la politica sa solo innalzare il filo spinato della menzogna mediatica, rischiano di diventare permeabili alle sirene della violenza, grazie alla protervia d’establishment che come unico argomento conosce l’appetito degli appalti.
La Fiom può diventare con lo sciopero nazionale di domani il catalizzatore di tutte le lotte senza rappresentanza, l’argine contro le tentazioni del corto circuito disperazione/violenza, la “forza tranquilla” di un interesse generale alternativo a quello del governo Napolitano-Monti-Passera. Facendo rigorosamente il sindacato, offre al paese l’opposizione democratica che manca. Per questo è sperabile che domani, accanto ai cittadini metalmeccanici, le piazze si riempiano di cittadini tout court.

il Fatto 8.3.12
“Vado, non vado, era meglio andare”. I balletti del Pd
L’ordine di non scendere in piazza con la Fiom. 15 anni di tormentoni
di Fabrizio d’Esposito


La sinistra di piazza. Il partito di piazza. Il “piazzismo”. A ridosso della manifestazione della Fiom in casa democrat è andato in scena un tormentone che dura da tre lustri almeno. Vado o non vado in piazza? Laddove il punto interrogativo è un punto di confine tra due opzioni ideologiche della Seconda Repubblica. Se vai in piazza sei della sinistra radicale o giustizialista, non abbastanza moderata per governare. Se non vai sei un riformista doc, bipartisan, che non grida al regime (questo fino a poco fa con Berlusconi a Palazzo Chigi). E che la storia sia ancora questa lo dimostra il dibattito del Pd sul corteo di domani. Ha detto ieri Debora Serracchiani, europarlamentare del partito di Bersani: “La scelta del Pd di non sfilare con la Fiom è opportuna nel metodo. Sarebbe un passo avanti importante nella conquista dell’identità di partito riformista se da qui in poi il Pd non dovesse più dividersi su come comportarsi in caso di manifestazioni convocate da qualsiasi sindacato”.
Per tentare di conciliare metodo riformista e sostanza di piazza, qualche settimana fa (prima della decisione ufficiale di non andare, presa per la presenza dei No Tav), il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, ha coniato uno slogan surreale: “Partecipare senza aderire”. Un leggero passo in avanti rispetto a una lacerata Giovanna Melandri che nel luglio del 2001, alla vigilia del corteo no global di Genova contro il G8, disse: “Vorrei intrufolarmi di nascosto tra i ragazzi che marciano contro la globalizzazione”.
NELLA STESSA occasione Walter Veltroni fece un esercizio ante-litteram di ma-anchismo: “Con il cuore e con la testa, mi sento vicinissimo a chi andrà in piazza a Genova”. Dai Ds al Pd, la geografia interna allergica alla piazza vede in prima fila dalemiani, ex popolari, veltroniani, ex miglioristi come l’attuale capo dello Stato Giorgio Napolitano. Sui quotidiani, per quindici anni, il titolo “La sinistra si divide sulla piazza” è stato gettonato quanto l’eterno “Monito del Quirinale”. Il duello sulla piazza tra sinistra riformista e sinistra tout court (compresi i giornali, per esempio le polemiche tra L’Unità di Colombo e Padellaro e il Riformista di Polito) ha investito una lunghissima serie di questioni. In ordine sparso: l’articolo 18, la legge Biagi, i Pacs e la Chiesa, gli immigrati, le guerre in Kosovo, Iraq e Aghanistan, il Gay Pride, i Cobas e la scuola, la globalizzazione, i girotondi e le leggi ad personam di Berlusconi, il Lodo Alfano, i referendum di Di Pietro. Le tensioni tra le due anime della sinistra postcomunista hanno raggiunto il loro acme in tre periodi distinti: il primo governo Prodi e la sua caduta (1996-2001) ; il “biennio rossiccio” di Sergio Cofferati leader della Cgil, come lo definì il dalemiano Peppino Caldarola (fino al 2002 dello storico Circo Massimo) ; il secondo Prodi e la sua caduta (2006-2008). Quando infatti a Palazzo Chigi c’è un esecutivo amico, le divisioni risaltano ancora più. Nel ‘98, Rifondazione fece cadere il Professore e D’Alema divenne premier, anche grazie alla rottura tra Cossutta e Bertinotti. In piazza a Roma si ritrovarono 200mila persone: “Armando Cossutta/ l’hai proprio fatta grossa/ ti sei venduto i voti/ e la bandiera rossa”. Peggio ancora con il secondo Prodi. Il 3 novembre 2006 ci fu un grosso corteo dei precari e già allora la sinistra Ds protestava contro “la Grande Coalizione a scapito dei massimalisti”. Colpa dell’azione riformatrice di ministri come Damiano e Bersani, etichettati come “compagni che sbagliano”. Dai titoli dei giornali: “Precari, sinistra radicale in piazza. Ds infuriati: è un corteo-harakiri”.
ALTRO TEMA: la giustizia. Il 24 febbraio 2002, al Palavobis di Milano, si manifestò per la legalità. Il popolo dei girotondi insieme a Diliberto, Pecoraro Scanio, Di Pietro, la sinistra Ds di Mussi, Folena e Berlinguer. Disse Mussi: “Arriverà questa voce ai vertici del centronistra, come è arrivata quella di Moretti e dei professori di Firenze, Palermo e Roma? ”. Ma non sono mancati ripensamenti. Quello di Bertinotti, il più clamoroso. Nel 2001 auspicò: “Il mio augurio è che la sinistra torni a infilarsi nei piedi le Clarks. E le consumi in manifestazioni di piazza sempre più lunghe”. Nel 2008, la retromarcia: “Non può essere la piazza a resuscitare la sinistra”.

il Riformista 8.3.12
Sciopero Fiom Il sindacato La politica


di Emanuele Macaluso

Domani sarà il giorno dello sciopero indetto dalla Fiom e della manifestazione che si svolgerà a Roma e si concluderà con un comizio a Piazza San Giovanni.
L’iniziativa del sindacato dei metalmeccanici che sta nella famiglia della Cgil ha provocato discussioni e divisioni anche nel Pd, il quale, infine, ha deciso di non partecipare alla manifestazione perché al comizio parlerà anche il rappresentante del movimento no-Tav. Il mio giudizio sull’opera antisindacale di Marchionne e dello stato maggiore Fiat l’ho espresso e motivato più volte su queste colonne. Il fatto che la Fiom indica uno sciopero e una manifestazione contro le discriminazioni e per rivendicare un programma dell’azienda multinazionale, sempre annunciato e mai discusso, nel momento in cui si preannunciano possibili chiusure di stabilimenti Fiat, è più che comprensibile. E l’appello alla solidarietà delle forze politiche, degli intellettuali e dei giovani, è giusto. La questione che si pone a chi guarda con preoccupazione il deterioramento della questione sociale e della stessa vertenza Fiat è uno e uno solo: lo sciopero della Fiom, si svolge in contrasto con gli altri sindacati nel momento in cui è in corso una grande vertenza sociale e politica che vede uniti Cgil-Cisl e Uil.
Non solo, l’appello della Fiom a tutte le forze democratiche ha un evidente sapore polemico e strumentale dal momento che il gruppo dirigente della Fiom da tempo ha sviluppato rapporti politici con la sinistra più radicale, con chi pregiudizialmente svolge una opposizione al “governo delle banche”, al “governo dei padroni”, con parole, slogan e strilli che ricordano gli anni 50. L’incontro con i no-Tav, e financo con i Di Pietro, si realizza su questo terreno. Con quale prospettiva? Nella vertenza per la riforma del mercato del Lavoro il sindacato ha ritrovato l’unità e non ha certo sposato il governo, ha mantenuto una sua forte autonomia e ha contrastato sul terreno sindacale posizioni e decisioni governative.
Ma non si è imbarcato nella marmellata antigovernativa dove si ritrovano movimenti, gruppi e gruppuscoli che nulla hanno a che fare con la lotta e la prospettiva del sindacato.
Sono queste le ragioni per cui considero lo sciopero di domani un errore, anche se capisco la preoccupazione, l’amarezza e anche la rabbia di molti lavoratori ai quali va la mia solidarietà.
Spero, che nonostante tutto lo sciopero e la manifestazione si svolgano, come vuole la tradizione della Fiom, con combattività ma con quell’autodisciplina che ha caratterizzato la storia delle lotte del movimento operaio italiano.

il Fatto 8.3.12
Comanda sempre Mediaset

Monti respinge le richieste indecenti di Confalonieri. Poi vuole parlare di giustizia e di Rai, ma subito Alfano, per conto di B., fa saltare l’incontro fra i tre leader della maggioranza
Pesanti pressioni del presidente del Biscione su Palazzo Chigi e su Passera per le frequenze gratis. Stop dal Pdl alle norme anticorruzione della Severino
La legge del più forte
di Antonio Padellaro


Nei giorni scorsi le armoniose intese tra Pd, Pdl e Udc (l’ultima sulla legge elettorale con sbarramento per fare fuori tutti gli altri) ci avevano convinto che il Pun, Partito Unico Nazionale, fosse ormai in fase nascente. Del resto, non era stato questo l’auspicio di Berlusconi che, una volta esaurito l’appoggio al governo Monti, le tre sigle si coalizzassero per spartirsi l’Italia da qui all’eternità (magari con lui assiso al Quirinale)? Non avevamo però calcolato che anche in politica, come in tutte le attività umane, esiste e agisce la legge del più forte. Vale anche per il Pun, dove il più forte non è difficile indovinare chi sia. Osserviamo prima di tutto il Pd, mentre nella giornata di ieri celebrava il punto più alto (o più basso) del suo autolesionismo tafazzista. Tralasciamo per carità di patria le primarie di Palermo finite a schifìo tra denunce e carte bollate. E non parliamo della Val di Susa con le popolazioni prese a ceffoni sul Tav da quello stesso partito per cui in maggioranza hanno votato. E la Fiom? Chissà, forse venerdi a qualche metalmeccanico avrebbe fatto piacere vedere in piazza San Giovanni la rappresentanza di una forza politica che una volta si dichiarava di sinistra. Giammai. L’ordine del partito non ammette repliche: restare tutti a casa. C’è da meravigliarsi allora se, mentre il più debole si svena, il più forte rovescia il tavolo? Perfino Alfano si permette di ruggire intimando a Monti di non impicciarsi di televisioni e giustizia, terreni su cui il berlusconismo non ammette intrusioni. Per esempio, il partito Mediaset ha già deciso che le frequenze non si toccano e che la Rai deve restare sotto la sovranità di Arcore. Bersani ha gridato: posizione inaccettabile. Poi è andato a farsi una birra.

La Stampa 8.3.12
Partito democratico

Primarie a Palermo Nel mirino della Procura due rappresentanti di lista
di Laura Anello


PALERMO Ci sono state denunce ai seggi e sui media che gettano pesantissime ombre Le valutazioni finali le faranno i garanti che stanno esaminando le irregolarità sollevate sia sul piano politico sia etico Rita Borsellino Candidata del Pd alla primarie di Palermo
La «grande festa di democrazia» auspicata da Bersani finisce con un'inchiesta della procura, due rappresentanti di lista indagati, i carabinieri a sequestrare liste degli elettori nella sede del Pd, un ricorso della sconfitta Rita Borsellino e un clima da lunghi coltelli nel centrosinistra siciliano. Difficile non trovare umoristico il tentativo di gettare acqua sul fuoco del segretario del Pd che da Roma fa sapere che alle primarie di Palermo «non è successo nulla di drammatico».
Ma qui la consultazione è diventata un gioco al massacro. Con il vincitore, il giovane Fabrizio Ferrandelli. - creatura di Leoluca Orlando che si è ribellato al padre accusato di avere fatto il cavallo di Troia del Terzo Polo inquinando una consultazione che aveva visto tutti e quattro i candidati sottoscrivere una dichiarazione di fedeltà alla coalizione. Accusa che, dal piano politico, ieri si è spostato su quello giudiziario, con l'indagine avviata su due rappresentanti di lista di Ferrandelli allo Zen, il quartiere-dormitorio dove tutto è abusivo.
A finire nel mirino della magistratura sono stati una donna, Francesca Trapani, e il suo compagno, che avrebbero ritirato al Comune - a fronte di una delega degli aventi diritto - decine di certificati elettorali. Pratica discutibile ma non illecita, di per sé: Secondo alcuni testimoni, vicino al seggio ci sarebbe stata una processione di cittadini che da lei ricevevano certificato ed euro necessario a votare per avviarsi poi ai gazebo. Ma resta da capire, ammesso che la circostanza sia accertata, quale sia il reato configurabile dal punto di vista penale. Visto che le primarie non sono tecnicamente elezioni.
Nonostante questo ieri ha scelto di parlare dell'inchiesta il procuratore di Palermo in persona, Francesco Messineo, dicendo che «il ventaglio delle ipotesi accusatorie è ampio, abbiamo sentito testimoni e votanti e in base all'esito decideremo se e cosa contestare». E aggiungendo che «allo stato l'indagine è concentrata allo Zen ma è possibile che si allarghi». Se a essere annullato fosse solo il risultato di quel gazebo, Ferrandelli sarebbe ancora il vincitore, seppure di ancora più stretta misura: i suoi 151 voti di vantaggio diventerebbero 121.
Sul piano politico, è gazzarra assoluta. Rita Borsellino, la candidata designata dalla segreteria del Pd, ha fatto ricorso al comitato dei garanti, tre docenti della facoltà di Giurisprudenza che sabato dovranno prendere in mano la patata bollente. Ma chi sputa fuoco e fiamme è Leoluca Orlando, deciso a fare annullare le primarie che hanno decretato vincitore un giovane che fino a pochi mesi era capogruppo dell'Italia dei Valori al consiglio comunale: «Non lo appoggerò mai dice - le primarie vanno annullate, se la Borsellino non accetta di presentarsi al primo turno, ho il nome di un altro candidato». E in molti scommettono che sia proprio il suo. Ferrandelli, dal canto suo, dice di avere sentito Antonio Di Pietro che gli avrebbe garantito appoggio. «Contro di me sostiene - una macchina del fango da metodo Boffo».

l’Unità 8.3.12
Se il Pd dice addio al bipolarismo di coalizione
di Francesco Cundari


I toni accesi delle polemiche attorno alle primarie di Palermo hanno finito per coprire la vera novità del dibattito interno al Pd: il formarsi di un consenso molto ampio sulle questioni istituzionali. Non è una novità irrilevante per l’Italia, perché la possibilità che il Pd esprima una posizione coerente in merito è condizione indispensabile per la riforma dell’attuale legge elettorale. Ed è una novità ancor più rilevante per lo stesso Partito democratico, considerato che è proprio sulle questioni istituzionali che affonda la divaricazione originaria tra i suoi dirigenti, alla base di tutte le divergenze strategiche successive (per esempio sui diversi modelli organizzativi).
L’articolo del senatore Stefano Ceccanti uscito ieri su Europa dimostra che nel Pd è maturato ormai un larghissimo consenso attorno all’idea che il problema sia proprio il bipolarismo di coalizione (come mostrano anche le diffuse critiche al modello delle primarie di coalizione). La caratteristica peggiore dell’attuale legge elettorale, osserva infatti Ceccanti, è costituita da quel premio di maggioranza che «incentiva la formazione di coalizioni adatte a vincere ma non a governare». E prosegue confutando la tesi di chi sostiene che per ovviare a questo problema basterebbe fare come il Pd nel 2008, scegliendo liberamente di correre da solo e accettando di pagarne il prezzo. «Non è buono un sistema che ci induce troppo in tentazione», dice Ceccanti. Serve invece un sistema che incentivi un esito chiaro, con uno schieramento vincitore al governo e uno sconfitto all’opposizione, senza però pretendere di garantirlo a prescindere dalla stessa volontà degli elettori. Un sistema che lasci quindi aperta la possibilità, come extrema ratio, di una Grande coalizione.
Chiunque abbia seguito un po’ il dibattito di questi ultimi vent’anni in tema di riforme istituzionali capisce subito l’importanza della larga convergenza che si è progressivamente realizzata attorno a questi principi. Cade dunque il mito del governo scelto direttamente dai cittadini, insieme con la sua maggioranza e il suo capo (il modello dell’«unto dal Signore», vera base del ventennio berlusconiano). Si fa largo invece la convinzione che l’illusione di un simile potere di scelta in netto contrasto con l’impianto parlamentare della nostra Costituzione non sia altro che un inganno, che all’elettore non abbia dato nessuna libertà in più, ma semmai gliene abbia tolte. Non gli ha dato il potere di scegliere governi e maggioranze più di quanto non potesse fare già ai tempi della Dc (chi ha mai votato per il governo Monti e la maggioranza che lo sostiene? E prima ancora per la coalizione Berlusconi-Scilipoti?). In compenso, il bipolarismo di coalizione ha tolto all’elettore il diritto di scegliersi il proprio partito e persino il proprio parlamentare (anche questa non certo una novità dell’attuale legge elettorale, come ben sanno gli sfortunati elettori dei tanti «collegi sicuri» di destra e di sinistra che in questi vent’anni si sono visti paracadutare senza alcuna possibilità di scelta i personaggi più indigeribili).
Il fatto che nel campo del centrosinistra queste posizioni appaiano ormai generalmente condivise è la premessa più rassicurante per il futuro del nostro sistema politico, e anche del Pd. Almeno per chi abbia a cuore, per entrambi, un’evoluzione coerente con l’impianto giuridico, politico e culturale della nostra Costituzione.

l’Unità 8.3.12
Fassina, il lavoro e la persona basi del riformismo
Nuovo sistema di valori. Lo scopo della crescita economica è la crescita della persona umana
La falsificazione liberista. Nella globalizzazione guidata dai mercati non vincono tutti
di Silvano Andriani


