mercoledì 14 marzo 2012

l’Unità 14.3.12
I tecnici non bastano. Per uscire dalla crisi servono grandi partiti
Il dovere del dopo Monti
Contro il rischio di disgregazione occorre un nuovo patto di cittadinanza Compito della politica non è il semplice risanamento, ma la ricostruzione
di Alfredo Reichlin


La situazione è difficile. Parlare chiaro alla gente e riconquistarne la fiducia è condizione essenziale per reggerla.
È tempo di cancellare l’immagine che si cerca di dare del Pd: un partito ondivago e perennemente diviso. È chiaro che criticare gli atti e le scelte di questo partito è del tutto lecito. È la lotta politica, ed è il sale della democrazia. Però alla condizione che i termini dei dissensi e della lotta siano chiari.
Il Pd è un partito vero: forse, oggi, il solo in Italia. È fatto di donne e di uomini che si sono riuniti in buon numero sotto questa insegna in ragione di idee e di passioni. In più noi siamo un pezzo – direi perfino una condizione – della tenuta della struttura democratica e istituzionale del Paese. Siamo usciti vittoriosi dalla lotta contro la destra populista berlusconiana. I partiti non sono tutti uguali. Noi il governo Monti lo abbiamo voluto, altri l’hanno subito e non sanno dove andare.
Dunque, smettiamola di inventare problemi politici che non esistono. La famosa «foto di Vasto». Anche le primarie vinte a Milano da Pisapia erano una foto di Vasto? La politica non è riducibile a questi piccoli giochi. È (come si vide anche a Milano) nuove idee e bisogni di libertà, è spostamento di masse, è sommovimento sociale. È insomma ciò che riunì una folla felice di borghesi e di proletari in piazza del Duomo. È l’incontro del partito con la società civile e i movimenti.
Ciò che mi spinge a scrivere è questa preoccupazione: non che ci dividiamo, ma che ci dividiamo sul nulla. Che stiamo altrove rispetto a ciò che sconvolge la vita della gente, che non abbiamo il senso della grandezza e drammaticità dei problemi che sfidano un partito che si dice democratico e che si propone al Paese come il perno di una grande alleanza riformista. Questa alleanza non può ridursi a una alchimia politica (tanto di Vendola e tanto di Casini, e poi agitare prima dell’uso). Per funzionare richiede bel altro. È lo sforzo di organizzare una maggioranza di forze reali in funzione non di un qualche disegno di corrente ma della necessità di dare gambe a un progetto di ricostruzione del Paese. Perché di questo si tratta. Di una impresa molto grande e molto ardua: fermare la decadenza in atto ormai da anni del Paese. Ma è evidente che un simile disegno può riuscire a una sola condizione: che si avvii un risveglio e una mobilitazione, anche intellettuale e morale, delle nostre risorse più profonde, che si faccia leva sul lavoro, sull’ingegno e sulla creatività degli italiani.
Tutto ciò non è affatto in contraddizione con l’appoggio al governo Monti. Di ricostruzione oggi non potremmo nemmeno parlare se, grazie anche (non solo) all’opera di quello straordinario personaggio che è Monti, e senza l’intelligenza del Presidente della Repubblica, noi questo Paese non l’avessimo salvato da una catastrofe incombente. E se non l’avessimo riportato là dove si possono prendere le grandi decisioni, le sole che possono segnare una svolta: l’Europa e la sua possibile costruzione come soggetto politico globale, quindi come attore della lotta per imporre un nuovo ordine mondiale dopo i guasti e il fallimento di questa folle economia finanziaria.
C’è del vero nel dire che dopo Monti «nulla sarà come prima». Ma ciò nel senso che sono accadute cose tali in Italia e in Europa e nel mondo per cui è molto riduttivo pensare che con le elezioni si chiuderà una parentesi e torneranno sulla scena i vecchi partiti di prima.
Il Pd è però una cosa nuova e diversa, e così si deve presentare alla gente. Ha un disegno nazionale, un’etica politica e un patrimonio ideale. Ma la forza del Pd consiste anche nella necessità per la democrazia italiana (pena la perdita di ogni sua vitalità) che il sistema politico riacquisti autonomia e indipendenza rispetto al fenomeno grandioso dell’ultimo mezzo secolo. Questo fenomeno non è Monti. È l’avvento, alla testa della mondializzazione, di un potere di portata globale che si è eretto al di sopra di tutto secondo il vecchio aforisma «i mercati governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in tv a farsi sbeffeggiare».
Perché ci stupiamo per l’avvento al potere in Italia di uno straordinario show-man come Berlusconi? Sottolineo questo “prima”. È il mondo reale che ci sfida. E qui sta la ragione per cui un partito che pone alla sua base la questione della democrazia ha il dovere di fare i conti con ciò che in questi anni ha colpito profondamente proprio la ragion d’essere della democrazia (il pensiero “unico” secondo cui di essa non c’è più bisogno, perché sono i mercati che governano perché si autoregolano e sono «razionali»). Dunque, diciamo tutto il male possibile dei partiti ma di essi non si può fare a meno perché – se riformati – sono essi lo strumento del pluralismo degli interessi e delle idee. La loro funzione è quella di “ascensori sociali”, cioè di luoghi dove si affermano i diritti di cittadinanza, quali che siano i soldi di ciascuno. Ma soprattutto dove possono fare politica e ascendere ai posti di comando anche i poveri e le classi subalterne. Il salotto di Vespa non è l’alternativa, e quando ci interroghiamo sul perché della decadenza dell’Italia dovremmo riflettere anche sul fatto che è diventato quasi impossibile mandare in Parlamento un operaio.
Monti non c’entra niente. Si tranquillizzi Repubblica. Non è lui che ci sfida. È il cambiamento del mondo. Il più grande dopo secoli. Non tornerò a descrivere le decisioni fatali della Thatcher e di Reagan in conseguenza delle quali si pose fine al patto democratico tra il capitalismo industriale e il mondo del lavoro e, di fatto, si rinunciò a costruire la società del benessere. Questo è accaduto. Ed è per me molto triste vedere gente che si dice di sinistra e che non osa nemmeno pensare che una società non regge se l’uno per cento di essa diventa sempre più ricco e il novantanove sempre più povero. E che il mondo diventa ingovernabile se la finanza viene trasformata da infrastruttura dell’economia reale a un enorme potere autonomo che batte moneta fittizia e fa soldi mangiandosi l’economia reale.
Torno così alla necessità per l’Italia non solo di un risanamento ma di una ricostruzione. Ci rendiamo conto di cosa significa? Non si va in Europa con una distanza tra Nord e Sud diventata ormai abissale (quasi due Paesi) o senza dare una nuova base sociale e un nuovo terreno etico-politico su cui poggiare un rinnovato patto di cittadinanza, vivendo noi in uno strano Paese dove lo strato dominante guadagna quasi il doppio dei suoi omologhi tedeschi o francesi mentre i salari e gli stipendi sono inferiori del 30 per cento.
Pensare alla necessità per il dopo Monti di un governo forte che tragga la sua forza da una maggioranza politica e parlamentare coesa, a me sembra un dovere politico e morale. Non parla in me l’esponente di quella cosa così disprezzabile che è un partito. La mia vera preoccupazione è un’altra. Se il Pd non svolge questo ruolo io non so se il Paese, travolto dalla crisi, tiene oppure si disgrega. I tecnici non basteranno.

l’Unità 14.3.12
Intervista a Pippo Civati
«È vero, dobbiamo guardare ai delusi della sinistra»
Il consigliere regionale del Pd lombardo: «Franceschini ha ragione, ma facciamo una fatica del diavolo a parlare con queste realtà»
di Maria Zegarelli


C’è una fetta di astensionismo, di elettori delusi, di persone che guardano al movimento Cinque stelle:è a loro che il Pd deve parlare». Pippo Civati, consigliere regionale in Lombardia, entra nel dibattito aperto da l’Unità sulle alleanze future per il post-Monti e critica anche la foto di Vasto: «Mi sembra statica, superata, andrebbe modernizzata». Quanto alla formula «alleanza tra progressisti e forze moderate», qualche dubbio ce l’ha. «Chi sono i moderati?», chiede provocatoriamente.
Civati, Franceschini sostiene che il Pd debba guardare a quel potenziale 25% che sta alla sua sinistra. Letta, Fioroni, per citarne due, sono più cauti. Lei? «Ha ragione Franceschini e quella prateria è composta da chi è deluso dalla politica, da chi vorrebbe astenersi, da chi guarda al movimento di Grillo e da una parte dei movimenti che durante il 2011 hanno riempito le piazze. Il problema è che il Pd fa una fatica del diavolo a parlare con queste realtà, l’ultimo episodio è stato la gestione della manifestazione della Fiom con quel “vado, non vado”».
È stato un errore non andare?
«È stato un errore non mandare una delegazione ad ascoltare quello che chiedeva quella piazza. Riformare il mercato del lavoro non vuol dire dimenticare i giusti temi del conflitto sociale delle fabbriche o le questioni di democrazia che la Fiom poneva». Lei dice che nel suo partito non si riesce a parlare a quella prateria. Perché? «Per poter entrare in contatto c’è un’anticamera che bisogna superare rappresentata dai costi della politica, dal sistema elettorale e dai meccanismi di partecipazione. Non è un caso che Bersani nel suo volantino del viaggio nel paese abbia messo proprio questi temi, gli stessi che io ripeto da parecchio tempo. Le questioni ambientali e i diritti sono gli argomenti di cui vogliono sentir parlare tutti coloro che oggi guardano altrove. C’è bisogno di parole chiare, nette e precise e purtroppo non ne sono venute».
Non dipenderà anche dal tasso di alta litigiosità interna?
«Dovremmo incominciare a mettere da parte la litigiosità e iniziare a praticare il pluralismo che significa prendere alcune posizioni, che non sono attualmente rappresentate, e dargli visibilità, anche quando non vengono dalla segreteria. Una volta Bersani mi disse che una minoranza può diventare maggioranza ma non se passa il tempo a stressare la maggioranza. C’è bisogno di proposte serie, precise, di qualità».
Lei con l’iniziativa di Bologna, “Il nostro tempo”, ha fatto delle proposte. Sono state accolte, oppure sono rimaste lettera morta?
«Devo dire che alcune nostre proposte sono state fatte proprie dal partito, anche se nessuno oggi dice da dove sono venute ed è un peccato perché sarebbe un modo per riconoscere il pluralismo. Una delle proposte che facemmo in quella sede riguardava le primarie per i parlamentari ed è stata affrontata anche dall’assemblea nazionale, come quella di un legge sulla corruzione, che recentemente abbiamo ripreso a Canossa con Stefano Rodotà». Franceschini ha ribadito quella che è anche la linea del segretario: una alleanza tra progressisti e forze moderate. La ritiene possibile una coalizione che va da Casini a Vendola? «Intanto bisognerebbe avere il coraggio di modernizzare la foto di Vasto, come dice lo stesso Vendola, perché mi sembra molto statica e legata alle sigle dei partiti. Dovrebbe essere aperta ai ceti produttivi, alle donne, alla società civile. Insomma, bisognerebbe metterci un po’ di elettori veri più che di leader. Poi, e arriviamo ai moderati, mi chiedo chi siano oggi le forze moderate».
Casini, Rutelli, il cosiddetto Terzo Polo. Di questo stiamo parlando.
«Io non sono affezionato a Vasto, ma vorrei capire se estendere l’alleanza ai moderati non si traduca in un corto circuito. Il Pd su che cosa vuole costruire l’alleanza? Quali sono i dieci punti su cui ha un progetto e un programma? Da qui si deve partire, da quello che abbiamo in mente di fare durante la prossima legislatura».
Lei non ha mai citato l’Idv. Perché?
«Se Di Pietro vuole stare in coalizione con noi deve prendersi degli impegni, la deve piantare di lavorare sulle nostre difficoltà. Ma devo dire che si fatica a trovare luoghi parlamentari o extraparlamentari per parlare di queste cose».
Civati, che ne pensa dell’eterna discussione sulla leadership?
«Ho sentito almeno quindici nomi diversi negli ultimi tempi. Mi sembra che ci siano grandi velleità al riguardo mentre sarebbe meglio deciderlo sulla base di un decalogo di priorità per un programma di governo».
Lei quali metterebbe nell’elenco?
«Credo che al primo posto ci debba essere, per una coalizione di centrosinistra, la riduzione delle diseguaglianze insieme alla possibilità di orientare il sistema produttivo, là dove serve. Se si lavora su questo la gente capisce cosa vuoi dire, se parli del rilancio selettivo dell’economia, nei settori strategici, dalla ricerca all’innovazione, gli elettori riconoscono quello che hai in testa di fare».

Corriere della Sera 14.3.12
La suggestione proporzionale
Alla ricerca del buon governo, dopo il fallimento del maggioritario
di Michele Salvati


Anticipiamo in questa pagina le conclusioni dell'articolo con cui Michele Salvati apre una discussione sulle prospettive del sistema politico italiano sul numero della rivista «Il Mulino» in uscita domani, il primo firmato dallo stesso Salvati come nuovo direttore della testata. Il fascicolo contiene anche un intervento della filosofa americana Martha Nussbaum sulla funzione dei sistemi educativi; testi del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, del governatore di Bankitalia Ignazio Visco e del giudice costituzionale Sabino Cassese; articoli di Sergio Fabbrini, Pasquale Pasquino, Alfonso Botti.

L e ragioni di un governo buono o cattivo non sono legate in modo stretto alla legge elettorale. Le cause del cattivo governo nella seconda parte della Prima Repubblica non sono tanto dipese dalla legge proporzionale, ma dall'incoerenza e dai conflitti interni della coalizione necessaria a escludere il Pci dal governo: è questa esigenza che impediva l'alternanza. Conferma? Nella prima parte della Prima Repubblica, con la stessa legge proporzionale, c'è stato buon governo perché la coalizione capace di escludere il Pci era più coerente. È dunque la coerenza dei ceti di governo a determinare un governo buono o cattivo. La conclusione è confermata da un'analisi di come ha funzionato la Seconda Repubblica. Per la pressione a raschiare il fondo del proprio barile, pur di vincere, il nostro maggioritario ha prodotto maggioranze eterogenee e incapaci di governare bene, salvo che per brevi periodi.
Dobbiamo allora tornare al proporzionale? Al di là della critica che con un sistema proporzionale i cittadini potrebbero non essere in grado di scegliere il governo, due sono le critiche che si potrebbero aggiungere. La prima è che, anche in questo caso, l'esito cui si arriverebbe sarebbe un governo di coalizione: che cosa assicura che questa coalizione sarebbe più capace di buon governo di quelle che si producono in un contesto maggioritario e bipolare? La seconda è che la coalizione includerebbe sempre i partiti collocati al centro dello schieramento, che ora si alleano a destra, ora a sinistra. Ed è possibile che il capo del governo sia (quasi) sempre espresso da uno di questi partiti (i due forni di Andreotti?). Infine, se l'alleanza tra i centristi e uno dei due partiti «ragionevoli» alla loro destra o sinistra fosse numericamente insufficiente, e risultasse impossibile anche un'alleanza tra il partito di destra/sinistra e i partiti estremisti della sua parte, l'unica alternativa sarebbe una Grosse Koalition, simile a quella che oggi sostiene il governo Monti. È auspicabile?
La risposta dei proporzionalisti alla prima critica potrebbe essere che le coalizioni del proporzionale sarebbero di solito centripete, composte dai centristi e dalle forze più moderate che si collocano alla loro destra o alla loro sinistra, mentre le coalizioni bipolari del maggioritario includono di necessità partiti estremisti. Ora, non è detto che coalizioni centripete siano più capaci di buon governo di coalizioni centrifughe. Non è detto, però — suggeriscono i proporzionalisti — c'è qualche buon motivo per ritenerlo, se solo guardiamo a due fotografie: la fotografia di Vasto (Bersani, Di Pietro, Vendola) e la fotografia di Bersani (e perché non Alfano?) insieme a Casini, Fini e Rutelli.
E quale potrebbe essere la risposta alla seconda critica, ai «due forni»? Anzitutto che non si tratterebbe di due forni nel senso andreottiano: la Dc non c'è più, i partiti maggiori stanno oggi alla destra o alla sinistra del raggruppamento di centro, e nulla impedisce che il presidente del Consiglio sia espresso da loro. E poi, se i centristi hanno una maggiore probabilità di stare al governo, qual è il problema? Un'analogia con la situazione della Prima Repubblica sarebbe fuorviante. La democrazia era allora bloccata e l'alternanza era impossibile per la necessità di escludere i comunisti. Oggi la democrazia è sbloccata e alleanze di centrosinistra sono altrettanto legittime e possibili che alleanze di centrodestra. E gli stessi «due forni», a modo loro, consentirebbero all'elettore di indicare la direzione dell'alternanza. Se gli elettori assicurano un buon successo al partito riformista di sinistra (o di destra) e insieme anche ai partiti estremi di quella parte, essi mandano un messaggio di cui i partiti di centro non potranno non tener conto. Si potranno dunque avere governi forti, moderati e però con un profilo ideologico ben definito. Se poi saranno anche capaci di buon governo è tutto da vedere. Ma probabilmente, sostengono i proporzionalisti, saranno capaci di un governo migliore di quello che ha prodotto il bipolarismo sgangherato degli ultimi anni.
Non vorrei che questo articolo venisse letto come un'apologia del sistema proporzionale: non ho nulla contro alterazioni, mirate e modeste, di una pura logica proporzionale. Modeste però. E mirate a un bersaglio che contemperi principi democratici ed esigenze di buon governo. Oltre all'eliminazione dell'attuale impossibilità di scelta dei propri rappresentanti da parte degli elettori, una legge elettorale ideale dovrebbe consentire il raggiungimento di tre obiettivi: (a) coalizioni di governo forti, con una sufficiente maggioranza; (b) coalizioni centripete, non attraversate da contrasti interni insanabili; e (c) coalizioni potenzialmente alternative, che diano agli elettori una effettiva possibilità di scelta tra grandi orientamenti ideali. Sono queste le tre palle che un buon giocoliere elettorale dovrebbe tenere sospese per aria. Compito difficile, ma non impossibile.
Esiste questo buon giocoliere nell'attuale Parlamento? Una risposta positiva sfida il senso comune. E anche se il Parlamento fosse migliore, essa sfida un ben noto teorema di impossibilità: non si può chiedere ai partiti di riformare se stessi e il sistema in cui competono, quello che determina le loro convenienze di oggi. Eppure è proprio a loro che dobbiamo chiederlo e non ci resta che sperare che la situazione di emergenza induca a falsificare il teorema. Si tratta di un'emergenza economico-sociale, perché non si può sperare che la troppo breve cura Monti rimetta in sesto il Paese. Chi oggi pretende da Monti riforme che facciano tornare a crescere l'economia in tempi brevi non sa di che cosa parla: riforme dure e politicamente difficili dovranno continuare ben oltre il governo attualmente in carica.
E si tratta di un'emergenza democratica, di una anomalia seria rispetto alle democrazie decenti. L'anomalia non sta nel «governo tecnico», come impropriamente è chiamato, ma nella situazione di incapacità decisionale dei governi politici che l'hanno preceduto e che ha reso necessario un commissariamento della «politica normale». Purtroppo si tratta di una debolezza profonda della democrazia all'italiana, perché il governo Monti è una replica di quanto era avvenuto con i governi «tecnici» tra il 1993 e il 1995. Allora essi fecero seguito a governi «politici» in cui si sosteneva che stavamo vivendo nel migliore dei mondi possibili, mentre l'inflazione era il doppio che nel resto d'Europa e il debito si accumulava a ritmi vertiginosi. Il governo Monti fa seguito a un governo in cui il premier e il ministro del Tesoro sostenevano che la situazione era migliore che altrove, che tutto andava bene, mentre il Paese ristagnava da dieci anni, le spese pubbliche continuavano a crescere e nulla di serio veniva fatto per abbattere l'enorme debito pubblico.
Dagli anni Settanta in poi la democrazia all'italiana non è stata capace di buon governo. Da sola, una legge elettorale non può cambiare questo stato di cose. Ma può aiutare a cambiarlo, se è il segno di un'analisi almeno convergente, se non totalmente condivisa, sulle origini del cattivo governo, sulla necessità di un governo politico che non richieda periodici interventi di governi tecnici, e soprattutto sull'urgenza di intervenire. L'espressione «democrazia a rischio» è stata usata tante volte, e non di rado a sproposito. Ora credo sia perfettamente appropriata.

