martedì 13 marzo 2012

l’Unità 13.3.12
I giudici di Firenze. Le motivazioni dell’ergastolo al boss Tagliavia per le stragi del ’93
I 41bis rimossi. «Potevano apparire come un cedimento». Forza Italia non fu mandante
«Fra Stato e mafia ci fu una trattativa»
Per la prima volta una sentenza certifica l’esistenza di una trattativa fra pezzi di Stato e Cosa nostra durante la stagione delle stragi. In questo scenario sarebbe potuta maturare la decisione di eliminare Borsellino.
di Massimo Solani


All’inizio degli anni 90, mentre il tritolo mafioso sconvolgeva l’Italia e bagnava la Sicilia del sangue di Giovanni Falcone e di sua moglie Francesca Morvillo, di Paolo Borsellino e degli uomini delle loro scorte, c’erano pezzi di stato che trattavano con Cosa Nostra, lavorando a scambi sordidi e inconfessabili (ancora oggi) accordi. Quella verità che a Palermo e Caltanissetta è ancora soltanto un ipotesi investigativa, trova invece conferma a Firenze scritta per la prima volta, nero su bianco, nelle motivazioni di una sentenza di condanna. Per l’esattezza quella del boss Francesco Tagliavia che la Corte d’assise di Firenze ha mandato all’ergastolo lo scorso ottobre, anche grazie alle accuse del pentito Gaspare Spatuzza, per le stragi in continente del 1993. «Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quanto meno inizialmente, impostata su un do ut des», scrivono infatti i magistrati fiorentini nelle 547 pagine delle motivazioni depositate ieri aggiungendo poi che «l’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia». «Un quadro disarmante che proietta ampie zone d’ombra sull’azione dello Stato nella vicenda delle stragi», scrivono i magistrati dopo aver ripercorso le testimonianze rese dall’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, dall’ex Guardasigilli Giovanni Conso e dall’ex direttore del Dap Niccolò Amato in merito alla vicenda delle centinaia di 41bis rimossi o non rinnovati nei mesi in cui le bombe esplodevano a Milano, Roma e Firenze. Secondo i giudici fiorentini, infatti, appare «incomprensibile come apparati di governo si muovessero in un modo così incerto e scoordinato rispetto alla drammatica situazione in cui versava il Paese».
La corte fa riferimento alla revoca o al mancato rinnovo del 41 bis nei confronti di alcuni mafiosi, con decisioni che «prestano il fianco a molte considerazioni critiche per la loro singolarità e diacronia rispetto a quanto sarebbe stato da attendersi in un momento cosi’ allarmante per la vita del Paese». «Quello che sconcerta nella vicenda scrive la corte è la tempistica e il parallelismo dei percorsi tra lo sviluppo della trattativa, per come emergente dalle dichiarazioni e quei provvedimenti ablatori del regime del carcere duro, che oggettivamente, e al di là di qualsiasi interpretazione o proposito, in quel contesto potevano apparire come sintomo di un cedimento alla mafia».
BORSELLINO, OSTACOLO RIMOSSO?
Ed è proprio in quel contesto, ipotizzano i magistrati fiorentini arrivando alle conclusioni già vagliate dai colleghi di Palermo e Caltanissetta, che sarebbe maturato l’omicidio di Paolo Borsellino e degli uomini della sua scorta. Una strage che «presenta indubbiamente degli aspetti anomali». «Se borsellino affermano i giudici avesse saputo o meno dell’esistenza di una trattativa» tra stato e mafia, «che in caso affermativo certamente avrebbe avversato in ogni modo perché rappresentava la negazione stessa della battaglia condotta da sempre con Falcone, è circostanza probabile, ma ancora oggi, a quel che consta, processualmente non accertata». Certo il magistrato rappresentava un «avversario estremamente pericoloso per Cosa nostra», ma mentre Giovanni Falcone era un «obiettivo all’apice dei piani sanguinari» della mafia, «nessuno ha indicato come destinatario in quel momento delle stesse “attenzioni” pure borsellino». Tra l’altro, argomentano i giudici, «appare assai strano che Riina, che non difettava certo di intelligenza strategica, avesse rischiato di far saltare qualsiasi possibilità di intesa che dal suo punto di vista, proprio perché “si erano fatti sotto” quelli dello stato, poteva essere raggiunta con un ulteriore attentato a un giudice realizzato con lo stesso modus operandi di Capaci».
FORZA ITALIA NON FU MANDANTE
Durante il processo contro Francesco Tagliavia invece, scrivono i magistrati fiorentini, «non ha trovato consistenza l’ipotesi secondo cui la nuova entità politica, Forza Italia, si sarebbe addirittura posta come mandante o ispiratrice delle stragi». Non esclude «che una svolta nella direzione politica del Paese» arrivata con la nascita del nuovo partito, «fosse stata vista dalla mafia come una chance per affrancarsi dalla precedente classe dirigente in declino». Un’ipotesi che, scrivono ancora i giudici, «parimenti non rende impossibile che un canale di interlocuzione si fosse aperto con quel nuovo partito, o anche solo con alcuni suoi esponenti di rilievo». Il tramite, scrive la corte, potrebbe essere stato Vittorio Mangano, lo stalliere mafioso di Arcore, «ritenuto in grado di interloquire con Marcello Dell’Utri, e questo a sua volta con Silvio Berlusconi di cui si intravedeva l’ascesa politica».

il Fatto 13.3.12
Ma la Mafia non è un film di gangster
di Gian Carlo Caselli


Un classico. Finché i magistrati si occupano di Riina e soci (cioè dell’ala militare, indifendibile della mafia) tutto bene. Ma non appena ci si affaccia al livello delle possibili complicità con politici, imprenditori, medici e professionisti vari (le cosiddette “relazioni esterne”) , la musica cambia. In un attimo ci si dimentica che la vera forza della mafia non è la sua struttura gangsteristica. Il suo autentico potere sta altrove, nelle complicità, collusioni e coperture. Non indagare anche su questo versante significa fare antimafia solo a metà, rinunziando alla possibilità stessa di vincere davvero la guerra alla mafia. E l’unico strumento investigativo-giudiziario che consente di intervenire anche su questo versante è il “concorso esterno”, che si concreta quando taluno concorre – appunto – ad attività del sodalizio criminale senza farne parte come affiliato.
SENONCHÉ, chi fa antimafia utilizzando anche questo decisivo strumento deve mettere in conto che si attirerà robuste antipatie. L’ex premier Berlusconi, al riguardo, è stato un precursore, quando nell’intervista al periodico inglese Spectator e alla Gazzetta di Rimini dell’11.9.03 ha sostenuto che “a Palermo la nostra magistratura comunista, di sinistra, ha creato un reato, un tipo di delitto che non è nel codice; è il concorso esterno in associazione mafiosa”. Questo concetto è stato poi ripetuto da una schiera di epigoni del “leader” e ha finito per diventare un ritornello della canzone sui teoremi giudiziari. Per cui, sostenendo – nella requisitoria sul caso Dell’Utri – che al “concorso esterno ” (se sono precise le cronache giornalistiche) ormai non crede più nessuno, il sostituto procuratore generale della Cassazione Iacoviello forse pensava di dire una cosa originale, mentre si è trattato della replica (magari inconsapevole) di un film già visto. Un film, in verità, piuttosto surreale, perché tutti gli studiosi concordano con le parole della sociologa palermitana Alessandra Dino, secondo cui la mafia costituisce “un network potente e articolato, che comprende esponenti del mondo della politica, dell’economia e delle professioni”. Un riscontro alla teoria dello storico Salvatore Lupo, per il quale c’è una “richiesta di mafia” non solo in settori della società civile, ma anche dell’imprenditoria, della politica, del sistema economico-finanziario e di certi poteri costituiti. “Richiesta” o meno, chiunque studi l’evoluzione delle mafie constata che per realizzare i loro affari esse hanno bisogno di commercialisti, immobiliaristi, operatori finanziari e bancari, amministratori e politici, notai e giuristi. Un intreccio perverso che costituisce la spina dorsale del potere mafioso e che si può contrastare – ripeto – soltanto con la figura del “concorso esterno”. Sul piano processuale, non occorrono chissà quali studi per sapere che questa figura risale addirittura al 1875, come provano le sentenze della magistratura palermitana sul brigantaggio – e che essa fu poi impiegata nei processi per terrorismo (Brigate rosse e Prima linea) e in quelli di mafia – finché la sua legittimità è stata ripetutamente riconosciuta dalla Corte di cassazione, che ha anche stabilito rigorosi paletti garantisti.
MA A SPAZZARE via ogni dubbio ci ha pensato il pool di Falcone e Borsellino, vale a dire il massimo dei massimi in tema di contrasto della mafia, sostenendo (pag. 429 dell’ordinanza/sentenza 17 luglio 1987 conclusiva del maxi-ter) che: “Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono – eventualmente – realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili – a titolo concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa ‘convergenza di interessi’ col potere mafioso... che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”. A fronte di queste parole, ogni eventuale tentazione di riconoscere solo in teoria la pericolosità della mafia nelle sue connessioni col potere politico ed economico, per poi – nel momento di passare all’azione – limitarsi a colpirne l’ala militare, va contestata con fermezza. Anche a rischio di essere considerati come eretici o marziani. In un mondo in cui aliena – rispetto alla società – finirebbe così per diventare non la mafia, ma piuttosto l’antimafia.

il Fatto 13.2.12
Il ricordo del giudice Camassa
“Ho visto Borsellino piangere per il tradimento”
di Rino Giacalone


Il volto severo di Paolo Borsellino che, di colpo, scompare sotto lacrimoni che scorrono sul viso, il pianto di un uomo deluso, sconfortato... “tradito”, come dice lui stesso. L’assoluta dura freddezza del magistrato che svanisce mentre lui, Paolo Borsellino, si distende quasi fosse affaticato, stanco, sul divano del suo ufficio per dire tra quelle lacrime una cosa che immediatamente muore lì, in quella stanza e davanti a due suoi sostituti che erano andati a trovarlo, Alessandra Camassa e Massimo Russo, “un mio amico mi ha tradito”. Venti anni dopo non c’è un ricordo recuperato nella memoria, “perché – dice Alessandra Camassa, ex pm a Marsala con Borsellino, oggi presidente di sezione al Tribunale di Trapani – dalla memoria non è mai uscito”, ma c’è un ricordo che grazie alle indagini della Procura nissena viene registrato negli atti giudiziari, collocato temporalmente, ricordo che diventa anello di quella indagine che coordinata dal procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, sta ricostruendo ciò che andava accadendo in Sicilia e in Italia 20 anni addietro, la trattativa mafia-Stato fatta con le bombe. Per Paolo Borsellino l’autobomba collocata in via D’Amelio, il 19 luglio 1992, non fu fatta saltare in aria per vendetta o per colpire un uomo cui lo Stato credeva fermamente e quindi una “vittima” utile a Cosa Nostra per costringere lo Stato a trattare, ma il procuratore Borsellino era diventato un uomo scomodo per quello Stato che parlava con la mafia.
“QUEI MOMENTI – dice Alessandra Camassa – quella immagine di Paolo che piange e dice a me e al collega Massimo Russo (oggi assessore regionale alla Sanità in Sicilia, ndr) la scoperta che lui ha fatto di un amico che lo ha tradito, non mi hanno mai abbandonato e la stessa cosa è stata per il collega Russo. Quando è capitato di incontrarci spesso si è finito con il rammentarci in maniera reciproca di quell’episodio per chiederci cosa voleva dirci Paolo, chi era l’amico, cosa era accaduto di tanto grave che l’aveva così stravolto”. Proviamo a ricostruire quella scena. “Parlavamo di lavoro, d’improvviso lui si alzò dalla scrivania dove sedeva, fece un mezzo giro attorno al tavolo per arrivare al divano dell’ufficio, quasi distendendosi, per dirci tra le lacrime della scoperta che lo aveva sconvolto, del tradimento subito da un amico”. Lei e Massimo Russo non chiedete nulla, come mai? “Paolo Borsellino in quello stato non lo avevamo mai visto. Ci guardammo io e Massimo quasi pensando che avevamo trovato Paolo in un momento di sconforto, anche magari per una vicenda personale, non ce la siamo sentita di chiedere qualcosa di più preciso, né lui ha fatto in modo di sollecitarci in tal senso, per noi è rimasto lo sfogo di una persona turbata. Ricordo che parlavamo di cose normali, non straordinarie, certamente non potevano essere state le nostre discussioni a provocargli quel pianto, le lacrime e lo sfogo nascevano da altro”.
Sono trascorsi 20 anni per finire dove ben prima doveva finire registrato, tra le pagine di un atto giudiziario. “È successo ora – risponde la dottoressa Camassa – perché per la prima volta un magistrato ha deciso di sentire i magistrati che lavoravano con Borsellino. Se fossi stata chiamata 20 anni addietro e qualcuno mi avesse chiesto cosa era successo prima e dopo la strage di via D’Amelio, avrei raccontato quello che era accaduto e anche questo episodio che però solo dopo 17 anni ho letto sotto altra lente, potendolo bene mettere a conoscenza del procuratore Lari”. Cioè? “Ripeto – prosegue il giudice Camassa – l’episodio non mi ha mai abbandonato, ma quando all’incirca 17 anni dopo quel fatto ho cominciato a leggere degli scenari possibili dietro la strage, la trattativa Stato-mafia, e che tutto poteva essersi concentrato nel giugno 1992, ecco che quel fatto, che colloco temporalmente in quel mese di giugno 1992, mi ha di più aperto gli occhi”.
TANTA CONFIDENZA aveva con Paolo Borsellino, lui però quel nome del “traditore” non lo fece, come mai secondo lei? “Doveva essere un fatto talmente grave che probabilmente lui voleva accertarlo meglio, verificare se era vero, non mi viene da dedurre altro”. L’amico traditore può essere stato davvero il generale comandante dei Ros, Antonio Subranni? Il giudice Camassa allarga le braccia. “Nessun nome ci fu fatto da Borsellino” torna a ripetere. Uno che potrebbe dire qualcosa di più potrebbe essere l’ex maresciallo Carmelo Canale, che di Borsellino fu la sua ombra: sembra che in quel periodo andava dicendo in giro che il procuratore Borsellino doveva rivedere alcune sue amicizie dentro l’Arma, a cominciare da quella con il generale Subranni.

il Riformista 13.3.12
Rizzotto, Dell’Utri e la giustizia
di Emanuele Macaluso


Ho visto in Tv le ossa di Rizzotto depositate su un tavolo e l’emozione mi ha sopraffatto. Placido era segretario della Camera del Lavoro di Corleone negli anni in cui dirigevo la Cgil in Sicilia e in quel comune fui incriminato e poi processato, con Pio La Torre e altri, per l’occupazione dei feudi in mano alla mafia.
Con Rizzotto in quegli anni furono massacrati 36 Capi Lega, ho partecipato ai loro funerali e con molti di loro avevo avuto rapporti affettuosi: da Accursio Miraglia di Sciacca sino a Salvatore Carnevale di Sciara.
Giusta la decisione di onorare la memoria di Rizzotto con funerali di Stato. Ma, proprio in questa occasione, è bene ricordare che nessuno, dico nessuno, è stato condannato per quegli omicidi. Ci sono stati degli arresti, come per l’assassinio di Rizzotto, ma senza esito. Per l’uccisione di Miraglia, gli arrestati, tra i quali un grosso agrario, furono scarcerati, e furono severamente puniti i carabinieri che li avevano catturati. L’episodio ispirò il racconto di Sciascia, il Giorno della Civetta, di cui in questi giorni a Roma si rappresenta un’opera teatrale.
Questa gigantesca omertà, in quegli anni istituzionalizzata, è stata spiegata col fatto che la mafia era una componente del “sistema politico”: autorevoli esponenti della Dc dissero che il pericolo comunista era più acuto e incombente di quello mafioso.
Se in quegli anni si fosse applicato il “concorso in associazione mafiosa” avremmo dovuto vedere sul banco degli accusati ministri, prefetti, banchieri, alti e altissimi magistrati. Basti ricordare che in tutti gli anni cinquanta sindaco di Palermo fu Lima con assessore ai lavori pubblici Vito Ciancimino, il quale negli anni sessanta (governo di centrosinistra) venne eletto sindaco. Altro che concorso! Tuttavia, da sempre, su questo reato ho sollevato seri dubbi, insieme a tanti studiosi. Ma, il clima creato dall’offensiva stragista della mafia, non ha consentito una discussione serena del tema.
Ora, improvvisamente, la Procura generale della Cassazione ci fa sapere che oggi «nessuno crede a questo reato». Ieri, invece, fu proprio la Cassazione a sezioni riunite a dire che, anche se quel reato non ha uno specifico riferimento nel codice, va considerato tale. Su questo punto ha ragione il Procuratore aggiunto Ingroia quando dice (La Stampa di ieri) che «diverse persone sono state processate per “concorso esterno” all’associazione mafiosa. E in carcere si trovano con condanna definitiva (quindi con l’avallo della Cassazione n.d.r.) politici di rango locale, piccoli amministratori, professionisti». Ingroia, ha, quindi, buon giuoco nel dire che «il problema non è il reato, ma l’imputato. Certo tipo di imputato». Cioè Marcello Dell’Utri. Ancora una volta la Giustizia in Italia si presenta con volti diversi, negli anni cinquanta su un versante, negli anni che stiamo vivendo su altri versanti. In discussione è sempre lo Stato di diritto che dovrebbe essere tale nei confronti di tutti senza eccezione alcuna: il bracciante, l’immigrato o il potente di turno.
In una intervista alla Stampa Luciano Violante aveva detto che il “concorso esterno” è stato utile alla magistratura per «incidere nella zona grigia di chi aiuta la mafia». Ma, aggiungeva, «esso pecca di indeterminatezza, perché non individua gli specifici comportamenti che debbono essere considerati reato».
E sollecitava il Palamento a farlo, tipicizzando le condotte che si intende incriminare.
Tuttavia, uno stimato giurista come Carlo Federico Grosso (ieri sulla Stampa) pur apprezzando le intenzioni di Violante, solleva interrogativi sulla «tipicizzazione» anche perché la Cassazione ha messo paletti fermi affermando che non basta un generico rapporto tra una persona e un mafioso per configurare il reato di “concorso”, ma «occorre che abbia concretamente contribuito al rafforzamento dell’organizzazione criminale o quanto meno alla conservazione della sua forza».
Ma, caro professore, come mai dalla stessa Cassazione viene oggi detto che «nessuno crede a questo reato»? Se ci fosse una legge anziché una «enunciazione» della Cassazione, come dice Violante, i vincoli per un’interpretazione sarebbero più stretti anche per la suprema Corte. Francamente, non penso che definire con norme chiare di legge il reato di “concorso” possa suonare, come teme Grosso, una «inversione di rotta» rispetto alle intuizioni di Falcone e Borsellino, su cui tanto si discute. La certezza del diritto è il solo modo per combattere la criminalità di qualunque specie; per garantire i cittadini dagli arbìtri ; per non dare alibi a chi grida alla persecuzione come fa sempre il Cavaliere, solo per se stesso e i suoi amici.
P.s. In attesa di un ulteriore giudizio dei tribunali sulla esistenza o meno di responsabilità penali, i comportamenti di Marcello Dell’Utri e i suoi rapporti con uomini di Cosa Nostra, sono comunque politicamente è moralmente inaccettabili. Soprattutto per chi siede nel Senato della Repubblica. Perché tanta euforia tra i notabili del Pdl?

La Stampa 13.3.12
Lavoro, riparte il confronto
Camusso: “Un passo indietro”
Il governo: chiudiamo in dieci giorni. Cauti Marcegaglia e Bonanni: “Bene ma servono modifiche”
di Rosaria Talarico


ROMA È una delle partite più importanti per il governo Monti e non a caso nelle battute finali la gestirà il premier in prima persona: la trattativa sulla riforma del mercato del lavoro da lunedì si sposta a palazzo Chigi. Ad annunciarlo è stato lo stesso ministro del Lavoro, Elsa Fornero, durante l'incontro di ieri con i rappresentanti di sindacati e aziende.
Questa settimana sarà decisiva per il dossier: Fornero intenderebbe chiudere, insieme al premier, fra il 21 e il 23 marzo. L'accelerazione è dovuta all’agenda di Monti che il 25 andrà in Oriente per una visita istituzionale e vorrebbe concludere prima. Ora inizieranno gli incontri bilaterali tra il ministro e le parti sulla flessibilità in uscita, ossia il licenziamento per giusta causa disciplinato dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Oggi sindacati e parti sociali riceveranno due documenti in cui sono dettagliate le tipologie contrattuali e l'assicurazione sociale per l'impiego. L'impianto presentato dal governo prevede che l'assicurazione sociale per l'impiego sostituisca le attuali indennità di mobilità, incentivi di mobilità e disoccupazione per apprendisti, l'una tantum per i co.co.pro e altre indennità. Si applicherà a tutti i lavoratori dipendenti privati e pubblici con contratti non a tempo indeterminato. Come requisiti per accedere al sostegno si ipotizzano due anni di anzianità assicurative e almeno 52 settimane nell’ultimo biennio di lavoro. Dodici mesi per la durata, che salgono a 15 per i lavoratori sopra i 58 anni. L'importo per la simulazione ipotizzata al tavolo è di circa 1.119 euro, con abbattimento dell'indennità del 15 per cento dopo i primi sei mesi, e di un ulteriore 15 per cento dopo altri sei mesi.
L’obiettivo del governo è la riduzione dei livelli di disoccupazione del Paese, portandola al 4-5% strutturale: «un tassello essenziale ai fini della crescita», secondo Fornero «con un forte coinvolgimento del Sud, perché non c'è crescita senza equilibrio tra Nord e Sud». Ma il «metodo» fa scattare subito le reazioni sia sul fronte sindacale che imprenditoriale. «Abbiamo fatto un passo indietro» sintetizza Susanna Camusso, leader della Cgil. «Vedo solo una trattativa difficile. Siamo di fronte a un governo che dice che non c'è un sistema universale di ammortizzatori sociali che copra tutti». E per quanto riguarda l'articolo 18 «non c'è ragione per cambiare opinione». Più ottimista Raffaele Bonanni: «Stiamo facendo passi avanti verso l’intesa, ma ci sono ancora alcuni aspetti da correggere. Non ci convince affatto la transizione breve per la riforma degli ammortizzatori che anticipa lo stop alla mobilità. Con la crisi e l’aumento dell’età pensionabile provocherebbe una ecatombe sociale».
L’anticipo dell’entrata in vigore della riforma (dal 2017 inizialmente prospettato al 2015) preoccupa anche Emma Marcegaglia, che però parla di «avanzamento sui temi dei contratti e della flessibilità in entrata». Il presidente di turno di Rete Imprese Italia, Marco Venturi, punta il dito sull’«appesantimento del costo del lavoro di fatto oltre il 2%, che per le piccole imprese sarebbe inaccettabile».
In concreto è dunque molto più complicato importare in Italia il modello tedesco, spesso evocato durante la riunione per il sistema delle protezioni sociali perché metterebbe d'accordo impresa e lavoratore. Ma certo la Germania non ha l'asfittica offerta di lavoro dell'Italia e gli usi «disinvolti», specie nel Mezzogiorno, dei sussidi di disoccupazione.