Se si considera il trentennio di prevalenza della cultura e delle politiche della destra liberista, sul piano intellettuale a livello internazionale tutti i temi posizioni di sinistra si sono confrontate e si confrontano con le tesi liberiste su tutti i temi delle politiche economiche e sociali. Il problema è che, mentre le tesi liberiste sono state realmente alla base delle strategie politiche che hanno orientato la crescita, le tesi alternative, dalla seconda metà degli anni 90, non hanno avuto in pratica accesso al dibattito politico. Questa afasia della sinistra è condizione della straordinaria capacità che la destra liberista ha avuto di trasformare il fallimento del suo pensiero in una vittoria politica, visto che in Europa, da che la crisi è cominciata, la destra ha vinto tutte le elezioni politiche.
Il libro di Stefano Fassina «Lavoro e libertà», recentemente edito da Donzelli rappresenta un segnale nella direzione opposta: data la posizione che l’autore ricopre nel gruppo dirigente del Pd, come responsabile delle politiche economico-sociali, può segnalare il recupero in atto da parte dei gruppi dirigenti del centro-sinistra della capacità di partecipare alla elaborazione di una lettura critica dei processi in atto, come base per le possibili risposte.
Alla base degli squilibri che hanno determinato la crisi sta, per Fassina, la distribuzione del reddito e la crescita delle disuguaglianze. La lotta per una maggiore uguaglianza era il principale terreno sul quale la sinistra aveva definito la propria identità. Il riformismo del Novecento in tutte le sue componenti di sinistra, liberaldemocratica, cattolico-sociale – aveva capito che la lotta per una maggiore uguaglianza non era solo il perseguimento, peraltro importante, della giustizia sociale, ma era condizione di uno sviluppo sostenibile. E forse un limite di parte del neo-keynesismo quello di focalizzare esclusivamente le politiche di deficit spending. Queste sono politiche necessarie in tempo di crisi, ma il cuore della risposta che il riformismo dette alla crisi degli anni ’30 fu un modello distributivo tale da assicurare sistematicamente una crescita della domanda adeguata alla qualità ed al ritmo dello sviluppo desiderato e che si articolò nelle politiche dei redditi, nei sistemi fiscali progressivi, nelle politiche previdenziali.
I fatti parlano chiaro: nei «30 anni gloriosi», nei quali l’approccio riformista prevalse, nei paesi avanzati la crescita economica fu la più forte, le disuguaglianze diminuirono vistosamente, non ci furono crisi finanziarie ed il livello del debito totale, pubblico e privato, rispetto al Pil non aumentò. Nei trenta anni successivi, nei quali prevalse l’approccio neo-liberista, le disuguaglianze sono aumentate, si sono succedute grandi crisi finanziarie, il debito totale è aumentato in tutti i paesi avanzati poiché la domanda è potuta crescere solo attraverso l’aumento del debito.
I fatti hanno falsificato un altro assunto del pensiero liberista: che la globalizzazione guidata dai mercati sia un processo in cui tutti vincono. Il mondo del lavoro è stato sicuramente perdente. Altro perdente potrebbe essere il mondo occidentale che rischia di fare la fine dell’apprendista stregone, trovandosi ora di fronte alle sfide della globalizzazione che esso stesso ha promosso, carico di debiti e di contraddizioni. La sconfitta del mondo del lavoro non riguarda, secondo Fassina, solo la sostanziale e generale perdita di quota nella distribuzione del reddito, ma anche la perdita di ruolo e di soggettività politica. E questa non dipende solo dalle politiche liberiste, ma anche da una defaillance culturale della sinistra che va superata.
Occorre innanzitutto recuperare la diversa visione dello sviluppo che si affermò col pensiero riformista negli anni ’30 per cui scopo della crescita economica non deve essere l’aumento del potere economico di un paese, ma l’aumento del benessere e dei diritti delle persone. Il benessere va, tuttavia, definito rispetto a nuovi bisogni, che non sono più quelli soddisfatti col progetto di welfare state. Le parole chiave di Fassina sono «libertà e lavoro» e «global green new deal» che sintetizzano i nuovi bisogni. Il tema della liberazione del lavoro è un tema storico della sinistra, esso scomparve nel «compromesso socialdemocratico» che si svolse all’interno del modo di produzione fordista, ma oggi esistono le condizioni oggettive per recuperarlo anche se le politiche necessarie vanno elaborate anche in dimensione europea.
Un modello di sviluppo segnato da quelle parole chiave implica un sistema di valori nuovo che si interseca, come Fassina giustamente sottolinea, con una visione dello sviluppo come quella sostenuta nei testi della Chiesa Cattolica che fa della crescita della persona umana lo scopo principale della crescita economica e collide con la cultura edonistica che ha posto il consumo ed il consumatore al centro del processo economico.
Quello che dobbiamo sperare è che la capacità di analisi critica dell’esistente posta a base dell’elaborazione delle politiche che caratterizza il libro di Fassina divenga lo standard di una nuova generazione di dirigenti riformisti.

Corriere della Sera 8.3.12
Intervista

D'Alema: «Nel 2013 torneranno i partiti»
di Dario Di Vico


«Nel 2013 ci sarà il ritorno dei partiti. Il governo lavora bene, ma è legittimo che chi fa politica progetti il dopo Monti». Massimo D'Alema, 62 anni, al Corriere: «Un Monti bis? Visione pessimistica. Chi vincerà alle urne deve creare la maggioranza». Tra le idee dell'ex premier per sbloccare il confronto politico: fine del bipolarismo selvaggio e nuova legge elettorale.
D'Alema aggiunge: «Il rischio vero che corre l'Europa è una mancanza
di visione, l'assenza di un impegno per la crescita».

«Un Monti bis? Visione pessimistica Chi vince alle urne crei la maggioranza»
D'Alema: l'esecutivo lavora bene, ma è legittimo che chi fa politica progetti il dopo
«Non c'è nessun pericolo Hollande, il rischio vero che corre l'Europa è la mancanza di visione. L'assenza di un impegno per la crescita. Il deficit di solidarietà che ci ha fatto scrivere in Grecia una pagina vergognosa. Sono i conservatori a penalizzare l'Europa, non Hollande o Gabriel».
Massimo D'Alema è reduce da Parigi dove ha lavorato al testo del Manifesto dei progressisti. Racconta come i socialisti francesi abbiano apprezzato l'immediata smentita di Mario Monti all'articolo di Der Spiegel sulla congiura anti Hollande delle cancellerie europee. Ma racconta soprattutto che idee ha per sbloccare il confronto politico in Italia: fine del bipolarismo selvaggio, nuova legge elettorale, il leader di partito che vince ha il compito di costruire in Parlamento le convergenze programmatiche per governare.
Partiamo da Parigi. Sia Hollande che il leader dei socialdemocratici tedeschi Sigmar Gabriel parlano di aumentare le tasse. Dov'è la novità?
«La grande massa di europei che stanno pagando la crisi sulla loro pelle non teme la Tobin tax, anzi chiede una diversa distribuzione della fiscalità. Sono i gruppi finanziari ad averne paura e a tentare di ostacolare il ritorno dei socialisti. Il manifesto di Parigi è europeista, lega l'integrazione alle politiche di sviluppo. È un passo avanti, non indietro».
Insisto. Non state riproponendo una ricetta «tassa e spendi»?
«Le migliori performance nella riduzione della spesa e nelle liberalizzazioni vengono dai progressisti. Le ricordo cosa hanno fatto i governi di centrosinistra in Italia, ma anche Schröder in Germania. Le riforme liberali quando si sono fatte hanno avuto il nostro imprinting, non quello delle destre. Sento dire che Hollande non sarebbe affidabile, ma affidabile per chi? La finanza internazionale e le destre, che hanno portato alla disastrosa crisi attuale, pretendono di dare i voti agli altri? La squadra di Hollande, poi, vanta persone come Moscovici e Sapin che assicurano competenza ed equilibrio».
Il Manifesto di Parigi punta anche a rimettere in campo la politica estromessa dai mercati. Vasto programma...
«Non si può governare solo adottando scelte tecniche efficaci. Occorre una visione del futuro e un progetto in grado di coinvolgere e convincere i cittadini. E questo può venire solo dalla politica. Nella crisi hanno retto meglio i Paesi che hanno sistemi politici e partiti più forti, come la Germania».
Anche lei è di quelli che nel Pd hanno mal di pancia verso il tecnocrate Monti?
«Neanche un po'. Avevamo chiesto un governo come quello presieduto da Monti e non abbiamo indicato il nome del professore solo per rispetto delle prerogative del Quirinale. Non è stato imposto ai partiti e certamente non a chi, dall'opposizione come Pd e Terzo polo, chiedeva un governo di responsabilità nazionale. E da Palazzo Chigi sta facendo ciò che è necessario per l'Italia. Detto questo è legittimo che chi fa politica si adoperi a progettare il dopo Monti».
C'è chi come Scalfari sostiene che invece di pensare al dopo, Napolitano e Monti vanno invitati a restare.
«Una proposta così nasce da una visione pessimistica dell'Italia. Si pensa a un nuovo quinquennio emergenziale. Io no, credo che si possa tornare a una dialettica democratica, naturalmente riformando la politica e restituendole autorevolezza, credibilità e forza».
Monti comunque, secondo i sondaggisti, vincerebbe sia le primarie del Pdl che quelle del Pd.
«Sono esercitazioni astratte. E comunque nel momento in cui si schiera, anche il migliore dei tecnici si aliena il consenso di una parte degli elettori».
Si ha l'impressione che mentre nella stagione degli anni 90 i progressisti sentirono proprio il presidente Ciampi, con Monti non sia scattata la stessa empatia.
«Sono figure diverse tra loro. Ciampi veniva dal Partito d'azione, aveva una storia politica affine alla nostra. Monti lo definirei una personalità non partisan e sarebbe un errore tirarlo da una parte o dall'altra».
Per progettare il dopo Monti ci vuole un'idea. È ancora valida la sua proposta di unire il 60% dell'elettorato grazie a un patto con il Terzo polo?
«Rimane valida. Penso che per risolvere il rebus bisogna uscire dall'idea egemone degli ultimi venti anni, quella che portava a costruire coalizioni e a mettere in secondo piano le coerenze programmatiche. Basta con un'interpretazione frontista del bipolarismo che ha portato le forze politiche a delegittimarsi, a frantumarsi e ad assicurare una bassa governabilità. Le ammucchiate generano cattiva politica».
Sta dicendo che il Pd piuttosto che disegnare coalizioni deve puntare a cambiare la legge elettorale?
«Prima di discutere di alleanze, il Pd deve prendere coscienza di sé, del proprio ruolo di partito nazionale e approfondire il progetto per l'Italia. Poi, certo, occorre riformare legge elettorale e istituzioni, uscendo dal pasticcio che ha mirabilmente descritto Sartori. Se siamo nel campo della democrazia parlamentare, come effettivamente è, dobbiamo far sì che i partiti possano chiedere il voto per sé e non per gli alleati. Chi vince avrà il dovere di ricercare le necessarie convergenze programmatiche. Se invece si vuole che il capo del governo sia eletto dal popolo, bisogna avere il coraggio di proporre il presidenzialismo, con tutti gli equilibri e i contrappesi necessari. Ci vuole una scelta limpida. I pasticci non hanno funzionato».
Affidare alla dialettica parlamentare la creazione delle maggioranze aumenta la distanza con gli elettori che danno ai partiti un mandato in bianco.
«Anche gli inglesi, abituati al maggioritario, non hanno trovato sulla scheda la coalizione Cameron-Clegg. Il primo ha vinto e ha costruito l'alleanza con i liberali. In tutti i Paesi democratici è il maggior partito che ha il compito di costruire una maggioranza parlamentare. E quale sia il maggior partito lo decidono gli elettori. Il sistema attuale enfatizza il potere di ricatto delle forze minori, con gli effetti negativi che abbiamo misurato in questi venti anni. Ci sono due modi per evitarli, lo ripeto da tempo: il doppio turno, oppure, se non lo si vuole, una legge elettorale del tipo di quella tedesca, con opportuni correttivi».
Nella variante tedesca la premiership sarebbe negoziabile tra i partiti che compongono il governo?
«In nessun Paese la premiership va al leader di un partito minore. Ogni partito porta un suo candidato, quello che prende più voti è automaticamente il futuro premier con la responsabilità di formare un governo».
Sembra un vestito costruito su misura di Bersani. A meno che il candidato del Pd non venga scelto con nuove primarie.
«Bersani è stato eletto con un voto popolare al quale hanno partecipato oltre 3 milioni di persone. Chi volesse sostituirlo — e non sono tra quelli che lo chiedono — dovrebbe seguire lo stesso iter: congresso e primarie. A mio giudizio, il vero problema del Pd è fare un salto di mentalità, diventare pienamente consapevole di rappresentare una forza indispensabile per il governo dell'Italia».
Con i suoi schemi la riforma della politica va a farsi benedire.
«Questa è la riforma della politica, non le chiacchiere futili di questi anni. E Monti sta facendo la sua parte. La visione nuovista di una politica in cui i partiti fanno il casting per trovare il leader bello, che sorride, che comunica bene, ormai è superata. Monti ha riportato al centro la serietà, le competenze, la qualità della classe dirigente. E lo sta facendo il governo più anziano d'Europa, l'unico esecutivo nel quale se entrassi io si abbasserebbe l'età media».
Lei sembra molto convinto, ma intanto il suo partito si divide a ogni colpo di primarie locali.
«Le primarie per il sindaco non sono un congresso, a Genova o a Palermo non si decideva una strategia politica. E tutto quello che sta avvenendo in questi giorni è una manifestazione di scarsa tenuta nervosa. Abbiamo adottato un sistema nel quale il Pd comunque finisce per perdere sempre perché ci sarà sempre un candidato appoggiato da una frazione del partito che alla fine soccombe. È bene allora che i dirigenti nazionali si facciano gli affari loro e che i cittadini possano decidere con assoluta libertà il candidato che preferiscono».
Almeno due dei soggetti ritratti nella foto di Vasto, Di Pietro e Vendola, sospettano che lei preferisca Casini a loro.
«Non ho mai pensato al rapporto con il Terzo polo nella prospettiva di una rottura a sinistra, ma sono Idv e Sel che devono dire cosa vogliono fare. Si considerano forze che vogliono governare o no? A volte ho l'impressione che cedano alla demagogia come nel caso Tav, ma noi vogliamo governare il Paese, il che richiede serietà e responsabilità».

Corriere della Sera 8.3.12
La socialdemocrazia italiana, una storia sfortunata

risponde Sergio Romano

Ricordando Giuseppe Saragat («Il marxismo di Saragat e il suo divorzio da Nenni», Corriere del 28 febbraio) lei ha osservato che la sua scelta politica di rottura con Pietro Nenni «giovò alla evoluzione della democrazia italiana». Credo si possa aggiungere che la sinistra socialdemocratica, benché schiacciata tra la Dc da
un lato e il blocco socialcomunista dall'altro, rappresentò in realtà, per tutta la prima Repubblica, l'unica sinistra possibile. Se in Italia avessimo avuto più socialdemocrazia e meno socialcomunismo (come in Germania, in Inghilterra e nei Paesi scandinavi) forse non saremmo finiti così male. Saragat si rifaceva alla tradizione di Filippo Turati e Giacomo Matteotti, i due grandi dimenticati della storia italiana novecentesca. Non crede che su questo oblio abbia influito il dominio esercitato sulla sinistra italiana dal comunismo, che bollò la socialdemocrazia con l'epiteto ingiurioso di «socialfascismo» e la squalificò in tutti i modi possibili? E non crede che sarebbe tempo di ribaltare questo giudizio e di ricordarci che il filone del socialismo riformista e socialdemocratico aveva visto più lontano degli altri, sia nel primo che nel secondo dopoguerra?
Gianpaolo Romanato
gianpaolo.romanato@
unipd.it
Caro Romanato,
C redo anch'io che la debolezza della socialdemocrazia italiana abbia avuto un'influenza negativa sulla evoluzione del nostro sistema politico dopo la Seconda guerra mondiale. Saragat ebbe il grande merito di denunciare il patto di unità d'azione, che il partito socialista aveva stretto con il partito comunista, e approfittò della sua presenza al Quirinale per favorire la riunificazione dei due partiti nati dalla scissione di palazzo Barberini. Ma la riunificazione ebbe vita breve e Saragat non riuscì a impedire che il suo partito fosse più incline al piccolo cabotaggio elettorale che ai progetti di lungo respiro. Bettino Craxi fu certamente socialdemocratico, nella tradizione del migliore socialismo europeo, e cercò di attuare contro i comunisti una strategia politica simile a quella di François Mitterrand in Francia. Ma perseguì i suoi obiettivi con una spregiudicatezza «amministrativa» che finì per ritorcersi contro il suo partito. La socialdemocrazia è stata la protagonista della migliore sinistra europea nel corso del Novecento, ma in Italia è stata spesso malata di scissionismo e affarismo: due malattie che ne hanno pregiudicato l'efficacia e hanno regalato voti al partito comunista.
Questa anomalia è diventata tragicamente visibile alla fine della Guerra fredda. Nelle maggiori democrazie occidentali la sconfitta del comunismo è stata implicitamente la vittoria del socialismo riformatore che Mosca, nel corso della storia sovietica, aveva trattato alla stregua di un nemico da distruggere. Non è sorprendente che negli anni seguenti i governi di centrosinistra, spesso guidati dai socialisti, siano andati al potere in quasi tutte le democrazie dell'Europa centro-occidentale. In Italia Tangentopoli ha avuto l'effetto di estromettere un vincitore della Guerra fredda dalla politica italiana e di promuovere al potere gli esponenti del partito che quella guerra l'aveva combattuta per parecchi anni nel campo sbagliato.

l’Unità 8.3.12
Ragazze antimafia
di Carlo Lucarelli


Dalle mie parti, cioè in Romagna ma anche nel resto d’Italia -, nelle famiglie contadine più tradizionali c’erano le azdore, in dialetto, le reggitrici, perché reggevano la famiglia. A decidere era sempre l’uomo, ma le azdore che spesso avevano studiato di più, riflettuto e pensato di più erano quelle che conoscevano le storie della famiglia.
Le azdore conoscevano le tradizio-
ni e anche le leggende, i valori e lo spirito delle cose, quelle che educavano i figli e che la notte, poco prima di addormentarsi, sussurravano al marito il loro parere, in una «moral suasion», si direbbe adesso, che al mattino poi lasciava i suoi segni.
Ecco, fatte le dovute differenze, è ovvio, le famiglie mafiose non sono meno tradizionali e al loro interno il ruolo della donna, dell’azdora comunque si dica in calabrese, siciliano, campano, pugliese o in uno dei dialetti del nord in cui le mafie si sono ormai radicate non è meno importante.
Sono le donne ad educare i figli e quando si tratta di una famiglia mafiosa i valori di cui si nutre il figlio del boss, dell’affiliato o del picciotto sono quelli di Cosa Nostra, della Camorra o della ’ndrangheta. Valori difesi con determinata ostinazione, come accade alla madre di Rita Atria, che distrugge a martellate la lapide sulla tomba della figlia collaboratrice di giustizia.
E quando l’uomo, il boss, finisce dentro, impacciato dal 41bis, sono sempre più spesso le donne a prenderne il posto, a fargli da portavoce come Rosetta Cutolo col fratello Raffaele o a dirigerne in reggenza gli affari, come accade da un po’ di tempo nella ’ndrangheta.
Sono importanti le donne, anche nella mafia. La mafia lo sa e ne ha paura. Perché quando succede che le donne si ribellino, la forza e la loro capacità di scardinarli dall’interno quei valori, di rinnegarli e di combatterli, è enorme e dirompente.
Perché succede che una madre capisca all’improvviso che i figli faranno la stessa fine dei padri, assassini e ammazzati, che non potranno fare la vita degli altri ragazzi per esempio innamorarsi e sposare qualcuno che non sia di un’altra famiglia di ’ndrangheta succede che veda il figlio ricevere fino da bambino gli omaggi degli affiliati come il boss che necessariamente diventerà. E allora le donne, le madri e le sorelle, si «pentono», ma sul serio, e collaborano con la giustizia raccontando non solo i segreti e i fatti della mafia, ma anche lo spirito, gli umori e i costumi. Oppure succede che le donne, sempre le madri soprattutto, diventino loro stesse antimafia, punti di riferimento per intere generazioni, in grado di dare coraggio e forza, come la signora Felicia, la mamma di Peppino Impastato.
Non è una cosa facile. La mafia lo sa e quando capisce che sta accadendo reagisce duramente. Opprime al punto di portare al suicidio, come succede a Maria Concetta Cacciola, ammazza e scioglie nell’acido, come Lea Garofalo, due donne che si sono ribellate alla ’ndrangheta e ne hanno pagato il prezzo. Ma è proprio chi vive le cose dall’interno, nell’intimità più quotidiana che è in grado di capire quello che è sbagliato e fare a proprio modo la sua importantissima «moral suasion». Soprattutto nella mafia, se ci sarà una rivoluzione, a farla saranno proprio le donne.