Repubblica 14.3.12
Un saggio di Luciano Gallino
Il ritorno delle classi
Perché bisogna difendere il modello del welfare
di Massimo Giannini


Succede che lo 0,5% della popolazione mondiale detiene 69 trilioni di dollari mentre il 68% dispone solo di 8 trilioni
La voglia di dimostrare con la forza della ragione e il rigore dei numeri che ci si può sempre opporre a tutti i conformismi
Un saggio di Luciano Gallino illustra le conseguenze economiche di un sistema creato dai più ricchi e che ha elevato la diseguaglianza a ideale di sviluppo. L´unico antidoto è il cuore dell´Europa: lo stato sociale

Nel 1974, quando uscì la prima edizione del Saggio sulle classi sociali, avevo dodici anni. Un ragazzino, in effetti. Ma sei anni dopo, già sufficientemente affamato di politica, trasformai quel libro straordinario di Paolo Sylos Labini nella mia Bibbia. Me lo consigliò il professore di storia e filosofia che mi preparava all´esame di maturità: «Lo devi leggere assolutamente, se vuoi capire qualcosa della società italiana». Aveva ragione. Sono passati quasi trent´anni. Ho perso le tracce di quel professore. E quel grande economista di Sylos Labini purtroppo non c´è più. Ma appena ho finito di leggere l´ultimo libro-intervista di Luciano Gallino (La lotta di classe-Dopo la lotta di classe, scritto insieme a Paola Borgna per Laterza) mi è tornato subito in mente il vecchio Saggio sulle classi sociali, che tanto ha spiegato dell´Italia più profonda, tra fascismo e Prima Repubblica.
Anche questa Lotta di classe spiega molto della crisi globale e della curvatura egemonica e tendenzialmente anti-democratica del capitalismo contemporaneo. Ma rispetto al suo saggio precedente Finanzcapitalismo, non si limita a descriverne i principi "costitutivi", ma ne approfondisce gli effetti sui mercati globali e sugli assetti produttivi, sulle classi lavoratrici e sulla distribuzione del reddito, sulle politiche fiscali e sull´organizzazione del lavoro. Si può condividere o meno. A me convince molto la critica alla cultura dominante, che ruota intorno a pochi, ossessivi assiomi neo-liberisti. In giro c´è davvero una "unanimità totalitaria" sugli slogan imposti da quella che Leslie Sklair, dalla London School of Economics, definisce "la classe capitalistica trans-nazionale" dei banchieri e dei proprietari di grandi patrimoni, dei top manager e degli azionisti delle grandi multinazionali. Insomma, l´élite oggi al potere, che comanda il Super-Stato al momento più forte del mondo: "Richistan", il paese dei ricchi che, secondo la definizione di Robert Frank, «sono ormai un popolo e una nazione a sé». Questa élite condiziona Parlamenti e manovra politici. Influenza università e fonda Think-tank. Con alcuni obiettivi di fondo, per altro raggiunti: trasformare il mercato in un idolo, e il denaro in un´ideologia. Creare le condizioni, culturali e poi anche legislative, per un gigantesco processo di trasferimento della ricchezza globale, dal lavoro alla rendita. Da almeno un ventennio, il colossale inganno confezionato da questa classe dominante è aver fatto credere che le classi non esistono più. E che dunque la lotta di classe è un "residuo arcaico" del vetero-marxismo. Niente di più falso. Su questo Gallino ha ragione da vendere. Oggi è più difficile sezionare un corpo sociale con la precisione chirurgica di Sylos Labini, in quei primi Anni Settanta: borghesia vera e propria, borghesia impiegatizia, piccola borghesia, classe operaia, sottoproletariato. È vero che dal dopoguerra in poi, in Italia come nel resto delle democrazie occidentali, l´accesso al lavoro ha consentito a milioni di individui di trasformarsi in cittadini, e di accedere a una piramide sociale con una base sempre più ampia e più solida. Di comprare ieri il frigorifero, oggi il telefonino. Ma nonostante l´omogeneizzazione dei consumi e degli stili di vita, a marcare il perimetro di una classe che resiste c´è la qualità e la quantità del lavoro. A dettare i tempi della storia non ci sono più solo le avanguardie orgogliose della classe operaia, ma le retroguardie silenziose di una "working class" sempre più estesa, precaria e impoverita. Adam Smith sosteneva che la lotta di classe esiste perché operai e padroni non possono essere "complici", visto che i primi lottano per aumentare i salari, mentre i secondi lottano per aumentare i profitti.
Gallino aggiorna lo schema: «la lotta di classe, oggi, è quella di chi non è soddisfatto del proprio destino, e vuole cambiarlo, e quella di chi invece è soddisfatto del proprio destino, e vuole difenderlo». Il conflitto è durissimo. La classe dei "capitalisti per procura" che gestiscono trilioni di miliardi di denaro altrui, sta consumando la sua rivincita ai danni della "classe dei perdenti". Le politiche dei governi assecondano la "reconquista" del capitale ai danni del lavoro. Da Bush a Sarkozy a Berlusconi, si riducono le tasse ai ceti più abbienti e alle società, e si sposta il carico tributario a vantaggio della rendita. Così in Italia può succedere che un lavoratore con un imponibile di 28 mila euro e 1.500 ore lavorate paga 6.960 euro di tasse, mentre un redditiere con un capitale dello stesso importo, senza muovere un dito, ne paga 5.600. Nel mondo può succedere che lo 0,5% della popolazione più ricca detenga 69 trilioni di dollari, mentre il 68% della popolazione detenga solo 8 trilioni di dollari. È la disuguaglianza elevata a "modello di sviluppo", che oggi domina la scena. Il "forgotten man" di cui scriveva qualche giorno fa Guido Rossi sul Sole 24 Ore. La globalizzazione degenera in delocalizzazione selvaggia fondata sul dumping sociale: Apple assembla un iPhone in 140 pezzi, e nessuno di questi è fabbricato in America. La ricerca di competitività delle merci dal solo lato dei costi svalorizza il lavoro e immiserisce il salario: un lavoratore americano o europeo che guadagna 25/30 dollari l´ora viene licenziato, perché al suo posto lavorano poveri cristi indiani o vietnamiti a 36 centesimi l´ora. La legislazione del lavoro diventa funzionale all´obiettivo di rendere l´occupazione tanto flessibile quanto lo sono i capitali: così nascono i moderni "salariati della precarietà", e così (nonostante l´inutile spargimento di parole sull´articolo 18) tra il 1996 e il 2008 l´Italia ha registrato un calo dal 3,57 all´1,89% nell´indice Ocse sulla rigidità della protezione del lavoro. L´austerità dei bilanci pubblici diventa lo strumento di una "economia politica dell´insicurezza", dove l´isteria del deficit si traduce in tagli sempre più massicci alla spesa sociale: governi miopi, di destra e di sinistra, predicano "ideologia liberista, incompetenza e ipocrisia", mentre istituzioni europee e trans-europee prive di legittimazione politica praticano l´ingiustizia sociale e perpetuano la gramsciana egemonia del "partito di Davos".
Anche nella Lotta di classe di Gallino ci sono aspetti che non condivido. Qualche schematismo nel valutare il salvataggio delle banche (che è un modo per salvare anche i nostri soldi) o il signoraggio delle tecnocrazie (che suggeriscono decisioni comunque ratificate da governi votati e da Parlamenti eletti). Qualche cedimento alla deriva movimentista (per esempio sull´inutilità della Tav in Val di Susa). Ma Gallino ha il merito di non perdere mai di vista la vera posta in gioco: la salvaguardia del modello sociale europeo, senza il quale la stessa Europa non ha più ragione di esistere in quanto "comunità di destino". Se questo modello è ora sotto attacco, la colpa è di tanti. Una politica degradata e vittima della "cattura cognitiva" dominante e un´opposizione parlamentare ovunque inesistente. Un sindacato distratto che subisce a sua volta la "low road" delle relazioni industriali e un ceto intellettuale che non sa vedere, sentire e interpretare i disagi della "classe dei perdenti".
La conclusione è sconfortante, e non lascia troppe vie d´uscita: l´Occidente sfiorisce tra democrazie "in stato comatoso". Ma quello che apprezzo di questo professore piemontese ostinato e "indignado" è la sua voglia di dimostrare, con la forza della ragione e il rigore dei numeri, che ci si può ancora opporre ai conformismi e ai pensieri unici. E ci si può ancora battere, ciascuno nel proprio ambito, per "un´altra democrazia". Senza mitizzare Zuccotti Park, sarebbe la missione di una sinistra riformista, capace di essere al tempo stesso liberale nelle politiche e radicale nei valori. Come scrive Slavoj Zizek, il comunismo è un´immane tragedia da condannare, ma in quella tragedia c´è tuttora un frammento importante, da non buttare via: «la speranza dell´emancipazione, l´idea che si potesse essere un po´ più uguali, che la società potesse essere un po´ più giusta». Quel frammento è ancora qui. Ed è la ragione stessa della Storia.

La Stampa 14.3.12
Politica e affari: terremoto a Bari
Tangenti in Comune arrestati imprenditori legati al Pd pugliese
Coinvolti funzionari pubblici e un consigliere regionale
di Carmine Festa


BARI L’ inchiesta, a Bari, è iniziata sette anni fa: è stata aperta in seguito all’allagamento per un’alluvione dell’ex cava di Maso. Ieri ha provocato un terremoto in città. L’arresto dei fratelli Daniele e Gerardo De Gennaro insieme a quelli di funzionari del Comune è un fatto che va oltre i provvedimenti emessi dalla magistratura. Coinvolge persone notissime, rivela pezzi della storia cittadina che - secondo l’accusa - sarebbero stati concertati a tavolino, come la costruzione di un intero quartiere, Carbonara 2. E costringono il sindaco Michele Emiliano ed il Pd ad interrogarsi. Gerardo De Gennaro è consigliere regionale dei Democratici (si è sospeso subito dopo la notifica del provvedimento degli arresti domiciliari). Suo fratello Daniele è leader locale di Federalberghi. Insieme li riunisce il marchio Dec, una sigla che a Bari ha campeggiato a lungo su quasi tutti i cartelli dei cantieri aperti negli ultimi anni: due parcheggi sotterranei nelle piazze Giulio Cesare e Cesare Battisti, un centro direzionale nel quartiere San Paolo.
La Procura ipotizza che queste e altre opere siano state realizzate attraverso appalti aggiudicati truccando il principio della libera concorrenza, turbando le gare e realizzando in corso d’opera varianti ai progetti che si sarebbero tradotti in risparmi significativi per le imprese. Per questo motivo oltre ai fratelli De Gennaro, sono stati disposti gli arresti domiciliari anche per il direttore della ripartizione Urbanistica del Comune di Bari, Anna Maria Curcuruto, per l’ex direttore dell’Ufficio tecnico comunale, Vito Nitti, per Gennaro Russo, dirigente delle politiche per lo sviluppo rurale della Regione Puglia e per Michele Corona e raffaele Contessa, liberi professionisti ritenuti di fatto dipendenti del gruppo De Gennaro. Sono 51 le persone indagate nell’ambito di questa inchiesta che ieri ha portato gli uomini della Finanza nelle case di alcuni tra i professionisti e imprenditori più noti in tutta la Puglia e anche oltre. Il gruppo De Gennaro è il primo nel Mezzogiorno come fatturato nel settore delle opere pubbliche.
La storia di questa famiglia è iniziata subito dopo la seconda guerra mondiale con il fondatore dell’impresa, il cavaliere di gran croce Emanuele De Gennaro. Oggi la famiglia ha costituito una società per azioni, la Dec Spa attraverso la quale ha partecipato - aggiudicandoseli quasi tutti - ai principali appalti della città di Bari. Poi l’impegno in politica di Daniele con l’elezione in Consiglio regionale nelle fila del Pd mentre Annabella De Gennaro (figlia di Vito, indagato in questa inchiesta) è stata fino a qualche mese fa assessora al Comune di Bari con delega alla semplificazione dei servizi per il cittadino. Poi le dimissioni dalla giunta Emiliano. Il sindaco commentò quella scelta come «un gesto di responsabilità di cui prendere atto». Pare che a suggerire le dimissioni ad Annabella fossero state proprio le voci dell’inchiesta sulla sua famiglia. Ieri il sindaco Emiliano di fronte ai sette arresti ha detto: «Chi sbaglia paga e chi è innocente deve avere fiducia della giustizia» annunciando subito dopo l’avvio di una indagine interna al municipio per «riesaminare eventuali illegittimità».

La Stampa 13.2.12
Tra appalti e escort il tramonto di un sogno
Così due anni di inchieste hanno decimato la classe dirigente
di Guido Ruotolo


ROMA Lo dice sottovoce Alessandro Laterza, casa editrice alle spalle e un impegno nazionale in Confindustria: «Siamo al tramonto del grande sogno della Primavera pugliese».
Lascia sgomenti lo stillicidio di arresti che da due anni stanno distruggendo la «diversità» pugliese. Hanno voglia a dire «i sognatori» che si tratta di una «catena di eventi diversi tra loro». Precisando che un conto è Bari e un altro la Puglia, per dire che Michele Emiliano il sindaco e Nichi Vendola il governatore non sono la stessa cosa.
Sarà pure vero, ma quello che conta è che quella Primavera si sta trasformando in un’arida stagione di incomprensioni, di sgambetti, guerre fratricide che si combattono a suon di mandati di cattura. E soprattutto di generali, Nichi Vendola e Michele Emiliano, che stanno lavorando per cambiare territori e praterie. Il primo, proiettandosi in uno scenario nazionale di leader di un possibile schieramento. Il secondo che si è candidato governatore della Puglia e si ritrova in sintonia con il protagonismo del sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, in un’opera di rifondazione di uno schieramento di sinistra.
La Bari levantina dei grandi commerci e delle cordate di costruttori (la famiglia Matarrese in testa ma anche gli «illuminati» Dioguardi) che negli anni Ottanta che avevano creato le premesse della grande Puglia, la «California del Sud», oggi mostra la fiacca.
Ricordate Patrizia D’Addario e Gianpi Tarantini? Una epopea fatta di escort e montagne di cocaina, di appalti e di soldi. Quella Bari e quella Puglia molto milanese, alla fine ha contagiato anche gli ex comunisti pugliesi. Perché in quella storia di sanità malata che Tarantini ha incarnato, è finito in carcere il dalemiano Sandro Frisullo, assessore regionale della giunta Vendola. Ma nei guai (il Senato non ha dato l’autorizzazione), sempre per gli affari nella sanità pubblica e privata, è finito anche l’ex assessore alla Sanità della giunta Vendola, il senatore Alberto Tedesco, ex socialista passato al Pd e approdato adesso al gruppo misto di palazzo Madama.
E oggi, un altro consigliere regionale del Pd, l’imprenditore, Gerardo Degennaro, è finito in carcere per una storia di corruzione e di truffe. Ottanta indagati tra imprenditori, professionisti e pubblici dipendenti.
Degennaro vuol dire Emiliano, il sindaco di Bari. La nipote dell’imprenditore arrestato fino a qualche mese fa è stata assessore della giunta Emiliano (si è dimessa quando dagli spifferi dalla Procura si è diffusa la notizia dell’inchiesta in corso). Ma il sindaco si difende: «I fatti contestati riguardano il periodo precedente al suo impegno in politica. Gli arrestati burocrati del comune o della Regione erano ai loro posti anche quando c’era il sindaco del centrodestra, Di Cagno Abbrescia, o il governatore Fitto».
Sarà pure vero, come dice Emiliano. Ma intanto la Fondazione Petruzzelli gestita dal sindaco è stata commissariata. E la Puglia della «narrazione» vendoliana è ammutolita. Anche il carcere distrugge i sogni.

Corriere della Sera 14.3.12
«Mi hanno fatto fuori per trattare con la mafia»
Nicolò Amato: volevo carcere più duro per i boss
di Giovanni Bianconi


ROMA — «Io sono una vittima della trattativa tra lo Stato e la mafia. Sono l'agnello sacrificale fatto fuori per attuare una politica carceraria più morbida nei confronti della criminalità organizzata». Dopo l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino che dice di essere stato raggirato, ecco che un altro protagonista istituzionale della stagione «piena di ombre» — come l'hanno definita i magistrati che indagano o hanno giudicato sulle stragi del 1992 e 1993 — si chiama fuori da qualunque patto sottobanco. Nicolò Amato, ex direttore generale degli istituti di pena rimosso il 4 giugno '93, tra un attentato e l'altro sul continente, ha appena dato alle stampe un libro (I giorni del dolore, la notte della ragione, Armando editore) per lanciare la sua denuncia: «Avessero accolto le mie proposte, anziché cacciarmi, la lotta alla criminalità non sarebbe arretrata e non ci sarebbe stato nemmeno l'oggetto dell'eventuale trattativa».
Ma scusi, avvocato Amato, non fu lei a proporre all'allora ministro della Giustizia Conso di non rinnovare il «carcere duro» per i mafiosi, nel famoso appunto del 6 marzo 1993?
«Neanche per sogno. Io proponevo di sostituire l'articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario, quello sul carcere duro appunto, con una legge che rendesse obbligatorio il controllo audio e la registrazione dei colloqui dei detenuti, per impedire sul serio le comunicazioni dei mafiosi con l'esterno. Era l'unica norma efficace, che poi fu introdotta nel 2002, 9 anni dopo la mia proposta. In più suggerivo le videoconferenze per evitare il "turismo giudiziario" dei detenuti che dovevano partecipare ai processi in giro per l'Italia, con tutto ciò che ne conseguiva in termini di sicurezza. Anche questa norma è stata introdotta nel 2001. Si sono adeguati con un po' di ritardo ai miei consigli».
Però dopo il suo appunto di marzo sono cominciate le mancate proroghe dei «41 bis».
«Non è vero neanche questo. Il 15 marzo, cioè nove giorni dopo il famoso appunto di cui tutti parlano ma che pochi hanno letto, io ho proposto al ministro di mettere al carcere duro altri nove detenuti di mafia. Le pare l'atteggiamento di uno che non vuole il 41 bis?».
Allora perché l'altro ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, in carica fino al febbraio del '93, continua a ripetere che lei era per l'abrogazione del carcere duro?
«Le ho già spiegato che io proponevo di sostituirlo con una legge ancor più incisiva, che avrebbe eliminato la discrezionalità delle misure restrittive eliminando l'oggetto stesso dell'ipotetica trattativa: se una cosa è discrezionale si può spingere per farla rimuovere, se è obbligatoria per legge non più. Piuttosto Martelli dovrebbe spiegare come mai non aderì alla mia iniziativa di rinchiudere oltre 5.000 detenuti per reati legati alla criminalità organizzata in 121 prigioni ad hoc ed applicare il 41 bis a quegli istituti nella loro interezza».
Perché, secondo lei? Forse non le ha mai perdonato di non averla trovata la sera del 19 luglio '92, dopo la strage che uccise Borsellino e cinque agenti di scorta?
«È un'altra falsità. Io trascorsi quella notte in ufficio per organizzare il trasferimento dei detenuti sulle isole di Pianosa e dell'Asinara, come risposta immediata all'eccidio».
Ma se il decreto dovette firmarlo il ministro in persona, sul cofano di una macchina a Palermo...
«Fu una richiesta precisa di Martelli, che volle compiere un gesto politico firmando personalmente l'ordine di traduzione di un gruppo di detenuti, come atto simbolico. Ma gli indicai io i cinquanta da portare via dall'Ucciardone. La verità è che io sono diventato una specie di capro espiatorio, mentre invece ora ho la prova che la mia cacciata avvenne su precisa richiesta della mafia. È stata una scoperta sconvolgente».
Di che sta parlando?
«Sto parlando della lettera anonima arrivata il 17 febbraio '93 all'allora presidente della Repubblica Scalfaro, in cui un gruppo di sedicenti parenti di reclusi al 41 bis lanciava minacce se non si fosse attenuato il regime carcerario. Una lettera spedita anche a Maurizio Costanzo, al vescovo di Firenze e al Papa: e guarda caso di lì a poco ci fu l'attentato a Costanzo, e poi quelli a Firenze e al Vicariato di Roma. All'epoca nessuno mi disse nulla, l'ho scoperta ora. Ma in quella lettera si intimava di "togliere gli squadristi al servizio del dittatore Amato". Volevano la mia testa, insomma, e l'hanno ottenuta subito dopo le bombe contro Costanzo e gli Uffizi. Io me ne sono andato il 4 giugno, e il 26 c'è stato il primo appunto del nuovo direttore delle carceri che propone di non rinnovare una quota di 41 bis».
Come aveva già fatto lei a marzo...
«Ma senza proporre le misure più incisive suggerite da me. E le indico un'altra scoperta inquietante: il 29 luglio '93, due giorni dopo gli attentati di Roma e Milano, il dipartimento propose di togliere dal carcere duro 19 detenuti "per non inasprire inutilmente il clima". Le pare normale, 48 ore dopo 5 morti e non ricordo quanti feriti? Io non so se la trattativa c'è stata davvero, so che dopo la mia rimozione la politica carceraria è cambiata. Mi hanno tolto di mezzo senza darmi alcuna spiegazione, adesso ho capito perché».