La Stampa 13.3.12
Bersani resta ottimista “L’accordo è possibile”
Una modifica light dell’articolo 18 sarebbe un successo del Pd
di Carlo Bertini


ROMA Sembrerà paradossale, ma anche dopo la gelata nel Pd prevale l’ottimismo, le tensioni che scuotono il tavolo di trattative non fanno tremare un partito dove prevale la cauta fiducia che alla fine si arriverà comunque ad un accordo.
Sulla riforma del lavoro, Bersani è più tranquillo perché una modifica «light» dell’articolo 18 potrebbe anche essere rivendicata come un successo politico: se passasse infatti l’opzione alla tedesca di consentire la mobilità per ragioni economiche dando l’ultima parola a un giudice che fissi un indennizzo per il lavoratore, al Pd non andrebbe poi così male. Altra cosa è la posizione della Cgil che non dovrebbe condizionare più di tanto l’atteggiamento in Parlamento, perché il segretario del Pd è intenzionato a non far mancare il sostegno al governo Monti. Tra i leader che contano, c’è infatti chi non esclude a bassa voce l’ipotesi di «disaccordi concordati tra i sindacati»: e cioé che le parti sociali dopo una strenua battaglia, firmino insieme i capitoli di una complessa riforma (che porterà novità storiche come il reddito di disoccupazione) ; senza però una benedizione della Cgil alla parte che modifica l’articolo 18. In un quadro del genere, anche se nel Pd c’è chi in caso di strappo della Camusso vorrebbe contrapporre un veto sul lavoro ai veti del Pdl su Rai e Giustizia, alla fine prevarrà la linea soft per non sfasciare tutto. Governo e partito compreso. Perché si può star certi che i deputati più vicini a Letta, Veltroni, Gentiloni, Fioroni, e forse anche a Franceschini, non farebbero mancare il proprio sì al momento clou: e la conta dei favorevoli e contrari potrebbe minare le fondamenta del Pd.
Il segretario non solo ne è consapevole, ma confida che Monti non metterà a rischio la tenuta del governo e per questo ha deciso di trovare le risorse da mettere sul tavolo. Non a caso i messaggi che lancia Bersani sono più da moral suasion che da ultimatum. Presentando insieme a Vendola il libro di Federico Rampini sulla sinistra, il leader Pd mostra di essere in piena competizione elettorale con alleati che crescono nei sondaggi: «Non c’è cittadinanza piena senza dignità del lavoro», comincia volando alto. Per poi planare sul cuore del problema: «e sull’articolo 18? », gli chiede una voce dalla platea. «Pensi che lo voglia tradire? E’ un concetto anti-discriminazione e mi fermo qui», replica Bersani. «Chi lo vuole mettere al centro vuole lanciare un solo messaggio: risolviamo i problemi del lavoro con la deregolamentazione. No, la strada è una nuova regolazione che eviti l’eccesso di precarizzazione, sistemi di ammortizzatori universalistici, per cui servono le risorse, perché le nozze coi fichi secchi non si fanno».
Ecco, casomai il cruccio di Bersani sta soprattutto lì, sull’entità delle risorse che scarseggiano rispetto alla bisogna. Ma poi per tenersi stretto l’alleato al suo fianco, Bersani precisa che «come dice Nichi, questa recessione è pesante, pesante: cinque punti in meno di produzione industriale non sono noccioline». E riprendendo un termine usato dalla Camusso, prima chiarisce di volere un accordo condiviso da tutti e poi ammonisce: «E non scherziamo nel voler dare uno scalpo ai mercati per tranquillizzarli».
Insomma, l’affiatamento con Vendola è voluto; e palpabile quando il leader di Sel spiega che «non sono entrati in crisi i rapporti col Pd, anche se sostiene il governo Monti, perché si è capito che ha fatto una scelta dettata da generosità. Siamo divisi in questa stagione cheio spero breve». Ma dopo aver detto che una manutenzione all’articolo 18 si può fare solo sul taglio dei tempi delle cause per lavoro, Vendola lancia un’anatema che desta interrogativi sulla tenuta dell’alleanza di Vasto se la riforma del lavoro prendesse una brutta piega: «Un accordo senza la Cgil sarebbe gravissimo».

l’Unità 13.3.12
Il leader di Sel «La foto di Vasto non può essere l’alternativa»
Il segretario Pd «Vincoli di maggioranza per governare insieme»
Asse Bersani-Vendola per il centrosinistra del dopo Monti
Insieme a Roma per presentare il libro di Federico Rampini, Bersani e Vendola sembrano ormai d’accordo nell’archiviare la «foto di Vasto» e nell’immaginare il centrosinistra del dopo Monti senza chiusure ai moderati
di Simone Collini


E se fossero Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola ad archiviare la foto di Vasto? La notizia non è tanto nell’arrivo di una nuova istantanea limitata al leader del Pd e a quello di Sel, che ieri hanno presentato insieme a Roma il libro di Federico Rampini “Alla mia sinistra”.
Il fatto è che i due si stanno vedendo riservatamente con una frequenza che non ha precedenti. Argomento degli incontri, compreso quello della scorsa settimana, non tanto le amministrative di maggio ma le prossime politiche e la necessità di lavorare con un’altra intensità alla definizione di un’alleanza di centrosinistra in grado poi di aprire a forze moderate e di centro. Insomma, la famosa coalizione di progressisti e moderati a cui punta Bersani, il quale da Vendola avrebbe ricevuto la disponibilità a stringere i tempi sul confronto programmatico e l’impegno a non porre veti nei confronti di Pier Ferdinando Casini.
ALFANO IRRESPONSABILE
L’accelerazione non risponde tanto alle ultime mosse del Pdl e al rischio che si vada alle urne in tempi ravvicinati. Bersani ha sì visto che «Alfano solleva molti temi polemici come se fossimo in campagna elettorale».
Ma sebbene denunci che «è da irresponsabili accendere dei fuochi in un momento in cui bisogna comunque mandare avanti il governo», non reputa possibile che qualcuno si assuma la responsabilità di far cadere Monti. Che il presidente del Consiglio abbia convocato per giovedì a Palazzo Chigi i leader di Pd, Pdl e Udc, per un incontro in cui si dovrebbe discutere anche di giustizia e Rai, è per Bersani un buon segnale. Ma ce ne sono altri di segno opposto. Come il fatto che il Pdl, nel momento in cui si è aperta la discussione su una nuova legge elettorale, ha rilanciato con le riforme istituzionali, mettendo tanto materiale davanti alla riforma del Porcellum: «Se dovesse restare questa legge io non accetterò di nominare i parlamentari e il Pd farà primarie di collegio», assicura Bersani. Un’idea che piace anche al leader di Sel.
L’incontro pubblico di ieri al Tempio di Adriano si spiega meglio, alla luce degli ultimi incontri tra Bersani e Vendola. La presentazione del libro di Rampini che parte dall’illusione del liberismo progressista in voga nel decennio scorso e termina sulla necessità di recuperare gli ideali tradizionali della sinistra è l’occasione per mostrare una sintonia tra il leader del Pd e quello di Sel, che può reggere anche di fronte al diverso atteggiamento che i due partiti hanno nei confronti del governo. Sull’articolo 18 concordano che è possibile solo una “manutenzione” riguardante i tempi delle cause processuali, sull’Europa sono entrambi critici col trattato riguardante la disciplina di bilancio (il cosiddetto Fiscal compact) e sottolineano invece la necessità di investimenti e politiche per la crescita, sulla crisi italiana concordano che il pericolo viene non tanto dai dati della finanza (lo spread) quanto da quelli dell’economia, a cominciare dalla perdita di diversi punti percentuali nella produzione industriale. Vendola promette che nei prossimi mesi «non farà sconti» a Monti, ma assicura anche che questo non determinerà «un elemento di crisi nei rapporti col Pd, che ha fatto una scelta dettata dalla generosità». Dice il leader di Sel: «Noi siamo divisi in questa stagione ma speriamo che la stagione sia breve». Perché poi si concretizzerà la foto di Vasto? No: «Quella non può essere la foto dell’alternativa. Era solo la foto dell’incontro tra tre leader di partito che sono peraltro tutti maschi. E non c’è alternativa se non mettiamo in discussione il maschilismo».
L’AGENDA
Bersani e Vendola concordano anche sul fatto che si debba iniziare a lavorare con un ritmo più accelerato alla definizione di un’agenda del centrosinistra. Il primo parla della necessità di una «scossa civica», di una «politica economica di crescita sostenibile», di un’azione di «redistribuzione».
Il leader del Pd chiede però anche patti chiari ai futuri alleati: «Se diciamo centrosinistra di governo, dobbiamo fare un patto esigibile che comprenda il programma, ma anche dei vincoli reciproci di governabilità, di stabilità del sostegno parlamentare. Se abbiamo un dissenso su un punto, si vota in assemblea congiunta dei gruppi e quel che viene deciso si fa». Vendola è d’accordo, ed esplicita anche che da lui non verrà nessun veto nei confronti di Casini: «Discutiamo nel merito dell'agenda, non dividiamoci prima sulle biografie».

l’Unità 13.3.12
«Alleanza larga e patti chiari per tutti. Di Pietro si decida»
«Il nostro programma non potrà non partire dalla crisi economica e sociale. Impensabile allearsi e poi fare un referendum su ogni scelta»
di Maria Zegarelli


Sarebbe un errore imperdonabile per il Partito democratico chiudersi in un recinto troppo stretto», dice Andrea Orlando, responsabile Forum Giustizia, mentre lascia Napoli (in qualità di commissario Pd è stato ascoltato dalla procura come persona informata sui fatti dai magistrati che indagano sulle primarie) per raggiungere Ventimiglia.
Orlando, per il Pd le “praterie” sono a sinistra, come ha detto Dario Franceschini all’Unità, o al centro?
«Il Pd deve guardare sia a sinistra sia al centro».
Detta così sembra facile, ma nel suo partito non tutti la pensano allo stesso modo.
«Io starei molto attento a delimitare confini troppo stretti. Noi dobbiamo dialogare con tutte le forze che hanno dichiarato di voler far parte del centrosinistra, ovviamente con paletti precisi, sulla base di un programma di governo che sia chiaro, percepibile. Non si può pensare di allearsi e poi andare al referendum ogni volta che si devono prendere decisioni. Il programma di governo non potrà non occuparsi dei temi che sta mettendo in primo piano questa crisi e che riguardano le fasce più deboli ed esposte della società, dalla questione economico-sociale a quella occupazionale. Si tratta di temi su cui dobbiamo confrontarci con le forze che stanno a sinistra e tutti insieme dobbiamo avere una capacità di critica sul modello di sviluppo che immaginiamo per il Paese. Ma devo aggiungere che alla nostra sinistra io vedo soltanto una forza, Sel».
L’Idv dove la colloca?
«Sicuramente non a sinistra, ho difficoltà a farlo. L’Idv ha caratteristiche parzialmente diverse. Non dico che dobbiamo chiudere al dialogo ma non posso nascondere le distanze che ci sono con una forza che prima vota la fiducia al governo Monti e poi si pone all’opposizione, sempre, e molto spesso sembra opporsi più al Pd che al governo. I prossimi mesi saranno cruciali per dimostrarsi come forze di governo. Ogni giorno in cui l’Idv privilegia l’idea di lucrare qualche voto, smarcandosi dal Pd e non assumendosi la responsabilità di prendere decisioni per il bene del Paese, rende difficile la costruzione di un’alleanza. Non si può pensare di attaccare il Pd e poi sedersi intorno ad un tavolo in vista delle elezioni».
Vendola ha detto che la foto di Vasto non può essere la foto dell’alternativa. Era la foto di tre leader.
«Quella foto è un nucleo di partenza, che resta. Tuttavia si deve lavorare per allargare la panoramica, aprendo alle forze della società e caratterizzarla come proposta di governo. Penso che sia interesse di tutti costruire un’alleanza tra progressisti e moderati rendendola credibile per guidare il prossimo governo».
Eppure c’è chi, anche nel suo partito, accarezza l’idea di un Monti Bis. «Uno dei leit motiv di questi ultimi tempi è che dopo Monti nulla sarà più come prima. È vero, non ci sarà più la contrapposizione tra berlusconismo e antiberlusconismo, in questo senso non sarà più come prima. Si tornerà a parlare dei problemi del Paese e non di una persona, ci si confronterà sul merito delle proposte rispetto alla crisi. Sono cambiate molte cose, si è tornati ad una sobrietà di cui non c’era più traccia, ma detto questo, pur augurando a Monti tutto il successo possibile, non si può pensare che dopo il governo dei tecnici si possa prescindere dal bipolarismo europeo. Le forze politiche dovranno pronunciarsi sul ruolo dell’Europa, sulle politiche economiche, sulla crescita, rimettendo in circolo una sana competizione, come accade nel resto d’Europa, tra forze conservatrici e forze progressiste. E oltre a questo discrimine ce ne sarà un altro in entrambi gli schieramenti: nel centro sinistra tra una proposta riformista e populismi regressivi. È bene per questo che ognuno dica da che parte sta».
In realtà già adesso i toni sono da campagna elettorale. Alfano cerca di distinguersi da Pd e Terzo Polo e punta i piedi su temi non da poco come per esempio la giustizia e l’informazione.
«Io non penso si tratti soltanto dell’inizio della campagna elettorale. Credo che ci sia anche il rapporto con il governo, per come questo esecutivo sta rimettendo al centro dell’azione politica il bene del Paese, pur non senza qualche contraddizione. Il Pdl è stato e resta un partito diviso tra l’aspirazione di essere un partito liberale di massa e contemporaneamente un partito a tutela degli interessi del suo fondatore e questo governo sta facendo esplodere questa contraddizione».
Orlando, forse neanche il Pd è riuscito a risolvere le proprie. Dopo due anni dalle primarie continuate a discutere della leadership alle prossime elezioni.
«Il Pd ha dimostrato sin dalla sua nascita una certa propensione a complicarsi la vita, ma credo che un leader legittimato da tre milioni di persone sia un punto di forza di partenza sia per noi sia per la coalizione».

l’Unità 13.3.12
Democrazia compiuta? Difendere i giornali
di Domenico Petrolo, Luca Di Bartolomei


Ricordate i post-it gialli nelle mille immagini della rete? Era la campagna contro la legge bavaglio. Sembra sia passato tanto tempo e invece... Sì, Berlusconi non è più premier e non ci sono più le leggi liberticide (anche se ogni tanto la tentazione riscappa fuori) eppure non tutti i mali che affliggevano la nostra informazione sono passati. Il rapporto sulla libertà di stampa di Freedom House del 2011 pone l’Italia al 75 posto, prima di noi persino Benin e Giamaica. Allo stesso modo Reporter Sans Frontieres del 2011 pone l’Italia al 61 posto. Certo, è vero che questi rapporti si riferiscono al 2011, in piena epoca berlusconia-
na.
Ma da molti punti di vista i primi mesi del 2012 non sono iniziati sotto i migliori auspici. Qualche esempio: il leghista Fava aveva proposto un emendamento per obbligare gli hosting provider ad applicare un monitoraggio preventivo, e sarebbe stata sufficiente la denuncia di un qualsiasi soggetto per costringere gli Isp a rimuovere i contenuti online. Sostanzialmente avremmo avuto una censura arbitraria e preventiva dei contenuti della rete. Secondo esempio. La Magneti Marelli nelle scorse settimane aveva deciso di far rimuovere dalla bacheca aziendale “l’Unità”: azione rientrata solo dopo una mobilitazione che ha coinvolto esponenti politici, sindacalisti, opinionisti, operai giunti in fabbrica con una copia del giornale in tasca e migliaia di semplici lettori.
Ancora nel prossimo giugno con il passaggio al digitale terrestre decine di tv sparse sul territorio rischiano la chiusura. In questo modo si rischia di impoverire il nostro Paese di voci locali in grado di capire la realtà circostante e raccontarne i problemi più di qualunque altro media nazionale. Lasciateci citare per tutte l’esempio della tv antimafia Telejato, resistita per anni alle intimidazioni della criminalità organizzata, rischia oggi di chiudere per mano dello Stato. L’ultimo, più duro, capitolo riguarda i giornalisti minacciati. Secondo il rapporto di «Ossigeno per l’informazione», osservatorio di Fnsi, nel 2011 si sono registrati 95 episodi che hanno coinvolto ben 325 giornalisti. Nei primi mesi del 2012 i giornalisti coinvolti sono già 88.
Non si tratta solo di casi che riguardano le regioni di tradizionale insediamento mafioso. Nei primi mesi dell’anno è esploso il caso di Giovanni Tizian, il giornalista della Gazzetta di Modena, le cui inchieste sull’insediamento della criminalità organizzata in Emilia Romagna danno fastidio «ai nuovi imprenditori». Per questo, oltre a lavoro quotidiano, come dipartimento informazione e dipartimento sicurezza del Pd, abbiamo promosso per giovedì e venerdì prossimi in Calabria (a Reggio e Catanzaro) l’iniziativa nazionale «Il Pd per la libera informazione». Una due giorni a cui daranno il contributo i direttori di diverse testate giornalistiche, i rappresentanti di varie associazioni da Libera a Ossigeno, i giornalisti che vivono sotto scorta come Rosaria Capacchione a Pino Maniaci. A chi discute sulla qualità dell’informazione nel nostro Paese viene da rispondere che prima è necessario sostenere la libertà d’informazione, affinché sia sempre più una democrazia compiuta.

Repubblica 13.3.12
Quei duemila bambini in provetta nati grazie alla Corte costituzionale
Fecondazione assistita, boom dopo la sentenza sulla legge 40
I principali paletti sono stati abbattuti La prossima frontiera riguarda l´eterologa
di Vera Schiavazzi


Almeno duemila bambini in più nascono ogni anno nell´Italia del calo demografico, grazie a una sentenza della Corte Costituzionale, quella che nel 2009 ha scardinato i paletti della legge 40. Sono questi i dati che il ministro della Salute Renato Balduzzi ha sul suo tavolo da fine febbraio, quando l´Istituto Superiore di Sanità glieli ha consegnati. Il governo voleva sapere che cosa era accaduto nel 2010 e nel 2011, gli anni nei quali i centri di procreazione assistita hanno potuto lavorare di più e meglio, aumentando del 20% i propri successi. E le risposte dei centri specializzati non si sono fatte attendere. «Otteniamo una gravidanza in più ogni 5-6 trattamenti - spiega Filippo Maria Ubaldi, direttore del Centro di medicina della riproduzione Genera, a Roma - È una percentuale enorme, che aumenta se si considerano le pazienti al di sotto dei 39 anni: non si può generalizzare, per questo è impossibile calcolare se le nascite in più siano duemila, o se il numero sia assai più grande. Nel caso delle giovani la percentuale di gravidanze a termine rispetto al numero di ovociti che otteniamo con le normali stimolazioni sale fino al 17 per cento in più rispetto agli anni nei quali la legge 40 era applicata nella sua versione originale».
Dopo che la questione era stata sollevata da diversi tribunali italiani, la Corte Costituzionale, il 1° aprile del 2009, ha deciso che non erano legittime quelle parti della legge sulla fecondazione che stabilivano l´obbligo di trasferire nell´utero della paziente tutti gli embrioni fecondati fino a un massimo di tre. Dopo la sentenza, la scelta è tornata nelle mani del medico che, d´accordo con la donna, deve stabilire caso per caso le terapie migliori, può conservare gli embrioni in eccesso e può valutarne lo stato di salute, che gli aspiranti genitori hanno diritto a conoscere. «Sotto i 40 anni - conclude Ubaldi - non è sensato trasferire oltre due embrioni. Grazie a questa sentenza, e alle correzioni apportate a una legge con forti elementi anti-scientifici, le rischiose gravidanze trigemellari si sono ridotte fin quasi a scomparire». Oggi il medico (e i tecnici di laboratorio, decisivi in questo campo) hanno il diritto di scegliere. E di non reimpiantare un embrione poco vitale e che quasi certamente non diventerà un bambino. Aggiunge Andrea Borini, alla guida di un altro centro di eccellenza, il Tecnobios di Bologna: «Oggi trasferiamo meno embrioni e otteniamo un numero eguale di gravidanze senza parti gemellari, e dunque senza problemi di salute per la donna e per i nascituri. Bisogna guardare ai numeri del registro dell´Istituto superiore di sanità. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale, noi medici siamo più tranquilli: sappiamo che non creeremo danni da gravidanze multiple, e che potremo conservare gli eventuali embrioni che si decide di non trasferire subito». Quanto conta per i medici italiani la discussione, ormai vicina, sulla fecondazione eterologa davanti alla Corte Costituzionale? «Molto, perché vietarla significa discriminare dei cittadini. A meno che non si voglia sostenere che una donna che ha sposato un uomo sterile debba avere un rapporto sessuale con un estraneo se vuole avere un figlio…», conclude Borini.
Ora nasce un figlio in provetta in più ogni sei: è il dato diffuso anche al nord. «Sono cifre - dice Alberto Revelli, docente del Dipartimento di Ginecologia dell´Università di Torino - che mostrano ciò che abbiamo sempre sostenuto, e cioè che la legge 40 così come era all´origine non consentiva di operare nel modo migliore. E altrettanto confortante è il fatto che nessuna donna debba sottoporsi all´embrioriduzione». E cioè alla pratica (4 casi a Torino solo nel 2009) di sopprimere un feto su tre, nelle prime dodici settimane di gravidanza, dopo essersi sottoposte alla fecondazione assistita.
Ora lo sguardo dei medici, delle donne e delle coppie che cercano un figlio, è rivolto di nuovo alla Corte Costituzionale che il 22 maggio dovrà decidere sulla fecondazione eterologa. E cioè dirà se chi è nato sterile, o lo è diventato dopo una malattia, può ugualmente diventate madre, o padre, oppure no.