il Fatto 8.3.12
La scuola resta precaria
Bocciato l’emendamento Pd per 10 mila docenti in più Nuovo scontro tra i democratici e il governo alla Camera
di Caterina Perniconi


Bastava leggere il commento di Mariastella Gelmini sul nuovo emendamento al decreto Semplificazioni - su cui ieri il governo ha posto la fiducia, oggi il voto - per capire da che parte stava pendendo la decisione di aumentare l’organico docente della scuola pubblica di 10 mila posti: “Alla fine ha prevalso il buon senso – ha dichiarato l’ex ministro ieri mattina fuori dalla commissione Affari costituzionali della Camera – e la continuità con una politica che punta a premiare la qualità. Non ci sarà nessuna stabilizzazione”. Ecco la verità. I tagli della Gelmini non verrano congelati come prevedeva l’accordo bipartisan votato in Commissione cultura. E difficilmente ci saranno nuovi innesti nel corpo insegnanti della scuola pubblica. Dopo un lungo tira e molla il governo – nella persona del viceministro all’Economia Vittorio Grilli – aveva proposto un emendamento (approvato da tutta la maggioranza nelle commissioni Affari costituzionali e Attività produttive) che prevedeva la revisione degli organici in base delle previsioni dell’andamento demografico della popolazione in età scolare, con una copertura sempre legata ai proventi sui giochi a monte-premi. Un passo indietro rispetto alle 10 mila assunzioni chieste dai democratici, ma un compromesso giudicato accettabile.
EPPURE i parlamentari non avevano fatto i conti con il nuovo passaggio in Commissione bilancio: è qui che l’emendamento ha preso tutt’altra forma rispetto alle attese. Perché il sottosegretario al Tesoro, Gian-franco Polillo, ha presentato una riscrittura della norma definita dal Pd “inaccettabile”. Il nuovo testo da digerire prevede quindi che l’organico docente venga deciso non solo sulla base della popolazione scolastica, ma “nei limiti di risparmi di spesa accertati”. E quando i democratici hanno provato ad opporsi, hanno ricevuto una risposta chiara: qualsiasi modifica può essere corretta dal governo con un maxi-emendamento.
“Il sottosegretario Polillo si caratterizza per l’eccessiva disinvoltura nei rapporti con il parlamento – ha dichiarato il capogruppo Pd in commissione Affari costituzionali, Gianclaudio Bressa – durante i lavori delle commissioni ha minacciato il Parlamento che se non avesse accolto la sua richiesta il governo avrebbe presentato un maxi-emendamento per modificare le valutazioni espresse dalle commissioni. C’è da chiedersi chi sia Polillo e chi rappresenti, perché gli accordi tra Parlamento e governo hanno sempre previsto che la fiducia venisse posta sul testo uscito dalle commissioni”. Bressa ha anche minacciato il voto contrario alla fiducia sul decreto Semplificazioni ed è intervenuto addirittura il presidente dei deputati, Dario Franceschini, per assicurare il voto favorevole a Monti nonostante “un problema molto grave dal punto di vista istituzionale. Mi aspetto che il governo chiarisca che l’improvvida uscita del sottosegretario non era in alcun modo autorizzata”.
PARERE contrario dalla Commissione Bilancio anche alla norma per l’assunzione dei presidi che in passato hanno vinto un concorso, ma che non sono stati reclutati. “L’emendamento sulla scuola non segna alcuna discontinuità reale rispetto ai tagli voluti dal precedente governo – ha dichiarato il segretario della Cgil scuola, Mimmo Pantaleo – infatti nel provvedimento si precisa che rimangono validi i tagli attuati con la legge 133. Il resto è incerto”.

il Fatto 8.3.12
Lavoratori atipici
Educazione con insegnanti “usa e getta”
di Marina Boscaino


Provate a inserire la parola “precariato” su Google, e vi renderete conto che – nonostante si tratti di un problema di carattere generale – l’intera prima pagina di occorrenze riguarda la scuola. Un termine che nella lingua italiana designa una condizione che riguarda molte categorie – quasi tutte oggi – di lavoratori; ma che indicativamente, viene individuata dal motore di ricerca come specifica o prioritariamente riferibile al mondo della scuola, al pari di POF, competenza, collegio.
I supplenti sono oltre 116 mila
Il precario per antonomasia è, insomma, il precario della scuola. Vorrà pur dire qualcosa. L’ultima Commissione d’inchiesta istituita dal Parlamento italiano ad aver aperto un’indagine conoscitiva sul fenomeno risale alla XV legislatura, anni 2006-7. Gli ultimi dati pubblicati dal MIUR in proposito sono quelli del 2009-10, che evidenziano come il precariato rappresenti tra i docenti l’unico dato di certezza in un panorama caotico, che negli anni è diventato sempre più complesso, grazie anche ai restyling improvvisati e pedestri di Mariastella Gelmini. E che individuano una progressiva tendenza alla scuola usa-e-getta, a cominciare dal trattamento riservato alle donne e agli uomini che in essa gravitano, docenti e ATA. Un trattamento che si ripercuote – oltrechesuldirittoallavoro–suldirittoallo studio degli studenti, troppo sovente sottoposti a una discontinuità didattica che ne compromette gli apprendimenti.
A fronte di un corpo docente scolastico italiano pari a circa 800 mila unità, coloro che vengono assunti per supplenze annuali (circa 20 mila) o fino al termine dell’anno scolastico sono passati dai 64.000 del 1998/99 ai 116.973 del 2009/10: la maggior parte delle supplenze ‘lunghe’ assegnate riguardano la secondaria superiore (circa 40 mila contratti), seguono le medie, la primaria e i maestri della scuola dell’infanzia.
Dati che, com’è evidente, non tengono conto di quanti vengono chiamati per frazioni di tempo inferiori all’anno scolastico: quelli che rimpiazzano assenze brevi o lunghe, ma che non vedono garantita e riconosciuta la conclusione; altre 50 mila persone (dato stimato Flc). A questi vanno aggiunti gli Ata (personale tecnico e ausiliario), con 5 mila precari “stabili” e altrettanti saltuari. Nel 1998 vi era solo un docente precario ogni 12 diruolo, oggi uno ogni 7. L’aumento più significativo di precarietà dell’ultimo decennio si è registrato nella scuola primaria (quasi il 7%) e nella scuola media (11.7%).
Ecco, sinteticamente, i frutti di una programmazione di posti di lavoro allegra, demagogica e irresponsabile, che negli anni ha investito sul mercato del lavoro – in nome di una flessibilità ante litteram – migliaia di donne e uomini che hanno prestato la propria opera senza garanzie definitive, spesso iniziando a lavorare a ottobre e concludendo il giorno dello scrutinio estivo: ferie non pagate, sedi svantaggiate, mancanza di continuità didattica, discontinuità nell’anzianità di servizio. Diritti a metà, lavoratori dimezzati. Mercedi scarto del mercato del lavoro. Il fenomeno è talmente endemico che, per definirli e distinguerli dalle “new entry”, è stato necessario “inventare” una vera e propria formula, quella di “precari storici”: laurea-ti, a volte plurilaureati, che si sono sotto-posti a prove concorsuali diversificate, che hanno subito letteralmente regole e condizioni imposte dallo Stato. Ma non sono ancora riusciti ad entrare in ruolo. Hanno la stessa età che avevano i nostri genitori quando noi eravamo alla fine della scuola superiore o all’università. Vivono uno stato di pseudo-adolescenza coatta: troppo adulti per cambiare strada, riciclarsi, inventarsi un mestiere “da grandi”, troppo giovani per metterci una pietra sopra. Sono quelli che Renato Brunetta ha chiamato “L’Italia peggiore”, quelli cui si è rivolto dicendo: “Voi non lavorate, siete dei poveracci”. Quelli che si rivolsero al non compianto ministro con cassette piene di titoli di studio, qualifiche e contratti indecenti. E dei quali non si riesce ad immaginare cosa direbbe il supersponsorizzato Michel Martone, che – dall’alto del suo rispettabilissimo e rispettatissimo pedigree – ha apostrofato “sfigati” quelli che non si laureano entro i 28 anni.
I messaggi contraddittori del governo Monti
Indubbiamente Francesco Profumo si è trovato davanti una situazione di non semplice risoluzione. Ma i suoi primi passi nel caos del precariato hanno destato non poche perplessità. Il ministro è tornato a più riprese sul tema di un imminente concorso, che dovrebbe essere bandito entro il 2012. Inizialmente la sua previsione di affluenza fu di 300mila docenti, corretti qualche giorno dopo a 200 mila. Un numero comunque enorme, che mal si concilia con il fatto che – dal 2009 al 2011 – sono stati tagliati 87 mila posti di docente; e che – contemporaneamente a questa iniezione di gioventù di cui la scuola italiana avrebbe bisogno – il governo ha alzato notevolmente l’età pensionabile. Messaggi contraddittori, che non trovano per il momento conferma. È durata infine solo qualche ora l’illusione dell’assunzione di 10 mila docenti nella scuola per sostenere tempo pieno e bisogni speciali degli alunni: governo e commissioni parlamentari sono infatti orientati a mantenere fisso l’organico del comparto scuola, bloccandolo a quello in vigore nell'anno scolastico 2011/2012, evitando il trascinamento dei tagli previsti dalla legge 133/08; eventuali sforamenti – non quantificati a priori – saranno coperti con un fondo già in possesso del Miur, quello sul merito, e verrà introdotto nel decreto Semplificazioni un comma di salvaguardia: se necessario il ministero dell’Economia, attraverso i Monopoli di Stato, potrà variare il prelievo sui giochi già esistenti per raccogliere i fondi per le assunzioni. Commenta ironicamente un gruppo di insegnanti di sostegno precari dell’IIS Beccari di Torino: “Quanti gratta-e-vinci e quante schedine del SuperEnalotto dovrebbero comperare i cittadini italiani per dare qualità e certezze alla scuola pubblica? ”.

l’Unità 8.3.12
Intervista a Tzvetan Todorov
Brava Italia per quel sussulto di democrazia
Lo storico bulgaro analizza i «nemici intimi» del governo democratico: lo squilibrio tra potere politico e giudiziario, la carenza di pluralismo dell’informazione con chiari riferimenti al nostro passato recentissimo
di Maria Serena Palieri


Non serve una rivoluzione. Basta un sussulto di democrazia. Siete proprio voi italiani a dimostrarlo...» dice Tzvetan Todorov. Il grande ed eclettico studioso, bulgaro naturalizzato
francese, lo storico delle idee che ha analizzato la conquista dell’America come le avanguardie artistiche del Novecento, l’idea dell’Altro come quella dello scontro di civiltà, a Roma, domenica, chiuderà «Libri come» con una lectio magistralis. Il suo ultimo libro, appena uscito in Francia per Robert Laffont, si chiama Les ennemis intimes de la démocratie (in autunno uscirà da noi per Garzanti) ed è appunto su questo tema, i germi che possono crescere dentro un organismo democratico e intaccarlo dal suo stesso interno, che intratterrà il pubblico. Quali sono i «nemici intimi» della democrazia? Per esempio lo squilibrio tra potere politico e potere giudiziario, oppure la carenza di pluralismo mediatico, elenca Todorov, facendo palese riferimento al nostro passato recentissimo. Dal quale, aggiunge appunto, noi stessi dimostriamo che si può uscire per via non traumatica né violenta, con un semplice «sussulto di democrazia».
Lei, professor Todorov, scrive che la questione della libertà è entrata molto presto nella sua vita. Quando? E perché?
«Sono cresciuto in un Paese che all’epoca apparteneva al mondo comunista sovietico. Era un mondo i cui principi non lasciavano il minimo spazio alla libertà individuale. Il bene collettivo aveva la meglio in tutti i campi. Perfino nell’indicare la larghezza dei pantaloni o la lunghezza delle gonne: un pantalone troppo aderente denotava la sudditanza al modello occidentale. Noi, giovani della mia generazione, sognavamo la libertà. Se c’era qualcosa che ci portasse ad avere una visione benevola delle società occidentali, era il loro culto della libertà individuale».
Nel blocco sovietico essa era davvero del tutto preclusa?
«Giocavamo al gatto e il topo. Cercavamo di proteggere i nostri orticelli. Mi ricordo che uno dei miei primi lavori di scrittura, a ventidue anni, fu presentare una pagina di giornale sulla Resistenza comunista. Erano persone che avevano lottato per la libertà e titolai appunto così: “Per la libertà”. Il giorno dopo la gente mi fermava per strada per dirmi “bravo!”. Ecco, io ho nutrito un attaccamento viscerale, anche ingenuo, per questa parola. Ma 50 anni
dopo mi accorgo che la parola è usata in modi che non condivido».
Chi parla di libertà in modo sbagliato?
«Tutti i partiti e i movimenti di estrema destra, in Europa, hanno questa parola nel motto. Così io dico che non posso difendere questa parola in modo indiscriminato».
Da noi la destra estrema è identificabile con la Lega. Che – se non usa la parola «libertà» in senso letterale – la evoca però di continuo. Ma siamo su un terreno scivoloso. Quali sono i limiti entro cui la libertà va costretta?
«La libertà permette di acquisire un certo potere. Ora, in democrazia è necessario che tutti i poteri siano “contenuti”, abbiano un limite in base all’interesse comune. Ecco perché la libertà può diventare una minaccia. Se chi dispone della libertà ha un potere forte, ha la possibilità di levarci la nostra. Di opprimerci. Non lasciare la volpe libera nel pollaio, dice il proverbio. Perché, se è libera, la volpe impedisce ai polli di esserlo. Prendiamo la libertà di stampa: a fine 800 il primo organo dell’antisemitismo moderno cioè l’antisemitisimo fondato non sull’accusa, per gli ebrei, di deicidio, ma sull’idea del loro “complotto” – fu fondato da Edouard Drumont e si chiamava “La libre parole”. La libertà di stampa è indispensabile in quanto contropotere. Ma, in quanto potere, va “contenuta”. Non è la stessa cosa prendersela con dei potenti o con dei deboli, prendersela con i rom, i musulmani, gli ebrei tra le due guerre. Oltre la stampa io metto in questione tutta l’ideologia ultraliberista che esalta la libertà individuale senza pensare al bene collettivo. Questi, in democrazia, sono i due piatti della bilancia. Se non sono presenti entrambi ondeggi tra totalitarismo sovietico ed estremismo ultraliberale. Caduto il Muro, è questo secondo che ha soppiantato il primo».
Pensa soprattutto all’Europa?
«È in Europa che prendono sempre più spazio i movimenti di estrema destra che hanno per obiettivo gli tranieri: in Olanda, in Francia, in Austria, in Germania dove il libro di Thilo Sarrazin, con la sua tesi che i musulmani sono troppi e fanno troppi figli, ha venduto due milioni di copie, non è uno scherzo!».
Ha in mente un rimedio?
«Sono uno storico, non un politico. Guardo sul lungo periodo e lancio un allarme. In realtà basterebbe applicare le Costituzioni che già abbiamo».
C’è stata un’età dell’oro della democrazia a cui fare riferimento?
«No, la democrazia per sua natura non pretende la perfezione. È il suo tratto più avvenente: è giudicabile secondo i suoi stessi principi, al contrario della teocrazia. La democrazia coincide con la vigilanza su se stessa».
La democrazia è esportabile?
«La fine della guerra fredda ha portato risultati positivi: è finita la contrapposizione tra arsenali nucleari e i Paesi dell’Est hanno potuto scegliersi un proprio destino. Ma il permanere di una sola superpotenza ha portato anche a una serie di guerre: invadiamo, distruggiamo, uccidiamo col pretesto di esportare i Diritti dell’Uomo, come nell’800 si faceva in nome della Civiltà. È un nuovo messianismo. In Iraq, Afghanistan, Libia...».
Libia?
«Anche lì. È vero, c’era un dittatore. È vero, non abbiamo occupato il Paese. Ma ci sono già stati 50.000 morti. E niente ci dice che il governo attuale sia meglio del precedente. A ispirare la rivolta sono stati due ex ministri di Gheddafi».
Non vede differenza tra Bush e Obama?
«In questo senso no. C’è una continuità, quella della politica del presidente degli Stati Uniti. Obama, certo, ha fermato la tortura, è un bene. Ma non ha chiuso Guantanamo, ed è un male».
Cosa pensa della primavera araba?
«Parliamo di “primavere” al plurale. In Egitto e Tunisia sono ribellioni contro le derive autocratiche. In Occidente ci siamo stupiti che l’esercizio della democrazia abbia portato al potere i partiti islamisti. Volevamo che quei Paesi diventassero “come noi”. Ma è presto per capire. È presto per vedere se nascerà lì quell’equilibrio di poteri che noi, appunto, chiamiamo democrazia».

l’Unità 8.3.12
Militari in armi su navi civili: un’ambiguità tutta italiana
Il nostro è l’unico Paese a «imbarcare» militari su mercantili per motivi di sicurezza L’ex sottosegretario Forcieri e il generale Mini: «Consuetudine sbagliata e pericolosa»
di U.D.G.