il Riformista 14.3.12
Mafia e politica come negli anni cinquanta?
di Emanuele Macaluso


Con questa nota voglio riprendere due questioni che attengono alla giustizia su cui tanti, anch’io, hanno scritto dicendo la verità ma non tutta la verità. Io non so quanti hanno letto la rubrica di Massimo Bordin apparsa ieri sul Riformista. Confesso che la sera in cui è arrivata in redazione stavo presentando un libro e non ho potuto tenerne conto nel mio editoriale.
Bordin aveva letto il testo della requisitoria del Consigliere Francesco Iacoviello (processo in Cassazione a Dell’Utri) pubblicata nel sito di radiocarcere, che ora ho letto anch’io, e la frase incriminata sul reato di Concorso ad associazione mafiosa ,«nessuno ci crede più», non c’è. C’è invece la chiusa finale ripresa da Bordin: «L’annullamento con rinvio per vizio di motivazione non vuol dire che l’imputato è innocente. Vuol dire che la motivazione è viziata, non che la decisione sia sbagliata». E conclude: «È un annullamento fatto non a favore dell’imputato. Ma a favore del diritto». Come è stato possibile che il messaggio trasmesso dai media sia stato travisato? Certo, il dott. Iacoviello usa parole e argomenti forti, e anche sprezzanti, per demolire la professionalità di chi ha scritto la sentenza. Le grida sull’innocenza di Dell’Utri sono, solo propaganda.
Ancora sulla giustizia. Ieri i giornali hanno ripreso le motivazioni della sentenza della Corte di Assisi di Firenze che nell’ottobre scorso ha condannato il mafioso Francesco Tagliavia per le stragi del 1993, e si leggono cose pesanti sui comportamenti delle istituzioni.
Infatti, i giudici scrivono: «Una trattativa indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata sul do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini della mafia». E sarebbe stata assunta «per trovare un terreno di intesa con Cosa Nostra per far cessare la sequenza delle stragi». Il riferimento non è solo al processo in corso a Palermo che vede imputato il generale Mori, di cui abbiamo più volte parlato. Il riferimento essenziale è all’ex ministro Mancino, che ha sempre sdegnosamente smentito ogni contatto con esponenti mafiosi, e soprattutto al prof. Conso, ministro di Giustizia nel governo Ciampi, il quale avrebbe revocato centinaia di decreti con cui si comminava il carcere duro a mafiosi di seconda fila. Chi conosce Conso, la sua cultura, il suo impegno civile, la sua professionalità esclude il suo coinvolgimento in una trattativa con Cosa Nostra: io sono fra questi. Semmai, c’è da chiedersi: può il prof. Conso pensare che il 41 bis inflitto a chi non era ai vertici di Cosa Nostra era una misura costituzionalmente sbagliata? Forse è così.
C’è invece chi insinua che Conso, come ministro, ubbidì a indicazioni che venivano dal Quirinale, cioè dal presidente Scalfaro. Il quale, si dice, riponeva a sua volta un’eccessiva fiducia nell’allora capo della Polizia, prefetto Parisi. Ma su quali fatti si fondono queste illazioni? A questo punto, l’interrogativo vero, posto da noi nei giorni scorsi su queste colonne, è un altro: può un paese reggere accuse così pesanti nei confronti delle istituzioni (Lo Stato avrebbe preso l’iniziativa della trattativa con la mafia che compiva stragi) che vengono avallate anche in sentenze della magistratura? Sembra di ritornare agli anni cinquanta, quando lo Stato trattò con la mafia come e dove uccidere il bandito Giuliano. Tuttavia, oggi come ieri, le istituzioni tacciono. Chi deve fare chiarezza su questo nodo che coinvolge la democrazia italiana?

il Riformista 14.3.12
In Europa Sel si sente socialista
Il senso di Nichi. Per Hollande


di Ettore Maria Colombo

«Se stessi in Francia sarei uno scatenato sostenitore di Hollande». Parola di Nichi Vendola, detta l’altra sera nel corso di un faccia a faccia con Pier Luigi Bersani scaturito dalla presentazione dell’ultimo libro di Federico Rampini (ben più radical di entrambi, dicono i presenti), “A sinistra”. In Francia, e per la precisione a Parigi, sabato prossimo, quando i leader dei principali partiti socialisti e progressisti europei (dal presidente della Spd Gabriel al leader dei socialisti belgi Rupo, dal Psoe spagnolo al Pd italiano) cercheranno di dare il loro contributo per tirare la volata a Hollande nella sua difficile corsa verso le presidenziali francesi di maggio contro Sarkozy, Vendola non ci sarà, ma è come se ci fosse. Infatti, le tappe di avvicinamento di Sel, che non è mai entrato (per ostinata avversione del Prc di Ferrero prima, per mancanza d’interesse poi) al Gue-Verdi, cioè nel gruppo che raccoglie i partiti comunisti ancora esistenti in Europa e altre formazioni minori di sinistra radicale, nei confronti del Pse sono state continue e importanti. A tenere le fila del rapporto con il Pse è il responsabile Esteri di Sel, Gennaro Migliore, uno dei colonnelli più fidati di Vendola e già responsabile Esteri del Prc di Bertinotti. Il quale, al Riformista, conferma che «in Francia stiamo con Hollande, senza se e senza ma, perché dalle presidenziali francesi può venire una svolta che investirebbe tutta l’Europa e le sue politiche, e perché il manifesto di alternativa presentato dai socialisti europei lo abbiamo firmato anche io e Nichi, oltre a importanti europarlamentari del Pd (Cofferati, Domenici, ndr): rappresenta un duro atto d’accusa alle politiche monetarie ed economiche restrittive dell’asse MerkelSarkozy e ci ha convinto appieno. Del resto dice Migliore se il programma politico di Hollande fosse adottato in Italia, sarebbe tacciato di bolscevismo...». Né Migliore né Vendola saranno a Parigi, però, e per ora non è in agenda una richiesta di adesione di SeL al Pse. «Ci manca solo che, nel Pse, entrano loro, prima di noi», sbotta un democrat di rango. Ci saranno, invece, a Parigi, sia Bersani, che D’Alema, quest’ultimo nella sua veste di presidente della Feps, la super-fondazione che raccoglie tutte le fondazioni socialiste e progressiste europee, e anche molti altri big democrat. E, per quanto il responsabile Esteri del Pd, Lapo Pistelli, che viene dalla Margherita, ci tiene a ribadire, come ha fatto anche ieri con un editoriale pubblicato su “Europa”, che «il fotogramma di Parigi» (la foto, sullo stesso palco, dei leader di partiti socialisti puri assieme al leader di un partito non socialista, ma progressista, o socialista ‘impuro’ come Bersani) non voglia affatto dire che il Pd rinuncia a costruire un campo più largo di quello socialista in Europa come altrove (il Pd è un semplice invitato, alle riunioni del Pse, e ha formato un gruppo autonomo, a Strasburgo, Progressisti e Socialisti italiani), sia la foto che verrà scattata che il “manifesto di Parigi” che verrà sottoscritto di quello sanno. Di socialismo europeo. In salsa francese.

Corriere della Sera 14.3.12
In un video con il telefonino i migranti portati a Gheddafi
Girato su un barcone, accusa l'Italia Nel film documentario ecco le storie dei profughi fatti tornare indietro
di Gian Antonio Stella


«Ci state gettando nelle mani degli assassini... Dei mangiatori di uomini...». Così gli eritrei fermati su un barcone supplicarono i militari italiani che li stavano riconsegnando ai soldati di Gheddafi. Avevano diritto all'asilo, quegli eritrei: furono respinti prima di poterlo dimostrare. C'è un video, di quell'operazione. Girato con un telefonino. Un video che conferma le accuse che due settimane fa hanno portato la Corte dei diritti umani di Strasburgo a condannare l'Italia.
Quel video, miracolosamente sottratto alle perquisizioni dei gendarmi italiani e libici, messo in salvo e gelosamente custodito per due anni nella speranza che un giorno potesse servire, è oggi il cuore di un film documentario che uscirà domani. Si intitola Mare chiuso, è stato girato da Stefano Liberti e Andrea Segre e racconta la storia di un gruppo di profughi, in gran parte eritrei e cristiani, in fuga dalla guerra che da troppo tempo si quieta e riesplode sconvolgendo la regione.
«Non si è mai potuto sapere ciò che realmente succedeva ai migranti durante i respingimenti, perché nessun giornalista era ammesso sulle navi e tutti i testimoni furono poi destinati alla detenzione in Libia», raccontano gli autori. Lo scoppio della rivolta contro il tiranno libico, nel marzo 2011, cambiò tutto. Migliaia di poveretti rinchiusi nei famigerati campi di detenzione di Zliten o Tweisha o nella galera di Khasr El Bashir riuscirono a scappare. E tra questi «anche profughi etiopi, eritrei e somali vittime dei respingimenti italiani che raggiunsero in qualche modo il campo Unhcr delle Nazioni Unite per i rifugiati a Shousha in Tunisia, dove li abbiamo incontrati».
L'atto di accusa contro l'Italia per avere violato le regole del diritto d'asilo è una conferma della sentenza della Corte di Strasburgo. Il processo, come noto, aveva un punto di partenza preciso: il 6 maggio 2009 a sud di Lampedusa, in acque internazionali, le nostre autorità intercettarono una nave con circa 200 persone di nazionalità somala ed eritrea tra cui bambini e donne incinte. Tutti caricati su navi italiane e riaccompagnati a Tripoli «senza essere prima identificati, ascoltati né informati preventivamente sulla loro effettiva destinazione».
Le regole, come inutilmente tentarono allora di ricordare l'alto commissariato Onu per i rifugiati, le organizzazioni umanitarie, molti uomini di chiesa e diversi giornali tra i quali Avvenire e il Corriere, erano infatti chiarissime. La Convenzione di Ginevra del 1951 dice che ha diritto all'asilo chi scappa per il «giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche». E l'articolo 10 della Costituzione conferma: «Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d'asilo».
Non bastasse, il direttore del Sisde Mario Mori, al comitato parlamentare di controllo, aveva chiarito com'erano trattati i profughi in Libia: «I clandestini vengono accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi...». Oppure, stando alla denuncia dell'Osservatorio sulle vittime delle migrazioni «Fortress europe», venivano abbandonati a migliaia in mezzo al deserto del Sahara. Per non dire della sorte riservata alle prigioniere. Spiegò un comunicato del servizio informazione della Chiesa: «Non possiamo tollerare che le persone rischino la vita, siano torturate e che l'85% delle donne che arrivano a Lampedusa siano state violentate». L'Osservatore Romano ribadì: «Preoccupa il fatto che fra i migranti possa esserci chi è nelle condizioni di poter chiedere asilo politico. E si ricorda anzitutto la priorità del dovere di soccorso nei confronti di chi si trova in gravi condizioni di bisogno».
Il film documentario di Liberti e Segre, attraverso testimonianze da far accapponare la pelle, ricostruisce appunto come il destino di tanti uomini, donne, bambini fu segnato dalla violazione di tutti i diritti di cui dovevano godere. Basta mettere a confronto le parole di tre protagonisti di questa storia.
Muammar Gheddafi: «Gli africani non hanno diritto all'asilo politico. Dicono solo bugie e menzogne. Questa gente vive nelle foreste, o nel deserto, e non hanno problemi politici». Silvio Berlusconi: «Abbiamo consegnato delle imbarcazioni al fine di riportare i migranti in territorio libico, dove possano facilmente adire l'agenzia delle Nazioni Unite per mostrare le loro situazioni personali e chiedere quindi il diritto di asilo in Italia». Un anziano somalo filmato in un campo profughi: «Era domenica quando ci hanno riportato a Tripoli. I libici ci hanno portati via con dei camion container e poi nel carcere di Khasr El Bashir. Ci hanno bastonato. Ci hanno picchiati. Ci hanno rinchiusi».
Una testimonianza confermata da Omer Ibrahim e Shishay Tesfay e Abdirahman e tanti altri. Del resto Laura Boldrini, la portavoce, ricorda che l'Alto commissariato Onu per i Rifugiati aveva denunciato l'impossibilità di svolgere laggiù, in Libia, sotto il tallone di un tiranno come Gheddafi che non riconosceva la convenzione di Ginevra, quell'attività prevista dagli accordi: «Non avevamo neppure accesso ai campi di detenzione. A un certo punto ci chiusero, dicendo che non avevamo le carte in regola. Per poi riaprire col permesso di trattare solo le pratiche vecchie».
Ma è la storia di Semere Kahsay, uno dei giovani che stava su uno di quei barconi, il filo conduttore del film. Eritreo, cristiano, in fuga dalla guerra, con tutte le carte in regola per godere del diritto d'asilo, nell'aprile 2009 riuscì a caricare la moglie incinta, un paio di settimane prima del parto, su un barcone per Lampedusa. Poi, messi insieme ancora un po' di soldi lavorando in Libia, si imbarcò per raggiungere la moglie e la figlioletta nata in Italia. Un viaggio infernale. Il barcone troppo carico. L'avaria. La fine della scorta di acqua. La paura. L'arrivo di un elicottero italiano. L'apparizione di una motovedetta: «Eravamo felici. Felici». Poi la delusione. L'irrigidimento dei militari. Il ritorno a Tripoli. Il sequestro di documenti. La riconsegna ai libici. Il tentativo disperato e inutile di spiegare il suo diritto all'asilo. La prigionia. La guerra. La fuga verso la Tunisia. I nuovi tentativi per ottenere lo status di rifugiato.
Semere l'ha avuto infine, quell'asilo che gli spettava e che secondo il Cavaliere avrebbe potuto «facilmente» avere in Libia andando all'apposito ufficio. Dopo due anni e mezzo d'inferno. E solo grazie alla guerra civile libica, alla fine di Gheddafi e all'aiuto per sbrigare le pratiche che gli hanno dato gli autori di Mare chiuso. Che l'hanno seguito passo passo fino al suo arrivo, agognato, in Italia. Dove ha potuto infine ritrovare la moglie, vedere quella figlioletta mai conosciuta e regalarle, in lacrime, un chupa-chups.

l’Unità 14.3.12
Roma capitale. Una bomba a orologeria
Un decreto ambiguo che affida i Beni culturali al Comune
di Luca Del Fra


L’iter di conversione in legge del Decreto su Roma capitale –ufficialmente da scrivere con ‘c’ minuscola–, alla Commissione bicamerale ha aspetti singolari e sta producendo una bomba a orologeria pronta a esplodere sul patrimonio artistico, archeologico, architettonico capitolino. Tanto che l’onorevole La Loggia, presidente della stessa bicamerale, convoca per un’audizione Roberto Cecchi, sottosegretario al Ministero dei Beni Culturali.
Ambiguo in molte sue parti, il provvedimento presenta anche degli evidenti profili di incostituzionalità proprio riguardo ai beni culturali: il più eclatante è l’affidamento della loro tutela al Comune di Roma. Ma la Costituzione e la legge 42 del 2004 prevedono sia lo Stato a occuparsene. È un fatto assai grave, denunciato dai giornali a partire da l’Unità, ribadito in Commissione da Andrea Carandini, presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, sottolineato perfino dalla Commissione affari costituzionali del Senato. Eppure, se si scorrono i verbali della Commissione Bicamerale, di fronte a tanta enormità si trova solo la riserva dell’onorevole Marco Causi (Pd), corelatore del disegno di legge, e un’alzata di sopracciglio della Lega. Così il decreto creerà molte occasioni di lavoro: almeno un decennio di ricorsi alla Corte Costituzionale. Pur avendo assistito ai lavori della Commissione senza mai intervenire sull’argomento, Cecchi stavolta ha l’occasione di smentire le pesanti critiche dei media nei confronti suoi e del ministro Ornaghi, se saprà dire una parola chiara e ineludibile, dimostrando che il nostro patrimonio culturale non è merce di scambio. Perché in fondo è questo l’attuale decreto su Roma capitale: a un Comune entrato nel panico per pochi centimetri di neve affida competenze di protezione civile, e ulteriori immobili–la Eur Spa– a una amministrazione in perpetuo affanno sulla presentazione del bilancio e soggetta a continui scandali clientelari, dall’Atac al demanio comunale. Per tacere del resto.

il Fatto 14.3.12
Fanta ricerche
Indiana Renzi e il Leonardo immaginario
Le clamorose ‘prove’ dell’esistenza della Battaglia di Anghiari annunciate dal sindaco di Firenze non reggono al vaglio della conoscenza scientifica
di Tomaso Montanari


Matteo Renzi ha trovato un alleato prezioso, anzi un cantore appassionato: è Armando Torno, del Corriere della Sera. Il quale, ieri, ha superato se stesso: “Che poi la pittura murale sia scomparsa, o non ci sia, o si vedano solo i frammenti, poco conta. Là lavorò Leonardo”. E poi: “La Battaglia di Anghiari ha trovato – giustamente – degli esperti che invitano alla prudenza. Nessuno, però, potrà fermare ricerche, sondaggi, ipotesi, il giallo internazionale che si sta alimentando, i non addetti ai lavori che aggiungono conferme alle loro ipotesi. Quel che Leonardo ha solo pensato è già realtà. Quel che ha lasciato interrotto diventa laboratorio. Anche di fantasia”.
RENZI E TORNO hanno colto nel segno: quel che oggi davvero buca lo schermo è il mistero, non la realtà; la suggestione, non la verifica empirica; la fantasia, non la presa concreta sul reale. Vince chi parla solo alla parte irrazionale, insomma, non chi cerca di dare argomenti misurabili. E poco importa se stiamo parlando non di Cagliostro, ma di Leonardo, la cui intera visione del mondo si potrebbe riassumere in questa sua frase: “Certo il cimento delle cose doverebbe lasciare dare la sentenzia alla sperienzia”.
Se stessimo alla “sperienza”, cioè alle regole della conoscenza scientifica, la clamorose ‘prove’ dell’esistenza in vita della Battaglia di Anghiari annunciate nella conferenza stampa di Renzi scomparirebbero come neve al sole. Vediamo perché.
Il team guidato dall’ingegner Maurizio Seracini annuncia di aver trovato dietro l’affresco di Vasari una ‘intercapedine’. Niente di nuovo: Massimiliano Pieraccini, l’inventore del radar con cui lo stesso Seracini aveva scandagliato quella parete, aveva già dichiarato che “la discontinuità c'è, ma sull'intera parete est, e non c'è nessuna struttura localizzata che possa far pensare a una nicchia per proteggere qualcosa. Semplicemente Vasari ha costruito un muro addossato a una parete”, separandoli con nemmeno un centimetro di spazio.
MA IL CLOU sono i ritrovamenti di frammenti di pigmenti su quel secondo muro. Si parla di campioni inferiori a un terzo di millimetro, che Seracini ha inviato a far analizzare in un laboratorio privato a Pontedera, di cui si serve la Piaggio. Ma l’amministratore delegato del laboratorio dichiara: “Ci dispiace non siamo autorizzati a rivelare i contenuti delle analisi”. Già, perché in questa curiosa ‘ricerca scientifica’ lo sponsor (che è National Geographic) ha l’esclusiva dei dati. Dunque bisogna fidarsi: credere, come a un articolo di fede e alla faccia della “sperienzia”.
C’era un modo molto semplice per dare un serio corpo scientifico a queste ‘scoperte’: affidare gli stessi campioni a un laboratorio riconosciuto e autorevole nel delicato campo della chimica applicata alla storia dell’arte. E soprattutto a un laboratorio ‘terzo’: cioè non coinvolto in un’operazione che gli stessi promotori definiscono “di marketing”. Poteva essere l’Opificio delle Pietre Dure, che sovrintende alla ricerca dal punto di vista della tutela, ma che non si è voluto coinvolgere sul piano scientifico. Sia da un punto di vista tecnico che storico-artistico, l’Opificio avrebbe potuto autorevolmente accertare se davvero si tratta di pigmento, e se davvero si tratta di un tipo di pigmento rinvenuto esclusivamente in dipinti leonardeschi (il che, francamente, mi pare improbabile). E se davvero i dati fossero stati così clamorosamente a favore della presenza della Battaglia di Anghiari, Maurizio Seracini e Matteo Renzi avrebbero avuto tutto l’interesse a far ripetere gli esperimenti all’Opificio.
PERCHÉ, allora, non l’hanno fatto? La risposta lascia interdetti: “Semplicemente non è stato possibile farli partecipare alla fase delle analisi per problemi di tempo”. Certo, perché a dettare l’agenda non sono i tempi del laboratorio, ma quelli della conferenza stampa. E così bisogna credere sulla parola, in attesa che Renzi convinca il ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi a permettergli di smontare l’affresco di Vasari per vedere se dietro c’è davvero un rudere leonardesco, o semplicemente una decorazione geometrica, o magari nulla. Il sindaco di Firenze ha chiesto a Ornaghi di fare della ricerca della Battaglia di Anghiari “una delle più grandi e cruciali questioni della politica culturale di questo Paese”. Leggo questa dichiarazione a L’Aquila, tra le macerie di uno dei principali centri storici del Paese, distrutto tre anni fa dal terremoto e ancora in attesa di essere restaurato.
Ma, per la felicità di Armando Torno e Matteo Renzi, nell’Italia del 2012 conta la fantasia, non la realtà.

il Fatto 14.3.12
Polvere di marketing
di  Nanni Delbecchi


Ma che ci sarà dietro quella famosa intercapedine di Palazzo Vecchio? Il mondo intero se lo chiede, e noi con lui. Potrebbe esserci il capolavoro di Leonardo, come no. Ma siccome sognare non costa niente, perché mettere limiti alla provvidenza? Al di là del muro, che mai ci sarà? Leonardo in persona, infrattato con la Gioconda? I bagarini della mostra che ha sbancato la National Gallery? Dan Brown, intento a scrivere il suo nuovo best-seller, Il Codice da Renzi? Giulio Bosetti e Philippe Leroy con la barba finta dello sceneggiato in cui interpretava il Da Vinci? L’albero carico di zecchini d’oro che Pinocchio aveva piantato nel Campo dei Miracoli, filmato dal National Geographic? Tante ipotesi per una certezza. “La febbre leonardesca che ha colpito il mondo attuale”, come scrive Armando Torno sul Corriere di ieri, risponde a un virus ben preciso, che si chiama marketing. Che consiste nell’arte di montare la panna e di darla in pasto alla cultura di massa in nome di una griffe. E Leonardo, come griffe, è quasi meglio di Dolce&Gabbana. Il mondo trattiene il respiro e Renzi si merita i complimenti. Uno che è capace di rottamare Leonardo, è capace di rottamare tutto. Il Pd è avvertito.