Repubblica 13.3.12
Filomena Gallo, avvocato e segretario dell´associazione "Luca Coscioni", tra le prime a sollevare il problema
"Le coppie sterili discriminate e costrette a emigrare"


«Ci auguriamo che la Corte voglia dichiarare l´incostituzionalità di quell´articolo della legge 40 che vieta la fecondazione eterologa. Così si discriminano le persone e le coppie sterili rispetto a quelle che soffrono soltanto di infertilità, e si nega loro l´unica terapia possibile, cioè la donazione di gameti esterni». Filomena Gallo, avvocato, segretario nazionale dell´associazione "Luca Coscioni", ha sollevato tra i primi il problema davanti al Tribunale di Firenze. Ora il quesito posto dai giudici fiorentini, ma anche da altri di Milano e Catania, è sul tavolo della Corte Costituzionale, che lo discuterà il 22 maggio.
Che cosa accadrebbe se la vostra tesi venisse accolta?
«Sarebbe sufficiente tornare alle norme in vigore fino al 2004, che prevedevano già la donazione, senza commercio, dei gameti in eccesso da parte delle coppie in trattamento per avere un bambino. La legge di allora, una tra le più avanzate del mondo, indicava anche il numero massimo, tre, di gravidanze che si potevano ottenere dallo stesso donatore o donatrice».
Ora invece che cosa fanno le coppie sterili?
«Chi può permetterselo va all´estero. Come denuncia la European Fertility, il turismo della provetta italiano svuota le banche dei gameti, specie nel´Est, e sottopone a uno sfruttamento commerciale le donatrici».
La coppia di Firenze che lei rappresenta che cosa si aspetta?
«Vogliono avere un figlio in piena sicurezza nel loro paese».
(v. s.)

Repubblica 13.3.12
Il diritto di procreare
di Michela Marzano


C´è voluta una sentenza della Corte Costituzionale perché gli italiani potessero riappropriarsi di un proprio diritto. Eppure è successo, e questa è comunque una bella notizia. Tante coppie che desideravano avere un bambino hanno potuto realizzare i propri sogni. E decisioni delicate e fondamentali, come quella di iniziare un processo di fecondazione artificiale, hanno cominciato a poter essere prese dai diretti interessati, invece di essere codificate a tavolino sulla base di criteri ideologi. Da poco più di due anni, è il medico che può finalmente stabilire quanti embrioni trasferire nell´utero di una paziente e quanti invece congelare per un utilizzo ulteriore.
E non è poco, visto che la legge 40 prevedeva di trasferire sempre e comunque tre embrioni, indipendentemente dallo stato di salute di una donna.
Due anni dopo i dati sono una conquista e una felicità per tante donne, per tante famiglie. Avere un figlio è un percorso possibile e non per forza un cammino doloroso. Certo, la strada da percorrere prima di poter parlare di "autodeterminazione" è ancora molto lunga. Nonostante i progressi, resta il problema della fecondazione eterologa, ossia di quelle tecniche ormai molto diffuse in tutta Europa che permettono anche a coppie sterili di avere figli. Permane quest´idea ormai desueta che il dono di sperma o di ovuli introduca in una coppia il «fantasma dell´adulterio» e che solo il patrimonio genetico di una coppia possa poi permettere a due persone di diventare i «genitori veri» di un bambino.
Siamo un paese in ritardo, eppure in movimento. Un paese che in passato favoriva chi poteva permettersi un viaggio all´estero e pratiche inconfessabili ma che oggi, lentamente, sta dando più possibilità a tutti. Perché è evidente che la parola «procreazione» scarnifica un desiderio che, in qualche modo, va ascoltato. Senza barriere e pregiudizi. Chi ha bisogno di ricorrere a queste tecniche lo fa, spesso, dopo riflessioni, tormenti e difficoltà. Il ruolo dei genitori non è mai semplice, ed esistono mille modi diversi di vivere la propria maternità o la propria paternità, indipendentemente da come avviene. Quando sentiamo le storie di chi vuole un figlio, sentiamo mille vite diverse, mille modi differenti di desiderare e di sognare. E se è difficile giudicare i sogni degli altri, è bello festeggiarne i diritti e le opportunità, nuove, che oggi stanno cominciando a realizzarsi. D´altra parte se si vuole un figlio solo per colmare un vuoto è evidente che questo può condizionarne la crescita: ma non è certo l´inseminazione artificiale a produrre questi problemi.
Come spesso accade quando si parla di una possibilità che la scienza o la medicina mettono a nostra disposizione, anche in questo caso tutto dipende dall´uso che se ne fa. Non è forse soprattutto un modo di correggere un´ingiustizia e di promuovere l´uguaglianza tra coppie sterili e coppie che invece non hanno alcun problema ad avere figli? Perché la sterilità dovrebbe vietare ad un uomo o una donna di diventare genitori? Non si tratta di fare un´apologia del «tutto è possibile», ma di aprire un orizzonte per tanti. E non solo per chi ha i mezzi per fare del «turismo procreativo».

il Fatto 13.3.12
L’anima nera dei ragazzi della Roma bene
Fascisti e picchiatori: le bande che nessuno vuole fermare
di Silvia D’Onghia


L’abbigliamento e l’atteggiamento sono sempre gli stessi: capelli rasati, anfibi, caschi neri, cinghie in mano, mazze e bastoni. Facce da ragazzini della media borghesia, modi da bulli, anzi da “coatti” di estrema periferia. Girano in bande più o meno organizzate, se la prendono con i rivali, gli “antifà”, ma anche con chi osa disturbare la quiete di un quartiere considerato di loro proprietà. Non guardano in faccia nessuno e picchiano, con le spranghe e coi caschi. Provocano ecchimosi e contusioni, rompono setti nasali e, se qualcuno non li ferma, sono in grado di mandare la gente in coma. Sono il nuovo volto dell’estrema destra romana, gruppi in parte riconducibili a movimenti organizzati. Sono nelle scuole. Quelle considerate “buone” nei quartieri della Roma bene, il Kennedy, il Giulio Cesare, il Tasso, il Righi. L’episodio accaduto venerdì scorso in quest’ultimo istituto, dove due studenti sono finiti in ospedale col naso rotto dopo un’aggressione (o una rissa, le indagini sono ancora in corso) ad opera di militanti di ControTempo, è solo l’ultimo di una scia di violenze che nessuno pare voler contrastare. ControTempo è un movimento nato un anno fa, e non ancora registrato, che conta una cinquantina di aderenti, in gran parte liceali, che si ispirano alla “sovranità nazionale d’annunziana, ai moti risorgimentali e a Roma, dove sono nati i diritti”, spiega uno dei leader “anziani”.
SENZA VOLER tornare con la memoria al giugno 2009, quando (come il Fatto ha raccontato) durante un’irruzione squadrista alla Camilluccia era presente come testimone anche il figlio del sindaco Alemanno, eletto nel Blocco Studentesco di CasaPound, basta scorgere gli archivi dell’ultimo anno per capire quanto le bande dilaghino senza che nessuno, nè la polizia nè la politica, faccia nulla per fermarle.
Il 26 aprile 2011 un gruppo di una quindicina di appartenenti ai collettivi è stato aggredito a Talenti, in quella che è sembrata una spedizione punitiva. Qualche giorno più tardi, l’8 maggio, su un muro di piazzale degli Eroi e sulle saracinesche del Pdci sono apparsi svastiche e striscioni “realizzati con il retro di manifesti di Forza Nuova”, hanno detto i militanti del partito. Il 7 giugno i carabinieri hanno arrestato il 26enne Stefano Schiavulli, leader di Militia, con le accuse di sequestro di persona, rapina e lesioni. L’anno prima era già stato arrestato perchè indagato, insieme con altri tre esponenti dell’organizzazione, per apologia del fascismo, diffusione di idee fondate sull’odio razziale ed etnico e violazione della Legge Mancino. Il 26 giugno 2011 Roma si è svegliata con un altro incubo: il giovane musicista Alberto Bonanni era stato aggredito e pestato a sangue la sera prima nel rione Monti da un “branco” che voleva marcare il proprio territorio. Cinque gli arresti, ragazzi “difficili” li hanno definiti. Sulle loro pagine Facebook saluti romani e fede giallorossa, in un binomio che confonde l’ideologia con lo squadrismo da stadio. Alberto è ancora in coma. Il 3 novembre cinque militanti del Pd sono stati aggrediti mentre affiggevano dei manifesti in via dei Prati Fiscali, zona nord di Roma. Per quel pestaggio è finito in carcere Andrea Palladino, dirigente di CasaPound, per il quale il pm Minisci ha chiesto il rito immediato: lesioni personali aggravate, violenza privata e porto d’arma impropria i capi d’imputazione. Il 12 novembre teatro di una spedizione punitiva è stato il liceo Socrate alla Garbatella. Ci avevano già provato una settimana prima, fermandosi però all’angolo con caschi e cinture in mano. Il 14 dicembre i carabinieri hanno eseguito cinque arresti e una decina di perquisizioni contro esponenti di Militia accusati di azioni contro la comunità ebraica. Ostia è stata invece il teatro di una ma-xi rissa tra centri sociali e CasaPound il 24 febbraio: bastoni e manganelli, tre feriti e 24 fermati, 17 dei collettivi e 7 dell’organizzazione che fa capo a Gianluca Iannone. Un’organizzazione che ogni volta si dice estranea ai fatti.
“Un augurio sincero a tutti i camerati che ancora credono, soffrono e combattono silenziosamente nelle sezioni, nelle piazze, nelle lunghe notti fra l’odore della colla o dentro le celle fredde delle patrie galere, ai camerati che sono morti per l’idea e ancora marciano con noi”. Così scrive sulla sua pagina Facebook Lotta Studentesca, il gruppo giovanile di Forza Nuova.

l’Unità 13.3.12
Le quattro missioni e i sogni cattivi del marine di Seattle
Veniva dalla «caienna» di Lewis-McChord ed era già passato attraverso gli orrori dell’Iraq. Molte resistenze nell’esercito
a chiedere aiuto per i disturbi da «Sindrome del Vietnam»
di Martino Mazzonis


Undici anni nell’esercito, tre missioni in Iraq, da poco arrivato per la prima volta in Afghanistan. Sposato, intorno ai 30 anni, padre di tre figli. Questo è quanto sappiamo del sergente di stanza in un villaggio nei pressi di Kandahar, una delle zone peggiori dove si può finire se si parte per la guerra ai talebani. E probabilmente proprio le tre missioni, la lunga esperienza, hanno determinato la destinazione dell’uomo che di colpo, senza che fosse successo nulla, ha abbandonato la sua postazione, si è allontanato dalla base ed ha preso ad uccidere chiunque incontrasse sulla sua strada. Uomini, donne e bambini. Per poi dare fuoco ai corpi, tornare alla base e consegnarsi. Ora è agli arresti nella base di Kandahar, le autorità militari Usa assicurano che verrà processato e condannato.
Era impegnato in una missione di stabilizzazione dei villaggi, durante la quale le forze speciali Usa stabiliscono rapporti con le autorità locali, organizzano la polizia, danno la caccia ai leader talebani della zona. In teoria, quindi, quel villaggio dove ha fatto la strage, il sergente lo conosceva. Ma forse il problema è di altro tipo.
Il sergente viene da quella che il giornale militare Stars&Stripes definisce la peggior base dell’esercito, la Lewis-McChord, nei pressi di Seattle. Da qui veniva la squadra che ha ucciso volontariamente tre civili nel 2010 e qui in molti si sono suicidati.
I soldati Usa sentono che la fine è vicina. Sanno che il ritiro è di fatto già cominciato mentre l’opinione pubblica non sostiene più il loro sforzo: l’ultimo sondaggio pubblicato due giorni fa dal Washington Post dice che per il 60% la guerra non vale la pena di essere combattuta. Per questo diventa sempre più difficile trovare un motivo per passare le proprie giornate avendo paura di essere ammazzati. E così capita che si dia fuoco al Corano un atto grave per le ripercussioni diplomatiche, ma non barbaro o che escano e facciano la peggior strage che si poteva immaginare.
Disturbo post traumatico da stress, depressione, ansia, disturbi del sonno e alimentari. Di questo spesso soffrono i veterani tornati dal fronte, afghano o iracheno che sia. Non stanno bene e non riescono a parlarne. Oppure ci provano, ma qualche ufficiale spiega loro che chiedere assistenza psichiatrica rischia di essere un boomerang per la promozione. Come racconta Ethan McCord, veterano dell’Iraq e protagonista di Incident in new Baghdad, documentario candidato all’Oscar. Ethan ha assistito alla strage divenuta famosa a causa di un video diffuso tramite Wikileaks. Ha raccolto due bambini ancora vivi ed è riuscito a salvarli. «Pensavo ai miei figli, mentre me li tenevo stretti». Dopo quell’episodio e dopo aver dovuto fotografare le immagini della devastazione lasciata sul campo dal fuoco di un elicottero Apache, Ethan è caduto in depressione. Non sapeva più cosa stesse a fare in guerra, era perso. Ed ha chiesto di poter parlare con uno psichiatra. Gli hanno fatto capire che era meglio non farlo. Era una cosa da codardi: «Non fare il recchione» gli disse il suo ufficiale. Da allora ha solo pensato a riportare la pelle a casa e a bere. Sbraitava contro i suoi sottoposti e, tornato a casa, urlava per un niente contro i suoi figli.
Come Ethan, che ha avuto il coraggio di raccontarlo davanti a una telecamera, migliaia di veterani e soldati ancora al fronte. Le statistiche dei servizi del Pentagono dicono che i casi di disturbi mentali sono in grande aumento. Nonostante gli ufficiali. Le statistiche parlano di un militare su dieci con traumi psicologici da guerra. Un numero che triplica se le missioni sono tre.
Il sergente stragista era alla sua quarta missione. E forse, come ha detto anonimamente un ufficiale medico alla rivista Time parlando di un altro caso, era uno di quelli che non avrebbero mai dovuto essere arruolati, i tanti che finiscono al fronte che avevano gravi problemi in precedenza.

La Stampa 13.3.12
Kabul: processate qui il sergente assassino
I taleban: vendetta. L’Abc: il killer aveva sofferto danni cerebrali
di Giordano Stabile


Al telefono Obama, in viaggio nel Maryland, chiama il presidente Karzai per esprimergli «il suo shock e la sua tristezza» e ribadire l’impegno a fare piena luce sui fatti A destra soldati dell’esercito afghano fanno la guardia alla base Usa di Panjwai nel distretto di Kandahar
Sposato, con tre figli, sulla trentina. Sono i pochi dettagli che emergono del sergente assassino. Era alla sua prima missione in Afghanistan, lasciano trapelare i comandi militari americani, ma aveva grande esperienza, era stato tre volte in Iraq. «Ha agito da solo», ribadiscono. Sul perché abbia deciso di compiere la strage, sul perché abbia scelto proprio quelle famiglie nei villaggi di Alkozai e Balandi Pul, nulla. La tv Usa Abc ha però rivelato che il miltare era stato ferito alla testa in precedenza e «aveva riportato danni cerebrali».
Di certo ha agito con freddezza psicotica. Un testimone Mohammed Zahir, 26 anni, ha raccontato ieri di una «ricerca sistematica» delle vittime da parte del sergente: «Passava di stanza in stanza, come se stesse cercando qualcuno. Poi si è inginocchiato e ha sparato col fucile. Mio padre è rimasto ferito alla coscia». Washington punta a un’inchiesta rapida per circoscrivere i danni, evitare gli scontri sanguinosi seguiti al rogo dei Corani nella base di Bagram.
Stessa preoccupazione dei vertici afghani. Domenica aveva parlato «di crimine imperdonabile» il presidente Hamid Karzai. Ieri si è espresso il Parlamento, la Loya Jirga: «Abbiamo perso la pazienza. Chiediamo e ci aspettiamo che il governo americano punisca i colpevoli, li faccia processare in un tribunale davanti al popolo afghano». Il Pentagono ha già detto no. Più radicali i propositi dei taleban, che hanno annunciato azioni di rappresaglia contro gli americani «malati di mente»: «Vendicheremo ognuno dei martiri uccisi selvaggiamente dagli invasori», si legge sul sito Internet degli insorti.
Gli studenti coranici contestano anche la tesi del caso isolato di follia. E fra la gente comune, anche quella più ostile agli islamisti, cresce l'incredulità su come sia stato possibile che un soldato, all’interno di una base, abbia potuto agire con tanta facilità: «C'è come minimo una grossa responsabilità dei suoi superiori - protesta Mohammad Abdul Hashim, originario della provincia di Kandahar, da tre mesi all’Università di Quetta, in Pakistan, per laurearsi in Media e comunicazione -. Come ha fatto? Chi lo doveva controllare? ». Per Mohammad, però, ancora più gravi di quello che comunque sembra una atto di follia, sono i raid occidentali sui villaggi: «Non vogliamo il ritorno dei terroristi. Hanno fatto stragi per 40 anni. Ma la Nato deve fermare i raid. Troppe vittime civili». Il ritiro? «Adesso non è possibile. Ma la data dovrà essere decisa da noi, dalla nostra Jirga».
A Nord, nella capitale, c'è invece la sensazione che la situazione stia sfuggendo di mano a Karzai. «Prima i raid, poi il Corano bruciato, ora questa strage. Non ha più l’autorevolezza per trattare con gli americani - commenta Zaki Ahmad Kegkeni, di origine tagika, insegnante di inglese nella capitale afghana e traduttore -. I suoi amici pashtun del Sud vogliono che rompa definitivamente e adesso hanno l'occasione buona. Rischiamo di ritrovarci in mano ai taleban».

il Fatto 13.3.12
Ti bombardo però non inquino
di Maurizio Chierici


Gli Stati Uniti stanno per lanciare sul mercato delle guerre un carro armato “verde”, Gcv costruito dalla Bae System. Leggero, veloce, un lampo se confrontato ai pachidermi che ciabattano in Afghanistan. Pesa “appena 63 tonnellate. Diesel ibrido che fabbrica elettricità e può sorprendere “silenziosamente il nemico con 12 militari a bordo”. Costa tre volte più dei tank normali, sacrificio necessario per contenere le emissioni che “avvelenano la natura accelerando un cambio climatico dalle conseguenze imprevedibili”. Insomma, per far respirare il mondo gli Usa, contrari all’impegno di Kyoto, cambiamo i carri armati. Non si sa se ridere o piangere. Si può scegliere fra taglie diverse: modello mignon, modello extra large, dai 12 a 17 milioni di dollari, ma il vantaggio di bombardare senza spargere polveri sottili dovrebbe consolare ambientalisti e spettatori delle guerre televisive che arrivano col Tg sul piatto della cena: nuvole di gas scaricate dai carri con i cannoni in fiamme. Appetito addio. Finalmente si può bombardare senza inquinare. Nessun governo Nato potrà rinunciare alla modernizzazione delle forze armate, un po’ per mantenere la dignità tecnica degli apparati di difesa evitando di ammorbare l’aria delle popolazioni sotto tiro; un po’ perché le armi made in Usa sono parte del nostro patrimonio culturale. Non possiamo perdere il passo anche se l’aggiornamento stringe la cinghia al mondo libero angosciato dal ritorno alla povertà. Facendo bene i conti, le risorse si possono trovare. Stiamo risparmiando sui cacciabombardieri F35, 131 prenotati ridotti a 100 per evitare altri tagli alle pensioni: 2 miliardi e qualche milione restano in cassa. Ministri e generali sanno che nel cuore dei pensionati batte l’orgoglio della patria. 100 carri armati ecologici a guardia delle frontiere è l’eredità pulita che i nonni possono lasciare ai nipoti. Senza contare i guadagni assicurati ai paesi dagli arsenali forniti come si deve. L’Italia non ha bombe nucleari: è solo deposito periferico delle testate Usa. Rinunciando all’effetto Hiroshima, rinunciamo ai benefici di chi patteggia la rinuncia con le potenze che ne controllano il monopolio. Corea del Nord, per esempio: si arrende alla proposta di Washington, moratoria nucleare in cambio di 240 mila tonnellate di alimenti. Non so quanti derelitti italiani a 500 euro al mese cominciano a invidiare gli stracci della dittatura rossa. Quando nel 2003 Gheddafi apre le porte agli ispettori impegnati nel fermare le armi di distruzione di massa, spariscono gli embarghi e Tripoli entra nel paradiso commerciale delle nazioni privilegiate, mentre piovono investimenti sul petrolio. Solo Israele non permette controlli ufficiali, ma non perde l’amicizia delle nazioni amiche. Hanno ragione i ragazzi quando ci rinfacciano il senso di colpa dell’essere sopravissuti all’ambiguità paralizzando la ragione: mai del tutto colpevoli, mai con l’innocenza dell’indignarsi per le bombe al fosforo che hanno bruciato 32 mila persone a Fallujah nell’Iraq che doveva essere “disinfettato” dai sunniti di Saddam. Un medico iracheno cresciuto a Londra torna nella sua città con un’organizzazione umanitaria e inciampa nei corpi bruciati dalla polvere proibita. Nessuno deve aprire bocca. Il dottore parla e viene espulso. E l’informazione si adegua: silenzio di ferro su umiliazioni e degradazioni, verità e perfino bugie. La chiamano riservatezza. Ecco l’allegria della notizia che cancella lo smog da ogni guerra. Non per guastare la festa, ma chi è sotto le bombe del carro armato verde cosa dovrebbe festeggiare? mchierici2@libero.it  

il Fatto 13.3.12
Israele
Gaza di nuovo nel centro del mirino


È arrivato, purtroppo, anche il turno dei bambini. Nell’escalation di violenza tra gruppi appartenenti alla jihad islamica - che hanno trovato un largo spazio operativo nella Striscia di Gaza - e Israele, un drone ha ucciso un ragazzo di 16 anni nel nord della Striscia di Gaza mentre altri aerei hanno ferito circa 30 bambini. Come aveva “predetto” sabato il ministro della Difesa Barak, la tornata di attacchi dell’aviazione israeliana sulla Striscia non finirà a breve, anzi si estenderà. Ieri ha rincarato la dose il premier Netanyahu che, incontrando il nostro ministro della Difesa di Paola alla Knesset, ha detto: “La sua visita qui avviene mentre la attenzione è concentrata sugli attacchi terroristici condotti da elementi sostenuti e finanziati dall’Iran. Decine e decine di razzi stanno cadendo da venerdì scorso su Israele. Questi attacchi terroristici, come appunto quelli condotti dalla Jihad islamica evidenziano la gravità del pericolo che si creerebbe se dietro a costoro si schierasse un Iran nucleare. Il mondo deve tenersi unito di fronte alla minaccia iraniana”.