L’Italia, ovvero l’unico Paese che ha «imbarcato» sui mercantili. Il caso della petroliera Enrica Lexie e l’arresto dei due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, accusati dalle autorità di New Delhi di aver ucciso il 15 febbraio scorso due pescatori indiani scambiandoli per pirati, ha scatenato perplessità sull’esigenza del Governo d’imbarcare squadre militari a bordo dei diversi mercantili italiani che navigano acque internazionali.
Fino allo scorso anno nessuna nave battente bandiera italiana poteva usufruire di task foce armate a bordo. La legislazione è cambiata con il decreto legge 107 del luglio 2011, definitivamente approvato con la legge 130 del 2 agosto dello stesso anno.
Il Dl è diventato operativo solo in seguito alla firma di un protocollo d’intesa tra il ministero della Difesa, allora guidato da Ignazio La Russa, e Confitarma, la Confederazione italiana armatori, ovvero la principale associazione di categoria dell’industria italiana della navigazione che raggruppa le imprese e gruppi armatoriali italiani presenti nel settore del trasporto merci e passeggeri, delle crociere e dei servizi ausiliari del traffico. Questi team iper-specializzati a bordo delle nostre imbarcazioni sono i cosiddetti Nuclei operativi di protezione (Nmp), tutti composti da membri del Reggimento San Marco, l’unità di fanteria in forza alla Marina militare italiana. Gli armatori, per usufruirne, sono tenuti a pagare circa 500 euro al giorno per ciuascun soldato, cioè 3 mila euro per ogni nucleo, per un periodo di impiego operativo di 10-15 giorni.
In molti altri Paesi dell’Unione europea, tuttavia, a bordo delle imbarcazioni vigila personale di sicurezza privato e non militari addestrati specificatamente per svolgere compiti di sicurezza in mare. In Germania ad esempio la richiesta di team per la sicurezza a bordo di navi non è mai stata approvata dal flag state che si applica alle imbarcazioni battenti bandiera tedesca. Ma l’adozione di personale da parte dei mercantili non è vietato né dalle leggi generali, né dal codice penale. Ogni armatore può quindi decidere autonomamente, salvo l’utilizzo di armi da fuoco automatiche, bandito da Berlino. In Spagna la disciplina è pressoché analoga, regolata dal decreto reale 1628/2009 sulla sicurezza privata e le armi. I servizi però possono essere forniti solo da società spagnole, registrate presso il ministero degli Interni e con particolari autorizzazioni. Nel Regno Unito, infine, non sono previste restrizioni o regolamenti in materia di sicurezza a bordo delle navi. L’orientamento legale del governo britannico indica che il carico di armi sulle navi inglesi sia sottoposto alle regole della legislazione interna.
«È l’idea alla base del decreto missioni nel giugno 2011, che prevedeva la possibilità che navi mercantili italiane reclutassero militari italiani con funzioni di sicurezza privata antipirateria, che si è rivelata ingenua, un po’ velleitaria, sicuramente sbagliata». A sostenerlo è Lorenzo Forcieri, ex sottosegretario alla difesa nell’ultimo governo Prodi. Quindi, spiega Forcieri, «se i due marò italiani si trovano in stato di arresto nelle mani delle autorità indiane, la colpa non può essere attribuita al governo Monti e alla nostra diplomazia». Secondo Forcieri, «non è possibile garantire la sicurezza dei traffici marittimi imbarcando militari in servizio sui mercantili italiani», perché «in questo modo essi devono assoggettarsi alle decisioni di un comandante civile, si ritrovano equiparati al rango di “contractors” e, di fatto, costretti a dipendere da una catena di comando inadatta ad affrontare la complessità degli scenari giuridici e politici internazionali». «La presenza di militari sui mercantili si è rivelata sbagliata e pericolosa per loro e per l’Italia conclude Forcieri perchè è una soluzione ibrida ed ambigua che ha esposto il paese alle conseguenze di una grave crisi diplomatica».
«Quando si è scritta la legge rimarca il generale Fabio Mini, ex Capo di stato maggiore delle forze Nato nel Sud Europa, già comandante della missione Nato-Kfor nel Kosovo si è parlato di responsabilità dei team solo nel caso di un attacco pirata. Ma c’è un’ambiguità profonda. Il comandante della nave svolge i compiti anche di polizia giudiziaria sia in acque internazionali che in acque territoriali di altri paesi o dell’Italia. Quindi si possono creare dei conflitti come credo sia avvenuto anche in questo caso, prendendo la decisione di attraccare al porto di Kochi in India».

l’Unità 8.3.12
Anonymous attacca il sito del Vaticano
«Le retate non ci piegano»
È la «vendetta» per gli arresti nel gruppo hacker LulzSec Bollato come «traditore» l’ex capo Sabu. Facebook in panne
di Rachele Gonnelli


Abbiamo tagliato una testa dell’Idra», pare abbiano festeggiato gli agenti speciali dell’Fbi e dell’Interpol dopo aver completato l’altro ieri i cinque arresti che hanno decapitato i vertici del gruppo hacker di Lulzsec, uno dei più pericolosi del mondo. Esperti di algoritmi i tecnici si sono però dimenticati la zoologia: la caratteristica del celenterato tentacolare è di rigenerarsi intero da ogni spira tagliata, un po’ come la coda della lucertola. Così ieri mentre le polizie informatiche festeggiavano la morte del collettivo hacker che ha attentato alle carte di credito Paypal, alla Sony, a giornali e tv del gruppo Murdoch e ultimamente all’agenzia di intelligence privata Stratfor, i pirati informatici hanno dato vita a uno dei più intensi «bombardamenti» in formato DDos mai visti. I due obiettivi più illustri sono stati i siti dell’azienda di sicurezza informatica spagnola Panda Security e, nientemento, il sito del Vaticano. Operazione denominata «Tango Down».
Gli attacchi sono stati rivendicati da Anonymous, che nel messaggio postato in sostituzione della vera pagina pandalabs.com rimasta in piedi fino alle 2 e 50 di ieri mattina, ora statunitense, ha anche spiegato le diversità all’interno del «movimento» e ricostruito la vicenda che ha portato agli arresti. «Anonymous è un’idea, non un gruppo, non ci sono leader, nessuna testa. Continuerà a esistere prima durante e dopo questa vicenda», hanno chiarito gli hackerattivisti.
Lulzsec invece è un gruppo che si era staccato dalla «madre Idra» in cerca di notorietà. Nel giugno dell’anno scorso, dopo aver attaccato i siti della Cia e del Congresso Usa, il loro capo, nickname Sabu, è stato arrestato, probabilmente per non aver resistito a lasciare una traccia identificativa nella bacheca del WhoIs tra le personalità del mondo dell’informatica-contro. Al secolo si trattava di Hector Xavier Monsegur, portoricano del Lower East Side di New York, 28 anni e già due figli. Il «traditore». Dai suoi computer sono spuntate le tracce per incastrare gli altri cinque: due in Irlanda, due a Londra e uno a Chicago. Il più attivo e temibile è quest’ultimo: Jeremy Hammond noto con il nick di Anarchaos, ritenuto l’autore del furto di centinaia di migliaia di mail tra l’agenzia Stratfor, governi e banche come la Goldman Sachs, poi cedute a Wikileaks che le sta ancora pubblicando. Lui, Hammond, 27 anni, è un ragazzo dell’Illinois con un cespuglio di capelli rasta chiari e occhi lucidi nelle foto segnaletiche prese lunedì scorso, giorno del suo arresto. Gli altri britannici si chiamano Ryan Ackroyd (Kayla) e Jake Davis (Topiary), gli irlandesi Darren Martyn (Pwnsauce) e Donncha O’Cearrbhail (Palladium).
Sabu li ha traditi. Anonymous in parte lo scusa: «I federali hanno minacciato di portargli via i figli e lo comprendiamo scrivono ma anche noi eravamo la tua famiglia». Certo la retata ha avuto un effetto domino. «Gli arresti non ci fermano, Fbi», twittava ieri minaccioso Lulz Boat facendo balenare una tregua solo «quando metterete le scarpe sulla testa». Oltre alla home della Santa Sede e della Panda gli hacker si sono sbizzarriti ieri buttando giù anche il sito della Procura turca e hanno attaccando persino l’Fbi a Washington. Ieri si è verificato anche il più grande black-out di Facebook: due ore di blocco a macchia di leopardo. Secondo un’agenzia di sicurezza informatica belga. racconta il Telegraph, potrebbe essersi trattato di un altro attacco in DDos da utenti sparsi in Europa e Africa.

La Stampa 8.3.12
Abusi sessuali su una minore Arrestato un sacerdote


COMO L’economo della diocesi di Como, don Marco Mangiacasale, 48 anni, è stato arrestato per violenza sessuale continuata nei confronti di una minorenne. I fatti contestati si riferiscono al periodo compreso tra il 2008 e quest’anno. Don Marco è economo della diocesi dal 2009, mentre dal 2003 era stato parroco di San Giuliano a Como. Sono state le confidenze al nuovo parroco della ragazzina, una frequentatrice delle attività della parrocchia, a dare il via all’indagine che ha portato all’arresto del sacerdote. Secondo quanto ha riferito il procuratore della Repubblica di Como, il parroco di San Giuliano, successore proprio di don Marco, ne ha poi parlato ai genitori della ragazza che, il 28 febbraio scorso, hanno presentato denuncia alla magistratura.
Il vescovo di Como, monsignor Diego Coletti, ha sollevato don Marco da ogni incarico diocesano. Lo si legge in una nota ufficiale della Curia comasca che esprime «costernazione per la vicenda che vede coinvolto il sacerdote». Nella nota il vescovo esprime il desiderio «di seguire con paterna sollecitudine coloro che hanno promosso la causa sporgendo accusa».

il Riformista 8.3.12
Rapporto del Parlamento
«Lo Stato tortura in carcere»
di Alessandro Calvi


DIETRO LE SBARRE. Drammatico il quadro dipinto nel Rapporto della Commissione del Senato. Registrati casi di tortura ma non c’è la norma per intervenire. Presto su questo reato un testo unificato.

Nelle carceri lo Stato viola la legalità; si è arrivati a forme di tortura che non sono state punite soltanto perché nel codice penale quel reato ancora non c’è. Ecco, perché è «urgente» introdurlo.Adirlo, adesso, è la commissione Diritti umani del Senato, ossia lo stesso Parlamento italiano. Il quale, peraltro, sarebbe anche l’unico soggetto in grado di riparare a quella lacuna.
Il ragionamento è contenuto nel Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari approvato martedì scorso. In quel documento si parte da una recente sentenza del tribunale di Asti che ha mandato assolti «agenti della polizia penitenziaria responsabili, senza alcuna possibilità di dubbio, di torture su detenuti, per mancanza della norma necessaria». Insomma, «è una sentenza che dimostra in modo incontrovertibile l’esistenza di un vuoto al quale è necessario rimediare immediatamente».
La lacuna si spiega con una difficoltà culturale delle istituzioni democratiche ad accettare che lo Stato possa essere autore di atti di tortura. Inoltre, si è sostenuto che gli strumenti per colpire certe condotte esistevano già, anche se la vicenda di Asti dimostra che così non è. Infine, qualche resistenza è giunta da chi temeva si volessero colpire le forze dell’ordine. «Ma spiega il presidente della commissione, Pietro Marcenaro non è così e, anzi, l’introduzione di questo reato è anche a tutela della dignità e dell’onore delle forze dell’ordine». Su come procedere, il Rapporto è chiaro:
«Non c’è nulla da inventare: la definizione di tortura e trattamenti inumani e degradanti è già scritta con assoluta precisione nella convenzione delle Nazioni Unite che l’Italia ha già sottoscritto e ratificato». L’idea è di unificare i diversi testi esistenti «per dare vita ad un solo testo comune» e «chiedere che venga quanto prima messo all’ordine del giorno, discusso e deciso».
Quello sulla tortura, però, è soltanto un passaggio all’interno di un ragionamento che si sviluppa per decine di pagine ricche di notizie ma anche di orrori dei quali il nostro Paese è responsabile. Non a caso, nella introduzione si legge che «ogni violazione dei diritti umani non è solo un fatto eticamente riprovevole ma una vera e propria violazione della legalità» e che «affermare che la condizione dei detenuti costituisce una violazione della legalità da parte dello Stato non è una forzatura frutto di una pur legittima indignazione ma una pertinente considerazione tecnica».
Il problema dei problemi è il sovraffollamento. Al 29 febbraio i detenuti presenti nei 206 istituti di pena erano 66.832 contro una capienza di 45.742. Soltanto poco più della metà di questi stanno scontando una condanna definitiva. Gli altri, invece, sono in attesa di giudizio, contribuendo, loro malgrado, al sovraffollamento. È questa una spia di dove si devono cercare le cause del problema che non risiedono necessariamente nella scarsità di risorse a disposizione.
È anzi lo stesso Rapporto che fa notare che «in questa illegalità non c’è nulla di contingente, frutto di una situazione particolare resa ancora più drammatica dalla crisi economica e dalla scarsità di risorse, e destinata ad essere prima o poi superata». «Essa si legge è invece la diretta conseguenza della quasi assoluta identificazione della pena con il carcere». A voler essere ancora più chiari, allora, si deve considerare «il forte impatto che alcune leggi recenti hanno avuto sull’alto tasso di crescita della popolazione carceraria».
Per «leggi recenti» si intende prima di tutto la Fini-Giovanardi del 2006 sulla droga la quale, si legge nel Rapporto, «ha determinato un aumento considerevole della presenza in carcere di tossicodipendenti da una parte e di soggetti con condanne brevi o brevissime per violazione della norma dall’altra», tanto che «circa metà della popolazione detenuta è interessata nell’uno e nell’altro modo dal fenomeno».
Ci sono poi da considerare gli effetti perversi della ex Cirielli, legge ad personam per eccellenza, servita per tagliare la prescrizione. Ma nel Rapporto che, vale la pena ricordarlo, è passato con un voto unanime, si fa notare che «per i recidivi sono stati introdotti inasprimenti di pena e il divieto della prevalenza delle circostanze attenuanti sulle aggravanti ed è stata fortemente irrigidita la possibilità di ottenere misure alternative». Insomma, se la Fini-Giovanardi ha spalancato inutilmente le porte del carcere per molti, con la ex Cirielli quelle porte sono state richiuse quando però le celle erano ormai stracolme.
Davvero un capolavoro, questo, al quale il legislatore deve porre rimedio, se in questo Paese siamo arrivati alla permanente violazione dei diritti umani dei detenuti, sfociata addirittura in atti di tortura.

La Stampa 8.3.12
Anche noi arabe vogliamo sentire il vento di libertà"
L’appello esce oggi sui sei grandi quotidiani partner dell’iniziativa "Europa"

qui segnalazione di Noemi Ghetti


La “Stampa 8.3.12
Quelle mille donne che hanno fatto fiorire la primavera araba
Il testimone del cambiamento in pochi mesi è passato  nelle loro mani
di Lucia Annunziata

qui

La Stampa 8.3.12
Ebadi: il carcere non piegherà le attiviste iraniane
Iraniana, nel 2003 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace


Avvocato Shirin Ebadi 64 anni difende i dissidenti ed è spesso parte civile nei processi contro membri dei servizi segreti iraniani
Saluto le mie amiche e i miei amici italiani, ai quali voglio esprimere la nostra gratitudine per le dimostrazioni di sostegno e solidarietà nei confronti delle donne iraniane. Quest’anno l’8 marzo viene celebrato nel momento in cui in Iran molte attiviste si trovano in carcere. Vorrei ricordare Nasrin Setoudeh, mia coraggiosa collega avvocata, in prigione da due anni con l'accusa di sovversione per aver difeso detenuti politici. Nasrin e Narghes Mohammadi, anche lei attivista dei diritti umani, hanno ricevuto dal vostro Paese dei riconoscimenti per il loro impegno.
Vorrei ricordare anche che a Genova è stata dedicata una piazzetta a Neda Soltani, la giovane donne uccisa dal regime nel corso delle manifestazioni di protesta avvenute a Teheran nel 2009. La solidarietà nei confronti di Sakineh Ashtiani, condannata alla lapidazione, ha contribuito alla momentanea sospensione dell’esecuzione. Queste manifestazioni di solidarietà nei nostri confronti sono di grande supporto morale.
Come dicevo, oggi le donne iraniane soffrono ancora per l’ingiustizia e la discriminazione che subiscono di fronte alla legge. Per legge, la vita di una donna è considerata la metà di quella di un uomo: se una donna e un uomo subiscono gli stessi danni, la donna avrà un risarcimento dimezzato rispetto a quello riconosciuto all’uomo. Sempre secondo la legge, la testimonianza in tribunale di due donne è equivalente a quella di un solo uomo. Un uomo può sposarsi quattro volte e può divorziare quando lo desidera, senza giustificazioni. Per le donne, chiedere il divorzio è molto difficile, in alcuni casi impossibile.
Questi sono solo dei piccoli esempi della grande discriminazione di genere introdotta legalmente a partire dalla rivoluzione del 1979. Le donne iraniane contrastano questa discriminazione e si battono unite per conquistare i loro diritti, nonostante i numerosi ostacoli, a cominciare dall’arresto delle attiviste. La Procura le accusa di essere sovversive e di agire contro la sicurezza nazionale. In realtà, rivendicano solo i loro diritti.
In questo periodo, molte donne soffrono o per l’arresto diretto o per l’attesa, fuori dalle carceri, di notizie dei loro cari in prigione. A ogni voce di dissenso politico si risponde con il carcere e questa politica repressiva ha anche una conseguenza economica, perché spesso gli arrestati sono portatori di unico reddito, la cui mancanza è subita dal nucleo familiare, in primis dalle donne. Il governo risponde con condanne a lungo termine e fa subire ristrettezze economiche alle famiglie.
Vorrei inoltre segnalare la difficoltà in cui si trovano le detenute madri alle quali il governo, come ricatto, impedisce di vedere i propri figli. Una di queste detenute è Nasrin Setoudeh, che ha due figli, una di 12 anni e uno di 5. In questi ultimi mesi, hanno avuto il permesso di incontrarsi poche volte con la mamma, senza poter avere alcun contatto fisico. Questa violenza psicologica viene usata per mettere in ginocchio le attiviste. Sebbene non sia facile sopportare queste pressioni, in particolare per una madre, le donne iraniane non si arrendono e, unite e solidali, non smetteranno di lottare fino alla conquista di pari diritti. Io so che un giorno non lontano le donne iraniane raggiungeranno i loro obiettivi e ringrazio voi, popolo italiano, per aver sempre sostenuto e ricordato la lotte delle mie concittadine.