La Stampa 14.3.12
Paolucci: «Su Anghiari solo indizi non ancora prove»


Sui risultati della «caccia» alla perduta Battaglia di Anghiari dietro un dipinto del Vasari nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze arriva un «invito alla calma» da parte di Antonio Paolucci, direttore dei musei vaticani e a lungo sovrintendente del polo museale fiorentino. «A quanto si apprende, finora dall’indagine sono emerse poco più che tracce di colore - spiega Paolucci - e dunque siamo in presenza di indizi, e non di prove della mano di Leonardo. Non escludo che ci possa essere stata, ma al momento non esistono gli elementi sufficienti per poterlo affermare. Quindi se son rose fioriranno». Quanto alla richiesta di rimuovere parti del dipinto del Vasari avanzata al Ministero dei Beni Culturali dal sindaco di Firenze Matteo Renzi, Paolucci ritiene che «su questo fronte ci si debba muovere con i piedi più che di piombo».

il Fatto 14.3.12
Missionari: una bufala
Razzista? Su Twitter tutti con Dante
di Federico Mello


Neanche Dante può essere lasciato in pace. In queste ore il sommo poeta è finito – suo malgrado – in un tritacarne mediatico: secondo un gruppo di ricercatori sarebbe “antisemita, islamofobo e omofobo”. L’accusa, che ha avuto grande risalto in rete e sulla stampa, appare per certi versi falsata e provocatoria: se gli utenti Twitter si sono fatti beffe della accuse, i frati missionari, sul web, hanno smontato le affermazioni dei ricercatori.
La polemica è stata innescata lunedì pomeriggio: l’AdnKronos informa che l’organizzazione “Gerush92” (che risulta “Consulente speciale del Consiglio economico e sociale dell'Onu”) chiede di bloccare l’insegnamento di Dante nelle scuole. L’opera, a detta dei ricercatori, conterrebbe “contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza” nei confronti di ebrei, islamici e omosessuali. La prova? Alcune terzine estrapolate dal contesto storico e metaforico dell’opera. Le reazioni a questa provocazione si sprecano. L’associazione Equality, che si batte contro l’omofobia, afferma: “Giù le mani dalla Divina Commedia”.
IL PRESIDENTE dei presidi Italiani, Giorgio Rembado, ribadisce: “Abolire lo studio della Divina Commedia non avrebbe senso”, anche se aggiunge che “può averne corredare l’apparato critico che l’accompagna in materia di razzismo, omofobia, islamofobia”. Ma è la rivista Mondo e Missione, mensile del Pontificio Istituto Missioni Estere, che sul web si schiera con il padre della nostra lingua. Su MissiOnLine Giorgio Bernardelli mette l’accento in particolare su “un certo modo di fare informazione e dibattito oggi in Italia. Chi parla è una voce autorevole oppure no? ”. “Gerush92 – chiarisce – è un’organizzazione che conduce essenzialmente campagne di opinione, il più delle volte dal tasso molto alto di polemica”. E ancora: “Dietro c’è sempre un certo Mario Fuà, che sarà anche un dotto ricercatore, ma magari potrebbe anche dirci riguardo a che cosa, visto che su Google non risulta avere all’attivo un granché”. Anche su Twitter, tra battute e prese di posizione, #DivinaCommedia è stato ieri l’hashtag più caldo. “La prossima cazzata sarà: I Promessi Sposi istigano al matrimonio clandestino” scrive @Infinity_999. “La #divinacommedia antisemita e islamofoba? Che sia la volta buona che Calderoli legge un libro?" ironizza il conduttore Alessandro Cattelan. Migliaia di tweet, intanto, riportano terzine dei tre canti e anche l’enciclopedia Treccani sceglie il social network per dire la sua: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. I versi di Dante sono sufficienti a smontare le provocazioni.

La Stampa 14.3.12
Milano, la dichiarazione davanti al giudice
Il pedofilo chiede la castrazione chimica
L’allenatore di pallavolo che adescava adolescenti confessa: “Voglio essere curato”
di Giuliano Trinchella


MILANO «Chiedo di essere curato. Sono disposto anche a sottopormi a castrazione chimica». E' la resa davanti al giudice per le indagini preliminari di Milano di Gianluca Mascherpa, il 48enne allenatore di pallavolo che si faceva passare da sedicenne per «violentare» via chat ragazzine tra i 12 e 16 anni. Perché l'uomo, che postava la foto di un ragazzino biondo e palestrato, ha tentato di dire che lui non guardava quello che chiedeva di fare alle adolescenti con cui parlava al telefono e contemporaneamente via chat, sia Facebook che Netlog.
Quando gli sono state fatte sentire parte delle tantissime intercettazioni captate dagli investigatori, guidati dal pm Giovanni Polizzi, Simonroller o Skizzato, come si faceva chiamare, ha ceduto e ha confessato tutto. Una confessione che però si è trasformata in una richiesta di aiuto giurando di non aver mai toccato fisicamente le giovanissime con cui scambiava messaggi e foto su ben tre cellulari.
Al giudice Donatella Banci Bonamici ha quindi chiesto di essere trasferito da San Vittore, dove è detenuto dal 9 marzo, a quello di Bollate, dove lavora il professor Paolo Giulini, criminologo e psichiatra, per continuare la terapia. Che non potrà mai essere ovviamente la castrazione chimica; anche se l'uomo potrà se vorrà e se lo prescriverà il medico sottoporsi a una terapia farmacologica per controllare le pulsioni. Per cui rischia pene davvero pesanti; il suo inganno, quello di presentarsi come sedicenne, gli è valso la contestazione di violenza sessuale, oltre a quella di corruzione di minorenne.
Reati che aveva già commesso in passato. Mascherpa era stato arrestato il 14 luglio del 1998 dalla Polizia di Massa Carrara, condannato in Cassazione il 7 dicembre del 2001 per violenza sessuale e atti sessuali con minorenni, il 4 ottobre del 2005 era stato arrestato a Trento e su di lui pendeva una interdizione perpetua a frequentare luoghi dove c'erano minorenni. Eppure tra il novembre e il giugno del 2011 aveva lavoratore con gli under 16 di una squadra di Corsico, per circa un mese in quella di Cesano Boscone dove allenava under 12 e infine era arrivato a Trezzano sul Naviglio, coach di ragazzine fino al dicembre 2011.
«Non ho pensato di violare la misura interdittiva» ha spiegato al gip, sostenendo di non aver mai abusato delle allieve della squadra. «Ho sempre rifiutato incontri di persona. È nel virtuale che purtroppo scatta in me un meccanismo di eccitazione». Una compulsione così forte che lo spingeva a contattare decine di ragazzine, cui mostrava le sue parti intime, facendo loro pensare di fare sesso virtuale con un tipo alla Justin Bieber.
Quando il 16 gennaio scorso un maresciallo dei carabinieri in borghese si era presentato in palestra per convocarlo, l'uomo non aveva potuto fare a meno di spegnere i suoi tre telefoni su cui arrivavano messaggi e telefonate senza sosta di ragazzine con cui lui comunicava anche in alcuni Internet point.
La Procura ha disposto l'audizione di alcune vittime, solo quelle per cui c'è il sospetto che le richieste oscene dell'uomo, difeso dall'avvocato Andrea Marini, possano essere andate al di là dello schermo di un computer.

La Stampa 14.3.12
Londra sperimenta: già cento richieste “Ma è una barbarie”
di Andrea Malaguti


CORRISPONDENTE DA LONDRA
COSI’ IN EUROPA LE PROPOSTE IN ITALIA IN SVEZIA SI È DIMOSTRATA EFFICACE PURCHÉ IL SOGGETTO NON INTERROMPA L’ASSUNZIONE DEL FARMACO NEGLI ULTIMI ANNI HANNO CHIESTO DI SPERIMENTARLA SIA FINI CHE LA LEGA
COME FUNZIONA LA CASTRAZIONE CHIMICA AVVIENE CON FARMACI A BASE DI ORMONI. VIENE UTILIZZATA NEGLI USA

Li castrano. Chimicamente. Sono i prigionieri a chiederlo e i medici del carcere di Whatton, istituto di pena del Nottinghamshire destinato ai pedofili, eseguono l’intervento dopo avere ottenuto il loro consenso scritto. Negli ultimi tre anni sono stati in cento a bussare alla porta del professor Donald Grubin, lo psichiatra responsabile del «Sex Offender Treatment Programme» sostenuto dal governo. Una scelta che spacca la comunità medicoscientifica britannica. «Una barbarie», secondo il Prison Reform Trust. Non tutti hanno deciso di sottoporsi al trattamento. Ma le richieste crescono ogni giorno.
Incoraggiato dall’atmosfera da terra di nessuno della sala d’attesa carceraria, anche il cinquantatreenne Roy Whiting ha chiesto informazioni. Il suo volto invase le tv all’inizio del nuovo millennio. Era un uomo magro, con i capelli scuri, una pelle bianca da rock star. Lo arrestarono per lo stupro e l’omicidio della bambina Sarah Payne. Aveva otto anni, usciva da scuola e indossava un maglione rosso. Whiting dopo averla massacrata fuggì lasciando dietro di sé un deserto disarticolato di gemiti. Fu allora che il dibattito sulla castrazione chimica prese corpo.
Esistono due tipi di interventi possibili. Il primo prevede la somministrazione di anti-androgeni, in sostanza si riducono gli ormoni. Il secondo passa attraverso l’uso di farmaci come il Prozac che intervengono sulla serotonina. «Con gli anti-androgeni rimuoviamo completamente il desiderio sessuale, con farmaci come il Prozac cerchiamo di ridurre le fantasie senza eliminare la capacità sessuale. In entrambe le situazioni è necessario che il trattamento sia affiancato da un sostegno psicologico costante».
I pazienti sono generalmente invasi da un nervosismo da zattera alla deriva. Non sanno come gestire la mancanza di sessualità, tendono a cadere in depressione. «Frequentemente vedono crescere il seno». Una trasformazione che la professoressa Frances Crook, della Howard Leage per la riforma penale, considera violenta e inaccettabile. «Spesso i pedofili sono mossi più da un bisogno di dominio che da un impulso sessuale. Non basta ridurre le loro pulsioni erotiche per evitare che la loro esistenza sia una minaccia. E poi ricordate Alan Turing? ». Alan Turing, allora, genio della matematica e uno dei più formidabili decrittatori di codici nemici della seconda guerra mondiale. Nel 1952 fu arrestato e accusato di omosessualità. Si difese dicendo: «Non vedo che cosa ci sia di male». Lo condannarono alla castrazione. Lui fissò il giudice con orbite prive di luce, ostili e neutre come ciottoli. Due anni dopo si tolse la vita mangiando una mela avvelenata, un omaggio a Biancaneve. Gli era cresciuto il petto. Eppure secondo il professor Ludwig Lowenstein, collega della Crooks, serve una visione più larga. «Meno emotiva». Cita i dati della Scandinavia, dove chi si sottopone alla castrazione torna a commettere reati solo nel 5% dei casi contro il 40% della media internazionale. «I diritti dei pedofili devono essere necessariamente più deboli di quelli delle vittime», insiste. E il governo di Sua Maestà è d’accordo con lui.

La Stampa 14.3.12
Unioni e diritti, svolta Ue: “La famiglia è anche gay”
E Strasburgo ora preme per le quote rosa in aziende e partiti
di Marco Zatterin


Il Parlamento europeo si divide sulle coppie gay. Per venti voti il fronte popolare e i partiti della destra non sono riusciti a cancellare il punto 7 della risoluzione sulla «Parità dei diritti fra uomo e donna» approvata ieri, testo che «si rammarica dell’adozione da parte di alcuni stati di definizioni restrittive di " famiglia" con lo scopo di negare la tutela giuridica alle coppie dello stesso sesso e ai loro figli». L’emendamento è stato bocciato con 342 voti contrari a fronte di 322 favorevoli. Così è rimasto agli atti di Strasburgo anche il principio secondo cui la maggioranza, e dunque l’assemblea, ricordano che «il diritto va applicato senza discriminazione sulla base di sesso o orientamento sessuale, in conformità della Carta dei diritti fondamentali».
Non è un atto vincolante, ma è destinato a fare scalpore in un momento in cui il confronto sul ruolo della famiglia si sta facendo particolarmente acceso. «La sinistra delle nozze gay» è stata attaccata ancora sabato dal leader del Pdl, Angelino Alfano, suscitando parecchie repliche velenose dagli attuali alleati di governo. Strasburgo l’ha decisa diversamente, ed il riferimento alla libertà di coppia emerge da documento di ampio respiro - passato coi voti di socialisti & democratici (italiani non compatti), verdi e sinistra-sinistra -, che affronta il nodo diritti fondamentali, soprattutto per quanto concerne il genere. Per questo si occupa in primo luogo di donne, chiedendo alla Commissione Ue di presentare un testo che disciplini le quote rose ai vertici delle aziende e suggerisce di fare altrettanto per le elezioni politiche. Qui invita a ridurre differenziale retribuito fra uomini e donne a chiudere in fretta la proposta, ora all’esame dei consiglio (cioè dei governi), che garantisce il congedo di maternità retribuito nell’Ue.
La relatrice Sophia in’t Veld, liberale olandese, ha ampliato il discorso anche ai diritti degli omosessuali. Il che ha fatto infuriare i popolari, col capogruppo del Pdl Mario Mauro che denuncia: «Si è cercata con un approccio strumentale l’occasione per uno scontro di natura ideologica al quale ci siamo opposti compatti». Irritata la leghista Bizzotto, per la quale «la famiglia omosessuale non esiste e non esisterà mai». Divisioni a sinistra, dove Silvia Costa si è astenuta sul punto 7 perché «l’unione fra persone dello stesso non può essere equiparata a una famiglia, ma si possono riconoscere dei diritti legato alla convivenza». Mentre Debora Serracchiani l’ha votata: «Il Parlamento sa guardare lontano, delineando una definizione di famiglia che prospetta il futuro e che ritrae molte situazioni esistenti».
La risoluzione affronta in effetti questioni variegate. Chiede lo sblocco della direttiva che applica il principio di parità di trattamento fra le persone, indipendentemente da religione o convinzioni personali, disabilità, o l’orientamento sessuale, e ne auspica l’approvazione entro giugno. Sollecita la Commissione Ue «a elaborare proposte per il riconoscimento reciproco delle unioni civili e delle famiglie omosessuali a livello europeo tra i paesi in cui già vige una legislazione in materia», con lo scopo di evitare discriminazioni per lavoro e previdenza, così da «proteggere i redditi dei nuclei familiari». E’ solo un appello. Ma è il classico caso di cui si sentirà parlare ancora.

l’Unità 14.3.12
Germania, retata di neonazisti in 4 Länder
Espugnata anche la base operativa del gruppo


Retata della polizia in quattro Länder tedeschi contro l’estrema destra, che ha portato all'arresto di 24 persone. L'azione più importante si è svolta nella cittadina di Bad Neuenahr-Ahrweiler, nella Renania-Palatinato, dove un commando di forze speciali della polizia ha assaltato la cosiddetta «Braunes Haus», la casa bruna, dal colore delle camicie indossate dai nazisti. Nel corso dell'operazione, che ha interessato anche il Nordreno-Westfalia, il Baden-Wuerttemberg e la Turingia, sono state denunciate 33 persone, di età compresa fra 17 e 54 anni, 24 delle quali in stato di fermo per i reati di associazione criminale e lesioni gravi. Tra gli arrestati, anche militanti del partito neonazista Npd.
La «Braunes Haus» era, secondo gli inquirenti, il punto di partenza per spedizioni punitive contro militanti dell'ultrasinistra della regione dell'Ahr. La procura di Coblenza ha dichiarato che l'obiettivo degli estremisti di destra era di creare «un clima di odio e di intimidazione». Tra le accuse, anche quella di aver messo in piedi una vera e propria organizzazione criminale, che si è resa responsabile di varie aggressioni e ferimenti e di aver diffuso e usato simboli contrari alla Costituzione tedesca.
Altri arresti, tra cui quelli di due nomi noti dll’estremismo di destra tedesca, Axel Reitz e Paul Breuer, non sono stati confermati dagli inquirenti. Secondo notizie diffuse da alcuni media, ci sarebbero stati ulteriori fermi a Colonia e a Düsseldorf. Le forze di polizia hanno tuttavia negato che vi fossero contatti tra i militanti della «Braunes Haus» ed la cellula terroristica di Zwickau, sorta agli onori della cronaca qualche settimana fa per essere stata individuata come responsabile dei cosiddetti «omicidi del kebab», una serie di assassinii di stranieri sviluppatasi su un arco di oltre dieci anni.