La Stampa 13.3.12
Intervista
“Chi perde muore è un conflitto totale”
Julian Lindley-French: per questo si moltiplicano le atrocità
di Andrea Malaguti


«Si ricorda che cosa scriveva Kipling? ».
Il libro della giungla?
«No, una novella che si intitola Kim. Parla della lotta tra l’Impero Britannico e la Russia per l’Asia centrale».
Che cosa dice?
«Che lo scontro finirà quando saranno morti tutti. Non un istante prima. Frase spaventosa, che per la Siria pare valere ancora». Julian Lindley-French, Eisenhower Professore di strategia della difesa, consulente del governo inglese ed esperto di politica internazionale del think tank Chatham House, è appena rientrato nel suo albergo londinese da Westminster ed è pronto a partire per Roma dove giovedì terrà una conferenza al Defense College della Nato sui meccanismi di protezione collettivi.
Professore, ieri 26 bambini e 21 donne massacrate a Karm el Zaytoun. Come si arriva a questo livello di crudeltà?
«Esiste una spiegazione di carattere storico. Il padre di Assad, 25 anni fa, si comportò allo stesso modo. Molte delle persone che ha attorno, dai consiglieri agli ufficiali anziani, sono le stesse di allora. È una lotta per il controllo del territorio e sarà combattuta fino alla fine. Non importa a quale prezzo».
Da dove trae la sua forza Bashar al Assad?
«Ci sono ancora larghe parti della società civile, soprattutto a Damasco, che supportano il regime. Il partito Baath è seriamente convinto che sia uno scontro con i terroristi. Piccole tribù, gruppi infiltrati da Al Qaeda. Non per tutti è una guerra civile».
Perché Cina e Russia si oppongono all’intervento militare?
«Per ragioni diverse. La Russia considera la Siria l’ultimo bastione contro lo strapotere occidentale».
È una visione sensata?
«No. È una visione antistorica, ma molto putiniana. Di fatto non ha fondamento. Direi che è una questione di percezione, che consente a Putin di spaventare anche l’opposizione interna».
E la Cina?
«Per la Cina è diverso. Pechino ha un problema con la Nato. Non accetta questo interventismo che considera strumentale agli interessi occidentali. L’invio dei soldati in Iraq, in Afghanistan, o in Libia, per i cinesi è una forma sbagliata di ingerenza. Inoltre, e in questo ragionano come i russi, sono contenti di inviare al mondo un messaggio chiaro: senza il nostro consenso non potete più fare come vi pare. Per altro l’Occidente non ha voglia di mettere pressione su Mosca e Pechino».
Perché?
«Perché i governi hanno visto che cosa è successo in Afghanistan, dove hanno portato armi che ora sparano contro di loro. Perché in Libia ci sono già dubbi profondi su chi comanda e in nome di che cosa. Perché ogni volta che arriva un filmato dalla Siria si vedono migliaia di persone che invocano il nome di Allah. Che cosa sarebbe Damasco una volta rimosso Assad? ».
L’ex ambasciatore inglese in Siria sostiene che il regime è destinato a cadere entro un anno.
«Vedremo. Non credo sia probabile. Dipende dall’esercito. È vero che alcuni giovani ufficiali cominciano a dare segnali di insoddisfazione, ma quelli anziani sono con Assad» Internet è invasa dai video dei massacri. Quanto sono affidabili?
«I video mostrano cose reali. I morti ci sono. Molti. Quotidianamente. Certo è difficile capire se quei filmati fanno riferimento al giorno in cui vengono messi in circolazione oppure a momenti e circostanze diverse. È ovvio che sia il regime sia l’opposizione cercano di influenzare i media internazionali».
Paddy Ashdown, ex alto rappresentante per la Bosnia Erzegovina, e con lui numerosi premi Nobel, sostengono che la cautela occidentale è la licenza di uccidere consegnata al governo siriano.
«La licenza di uccidere il governo siriano se l’è presa da solo. È appunto il grande gioco di potere di cui parlava Kipling. Damasco è da sempre indifferente alle pressioni esterne. Il futuro del popolo è buio. I siriani sono soli e il mondo non ha davvero molta voglia di aiutarli».

La Stampa 13.3.12
La tragedia siriana
A Damasco si combatte una guerra per procura
Allo scontro tra sciiti e sunniti per il potere regionale si aggiunge il confronto tra le grandi potenze: America, Europa e monarchie del Golfo contro Iran, Russia e Cina . Chi vincerà?
di Maurizio Molinari


A un anno dall’inizio della rivolta popolare in Siria Bashar Assad continua a resistere, con il risultato di trasformare il conflitto armato fra regime e opposizione in una guerra per procura fra le maggiori potenze in Medio Oriente mentre per la prima volta, negli Stati Uniti come negli Emirtati del Golfo, si prende in esame l’ipotesi di un intervento militare «indiretto».
Il regime resiste Dalle dimostrazioni di piazza che il 15 marzo 2011 segnano in più città l’inizio della rivolta popolare le vittime stimate degli scontri sono, secondo il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, circa 8000 ovvero il quintuplo di quelle libiche alla vigilia dell’attacco Nato contro il regime di Muammar Gheddafi. A differenza del colonnello libico, il Raiss di Damasco può contare su un apparato statale che continua a essergli fedele. Oltre l’80 per cento degli ufficiali militari e il 60 per cento dei diplomatici appartengono, come gli Assad, alla minoranza alawita che gode anche del sostegno di drusi, cristiani e circassi accomunati dal timore che la rivolta possa portare al potere la maggioranza sunnita. Per un recente rapporto di intelligence Usa «i vertici degli apparati militari di sicurezza restano saldi a fianco di Assad» consentendogli di resistere «per diversi mesi se non più a lungo». A sostenere il Raiss ci sono anche i suoi alleati vicini e lontani: l’Iran gli fornisce unità paramilitari e armi per evitare la caduta dell’unico alleato regionale, la Russia lo difende con il veto all’Onu per non perdere le ultime basi navali e di intelligence nel Mediterraneo, la Cina si accoda al Cremlino per difendere il principio di non ingerenza internazionale che teme possa essere usato contro di lei.
L’opposizione divisa A fronte di un regime del partito Baath che rimane compatto, l’opposizione è lacerata. Il Consiglio nazionale siriano di Burhan Ghalioun è un’organizzazione-ombrello che gode del sostegno di Washington, Riad, Parigi, Doha e Londra ma è segnata dalle divisioni interne fra Fratelli Musulmani e gruppi laici oltre al fatto di essere contestata dal Coordinamento nazionale per il cambiamento democratico, che riunisce molti gruppi di protesta interna. A ciò bisogna aggiungere che l’Esercito di liberazione siriano del colonnello Riyah al-Assad afferma di avere nei ranghi 15 mila disertori ma non è ancora chiaro se abbia o meno raggiunto un accordo con Ghalioun. Militare è anche l’opposizione dei gruppi salafiti jihadisti, emanazione di Al Qaeda, che operano a cavallo del confine con l’Iraq lungo le stesse rotte che fra il 2005 e il 2007 alimentavano, in senso inverso, l’insurrezione del Trangolo sunnita contro gli americani. Ultimi, ma non per importanza, i gruppi della guerriglia curda, ben addestrati e armati ma che restano per il momento alla finestra.
Guerra per procura
Deponendo di fronte al Senato di Washington il generale Martin Demspey, capo degli Stati Maggiori Congiunti Usa, ha detto che «la Siria si è trasformata in una crisi dove tutte le potenze regionali hanno un loro interesse». Lo scontro è fra due grandi schieramenti, guidati da Riad e Teheran. L’Arabia Saudita considera l’alawita Assad uno sciita mascherato, responsabile di aver consegnato il Libano all’Iran e colpevole di assecondare in Medio Oriente il disegno egemonico degli ayatollah sciiti sui sunniti. Riad, che ha inviato i tank in Bahrein per reprimere la rivolta popolare, sostiene la primavera siriana con due strumenti: l’elargizione di ingenti fondi a gruppi sunniti e l’impegno diplomatico in seno alla Lega Araba per favorire una transizione a Damasco che porti alla caduta degli Assad. I sauditi, sostenuti da Tunisia e Qatar, hanno un alleato importante nella Turchia di Erdogan la cui ostilità nei confronti di Assad nasce dal sospetto dei generali di Ankara che Bashar, come il padre Hafez, abbia usato spesso i curdi per fomentare instabilità oltre-confine. Teheran difende Damasco per ragioni strategiche opposte a quelle di Riad: è l’unica capitale araba alleata, le offre i porti sul Mediterraneo, le garantisce attraverso gli Hezbollah mano libera in Libano e, grazie al Golan e al Sud Libano una frontiera per minacciare direttamente lo Stato ebraico.
L’impasse all’Onu Il veto opposto da Russia e Cina alla risoluzione arabo-occidentale anti-Assad nasce dalla volontà del Cremlino di mantenere Damasco nella propria sfera di influenza. Mosca difende Assad perché vuole evitare un cambio di regime simile a quello avvenuto in Libia che avrebbe l’effetto di privarla dell’accesso al porto di Tartus, ultimo approdo amico della propria flotta nel Mediterraneo. Senza contare che Damasco ospita i maggiori centri di ascolto dell’ex Kgb in Medio Oriente ed è fra i più importanti clienti dell’industria militare russa. Se il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha avuto contatti con l’opposizione è perché ciò che conta per Mosca è restare l’alleato più importante di Damasco anche nel dopo-Assad. Il contrasto con Washington è sulla transizione perché Mosca vuole guidarla per evitare brutte sorprese ma finora Assad si è opposto anche ai tentativi russi di risoluzione della crisi. Per rompere l’impasse il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki moon, ha inviato a Damasco il predecessore Kofi Annan ma il suo tentativo di ottenere un immediato e totale cessate il fuoco è fallito.
L’opzione militare Il senatore repubblicano John McCain è l’unico finora ad auspicare blitz aerei contro le forze siriane ma il Pentagono, opponendosi a tale ipotesi, ha svelato che i piani di attacco esistono: si tratterebbe di una campagna aerea di più settimane contro difese aeree cinque volte maggiori di quelle di Gheddafi per imporre una no-fly zone a difesa dei civili, con le forze aree Usa impegnate a condurre il blitz iniziale grazie al sostegno politico di Lega Araba, Nato e Unione Europea. L’altra ipotesi, di cui si discute in ambienti militari a Washington e nel Golfo, è l’intervento militare «indiretto» sul modello di quanto fatto in Afghanistan contro l’Urss e in Europa contro i nazisti al fine di creare, con aiuti economici e di intelligence, una «resistenza siriana» in grado di assumere il controllo di «aree liberate» su modello di quanto venne fatto in Bosnia-Erzegovina a metà degli anni Novanta. I primi territori della «Siria libera» potrebbero nascere lungo i confini turchi.
Le armi proibite La prudenza dell’amministrazione Obama sull’intervento militare, diretto o indiretto, nasce dalla convinzione della Cia che Assad possieda grandi quantità di armi chimiche e batteriologiche che potrebbero essere facilmente lanciate, adoperando gli aerei o l’artiglieria, contro i centri civili epicentro della rivolta in maniera analoga a quanto fece il dittatore iracheno Saddam contro i curdi a Halabja nel 1988.

La Stampa 13.3.12
India, avviato l’iter per trasferire i militari in un’altra struttura
Pescatori in piazza contro i marò “Vogliamo giustizia”
Nuovo colloquio tra De Mistura e il governatore del Kerala
di Massimo Numa


«Vedete? Contestano anche me, dicono che sono stato troppo bravo». A pochi giorni dalle elezioni, mai così incerte, il premier del Kerala Omeen Chandy ha incontrato ieri il sottosegretario agli Esteri Staffan de Mistura, nel palazzo coloniale di Trivandrum, capitale del Kerala. Dalle grandi finestre si vedono le centinaia di pescatori che protestano in strada, tenuti sotto controllo da un ingente schieramento di polizia in assetto antisommossa, soprattutto per la catena di morti violente: 28 vittime in un anno. Con loro ci sono le mogli, le vedove di alcune vittime, i figli e pure i sacerdoti e le suore della comunità religiosa locale, con la benedizione dell’arcivescovo Maria Calist Sosa Pakkiam, solidale con le loro lotte. Chandy ha un evidente bisogno, in questo rush finale della contesa politica, di non perdere altri consensi. I tre milioni e mezzo dei pescatori del Kerala (37 milioni di abitanti) possono costituire l’ago della bilancia. Con De Mistura il colloquio, il terzo, è stato «cortese ma franco»; significa in realtà che le posizioni tra il governo italiano e quello locale sono tuttora assai distanti sull’inchiesta in corso contro i due marò, ospiti della sezione Vip del carcere statale. Ma qualcosa all’orizzonte si muove. Il direttore aggiunto delle carceri del Kerala, Alexander Jacob, ha inviato al governo centrale di Delhi, con il placet di Chandy, l’istanza presentata dai diplomatici italiani per ottenere il trasferimento dei fucilieri dal carcere a una struttura «più idonea» al loro status di militari, mentre si fa strada l’ipotesi - superata finalmente la fase elettorale - di una soluzione negoziata del caso, con l’aiuto di altri partner europei e la Russia.
I pescatori avevano organizzato la protesta per denunciare una serie di problemi gravissimi. Negli ultimi due mesi, otto morti in circostanze violente. Prima un comizio, con i sindacalisti in piedi su un pianale di un vecchio camion, che hanno dettato le parole d’ordine della giornata di lotta: via tutto il naviglio mercantile dalle rotte sottocosta, più controlli della Guardia Costiera contro le incursioni dei colleghi dello Sri Lanka e della loro marina militare, spesso autori di atti ostili; «giustizia» nel processo contro i marò italiani, raffigurati in un disegno a matita, su uno dei tanti cartelloni, mentre, sporgendosi dalle murate della Enrica Lexie, fanno fuoco con i fucili contro i pescatori inermi che alzano le mani in segno di resa. La nave come un drago, con la lingua che afferra le vittime. Infine richieste di aumenti salariali. Oggi la giornata di lavoro di un pescatore vale in media poco più di un euro.
Domani De Mistura lascerà il Kerala per rientrare a Roma. L’unità di crisi resta operativa, divisa tra Kochi e Trivandrum. Al posto del sottosegretario, l’ambasciatore a Delhi Giacomo Sanfelice di Monteforte e il Direttore generale per l’Asia e l’Oceania Andrea Pellegrini. A Kochi ci sarà il console generale di Mumbai Giampaolo Cutillo. Poi un generale dei carabinieri e alti ufficiali della Marina Militare.

il Fatto 13.3.12
Il rapporto RSF
Dalla Cina alla Siria, ecco i nemici di Internet
di Alessandro Oppes


È la nuova versione della lotta tra il bene e il male, un braccio di ferro durissimo, nel quale i regimi autoritari sanno di giocarsi una fetta significativa delle loro chance di mantenersi al potere. La Rete è diventata ormai stabilmente un terreno di scontro importante tanto quanto la piazza. A volte persino di più, perché è capace di rompere l’isolamento di un popolo, di aprirlo ad altre culture. Ma nella giornata mondiale contro la cyber-censura, proprio mentre ricorda che il 2011 è stato l’anno che ha consacrato Internet come elemento fondamentale per il successo delle rivolte della “primavera araba”, Reporters sans Frontières fa un bilancio agghiacciante della violenza scatenata dai regimi: cinque cyber-dissidenti uccisi e 200 arrestati, compresi i blogger (ad oggi, 120 sono ancora in carcere), con un incremento del 30 per cento rispetto all’anno precedente. Un bilancio che, nota l’organizzazione internazionale per la libertà di stampa, rischia di diventare “ancor più pesante tenuto conto della cieca violenza delle autorità siriane”.
L’anno delle rivoluzioni mediorientali, da Sidi Bouzid in poi, ha segnato un vero punto di svolta. Messi alle strette dall’esplosione dei social network, che hanno dimostrato una capacità di mobilitazione fino a quel momento sottovalutata, i più feroci governi autocratici hanno cercato di prendere tutte le possibili contromisure: interruzione delle comunicazioni, blocco degli Sms, sospensione temporanea o filtraggio dell’accesso al Web o ai servizi di telefonia mobile. Ma il black-out totale di Internet si è rivelato, in realtà, una misura troppo drastica che rischia di pregiudicare l’economia dei paesi che la applicano. Alcuni governi hanno così optato per ridurre la velocità di collegamento per fare in modo che risulti più difficile scaricare e inviare foto e video di denuncia.
PER FAR FRONTE agli strumenti repressivi sempre più raffinati, scendono però in campo gli hacktivisti che apportano le loro competenze tecnologiche in aiuto dei cyber-cittadini. E la sfida viene portata con coraggio persino nel cuore di alcune delle peggiori dittature. In Arabia Saudita le donne sono riuscite a portare online la loro campagna per il diritto di voto e per guidare le automobili. In Corea del Nord diversi dissidenti sono riusciti a portare oltre-confine documenti, appelli e petizioni scaricati su penne Usb, Dvd e Cd.

il Fatto 13.2.12
UNHCR e il popolo dei “rifugiati fantasma”
di   Roberta Zunini


Sparse per i vari centri di accoglienza italiani ci sono 28mi-la persone fuggite lo scorso anno dalla Libia in fiamme. Quasi nessuna è di nazionalità libica. Si tratta soprattutto di uomini e donne che provengono dall'Africa subsahariana e dal Corno d’Africa e che lavoravano in Libia. Circa il 60% ha ottenuto il diritto d'asilo perché, qualora fosse rientrato nei Paesi d’origine, avrebbe potuto essere perseguitato dai regimi al governo. Ma che ne è dell'altro 40 % a cui non è stato riconosciuto il diritto d'asilo perché non è stato considerato in pericolo di ritorsioni? Il Tavolo Asilo, un forum informale delle maggiori organizzazioni italiane attive nell’ambito della protezione umanitaria, coordinato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ha presentato un appello al governo in cui viene chiesto di trovare al più presto delle soluzioni per questi disperati ridotti in miseria e privi di uno status.
“QUESTE PERSONE VIVONO IN UN LIMBO, che sta peraltro per chiudersi, visto che il loro permesso di soggiorno sta per scadere senza che sia stata offerta loro una prospettiva. È necessario che il governo intanto adotti delle misure per posticipare la scadenza del permesso mentre cerca la soluzione migliore per aiutarle, altrimenti la questione diventerà sempre più difficile da gestire”, dice Laura Boldrini portavoce dell’Unhcr. Nel documento messo a punto dal Tavolo Asilo ci sono alcune proposte. “Poiché non sono migranti venuti in Italia per trovare un lavoro e stabilirsi qui ma fuggite da una guerra, bisognerebbe per esempio offrir loro un incentivo economico realistico, non i 200 euro proposti dall'ex ministro Maroni – continua Boldrini - in modo tale che possano avere il denaro per andarsene e riaprirsi un'attività in Libia o nei loro Paesi d'origine. È uno strumento adottato anche da altri Stati”. Se venisse offerta una somma plausibile, molto probabilmente, non ritorneranno nel nostro Paese. Rob. Zun.
L’ESCALATION È INIZIATA VENERDÌ, quando Israele aveva risposto con incursioni aeree sulla Striscia al lancio di un centinaio di missili contro il sud del Paese e aveva ucciso in un attacco mirato - proibito dalla legge internazionale - il leader dei Comitati di resistenza popolare palestinesi, Zuhir al Qaisi, sospettato di aver preparato un secondo attentato (dopo quello dello scorso agosto a Eilat) che sarebbe dovuto avvenire in questi giorni. La situazione preoccupa soprattutto gli Stati Uniti che si trovano già in un momento difficile nel rapporto con i Paesi islamici a causa del Corano bruciato e dell’eccidio di civili compiuto da un suo soldato in Afganistan. Secondo alcuni analisti Israele potrebbe utilizzare il terrorismo jihadista, finanziato in buona parte dall’Iran, per convincere gli Usa a partecipare a un attacco contro gli impianti nucleari iraniani. Operazione che il presidente Obama vorrebbe evitare a tutti i costi. Mentre il numero dei morti palestinesi cresceva fino ad arrivare a 23 ( 18 sarebbero militanti della Jihad ), il Il Quartetto per il Medio Oriente - Usa, Ue, Onu e Russia - ha mostrato ancora una volta la propria incapacità nel riportare israeliani e palestinesi al tavolo dei negoziati. Negli ospedali israeliani sono stati intanto ricoverati i civili feriti dai razzi palestinesi. Finora non ci sono state vittime.