La Stampa 8.3.12
Intervista La Nobel yemenita “La rivoluzione qui non è finita”
Tawakul Karman: faremo una nuova nazione
di François-Xavier Trégan


SANA’A La piazza del Cambiamento si sveglia. Sdraiati sotto le tende già surriscaldate dal sole, alcuni rivoluzionari si stirano. Altri, davanti a una schiera di rubinetti, si lavano. A Sana’a, principale focolaio della contestazione, il mattino debutta tra il suono di una musica e il gusto di un tè rosso fumante. Per Tawakul Karman, che vive lì, la giornata sarà nuovamente carica. La vincitrice del Nobel per la Pace 2011 prosegue con i suoi appuntamenti.
Da quando è stata premiata, il presidente Ali Abdallah Saleh ha lasciato il potere, i cecchini hanno abbandonato i tetti di Sana’a e le granate non cadono più sulla piazza della Libertà di Taez. La benzina resta cara e l’elettricità scarsa, ma la rivoluzione popolare e pacifica, iniziata un anno fa, può già gustarsi i suoi successi. Da quando Tawakul Karman è tornata in Yemen dopo un lungo viaggio all’estero, la sua tenda è diventata luogo d’appuntamento della comunità internazionale di passaggio. Da questa abitazione spartana - dove però gli arredi sono cambiati e sono apparsi muri di calcestruzzo lei ha voluto «mandare un messaggio chiaro»: «Resteremo nella Piazza del Cambiamento fino alla realizzazione di un nuovo Yemen. No, la rivoluzione non è finita».
Ormai i visitatori sono costretti ad attendere il loro turno in anticamera. Tawakul Karman riceve in un piccolo spazio, gli occhi incollati allo schermo di un televisore. La frontiera tra la vita professionale e personale è ormai stabilita. Basta bambini che corrono sul tappeto. Una segretaria controlla le tracce dell’intervista e i tempi assegnati. Il Premio Nobel non risparmia le parole per promuovere gli ideali di una rivoluzione di cui è diventata la più spettacolare ambasciatrice. Le gelosie dei liberali e dei socialisti sono finite, o quasi.
Tawakul Karman, che ha 33 anni e dirige il partito islamista Al Islah, non ha atteso la nascita del movimento rivoluzionario, nel febbraio 2011, per chiedere un cambiamento. Con le sue prese di posizione precedenti, era già considerata un’oppositrice del presidente Saleh. Il ruolo che ha avuto nell’agitazione che ha conquistato tutto il Paese ha fatto di lei il bersaglio privilegiato dei media ufficiali e della polizia. Insulti, minacce, arresti. Fondatrice del gruppo di difesa dei diritti umani «Donne giornaliste senza catene», è stata tra i primi a scendere in piazza. Non erano molti, all’epoca, a scandire: Tunisi libera, Sana’a ti saluta!
«Più di sei milioni di giovani hanno partecipato alle elezioni presidenziali del 21 febbraio e questo dà ulteriore legittimità al nostro movimento. Ho incoraggiato la gente ad andare a votare, dobbiamo sostenere questo periodo di transizione, il nuovo presidente e il primo ministro».
Abd Rabbo Mansour Hadi, il nuovo capo di Stato, ha promosso dei cambiamenti profondi. Ma la confusione è totale. «Dobbiamo ristrutturare le forze di sicurezza e creare un esercito nazionale che non appartenga a nessuno, soltanto al popolo», annuncia lei, decisa a ottenere l’allontanamento dei figli e dei nipoti del «clan Saleh» che ancora controllano l’apparato di sicurezza. Poi verrà il tempo di un nuovo Yemen e di una Costituzione «moderna e democratica, che garantirà a tutti libertà e uguaglianza. Non cercheremo di fare dello Yemen uno Stato religioso. La religione non deve essere incompatibile con la democrazia».
Da mesi Tawakul Karman lavora a un progetto di «riforma religiosa». E mentre nei partiti politici in Egitto o in Tunisia si organizzano correnti salafite, la parola d’ordine del Premio Nobel è quasi «papale»: «Non abbiate paura! ».

il Fatto 8.3.12
Mille anni di martirio
Storia dei crimini a Homs la Srebrenica siriana
di Robert Fisk


Nel Baedeker sulla Siria pubblicato nel 1912 una pagina e mezzo è dedicata a Homs. In caratteri minuscoli c'è scritto che “nella pianura a sud-est ci imbattiamo nel villaggio di Baba Amr (Bab Amro, quartiere di Homs, ndr). Interessante una visita al bazar dove potete trovare sete finissime. A nord di Homs campeggia una fortificazione per l’artiglieria... ”. Da allora il bazar è stato demolito, mentre la fortificazione è passata dagli ottomani ai francesi e infine ai seguaci del partito Baath; nell’ultimo mese il villaggio di Baba Amr è stato pesantemente bombardato da questa fortificazione. Proprio nella città romana di Homs i Crociati commisero il loro primo atto di cannibalismo cibandosi delle spoglie dei nemici musulmani morti. Nel 1174 la città fu conquistata da Saladino. Dopo la Prima guerra mondiale fu governata dai francesi diventando il fulcro di tutti i movimenti insurrezionali, prima contro l’esercito francese poi contro i primi governi siriani. All’inizio del 1964 ci furono in città scontri tra tra sunniti e sciiti. Un anno dopo il giovane comandante baathista della piazza di Homs, il tenente colonnello Mustafa Tlas, faceva arrestare i suoi commilitoni favorevoli al regime.
Oggi la situazione è tutt’altro che migliorata tanto che Hama e Homs fanno pensare a Srebrenica: ingresso vietato alla Croce Rossa, lunghe file di profughi, donne separate dagli uomini, devastazioni, impossibilità per i giornalisti e le Nazioni Unite di fare il loro lavoro.
DALL’ACCADEMIA militare di Homs, fondata dai francesi, provengono Bashar al-Assad e suo zio Adnan Makhlouf, considerato l’elemento corruttore del regime di Assad. Assad – che si è anche laureato in medicina – non ha dimenticato Homs da cui viene la sua moglie sunnita nata in Gran Bretagna. Homs è una città cara a tutti i siriani, sunniti e alawiti che siano. Non a caso le autorità siriane hanno sempre pensato che la sua riconquista avrebbe segnato la fine della rivoluzione. Appena a nord di Homs, per la precisione a Hama, 30 anni fa Hafez Assad fece oltre 10.000 “martiri”; la settimana scorsa Homs è diventata una piccola Hama.
Perché siamo rimasti sorpresi nel vedere l’”Esercito siriano libero” fuggire dalla città? Davvero ci aspettavamo che il regime di Assad chiudesse bottega solo perché qualche centinaio di uomini armati di kalashnikov aveva messo in piedi una rivolta del ghetto di Varsavia in miniatura? Credevamo davvero che la morte di donne, bambini – e giornalisti – avrebbe impedito al campione del nazionalismo arabo di soffocare la rivolta nel sangue?
Quando l’Occidente ha fatto proprie le illusioni di Sarkozy, di Cameron e di Hillary Clinton – per non parlare degli Stati del Golfo che chiedono ai siriani quella stessa ”democrazia” che si rifiutano di dare ai loro popoli – i siriani hanno capito che si trattava solo di ipocrisia.
Grazie all’opera degli illusionisti del Brookings Institution, della Rand Corporation e del Consiglio per le relazioni estere e di tutti gli altri intellettuali che firmano editoriali sul New York Times, Homs era diventata la nuova Bengasi. Rifaceva capolino il solito, vecchio sogno americano: se uno Stato di polizia è spietato, cinico e corrotto, ciò vuol dire che gli oppositori, per quanto male armati, finiranno per spuntarla perché sono i buoni. I baathisti erano i nazisti, Assad un pupazzo in mano alla sua famiglia, sua moglie una sorta di Eva Braun, Maria Antonietta o Lady Macbeth. E su queste sciocchezze che l’Occidente e gli arabi hanno edificato le loro speranze.
SARKOZY, CAMERON e Clinton facevano la voce grossa contro le atrocità della Siria, ma al tempo stesso rifiutavano di fornire aiuto militare ai ribelli. C’era sempre qualche condizione. L’opposizione siriana doveva mostrarsi unita. I ribelli dovevano dare vita ad una coalizione coesa e via dicendo. Come mai la Nato non aveva chiesto ai ribelli libici le stesse condizioni e aveva invece cacciato Gheddafi a suon di bombe? L’ipocrisia di Sarkozy era chiarissima. Ogni sua iniziativa – compresi i numerosi diplomatici ed “esperti” mobilitati per liberare la giornalista francese Edith Bouvier – aveva come obiettivo la rielezione all’Eliseo.
Le elezioni francesi, le elezioni russe, le elezioni iraniane, i referendum siriani e, ovviamente, le elezioni americane. È stupefacente la capacità della “democrazia” di ingarbugliare il quadro politico del Medio Oriente. Putin appoggia un leader arabo (Assad) che annuncia di aver fatto del suo meglio “per proteggere il mio popolo”. Suppongo che Putin avrebbe potuto giustificarsi nella stessa maniera dopo aver fatto massacrare un bel po’ di Ce-ceni.
Quando, poco prima di Natale, parlando a Istanbul dissi che il regime di Assad non sarebbe crollato con la velocità delle altre dittature arabe, un giovane siriano mi affrontò urlando e mi chiese “quanto mi pagava la polizia segreta siriana”. Comprensibile. Il giovane siriano veniva da Deraa ed era stato torturato dai servizi siriani.
La verità è che i siriani hanno occupato il Libano per quasi 30 anni e dopo che se ne erano andati, nel 2005, i loro artigli politici hanno continuato a mordere a lungo la carne viva dei libanesi. Ancora oggi i servizi siriani fanno il belo e il cattivo tempo in Libano e molti parlamentari libanesi si dicono apertamente amici di Assad. Insomma, se i baathisti sono riusciti a controllare per così tanto tempo un Paese straniero, cosa ci autorizza a sperare che siano disposti ad abbandonare senza colpo ferire la Siria? Fin tanto che riuscirà a controllare Damasco e Aleppo, Assad rimarrà saldamente in sella.
C’è chi è convinto che Assad desideri essere ricordato nei libri di storia come colui che ha dato la libertà alla Siria. Quand’anche fosse vero, ci sono personaggi per i quali qualunque cambiamento politico rappresenta una minaccia. Ovviamente mi riferisco agli ufficiali dei servizi e ai paramilitari del partito Baath che sono di-sposti a battersi fono all’ultima goccia di sangue, non tanto per difendere Assad quanto per difendere sé stessi.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 8.3.12
François Hollande
“Meno austerity, più lavoro Basta con l’Ue di Merkozy”
“Lavorerò con la Germania, ma l’era dei direttori è finita: ridiscuterò i trattati”
di Alberto Mattioli


Ridare fiducia ai francesi François Hollande in campagna a Digione: «Dobbiamo tornare a credere nel futuro. Mi impegno a dimezzare i giovani neodiplomati senza lavoro»
Monsieur Hollande, lei ha annunciato che, se diventerà Presidente, chiederà di ridiscutere l’ultimo trattato europeo. Che cosa gli rimprovera?
«Che non dà una risposta sufficiente alla crisi che attraversa l’Europa. La responsabilità budgetaria s’impone a tutti ed è necessario adottare misure disciplinari. Ma non bastano: il trattato è in un vicolo cieco per la crescita, la solidarietà e la lotta contro i rischi finanziari, ma anche per il controllo democratico delle decisioni europee. Per questo, se sarò eletto, lo rinegozierò. Non per rimetterlo in discussione, ma per completarlo, migliorarlo, riequilibrarlo».
Secondo lei quali sono le tre prime cose da fare, le più urgenti, per rilanciare il processo di integrazione europea?
«Vedo tre dimensioni: la crescita, il coordinamento e la governance. La crescita, per cominciare, per la quale dobbiamo ritrovare dei margini di manovra. Dobbiamo lavorare per riorientare gli strumenti esistenti della Banca europea degli investimenti e del budget europeo. Penso anche che si possano trovare risorse nuove come la tassa sulle transazioni finanziarie, la tassa sulle emissioni di anidride carbonica, sulle frontiere o i «projet bonds» per finanziare dei progetti di crescita. Poi, la coordinazione delle politiche economiche, che dev’essere ancora estesa per rispondere in maniera concertata agli squilibri che sono all’origine della crisi. Infine, la governance economica. Voglio insistere in particolare sul ruolo della Banca centrale europea che deve esercitare pienamente le sue responsabilità. Per me, questo vuol dire certo la stabilità finanziaria e monetaria, ma anche un servizio per l’economia reale, il suo finanziamento. È in questo spirito che proporrò una rinegoziazione, con l’obiettivo di rimettere la solidarietà nel cuore della costruzione europea, e aprendo in particolare alla possibilità di creare delle euro-obbligazioni».
Merkel ha annunciato che farà campagna per Sarkozy e in effetti, con la celebre intervista a due voci in televisione ha già iniziato. Se lei sarà eletto, la collaborazione franco-tedesca diventerà più difficile?
«Madame Merkel è libera di sostenere Nicolas Sarkozy: i partiti conservatori in Europa hanno il diritto di avere dei legami, come li hanno le forze progressiste. Quelli del Partito socialista francese e della Spd tedesca sono molto forti. Per me è essenziale che, di fronte a un’Europa conservatrice, si disegni un’Europa progressista. Per fare l’esempio dell’Italia, noi lavoriamo già strettamente con il Partito democratico. Ma, da Presidente della Repubblica, dal 7 maggio 2012 il mio partner sarà Angela Merkel, con la quale dovrò affrontare i grandi dossier europei. Allora per convincerla avrò la forza del mandato confidatomi dai francesi. La cooperazione franco-tedesca resta al centro dell’azione della Francia in Europa ma non sarà, com’è stato negli ultimi mesi, un direttorio che esclude gli altri partner. La coppia franco-tedesca deve essere un motore, un impulso, non un legame esclusivo».
Benché «tecnico» e anche piuttosto liberista, Mario Monti ha criticato, proprio come lei, la mancanza di impegni per la crescita nell’ultimo trattato europeo. Crede che su questo a Bruxelles la Francia potrà lavorare con l’Italia?
«Me lo auguro. Molti dei partner europei rimpiangono che il trattato sia unicamente indirizzato sul rigore. Monsieur Monti ha sempre avuto a cuore la costruzione dell’Europa. Noi dobbiamo lavorare insieme per riequilibrare il trattato sulla crescita».
Come giudica i primi mesi del governo Monti?
«Non giudico l’azione del governo di un Paese che non è la Francia. Constato semplicemente che Mario Monti porta avanti delle riforme coraggiose in una situazione difficile».
Guerra di Libia, immigrati tunisini: nell’ultimo anno di presidenza di Sarkozy, i rapporti fra Italia e Francia non sono sempre stati facili. Per Parigi, Roma è un partner o un problema?
«Se sarò eletto Presidente della Repubblica, l’Italia sarà per la Francia un partner di primo piano. Abbiamo molte sfide da affrontare e delle priorità comuni. Penso certo all’avvenire della zona euro, ma anche a un’azione rinforzata verso i Paesi del Sud del Mediterraneo. La Francia e l’Italia sono due grandi Paesi mediterranei che devono lavorare insieme per affrontare le opportunità e le sfide sollevate dalla primavera araba».
Tempo fa, lei mi disse di rammaricarsi delle posizioni della gauche francese sull’affare Battisti. Con lei Presidente, la Francia smetterà di dare asilo ai terroristi italiani?
«Oggi l’affare Battisti non riguarda più direttamente le relazioni fra Francia e Italia. Se sarò Presidente, rispetterò il diritto d’asilo e continuerò la lotta contro il terrorismo».
La dottrina Mitterrand ha ancora senso?
«La dottrina Mitterrand aveva un senso ben preciso: gli italiani che si sono sottratti alla giustizia del loro Paese e che si sono stabiliti in Francia non saranno estradati, salvo se hanno commesso dei delitti di sangue o si sono resi complici o conservano dei legami con gli ambienti terroristici. Io mi atterrò strettamente a questi principi».
Non si sa granché del suo rapporto con l’Italia: la conosce? Ci ha viaggiato? Cosa pensa della definizione di Cocteau: i francesi sono degli italiani di cattivo umore?
«Sono andato spesso in Italia, l’ultima volta nel dicembre scorso per conversazioni con monsieur Bersani e i membri del Partito democratico. In quell’occasione ho anche incontrato il Presidente della Repubblica italiana per il quale ho molto rispetto. La frase che lei cita è stata scritta da un francese, il che almeno prova che i francesi sono anche capaci di essere di buon umore! Ma, più seriamente, i francesi hanno bisogno di ritrovare fiducia nell’avvenire ed è per questo che mi batterò senza sosta, se sarò eletto Presidente».
Sarkozy parla di lavoro, responsabiità e autorità. Riassuma il suo programma in tre parole.
«La ripresa, la giustizia e la speranza. Il patto repubblicano, il sogno francese è la promessa che le generazioni che verranno vivranno meglio di quelle che le hanno precedute. Io voglio realizzare questo sogno».
Se dovesse fare una critica, una sola, a Sarkozy, quale sarebbe?
«Ce ne sono tante, è difficile scegliere. Ma c’è un difetto che caratterizza Nicolas Sarkozy: più ancora che l’ingiustizia, è la sua incostanza, la sua incapacità di dirigere la Francia se non con colpi mediatici e una visione a corto termine. L’incostanza ha caratterizzato il suo quinquennato, ha screditato il potere agli occhi dei francesi e la Francia agli occhi del mondo».
Se lei vincerà, in che cosa la Francia del 2017 sarà meglio di quella del 2012?
«Voglio una Francia che si risolleva e che diventa più giusta. Non voglio fare promesse sconsiderate, ma farò di tutto perché la Francia del 2017 sia un Paese dove l’economia è stata rilanciata, la cui società è giusta e che crede nel suo avvenire. Moralmente, economicamente e socialmente, la Francia avrà fatto progressi. Faccio una promessa concreta: nel 2017, il numero di giovani che escono dalla scuola senza un titolo di studio che permetta loro di trovare lavoro sarà dimezzato. La gioventù sarà il mio cavallo di battaglia. Senza di lei, senza rialzarla, senza darle prospettive per l’avvenire, nessun progresso sarà possibile».
Ultima domanda: pensa davvero che abbia appena intervistato il nuovo Presidente della Repubblica francese?
«Questo lo decideranno i francesi».

il Riformista 8.3.12
Il “pied-noir” che seduce la Francia
Mélenchon vola alla sinistra del Ps
Da Tangeri alla Normandia, la lunga parabola del paladino gauchista. Che sfonda quota 10%.
di Andrea Luchetta


La nuova stella della politica francese viene dal Marocco. Jean-Luc Mélenchon da Tangeri, 60 anni e poco più, è un vecchio “pied noir” che ha imparato a conoscere la Francia nella diffidenza dei suoi compagni di classe a Yvetot, nel cuore dell’alta Normandia. Dalla sponda africana del Mediterraneo ai nuvoloni grigi della Manica: a undici anni deve essere ancora più doloroso.
Immigrato, trotzkysta, correttore di bozze, giornalista. Mitterrandiano di ferro prima e jospiniano poi. Consigliere, senatore, frondista e neo-gauchista. E infine candidato-rivelazione alle presidenziali col Front de Gauche. Tutto (quasi) sempre con un’eleganza e una continuità di pensiero che molti suoi ex colleghi a rue de Solférino difficilmente possono rivendicare.
«Jean-Luc Mélenchon è magniloquente, provocatore, fin troppo fiducioso in se stesso [...] , ma è il miglior oratore della scena politica francese. Non ricordo alcun oratore venuto dritto dal diciannovesimo secolo, come lui, capace di riempire fino al colmo non solo le sale dei comizi, ma anche gli studi televisivi». Garantisce Alain Duhamel, storico notista politico transalpino.
Belle parole, ininfluenti però nelle urne: a tanto sembrava destinata la campagna del Front de Gauche, ingolfata per mesi a un indice di gradimento che non voleva saperne di decollare. Poi, nelle ultime settimane, la svolta. L’ultimo sondaggio Ipsos accredita Mélenchon per la prima volta di un dato superiore al 10%. Lo stagnante Bayrou (13%) è dietro l’angolo, e nessuno al Front fa mistero di aver messo il Modem nel mirino. Con Hollande che naviga stabilmente intorno al 30%, lo spettro di un 21 aprile 2002 quando i voti alla sinistra del Ps spianarono la strada del ballottaggio a JeanMarie Le Pen è scongiurato. E allora, riassumono i “frontisti”, gli elettori di sinistra al primo turno possono permettersi un voto «di convinzione».
Mélenchon, per parte sua, celebra il raggiungimento di una «soglia di credibilità», e cerca di conciliare il successo con la storica avversione per la politica condotta a colpi di sondaggi. Non più tardi della scorsa primavera François Delapierre braccio destro di Mélenchon in un’intervista a questo giornale esprimeva tutta la diffidenza del Front per i metodi di rilevazione impiegati dai grandi istituti demoscopici.
Dopo mesi di bolina stretta, i gauchisti procedono a vele spiegate. E la loro avanzata argomenta Mélenchon incide pesantemente sui contenuti della campagna. Giudicando la proposta di Hollande di tassare al 75% i redditi superiori al milione di euro, il candidato del Front ha scritto sul suo blog di «vedere un movimento nella nostra direzione [...] Serve però una coerenza globale del progetto [...] che nel caso di Hollande ancora manca».
Riportare l’età pensionabile a 60 anni è il minimo del minimo, per il Front de Gauche. Che si batte per l’introduzione di un tetto massimo alle retribuzioni, l’innalzamento del salario di base a 1700 euro e la tumulazione della Quinta repubblica. Tema, quest’ultimo, caro anche ad Arnaud Montebourg, il paladino della sinistra Ps che quest’autunno ha ottenuto il 18% alle primarie socialiste: un bacino di voti che segnala il potenziale di crescita di Mélenchon, complice anche l’ininfluenza degli altri candidati alla sinistra del Ps.
Al Partito comunista anima del Front assieme al Parti de Gauche affilano le armi: la vera battaglia è per le legislative di giugno, che stabiliranno il margine di manovra del più che probabile presidente Hollande. Nessuna possibilità di sostenere un “governo Hollandréou”, disposto come l’esecutivo socialista di Papandreou a infliggere austerity su austerity. Ma prima ancora di parlare di programmi, Hollande dovrà farsi perdonare un’intervista al Guardian che voleva rassicurare la City: «Non esistono i comunisti in Francia, non c’è nulla da temere». E invece, pare, sono in ottima salute e lottano assieme al compagno Mélenchon.