La Stampa 14.3.12
Pechino fa scorta e l’Iran fa paura
Dietro l’aumento del greggio tensioni politiche e boom cinese
Il segnale In febbraio Pechino ha acquistato 5,95 milioni di barili al giorno con un aumento del 18,5 % rispetto all’anno scorso
di Maurizio Molinari

A spingere il prezzo del greggio oltre la soglia dei 125 dollari a barile è la convergenza fra venti di guerra nel Golfo Persico e aumento vertiginoso delle scorte strategiche cinesi con conseguenze a pioggia: le economie emergenti in affanno, la crescita globale rischia di rallentare, Barack Obama teme di perdere la rielezione e le finanze degli ayatollah si risollevano.
Il costo di un barile di Brent del Mare del Nord ha toccato ieri i 126,26 dollari rispetto ai 96 dollari del mese precedente confermando un’accelerazione che, secondo una studio di Citigroup, può portare a raggiungere quota 130 dollari entro il terzo trimestre dell’anno e per uno rapporto di analisti asiatici trapelato da Kuwait City potrebbe arrivare addirittura a 142 dollari entro dicembre. La corsa al rialzo ha una duplice genesi in quanto sta avvenendo a Teheran e Pechino.
La riunione del Forum internazionale dell’Energia a Kuwait City, che riunisce i maggiori Paesi petroliferi inclusi tutti i membri dell’Opec, ha in agenda l’allarme-Iran ovvero la possibilità che il mercato debba rinunciare nei prossimi mesi a quattro milioni di barili iraniani al giorno a causa dei venti di guerra che spazzano il Golfo Persico: colpita dall’embargo petrolifero che da giugno-luglio si estenderà all’Unione Europa, Teheran minaccia per ritorsione di chiudere gli Stretti di Hormuz attraverso cui passa il 20 per cento delle esportazioni quotidiane globali di greggio e la crisi nel Golfo Persico minaccia ulteriormente di peggiorare in quanto la corsa degli ayatollah all’arma nucleare potrebbe spingere Stati Uniti o Israele a lanciare un attacco militare. Per il ministro del Petrolio saudita, Ali Naimi, la volatilità dei prezzi è un problema che può essere risolto solo assieme alle questione iraniana» e il collega degli Emirati Arabi Uniti concorda che «il costo sale in reazione a quanto sta avvenendo in Medio Oriente» in quanto, sottolinea Shihab Eldin ex capo del settore ricerca dell’Opec, «il timore è che non vi sia la possibilità di supplire ai quattro milioni di barili iraniani» in ragione del fatto che solo l’Arabia Saudita è in grado di aumentare la produzione ma non di tale quantità quotidiana. A pesare è anche la lentezza con cui la produzione libica si sta riprendendo nel dopo-Gheddafi, soprattutto a causa della difficoltà di scongelare i beni di proprietà del colonnello.
Ad avvalorare lo spettro della carenza di greggio è il comportamento di Pechino che in febbraio ha acquistato 5,95 milioni di barili al giorno con un aumento del 18,5 per cento rispetto all’anno precedente - al fine di aumentare le scorte strategiche paventando il rischio di una crisi imminente. Se nell’ultimo trimestre del 2011 l’aumento delle scorte cinesi era avvenuto con prudenza, accumulando di 360 mila barili, in febbraio è stato forsennato: Sinopec ha moltiplicato le importazioni da Riad e acquistato centinaia di petroliere in navigazione da Medio Oriente, Russia e Africa con a bordo greggio imbarcato in gennaio e febbraio. È stato questo blitz a far lievitare il prezzo fino ai 122,66 dollari del 29 febbraio, provocando rialzi energetici nelle più rampanti economie asiatiche: Sud Corea, Taiwan e Thailandia hanno aumentato i prezzi al consumo mentre l’India ammette difficoltà di bilancio. «Se il petrolio resterà sopra i 125 dollari la domanda inizierà a scendere» prevede Edward Morse, fra i maggiori esperti di petrolio ora in forza a Citigroup, lasciando intendere che può portare ad un rallentamento della crescita delle economie emergenti e ad un più marcato rallentamento dell’Europa. Ma non è tutto perché anche il presidente Barack Obama rischia: un sondaggio Cbs-New York Times attesta che la sua popolarità in 30 giorni è scesa dal 50 al 41 per cento a causa dell’insoddisfazione popolare per l’aumento del prezzo della benzina che ha raggiunto 3,80 dollari a gallone (3,7 litri) ed è in vendita in alcuni Stati a 4,20 dollari. I rivali repubblicani lo incalzano: Newt Gingrich promette agli americani che «se sarò presidente porterà il prezzo a 2,50 dollari» e Mitt Romney accusa la Casa Bianca di «essere responsabile di una situazione dovuta a eccesso di dipendenza dall’estero» avendo bloccato progetti nazionali come il megaoleodotto Canada-Golfo del Messico. Obama ribatte che «non ci sono soluzioni immediate e perfette per abbassare il prezzo» ma è un’ammissione di difficoltà. A conti fatti gli unici a guadagnare dall’attuale situazione sembrano essere gli ayatollah di Teheran, il cui bilancio resta in gran parte basato sulle entrate petrolifere.

La Stampa 14.3.12
Sulle “Terre rare” tutti contro la Cina
Ue, Usa e Giappone al Wto contro Pechino
di Glauco Maggi


La contesa Oggetto della discordia sono le «terre rare», un gruppo di 17 elementi chimici dai nomi impronunciabili come il Tungsteno, impiegati dall’industria hi-tech

Con una manovra di accerchiamento, gli Stati Uniti, l’Unione Europea e il Giappone hanno denunciato la Cina in sede Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, per le sue pratiche restrittive che ostacolano il commercio di minerali fondamentali per la fabbricazione di prodotti d’alta tecnologia. L’annuncio è venuto direttamente dai querelanti, prima la Ue con una dichiarazione scritta e poi il presidente Obama, che ha spiegato che la causa promossa punta a costringere Pechino a eliminare i limiti all’export cinese delle cosiddette “terre rare”. Oggetto della contesa sono il tungsteno, il molibdeno e altri 17 elementi naturali estraibili dalle rocce (da cui il termine rari, sparsi), ormai diventati indispensabili in tutte le tecnologie che governano la nostra vita quotidiana: dall’illuminazione all’elettronica, dalle automobili agli aerei, dagli impianti e strumenti medicali ai telefonini, dai computer alle Tv e ai gadgets della comunicazione mobile.
«Vogliamo che le nostre società possano costruire questi prodotti qui in America», ha detto il presidente Usa, «ma per farlo i produttori americani devono poter disporre delle terre rare che oggi la Cina fornisce. Ora, se la Cina lasciasse semplicemente che il mercato funzionasse per se stesso, non avremmo obiezioni». Invece, le misure cinesi «attualmente stanno impedendo che ciò avvenga e vanno contro le stesse regole che Pechino si è detta d’accordo di seguire».
La Cina ha gradualmente ristretto le esportazioni di questi materiali alzando le tasse all’export e riducendone la disponibilità sul mercato, con il risultato di far salire i prezzi. Nel 2010, il governo di Pechino ha tagliato del 32% la quota per le aziende domestiche e del 54% per quelle in cui ci sono capitali stranieri. «Poiché la Cina è il massimo produttore mondiale di queste sostanze chiave, le sue politiche dannose incrementano artificialmente i prezzi al di fuori del paese e li abbassano al loro interno», ha sostenuto il ministero del commercio estero americano. «Questa dinamica dei prezzi crea significativi vantaggi per i produttori cinesi quando sono in concorrenza con produttori americani, sia in Cina sia nel resto del mondo”, continua il comunicato. Di fatto, queste restrizioni sono una pressione “sulle aziende Usa e non Usa per traslocare operazioni, lavoratori e tecnologie in Cina».
Da parte sua l’Unione Euroepa aveva annunciato qualche ora prima che la denuncia congiunta con Washington e Tokyo «richiedeva formalmente consultazioni per trovare un accordo con la Cina nella Wto». «Le restrizioni cinesi sulle terre rare e altri prodotti violano le regole del commercio internazionale e devono essere eliminate perché danneggiano i nostri produttori e consumatori nella Unione Europea e nel mondo», ha spiegato Karel De Gucht, commissario per il commercio della UE. Malgrado una recente risoluzione in una disputa su altri materiale grezzi, «la Cina non ha preso alcuna misura per rimuovere altre limitazioni all’export, e ciò non ci ha lasciato altra scelta che quella di sfidare ancora il regime commerciale cinese per assicurare il corretto accesso dei nostri imprenditori a questi materiali», recita il comunicato da Bruxelles.
In una risposta affidata al portavoce del ministero cinese per gli affari esteri, Liu Weimin, Pechino ha difeso la sua impostazione: «La Cina ha predisposto la propria politica nel trattamento delle terre rare in linea con i regolamenti del Wto. Le nostre misure non riguardano soltanto l’esportazione di questi materiali ma anche la loro produzione e le esplorazioni»: una allusione a preoccupazioni ambientali che giustificherebbero il razionamento. La Cina avrà adesso 10 giorni per esporre le sue considerazioni ufficialmente e poi dovrà avviare entro due mesi colloqui con le controparti.
Ma l’America non pensa solo alla sede internazionale per piegare Pechino. Il senatore democratico dello Stato di New York, Chuck Schumer, ha dichiarato, dopo la decisione dei tre governi, che «ci sono vie più spedite per esercitare pressioni sulla Cina che non il ricorrere al Wto, che potrebbe metterci degli anni a risolvere la vertenza«. Una risposta più aggressiva e convincente, ha suggerito l’influente parlamentare, sarebbe di bloccare i progetti di miniere negli Stati Uniti che sono finanziati dai cinesi, come pure stoppare gli stessi finanziamenti che Pechino sta richiedendo alla Banca Mondiale per le sue iniziative minerarie nel mondo.

il Riformista 14.3.12
L’ascesa dello yuan
L’asse Pechino-Tokyo contro il dollaro


dI Andrea Pira

Le ambizioni cinesi per trasformare lo yuan in una moneta internazionale stanno iniziando a concretizzarsi. Il ministro delle Finanze nipponico, Jun Azumi, ha annunciato di aver ricevuto da Pechino il via libera per l’acquisto di 65 miliardi di debito pubblico cinese (7,8 miliardi di euro). Il semaforo verde per Tokyo fa parte degli accordi raggiunti dal premier cinese Wen Jiabao e dal suo omologo giapponese Yoshihiko Noda lo scorso 27 dicembre. Il memorandum d’intesa impegna la seconda e la terza economia al mondo a ridurre l’impiego del dollaro negli scambi bilaterali finora dominati per circa il 60% dalla moneta verde. Inoltre consente al governo nipponico di acquistare bond cinesi, prima operazione di questo genere accordata a un’economia avanzata. Le questioni commerciali hanno messo da parte le dispute storiche e politiche. Da ultima le dichiarazioni del sindaco di Nagoya, Takashi Kawamura, sulla veridicità del cosiddetto stupro di Nanchino, dove durante l’occupazione nipponica della Cina negli anni Trenta, furono trucidati 200mila cinesi e migliaia furono le donne violentate. Sul piano economico invece non va dimenticato il sostegno giapponese alla causa intentata all’Organizzazione mondiale del commercio dall’Unione europea e dagli Stati Uniti contro le restrizioni poste da Pechino alle esportazioni delle terre rare, materie prime indispensabili per le produzioni ad alta tecnologia, di cui la Cina detiene il monopolio della produzione. Di contro la Repubblica popolare è già il principale partner commerciale del Sol Levante. I due Paesi sono inoltre i maggiori detentori di riserve in valuta estera: i cinesi con 3.200 miliardi di dollari, i giapponesi con 1.300 miliardi. «Permettere l’ingresso di investitori stranieri nel mercato del debito servirà a rendere lo yuan più accettabile internazionalmente», ha spiegato alla Reuters l’economista Zhang Yongjun, del think tank governativo China Center for International Economic Exchanges.
L’intervento di Tokyo sarà graduale. Si inizierà con investimenti di lieve entità e gli acquisti successivi saranno fatti in base alle possibili ripercussioni sui mercati. Gli investimenti giapponesi, ha aggiunto Azumi, saranno inoltre fuori dal programma QFII (acronimo per investitori istituzionali esteri qualificati) lo schema che regola gli investitori stranieri che hanno accesso al mercato in valuta locale Dal canto suo la Cina continuerà ad acquistare debito pubblico giapponese, ma con riduzioni delle quote nel caso di aumenti del valore dello yen, così da non mettere in difficoltà l’export nipponico.
Per Akio Takahara dell’Università di Tokyo, l’accordo sui titoli di Stato ha un forte impatto simbolico, perché sottolinea il sostegno giapponese alla crescita cinese. Tuttavia, ha detto l’economista a France Presse, difficilmente raggiungerà a breve i livelli di debito Usa nel portafoglio di Tokyo, proprio perché lo yuan non ha ancora acquisito una posizione internazionale. La Cina ha già mosso i primi passi affinché ciò avvenga. La scorsa settimana ha annunciato di voler accordare prestiti in yuan agli altri Paesi del club dei Brics. Dal 2009 ha avviato un programma pilota per fissare in yuan parte degli scambi con partner come Malaysia, Bielorussia e Argentina. Il risultato è stato un aumento dell’uso dello yuan negli scambi, che ha fatto segnare quota 9% nel 2011, contro lo 0,7 dell’anno precedente. Secondo le stime della Banca mondiale, entro il 2030 la Cina potrebbe superare gli Usa e
diventare la prima economia al mondo. Perché lo yuan assurga al ruolo di moneta di riserva occorre che si vada verso la sua completa convertibilità e si allentino gli stretti controlli sui flussi. Il calendario di questo processo è ancora lontano. Lunedì il vice governatore della Banca centrale, Yi Gang, ha spiegato che ora tocca al mercato decidere se lo yuan sia
o meno valutato in modo ragionevole. Eventuali interventi, dicono dall’istituto centrale, sarranno fatti in maniera appropriata.

La Stampa 14.3.12
L’Onu: 230mila in fuga
La denuncia di Amnesty “Siria, torture sistematiche”
di Giordano Stabile


Dopo l’orrore di Homs, la guerra civile siriana si sposta verso Nord, a Idlib. La città è assediata da tre giorni. Ieri si sono registrati almeno 48 morti, secondo l’Osservatorio dell’opposizione. In gran parte sono militari e agenti: 22 in tutto, di cui 12 nell’imboscata a un check point tesa da un gruppo di soldati disertori inquadrati nell’Esercito libero di Siria, il braccio armato degli insorti.
La pressione verso Idlib sta causando un nuovo esodo di civili verso la Turchia e, in misura minore, il Libano. Secondo l’ultimo rapporto Onu, sono almeno 30 mila le persone fuggite in un anno di insurrezione, cominciata giusto un anno fa, il 14 marzo 2011. Duecentomila gli sfollati all’interno del Paese. Anche il bilancio delle vittime è stato aggiornato: 8 mila.
Dopo lo choc del massacro di Homs, la Lega Araba ha chiesto «un’inchiesta indipendente». Un primo spaccato arriva da Amnesty International, che ieri ha pubblicato il suo rapporto «Torture e maltrattamenti in detenzione»: pestaggi, scosse elettriche, stupri sistematici sono documentati da una serie di testimonianze dirette. Amnesty ha chiesto l’intervento della Corte penale internazionale dell’Aja. Nonostante tutto ciò, Bashar al Assad va avanti: il 7 maggio sono previste elezioni parlamentari.

Corriere della Sera 14.3.12
Siria, ecco il catalogo degli orrori. Tutti i sistemi di tortura di Assad
di Cecilia Zecchinelli


Ci sono il bisat al rih (tappeto volante), la kursi almani (sedia tedesca), il dulab (pneumatico). E prima, lunga ed elaborata, la haflet al istiqbal, la festa di ricevimento. Un grottesco kamasutra di tecniche, in tutto 31, usate dalle varie forze di intelligence e di sicurezza siriane per torturare uomini e donne, giovani e anziani, perfino bambini. Un catalogo degli orrori che Amnesty International pubblica oggi, vigilia del primo anniversario della rivolta contro il dittatore Bashar Al Assad, che non cede e anzi si prende gioco del suo Paese e del mondo indicendo per il 7 maggio «libere elezioni parlamentari» in cui nessuno crede. Il 15 marzo 2011 la protesta iniziata nella cittadina di Deraa, al confine giordano nel Sud, si estese ad altre città nel primo, tanto atteso Giorno della Rabbia del popolo di Siria. Una rabbia che non si è ancora spenta, dopo almeno 7.500 civili uccisi (secondo le Nazioni Unite) o 6.500 (secondo le rivelazioni più caute di Amnesty). E dopo decine di migliaia di profughi: l'Alto commissariato per i rifugiati dell'Onu (Unhcr) proprio ieri ne ha stimati 230 mila, tra quelli interni e quelli riusciti a fuggire. Lungo i confini con il Libano e la Turchia — denuncia un'altra organizzazione internazionale, Human Rights Watch (Hrw) — il regime di Damasco ha piazzato intanto mine antiuomo: già molti civili in fuga sono stati ammazzati da quegli ordigni banditi a livello internazionale.
«Volevo morire» è il titolo dato da Amnesty al nuovo rapporto con le testimonianze di molti di quei siriani scappati, intervistati in Giordania in febbraio dai suoi attivisti che in Siria non possono entrare. Un titolo che esprime i sentimenti provati da Tareq (il nome è fittizio), imprenditore 27enne di Tartus, arrestato tre volte e per tre volte oggetto di abusi intollerabili al punto di avergli fatto desiderare la morte. «Non ho nemmeno informato i miei aguzzini dei farmaci salvavita che devo prendere ogni giorno», ha raccontato. Una tentazione di farla finita condivisa da Al Shami: «Odiavo la prigione con tutte le mie forze: ho pensato di arrampicarmi sul muro e buttarmi giù», ha ammesso l'ingegnere 40enne detenuto nella capitale per sette settimane.
Tareq e Al Shami, come lo studente 18enne Karim, l'insegnante in pensione Najati di 65 anni, il decoratore 40enne Abu Al Najem e gli altri del gruppo, illustrano nei dettagli le torture. A partire dalla «festa di ricevimento» all'arrivo nel centro di detenzione, con pugni, botte, bastonate, colpi di frusta e cavi intrecciati per 24 ore di fila, sul corpo nudo o quasi. Un trattamento standard, che riflette un modello stabilito, sostiene Amnesty. Non solo: «L'esperienza delle tante persone arrestate nel corso dell'ultimo anno è ora molto simile a quella subita dai prigionieri sotto l'ex presidente Hafez Al Assad; un incubo di torture sistematiche», denuncia Ann Harrison, vicedirettrice per il Medio Oriente e il Nord Africa dell'organizzazione. Molte di quelle tecniche erano state infatti accantonate quando nel 2000 il giovane Bashar successe al padre, il terribile e spietato raìs che solo a Hamà sterminò nel febbraio 1982 decine di migliaia di persone. Ma già nel 2004 contro i curdi, e poi nell'ultimo anno, l'ex oftalmologo diventato raìs è tornato ai metodi antichi. Come le varie forme di elettroshock, o lo shabeh («fantasma», con il prigioniero appeso a un gancio in modo che non tocchi terra e quindi picchiato), il dulab (il detenuto infilato in uno pneumatico e seviziato), il tappeto volante (uno strumento di legno che costringe a piegarsi in modo innaturale), la crocefissione. E tutto questo, dicono i testimoni, ormai è una routine collaudata non solo nelle innumerevoli sedi dei tanti servizi segreti ma perfino negli ospedali con gli oppositori feriti. Nell'ultimo anno sono poi diventate comuni le torture sessuali. Tareq ha raccontato che in luglio, prigioniero dei servizi segreti militari a Damasco, fu costretto ad assistere allo stupro di un altro detenuto. «Gli hanno abbassato i pantaloni, era ferito a una coscia. Poi l'ufficiale l'ha violentato mentre lui non poteva far altro che piangere e sbattere la testa sul muro».
Quanti sono morti tra le mani dei torturatori? Amnesty dice che finora sono documentati 276 nomi. Ma con i tanti desaparecidos degli ultimi mesi saranno «sicuramente molti di più». Di certo c'è invece che al di là dei numeri «le ultime testimonianze dei sopravvissuti alla tortura costituiscono un'ulteriore prova dei crimini contro l'umanità commessi da Damasco». Crimini per i quali l'organizzazione è tra i tanti a volere che la Siria sia deferita alla Corte penale internazionale e finché questo non sarà possibile, viste le divisioni tra diplomazie, che almeno la Commissione d'inchiesta Onu continui a indagare e accumulare prove. «Sarà una garanzia che i colpevoli saranno chiamati a rispondere del loro operato».