La Stampa 13.3.12
Cina, aumentano i consumi e la bilancia commerciale cambia decisamente volto
di Wei Gu, Edward Hadas


La Cina dovrà abituarsi a disavanzi commerciali. Analizzando il deficit di 4,2 miliardi di dollari nei primi due mesi del 2012, si nota che qualcosa sta cambiando, strutturalmente. Una parte minore dell’import è di prodotti da trattare ed esportare; la quota maggiore è destinata ai consumi nazionali. Un aumento del 13% dell’import di soia potrebbe essere dovuto alle carenze causate dalle siccità nel Sudamerica. L’aumento del 50% annuo di quelle di rame è sospetto, forse un mezzo per eludere la politica monetaria restrittiva. Gli importatori ottengono una lettera di credito per l’import di materie prime, le vendono e tengono il credito fino alla scadenza. Ma ci sono cambiamenti duraturi.
L'incremento della ricchezza delle famiglie sta spingendo le importazioni. Quelle agricole (valore) sono quintuplicate tra il 2000 e il 2010. Durante i primi mesi del 2012, le importazioni di automobili hanno registrato un boom del 33% annuo, a 184.000 veicoli. Questo sviluppo crea un grande cambiamento nel modello economico cinese. Finora l’enorme macchina commerciale - circa il 40% del Pil, tre volte il rapporto Usa o europeo - era dedicata prevalentemente al metodo di lavorazione: importare qualcosa, aggiungere valore attraverso manodopera a buon mercato, esportare. Ma poiché la Cina diventa più ricca, il lavoro diventa più costoso e il Paese più autosufficiente. Una percentuale maggiore di commercio arriverà da settori nei quali è particolarmente debole o forte. Le esportazioni di abbigliamento e di scarpe ad alto impiego di manodopera sono scese più del 2% rispetto al 2011. Quelle di fascia più alta stanno andando meglio, ma il +8,8% annuo dei prodotti elettronici segna un rallentamento rispetto a fine 2011. È abbastanza facile avere surplus commerciali quando quasi tutte le esportazioni sono in pratica importazioni più manodopera. Ma quando l’economia dell’import accelera autonomamente e si separa di più dalle esportazioni, l'occasionale disavanzo mensile sarà più difficile da evitare. Ed è un segnale di quello che avverrà in futuro.

La Stampa 13.3.12
Ex premier inglese
La nuova Cina è vicina a Dio
Pechino guarda alle religioni come fattore di sviluppo e collante sociale in un Paese in movimento verso le città
di Tony Blair

qui

Corriere della Sera 13.2.12
Un cardinale per il dialogo con la Cina
di Alberto Melloni


Nel dossier Cina — che sta in evidenza sul tavolo del Papato da oltre sette secoli — Benedetto XVI ha scritto un'altra pagina significativa, creando cardinale l'arcivescovo di Hong Kong, monsignor Ioannes Tong Hon. Una nomina cruciale perché il predecessore, il cardinale Zhen, è stato per molti anni l'interprete di una chiusura verso il governo di Pechino così totale da aver messo a repentaglio i risultati, talora piccoli come un seme, ottenuti dalla diplomazia pontificia ai tempi di monsignor Pietro Parolin. Con questa creazione e con la nomina a prefetto di Propaganda fide di Ferdinando Filoni, proveniente dalle file della diplomazia e cardinale nella stessa infornata di Tong, il dossier cinese ha due nuovi protagonisti, destinati a segnarlo almeno per un decennio.
La posizione della Santa Sede è nota, e anche di recente il cardinal Filoni l'ha ripetuta, non per chiudere un dialogo, ma per fondarlo su basi chiare. Dal punto di vista di Propaganda fide in questi vent'anni il fondo dei problemi politici ed ecclesiologici legati alle consacrazioni episcopali, decise dal governo cinese senza che Roma possa esercitare la sua funzione canonica, non si può dire risolto. E non può essere l'attivismo generoso o interessato dei movimenti e degli ordini, spesso in concorrenza fra loro, a definirlo. D'altronde non si deve ignorare che in diversi casi (molti o pochi, a seconda dei punti di vista) è stato possibile giungere a consacrare vescovi che sono in comunione con Roma, anche se non sempre l'Annuario Pontificio lo palesa in modo sfrontato.
E dunque — c'è niente di più «cristiano»? — sia Pechino sia la Santa Sede devono ascoltare ciò che è e vuole essere il cattolicesimo cinese vissuto: un cattolicesimo minoritario, sì, ma che manda 12 milioni di praticanti a messa, cioè più dei fedeli italiani della domenica... E per capire ciò che questa Chiesa dice di se stessa è importantissima l'intervista che il cardinale Tong ha dato a Gianni Valente per il prossimo numero di 30Giorni, mensile in uscita domani. Tong è stato profugo di guerra a Macao durante l'occupazione giapponese, educato alla fede dalla madre cattolica e dai missionari di Maryknoll, giovane diacono durante il Vaticano II, ordinato da Paolo VI nell'Epifania del 1966 fra i primissimi preti del post-concilio, partecipò come tale alla liturgia del 1985 dove veniva consacrato l'arcivescovo di Shanghai Aloysius Jin (ordinazione illecita, data a questo confessore della fede, ora in comunione con Roma).
In concistoro ha descritto la situazione della Chiesa cinese con tre parole — «sorprendente, difficile, possibile». Sorprendente per la grande crescita: un terzo dei 3.500 preti cinesi ha meno di 50 anni; nei dieci seminari riconosciuti dal governo e nei sei non riconosciuti ci sono 1.400 futuri chierici, e il numero dei fedeli, quadruplicato in trent'anni, non pare aver toccato un tetto massimo. Difficile per la controversia sulla scelta dei vescovi: potestà che in regime di cristianità Roma ha condiviso con i capitoli o con le corone cattoliche, e che nella Cina di domani non potrà che essere frutto di una selezione qualitativa a più voci dei candidati. Possibile, perché proprio l'esperienza della persecuzione e del conflitto (Jin ne è un caso lampante) insegna che la corsa del Vangelo nella Cina è appena iniziata e ha ancora molto da insegnare alla Chiesa, il cui compito non è «cambiare i sistemi politici (e oltretutto, nel nostro caso, la cosa sarebbe del tutto impossibile)» ma annunciare Gesù Cristo.
Tong si definisce come un «moderato», aperto al «dialogo», anche se com'è ovvio fedele all'ecclesiologia di comunione, per la quale ogni vescovo diventa membro del collegio episcopale, e non è né un prefetto vaticano, come ricordava già Pio IX, né tanto meno il vicario di un governo. Ma non è nemmeno indulgente verso coloro che denigrano un cattolicesimo che non rientra nei loro schemi e che si arrogano il potere di dare il bollino di amico o nemico del Papa senza averne l'autorità.
Questo stile malsano non ha fatto danni solo in Cina: anche le fughe di notizie causate da ecclesiastici infedeli, mal formati e peggio scelti, che hanno agitato i giornali negli ultimi anni, sono forse collegate all'indulgenza per questi metodi più di quanto non possa apparire. Che un cardinale cinese ricordi alla Chiesa i grandi orizzonti del Vangelo nel tempo, è anche un balsamo per queste ferite e lividure.

Corriere della Sera 13.3.12
Spie cinesi rubano l'aereo invisibile
Gli hacker al servizio di Pechino avrebbero sottratto i piani del F-35
di Guido Olimpio


WASHINGTON — Una lunga marcia verso i segreti. Un cammino lento ma continuo che ha permesso ai cinesi di ghermire informazioni sul meglio della tecnologia aeronautica occidentale. E il colpo più grosso lo avrebbero messo a segno quando sono riusciti a impadronirsi di dati sul F-35, il caccia sviluppato dagli Usa in collaborazione con altri partner (Italia inclusa) e al centro di molte polemiche per i suoi costi.
L'operazione — come ha confermato la stampa britannica — è stata condotta per 18 mesi o forse di più, affidata a quell'armata invisibile che sono gli hackers al servizio dell'Esercito popolare. Secondo una versione i pirati-spie sono entrati nel sistema della società inglese Bae System, società che lavora allo sviluppo del jet, ed hanno sottratto informazioni chiave. Una ripetizione di quanto già fatto quasi quattro anni fa negli Usa. Allora le autorità ammisero che i cinesi avevano aggirato le protezioni prendendo di mira tre ditte «a contratto». Ora le manovre hanno riguardato prestazioni, design e apparati elettronici. Un'altra versione sostiene che le «ombre» abbiano anche intercettato i dialoghi di una riunione interna alla Bae dedicata a tecnologia di bordo e sistemi di comunicazione. Quando la breccia è stata scoperta i progettisti del caccia hanno dovuto rimettersi al lavoro per «ridisegnare» gli apparati. Dunque, danni e spese aggiuntive.
L'attacco al F-35 segue altre incursioni non meno devastanti. Gruppi di hackers/007 hanno preso di mira personalità e istituzioni in Occidente. Dall'ufficio della Merkel a interi dipartimenti strategici negli Usa. Con l'ultima beffa — emersa pochi giorni fa — del falso profilo Facebook del comandante supremo della Nato: uno specchietto per vedere se qualcuno ci cascava e lasciava notizie compromettenti. Ma ben più insidiose le attività che hanno coinvolto i grandi gruppi industriali. I cinesi si sono dedicati, con metodo, allo Shuttle, ai bombardieri strategici e alla tecnologia «Stealth», quella che rende gli aerei invisibili ai radar. Diversi rapporti hanno segnalato — già alla fine del 2007 — come le spie si siano interessate al B-2, al già citato F-35 e a al supercaccia F-22 Raptor. Una missione che avrebbe portato dei vantaggi considerevoli. Infatti, quando l'aviazione di Pechino ha presentato il modello del suo ultimo gioiello, lo J-20, a molti sono parsi evidenti i punti di contatto con il Raptor ma anche con un Mig russo, a riprova che i cinesi copiano tutto quello che riescono a copiare. Se poi siano dei gusci vuoti è un altro discorso. L'intelligence occidentale, infatti, segnala che Pechino ha problemi nel «riprodurre» mezzi con le identiche prestazioni. Comunque ci prova. E se per caso gli americani perdono qualcosa, loro sono lì pronti a fotografare. Lo avevano fatto in Serbia, nel 1999, quando un F-117 era stato abbattuto e di recente hanno contattato i pachistani per dare un'occhiata ai rottami dell'elicottero speciale andato distrutto nel raid per uccidere Bin Laden. Possibile anche che gli iraniani gli diano la possibilità di esaminare «la Bestia», il sofisticato drone Usa planato nel deserto. Doni caduti dal cielo che rendono la vita meno dura ai cacciatori di segreti. Che altrimenti devono sgobbare e stare in campana. Perché alcuni dei «lavori» non sono remoti, svolti alla tastiera di un computer. Ma sul campo. E sono affidati a coppie di insospettabili, molti con la doppia cittadinanza, che vanno a vivere tra le dolci colline californiane e il più vicino possibile alle fabbriche strategiche. Conoscono un ingegnere, lo «coltivano», magari lo seducono con soldi o con le curve di una bella ragazza.
Infine chiedono il conto. Dati nascosti in una chiavetta, documenti copiati su un Cd-Rom, carte microfilmate affidate ad un corriere che vola in Cina. Ora l'ultimo desiderio sono i droni più avanzati. Interessano ai cinesi ma anche ai loro rivali. E viene da pensare allo strano furto subito, il 2 febbraio, da due dirigenti della Dassault in una stazione di Parigi. Si sono fatti soffiare una valigetta contenente progetti di un nuovo velivolo. Uno scippo su commissione pagato sicuramente molto bene e che renderà molto a chi lo ha ordinato.

Corriere della Sera 13.3.12
Che Sciocco Censurare il «Razzista Dante»
di Paolo Di Stefano


Certo che se dovessimo estendere i nostri criteri del politicamente corretto a tutta la letteratura del passato, pochissimo si salverebbe. Dunque, suona insensata e letteralmente anacronistica la proposta avanzata dal comitato per i diritti umani Gherush92 di censurare la Divina commedia in quanto antisemita, razzista e omofoba. L'organizzazione internazionale, consulente delle Nazioni Unite e fautrice di progetti di educazione allo sviluppo, adotta sull'arte criteri retroattivi che cancellino millenni di storia e di conquiste culturali, omologando ogni secolo al nostro. Il passato va ripulito, anzi depurato, a nostra immagine e somiglianza. I programmi scolastici saltino a pie' pari i passi danteschi che la presidentessa di Gherush92, Valentina Sereni, definisce «offensivi e discriminatori», per esempio il XXXIV dell'Inferno, in cui Giuda Iscariota (l'ebreo traditore secondo la tradizione biblica) viene raffigurato tra le fauci di Lucifero, a testa in giù. Per non parlare dei brani islamofobi, come quello che nel XXVIII della stessa cantica sancisce la condanna di Maometto, «seminator di scandalo e di scisma». E non poteva mancare l'omofobia, che suggerì al Sommo Poeta di collocare tra i dannati il suo maestro ser Brunetto Latini in quanto sodomita. Via tutto, dunque, e molto altro. Compreso il XXVI del Purgatorio in cui i «gay» vengono equiparati ai lussuriosi secondo natura? Via, via, e non se ne parli più. All'inferno pure Dante, così impara a ragionare come un uomo del Basso Medioevo e non come una persona della nostra epoca. Ma la domanda è: cassiamo anche il ser Ciappelletto di Boccaccio, l'omosessuale malvagio che più non si può? E che fine farà Shakespeare, il cui pregiudizio sui Mori non è mai mascherato? E Cicerone, Orazio, Seneca e Sant'Agostino, tutti più o meno terrorizzati dal proselitismo ebraico («barbara superstitio»)? In realtà, la richiesta di Gherush92 rivela la pochissima fiducia negli insegnanti (non sarà razzismo anche questo?), che sarebbero incapaci di comunicare una banalità: la distanza che ci separa dalla cultura del passato. Avvicinare Dante a noi, depurandolo, sarebbe un imperdonabile peccato di antropofobia.

La Stampa 13.3.12
La Commedia razzista? Ridicolo

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La Stampa 13.3.12
Tunisia
La mareggiata scopre una necropoli

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Repubblica 13.3.12
Nepal. L’ultima frontiera dei maoisti
"Non abbiamo fatto la rivoluzione per avere un altro re" dicono gli ex combattenti delusi
di Raimondo Bultrini


Dopo aver vinto la guerra i ribelli "maobadi" del People Liberation Army rischiano di perdere la pace Migliaia di ex guerriglieri attendono di essere integrati nell´esercito e minacciano di riprendere le armi

L´"Accampamento" maoista più grande del Nepal è a quattro ore di auto dalla capitale Katmandu, nel distretto di Chitwan, lo stesso del parco nazionale dove vivono liberi orsi, tigri e rinoceronti. Si chiama Shakti Khor, ed è una delle 27 gabbie recintate in tutto il Paese attorno ai pericolosi guerriglieri ultracomunisti. Qui vivevano da sei anni 3900 ex maobadi del People Liberation Army, parte dell´«esercito di liberazione» di 35mila uomini e donne che hanno sconfitto le truppe del re di tre volte più numerose e oggi governano il Paese, unico Partito maoista al potere nel mondo.
Da quando i loro capi hanno firmato la pace e consegnato agli ispettori delle Nazioni Unite gli AK47 e i lanciamissili (non tutti) in cambio di milioni di dollari, nel campo sono rimasti solo in 1100. Con la promessa di 10 mila euro a testa (ridotti nella realtà di oltre il 50 per cento), più di 9000 ex compagni hanno invece già lasciato nei giorni scorsi gli accampamenti per rifarsi una vita "normale". Ma è una minoranza consistente - 6500 - quella che aspetta di entrare ufficialmente nei ranghi dell´esercito, l´odiato nemico di un tempo, dove saranno utilizzati solo a scopi civili. Dovrebbe succedere a settimane, se si raggiungerà un accordo che stenta a prendere forma. Ci sono infatti ancora tre ipotesi da chiarire: la natura della Nuova Costituzione - se sarà una Costituzione del Popolo a ideali comunisti o un compromesso coi borghesi; la natura del governo - se presidenziale, con un premier o misto - e quella del sistema giudiziario, magari influenzata da sistema dei Tribunali del popolo.
Facile in questa impasse, dopo secoli di monarchia e feudalesimo, comprendere le paure dei vertici militari formati da ex aristocratici realisti di rimettere in mano un´arma a contadini analfabeti che non hanno rinunciato agli ideali di Mao Tse Tung. Li temono anche se sono i loro leader a governare oggi il Paese sul tetto del mondo, anzi proprio a causa di questo. Maobadi e soldati del Re oggi deposto si sono combattuti dieci anni in una guerra feroce, conclusa con 13477 morti, decine di città e villaggi distrutti, un´intera economia un tempo fiorente di turismo e commercio in ginocchio, atrocità da entrambi i fronti. Per paradossale che possa apparire, ora che c´è la pace e il comunismo è al potere, sono i soldi, più che l´ideologia, a dividere il Partito fondato e guidato dal leggendario Prachanda, costretto a dimettersi da premier ma pur sempre a capo del potente Comitato centrale. È lui di fatto il controllore del governo affidato al suo numero due Baburam Bhattarai, ed entrambi hanno accumulato enormi ricchezze trasformandosi - secondo molti dei loro stessi compagni - da guerriglieri in despoti.
«Non abbiamo fatto una rivoluzione per avere un altro re», minaccia Hom Bahadur, uno degli ex maobadi dell´"Esercito di Liberazione" che hanno accettato di prendere una manciata di soldi per appendere al chiodo le armi. Ci racconta che poche ore prima del nostro arrivo a Shakti Khor, era stato costretto a fuggire dall´accampamento assieme a un gruppo di ex compagni per non incorrere nelle vendette dei loro capi di partito e comandanti di divisione. Hom e gli altri li avevano accusati il giorno prima di aver preso milioni di rupie destinati a loro, alla base dei militanti che hanno combattuto e sacrificato la vita per l´ideale comunista.
Li incontriamo a gruppetti fuori dal recinto della loro ex colonia di "decongestione" post guerriglia, ancora muscolosi e forti per l´esercizio quotidiano e la giovane età. Qualcuno ha i figli in braccio, la moglie ex combattente di fianco, altri arano il campo comprato coi soldi della "pensione". Ma a pochi chilometri da qui, lungo le principali strade che portano da Est a Ovest, le immagini sono meno bucoliche e mostrano centinaia di ex combattenti lasciati fuori dai benefici che bloccano gli incroci per chiedere altre compensazioni. Sono i militanti dell´ultima ora, gli ex bambini soldato arruolati più o meno forzatamente nelle file dei maobadi, o i quadri politici della Lega giovanile maoista protagonisti della capitolazione di Kathmandu e di altre città importanti del Regno.
«Smantelliamo il PLA per andare a pulire gli stivali dei nostri ex nemici», gridano in coro. «Noi siamo stati addestrati per combattere. Se vogliono la pace, devono dare dignità a tutti gli ex combattenti...». Ai fuoriusciti di Shakti Khor chiediamo se qualcuno pensa di tornare nella giungla. Scherzano, dicono che ormai si sono «rammolliti». Ma Hom non nasconde che combatterebbe ancora, eccome, se solo ci fosse un progetto, una idea per cambiare «quello che non è per niente cambiato in questi 6 anni coi nostri compagni maoisti al potere». Non passa giorno nella inquinata e dilapidata Kathmandu senza uno sciopero, una protesta, una manifestazione. Da mesi non si trovano quasi più le bombole del gas da cucina con le quali fanno da mangiare tutte le famiglie nepalesi, una cosa mai successa nemmeno durante la guerra. Anche i prezzi della benzina salgono di giorno in giorno. Solo dentro al recinto del campo maoista di Shakti Khor dove gli ex combattenti aspettano la chiamata per l´esercito, si respira un´aria di se

Repubblica 13.3.12
Il governo Cameron contro lo sfoggio del simbolo religioso. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo si pronuncerà
La guerra del crocifisso "Esibirlo non è un diritto"
Il sindaco di Londra Boris Johnson: "È uno scandalo che non se ne riconosca il valore"
Per l’arcivescovo di Canterbury "ormai è poco più di una decorazione"
di Enrico Franceschini


«In hoc signo vinces»: con questo segno vincerai. Il segno era una croce. E l´imperatore Costantino, vedendolo apparire in cielo, si convertì al cristianesimo, facendone la religione ufficiale dell´Impero romano e dunque dell´Europa intera, come è ancora oggi. Ma a secoli di distanza quel simbolo avrebbe perso di significato: così perlomeno sostiene l´arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams. «La croce è diventata poco più di una decorazione religiosa», afferma il leader spirituale della Chiesa Anglicana. «Un totem a cui le persone religiose manifestano attaccamento in sostituzione della fede». Una specie di souvenir, prosegue l´arcivescovo, citando il passo del Vangelo in cui Gesù scaccia i mercanti dal tempio, per concludere: «Il tempio odierno è una fabbrica della religione piuttosto che un luogo di preghiera. E in questo periodo di Quaresima dovremmo chiederci quanto ci siamo lasciati coinvolgere dalla commercializzazione della religione».
Parole pesanti, pronunciate per di più durante una funzione a Roma, dove il capo della Chiesa Anglicana ha incontrato nei giorni scorsi papa Benedetto XVI. Ancora più pesanti, perché coincidono con l´apertura di un processo alla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo centrato proprio sulla croce cristiana e il diritto a indossarla, non come decorazione commerciale bensì come dichiarazione di fede. Un processo che parte da un episodio avvenuto a Londra: sei anni fa una hostess della British Airways, Nadia Eweida, fu sospesa dal servizio per avere indossato un crocefisso sull´aereo. Un gesto che, secondo la compagnia aerea, poteva offendere la sensibilità di passeggeri di altra religione: perciò le era stato proibito, ma lei insisteva a portare lo stesso la croce al collo. All´epoca, il primo ministro britannico Blair le espresse il suo appoggio, osservando che la British Airways stava esagerando, e in seguito il regolamento in materia è cambiato. Ma la hostess, convinta di avere subito un torto, ha fatto causa all´azienda presso il tribunale internazionale di Strasburgo, per stabilire una volta per tutte il suo diritto.
Sennonché l´attuale governo britannico, guidato dai conservatori, si prepara a schierarsi con la British Airways, affermando che i cristiani non hanno il dovere e neppure il diritto di esibire la croce come manifestazione della propria fede, diversamente da altre religioni che comportano obblighi specifici per esempio riguardo all´abbigliamento (come coprirsi il capo con un velo, per le donne musulmane). La presa di posizione del governo fa però arrabbiare un importante membro dei Tories, il sindaco di Londra Boris Johnson, che in un articolo pubblicato ieri dal Daily Telegraph definisce «un´idiozia» la tesi che la croce non sia un simbolo di fede e che i cristiani non possano portarla. E l´intervento dell´arcivescovo di Canterbury getta altra benzina sul fuoco: «È scandaloso che il leader della chiesa d´Inghilterra non riconosca il valore della croce», commenta un portavoce del Christian legal centre, un´associazione che si è unita alla hostess nella causa contro la British Airways. Chi vincerà, nel segno della croce?