La Stampa 8.3.12
La Cina taglierà i dazi sul lusso
L’ex vice ministro al Commercio: mossa inevitabile
di Ilaria Maria Sala


Alta gamma Il taglio sui dazi riguarda oltre 600 beni Durante le festività di fine anno i cinesi hanno speso 7,2 miliardi di dollari in shopping di lusso all’estero (+28,7%)

HONG KONG Verso una diminuzione dei dazi d’importazione sui beni di lusso e di consumo in Cina? Il quotidiano cinese di lingua inglese ieri è uscito con un’intervista esclusiva in prima pagina a Wei Jianguo, in cui si annuncia che le forti tasse d’importazione imposte sui beni di lusso esteri per essere venduti in Cina verranno tagliate in modo significativo, non una ma ben due volte nel corso di quest’anno. Wei, ex-vice ministro del Commercio, ed attuale membro della Conferenza Consultativa del Comitato nazionale del popolo cinese riunito proprio in questi giorni nella sua Assemblea plenaria, insieme all’annuale Assemblea Nazionale del Popolo - avrebbe dunque dichiarato che, in risposta all’annuncio fatto dal Primo Ministro Wen Jiabao di potenziare i consumi interni, quella della riduzione dei dazi è considerata una mossa ormai inevitabile.
Il quotidiano China Daily, il primo giornale di lingua inglese del Paese, è spesso utilizzato dalla classe dirigente per le notizie che vuole rendere note alla comunità straniera e diplomatica, che lo segue con attenzione ma anche con una buona dose di scetticismo. Per quanto riguarda gli annunci di tipo economico, di natura diplomatica, o anche per informare il mondo esterno delle grandi svolte politiche del Paese, il China Daily resta un quotidiano di riferimento. La notizia dei dazi, dunque, una volta annunciata su un giornale di questa natura, appare come un tema su cui le discussioni sono già a un punto avanzato.
I prezzi del lusso, in particolare, in Cina sono elevatissimi: secondo uno studio pubblicato dal ministero del Commercio cinese e ripreso dal China Daily, proprio a causa dei dazi, i beni di consumo che rientrano nelle categorie dell’elettronica, orologeria, valigeria, alcolici e abbigliamento, hanno prezzi più elevati del 45% rispetto a Hong Kong, del 51% rispetto agli Stati Uniti, e del 72% rispetto alla Francia. Questo divario nei prezzi, fino ad ora, si è tradotto in vendite non molto significative in Cina (per quanto tutti i grandi marchi internazionali, in particolare del lusso, abbiano deciso che la loro presenza sul mercato cinese è un investimento per far conoscere il proprio nome, prima ancora che per vendite immediate). Uno dei primi desideri dei turisti cinesi all’estero è proprio quello di acquistare beni d’alta gamma.
A Hong Kong, le code davanti a Hermès, Christian Dior, Prada e Cartier sono tutte di turisti cinesi in visita nell’ex-colonia britannica, così come salta all’occhio una forte presenza di acquirenti cinesi nei negozi di marchi di lusso internazionali. Secondo la World Luxury Association, i turisti cinesi hanno speso, nel periodo delle vacanze del Capodanno cinese (quest’anno, le due settimane intorno al 23 gennaio), 7,2 miliardi di dollari Usa per i prodotti di lusso, con un incremento del 28,7% rispetto all’anno precedente.
L’abbassamento dei dazi, dunque, per quanto non sia stato quantificato dall’articolo pubblicato sul China Daily, che ha solo specificato che riguarderebbe «almeno 600 beni di consumo e di lusso», aiuterebbe la Cina a mantenere nei suoi confini parte di questa spesa, anche se gli oggetti acquistati sono importati dall’estero.

La Stampa 8.3.12
Il «testamento spirituale»
Odio tutte le forme di neutralità
di Ada Marchesini Gobetti


Pubblichiamo il «testamento spirituale» di Ada Godetti: lo scrisse, come era solita fare, su di un quaderno, il 18 novembre 1959. Pochi giorni prima, colpita da infarto, era stata ricoverata al Mauriziano di Torino.

Vorrei che le cerimonie funebri fossero ridotte al minimo. Non ho bisogno di dire, credo, che la funzione dev’essere unicamente civile: tutti sanno le mie idee e sono ben certa che la mia famiglia provvederà nel modo più opportuno. Certo sarebbe bello far le cose in silenzio e dar la notizia a funerali avvenuti. Ma quando si hanno tanti amici e si ha una certa notorietà, la cosa mi sembra difficile da attuarsi e può anche apparire ostentazione. E perché negare agli amici, ai compagni, la consolazione di ritrovarsi a piangere insieme una compagna di tante battaglie che se ne va? So per esperienza che, in simili casi, la solidarietà nel dolore è un conforto al distacco; e sarà questo l’ultimo conforto che vorrei dare ai miei amici.
Verrà al mio funerale gente per semplice convenienza, per curiosità o anche per ozio o per necromania; ma verranno anche quelli che mi hanno voluto bene e a cui ho voluto bene. Ho voluto bene a molti, in modo più o meno intenso, ma posso dire con coscienza che non ho mai avvicinato un essere umano senza sentirmi in qualche modo legata da un senso di solidarietà. Il che non vuol dire che abbia voluto bene indiscriminatamente a tutti. Ho odiato certe persone per le idee che sostenevano o rappresentavano: ho odiato i fascisti e - pur umanamente comprendendo e compatendo gli individui - non ho esitato a lottare contro di essi. Per questo non sono pacifista. Odio tutte le forme di neutralità. Penso che si deve avere un’idea e per questa battersi, non impersonalmente, ma con tutta la passione più viva.
Mi accorgo che sto facendo una specie di testamento spirituale; e non voglio farlo assolutamente perché mi sembrerebbe un inutile peccato di presunzione. Quello che penso l’ho detto e scritto anche con troppa abbondanza in questi ultimi anni; quali sono le mie idee l’ho dimostrato col mio contegno e con le mie azioni. Non ho pensieri nascosti, idee da rivelare; se ne avessi avute di migliori le avrei dette, subito: quelle modestissime che avevo le ho ripetute sino alla sazietà: eppure m’accorgevo sempre che qualcuno non le aveva ancora capite; e allora la mia fatica non mi sembrava inutile.
Vorrei vivere ancora perché la vita è molto bella; nonostante tutto e, pur avendo molto sofferto, sono stata molto felice. Ma sono pronta serenamente a morire in qualsiasi momento; e mi fa ridere usare una espressione così banalmente ottocentesca. Ho la coscienza tranquilla per aver compiuto il mio dovere. Ho sempre tenuto presente nella mia vita la parabola evangelica dei talenti. Quelle poche qualità che avevo ho cercato di sfruttarle al massimo sino al limite della mie forze. E credo che debba essere perdonata per non aver potuto dare di più. Non credo di dover chiedere perdono alle persone: non ho mai offeso coscientemente nessuno, e quando l’ho fatto involontariamente, mi sono affrettata a riconoscerlo e scusarmi. Credo invece di dover ringraziare molti, tutti quelli che mi hanno voluto bene, che mi hanno capita, incoraggiata, aiutata. A questi vorrei dire di non dimenticarmi: non facendo discorsi commemorativi, ma continuando il lavoro da me iniziato. Per dirla con Dante, «Siavi raccomandato il mio… Giornale».
So che questa mia citazione vi sembrerà ridicola. L’ho fatta apposta per farvi ridere. Poiché è proprio con una risatina, un po’ tenera e un po’ ironica, che vorrei congedarmi da voi.

Corriere della Sera 8.3.12
La borghesia falso bersaglio

di Giuseppe Bedeschi

Che significato ha oggi la parola «borghesia?». Può essere di qualche utilità nell'analisi delle società in cui viviamo e dei problemi (economici, sociali, culturali) connessi alla grande crisi che stiamo attraversando?
In un recente editoriale dell'«Unità» (del 21 febbraio), Michele Prospero scriveva che se dopo l'esperienza del «governo tecnico» dovesse nascere «una Terza Repubblica fondata contro i partiti», avremmo in realtà «una Seconda Repubblica bis», sicché «anche stavolta la borghesia italiana rischia di combinarla grossa». Qui, come si vede, la «borghesia italiana» viene considerata come qualcosa di unitario, come un blocco monolitico.
Nelle righe immediatamente successive Prospero asseriva che «rivelando tutta la sua storica impotenza, la grande borghesia italiana cerca nei professori di Palazzo Chigi quello che non riesce mai ad ottenere nelle forme normali della politica: la possibilità di conciliare i propri interessi di classe (che oggi si chiamano però in maniera più nobile e neutrale: modernizzazione, competitività, produttività) con una qualche parvenza di bene pubblico». Qui (a parte il fatto che la produttività e la competitività non sono, come credevamo, interesse di tutto il Paese, bensì di una sola classe), qui, dicevo, la «borghesia italiana» della prima citazione, diventa «la grande borghesia italiana». È una correzione non da poco. E non basta. Poche righe dopo, l'autore scrive che, «non avendo la forza egemonica per imporre una autonoma presenza nella politica», «la cosiddetta borghesia illuminata appalta a sinistra le ragioni della crescita e dell'innovazione, venendo in vario modo a patti con essa su alcuni nodi strategici».
Ci imbattiamo così, nel giro di poche righe, in tre diverse formulazioni: «la borghesia italiana», «la grande borghesia italiana», «la cosiddetta borghesia illuminata». Viene da chiedersi: queste tre cose indicano la medesima entità, o sono diverse fra loro? In verità, non è facile rispondere a questa domanda.
A me pare che le difficoltà in cui Prospero si imbatte risalgano alla classificazione marxista delle classi sociali (che nella nostra cultura ha avuto enorme diffusione). Nel Manifesto del partito comunista Marx affermò che la società capitalistica è incardinata fondamentalmente su due classi sociali: i borghesi (cioè i detentori dei mezzi di produzione) e i proletari (che vendono ai primi la sola cosa che posseggono: il loro lavoro). Questo schema dicotomico non veniva messo in discussione, secondo Marx, dall'esistenza di numerosi ceti intermedi (piccoli industriali, negozianti, artigiani, agricoltori eccetera), perché questi sarebbe stati travolti assai presto dallo sviluppo capitalistico e sarebbero sprofondati nel proletariato, in quanto il loro esiguo capitale non poteva resistere alla concorrenza dei grandi capitalisti. La società capitalistica, giunta al culmine del proprio sviluppo, sarebbe stata formata dunque da due sole classi: borghesi e proletari. È vero che poi Marx, nei suoi lavori più maturi, di molto successivi al Manifesto, percepì acutamente che, se i vecchi ceti intermedi precapitalistici erano destinati a decadere (ma non nella misura da lui prevista), sarebbero sorti però nuovi, numerosi ceti intermedi, generati dallo sviluppo capitalistico. Al punto che nelle Teorie sul plusvalore egli rimprovera a Ricardo di non «mettere in evidenza il costante accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo». Ma queste tarde scoperte non poterono più essere utilizzate da Marx, e lo schema dicotomico del Manifesto finì per imporsi in tutto il marxismo.
Era uno schema assolutamente inadeguato per l'analisi delle cosiddette «società complesse», articolate in numerosi ceti e gruppi sociali. A proposito di tali società, la sociologia moderna ha parlato, più che di divisione in classi nettamente delimitate, di «stratificazione sociale».
Questo approccio è necessario anche per analizzare la situazione attuale del nostro Paese. In una recente intervista a «La Stampa», Giuseppe De Rita ha ricordato che la grande maggioranza delle imprese costituenti il nostro tessuto produttivo non supera i dieci addetti. Dunque la «borghesia» (se si vuole conservare questo termine, di dubbia utilità analitica) comprende vari e diversi strati sociali (i vertici delle grandi imprese, delle medie imprese, delle piccole imprese), e perciò è svuotata del suo originario significato unitario. Non ha senso quindi, nel quadro di una stratificazione sociale complessa, presentare «la grande borghesia», o addirittura «la borghesia», come il potente burattinaio che tiene i fili della nostra società.

Corriere della Sera 8.3.12
Spaziani, la poetessa dei maestri
Le sue liriche forgiate dagli incontri con Zolla, Montale e Caproni

di Paolo Di Stefano

Quel che stupisce sempre, nella personalità di Maria Luisa Spaziani come nella sua poesia, è l'energia vitale che non cede alle tante ombre di una lunga vita anche dolorosa. «Refrattaria alla disperazione come un vento imprendibile», dice di lei Paolo Lagazzi nella bella introduzione che precede la raccolta completa delle poesie (Meridiani Mondadori, a cura dello stesso Lagazzi e di Giancarlo Pontiggia, pp. 1984, 65). Sono componimenti che occupano oltre un cinquantennio, da Le acque del Sabato (1957) a L'incrocio delle mediane (2009). Stupisce poi, in Maria Luisa Spaziani, la completa libertà che si coniuga, come in un grande ossimoro (figura retorica da lei molto amata), con una salda fedeltà alla tradizione classica e novecentesca non solo italiana. E a proposito di ossimoro, Lagazzi esordisce opportunamente evocando la coppia di aggettivi con cui Italo Calvino definì il timbro di quella voce poetica: «ispirata e spiritosa», evidenziando la coesistenza — e quasi il continuo cortocircuito — di profondità e leggerezza furtiva, di immobilità sapienziale e inarcature ironiche e saettanti quando non sarcastiche. Una tessitura, metricamente molto mossa e consapevole, che sa «alternare registri lirici e potenzialmente narrativi, limpidi e oscuri, preziosi e "orali", classici e intrisi di cosmopolitismo parigino, con un'irresistibile scioltezza, come se da ogni forma ne potesse sgorgare un'altra, in una circolarità ondosa». È davvero impressionante la quantità di riferimenti, espliciti o dissimulati, che innervano la poesia della Spaziani, dalla latinità alla contemporaneità, dagli antichi testi ebraici alla grande cultura poetica europea, dall'arte figurativa alla musica.
Questo Meridiano di quasi duemila pagine arriva dunque come meritato omaggio alla soglia dei novant'anni, lasciando per altro fuori versanti di attività non certo secondari, come le traduzioni (da Flaubert, Gide, Yourcenar, Tournier, Racine, Frenaud, Ronsard eccetera), le prove narrative (l'ultima Montale e la Volpe, 2011), il lavoro teatrale. Per un totale di una cinquantina di libri in varie forme. «I Meridiani — sorride Maria Luisa Spaziani — sono i piccoli premi Nobel italiani: il nostro modo di stare in cima allo stelo». E ricorda un recente incontro con Giorgio Napolitano («un'udienza privata, un'ora di confidenze»), in cui il presidente ha non solo rievocato gli ambienti letterari e politici degli anni Quaranta e Cinquanta, ma anche mostrato di aver colto la visionarietà della poesia della Spaziani.
Poesia «ispirata e spiritosa». Una definizione efficace, quella di Calvino. «È difficilissimo trovare dell'umorismo nelle preghiere, dei paradossi, dei piccoli sorrisi, dunque mi piace che nei miei testi venga apprezzato quel miscuglio di ispirazione, sensibilità subliminale e guizzo di umorismo». Un esempio? Spaziani ricorda la chiusa della poesia in morte di Montale. Eccola: «Il meglio della seppia è l'osso. / Il resto è per i cuochi». «Doveva essere un testo in morte dell'eroe, secondo i canoni anglosassoni, ma Montale non avrebbe mai voluto poemi lacrimosi in suo onore».
Lo conobbe il 14 gennaio 1949, Montale, al Teatro Carignano di Torino, dove il poeta era stato invitato a tenere una conferenza. Ne seguirà tutto ciò che è narrato nelle memorie di Montale e la Volpe: per anni «un'amicizia quasi amorosa», lettere piene di calore, di «adorazione» per quella che diventerà la giovane musa della Bufera, incontri, passeggiate, cene, frequentazioni comuni, sodalizi. Ma già Maria Luisa aveva incontrato il suo amore diversi anni prima, il ventenne Elémire Zolla, che abitava poco distante da lei, la figlia dell'industriale Ubaldo, che intanto aveva messo su una rivistina e una piccola casa editrice, presso cui avrebbe pubblicato, nel '47, il primo libro di Zolla.
«La vicenda sentimentale con Zolla, — scrive Pontiggia nella accurata Cronologia — estremamente travagliata, si rivela un'esperienza fondamentale non solo sul piano degli affetti, ma anche su quello della formazione intellettuale». Due anni dopo il trasferimento di Maria Luisa in via del Babuino a Roma, la città che non abbandonerà più, le nozze civili in Campidoglio: testimoni Alfonso Gatto per lei, Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte per lui. Ma durano un anno, finché Zolla va al convento di Sant'Anselmo sull'Aventino. L'affinità elettiva no, quella dura per sempre. «Elémire mi manca ogni giorno — dice la Spaziani — perché è stato il mio primo amore, il mio primo uomo e io sono stata la sua prima donna quando avevo poco più di vent'anni. Non c'è stato giorno in cui quello che lui scriveva non fosse complementare e gemello di quello che scrivevo io, anche se si trattava di cose diversissime. Elémire aveva una mente geniale e l'aggettivo non è sprecato, aveva un'intelligenza sfavillante in profondità».
Una vita condivisa con tanti coetanei, quella di Maria Luisa Spaziani. E in cui si riconoscono diversi maestri. Montale, ma non solo. «Oggi constato la scomparsa della figura del maestro come lo si è inteso per due o tremila anni. Io mi sono sentita vicina a Gozzano e in un certo senso a d'Annunzio, ho amato molti poeti contemporanei, Ungaretti, Quasimodo, Montale. E poi Caproni, Gatto, Luzi. Quel che è filtrato è filtrato involontariamente, attraverso il linguaggio: è stato come mettersi non sulla scia, ma nell'alone di questi esempi. E li sentivo vicini perché li amavo, non perché imparavo da loro».
La dimensione sentimentale, lo spazio privato degli incontri folgoranti e degli affetti profondi, sono coordinate intimamente presenti nell'ispirazione poetica della Spaziani, che, come ha detto Luigi Baldacci è fatta di canto e di voce. Il che significa di memoria sonora: «A scuola bisogna sapere le poesie a memoria: ma non studiate, perché devono inserirsi in modo naturale nella mente del ragazzo. L'amore e la simpatia muovono le montagne, diceva la Montessori. Io ho letto e riletto tanti testi, fino a saperli a memoria per forza di amore».
Ce n'è qualcuno più memorabile di altri? «Mediterraneo di Montale, che è stata la mia Bibbia. In quel mare, Antico e Padre, che tutto crea e tutto distrugge, trovavo motivi di possibile fiducia in un destino: solo la superficialità è resa visibile, mentre i tesori sono nascosti…».
Subito dopo Montale, o subito prima, viene Giorgio Caproni, nei pensieri della Spaziani: «Ha scritto capolavori incredibili, Le biciclette, le Stanze della funicolare…: in tutto Caproni, fino al Conte di Kevenhüller c'è la saggezza grande che diventa musica, e c'è sempre un sorriso. Mentre Montale dà per certo che non esistiamo, per Caproni tutto esiste e si tocca con mano, persino la sua malinconia, la nostalgia della madre». A proposito di madre. Baldacci ha scritto che «Maria Luisa Spaziani è un grande poeta in quanto è una grande poetessa». La femminilità della sua poesia, sostiene il critico, sta nella riappropriazione del privato e della sua dignità. Che ne dice? «Mi sembra folle fare distinzioni tra uomini e donne in poesia. Se si dice che il mondo femminile ha più sensibilità, più pudore e maggiore capacità nel trattare i sentimenti, bisogna riconoscere che anche Rilke e Proust erano due grandi donne. Per me sono grandi e basta».
Una vita per la poesia, una poesia che rivendica la propria necessità: anche su questo Lagazzi insiste. «Il declino della poesia è dovuto alla distrazione nel senso pascaliano: l'anima è stata distolta dal centro e si è concentrata verso la periferia, sia essa la televisione o altro. Per chi vive in funzione del supermarket, la poesia non comunica, è difficile, astratta. Per andar loro incontro, oggi ci sono poeti che tendono al colloquiale, evitano gli aggettivi cosiddetti alti e sposano la banalità. Per chi cerca invece la comunicazione delle sensibilità, la poesia è linguaggio, alto o basso non importa, qualcosa di molto reale».