Corriere della Sera 14.3.12
Un sondaggio rilancia Sarkozy
«Potrebbe essere in testa con il 28,5% al primo turno»
Quei Tre Fattori che Riaprono i Giochi
di Massimo Nava


«Il cadavere si muove ancora». Con gusto macabro, un consigliere di Sarkozy preannunciava qualche giorno fa la rimonta o, per stare alla metafora, la resurrezione di un presidente dato per politicamente morto troppo presto, con contorno di voltafaccia e impietosi bilanci della sua breve stagione, alcuni dei quali — siccome il mondo è paese — redatti da personaggi un tempo a lui vicini. «La sua eredità sarà di aver regalato alla sinistra tutte le istituzioni della Francia, dai municipi all'Eliseo», scrive Jacques Attali, al quale Sarkozy aveva consegnato l'incarico di tracciare la road map delle riforme.
Puntualmente, è arrivato ieri il sondaggio che annunciava Sarkozy davanti allo sfidante socialista, François Hollande, al primo turno. Per la verità, lo stesso sondaggio prevedeva la sconfitta al secondo turno, con uno scarto notevole (54 a 46) e un secondo sondaggio, diramato poche ore dopo, confermava distanze incolmabili. Non sono naturalmente queste le notizie che riportano il sorriso nel campo del presidente, ma la sensazione, suscitata appunto dai primi sondaggi in contraddizione, che a quaranta giorni dal voto si sia messa in moto una dinamica più favorevole (o non irreversibile) per effetto di diversi fattori concomitanti.
Il primo è la sua discesa in campo ufficiale, evento che negli ultimi giorni ha praticamente occupato tutto lo spazio mediatico, con gigantesche adunate di militanti e interminabili maratone televisive: due ambiti in cui Sarkozy ha potuto sfoderare le sue armi migliori, energia oratoria e padronanza di argomenti. Chi lo descriveva rassegnato e incline al ritiro della politica, come lui stesso ha preannunciato, si è dovuto ricredere di fronte al piglio del combattente che dà il meglio di sé nei momenti più difficili.
Il secondo è la radicalizzazione dello scontro, in termini classici di destra e sinistra, che lascia meno spazio a terzi incomodi (da Bayrou a Marine Le Pen alla sinistra radicale di Mélenchon) e favorisce la polarizzazione dei consensi. Con l'avvicinarsi del primo turno, Sarkozy e Hollande inseguono le ali estreme dell'elettorato e cercano di sedurre il proprio campo con argomenti ideologici e identitari. Tipiche le proposte di tassare fino al 75 per cento i più ricchi o di dimezzare il flusso annuale d'immigrati. Emblematica la diversa idea di Europa. Pochi ci credono e tutti sanno che, al secondo turno, progetti e orizzonti saranno più realistici per convincere il centro dell'elettorato, ma intanto occorre scaldare gli animi toccando i nervi più scoperti e le aspettative più rabbiose.
Il terzo elemento è l'alta percentuale d'indecisi, oltre il 46 per cento, un dato che getta molte ombre sull'attendibilità dei sondaggi e offre ampie possibilità di recupero.
Il problema maggiore del presidente è di superare la crisi di rigetto della società francese verso la sua personalità e la sua immagine più che verso il suo programma. Il problema maggiore di Hollande, che sta capitalizzando questa crisi di rigetto, è invece convincere i francesi di avere un programma migliore e soprattutto credibile, anche all'esterno della Francia, fra i partner europei.
Il leader socialista sta però riuscendo nella complicata alchimia di tenere insieme la Francia delle diversità e delle rivendicazioni radicali (dai precari agli immigrati, dalle femministe agli intellettuali) con la Francia dei funzionari pubblici e degli operai sindacalizzati che teme le riforme e aspetta la manna dello Stato protettore, plasmato dai governi socialisti e gollisti. Sarkozy tenta il recupero presentatosi come il campione dei valori da conservare e delle più profonde riforme economiche, con qualche acuto populista, come le bordate contro guadagni indecenti e espatriati fiscali.
A condizionare il risultato sarà come sempre la miscela di conservazione-rivoluzione nel Paese che da qualche decennio attende il grande riformatore.

l’Unità 14.3.12
Psiche
È di polvere il volto dell’anima
Un’esposizione a Milano porta in una galleria d’arte le «sculture» realizzate con il gioco della sabbia, uno strumento terapeutico dell’analisi junghiana con il quale i pazienti creano paesaggi che riflettono le loro emozioni
L’ispirazione: il villaggio costruito da Jung giocando sulla sponda del lago
di Romano Màdera
, analista junghiano

Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone». Queste sono le parole di J.L. Borges, con le quali iniziava il libro di Paolo Aite, Paesaggi della psiche. Il gioco della sabbia nell’analisi junghiana (Bollati Boringhieri, 2002), dedicato al gioco della sabbia come
parte integrante del setting psicoanalitico. Si capisce perché questo gioco di invenzione di scenari in un contenitore di legno o d’acciaio, colorato d’azzurro e pieno di sabbia, abbia a che fare con l’immagine della psiche: come nella citazione di Borges, alla fine si scopre che quei paesaggi e quegli oggetti, sono venuti sorprendentemente a comporre il volto interiore del loro creatore. L’anima si è fatta luogo tridimensionale, ha cercato di guardarsi senza neppure saperlo, dandosi in figure tridimensionali. Sognando con le mani ha acquistato peso, come se avesse preteso che la fantasia trovasse almeno un angolo di mondo nel quale partecipare della oggettività delle cose.
Per la prima volta, un gruppo di analisti del Laboratorio Analitico delle Immagini che hanno per punto di riferimento proprio il lavoro di Paolo Aite tenta l’impresa di mostrare in un percorso espositivo il senso e le applicazioni del gioco della sabbia.
Questo metodo consente di esprimere affetti, emozioni, idee, percezioni, che urgono in noi ma che ci sono incomprensibili, modellando la sabbia che si trova in un vassoio e disponendo in essa oggetti, figure umane e animali in miniatura, pietre, foglie...messe a disposizione nello studio analitico. Fu Dora Kalff, una allieva di Jung, a usarlo per prima terapeuticamente, Paolo Aite lo ha poi inserito organicamente nel processo analitico.
Alla mostra ci introducono parole, come quelle di Borges, o di Jung che gioca sulla sponda del lago costruendo un villaggio, spinto dal vuoto di senso a cercare una traccia in costruzioni espressive ma ancora incomprensibili di William Blake, che nel granello di sabbia trova la metafora dell’immenso. Si entra poi nella grande metafora dell’albero che regge l’impianto della mostra, e si parte dalle radici: «Sabbia Sapiens» si chiama questa sezione. Immagini e parole testimoniano che di un bisogno raffigurativo e plastico generalmente umano si tratta, per il quale la ricettività, la resistenza e la mobilità della sabbia offrono una materia impareggiabile. Navajo, Tibetani, aborigeni...maestri contemporanei, hanno affidato alle sabbie il tentativo di stabilire un orientamento, di stagliare un’impressione nell’oggettività, al tempo stesso solida e destinata all’effimero dell’attimo. Come ogni cosa, ogni esperienza umana, per quanto decisiva possa essere. Il tronco dell’albero cerca di suggerire le funzioni delle parti costitutive di questa pratica: il movimento delle mani, la materia sabbia, gli oggetti, il gioco e, infine, lo spazio del contenitore.
Si arriva a un centro, come se nel tronco si aprisse uno spazio cavo, protetto, una sorta di tana, o di delimitazione sacra come quella di un temenos: il contenitore della sabbiera è un contenuto della stanza analitica. Pochi cenni ne danno l’atmosfera, rimandano il gioco alla sua matrice. Ai lati si sviluppano invece percorsi clinici attraverso pannelli fotografici di scenari composti in analisi. Mentre parole di concentrata intensità scendono dall’alto su rotoli di scrittura. Immagini e voci. Anche qui si tratta di indizi, come schegge di un fuoco che non è dispiegabile in una descrizione puntuale, pena perderne il calore vivo. Si possono intuire il ruolo delle difese che coprono e impediscono lo sguardo, il disvelamento successivo, gli incontri con i mostri e con le ombre, l’apertura di un vedere altrimenti che promette liberazione dalla prigione della ripetizione nevrotica. Ma per chi volesse saperne qualcosa in modo discorsivo, la mostra fa anche da prima presentazione di un nuovo libro del Lai, a cura di Giuseppe Andreetto e di Pina Galeazzi, Il mondo in un rettangolo, edito da Moretti & Vitali. Così scrivono: «le immagini, nel confronto fra conscio e inconscio, per prendere vita e corpo, per toccarci, hanno bisogno di essere sentite e condivise sul piano sensoriale...il tentativo di rappresentare l’irrapresentabile, trova nel gioco della sabbia uno spazio potenziale, grazie al gesto e alla parola che lo accompagna». Ecco, libro e mostra si rimandano l’un l’altro, come se riproducessero i riflessi incrociati di gesti, immagini e parole, e volessero così indurre nel visitatore una sorta di stato allusivo a un grande gioco, che si condensi poi fino a rientrare nel microcosmo della sabbiera.
Proprio alla funzione del limite è dedicato il libro: limite e corpo, limite e tempo, limite e spazio sono le tre scansioni del testo. E non è proprio la confusione dei limiti che si fa segnale sintomatico nelle nuove forme delle psicopatologie che attaccano la misura dei corpi e la possibilità di relazioni stabili e profonde? Alla realtà del limite è invece, nella esperienza del gioco, consegnata la possibilità di espressione e riconoscimento, le due esigenze umane fondamentali che, trascurate, generano inevitabilmente il corteo delle storture sofferenti che ci piagano.
Solo un accenno in questa esposizione sul gioco delle sabbie indica una delle applicazioni più interessanti e socialmente rilevanti di questo metodo. Alcuni piccoli oggetti esposti vengono dal Sud Africa, dal lavoro pionieristico che Eva Pattis Zoja, con gruppi di giovani assistenti volontari formati appositamente, ha portato in luoghi di severo disagio psicosociale, tra bambini poveri, trascurati o ospitati in orfanotrofi, della Colombia, della Cina, del Sud Africa e della Romania.
A questa impresa, che rinnova e rilancia la troppo trascurata vocazione sociale della psicoanalisi, Eva Pattis ha dedicato un libro teoricamente denso ed emotivamente toccante: Curare con la sabbia. Una proposta terapeutica in situazioni di abbandono e di violenza (Moretti & Vitali).

l’Unità 14.3.12
Suoni e danze sufi per abbattere i muri fra le religioni
Uno spettacolo centrato sui versi di Rumi, il «Dante islamico» Dopo Roma un tour che toccherà le maggiori capitali europee
di Roberto Monteforte


La scommessa è alta. Soprattutto di questi tempi. L’arte, la musica, la danza e il teatro possono arrivare dove non riesce a giungere la diplomazia? Possono toccare il cuore dell’uomo e favorire il dialogo tra le culture e le religioni? Possono far riscoprire fraternità malgrado le differenze in una società secolarizzata e poco aperta al sacro? Questa è la scommessa lanciata con Suoni, danze e versi per un viaggio nel mondo di Rumi, lo spettacolo prodotto da Shariar Alemi con il sostegno di Alessandra Riccardi Infascelli per la «Mirabiliartis» e realizzato da Sandro Giupponi che è andato in scena ieri sera all’Auditorium del Parco della Musica a Roma e che sarà replicato questa sera.
Ha qualcosa da dire all’uomo di oggi il pensiero del poeta e mistico turco Jalal al-Din Rumi (1207-1273) , considerato il «Dante islamico» e tra i più grandi maestri del Sufismo, il filone spirituale islamico che vede nella spiritualità la radice autentica delle forme religiose e il percorso di avvicinamento alla scoperta del Dio unico che affratella tutti i credenti. Un percorso di ricerca mistica e spirituale, considerato eretico e ancora oggi motivo di persecuzione nel mondo islamico fondamentalista, proprio perché favorisce il dialogo interreligioso e interculturale, che ha trovato nuovo vigore nella stagione della «primavera araba» e che viene riproposto attraverso la musica, le danze e i versi di Rumi recitati da Virginio Gazzolo e dalla piccola Bianca Brussani.
UN DONO
L’appuntamento al Parco della Musica rappresenta quindi non solo uno spettacolo, ma anche un coraggioso atto culturale e politico, compiuto soprattutto dagli artisti, musicisti, danzatori, attori, scrittori, residenti in Italia e di nazionalità iraniana, egiziana, indiana e italiana che hanno deciso di offrire gratuitamente i propri compensi professionali al fine di diffondere il messaggio di questo grandissimo e sconosciuto poeta medievale: un personaggio che sfidò i pregiudizi e le convenzioni religiosi della sua epoca. Il suo pensiero viene riproposto come contributo all’incontro tra le religioni, in particolare tra quelle del Libro, che coinvolge quegli islamici, cristiani ed ebrei che credono nella scommessa del dialogo tra le culture e le religioni per la fraternità, la pace e la giustizia. Obiettivi tragicamente attualissimi come testimonia la cronaca di questi giorni. Una sana provocazione che viene sottolineata dalla Coreis italiana, l’associazione dell’Islam italiano fondata da Pallavici particolarmente impegnata in questo percorso di dialogo interreligioso e interculturale. Un impegno condiviso. Lo testimonia la presenza alla rappresentazione del presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche, Renzo Gattegna e di una delegazione del Pontificio consiglio per la Cultura, presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasani ed anche dei rappresentanti diplomatici dei Paesi islamici all’Auditorium della Musica.
Ma quella di Roma sarà solo la prima tappa di un tour tra le maggiori capitali europee per far conoscere attraverso l’arte, la musica, la danza e la poesia, il pensiero di Rumi, il grande maestro del sufismo e quanto possa essere attuale il suo originale contributo alla causa della pace.

La Stampa 14.3.12
Tra Etruschi e Celti galeotto fu il vino
Da sabato ad Asti grande mostra sulla prima civiltà d’Italia che fece dialogare Mediterraneo orientale e Nord Europa
di Maurizio Assalto


Nel 1875 le vanghe dei sabbiatori al lavoro nel Tanaro, nei pressi del ponte di corso Savona ad Asti, incocciarono in qualche cosa di inaspettato: un magnifico elmo crestato etrusco in lamina di bronzo, risalente al IX-VIII secolo a. C. Il prezioso reperto è il pezzo simbolo, e insieme la ragion d’essere, della grande mostra «Etruschi. L’ideale eroico e il vino lucente», a cura di Alessandro Mandolesi e Maurizio Sannibale, ospitata al Palazzo Mazzetti di Asti dal prossimo sabato al 15 luglio, e pensata sui fili di un legame tra Italia del NordOvest e Etruria più intrecciati di quanto non si immaginerebbe. Il vino, ma non solo.
Deposto ritualmente entro una buca nell’alveo del fiume, l’elmo era probabilmente il dono di un mercante etrusco di età villanoviana a un capo indigeno del basso Piemonte, che era allora abitato dai Liguri. Un oggetto prestigioso, ostentatorio, che denota un reciproco riconoscimento tra pari. In questa fase gli Etruschi sono in grande espansione, mirano a creare nuovi sbocchi per i lori prodotti e allo stesso tempo cercano di procacciarsi la materia prima di cui sono sprovvisti: quell’oro presente per esempio nelle sabbie aurifere del Biellese. La valle del Tanaro è una direttrice commerciale importante: permette di raggiungere, al di là delle Alpi, la valle del Rodano, e quindi la Cornovaglia da dove proviene lo stagno indispensabile per ottenere il bronzo. Un’altra direttrice, la valle del Ticino, attraverso il Novarese e il Verbano porta invece alla Svizzera e alla valle del Reno, dove sono stati ritrovati in grande quantità vasi etruschi legati alla cerimonia del vino.
All’espansione commerciale si accompagna quella culturale. Nell’area di Golasecca, tra Piemonte e Lombardia, nel VI secolo a. C. si scrive con le lettere dell’alfabeto etrusco, mentre da Busca, in provincia di Cuneo, proviene l’iscrizione funeraria di un personaggio locale trasferitosi in Etruria e tornato a morire nella terra natìa, che nell’epitaffio ha emblematicamente unito il proprio nuovo nome etrusco (Larth) a quello celtico (Motico). Nella cosiddetta «età dei Principi» (VII secolo a. C.) gli Etruschi svolgono un ruolo di cerniera tra il mondo mediterraneo orientale e l’Europa celtica: diffondono la cultura del vino (tracce etrusche sono state rilevate nel Dna dei vini francesi meridionali, come pure, sembra, nel Nebbiolo piemontese), la pratica del simposio, gli usi, i costumi e i miti mediati dai poemi omerici. Non sono inventori, ma grandi rielaboratori che fondono, adattano e semplificano, e mettono in comunicazione: veri e propri veicoli di cultura.
Nelle diverse sezioni della mostra questa funzione cruciale per la storia della civiltà (che farà inorridire certi sedicenti Celti d’oggi, ma era tutt’altro che sgradita ai loro avi) è illustrata attraverso 340 pezzi provenienti in gran parte dai Musei Vaticani e quasi tutti recuperati tra i materiali meno noti dei depositi. Ecco una semplice urna cineraria del IX secolo, da Tarquinia, chiusa da un elmo di terracotta, a ricostituire idealmente una testa umana, ossia parte di ciò che si è perso con la cremazione. Ecco un raffinato «vaso parlante» di bucchero (VII secolo, da Cerveteri) che proclama «Io sono di Ramutha Kansinai», una donna, a testimonianza del rilievo sociale femminile in quell’epoca. E poi i vasi greci e etruschi del VII e VI secolo con le immagini del riscatto del corpo di Ettore, dell’agguato di Achille a Troilo, di Polifemo accecato da Ulisse, che dicono molto sulla rapidità con cui si erano diffusi in Occidente i miti cantati da Omero. La grattugia di bronzo per polverizzare il formaggio caprino da mescolare (vietato inorridire) al vino rimanda alla stessa abitudine greca, così come da quelli greci sono indistinguibili l’elmo, lo scudo e gli schinieri esposti nella sezione dedicata all’oplitismo.
La rassegna propone anche la riproduzione in scala 1 a 1 di un paio di tombe dipinte, quella «delle Bighe» (Tarquinia, VII secolo) e quella «del Triclinio) (stessa zona, V secolo) che illustra splendidamente il momento del banchetto (il banchetto reale, ma anche, allusivamente, quello nell’aldilà) attraverso l’immagine di due sposi attorniati da figli, musici, danzatori, animali domestici e fiere. Mentre è un pezzo originale la Tomba della Scrofa nera, restaurata grazie alla Fondazione Cassa di Risparmio di Asti e qui riassemblata per la prima volta. Come pure è a suo modo una primizia il sarcofago di pietra lavica del IV secolo, da Tuscania, che ha sul coperchio un giovane libante e sul bassorilievo della cassa le immagini della strage dei figli di Niobe: scoperto nel 1830 e all’epoca smembrato tra il Museo Archeologico di Firenze e i Musei Vaticani, è ricomposto ad Asti dopo quasi due secoli.
In chiusura si torna al punto di partenza, il filo che unisce Piemonte e Etruria. Nell’ultima sala sono esposti i disegni preparatori di Pelagio Palagi per il gabinetto «all’etrusca» di Carlo Alberto nel diletto castello di Racconigi, insieme con le sedie nello stesso stile realizzate per il sovrano che fu il primo a vagheggiare l’unità d’Italia. E proprio in questa chiave risorgimentale - antistraniera e antiromana, ossia avversa alla Roma papalina - il re sabaudo, come già i Medici, si richiamò agli Etruschi: in un certo senso, i primi unificatori della Penisola.