Corriere della Sera 13.3.12
In città si vive male (Firenze esclusa)
di Alessandra Mangiarotti


Dal verde al tempo libero, i voti alle città italiane. Secondo il rapporto della Fondazione per la Sussidiarietà, i cittadini sono insoddisfatti della qualità della vita. Firenze risulta prima quanto a qualità dei servizi (edilizia popolare e verde pubblico in primis). Seguono Bologna, in vetta per trasporti e mobilità, e Torino, prima per attività e strutture del tempo libero. Fanalino di coda Napoli, bocciata sul fronte di rifiuti e verde pubblico, fino al tempo libero.
Dal verde allo svago: i voti alle città Firenze in testa, l'ultima è Napoli
Tre abitanti su 4 favorevoli all'intervento di onlus e cooperative

MILANO — In Italia tre cittadini su dieci vivono nelle grandi regioni metropolitane che si sviluppano intorno a Milano, Roma, Napoli e Torino. E i Comuni sopra i 250 mila abitanti raccolgono il 27% della popolazione. Qui un'abitazione costa in media più del doppio che nel resto del Paese, le strade sono più sporche, il traffico più intenso, l'aria più cattiva, la qualità del tempo libero peggiore. Ma i mali che affliggono i grandi centri abitati, dicono gli italiani-campione del sesto rapporto sull'abitabilità delle città della Fondazione per la Sussidiarietà, sembrano essere più sopportabili laddove l'intervento del terzo settore è più forte. «I cittadini percepiscono una correlazione diretta tra la qualità dei servizi e la diffusione delle iniziative di sussidiarietà», rivela Paola Garrone, curatrice dello studio e docente di Economia dei Servizi e delle Reti al Politecnico di Milano.
Ecco così che nella classifica sull'abitabilità Firenze è prima quanto a qualità dei servizi (edilizia popolare e verde pubblico in primis). La seguono Bologna (medaglia d'oro per trasporti e mobilità) e Torino (prima per attività e strutture del tempo libero). Verona si distingue per pulizia delle strade e gestione dei rifiuti. Fanalino di coda Palermo (maglia nera per i trasporti) e Napoli (bocciata in materia di rifiuti, verde pubblico e tempo libero). E complessivamente tre abitanti su quattro affermano che ricorrerebbero a iniziative del terzo settore per risolvere problemi di casa, verde pubblico e tempo libero. Due su tre per migliorare sul fronte rifiuti e trasporti. Come nei piccoli centri.
Casa. Ambiente. Trasporti e mobilità. Tempo libero. La misura della qualità dei servizi passa proprio da queste quattro materie d'esame. Lo studio «Sussidiarietà e... città abitabile», condotto dal Politecnico di Milano per conto della Fondazione, ha preso in considerazione dodici grandi città: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo e Genova. Quindi Bologna, Firenze, Bari, Catania, Venezia e Verona. Città sopra i 250 mila abitanti, rappresentano complessivamente il 15% della popolazione italiana totale. I cittadini intervistati bocciano trasversalmente la qualità dei servizi pubblici erogati: il 60% ritiene scarsi o insufficienti i servizi per l'edilizia popolare, percentuale che sale al 64 se si considera la soddisfazione per le iniziative messe in campo dai singoli comuni. Il secondo ambito più contestato è quello dei trasporti e della mobilità: bocciato dal 56% dei cittadini-campione per i quali tra qualità dei servizi e iniziative del comune non c'è differenza. Il 51% giudica scarsa o insufficiente la qualità dei servizi del verde pubblico (49% le iniziative del Comune), il 46% quella per la pulizia delle strade e del verde pubblico (42%). Va meglio alle attività e alle strutture del tempo libero bocciate dal 44% degli intervistati (46% se si considerano solo le attività municipali).
Tutti d'accordo: la risposta ai diversi mali metropolitani, dicono i cittadini intervistati, deve arrivare da Comuni e altri enti pubblici. Soprattutto per i trasporti e la mobilità (79%), per l'ambiente (69), per la casa (60), meno per il tempo libero (47,3). Ma sono sempre di più le persone che legano proprio all'impegno del terzo settore — associazioni di famiglie, di residenti, cooperative e onlus ritenute più idonee —, una maggiore qualità dei servizi. In primis per il tempo libero (39,7%), quindi per la gestione del verde pubblico (30,6), dei problemi legati alla casa (18,7), del traffico e della mobilità (9,4). Spiega il presidente della Fondazione per la Sussidiarietà Giorgio Vittadini: «Da una parte si registra un ritorno di sfiducia nei confronti della dominanza della logica del mercato in questi settori. Dall'altra appare improbabile che l'intervento pubblico possa di per sé garantire l'abitabilità delle città. In questo contesto desta un rinnovato interesse l'ipotesi che la sussidiarietà, l'iniziativa libera di chi riconosce una specifica esigenza e si unisce ad altri per rispondervi, possa portare un contributo originale e insostituibile». Perché, aggiunge la curatrice del rapporto Paola Garrone, proprio «le organizzazioni del terzo settore, più vicine alla gente, sanno individuare e interpretare meglio le "nuove" esigenze dei cittadini». È successo così a Milano con il Centro Pompeo Leoni, nato in risposta all'esigenza di trovare case a prezzi accessibili agli studenti universitari fuori sede. A Torino con l'Amicobus, nato per accompagnare gli anziani invalidi. A Bologna con la storica Polisportiva Pontevecchio. A Napoli con i Friarielli Ribelli, gruppo spontaneo che ha reclutato adepti via Internet e rimesso a nuovo piazze diventate discariche. Con la speranza di staccare la città dalla sua posizione fanalino di coda.

l’Unità 13.3.12
Sotto il Vasari le tracce di Leonardo
Dietro l’affresco di Palazzo Vecchio è stato ritrovato un campione
di colore nero compatibile con quello usato per la «Gioconda»
Come tirare fuori la «Battaglia di Anghiari»? Col bisturi... Ma c’è chi dice no
di Tommaso Galgani


C’è vita dietro l’affresco di Giorgio Vasari, nelle parete est del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. E ora, per vedere se spunta davvero il capolavoro perduto della Battaglia di Anghiari di Leonardo Da Vinci, toccherà al «bisturi»: almeno questo è l’auspicio del sindaco Matteo Renzi, che all’uopo ha già parlato col ministro ai beni culturali Lorenzo Ornaghi, passandogli la palla. «Dimostrato che la Battaglia d’Anghiari c’è, chiedo al governo di autorizzarci a verificare le condizioni in cui è. E tirarla fuori», dice il sindaco. Come? Facendo altri buchi sul Vasari o vere e proprie rimozioni dei pezzi d’affresco restaurati nei secoli (senza più dunque, la pittura originaria). Dalla sonda al bisturi: ne vale la pena? La comunità scientifica si spaccherà. E non mancherà chi rinfaccerà al sindaco una certa spregiudicatezza sul fronte del marketing culturale (Renzi ha già proposto di rifare la facciata della basilica di San Lorenzo sul modello Michelangelo e di riportare il cotto in piazza Signoria). Ma quali sono le prove della Battaglia di Anghiari, uno dei più grandi misteri della storia dell’arte? Innanzitutto, un campione di colore nero (manganese e ferro) chimicamente compatibile con il nero della Gioconda e del San Giovanni Battista al Louvre. Poi, il rosso e beige attribuibili al dipinto leonardiano. Infine, e soprattutto, la presenza di un’intercapedine di quattro centimetri tra la parete vasariana e il muro retrostante: come se Vasari avesse voluto preservare il lavoro di Leonardo erigendo una parete di fronte. Sono i risultati (ripresi dai siti di tutto il mondo) del team dell’ingegner Maurizio Seracini, frutto dello studio di fine 2011 fatto con radar e una sonda endoscopica che ha perforato la parete vasariana in 6 punti di pochi millimetri (Seracini ne aveva chiesti 14). Studio commissionato e pagato dal National Geographic, avallato dalla Soprintendenza e portato avanti dai restauratori dell’Opificio delle Pietre Dure. «Stiamo cercando nel posto giusto», spiega Seracini, che ha ricevuto una lettera d’incoraggiamento da Carlo Pedretti, uno dei maggiori esperti di Leonardo viventi.
LA NUOVA FASE
E ora che si fa? Renzi non ha dubbi: «Andare avanti con la ricerca, senza paure. Abbiamo trovato le tracce, ma non sappiamo in che condizioni è la Battaglia. Però l’Opificio ci ha lasciato una mappa dei restauri. Proponiamo a Ornaghi di procedere da lì, partire dal rimuovere le aree in cui ci sono stati i restauri». L’area dell’affresco vasariano su cui si vorrebbero condurre nuove indagini (tramite rimozioni, nuove sonde endoscopiche o ipotesi più difficile entrando dalla parete dietro) misura dodici metri quadri. Ornaghi sarà a Firenze entro un mese per un sopralluogo. Rivela Renzi: «Ho scritto al ministro affinché questa non sia più una battaglia di qualche pazzo, ma una delle più grandi questioni della politica culturale del Paese». E se ci fosse davvero la Battaglia, ben conservata? Qui si apre un altro tema. Ancora tutto da esplorare. Più prudenti, rispetto a Renzi e Seracini, sia l’Opificio che la soprintendente Cristina Acidini. Che ammette: «Qualcuno potrebbe rimanere deluso. Comunque, la ricerca in corso si sta svolgendo sulla parete giusta. Il mio intervento si è sempre svolto nella salvaguardia della tutela del bene culturale e tenendo informati i vertici del ministero». Intanto, sul National Geographic Channel (canale 403 di Sky), domenica andrà in onda «Leonardo: l’ultimo segreto», il documentario sulle ultime fasi del lavoro di Seracini e del suo team, da 36 anni impegnato sul mistero della Battaglia. Ma il fronte del no all’operazione resta nutrito. Un centinaio di studiosi e Italia Nostra hanno firmato una lettera contro questo modo di ricercare la Battaglia di Anghiari (e presentato un esposto in procura per danneggiamenti al Vasari). Tra i contrari, lo storico dell’arte Tomaso Montanari: «Si ritorna a una dimensione pregalileiana della conoscenza: i risultati provengono da un laboratorio privato, e non sono stati verificati da nessun istituto terzo rispetto al team che guida una ricerca finalizzata dichiaratamente al marketing. E ciò che Renzi ha detto a Ornaghi sul proseguimento della ricerca conferma, purtroppo, che il sindaco di Firenze non ha idea di cosa sia il patrimonio storico e artistico italiano».

l’Unità 13.3.12
«Siamo solo nel campo delle ipotesi»
Parla Marco Ciatti, soprintendente dell’Opificio delle pietre dure
di Stefano Miliani


Marco Ciatti, neosoprintendente dell’Opificio delle pietre dure di Firenze, da una vita restaura e dirige il recupero di autentici capi d’opera della pittura italiana: da Giotto a Raffaello allo stesso Vasari. Esperto di caratura mondiale, qui chiarisce alcuni punti. Allora: quel nero è una traccia?
«I ricercatori hanno fatto vari campionamenti su singoli punti. Gli altri prelievi hanno mostrato un normale intonaco da finitura edile, solo uno ha rilevato materiali tipici di una decorazione pittorica. Questi sono i fatti. Da lì a dire che è Leonardo e quanto ce ne sia, beh, siamo nel campo delle ipotesi».
È una prova sicura al 100%?
«Un microprelievo così non è una prova al 100%, è una prova indiziaria. Le analisi si basano su quel singolo punto, non possiamo essere sicuri che un discorso analogo valga per una superficie più estesa».
E se si dimostra che è Leonardo questo proverebbe la presenza della «Battaglia di Anghiari».
«Anche se lo si dimostra non sappiamo se sotto c’è la pittura leonardiana. Sappiamo dal Vasari che lui lavorò lì, che per un incidente tecnico la pittura si sciupò e l’artista se ne andò sdegnato. Ma quanto sia rimasto non può saperlo nessuno».
Non è una caccia al feticcio?
«Leonardo ha un tale fascino e importanza che crea subito grande attenzione. D’altronde è vero che se scoprissero frammenti della Battaglia per la storia dell’arte sarebbe la scoperta del secolo. Poi esiste una valenza mediatica, ma io parlo da tecnico».
E se si trovano tracce della pittura perduta, che si fa? Non si può rimuovere il dipinto del Vasari che è lì da mezzo millennio.
«Sarebbe un bel problema. Etico perché un tempo si era più disinvolti nel rimuovere e rimontare affreschi e oggi non si procede così; tecnico perché c’è una parete a mattoni di cinque secoli fa che complica notevolmente le cose. Non ci sono nemmeno precedenti».

Corriere della Sera 13.3.12
Quei sentieri incrociati con Montale
Da Trieste a Firenze sotto le bombe, il rapporto con Saba, le frequentazioni milanesi: ricordi di una lunga amicizia
di Gillo Dorfles


Conservavo ancora da qualche parte un disegnino di Montale tracciato sopra un foglio del suo taccuino, e mi accorgo ora di non averlo «tesaurizzato» come feci a suo tempo col primo esemplare degli Ossi di seppia, acquistato negli anni Trenta, di quella che era la prima edizione del 1925 presso l'editore Gobetti. La ragione di questa mia disattenzione è semplice: la benevolenza nei miei riguardi di Eusebio (così lo chiamavamo utilizzando il dotto nomignolo con cui lo aveva ribattezzato Bobi Bazlen), dovuta a una conoscenza che risultava dalla mia frequentazione della villa Veneziani. Questa era l'antica abitazione triestina (e insieme fabbrica della vernice) nella quale viveva a quel tempo Italo Svevo e dove ogni domenica si riuniva tutta la famiglia, soprattutto i giovani che passavano il pomeriggio tra la merenda e le danze. Ma oltre ai divertimenti famigliari, esisteva nella villa anche lo studio di Italo Svevo, il quale spesso riceveva alcuni letterati suoi amici come il poeta Umberto Saba, il professor Stuparich e molti intellettuali venuti da altre parti d'Italia come Giacomino Debenedetti, Leo Ferrero e tra gli altri, appunto, Eugenio Montale. Era stato in quest'ambiente, quindi, che per la prima volta avevo incontrato il grande poeta che aveva già stabilito una cordiale amicizia col padrone di casa, e fu proprio Bobi Bazlen (il noto talent scout) che mi aveva dato l'opportunità di questo incontro più «ravvicinato»; è interessante notare anche che fu proprio per merito di Montale se le vecchie copie dei primi due romanzi di Svevo furono spedite da Bobi (e da me) al critico francese Benjamin Crémieux, che fu il primo a favorire la celebrazione internazionale del grande romanziere triestino.
Oggi, quando molte delle poesie hanno perduto la cripticità e il pathos di quelle dei maggiori poeti del Novecento (e penso ovviamente a Eliot, Pound, Rilke eccetera) rimane il rimpianto che la gioventù di allora non abbia forse accolto appieno il loro messaggio che adesso, rispetto alle cincischiature romantiche e alle acrobazie simbolistiche di tante opere più recenti, appare ancora più evidente. L'aver incontrato e frequentato Eusebio nell'ambito cittadino, nel cuore di Milano o di Firenze, ha fatto sì che non mi renda conto fino a che punto i suoi versi — certe poesie come Notizie dall'Amiata o Verso Vienna — testimonino effettivamente l'indizio di una sua sensibilità acuta per la natura, oppure per le spesso tenebrose e aggrovigliate espressioni del suo pensiero, che si rivela sottile e spesso angoscioso.
Non vorrei che si credesse che soltanto le città come Trieste e Genova fossero lo sfondo dei nostri incontri, perché, anzi, molte altre località costituiscono le diverse tappe di questi «sentieri incrociati», probabilmente soltanto per caso o per volontà del destino. Così ad esempio non voglio dimenticare i numerosi incontri estivi in Versilia, dove oltretutto Montale e la Mosca alloggiavano in un albergo di Forte dei Marmi, e dove ogni giorno accorrevano dalle spiagge vicine, come il Poveromo o i Ronchi, i numerosi letterati e artisti che abitavano in quella zona o avevano delle ville nei paraggi, come ad esempio il musicista Riccardo Malipiero o il cineasta Mastrocinque. Anche Savinio aveva una villa in prossimità del Forte e mi accadde spesso di recarmi proprio insieme a lui in bicicletta a trovare Montale. Ma, a proposito degli incontri toscani, non voglio dimenticare quello senz'altro più importante e di cui si è anche molto parlato nelle biografie montaliane, e cioè il Gabinetto Vieusseux di Firenze, di cui per altro Montale per un certo periodo fu direttore, lasciando poi il posto ad Alessandro Bonsanti. Proprio al Vieusseux mi recavo molto spesso, durante il periodo abbastanza fascinoso e tenebroso che anticipava lo scoppio della guerra, ben presto poi iniziata. Mi trovavo allora nella nostra casa di campagna nel volterrano, e molto spesso con decrepite corriere della linea denominata «Sita» mi accadeva di arrivare fino a Firenze, incurante delle bombe che spesso venivano sganciate sulla regione. A Firenze, poi, la situazione era del tutto particolare: da un lato la fosca atmosfera dell'agonia fascista e delle forze armate che si cominciava ad avvertire; dall'altro una situazione quasi di incontri mondani, perché a Firenze erano riparati moltissimi intellettuali del Nord, di modo che al Vieusseux (e in altri centri culturali come le Giubbe Rosse, per esempio) si potevano incontrare personaggi come Giacomino Debenedetti con la moglie, Arturo Loria, Longhi, Alberti e altri. E proprio a Firenze venne a rifugiarsi Umberto Saba con la sua famiglia. Abitavano presso una giovane «patriota» che li aveva accolti tutti molto amorevolmente: la cosa più curiosa è che nell'appartamento della Ichino, a due passi dal Museo Pitti e dai giardini di Pitti, oltre alla famiglia Saba venne ad alloggiare anche quello che poi doveva diventare l'amico di Linuccia Saba, e cioè Carlo Levi, che a quel tempo era ancora confinato nel Sud Italia, vicino a Potenza, e che stava proprio allora tracciando le prime pagine del suo famoso libro Cristo si è fermato a Eboli. Montale, oltre a essere amico di Saba e delle altre persone dell'ambiente, aveva molta simpatia per le donne della famiglia Saba: la carissima e straordinaria Lina, la moglie paziente e devota del grande e malinconico poeta, e la figlia Linuccia, che era stata mia amica nel periodo della mia adolescenza.
Questo omaggio a Linuccia ha alcuni addentellati con le visite triestine del poeta: non si dimentichi che la simpatia di Montale per la famiglia Saba (soprattutto per le donne e credo molto meno per il capriccioso poeta) riguarda il novero di quelle figure femminili di cui si è tanto discusso e che comprende, come ormai è ben noto, Esterina, Liuba, Gerti, Dora, Clizia, Edith... Nel caso di Linuccia vorrei perlomeno ricordare alcuni versi di una poesia «dispersa»: «Buona Linuccia che ascendi / la via nella vita, esitante, / e temi il tempo che incrina, / l'acqua che varca i ponti e va distante».
E sempre a proposito di Linuccia credo che possiamo ricordare che proprio in quel periodo le fu molto vicino anche Bobi Bazlen, pure lui venuto a rifugiarsi a Firenze. Ecco, a prescindere dagli elementi di pettegolezzo letterario, mi sembra che la confluenza di personaggi come Saba, Bazlen e lo stesso Debenedetti (che era pure lui apparso nella città di Firenze) attorno alla figura molto amata e apprezzata di Montale costituisca una pagina preziosa dell'Italia e della cultura italiana di quel periodo pre, e immediatamente post-bellico, quando il Paese cominciò ad affrancarsi dal disgraziato ventennio.