Repubblica 8.3.12
Chi ha paura della psicoanalisi
Quella "cura speciale" contro le terapie brevi

di Massimo Recalcati

Dopo il "Manifesto" dei quattro autorevoli esponenti delle scuole principali, ecco un´altra riflessione sul tema
Si parla di uno statuto diverso, ma non si invoca una sorta di riserva indiana per chi è incapace di "essere scientifico"
È vero però che c´è un rischio di declino e di emarginazione culturale dovuti a certi irrigidimenti dottrinali
Le accuse non considerano come la disciplina abbia una sua specificità rispetto al soggetto

Da diverso tempo si insiste nel voler riporre la psicoanalisi come teoria dell´uomo e come pratica della cura nel museo delle cere dell´Ottocento denunciando senza peli sulla lingua l´impostura del suo padre fondatore. Freud stesso fu il bersaglio di pesanti diffamazioni e non gli sfuggiva affatto che questi attacchi erano la diretta conseguenza del fatto che con la sua invenzione aveva portato la "peste" nella cultura e nella società occidentali.
Quale "peste"? La peste di una disciplina che dà parola a ciò che solitamente viene confinato, esiliato, rimosso dalla nostra esperienza comune del mondo: alla dimensione singolare e irripetibile del desiderio, alla sua forza sovversiva, a ciò che sfugge al governo della coscienza, a ciò che ci parla in una lingua straniera (nei sogni come nei nostri sintomi), alla fragilità delle nostre certezze, prima fra tutte quella di crederci degli Io solidi e compatti.
Recentemente, in un articolo di qualche settimana fa apparso sul Sole 24 Ore, titolato emblematicamente L´autismo dei lacaniani, Gilberto Corbellini si era fatto interprete di un nuovo attacco rivolto alla psicoanalisi in generale e a quella lacaniana in particolare. Quale l´accusa? Niente di meno di quella di abuso di professione: non avete i mezzi per curare l´autismo! Le vostre teorie sono bislacche e, soprattutto, non curano! In un altro articolo più recente, apparso domenica scorsa sempre sulle pagine del Sole 24 Ore, Lacan viene definito senza mezze misure un "impostore", attraverso il ritratto (forse un po´ semplificato?) che ne offriva Alan Sokal.
Strano modo di procedere quello di Corbellini; invoca la serietà dello spirito scientifico, la necessità per la psicoanalisi di sottoporsi alla prova e al rigore della valutazione, ma per liquidare Lacan come un impostore, egli si limita ad invocare un solo studio che evidenzia certe incongruenze nell´uso che Lacan ha fatto degli strumenti della topologia di fronte ad una bibliografia immensa ed in continua crescita dedicata alla sua opera.
In gioco, beninteso, non è solo la clinica dell´autismo (che è stato il movente di questo recente attacco); si tratta, più radicalmente, della proscrizione della psicoanalisi come possibilità di cura. Un esercito composito sembra esigerlo: la psicologia cosiddetta scientifica, le terapie cognitivo-comportamentali, l´industria dello psicofarmaco, la deriva iperpositivista delle neuroscienze, la psichiatria organicista, e, soprattutto, il "discorso del capitalista" che esige terapie le più brevi ed efficaci possibili per ripristinare il funzionamento dei suoi consumatori.
In risposta a questa ennesima aggressione quattro autorevoli psicoanalisti – rappresentanti delle correnti maggiori della psicoanalisi contemporanea – hanno firmato un testo a sostegno della nostra disciplina (come è accaduto su Repubblica il 22 febbraio scorso), definita giustamente a "statuto speciale". Non si tratta dell´invocazione di una specie di riserva indiana dove gli psicoanalisti – incapaci di dimostrare l´efficacia dei loro mezzi di fronte al rigore della validazione scientifica –, chiederebbero, alla pari di "omeopati, astrologhi, erboristi, eccetera", diritto di cittadinanza (Corbellini dixit). Questo Manifesto rivendica qualcosa di assai più profondo. La psicoanalisi è una scienza e una pratica a statuto speciale perché vuole essere una cura del soggetto nella sua particolarità. La cura offerta della psicoanalisi non è una cura tra le altre.
La cura psicoanalitica non è finalizzata ad aggiustare la macchina del corpo o del pensiero come avviene nella cura medica tradizionale. Nei sintomi in gioco non è un semplice disfunzionamento della macchina del corpo o del pensiero, ma la verità scabrosa, infima, bizzarra, deviante del desiderio inconscio del soggetto. Lo psicoanalista accoglie innanzitutto la parola del soggetto senza censure, senza pregiudizi o giudizi morali, senza aspettative, senza pretese normalizzanti, e, soprattutto, senza imporre ad essa la propria.
Dove si trova oggi qualcosa del genere? Il beneficio terapeutico di una cura analitica avviene solo in "sovrappiù", come si esprimeva Lacan, a questo riconoscimento del valore della parola del soggetto dell´inconscio. Non è già solo questo principio di fondo sufficiente per distinguere la cura psicoanalitica da qualunque altra forma di cura dove il curante tende fatalmente a porsi come padrone di un sapere già costituito che verrà applicato al paziente secondo schemi oggi sempre più protocollari? Dove ciò che cura è spesso il potere suggestivo di un padrone? Non è questo principio sufficiente a mostrare come la cura psicoanalitica sia ispirata dall´esigenza etica di assegnare il massimo valore alla singolarità non-protocollare del soggetto? Non è questa forse una cura a statuto speciale? In questo senso la psicoanalisi agisce come un potente anticorpo nei confronti di quella medicalizzazione della vita di cui il nostro tempo ha fatto un nuovo e pericoloso idolo.
E con i bambini autistici? E con i casi gravi, con le anoressiche, con i tossicomani, con gli psicotici? Dobbiamo immaginare questi pazienti allungati sul divano a raccontare i loro sogni? Non scherziamo. Da tempo la psicoanalisi con i casi gravi avviene in un setting totalmente adattato alle esigenze di questi pazienti; si lavora negli ospedali, nelle istituzioni della salute mentale, nelle comunità terapeutiche, si lavora senza divano. A coloro che vogliono capire meglio cosa può fare la psicoanalisi per aiutare i bambini autistici – non a guarire dall´autismo, ma a trovare un loro modo per esprimere quella singolarità assoluta (non handicappata) che li costituisce come umani – invito a leggere una raccolta di scritti di analisti lacaniani con una lunghissima esperienza di cura dell´autismo: Qualcosa da dire al bambino autistico (Borla, 2011).
Certamente gli psicoanalisti non sono affatto estranei al rischio del loro declino e della loro emarginazione culturale. L´arroccamento nelle loro stanze ovattate, la pretesa di possedere una interpretazione totale dell´individuo e del mondo, l´irrigidimento dottrinale in scolastiche dogmatiche, il disprezzo aristocratico verso tutto ciò che non è psicoanalisi, o, ancora peggio, verso tutto ciò che non appartiene alla propria Scuola, la burocratizzazione della professione attraverso apparati istituzionali finalizzati a conservare il "già detto" più che alimentare la ricerca verso il nuovo, la formazione degli allievi ridotta ad indottrinamento, la difesa dei privilegi di casta (non aveva ragione Basaglia quando accusava la psicoanalisi di essere una terapia di classe?), la tendenza a sottovalutare l´impatto col reale dei processi storici ed economici, l´uso regressivo e ipnotico del transfert, un certo fanatismo nell´applicazione della teoria a casi gravi che richiedono una attenzione e una consapevolezza dei propri limiti diversa…
Tutto questo ha pesato e pesa sullo sviluppo di una disciplina sorta come una straordinaria difesa del carattere singolare e laico del desiderio che però ha spesso prodotto dogmatismi sulla soglia dei più feroci fondamentalismi! È un fatto che appartiene alla storia anche recente della psicoanalisi: come si spiega? Potrebbe essere che la psicoanalisi debba innanzitutto liberarsi da un suo fantasma di cui la tirannide del Maestro o il grigiore della burocrazia degli apparati rappresentano i poli diametralmente opposti. Questo sarebbe un tema serio di ricerca.

Repubblica 8.3.12
Dai crolli a Pompei alla paralisi di Brera: i troppi silenzi del ministero
 Quel professor Ponzio Ornaghi nel chi l´ha visto dei Beni Culturali

di Francesco Merlo

Al ministero chiamano Lorenzo Ornaghi "professore Ponzio" e non solo perché ha governato, almeno sino ad oggi lavandosene le mani, la più scandalosa delle emergenze, i Beni Culturali, immenso e immensamente malandato patrimonio dell´identità italiana.
Ma anche perché «siamo ai piedi di Pilato» è la realistica e simpatica espressione popolare ed evangelica che egli stesso usò con i colleghi della Cattolica quando seppe che non gli avrebbero dato la Pubblica Istruzione.
Vi entrò dunque da «tecnico serio, ma senza competenza» mi dice una imprenditrice veneta del restauro. E infatti «non so cosa significa Beni Culturali» confessò il giorno del giuramento al Quirinale. Lo sfogo fu preso come scaramanzia e come viatico, un cuscinetto di ironia tra se e sé, e uno spazio di libertà tra sé e quel difficile mondo sottosopra. Professore di Scienza della Politica e Rettore magnifico di lunga esperienza, Ornaghi era infatti molto bene attrezzato a studiare, capire e affrontare, e con nuovi codici magari, i Beni Culturali senza la sgangherata inefficienza di Bondi, che negava i crolli di Pompei e maltrattava la cultura viva e la cultura morta, e senza le polemiche sopra le righe della meteora Galan.
Ornaghi sembrava persino finalmente libero dalla politica politicante, come fu soltanto il rimpianto Alberto Ronchey tanti anni fa. E dunque sembrava perfetto per una legge quadro sull´architettura, per una nuova normativa sul cinema, per una ristrutturazione della lirica, per mettere a punto un piano di guerra che, come quello di Befera contro gli evasori, scovi e insegua uno per uno i tombaroli che da Cerveteri ad Aidone, da Palestrina ad Aquileia rovinano le nostre rovine e derubano gli italiani. «Forza Ornaghi!» pensammo dunque quando lo nominarono. E invece: chi l´ha visto?
Brianzolo, 64 anni, cattolicissimo e scapolo, cappotto nero da prete, poco meno di due pacchetti di "Camel light" al giorno, una voluta somiglianza con il suo maestro morale don Giussani, compiaciuto della parola "Padania" in onore dell´altro suo maestro Gianfranco Miglio, il ministro ha esordito presentando un pio libro di Maurizio Lupi, riceve tutti i giorni Buttiglione e Quagliariello e insieme fanno combaciare asole e bottoni di una nuova ipotetica Dc, combatte «la dittatura relativista della cultura laicista»… È insomma molto attivo nella militanza ciellina, ma non ha preparato piani di riscossa per Pompei dove continuano quei minicrolli che sono la rivolta delle pietre contro l´incuria che viene certo da lontano ma costò al povero Bondi l´eccessiva fama mondiale di killer of Pompei´s ruins. Il progetto Pompei coinvolge almeno tre ministri (anche gli Interni, in funzione anticamorra) perché l´Europa ci chiede garanzie per il finanziamento già stanziato e mai erogato di 105 milioni. Ma Pompei è come lo spread, è un impegno che il nostro ministro deve prendere con il mondo, simbolicamente lì è l´Italia intera che rischia il default. Per un ministro dei Beni Culturali che ama il suo Paese, Pompei è il Luogo Comune nel senso del più comune dei luoghi, vestigia e simbolo della civiltà occidentale, valore identitario e tuttavia senza nazionalità, il capolinea di tutte le strade del mondo: salvarlo significa salvare il mondo. Da sola Pompei vale un ministero, una carriera, una vita. E invece Ornaghi si comporta come un Bondi con molta più cultura che però, in questo caso, diventa un´aggravante. Ha scritto autorevoli saggi sulle élite pubblicati dal Mulino, parla correntemente inglese, francese e tedesco, è un cultore di musica classica, appassionato di storia di Milano e di società milanese, e non solo in senso alto: la sua prima lettura al mattino sono le pagine dei necrologi.
Perché l´innamorato di Milano non dice una parola sulla sciagurata paralisi della Grande Brera, commissariata e dimenticata? E tace pure sul Palazzo del cinema di Venezia dove al primo scavo, trenta milioni di euro per 3,10 metri di profondità, hanno trovato, sotto una pineta, quel demonio dell´amianto e non c´è esorcista che possa andare avanti né tornare indietro su una superficie di 10mila metri quadrati, mentre l´impresa (la Sacaim) è finita in amministrazione controllata, e c´è ancora in carica un commissario, come del resto all´Aquila, un sub commissario, vice di Bertolaso. E i collaudatori erano quelli della cricca, e forse si farà solo un auditorium, ma un po´ più in là … Questo sì è cinema! In quel buco di Venezia c´è la fantasia della scuola napoletana, è il buco dei magliari d´Italia. Vuole parlarne, signor ministro?
Ornaghi dirige il traffico e controlla gli affari delegando al solito capo di gabinetto Salvo Nastasi, amico più di Letta che di Bisignani, genero di Gianni Minoli, e commissario ovunque e per tutte le stagioni: dal San Carlo di Napoli al Maggio Fiorentino… Sin dai tempi di Urbani, Nastasi è l´avvolgente potenza invisibile dei Beni Culturali, come l´imam occulto degli sciiti. E infatti Ornaghi, via Nastasi-Letta, costretto dalle reazionIdell´intera città di Venezia, ha confermato Paolo Baratta alla presidenza della Biennale. E però poi gli ha mandato, come guastatore nel consiglio di amministrazione, il presidente della Fondazione Roma Emmanuele Emanuele, vecchio notabile del parastato e del Circolo della caccia, gran protettore di Vittorio Sgarbi, premio letterario Mondello per le poesie raccolte in "Le molte terre" e "Un Lungo cammino", già premiato a Tor di Nona. Pittoresco e manovriero, ha esordito annunziando che è lui l´unico a rappresentare sia il ministero sia l´albo d´oro della nobiltà, e tra Baratta e Ornaghi è cominciata un´agra corrispondenza… Perché?
A Nastasi si contrappone il sottosegretario Roberto Cecchi, più cauto ma non meno avido di supplenza. Già funzionario del ministero, a lui si devono il pasticcio del Colosseo affidato a Della Valle e il famoso malaffare del crocifisso erroneamente attribuito a Michelangelo: tre milioni che un rinvio a giudizio della Corte dei conti ha censurato; sarebbero bastati trecentomila mila euro. Ebbene, il ministro non ha né difeso né cacciato il suo sottosegretario: "professore Ponzio", appunto.
E non dice nulla sul Centro del libro, una struttura agile ma costosa che non ha mai cominciato a lavorare: forse non sarebbe inutile, ma così sicuramente lo è. E ancora: dopo la tragedia della Concordia al Giglio tutti si aspettavano una parola di Ornaghi per bloccare il passaggio delle grandi navi da crociera a Venezia: entrano dalla bocca di porto di Malamocco e poi si inoltrano nella laguna raggiungendo Riva degli Schiavoni che costeggiano sino a imboccare il bacino di San Marco, davanti al Palazzo Ducale, per poi giungere alla stazione marittima attraversando il canale della Giudecca. Neanche Marinetti, il quale nella sua devastazione, voleva asfaltare Venezia, era arrivato a immaginare le navi della follia. Dice Dante: Ed ecco verso noi venir per nave/ un vecchio, bianco per antico pelo/ gridando: ‘Guai a voi anime prave! Gli ignavi, appunto.