La Stampa 14.3.12
Come cambiano gli italiani
Non è (più) un Paese per individualisti
In cosa crediamo, cosa desideriamo? Il Censis assicura: non si pensa più a “sé”, ora vince il “noi”
Austerità famiglia religione bellezza
di Mattia Feltri

qui
http://www.scribd.com/doc/85304757

Corriere della Sera 14.3.12
Meno consumismo, più famiglia: se si riscoprono i valori


ROMA — La bellezza ci salverà. Da Paese contadino, povero, dominato da «un'economia della scarsità» e da una società fortemente classista, nella lunga rincorsa che è partita nel 1861, anno della proclamazione dell'Unità d'Italia, negli ultimi quarant'anni la nostra si è trasformata da una nazione dall'«identità sabbia» (l'individuo e i suoi consumi) a una che adesso riporta al primo posto dei suoi valori la famiglia (65 per cento) e la bellezza.
Al secondo posto infatti gli italiani mettono proprio il Bel Paese, la penisola italiana, cioè il luogo fisico in cui viviamo, dove (secondo la valutazione di molti) si è affinata la qualità della vita (25 per cento). Segue la fede religiosa (21 per cento). E l'amore per il bello. Che, secondo il 70% degli italiani, fa diventare le persone migliori, come se ci fosse un legame tra etica ed estetica. Ben il 41% ritiene che le bellezze naturali e culturali del nostro Paese possano essere la molla che ci farà ripartire.
È questo «il fermo immagine» sull'Italia e sugli italiani, secondo un'indagine realizzata dal Censis, presieduto da Giuseppe De Rita, nell'ambito delle celebrazioni del 150°. Proprio mentre la crisi economica si è fatta più dura, oltre il 68 per cento degli italiani pensa che tra di noi ci sia ancora «molta» o comunque «abbastanza» forza morale e spirituale per affrontare il futuro, nonostante il 78 per cento lo tema. «Siamo di fronte a un ritorno positivo di valori su cui si può lavorare, con questi valori avrebbe detto qualcuno centocinquant'anni fa, anche oggi io vi dico, ci faccio una nazione» ha commentato Giuliano Amato, presidente del Comitato dei garanti per il 150°. Gli italiani (preoccupati della crisi economica, della corruzione politica e dell'immigrazione) considerano necessario per migliorare la convivenza sociale in Italia sicuramente la moralità e onestà (55,5%), il rispetto per gli altri (53,5%) e la solidarietà (33,5%). «Una tendenza all'aggregazione che va favorita» ha detto nel corso della presentazione dell'indagine (costata 500 mila euro, secondo un'interrogazione parlamentare dell'Idv) il sottosegretario Paolo Peluffo.
C'è infine una forte riaffermazione della necessità del rispetto della legalità. Negli italiani «è scattato il riflesso law and order».
Ecco allora che quasi il 90 per cento dei cittadini vorrebbe misure più severe contro le droghe pesanti. Ma anche contro guida pericolosa, abuso di alcol, droghe leggere, prostituzione, fumatori e anche chi mangia cibi ipercalorici che causano l'obesità. Con la crisi dell'individualismo anche il consumismo attrae meno, a parità di reddito, il 57% degli italiani (il calo dei consumi ha cioè anche una componente non economica).
Più che di famiglia come perno della nazione sarebbe meglio però parlare di «famiglie», cioè di diversi «format familiari», poiché ci sono meno coppie coniugate con figli, più coppie non sposate con figli e famiglie con un solo genitore. Le relazioni familiari però rendono soddisfatti il 90% degli italiani.
M.Antonietta Calabrò

La Stampa TuttoScienze 14.3.12
Molti numeri, grande scienza
L’era del “Big data” cambia tutti i saperi, dalla fisica al giornalismo
di Gabriele Beccaria


Intrufolatosi dal camino, il lupo è stato bollito vivo, ma dalle indagini emerge che i tre porcellini non siano i bravi ragazzi che qualcuno si ostina a difendere. Un video rivela che il lupo soffrisse d’asma e c’è chi pensa che i tre abbiano inscenato una rapina inesistente. Il processo cercherà di fare luce e gli interrogativi sui social networks dilagano come un incendio: dove finisce il diritto di difendere con armi abbiette la propria casa, già virtualmente assediata da mutui insostenibili? Mentre i porcellini, ammanettati, sono trascinati in aula, scoppiano i disordini di strada. La rabbia contro le banche degenera in violenza e gli articoli su carta e su iPad si susseguono, costruendo una storia dal finale aperto.
Su Youtube questo spot pubblicitario è un evento: lo slogan con cui si chiude è «The whole picture» - la realtà intera - ed è così che il quotidiano inglese «The Guardian» si autopromuove, divertendosi a riraccontare la celebre fiaba. Immersa nel XXI secolo, eccola finire sotto i riflettori stravolta dalla molteplicità delle fonti e dalla varietà delle interpretazioni. Una sequenza cangiante - ma lo spot non lo dice - eccitata da un fenomeno noto come «Big Data» e che si può riassumere come la «neo-scienza di grandi numeri».
Sebbene non abbia ancora colonizzato l’immaginazione collettiva, questa scienza emergente è così aggressiva da cambiare tutto e, infatti, lo tusnami sommerge perfino una roccaforte degli allergici ai numeri come il giornalismo. Proprio «The Guardian» è uno dei primi media a buttarsi nel labirinto del «data journalism»: un gruppo di reporters è stato incaricato di confezionare scoops esplorando la mole inarrestabile di dati elaborata da centri studi, corporations, governi, organismi finanziari ed entità internettinane, a cominciare dai social networks. Che si tratti di Wikileaks e la guerra segreta in Afghanistan o degli scenari sulla povertà in Occidente queste valanghe di saperi richiedono una mente versatile: stile da inviati, ragionamento da analisti. Altrimenti non c’è modo di maneggiare i codici con cui decifrare un universo di informazioni compresse in formule e schemi, fino a far sbocciare scoperte che, contaminandosi, generano ulteriori possibilità.
Lo sanno bene gli scienziati: se le esigenze retoriche possono riposare in stand-by, la sfida intellettuale si concentra sui dati, un caos da manipolare senza sosta, seguendo singole ipotesi e progetti grandiosi. «Viviamo una rivoluzione - ha sentenziato Gary King, direttore dell’Institute for quantitative social science di Harvard -. Si comincia adesso, ma la marcia della quantificazione si diffonderà attraverso l’accademia, il business e i governi. Non c’è area che non sarà toccata». Tra gli esempi, si citano la «Global biodiversity information facility», un deposito grezzo di info sulla vita terrestre, dai batteri a interi habitat, la «ProteomeCommons», che custodisce 13 milioni di files sulle proteine, lo «Sloan Digital Sky Survey» con oltre 230 milioni di oggetti stellari e galattici e l’«International nucleotide sequence database collaboration», esteso su 250 miliardi di dati genetici. Senza dimenticare l’esperimento più ambizioso mai tentato, quello al Cern di Ginevra sull’origine dell’Universo, che si prepara a macinare 15 petabytes di conoscenza ogni 12 mesi (una gestione da 150 milioni di euro).
«Big data» attinge a miniere che fino a poco tempo fa non esistevano e si organizza con il marchio di «scienza della complessità»: schizza oltre le singole parti (atomi, geni, individui, stelle) e, sfruttando i poteri dei supercomputers, si inerpica nel continente inesplorato delle proprietà emergenti, vale a dire i fenomeni che si generano dalle interazioni degli elementi-base, ma che allo stesso tempo li trascendono, con risultati non prevedibili. E’ come dire che da un Dna quasi identico si ottengono sia Obama sia Romney, ma anche un banchiere di Manhattan e un militante di «Occupy Wall Street». Oppure, a voler essere più sofisticati, significa che l’obiettivo della scienza esplode e muta di status. Ai tempi di Darwin era costruire teorie, spiegate dai fatti. Oggi, nell’epoca dei gruppi multidisciplinari, si accumulano database e si macinano simulazioni per osservare ciò che si materializza. Ma non è detto che l’epifania si manifesti e si approdi al momento della sintesi. Ciò che si intravede può essere solo una strada accanto a molte altre e quindi la rincorsa riparte subito. E’ la complessità, appunto. Così multiforme da non entrare in nessuno dei cassetti delle classificazioni tradizionali.
Da oggetto solido la conoscenza, di metamorfosi in metamorfosi, è ora una dimensione liquida, in cui spostarsi lungo rotte multiple e immergersi a varie profondità. «Il problema è che questa informazione è inutile, se non si hanno i mezzi per navigarla», spiega il fisico Ciro Cattuto, vicedirettore scientifico dell’Isi Foundation di Torino, uno dei centri che hanno fatto della complessità la propria bussola. E così ha sperimentato un metodo per tuffarsi in Twitter e strappargli segreti altrimenti inespugnabili: servirà anche per i reporters di oggi e gli storici di domani.
CONTINUA LA PROSSIMA SETTIMANA

La Stampa TuttoScienze 14.3.12
Chi si perde nel Genoma troverà un gioco di specchi
In ogni individuo a dominare è la variabilità: non soltanto mutano le lettere del Dna ma anche il numero di copie di alcuni segmenti. “E’ questa la molla dell’evoluzione”
di Mariano Rocchi


MARIANO ROCCHI UNIVERSITÀ DI BARI A cura dell’Agi - Associazione Genetica Italiana
Mariano Rocchi Genetista RUOLO: E’ PROFESSORE DI GENETICA ALL’UNIVERSITÀ DI BARI IL SITO: HTTP://WWW.BIOLOGIA.UNIBA.IT/ DIGEMI/CV/ROCCHI.HTM

La selezione lavora sulla variabilità introdotta dal caso. Questo concetto evolutivo, proposto da Darwin, è ancora valido, ma di cosa ci fosse sotto Darwin non aveva la minima idea. Non solo il Dna non era ancora stato scoperto, ma neppure la parola genetica era stata inventata: è comparsa nel 1905 e sarebbe passato ancora tempo prima che si capisse cosa c'è dentro al serbatoio dell'evoluzione.
Solo leggendo il Dna con le macchine sequenziatrici, abbiamo potuto renderci conto di quante piccole differenze di sequenza esistono tra gli individui e, dunque, anche fra il corredo che riceviamo dalla madre e quello che ereditiamo dal padre. Queste variazioni sono chiamate polimorfismi del singolo nucleotide (Snp), cioè variazioni di una singola lettera. Su un tratto di Dna del cromosoma materno, per esempio, la sequenza può essere Ctt, mentre sul corrispondente tratto paterno è Ctc. La facilità con cui vengono sequenziati interi genomi ci ha consentito di calcolare che ognuno di noi ha circa 3 milioni di questi Snp e che nella popolazione umana ce ne sono più di 10 milioni. La quasi totalità, per fortuna, si trova fuori dai geni. Basta però una sola variazione al posto sbagliato per provocare malattie anche gravi.
La genomica ci ha permesso di confrontare anche il Dna dei figli con quello dei genitori. Ora sappiamo che ognuno di noi passa alla generazione successiva un centinaio di nuove mutazioni, cioè di Snp. In realtà, le mutazioni che si verificano nelle cellule sono un numero più grande, spropositato. Per fortuna la maggior parte viene subito corretta. Ne restano circa un centinaio, appunto, che di generazione in generazione si sono accumulate fino a diventare milioni. Sarebbe stato meglio correggerle tutte per azzerare il rischio di mutazioni dannose? La risposta è no, perché il bene dell’individuo non coincide con quello della specie. Senza variazione non ci sarebbe stata per noi evoluzione.
Lo stesso ragionamento vale per l’altra fonte di variabilità, che non riguarda le lettere del Dna, ma il numero di copie dei segmenti ripetuti. La duplicazione è un fenomeno noto e nell’uomo si sono originati così circa il 38% dei geni. Le varie emoglobine, per esempio, sono comparse in questo modo. Più recentemente si è scoperto che anche tratti di Dna di lunghezza variabile, da poche centinaia ad alcune migliaia di basi, possono presentarsi duplicati. Dal sequenziamento del genoma umano sappiamo che le «duplicazioni segmentali» rappresentano il 5% del totale.
Per capirne di più è stato cruciale studiare il Dna dello scimpanzé: anche questo primate, il nostro parente più stretto, presenta le sue duplicazioni, il 66% delle quali sono in comune con l’uomo. Le altre sono specifiche dello scimpanzé o della nostra specie, perché si sono prodotte dopo la separazione dei rami evolutivi, tra 5 e 7 milioni di anni fa. Le duplicazioni «uomo-specifiche» costituiscono 27 milioni di paia di basi. Attenzione, però.
Ognuna è comparsa su un cromosoma e poi, pian piano, si è fissata nella popolazione. In altre parole, tutti gli umani ce l’hanno. Ma la fissazione non rappresenta la regola, semmai è l’eccezione. Prima di averne le prove potevamo supporre che, se alcune duplicazioni si sono fissate, altre non sono arrivate a questo traguardo o si sono perdute. Ma per averne la conferma abbiamo dovuto aspettare tecnologie capaci di analizzare contemporaneamente molte sequenze («microarray»). È così che nel 2004 due gruppi di studiosi hanno cercato le duplicazioni e le delezioni presenti solo in alcuni individui. Le hanno chiamate variazioni del numero di copie (Cnv) e ne hanno trovate in abbondanza. Se mettiamo in fila il Dna di due individui, possiamo arrivare a contare una differenza di 12 milioni di paia di basi.
Il genetista Susumu Ohno sosteneva, a ragione, che le duplicazioni hanno rappresentato la molla più potente dell’evoluzione. Non immaginava, però, che anche in questo caso ci fosse un prezzo da pagare: si tratta di quella serie di malattie, i disordini genomici, che derivano dalle duplicazioni nel genoma.
CONTINUA LA PROSSIMA SETTIMANA

Corriere della Sera 14.3.12
Palazzi e giardini. Aperti dal Fai 670 capolavori
Tra i siti visitabili c'è Villa Gernetto
di Edoardo Sassi


ROMA — Alla scoperta di 670 piccoli e grandi tesori d'Italia, con l'apertura straordinaria di beni culturali, paesaggistici e archeologici distribuiti in ogni regione e in 256 località per la ventesima edizione della Giornata del Fai di Primavera, sabato 24 e domenica 25 marzo. Chiese, palazzi e ville private, borghi, castelli, musei, giardini, teatri, itinerari: luoghi mai visti o aperti di rado, con ingresso gratuito per tutti (ma alcune visite sono riservate agli iscritti alla Fondazione).
A Roma, tra gli altri, si potranno visitare la cinquecentesca Villa Madama, opera di Raffaello e Giulio Romano, o le stanze dove visse e morì San Filippo Neri nell'Oratorio progettato dal Borromini. A Milano un braccio in disuso del carcere di San Vittore (prenotazioni già esaurite), il palazzo della Banca d'Italia o i Laboratori Ansaldo del Teatro alla Scala, con costumi e scenografie. A Napoli la Villa Rosebery o il cinquecentesco Convento di clausura delle Trentatré. A Venezia la Chiesa di San Lazzaro dei Mendicanti con opere di Veronese e Tintoretto. E si potrà accedere anche a una delle proprietà di Silvio Berlusconi, la settecentesca Villa Mellerio detta il Gernetto, in Brianza, che l'ex premier acquistò in località Germo di Lesmo nel 2008. Visita riservatissima in questo caso, con prenotazione obbligatoria entro mercoledì prossimo, fino a esaurimento posti e presentandosi 45 minuti prima all'ingresso per procedure di verifica.
Aperti anche i nuovi spazi della Biblioteca Universitaria di Genova, ricavati nei saloni liberty dell'ex Hotel Colombia, la Villa romana del Naniglio a Gioiosa Jonica, con mosaici riscoperti di recente e mai mostrati al pubblico, e i Palazzi Sergardi e Venturi Gallerani a Siena. Tra i beni non strettamente artistici, porte aperte anche ad antiche fabbriche (un cappellificio di Biella), cimiteri (Modena) e a testimonianze di archeologia industriale quali le fonderie e le ferrerie della Magona Granducale a Valpiana, Grosseto, risalenti al XVI secolo.
A festeggiare quest'anno il ventennale della Giornata Fai, dedicata ai giovani, anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha concesso il patronato alla manifestazione e che venerdì 23 marzo, in video streaming sul sito del Fondo Ambiente Italiano, lancerà un messaggio sull'importanza della tutela del patrimonio culturale, rispondendo anche a domande che i cittadini invieranno online entro il 20 marzo alla casella di posta elettronica internet@fondoambiente.it.
Ieri a Roma, nella sede del ministero per i Beni Culturali, la presentazione della due-giorni, con il ministro Lorenzo Ornaghi, il presidente della Rai Paolo Garimberti e i vertici di questa Fondazione impegnata da decenni per la salvaguardia e la tutela dei luoghi della cultura. C'erano la presidente del Fai, Ilaria Borletti Buitoni, il vice Marco Magnifico e la presidente onoraria Giulia Maria Mozzoni Crespi, che rivolgendosi direttamente a Ornaghi lo ha invitato a una «svolta» intanto su due temi precisi: la Villa Adriana a Tivoli, sito archeologico minacciato da una discarica che si vorrebbe costruire a poca distanza, e il funzionamento di Arcus Spa, società per interventi sulla cultura che il Mibac ha in condominio con il ministero per le Infrastrutture. Repliche del ministro: «Che si riesca a difendere e ad avere successo per Villa Adriana — ha detto — è motivo di felicità per il ministero oltre che di soddisfazione per tutti i cittadini». Su Arcus, spesso al centro di polemiche, risposta attendista: «C'è in atto una riflessione con il ministro Corrado Passera. Stiamo valutando se il sistema è ancora funzionale. Fatta questa valutazione, si procederà, se necessario, a una riorganizzazione».
Dal Fai è anche arrivato l'appello a tutti gli italiani per un contributo economico alla sua missione: con un offerta libera durante le visite, con l'iscrizione alla Fondazione (39 euro di contributo annuo, con riduzioni per coppie), inviando fino al 25 marzo un sms al numero 45504, costo 2 euro, o chiamando lo stesso numero da rete fissa per offerte di 5 o 10 euro: «Un piccolo grande gesto di gratitudine — ha spiegato Borletti Buitoni — per gli oltre settemila volontari che in questi anni hanno scritto un'importante pagina di storia sociale e artistica del nostro Paese e che solo grazie all'aiuto di tutti gli italiani potranno continuare a farlo». L'elenco completo dei siti aperti, nonché le diverse modalità di accesso (ingressi riservati agli iscritti, possibilità di iscrizioni in loco, obblighi di prenotazione) sono disponibili al numero di telefono 02.89780115 o all'indirizzo web www.giornatafai.it.

Corriere della Sera 14.3.12
Il tesoro nascosto di San Marino Picasso e Raffaello in 150 cassette
L'inchiesta sul Cio, un istituto di vigilanza del Titano
di Mario Gerevini


MILANO — I gendarmi spediti dal giudice di San Marino, Rita Vannucci, per una perquisizione hanno aperto una botola ben camuffata, infilato la ripida scalinata e si sono trovati in un caveau sotterraneo con tre casseforti e 150 cassette di sicurezza. Eppure non era la sede di un banca. Era un istituto di vigilanza privato di San Marino. Altra indagine sempre per sospetto riciclaggio: gli uomini della gendarmeria piombano negli uffici della Fin Project, una finanziaria. Svuotano armadi, sequestrano pc, aprono e «ripuliscono» 140 cassette di sicurezza. Ora 170 scatoloni giacciono piantonati negli uffici giudiziari. Comprese le carte su cui era stato eccepito il segreto di Stato libico. Nel frattempo dal caveau di una banca del Titano è spuntato un crocifisso ligneo di Michelangelo. Sarà vero? E ieri l'annuncio: ci sono anche opere di Raffaello, Matisse, Picasso. Tanto basta per chiedersi: quanti misteri nascondono le cassette di San Marino?
La botola e la legge
Ad accendere la miccia è stato, a fine gennaio, un articolo di David Oddone sul quotidiano L'Informazione di San Marino. Si parlava dei caveau delle agenzie di sicurezza e delle blande norme antiriciclaggio. A quel punto si alzano le antenne del più importante magistrato inquirente, Rita Vannucci. Parte la «caccia» alle cassette in odore di riciclaggio. E si arriva alla Cio, agenzia di sicurezza dell'investigatore privato Salvatore Vargiu, ex carabiniere, arrestato nell'ambito di un'inchiesta («Criminal Minds») per estorsione, corruzione, ricettazione. È la perquisizione della botola. In una cassetta viene trovata la prova della corruzione di un sottufficiale della Gdf.
Segreto libico
La finanziaria Fin Project noleggiava 140 cassette di sicurezza ma su tre di esse Gianluca Bruscoli ha opposto nientemeno che il segreto di Stato libico. Bruscoli oltre che socio e amministratore è anche consigliere d'ambasciata in Libia per San Marino. Con passaporto diplomatico, ovviamente. Il libico Mohamed Kankun è in affari con Bruscoli e Fin Project. Insomma tra Libia e Fin Project c'è effettivamente una rete di relazioni ben oliate. Sta di fatto che la storia del segreto di Stato non funziona e le tre cassette, intestate a un russo (prestanome?) vengono aperte. Il contenuto è ancora da visionare. Come quello delle altre, trovate «occupate». Però filtrano indiscrezioni piuttosto intriganti: non ci sarebbero soldi ma soprattutto carte. Ovvero contratti, carteggi riservati. E quasi tutti di italiani, dalle Marche fino arrivare a Roma. Fin Project sarebbe stata utilizzata per il transito di tangenti Enav.
Michelangelo in cassetta
L'ultima scoperta in ordine di tempo è il presunto tesoro d'arte riemerso da una cassetta della Euro Commercial Bank. È il patrimonio del defunto (2006) conte Giacomo Maria Ugolini, destinato alla sua Fondazione (chiusa) e al suo braccio destro, Angelo Boccardelli (in carcere a Viterbo). Nel caveau sammarinese il tesoro è stato nascosto da un amico del conte Giorgio Hugo Balestrieri, residente in Usa, ex ufficiale di Marina, massone e piduista dichiarato, ricercato per riciclaggio dalla Procura di Reggio Calabria. Balestrieri ha ordinato l'apertura della cassetta. Il contenuto è stato immediatamente sequestrato: sospetto riciclaggio. E ieri con l'arrivo da Roma e Bologna dei carabinieri del nucleo patrimonio artistico (segno di una sempre più stretta collaborazione tra Italia e San Marino) è stato fatto l'inventario. Risultato: il già noto crocifisso ligneo di Michelangelo, più un disegno (tecniche di prova) che raffigurerebbe i capitelli poi riportati nella Cappella Sistina; un disegno di Raffaello; poi disegni anche di Matisse e Picasso. Veri o falsi? Provenienza lecita o illecita? Si vedrà.