Corriere della Sera 13.3.12
La temperie culturale in cui si formò «Eusebio»


Nel dodicesimo volume in edicola oggi per la collana «Un secolo di poesia» del «Corriere della Sera», curata da Nicola Crocetti (euro 7,90 più il prezzo del quotidiano) vengono proposte le raccolte Le occasioni e Ossi di seppia di Eugenio Montale, presentate qui con l'introduzione inedita di Gillo Dorfles e con la cura di Massimo Gezzi, oltre a un ampio apparato bio-bibliografico. Proprio nell'inedito di Dorfles, di cui pubblichiamo alcuni brani, è illustrata la densissima temperie culturale in cui Eusebio, come era chiamato Montale dagli amici, sviluppò la sua figura di poeta: a cominciare dai «luoghi» (la Liguria, Milano, Firenze, Trieste, la Versilia) che talvolta riecheggiano proprio nella poesia montaliana, dove il luogo naturale non è solo sfondo ma stimolo conoscitivo («talora ci si aspetta/ di scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,/ il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità»). Per continuare con le personalità letterarie che accompagnarono il percorso di Montale o ne condivisero un tratto, come Italo Svevo, Bobi Bazlen, Umberto Saba con la sua famiglia e lo stesso Dorfles. Fino alle donne amate dal poeta, muse artistiche ma anche relazioni problematiche. Il racconto delle vicende private e familiari accompagna così l'opera del poeta, Premio Nobel nel 1975, illustrando un Montale appartato, privato, a volte chiuso in ritrosie e timidezze, preso tra trasferimenti e incertezze economiche, fino all'arrivo al «Corriere della Sera» in una «Milano della poesia» vivissima e attraversata da figure come Antonio Porta, Vittorio Sereni, Sergio Solmi. (Ida Bozzi)

Corriere della Sera 13.3.12
La donna senz’ombra in clinica psichiatrica
di Paolo Isotta


Torna alla Scala Die Frau ohne Schatten, La Donna senz'ombra, il capolavoro scenico di Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal.
Quest'Opera, culmine di un lavoro durato fino al 1918, è così lunga e complessa che Hofmannsthal ritenne di voler scrivere una Novella a spiegazione del testo teatrale. Il concetto centrale di esso è la glorificazione della maternità, intesa come un dono da accettare, non come un peso da portare. Il mito si svolge in un luogo e in un tempo fantastici: tenteremo non senza fatica di riassumerlo. L'imperatore s'imbatte nella sua caccia in una bianca gazzella: la colpisce con un dardo e questa si trasforma in una splendida fanciulla. Egli la fa sua sposa e la porta seco insieme con la sua nutrice, che ubbidisce agli ordini del padre di lei, il dio Keikobad. L'imperatore trascorre tutte le sue giornate a caccia e tutte le notti a possedere la creatura metà divina metà umana.
Questa col suo corpo non getta ombra; ed è infeconda. Noi apprendiamo di trovarci alla fine dell'anno da che lo sposo l'ha fatta sua; avanzano tre giorni: se nel corso di essi ella non potrà acquisire la fecondità, e quindi gettare un'ombra quale essere umano, l'imperatore verrà pietrificato. Ella e la nutrice partono alla volta dell'abietto mondo degli uomini alla ricerca di un'ombra. Nella capanna del tintore Barak vivono questi, tre fratelli uno cieco di un occhio, uno storpio e uno gobbo e la capricciosa moglie di lui. Anch'essa non ha figli. L'imperatrice e la nutrice vi penetrano e si offrono a lei quali schiave col proposito di acquistarne a qualunque prezzo l'ombra. Quando Barak è al lavoro le fanno apparire fantasmagorie che saranno sue, uno splendido giovane che l'incanta e la donna, a onta delle villanie fatte continuamente al marito, pur sul punto di cedere non cede.
L'imperatore si trasforma in una statua di pietra. Barak e la moglie si trovano rinchiusi ciascuno in una cella: la donna teme e si lamenta, egli la rassicura. La conquista dell'ombra e la vittoria della fecondità divengono una grandiosa Cantata che vede insieme i personaggi, tranne la nutrice, precipitata nelle acque oscure, e il gruppo dei bimbi non nati pronti a essere chiamati alla vita.
La partitura di Strauss è un vero e proprio monumento ed è significativo ricordare ch'egli fu soddisfatto soprattutto dalla versione di lei datane, quale prima esecuzione alla Scala, da Gino Marinuzzi, che ne parla nel suo epistolario definendola una fantasmagoria barocca. Frequente vi è il ricorso a uno stile espressionistico, con una sorta di sospensione della tonalità e l'uso di pungenti dissonanze, specie da parte degli strumentini, che amplia e sistematizza passi stilistici già presenti in opere giovanili (Till Eulenspiegel). Queste pungenti dissonanze degli strumentini si accompagnano in ispecie ai capricci della moglie del tintore, che non è mai contenta della sua vita e minaccia di continuo di abbandonare il tetto coniugale. Strauss le conferisce asperrimi vocalizzi e una defatigante insistenza sulla tessitura acuta, il che fa di lei da un punto di vista musicale la vera protagonista dell'opera. Adempie splendidamente al compito Elena Pankratova.
La partitura è concepita in fantastico contrappunto cromatico da parte dell'orchestra, con virtuosistica sovrapposizione dei motivi-guida, presenti in ogni parte e in ogni momento di essa, sì che piace lodare Marc Albrecht per l'equilibrio, la trasparenza e il senso teatrale della sua direzione. D'altro canto sono presenti amplissime zone con meravigliosi tratti diatonici e tonali, specie negl'interludî e in associazione alla figura di Barak, qui il baritono a canto spianato Falk Druckmann.
Completano la perfetta compagnia Emily Magee, nel ruolo dell'imperatrice, dotata di acuti e canto lirico, Michaela Schuster, una nutrice di grandissima rilevanza teatrale, e Johan Botha, ricco di un autentico squillo tenorile per il ruolo dell'imperatore. Vi sono poi numerose parti minori, ciascuna significativa, che spiace non poter qui menzionare.
L'allestimento, dovuto a Claus Guth per la regia e a Christian Schmidt per le scene e i costumi, è ambientato in una sorta di clinica psichiatrica viennese d'inizio Novecento. Percorrono la scena figure mute con complete maschere cornute, senza alcun rispetto per la creazione degli Autori. Non è comunque cosa volgare, sicché non mi assocerei alle vive contestazioni da parte del pubblico.

Corriere della Sera 13.3.12
Gli embrioni umani come gli orsi: vanno in letargo
Fino a 5 mesi, un effetto dello stress
di Mario Pappagallo


Una gravidanza ritardata potrebbe essere solo espressione di un meccanismo naturale di difesa comune, è stato scoperto ora, a tutte le specie. Una donna che svolge un lavoro stressante, ha carenze alimentari, vive situazioni che l'organismo registra come pericolose, può «ordinare» al suo embrione di arrestare momentaneamente il suo sviluppo. Di mettersi in «sonno». Probabilmente fino a un massimo di cinque mesi. A scoprirlo è stata l'università di Teramo che ha ripreso studi degli anni 60 e 80 finiti poi nel dimenticatoio. Lo studio è pubblicato oggi dall'autorevole rivista scientifica PloS One.
Anche gli embrioni umani, quindi, possono andare in letargo. È noto da tempo che gli insetti in fase di sviluppo attivano un meccanismo di blocco, chiamato diapausa, per difendersi da condizioni ambientali avverse. Poi si è scoperto che questo accade anche negli embrioni con un meccanismo neuro-ormonale in grado di fermarne momentaneamente la divisione cellulare per riattivarla al momento opportuno completando lo sviluppo dell'essere fino alla nascita. Lo si è visto e studiato in orsi (letargo), foche (condizioni ambientali avverse, dal poco cibo al clima), topi, canguri e altri marsupiali. L'università di Teramo è andata oltre: la diapausa embrionale accade anche in pecore, mucche e conigli. Mammiferi che di norma, essendo allevati e quindi senza gli stessi stress ambientali che incidono sulle specie selvatiche, non avevano mai mostrato pause dello sviluppo embrionale.
La diapausa embrionale è caratteristica di tutte le specie, con tempi di durata e modalità diverse. È nelle corde genetiche. Anche in quelle umane. L'uovo fecondato c'è, si insedia in utero, avvia la divisione cellulare e, se occorre, si ferma. Per poi ripartire, completando lo sviluppo fino alla nascita. Carlo Alberto Redi, direttore del Laboratorio di biologia dello sviluppo dell'università di Pavia, parla di «scoperta dalla portata rivoluzionaria».
Prima dei commenti, però, è giusto ascoltare chi ha condotto il lavoro finanziato nell'ambito del programma europeo Ideas. La ricercatrice Grazyna Ptak, del Laboratorio di Embriologia diretto da Lino Loi, ha coordinato i ricercatori dell'università di Teramo. «È un fenomeno del quale dobbiamo iniziare ad occuparci seriamente, un campo da esplorare — dice Grazyna Ptak —. In natura l'embrione può andare "a dormire" anche per periodi molto variabili, dai 15 giorni nel topo ai 12 mesi nei canguri e nei visoni. Nell'uomo la durata massima può essere di cinque mesi». E potrebbe essere questa la spiegazione di tante gravidanze che vanno oltre i nove mesi. «Sì — continua Ptak — e, se fosse così, non sarebbe necessario ricorrere alla stimolazione del parto (una tecnica alla quale in Italia si ricorre spesso) nè al parto cesareo. Lo stop allo sviluppo dell'embrione potrebbe essere un fenomeno adattativo che entra in azione ogni volta che lo sviluppo viene minacciato». Negli animali, per esempio, dalla bassa temperatura, dalla carenza di cibo. Nell'uomo, per esempio, quando la madre è in condizione di stress.
Il «sonno» dell'embrione potrebbe riguardare molto da vicino anche la ricerca sulle cellule staminali, così come la lotta ai tumori. Nel primo caso, esperimenti sugli embrioni di topo hanno dimostrato che il periodo di letargo è il migliore per prelevare le cellule staminali. Nel caso dei tumori, invece, si è visto che le cellule malate si riparano se messe nell'utero quando accoglie un embrione in letargo.
L'entusiasmo di Redi è giustificato: «È straordinario che un meccanismo come questo si sia conservato lungo la storia dell'evoluzione». E «adesso — aggiunge — sappiamo che questo meccanismo è comune a tutti i mammiferi». Il cattedratico pavese prosegue: «Alla luce dei nuovi dati, sarà ora possibile capire meglio la fisiologia dell'embrione. Per esempio, riconoscendo il momento in cui si insedia fino al periodo nel quale lo sviluppo si blocca e l'istante in cui riprende ad essere attivo». In conclusione, per Carlo Alberto Redi, è molto probabile che i risultati raggiunti dall'università di Teramo e pubblicati da PloS One «costringeranno a rivedere tutta la biologia della riproduzione e le applicazioni in medicina».

Repubblica 13.3.12
Le confessioni di un editore militante
di Giangiacomo Feltrinelli


Nell´anniversario della scomparsa del fondatore del gruppo, un suo testo sul mestiere di far libri
Noi non possiamo cambiare il mondo ma fare opere che lo cambiano con la loro presenza
Non c´è niente da insegnare, nessuno da catechizzare: noi siamo solo dei veicoli di messaggi
Per l´occasione verrà distribuito un piccolo volume che raccoglie questo e altri scritti a lui dedicati

Dunque mi devo definire: devo definire me stesso in quanto editore; o perlomeno devo presentarmi, mostrarmi, spiegarmi in rapporto col mestiere che per il novanta per cento del mio tempo faccio da quasi quindici anni. Potrei cominciare dal mestiere: per semplificare le cose, togliendo di mezzo la mia persona; oppure potrei cominciare dalla mia persona, ma in questo caso, purtroppo, non riuscirei a togliere di mezzo il mestiere… Dunque, comincio dal mestiere. Ma non voglio definire l´editore, anzi l´Editore: a mio modo di vedere si tratta di una funzione indefinibile, o meglio definibile in mille modi. (...)
Sarà un difetto, sarà un vizio: ma anche se auspico la fortuna economica della mia casa editrice, non posso fare a meno di ricordare che essa è nata soprattutto da un miraggio, no: da un´intenzione, addirittura da un bisogno e da un desiderio che esito a definire culturali soltanto perché la parola cultura, Cultura, Culture mi appare gigantesca, enorme, degna di non essere scomodata di continuo. Diciamo allora che: anche se auspico la fortuna economica della mia casa editrice, ho in mente, penso, perseguo una "Fortuna" nel secondo senso. E questa è una cosa molto difficile da spiegare; a farla breve: io cerco di fare un´editoria che magari ha torto lì per lì, nella contingenza del momento storico, ma che, quasi per scommessa, io ritengo abbia ragione nel senso della storia.
Cerco di spiegarmi meglio: nell´universo frastornato di libri, di comunicazioni, di valori che spesso sono pseudovalori, di informazioni (vere e false), di sciocchezze, di lampi di genio, di forsennatezze, di opache placidità, io mi rifiuto di far parte della schiera dei tappezzieri del mondo, degli imballatori, dei verniciatori, dei produttori di "mero superfluo". Poiché la micidiale proliferazione della carta stampata rischia di togliere alla funzione di editore qualsiasi senso e destinazione, io ritengo che l´unico modo per ripristinare questa funzione sia una cosa che, contro la moda, non esito a chiamare "moralità": esistono libri necessari, esistono pubblicazioni necessarie. Per quanto ciò possa apparire paradossale, io, come editore, sottoscrivo pienamente quella che Fidel Castro ha chiamato l´"abolizione della proprietà intellettuale", cioè l´abolizione del copyright: questa misura serve a far sì che a Cuba possano essere disponibili i libri necessari, necessari ai cubani. Ma anche in una situazione di "proprietà intellettuale privata", esistono libri necessari. Disgraziatamente sono qui inibito da uno scrupolo: non vorrei fare pubblicità ai miei libri; d´altra parte, sono costretto a citare. E così cito: nell´universo delle scritture occidentali esiste un genere, una cosa letteraria, che si chiama romanzo. Molti dicono che è morto, molti dicono che è vivo: lo scrivono, lo leggono, lo comprano... Io faccio l´ipotesi che non sia né tutto morto né tutto vivo, ma che certi romanzi siano morti e altri vivi: quelli vivi sono necessari. I romanzi vivi sono quelli che colgono i cambiamenti nei livelli intellettuali, estetici, morali del mondo, le nuove sensibilità, le nuove problematiche, o che propongono un modello di questi nuovi livelli, o che stravolgono la superstizione della perenne identità della natura umana, o che propongono nuovi paradossi – già ora, già qui, in questa specie di purgatorio della storia. Per questo ho pubblicato (cito a caso) Pasternak e Velso Mucci, Parise e Gombrowicz, Lombardi e Fuentes, Vargas Llosa e Sanguineti, Balestrini e Selby, Porta e Henry Miller... persino l´eterogeneità degli accostati mi pare vitale e divertente. Per questo pubblico i giovani scrittori dell´Avanguardia. Cito un altro esempio: esistono libri politici, o meglio libri di politica. Molti sono libri "giustificativi", cioè libri che testimoniano di mancato atto politico. Altri, non molti, sono libri pienamente politici, scritture che accompagnano un´azione politica concreta e che il pubblico vuole e deve conoscere: recentemente, in tre o quattro giorni, le librerie hanno venduto tutta un´edizione ad alta tiratura di un volumetto che raccoglie alcuni scritti di Ernesto "Che" Guevara: anche se questo libro non si fosse venduto, avrei accettato di pubblicarlo, perché gli scritti di Guevara sono scritti necessari. (...)
Un editore può cambiare il mondo? Difficilmente: un editore non può nemmeno cambiare editore. Può cambiare il mondo dei libri? Può pubblicare certi libri che vengono a far parte del mondo dei libri e lo cambiano con la loro presenza. Questa affermazione può sembrare formale e non corrisponde in pieno a quello che penso: il mio miraggio, quello che io credo il maggior fattore di quella tal "Fortuna" di cui parlavo, è il libro che mette le mani addosso, il libro che sbatte per aria, il libro che "fa" qualche cosa alle persone che lo leggono, il libro che ha l´"orecchio ricettivo" e raccoglie e trasmette messaggi magari misteriosi ma sacrosanti, il libro che nel guazzabuglio della storia quotidiana ascolta l´ultima nota, quella che dura una volta finiti i rumori inessenziali... (...)
Non so che cosa sia l´Editore, l´editore in sé, ma cerco di ascoltare le ragioni per cui faccio l´editore. E ammetto: l´editore non ha niente da insegnare, non ha niente da predicare, non vuol catechizzare nessuno, in un certo senso non sa niente. E ammetto: l´editore, per non essere ridicolo, non deve prendersi eccessivamente sul serio, l´editore è una carretta, è uno che "porta carta scritta", è un veicolo di messaggi, è tutt´al più, per parafrasare quel McLuhan di cui si parla tanto, un fautore di messaggi che siano anche massaggi. E ammetto: che l´editore è niente, puro luogo d´incontro e di smistamento, di ricezione e di trasmissione... E tuttavia: occorre incontrare e smistare i messaggi giusti, occorre ricevere e trasmettere scritture che siano all´altezza della realtà. E quindi: l´editore deve gettarsi, tuffarsi a rischio di annegare, nella realtà. Senza sapere nulla deve far sapere tutto, tutto quello che serve, e che serve ai vari livelli di coscienza. Tuffarsi nella realtà: tentare la "Fortuna". La "Fortuna" diventa allora un significato, un orizzonte, una vita svincolata e trionfante… E allora: un editore è niente, è un veicolo che può anche autodefinirsi una carretta, ma un editore può anche affrontare il proprio lavoro sulla base di una ipotesi di lavoro molto azzardata: che tutto, ma proprio tutto, deve cambiare, e cambierà.

Repubblica 13.2.12
Il 14 marzo 1972 morì dilaniato. Il giallo di una perizia ritrovata
Il mistero del traliccio 40 anni dopo
di Simonetta Fiori


Accadde il 15 marzo di quarant´anni fa. Nel primo pomeriggio sotto un traliccio dell´Enel vicino a Milano viene rinvenuto il corpo di Giangiacomo Feltrinelli. All´ora di pranzo l´editore non s´era presentato all´appuntamento a Lugano con il figlio Carlo: Inge viene assalita da un brutto presentimento. La polizia ricostruisce la dinamica dell´incidente, e questa rimarrà la versione ufficiale: la notte prima Giangiacomo aveva raggiunto il traliccio di Segrate con quindici candelotti di dinamite. Obiettivo: black out su Milano, nel giorno in cui comincia il congresso del Pci. Un movimento brusco, e Feltrinelli salta per aria. L´Italia si divide. «Feltrinelli è stato assassinato», è l´immediata reazione della Milano democratica. L´ultima "feltrinellata" del terrorista miliardario, è la sintesi sprezzante della stampa di destra.
Da un paio di anni Giangiacomo Feltrinelli viveva in clandestinità, e ancora da più tempo aveva deciso che il mestiere dell´editore non gli bastava più. Per cambiare il mondo era necessaria l´azione politica, che confusamente individua in un perpetuo interventismo nelle guerriglie del mondo. "Pluricampione mondiale in editoria", liberatore di Pasternak e scopritore del Gattopardo, una fittissima agenda internazionale e una consistente fortuna economica. Tutto perduto, per un´ossessione. Il secondo viaggio a Cuba, nel 1967, l´ha profondamente cambiato, il ruolo di editore europeo cede catastroficamente il passo a quello di combattente anti-imperialista. In casa editrice faticano a riconoscerlo. Alterna catatonia e delirio, vuole fare della Sardegna una Cuba del Mediterraneo. «How far is he gone?», si chiede Inge nel suo diario. Una distanza che è non solo geografica, ma culturale politica e psicologica. I servizi segreti di diversi paesi – italiani, americani, israeliani – non lo perdono d´occhio.
In un´Italia attraversata da tentazioni reazionarie, l´ossessione di Giangiacomo per il colpo di Stato è destinata a crescere. E cresce la sua famigliarità con la sinistra armata e con la dimensione della clandestinità. Nel dicembre del 1969 sceglie di andarsene da Milano. «He´s lost», annota Inge sul diario. Volato in un altro pianeta. Ancora due anni, e il tragico epilogo a Segrate.
A distanza di quattro decenni ancora non sappiamo come siano andate veramente le cose. O, per dirla con il figlio Carlo in Senior Service, manca la risposta che serve a chiudere la storia. Inge non ha mai creduto alla verità ufficiale. Troppo atletico per inciampare su un traliccio. Troppo intelligente, pur nella follia, per pensare di immergere Milano nel buio. «Rimarrà uno dei grandi misteri italiani», dice in una testimonianza autobiografica. Una perizia medico-legale, ritrovata recentemente dal Corriere della Sera, riapre il caso. Le mani intatte, i segni sui polsi, le ferite sulla testa: tutto lascia pensare che Feltrinelli sia stato prima tramortito, poi legato al traliccio con l´ordigno e fatto saltare. Né Inge né Carlo hanno voglia di tornare su quella storia. Forse è la risposta che cercano da tempo, «ma non vale a stabilire ciò che conta veramente» (così Carlo chiude la biografia paterna). Era il più internazionale dei nostri editori, aveva rivoluzionato le librerie e il modo di fare i libri. Un imprenditore di cultura a cui l´Italia deve molto. A Inge piace ripetere le parole di Brega, mitico direttore editoriale di via Andegari: «Giangiacomo è morto per tormentata coerenza».