Repubblica 8.3.12
Cosa resta dopo cent'anni della festa della donna

di Benedetta Tobagi

Rito stanco o necessità? Ecco perché questa data può avere significato solo se evolve la società: dai diritti alle nuove regole contro lo stalking
Nonostante la vestissero di giallo, colore disimpegnato, era una ricorrenza "rossa" legata al movimento operaio
Il tema della violenza si accende in occasione di delitti atroci, ma poi sprofonda nel buio e l´interesse vive meno di un rametto di mimosa

Che odio, la mimosa: non profuma, avvizzisce in tempi record e dissemina pallini e pelucchi gialli dappertutto. Tanto è emozionante vederla fiorire sul suo albero come una macchia di luce nel paesaggio, tanto è triste trovarla intrappolata nel cellophane sui banchetti o nei vasi vicino alla cassa dei supermercati. Ridotta a un "brand", venduta per un giorno a prezzi irragionevoli, la mimosa rappresenta bene tutto ciò che nell´8 marzo è da buttare, dagli orpelli del marketing a quanto di rituale e di stantio, come ogni celebrazione, si porta dietro. E pensare che nel 1946 le rappresentanti romane dell´Unione Donne Italiane la scelsero quasi per caso, e soprattutto per risparmiare. Le rose, invocate insieme al pane nei cortei delle femministe americane a partire dal 1908, erano troppo costose; in cerca di un simbolo diverso dallo storico garofano rosso per caratterizzare in modo immediato la festa delle donne, si risolsero per questa fioritura di stagione, assai comune tra Roma e i Castelli: accessibile, allegra e a costo zero. Nonostante la vestissero di giallo, colore politicamente disimpegnato, l´8 marzo era una festa decisamente "rossa", legata a doppio filo al movimento operaio. Dopo una prima edizione solo statunitense, la Festa della donna nacque ufficialmente nel 1910 a Copenhagen, con una mozione presentata da Clara Zetkin alla II Conferenza internazionale socialista: per promuovere la causa del voto alle donne e «l´intera questione femminile espressa dalla concezione socialista». Meno chiaro da dove esca la data dell´8 marzo. Nel saggio 8 marzo. Storie miti riti della giornata internazionale della donna, le studiose Tilde Capomazza e Marisa Ombra precisano che fu fissata solo nel 1921, alla seconda Conferenza delle donne comuniste di Mosca, in memoria della grande manifestazione delle operaie contro lo zarismo che si era svolta in quella data nel 1917. A partire dagli anni Cinquanta, tuttavia, si diffondono vulgate che "cancellano" la genesi moscovita, legando l´8 marzo al vivace movimento statunitense d´inizio secolo per i diritti delle lavoratrici, e in particolare – nella tradizione del "martirologio" (in palese analogia con il Primo Maggio, anniversario dei "martiri di Chicago") – al tragico incendio del marzo 1911 alla Triangle Shirt Waist Company di New York, in cui morirono orribilmente 146 operai, di cui ben 129 erano donne giovanissime: non poterono mettersi in salvo perché i padroni le tenevano chiuse a chiave nei capannoni per evitare che si allontanassero. L´incendio in realtà ebbe luogo a fine marzo, ma nella pubblicistica divenne il mito fondativo della giornata della donna: forse anche, suggeriscono Ombra e Capomazza, per attenuare i caratteri sovietici e comunisti della ricorrenza. Un dato è certo: l´8 marzo, comunque l´abbiano scelto, nasce come festa delle donne lavoratrici. Nei decenni ha perso gran parte di questo carattere "sindacale". Eppure, il lavoro femminile continua a essere un campo di abusi e sperequazioni. Se la mimosa si può tranquillamente cestinare, vale invece la pena di rinverdire questo spirito delle origini. Tanto più oggi: nel pieno delle difficili trattative sulla riforma del lavoro, nel paese in cui, per la nostra vergogna, a un secolo esatto dall´incendio della fabbrica di camicie newyorkese, cinque donne sono morte nel crollo di un laboratorio di confezioni a Barletta, dove lavoravano in nero per 4 euro l´ora, ben venga un 8 marzo vintage, la cui agenda rimetta al centro la tutela delle lavoratrici. «Le nostre mimose sono progetti di legge», affermava la senatrice socialista Elena Marinucci nel 1980. A fine febbraio ha cominciato a circolare l´appello di 14 donne che chiedevano il ripristino della legge contro la piaga delle lettere di dimissioni in bianco di cui si abusa per licenziare le donne in caso di gravidanza, cancellata dall´ultimo governo Berlusconi: perché, per cominciare, come prima "mimosa di legge" non ci restituite la legge 188/2007?
A partire dagli anni Settanta, l´8 marzo si trasforma profondamente, ingloba le istanze del femminismo e smette di essere una festa solo di sinistra. Cresce, si allarga e, secondo alcune, si annacqua: arrivano le prime denunce dalle femministe più agguerrite che ne invocano l´abolizione. Parallelamente, nel 1975 la ricorrenza dell´8 marzo ottiene dalle Nazioni Unite la consacrazione ecumenica. Proprio un richiamo dell´Onu ci indica l´altro grande tema da porre in agenda per l´8 marzo: la violenza. Dopo una missione conoscitiva in Italia lo scorso gennaio, la relatrice speciale dell´Onu per la violenza contro le donne, Rashida Manjoo, ha espresso allarme per la pervasività della violenza domestica, quasi mai denunciata e spesso nemmeno percepita come reato, e la crescita dei femminicidi per mano del partner o di un ex dal partner o da un ex: dalle 101 donne uccise nel 2006 si sale alle 127 del 2010. La nostra settimana della Festa della donna è cominciata con due episodi atroci: a Brescia un uomo ha ucciso la ex compagna, sua figlia e i rispettivi partner; un altro, nel veronese, ha strangolato la moglie perché sospettava lo tradisse. Il tema della violenza sulle donne si accende come un bengala in occasione di delitti atroci come questi e poi sprofonda nuovamente nel buio. L´interesse pubblico vive meno di un rametto di mimosa. Se la festa dell´8 marzo garantisce un giorno in più di attenzione a questa tragedia che si consuma nel silenzio, basta già questo a giustificare la sua sopravvivenza.

Repubblica 8.3.12
Come eliminare alcuni fraintendimenti
Quelle parole da cambiare 

di Michela Murgia


Attraverso certi termini si veicolano concetti che invece in un giorno come questo, fondamentale, dovrebbero essere opposti. Come la dimensione dell´impegno che c´è e che non dipende affatto solo dal cuore

A cosa serva l´otto marzo è solo una questione di parole. Se è la "festa di qualcosa" non serve a niente che non sia far scattare l´atmosfera mentale del party con le sue musiche leggere, i calici tintinnanti, i tubini neri con i tacchi e tutti gli obbliganti rituali dello svago. È a forza di chiamarlo "festa della donna" che si è cominciato a credere che nel nascere femmine ci fosse motivo di brindisi, finendo per dimenticare che se quella giornata esiste è casomai per la ragione opposta: ricordare a tutti che per molte donne essere donna ancora oggi significa tutto tranne che una festa. Dunque quest´anno torniamo all´utilità primaria e facciamo uno scambio, una cosa equa e bilanciata: io mi prendo le mimose senza fiatare, ma in cambio restituisco indietro alcune parole che rendono inutile la ricorrenza e chi le usa se le riprende. Ne voglio rendere al mittente tre in particolare.
La prima è proprio "festa" e la restituisco specificamente ai politici. Vorrei che quelli che oggi numerosi si impadroniranno dei microfoni per trasudare pelosa solidarietà ricordassero che si tratta della Giornata della nostra memoria verso le donne che – anche in questo Paese e soprattutto per volontà politica – non vedono riconosciuti i loro diritti e in quanto donne vengono anzi vessate, violate e uccise dentro le nostre case nel silenzio omertoso delle comunità complici. Con la parola "festa" sarebbe bello se potesse sparire anche il rito forzato dell´occupy-pizzerie con annessi spogliarellisti, ma non voglio domandare troppo. Casomai, se proprio ci si tiene ad andare in pari tra cittadine e politici, allora ridate indietro i fondi per i centri antiviolenza che avete dirottato sul mantenimento delle vostre clientele laiche ed ecclesiali. Per quest´anno basterebbe anche solo quello.
La seconda azione di recupero di utilità dell´otto marzo è la restituzione della parola "pasionaria"; la rendo a quei giornalisti che la applicano senza distinzione a qualsiasi donna che si occupi di temi civili con un minimo di determinazione. Riprendetevela, vi prego, altrimenti finisce che continuate a usarla per la studentessa cilena che guida gli indignados, per l´ex presidentessa ucraina con la treccia bionda e per la prima ministro del democraticissimo Stato del nord Europa, veicolando a tutti i vostri lettori l´idea che le donne siano creature convulse che vanno dove le porta il cuore anche quando si candidano a capo di uno Stato, come se far politica fosse per loro più che altro una inclinazione emotiva. Magari se smettete di usarla comincerete ad accorgervi che ci vuole molta testa per avere abbastanza cuore da occuparsi seriamente del bene di tutti.
La terza parola che darei volentieri indietro è "rischio" e la destinerei alle imprese. Le donne lo corrono di continuo – già trentasette sono quelle trucidate dall´inizio dell´anno dai loro compagni ed ex compagni – ma il contesto sociale e lavorativo continua a considerare rischiose noi. Perché quando facciamo figli siamo percepite come un costo per il datore di lavoro; perché esigiamo come un diritto i servizi che ci consentano di non sacrificare ogni aspetto della nostra vita alla cura dei deboli; perché chiediamo parità di salario e di opportunità, minacciando i castelli delle demeritocrazie. È nell´oscillazione tra rischio e risorsa che passa la differenza tra una ricorrenza mancata e una compiuta, dipende solo da che parte del pendolo vogliamo sentirci; l´otto marzo è utile fino a quando resta un tavolo aperto per deciderlo. Su quel tavolo le mimose non mi hanno dato mai fastidio.

Repubblica 8.3.12
Il Pink New Deal. Le celebrazioni non bastano
Perché occorre un modo per ridefinire le cose
di Chiara Saraceno

Diverse studiose e sociologhe hanno formulato una proposta di un "Pink New Deal" che mostra come l´investimento in servizi e infrastrutture sociali potrebbe diventare un volano per tutta l´economia

Che cosa c´è da festeggiare? I femminicidi continuano ad insanguinare le zone più oscure dei rapporti tra gli uomini e le donne. Le giovani donne continuano a fare più fatica dei loro coetanei a stare nel mercato del lavoro in un contesto che è peggiorato anche per questi ultimi. Le lavoratrici con responsabilità familiari lavorano il doppio dei loro compagni, ma guadagnano di meno. La crisi economica di questi anni e le manovre finanziarie dell´ultimo anno gravano in modo sproporzionato sulle donne, come lavoratrici e come principali responsabili del lavoro familiare. Le donne sono viste innalzare di colpo di qualche anno l´età alla pensione, senza che sia aumentata la loro sicurezza sul mercato del lavoro, al contrario. Contemporaneamente si sono viste ridurre fortemente i servizi di cura (per i bambini, le persone non autosufficienti) ed aumentarne il costo. La tenuta di molti bilanci familiari erosi dalla riduzione della occupazione si basa sulla loro capacità e disponibilità ad intensificare il lavoro domestico. Nonostante la presenza di, poche, "tecniche" nel governo l´asimmetria di genere dei costi della crisi sembra accentuata dalle scelte governative. Non va meglio a livello di Unione Europea, al contrario. Con la sua ossessione per il pareggio di bilancio, la UE sembra aver perso il ruolo di importante sostenitore alle richieste di parità e di politiche, anche sociali, necessarie a questo scopo.
Nulla da festeggiare o celebrare, quindi. Piuttosto un ritorno alle origini del senso della giornata dell´8 marzo ed insieme una occasione per ridefinirla. Una giornata non solo di protesta e di bilanci, ma di discussione di una possibile agenda politica ed economica che, prendendo atto della situazione attuale e dei suoi vincoli, proponga alternative realistiche. Ad esempio, diverse economiste e sociologhe hanno formulato una proposta di "pink new deal", che mostra come l´investimento in servizi e infrastrutture sociali (ma io aggiungo anche in ambiente) non aiuterebbe solo le donne, ma potrebbe costituire un volano per l´economia più importante, e più tempestivo rispetto alla necessità di creare occupazione, delle grandi opere. Come la stragrande maggioranza degli economisti a livello internazionale (anche se non quelli che siedono al governo italiano e che dettano le decisioni nella Unione Europea), queste "tecniche" segnalano soprattutto come un eccesso di misure di austerità non solo metta fine alla solidarietà che è stata alla base della costruzione dell´Unione Europea. Può anche uccidere sul nascere ogni possibilità di ripresa – come sta avvenendo per la Grecia.
Un 8 marzo, quindi, per (ri-)cominciare a discutere in pubblico e per proporsi come soggetto pubblico di cui tenere conto. Per rafforzare e continuare la costruzione di un soggetto pubblico femminile. Un soggetto che non abbia la pretesa di rappresentare tutte le donne e di parlare a nome di tutte le donne, ma che si assuma la responsabilità di articolare proposte a partire da una prospettiva che tenga conto in modo esplicito dell´esperienza, variegata, delle donne e dell´impatto sulla loro vita delle decisioni che si prendono. Che si prenda la responsabilità di proporsi come interlocutore nella scena pubblica e nella definizione della agenda pubblica: cercando il dialogo, ma senza temere il conflitto e di disturbare il manovratore.
Un 8 marzo non per festeggiare le donne o parlare di loro, ma per impegnarsi perché le loro proposte entrino nell´agenda pubblica. Perché è urgente disturbare il manovratore prima che il treno deragli.

il Riformista 8.3.12
Non è la virtù che serve alle donne
Valeria Ottonelli. Il suo saggio contro il “femminismo moralista” sposta il bersaglio della lotta per la parità e spiega come il “secondo sesso” si faccia male da solo
di Flavia Piccinni


Le mimose. Le cene con le amiche. Gli spogliarelli di aitanti giovanotti in squallidi locali di provincia. È diventata questa la festa delle donne 101 anni dopo la sua istituzione. Non c’è più niente dell’origine tumultuosa che rivendicava il diritto femminile al voto, né di quell’8 marzo di quarant’anni fa, quando a Campo de’ Fiori con slogan allora ritenuti scandalosi come “Matrimonio=prostituzione legalizzata” o “Legalizzazione dell’aborto” le manifestanti venivano disperse a suon di manganellate.
Sembrano passati secoli, eppure la condizione della donna come ciclicamente ci ricordano le iniziative che animano le piazze e arrivano dentro le case, ma anche inchieste e saggi sembra essere ancora imprigionata dentro un limbo. Preziose testimonianze diventano allora l’interessante Bambole Viventi (Ghena, pp. 345) dell’inglese Natasha Walter, che mette in guardia dal ritorno dal sessimo, e Nina e i diritti delle donne (Sinnos, pp.80) di Cecilia D’Elia, che racconta l’evoluzione dei diritti femminili nel nostro Paese. C’è poi Valeria Ottonelli, docente di Filosofia Politica ed Etica Pubblica all’Università di Genova, che ne La libertà delle donne. Contro il femminismo moralista (Il Melangolo, pp.120) traccia invece un quadro preciso e abominevole del corpo, e del futuro, delle donne che «in Italia, più che in altri paesi occidentali, sono sottoposte al fardello quotidiano del lavoro domestico, anche quando hanno un lavoro retribuito fuori dalle mura di casa». Tutto il resto sono dati: le donne trovano più difficilmente impiego (le under 30 sono disoccupate nel 50% dei casi, contro il 30% dei maschi), guadagnano meno (in media il 20%) e fanno meno carriera.
La domanda è d’obbligo: l’Italia è un Paese maschilista? Sì, non c’è dubbio, come credo tutti i paesi del mondo. A volte in modi persino macchiettistici.
Macchiettistici?
Penso a cose di vita quotidiana, basta entrare in un negozio di ferramenta per capirlo. Ma penso anche a cose meno da barzelletta, come il fatto che questo è un Paese in cui non solo le donne hanno più difficoltà di accesso al lavoro, ma quando perdono il lavoro la cosa è percepita come meno grave di quando capita agli uomini.
La festa della donna intanto resiste. Che senso ha?
Credo che non esista solo un senso, ma ce ne siano molti. L’idea principale mi sembra sia sempre stata quella di creare un momento pubblico di riflessione critica sulla posizione delle donne nella società. E infatti anche quest’anno, come ogni anno, i media propongono analisi e dibattiti sul tema. Ognuno lo fa come crede e con i mezzi che ha.
Per fortuna abbiamo avuto il femminismo.
Che ha rappresentato un formidabile momento di liberazione e di crescita culturale e sociale. Il pensiero femminista italiano, inoltre, è fra i fenomeni culturali più importanti espressi dal nostro paese negli ultimi decenni, come è riconosciuto anche e soprattutto all’estero.
Ma ha ancora senso parlare di femminismo oggi?
Ovviamente sì, tanto più che viviamo ancora in una società profondamente maschilista.
Nel tuo libro metti in guardia dal femminismo moralista. Che cosa è?
È una reazione sbagliata di fronte ai problemi strutturali che rendono la vita delle donne più insicura, più faticosa e più avvilente di quello che potrebbe e dovrebbe essere. La reazione sbagliata consiste nel pensare che la condizione di svantaggio delle donne possa essere superata attraverso il richiamo a modelli virtuosi per donne e uomini, o un appello alle loro coscienze. Si tratta di una trappola pericolosa che non fa bene alla causa delle donne.
Perché?
Oltre ovviamente a rimuovere l’attenzione dai problemi strutturali e materiali che dovrebbero preoccuparci, riposa necessariamente su modelli etici, che non sono universalmente condivisibili e quindi creano spaccature e divisioni, essendo fatti apposta per dividere fra buone e cattive. Inoltre, consegna le donne all’idea che la loro libertà e la loro felicità dipendano da quello che di loro pensano gli uomini. Rinsalda un’idea di dipendenza sentimentale, psicologica e materiale di cui le donne dovrebbero liberarsi.
La violenza domestica e lo stalking sono infatti in forte crescita.
La mia impressione è che, al di là di tutte le battaglie culturali che possono essere fatte, sul breve periodo l’esistenza di reti di protezione efficienti sia uno strumento indispensabile per sottrarre le donne alla trappola della violenza, almeno di quella domestica. Nel frattempo, grazie ai tagli i centri antiviolenza continuano a chiudere o a funzionare a fatica.
Ma le donne italiane vivono davvero «una condizione di marginalità e debolezza culturale»?
Sì, le donne in Italia fanno ancora fatica ad accreditarsi comeautorevoli.Malasituazione sta cambiando, come dimostra il fatto che in un momento difficile come questo l’economia, il mondo del lavoro e quello dell’industria facciano riferimento a tre donne come Camusso, Fornero e Marcegaglia.
Avremo mai un premier donna?
Ci vorrà poco, pochissimo, basta organizzarsi. Ma non darei così tanta importanza alla cosa, perché è la massa critica quella che conta.