Repubblica 13.3.12
Gli aggettivi del sociologo
Stanca eccitata o incerta, ma in quale società viviamo?
Secondo il teorico coreano, quella del XXI secolo non è più "disciplinare" ma "della prestazione"
La rivoluzione ipertecnologica lascia trasparire chiari segni di una regressione arcaica
Da Debord e Bauman ai nuovi saggi di Han e Türcke, così cambiano le parole slogan per definire il nostro tempo
di Antonio Gnoli


La società è stanca. Lo pensa e lo scrive il coreano Byung-Chul Han, professore all´università di Karlsruhe (la stessa dove insegna Peter Sloterdijk), il cui pamphlet La società della stanchezza (nottetempo) ha sollevato in Germania molti interrogativi sul modo in cui oggi gli individui vivono la competizione. Anche un altro studioso, il sociologo tedesco Christoph Türcke, ha richiamato l´attenzione su temi analoghi, puntando però con La società eccitata (Bollati Boringhieri) sul sensazionalismo come tratto specifico del mondo contemporaneo. Sempre più i sociologi aggettivano il loro lavoro, lo rendono riconoscibile attraverso un´immagine, una battuta, uno slogan. Come quello lanciato qualche anno fa da Zygmunt Bauman che, analizzando la nostra incerta contemporaneità, coniò l´espressione "società liquida", destinata a una fortuna incomparabile con quanto aveva prodotto prima e tale da trasformare lo studioso in una vera star del pensiero e da fargli aggiungere un nuovo capitolo con la "società dell´incertezza". Poi venne la "società del rischio" di Ulrich Beck e quella "post secolare" di Jürgen Habermas. Ma già prima di Bauman la fantasia era all´opera: Michel Foucault inventò, non senza qualche motivata ragione, la "società disciplinare". E nel 1967 il situazionista Guy Debord ridusse profeticamente i nostri anni a quelli della "società dello spettacolo". Mentre Popper aveva parlato di "società aperta".
Ogni epoca, insomma, ha il suo tratto dominante. Nel giro di pochi decenni muta il paesaggio, cambiano le condizioni di accesso e le regole del gioco. Byung-Chul Han, per esempio, è convinto che la società disciplinare, descritta da Foucault, fatta di ospedali, manicomi, prigioni, caserme e fabbriche, non sia più la società di oggi. "Al suo posto", scrive, "è subentrata da molto tempo una società completamente diversa, fatta di fitness center, grattacieli di uffici, banche, aeroporti, centri commerciali e laboratori di genetica. La società del XXI secolo non è più una società disciplinare ma è una società della prestazione". Una società che passa dal dovere e dall´obbligo al potere di fare sentendosi liberata dal controllo.
La trasformazione non è priva conseguenze. Già il sociologo Alain Ehrenberg aveva colto nell´eccesso di responsabilità e di iniziativa individuale, nella pressione cui il sé viene sottoposto senza che riesca a fornire gli adeguati risultati, il diffondersi di una patologia sociale molto simile alla depressione. Più chiaramente Byung-Chul Han sostiene che causa della malattia sia l´imperativo della prestazione quale nuovo obbligo della società lavorativa tardo moderna. La frenesia con la quale tendiamo a eliminare gli intervalli e a disperdere la nostra attenzione espone l´organismo a una forma di esaurimento. La depressione - tipica di un mondo precario e spietato - esplode nel momento in cui il soggetto non è più in grado di essere all´altezza della prestazione. Al posto del fare subentra la stanchezza, l´azione lascia il passo a una forma di inedia.
La società stanca è una società depressa che ha preteso troppo dai propri soggetti. Byung-Chul Han è convinto che ogni epoca abbia le sue malattie. Il ventesimo secolo è stato l´epoca batterica finita con l´invenzione degli antibiotici. Certo, ancora oggi, circola lo spettro delle pandemie ma in realtà siamo passati dall´epoca virale a un´epoca neuronale: dalle infezioni del corpo al contagio dell´anima. Tramontate le strategie immunitarie, tipiche del secolo scorso, tese a colpire tutto ciò che è estraneo (dal virus, al nemico, all´altro, i termini in fondo si equivalgono), si fa largo uno scenario in cui l´estraneità diventa semplice differenza. "L´estraneo cede il passo all´esotico, visitato dal turista. Il turista o il consumatore non è più un soggetto immunologico". Sparisce l´idea del negativo. Ma "la positivizzazione del mondo consente la nascita di nuove forme di violenza". Non già una violenza virale, fondata su un nemico invisibile, ostile ed estraneo al nostro mondo, bensì una violenza neuronale, interna al nostro agire sociale che ha sbocco nella depressione o nella sindrome da deficit di attenzione.
La stanchezza dunque è la patologia del XXI secolo. Più che fiaccare il corpo, intorpidisce la mente. Eppure, una società che ripiegasse definitivamente nella depressione rischierebbe di cancellare l´altro aspetto che continua ad agitare i gangli nervosi del sociale: l´eccitazione. Siamo stanchi e al tempo stesso gasati; vogliamo ritirarci dalla gara e contemporaneamente partecipare alla competizione; viviamo una duplicità di sensazioni che è una situazione tipica della tarda modernità. Almeno è ciò che pensa Christoph Türcke, il quale ne La società eccitata descrive un mondo che ha trasformato il sensazionale in ordinario grazie a una sorta di coazione a trasmettere, che mette gli individui permanentemente in onda, eccitando il desiderio di esserci (qui Türcke rilegge in chiave presenzialista la nozione del dasein di Heidegger) e non solo di apparire.
"La lotta per l´esserci... è la lotta concorrenziale generale per la presenza mediatica: lotta per essere percepiti", scrive Türcke. Insomma, vogliamo tutti irradiare ed essere irradiati. Riscoprendo così quello che alcuni studiosi hanno chiamato sensation seeking, la ricerca di sensazioni possibilmente estreme e tutte vissute in diretta: mentre bruciano case, precipitano aerei, i piloti hanno un incidente, vengono catturati degli ostaggi. Sono scene dove il soggetto ama sostare. Perché intuisce che l´importante è esserci. Solo così si produce il brivido dell´autentica esperienza vissuta. Che è sempre un´esperienza estrema, un trauma vissuto di riflesso. Infatti la società eccitata, descritta da Türcke, esalta il morboso, la catastrofe appena avvenuta, il delitto cruento rimasto irrisolto. Oggi il trauma, in qualunque forma si presenti, osserva lo studioso, entra a pieno titolo in una rappresentazione spettacolare che i circuiti elettronici trasmettono ripetutamente. L´alluvione di stimoli che i media provocano "consiste precisamente nell´inclinare sempre più verso lo shock". Uno stato di ebbrezza elettronica avvolge le nostre esistenze: le eccita e le stordisce. Ma da dove nasce questa condizione, tutt´altro che tipica, della società contemporanea? Lo shock è l´inatteso, il mostruoso rispetto al quale "l´organismo non dispone di possibilità di rielaborazione nervosa".
Qualcosa di molto simile dovettero vivere i nostri lontani antenati di fronte al terrore che cercarono di domare attraverso l´esperienza del sacro. La nostra rivoluzione ipertecnologica lascia trasparire chiari segni di una regressione arcaica. E lo shock audiovisivo, come scrive Türcke, "è anche l´erede universale di quelle sensazioni originarie che un tempo apparivano come la quintessenza del sacro". Mai il sacro fu più presente e profano di oggi. Tutta la storia della nostra contemporaneità diventa, in un certo senso, una storia "regressiva" che cerca di scoprire dove ha origine il nostro comportamento più profondo e spaesante.

Repubblica 13.3.12
Muscoli e mascara. Beautiful men
Uomini che copiano le donne
Lacrime in pubblico, unghie smaltate, sopracciglia ritoccate : viaggio nei nuovi comportamenti dei maschi. Ora mostrare i sentimenti paga
di Anais Ginori


Lacrime, emozioni esibite in pubblico, unghie smaltate, sopracciglia ritoccate Così dai politici agli attori fino agli sportivi il canone classico del comportamento virile sembra completamente saltato. Perché mostrare i sentimenti paga e perché l´estetica è un fattore sempre più importante. Che condiziona anche i nuovi maschi

Non sarà una prova di sensibilità e slancio artistico come quando Diderot usciva da teatro singhiozzando, quello era il secolo dei Lumi, gli uomini scoprivano inaspettati paesaggi interiori, incominciava appena la ridefinizione di arcaici canoni di virilità. Oggi il pianto maschile si ostenta, diventa un´inedita prova di forza fisica, come dimostra l´immagine di Vladimir Putin che non trattiene i lucciconi, lascia cadere una, due, tre gocce, unica sorpresa dell´ennesima vittoria annunciata. Il presidente maschio alfa, che pescava col torso nudo e ora si finge frignone, è il simbolo di un´identità sessuale mutante, fino al confine dei metrosexual, narcisi contemporanei che rivisitano codici di seduzione, svelano allo sguardo corpi muscolosi e depilati, lucidi e profumati. Come, se non più di quelli femminili.
E in fondo tra i pionieri del genere c´è stato un altro prototipo di "uomo vero": il cestista della Nba Dennis Rodman che esibiva muscoli, canestri, una love story con Madonna, e smalto sulle unghie.
È un´invasione di campo alla quale ci stiamo rapidamente abituando. In politica, quell´attimo di presunta sincerità, il pericoloso sconfinamento nell´irrazionale, finora sembrava concesso solo a donne. Ci sono illustri esempi. Hillary Clinton sconfitta nella corsa alla Casa Bianca. Il ministro Elsa Fornero che non riesce a pronunciare la parola "sacrifici", presentando la riforma delle pensioni del governo Monti. Ségolène Royal umiliata dall´ex marito François Hollande alle primarie socialiste. Chissà se il 6 maggio prossimo anche il vincitore delle presidenziali francesi si abbandonerà alla lacrima facile. Non ci sarebbe nulla di cui stupirsi. Nicolas Sarkozy, altro esemplare della stirpe dura e pura, è già costretto a mostrare il suo lato più fragile per risalire la china dei sondaggi. Nella campagna elettorale cerca di impietosire gli elettori con formule del tipo "Sono cambiato", "Ho sbagliato", "Aiutatemi". È un ribaltamento di ruoli, qualcosa di impensabile fino a qualche tempo fa.
«Le elezioni si vincono con i programmi, ma anche con le emozioni» spiega la semiologa Giovanna Cosenza, che ha appena pubblicato Spot Politik, il saggio edito da Laterza su come cambia la comunicazione politica. L´esempio di Silvio Berlusconi che si vantava di parlare alla "pancia" del Paese ha creato delle contro-reazioni non sempre positive. «Penso alla scarsa capacità dei leader di sinistra di saper sorridere» ricorda Cosenza che cita alcuni esempi. Per un Piero Fassino commosso dopo l´elezione a sindaco di Torino e le dimissioni da deputato, c´è un Pierluigi Bersani terribilmente serio dopo la vittoria del centrosinistra alle amministrative del 2011. Come se il territorio delle emozioni, che pure fu aperto anche dal pianto di Achille Occhetto al congresso di Bologna quando cambiò nome al Pci, fosse oggi occupato più dalle destre. «Molti studi dimostrano che fino all´avvento di Barack Obama è proprio su questo che storicamente i repubblicani americani hanno avuto una superiorità comunicativa sui democratici». L´emozione può tradire, è l´ammissione di una perdita di controllo che mal si concilia il potere. Ma provoca anche un´empatia immediata, che va al cuore degli elettori. È nel dosare forza e fragilità che si cela il segreto della comunicazione politica moderna.
Molto è cambiato da quando, nel 1939, durante le riprese di Via col vento, Clark Gable si rifiutò di piangere davanti alle telecamere. E se poteva starci una stravaganza da ribelle punk quando Robert Smith dei Cure usava rossetto e ombretto, il segno della svolta globale è arrivato nel campo più conformista. Quello sportivo. Gli atleti, infatti, hanno oramai abbandonato i freni inibitori. Le lacrime di Franco Baresi ai mondiali di Usa ´94, quelle di Ronaldo nel 2001, quando l´Inter perse lo scudetto con la Lazio, e poi quelle per il suo addio al calcio. E ancora: David Beckham quando si ruppe il tendine d´Achille e dovette saltare i mondiali del 2010. Il calciatore inglese è l´icona del metrosexual che ha fatto del corpo uno strumento di lavoro e uno specchio estetico. Anche lui si mette lo smalto sulle unghie e ritocca le sopracciglia, moda sempre più diffusa tra i suoi colleghi (da Miccoli a Buffon). Sportivi, attori e principi (Harry, pure lui con lo smalto) non sono casi estremi ma simboli di una tendenza.
È il trionfo di quella bisessualità psicologica già teorizzata da Freud, oltre un secolo fa. Mai come oggi la virilità ha perso i suoi connotati teorizzati fin dall´Antichità: forza fisica, coraggio militare e potenza sessuale. È vero che questa costruzione sociale è stata fluttuante a seconda delle epoche e dei paesi come hanno spiegato gli studiosi Alain Corbin, Georges Vigarello, Jean-Jacques Courtine nel loro Storia della virilità, edito di recente in Francia. I robusti cavalieri del Medioevo diventarono a un certo punto cortigiani del re alle prese con danze, pizzi e inchini.
Oggi, però, la società è proiettata in una nuova frontiera. I luoghi dove tradizionalmente si costruiva la virilità - le caserme, le fabbriche, gli spogliatoi - sono scomparsi, in declino o comunque condivisi con le donne. Nelle strade delle città sfilano corpi maschili ammiccanti. Calciatori e rugbisti sono trasformati in sextoy sulle riviste patinate. Le ragazze prenotano gli spettacoli dei spogliarellisti Chippendales. Nella moda ci sono i "Single Man" di Tom Ford e le gonne di Marc Jacobs. L´attore Johnny Depp si mette il mascara per fare il "Pirata dei Caraibi" anticipando, involontariamente, il lancio di un nuovo prodotto il "manscara" solo per uomini. E prima, il rock aveva già rimescolato i generi, basti pensare a Keith Richards e all´icona bisex David Bowie.
«Fino a non poco tempo fa, per gli uomini la dimensione estetica e corporea non doveva esistere» ricorda il sociologo dei consumi Vanni Codeluppi, docente all´università di Modena e Reggio Emilia. Il ruolo sociale era il vestito esteriore di ogni uomo, una divisa simbolica. All´ultima fiera Cosmoprof di Bologna molti visitatori erano maschi, così come aumentano i pazienti della chirurgia estetica per scolpire corpi nuovi, secondo canoni estetici ancora confusi, ibridi. «È una trasformazione lunga, dalla quale non si tornerà indietro, e che segue di pari passo l´emancipazione femminile» prosegue Codeluppi. «Esistono oggi tante e diverse caratteristiche maschili che hanno archiviato vecchie classificazioni». Il rapporto con l´intimità è cambiato con le nuove tecnologie. La sfera privata è diventata pubblica. La presunta potenza sessuale, da Berlusconi a Dsk, si è trasformata in caricatura, deriva patologica. Il sesso forte si deve adeguare a valori tradizionalmente femminili come l´empatia, scopre l´impero dei sensi. E così facendo non piange la sua morte, ma la gioia di una resurrezione.

Repubblica 13.3.12
Gonne collant, body
I trucchi degli uomini non sono solo una moda
di Maureen Dowd


Di solito sono io quella che propone riflessioni sulla fine del maschio, ma questa volta è stato il mio amico John che mi ha inviato una mail allarmata: «Putin che piange, manscara e ora collant per uomo. Siamo finiti». Per non parlare della nuova commedia romantica Friends with Kids, con Jennifer Westfeldt (che è anche autrice e regista) insieme al suo compagno Jon Hamm, e ad altre star «damigelle d´onore». Il film, come ha osservato Jeannette Catsoulis sul New York Times, dipinge un mondo newyorchese in cui «gli uomini ormai parlano con competenza di esercizi di Kegel e abbassamento dell´utero».
La Russia è rimasta allibita vedendo le lacrime di Vladimir Putin, il rude e inflessibile ex capo del Kgb, nella notte in cui ha conquistato un terzo mandato come presidente. I suoi avversari hanno sbeffeggiato questo pianto di gratitudine per un risultato elettorale che considerano ottenuto con la frode. «Quelle non erano lacrime», ha detto Garry Kasparov, il campione di scacchi russo ora esponente del fronte liberale.
«Era il botulino che si scioglieva». (Non c´è da stupirsi che Pootie-Poot, come lo chiamava George W., non batta ciglio quando viene accusato di brogli elettorali). Putin ha detto che le lacrime erano causate dal gelido vento moscovita, ma il suo portavoce, Dmitri Peskov, lo ha larvatamente smentito alla televisione di Stato: «Beh, questo è quello che dice lui».
Gonne da uomo, manscara, guyliner e ciglia finte per uomo si vendono sempre più, specialmente in Gran Bretagna (vedi Russell Brand e il capitano Jack Sparrow). Una società britannica chiamata Eylure ha cominciato a vendere ciglia finte per uomo l´autunno scorso, promettendo uno "sguardo hollywoodiano". Prossima tappa: l´allungamento ciglia, che già fa furore tra gli uomini giapponesi, dotati naturalmente di ciglia corte.
In un recente episodio della sitcom The Office, Jim (interpretato da Jon Krasinski) doveva sostituire Ryan, il freelance di provincia convinto di essere uno da Apple, al lancio di un gadget Internet chiamato "la Piramide". Jim faceva la presentazione al buio, indossando giacca alla coreana e guyliner. «Tempo, spazio, genere», intonava Jim. «Non ci sono più regole. Tutti i confini stanno crollando sull´onda del futuro infinito».
Il mese scorso, durante la settimana della moda newyorchese, Aleksandr Plokhov, lo stilista di origini russe, ha fatto sfilare modelli maschi in gonna lunga ed extension, fra lo sbalordimento del pubblico. Paul Marlow, lo stilista della Loden Dager, ha fatto truccare i suoi modelli maschi con l´eyeliner. «Inizialmente non lo sopportavano e facevano battute fra di loro su quanto erano carini», ricorda Marlow. «Poi sono usciti a fumarsi una sigaretta e quando sono tornati erano entrati nel personaggio».
Francesco Cavallini, vicepresidente della Emilio Cavallini, azienda fiorentina specializzata in calze eleganti, la scorsa settimana ha dichiarato al Women´s Wear Daily che «i collant per uomo hanno un nutrito seguito». La società nel 2009 ha presentato una collezione di calze unisex, un misto di cotone e nylon che ha più "traspirazione" per gli uomini. Gli acquisti maschili ora rappresentano il 2-3 per cento della produzione annuale dell´azienda (un milione di calze). Cavallini ha detto al Women´s Wear Daily che gli uomini in Europa portano le calze con i pantaloni corti e «per tenersi caldi sotto i pantaloni durante i mesi freddi, e anche a casa per starsene comodi». Fra i motivi decorativi delle calze per uomo ci sono teschi, stelle, strisce e un motivo a scacchi.
«I collant unisex sono prevalentemente bianchi e neri», ha detto Lisa Cavallini, manager dell´azienda e sorella di Francesco, «ma credo che gli uomini che acquistano queste calze lo facciano per moda». I collant per uomo vanno soprattutto in Germania, Francia, Scandinavia, Canada e Stati Uniti. I collant possono essere virili? We´re men, we´re men in tights; we roam around the forest looking for fights, cantavano gli uomini di Robin Hood nella parodia melbrooksiana Robin Hood – Un uomo in calzamaglia.
Un sito dedicato interamente alla calzetteria maschile, e-MANcipate.net, offre una guida illustrata su come si infila un paio di collant, partendo dallo Step 1: «Mettetevi seduti. Assicuratevi che le unghie delle mani siano quantomeno in buone condizioni».
Ho chiesto alla 41enne Sara Blakely, la donna che ha creato la Spanx investendo 5.000 dollari dei suoi risparmi ed è appena entrata nella lista dei super ricchi di Forbes come la più giovane miliardaria partita da zero in tutto il mondo, se ha in programma di lanciarsi sul mercato dei collant da uomo. «Mai dire mai», risponde lei. «Gli uomini cominciano a diventare sempre più espliciti su quello di cui hanno bisogno. Riceviamo telefonate di stilisti che ci dicono di attori famosi e musicisti di grido che si strizzano dentro i nostri body Spanx per girare film e video musicali. E le donne ci supplicano di fare qualcosa per i loro mariti e fidanzati, che si comprano calze da donna taglia large ed extralarge per poter avere un collant». Sara Blakely vende già canottiere per uomo in cotone e lycra, e mutande da uomo con «una sacca disegnata meglio».
Forse gli uomini si sentono ringalluzziti ora che il cromosoma Y, che da milioni di anni va perdendo geni e si rimpicciolisce, sembra aver trovato l´equilibrio. Come ha scritto Nicholas Wade, redattore scientifico del New York Times, il cromosoma Y ha raggiunto «la perfezione miniaturizzata». Perfezione miniaturizzata in collant col teschio. Che chiedere di più?
© New York Times News Service
(Traduzione di Fabio Galimberti)