Corriere della Sera 14.3.12
Abbiamo perduto l'idea di bellezza
di Gian Antonio Stella


«Guardatevi intorno e cercate con gli occhi, ovunque siate, gli edifici che hanno più di mezzo secolo: è difficile trovarne uno davvero brutto. Poi fate il contrario: cercate con gli occhi, ovunque siate, gli edifici che hanno meno di una cinquantina di anni: è difficile trovarne uno davvero bello».
Salvatore Settis lo ripete in ogni conferenza. Ed è sul serio così. L'idea del «bello», che era quasi «incorporata» nei nostri nonni, si è andata via via perdendo. Peggio, è stata smontata pezzo su un pezzo.
Certo, il disprezzo per il passato non è una novità assoluta. Basti rileggere qualche passaggio della lettera del 1519 di Raffaello (scritta insieme con Baldassarre Castiglione) a papa Leone X. Dove il pittore lamenta il «grandissimo dolore, vedendo quasi il cadavere di quella nobil patria, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato». E accusa: «Ma perché ci doleremo noi de' Goti, Vandali e d'altri tali perfidi nemici, se quelli li quali come padri e tutori dovevano difender queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno lungamente atteso a distruggerle?».
Ma se allora saccheggiare una villa romana o storpiare un paesaggio era frutto solo di analfabetismo, oggi c'è qualcosa di più. Lo sostiene nel libro Non possiamo tacere, scritto insieme con Chiara Santomiero e sottotitolato «Le parole e la bellezza per vincere la mafia», monsignor Giancarlo Bregantini, già vescovo di Locri: «Il primo aspetto che si nota arrivando in Calabria, ad esempio, è il disordine edilizio. Ti accorgi della mancanza di un piano regolatore, delle spiagge non curate: la bellezza della natura fa risaltare ancor più l'incuria dell'uomo».
«La disarmonia tra ciò che Dio ha fatto e ciò che l'uomo non è stato in grado di custodire», prosegue il vescovo, «colpisce in molte zone del Sud, specie della Calabria e della Sicilia. È la dimostrazione di un blocco, di un ostacolo. È come se la bruttezza dei luoghi esprimesse tragicamente quel desiderio di violazione che c'è nel cuore del mafioso. E, infatti, i paesi più brutti e trascurati sono quelli segnati dalla mafia. La trascuratezza diffusa diventa, allora, il primo punto su cui far leva per opporsi alla intimidazione, alla violenza».
Fare la guerra al «brutto» vuol dire fare insieme la guerra al degrado, allo spappolamento dell'armonia sociale, al disagio, alla piccola criminalità, allo sfruttamento della prostituzione, allo spaccio, alla mafia. Per questo, davanti alla bruttezza di certi quartieri di periferia, come a Roma il Corviale (due palazzi di cemento armato lunghi un chilometro per un totale di 1.200 appartamenti) o a Napoli le Vele di Scampia, massicciamente presidiate dalla camorra, bisognerebbe riproporre, a rovescio, le targhe d'onore. E apporre sugli edifici più orrendi delle placche belle grandi: «Questo edificio è stato progettato dall'architetto Tizio Caio». Magari con un sottotitolo: «Il quale architetto si è ben guardato dal venirci a vivere...».

Corriere della Sera 14.3.12
Il sottofondo liberale dell'opera di Cicerone
Fu elogiato da Voltaire e da Montesquieu
di Dino Cofrancesco


L' amicizia, scriveva Voltaire nel Dizionario filosofico, è un «contratto tacito tra due persone sensibili e virtuose. Dico "virtuose", perché i malvagi hanno soltanto dei complici, i gaudenti dei compagni di bagordi, gli affaristi degli associati, i politici dei partigiani, gli oziosi dei rapporti occasionali, i principi dei cortigiani; ma solo gli uomini virtuosi hanno amici». Il principe degli illuministi rendeva, in tal modo, omaggio all'autore del Laelius de amicitia, che il «Corriere» ripropone domani con il titolo L'amicizia, da lui strenuamente difeso nella voce «Cicerone», dove mostrava quale valoroso combattente fosse stato nella difesa delle istituzioni repubblicane quando, questore, aveva fatto condannare il corrotto propretore della Sicilia, Verre; console, aveva represso l'eversione di Catilina e combattuto senza tregua il violento demagogo Clodio; proconsole in Cilicia, aveva dato prova di saggezza e competenza. Il legame tra virtù e amicizia, infatti, era al centro del dialogo ciceroniano, la cui tesi era «che non vi può essere amicizia che tra buoni». Nella visione di Cicerone, non v'era posto per l'utilitarismo: non sono la mancanza di qualcosa, il bisogno di aiuto, l'incompletezza a far cercare l'amico, ma le «affinità elettive» tra individui di elevato sentire, la condivisione di valori alti — onestà, rettitudine, amore del giusto e del vero.
Qui s'innestava il significato «politico» dell'amicizia, non sfuggito a un altro grande ammiratore di Cicerone, Montesquieu, che, nei suoi Pensieri, aveva rilevato — anch'egli con la mente rivolta al Lelio — che, a Roma, la «costituzione dello Stato era tale che ciascuno era portato a farsi degli amici» e che tale rete di rapporti era la migliore difesa contro la tirannia. In una bellissima pagina del dialogo si legge: «Chi rimira un amico rimira come una immagine di se stesso» e «se toglierai alla natura il vincolo dell'affetto, né una casa potrà reggersi, né una città, e nemmeno l'agricoltura durare. E se questo non si capisce, quanta cioè sia la forza dell'amicizia e della concordia, lo si può vedere chiaramente dai dissidi e dalle discordie. Quale casa, infatti, è così salda, quale città così forte, che odii e disordini non possano rovesciarla dalle fondamenta? Da questo si può giudicare quanto di buono vi sia nell'amicizia».
Non meraviglia, alla luce di questa concezione dell'amicizia come garanzia dal dominio del tiranno e dalle fazioni che alimentano le discordie civili, se nel XIX secolo, alla voce «Liberalismo» del prestigioso Dictionnaire générale de la politique (1863) di Maurice Block, si poteva leggere che «lo spirito liberale è sempre stato presente e attivo nel mondo civile» e che ne è la riprova Cicerone, «un pubblicista e un uomo di Stato liberale». Il politico — che, per Voltaire, valeva «da solo quanto tutti i filosofi greci» — poteva aver commesso, anche per «vanità» personale, errori tattici e strategici, specialmente nel suo ultimo pendolare tra Pompeo e Cesare, tra ottimati e popolari, ma a ispirarlo fu sempre la salus della res publica, il progetto irrinunciabile di fondare la libertà su una classe dirigente responsabile ed esperta, in grado di aprirsi alle energie nuove dell'economia e alle «classi medie» di una società civile sempre più complessa e, insieme, di contenere le potenzialità eversive delle plebi urbane. Fu tale progetto a farne il simbolo della libertà antica e moderna in un'epoca in cui il realismo conservatore, da un lato, e il cesarismo bonapartista, dall'altro, inaugurarono la stagione delle analisi disincantate sui mali e le debolezze dei regimi democratici fondati sullo Stato di diritto. Cicerone parve, a destra e a sinistra, come l'uomo d'altri tempi incapace di comprendere i bisogni delle masse e la necessità di radicali riforme politiche richieste dall'imperium.
È non poco singolare che, a difenderlo da tali accuse ante litteram, fosse un personaggio straordinario, un intellettuale e statista afro-haitiano, amico di Lamartine e di Victor Hugo, Demesvar Delorme, che, in un denso capitolo di Les théoriciens au pouvoir (1870), non solo spiegò, con brillanti argomentazioni liberiste, le ragioni dell'ostilità di Cicerone alle «leggi agrarie», ma vide in lui il «teorico del regime razionale delle capacità», precursore lontano di quello che avrebbe visto la luce nel 1688 in Inghilterra. «Quest'uomo, uno dei più grandi di tutta l'antichità, aveva consacrato tutta la sua vita a un'idea fissa: quella di sostituire il regno della forza col potere della ragione. Cedant arma togae, è l'eredità politica e sociale che l'umanità persegue ancora ai nostri giorni».

Corriere della Sera 14.3.12
E Seneca ammoniva: seguite il vostro logos
Un'etica fondata sul primato della ragione
di Marco Rizzi


Più di chiunque altro, Seneca illustra la grandezza e il fallimento della filosofia antica. Nato qualche anno prima di Cristo a Cordova, in Spagna, da una famiglia di elevata condizione sociale, ricevette un'educazione completa e raffinata, sia in campo retorico e letterario, sia filosofico. Stabilitosi a Roma, potendo contare sulla fitta rete di relazioni della famiglia, si avviò alla carriera politica nella corte di Caligola prima, e di Claudio poi. Da quest'ultimo Seneca venne condannato all'esilio in Corsica, per motivi che restano in gran parte oscuri (l'accusa di avere intrattenuto una relazione adulterina appare strumentale); solo nel 49 dopo Cristo fu richiamato a Roma, grazie alla nuova moglie di Claudio, Agrippina, che gli affidò l'educazione del figlio ed erede al trono, Nerone. Seneca rimase al suo fianco durante i primi anni di regno, dal 54 al 62, quando le divergenze tra i due si fecero insanabili; ritiratosi a vita privata, nel 65 Seneca fu costretto al suicidio dall'imperatore, che l'accusava di aver congiurato ai suoi danni. Grazie alla penna di Tacito, il racconto della sua morte è divenuto una delle pagine più celebri della letteratura latina, consacrando la fama di Seneca quale perfetto filosofo, impassibile di fronte a ogni avversità, come egli stesso aveva teorizzato nel trattato su La fermezza del saggio.
La fede assoluta nella capacità della ragione di indirizzare l'agire dell'uomo è alla base dell'opera di Seneca, come pure di tutta la filosofia antica. Se lo sforzo dei primi pensatori greci era stato quello di indagare la realtà del mondo fisico, da Socrate ad Aristotele era divenuto centrale il problema politico di individuare e costruire la migliore forma di convivenza tra gli uomini; il fallimento dei loro tentativi aveva portato al ripiegamento della filosofia ellenistica nella dimensione individuale dell'etica, alla ricerca della felicità possibile per il singolo. Nell'opera senecana si intrecciano tutte queste tematiche, attorno alla frattura segnata dallo scacco subito, ancora una volta, nel tentativo di affiancare il sovrano per realizzare il miglior governo; tale compito è ancora affidato al sapiente nel saggio su La tranquillità dell'animo, mentre La vita ritirata segna il definitivo congedo di Seneca dalla scena pubblica e il ritorno a indagini di tipo fisico con le Questioni naturali e di etica individuale con le Lettere morali a Lucilio.
Nel rapporto epistolare assistiamo al dipanarsi di una vera e propria direzione spirituale, mirata alla formazione intellettuale e morale dell'amico, cui Seneca raccomanda letture e riflessioni, suggerisce comportamenti e scelte, impartisce consigli e ammonimenti. Tutto, nell'etica senecana, ruota attorno al ruolo egemonico della ragione e delle sue capacità cognitive, che mettono in grado l'uomo di desumere dalla struttura della realtà in cui vive i precetti generali per agire in conformità al principio razionale immanente, il logos, che governa l'intero universo. L'individuo deve semplicemente seguire il proprio logos, riflesso di quello cosmico; l'errore etico costituisce la conseguenza di un deficit di conoscenza. Seguendo le indicazioni della ragione, è possibile mantenere il giusto equilibrio tra le diverse pulsioni dell'animo e conservare la propria stabilità, interiore ed esteriore, nel mutare delle circostanze. L'impassibilità e la serenità del sapiente non determinano però indifferenza e distacco verso gli altri, bensì una controllata solidarietà, lontana da ogni eccesso. Tuttavia, in Seneca emerge anche un lato più inquieto e contraddittorio, che in parte lo distanzia dalla tradizione stoica cui si rifà nei trattati filosofici; le sue tragedie rappresentano ciò che accade quando la ragione perde il controllo e il furor ne prende il posto: la passione travolge ogni limite disposto dal logos, ma i protagonisti, come Fedra, ne appaiono del tutto consapevoli.
Per il rigore morale che ne ispira gli scritti, Seneca ha affascinato i primi scrittori cristiani, da Tertulliano a Lattanzio ad Agostino, sino all'epistolario apocrifo tra Paolo e Seneca approntato nel IV secolo. Tuttavia, un punto decisivo li distingue; nella visione stoica, tutto quanto accade risponde a un impersonale disegno provvidenziale, cui l'uomo non può in alcun modo sottrarsi: secondo una celebre formula delle Lettere a Lucilio, «ducunt volentem fata, nolentem trahunt» («il destino guida chi lo asseconda, travolge chi si oppone»). Rifiutando ogni determinismo, il cristianesimo riconoscerà nell'agire etico il ruolo della ragione, ma soprattutto della libertà.

Repubblica 14.3.12
L’iniziativa di Marcos y Marcos che coinvolge scrittori e artisti
Un Manifesto per le librerie
La casa editrice ha raccolto le frasi di tanti autori che spiegano l´importanza degli scaffali indipendenti
di Simonetta Fiori


Per Vinicio Capossela è come "andare a pregare", "si ritrova la coscienza di se stessi" e "si allarga l´anima". Bruno Osimo lo considera un "medicamento antidepressivo" e Michela Murgia ci va spesso per urgente necessità di "trovare domande".
Evviva i librai e le librerie. L´idea è di un marchio piccolo ma di lunga esperienza come Marcos y Marcos: organizzare una "festa mobile" in sostegno di un mestiere sempre più minacciato dalla grande distribuzione, dalle vendite online e dagli e-book. A ospitarla saranno le stesse librerie indipendenti, con l´aiuto dei lettori e di volenterosi testimonial (da Lucarelli a Malvaldi, da Parrella a Nori) che hanno prodotto un "album di elogi" a favore della categoria. E al Salone del libro di Torino una giuria formata da Massimo Cirri, Lella Costa e Annamaria Testa premierà lo slogan più bello tra quelli vergati dai lettori. In premio, una bicicletta.
Tira un´aria nostalgica in questo epinicio per un´istituzione che ha segnato l´educazione sentimentale di diverse generazioni, ma sbagliato leggerlo come un commosso requiem per qualcosa che rischia di estinguersi. Nonostante la crisi, le librerie si adoperano in mille modi per difendere il proprio compito di presidio culturale. «Negli Stati Uniti, paese all´avanguardia nell´acquisto di e-book», rileva Marco Zapparoli, fondatore di Marcos y Marcos, «si segnala una ripresa proprio delle librerie di quartiere, caratterizzate dal rapporto personale con i lettori. Un fenomeno che vorremmo incoraggiare anche da noi, proponendo ottime condizioni di acquisto per i piccoli librai».
Un primo passo è stato già fatto con la legge che contiene gli sconti: non tutte le librerie riuscivano a reggere il ritmo delle campagne promosse senza regole dai colossi. Una legge che secondo alcuni critici - da Cavallero a Citati - avrebbe rallentato le vendite dei libri. «Un´analisi sbagliata», dice Zapparoli. «L´attuale crisi non è certo imputabile a un provvedimento che comunque continua a permettere grandi campagne promozionali. Senza contare che gli sconti erano compensati dall´aumento del prezzo di copertina. Mentre oggi si tende ad abbassare i prezzi».
Tra i problemi dell´attuale mercato editoriale, insiste Zapparoli, è l´eccesso di produzione, che genera un accumulo assurdo di merci inutilizzate. Da qui l´idea di scrivere insieme a Claudia Tarolo un manifesto in dieci mosse, Letteratura rinnovabile, «per un´ecologia del libro e della lettura». «Troppi libri finiscono al macero, compiono viaggi a vuoto tra magazzini e librerie. E´ fondamentale stampare solo ciò che si può effettivamente sostenere. Ed è fondamentale prolungare la permanenza dei libri in libreria».
Marcos y Marcos, da cinque anni, ha deciso di ridurre la produzione di titoli, solo un libro nuovo al mese. E, nell´era segnata dal formato elettronico, punta sulla qualità della carta: non a caso il nome di Fabriano figura insieme al programma Fahrenheit nella campagna per le librerie. «Quest´anno, pur considerandoli un formidabile strumento di lavoro, abbiamo deciso di non fare e-book», dice Zapparoli. «Non volevamo creare un mercato parallelo, e dunque porre problemi ai librai».
Ma non si corre il rischio di una battaglia di retroguardia? «No. Siamo persuasi che files e supporti elettronici siano preziosi, ma non siano destinati a sostituire il libro». Non garantiscono "quel piacere della degustazione rallentata" - cosi recita il Manifesto - che soltanto il volume di carta può offrire. Piacere che Christian Frascella, scrittore non sospettabile di passatismo (è l´autore di Mia sorella è una foca monaca), sceglie di sintetizzare in questo modo: «Andare in libreria? Come incontrare il tuo pusher di fiducia».

Repubblica 14.3.12
Contro Madre Natura
"Accettiamo la fragilità dell’amore materno"
Mentre torna in libreria il suo saggio “L’amore in più", la filosofa Badinter racconta come è stato creato il mito della femminilità legato ai figli
"È stato Rousseau a costruire il modello della mamma buona e di quella cattiva"
"La prima agenzia di balie aprì a Parigi. Nel ´700 in Francia ricorrere a loro era normale"
di Anais Ginori


PARIGI. Nel 1780 il prefetto di polizia di Parigi lanciava un inedito allarme. Dei ventunomila bambini che nascevano ogni anno nella capitale, appena mille venivano allattati dalle madri. Gli altri piccoli lasciavano il seno materno per la casa lontana di una nutrice mercenaria. Elisabeth Badinter ripercorre attraverso i secoli le differenti incarnazioni della maternità. Per quali ragioni, si è chiesta la filosofa, la madre indifferente del diciottesimo secolo si è mutata nella madre-pellicano contemporanea? Quando venne pubblicato la prima volta, nel 1980, L´amore in più provocò un acceso dibattito. «A trent´anni di distanza, è ancora difficile accettare che l´amore materno non sia indefettibile» racconta Badinter in occasione della riedizione del saggio, in uscita per Fandango. Nel salone affacciato sui giardini del Luxembourg, Badinter accende una sigaretta. "Figlia spirituale" di Simone de Beauvoir, come si definisce, sta scrivendo un libro su Maria Teresa d´Austria sovrana illuminata ma anche madre di sedici figli, una riflessione intorno ai due corpi della Regina.
Madre non si nasce, ma si diventa?
«Sì, perché l´istinto materno è un mito. Lo studio del comportamento delle donne attraverso i secoli, ci fa capire che non esiste una legge universale. Anzi osserviamo un´estrema variabilità degli atteggiamenti a seconda della cultura, delle ambizioni personali, del contesto sociale e famigliare. Può sembrare crudele, ma l´amore materno è soltanto un sentimento, e dunque è incerto, fragile, imperfetto. Non va dato per scontato. È in più».
L´eterna opposizione tra Natura e Cultura?
«In tutti i sostenitori dell´allattamento materno, dall´Antichità fino ai giorni nostri, si ritrova una professione di fede naturalista. È la natura, si dice, che ordina alla madre di allattare e disobbedire è male dal punto di vista fisico. Poi è subentrata una condanna morale e religiosa. Ma io non credo che gli ormoni del maternage, l´ossitocina e la prolattina, siano sufficienti a realizzare il miracolo di una fusione totale con il proprio figlio. È successo invece il contrario. Già in passato, ogni volta che le donne hanno avuto la possibilità di sfuggire a un destino obbligato, lo hanno fatto».
Quando si manifesta la prima volta il rifiuto dell´allattamento?
«La denuncia di Plutarco è la prima di cui si ha conoscenza. L´antica Roma era una società sofisticata per l´epoca e molte donne non volevano dare le "mammelle" ai piccoli. L´abitudine del baliatico risale invece al tredicesimo secolo in Francia. La prima agenzia di collocamento di nutrici fu aperta a Parigi per le famiglie aristocratiche, poi si generalizzò nel diciottesimo. In nessun altro paese europeo ci sono state così tante donne che non si sono occupate dei loro bebè, apparentemente incuranti della spaventosa mortalità infantile. Un´aberrazione della Storia ancora studiata da sociologi e antropologi. Si chiama "il caso delle francesi". Per questo fenomeno furono trovate una quantità di giustificazioni economiche e demografiche. Ma rimane il fatto che il presunto istinto materno era improvvisamente scomparso».
Perché allora, alla fine del diciottesimo secolo, le francesi aderiscono con entusiasmo alla nuova filosofia naturalista?
«La scienza demografica, che comincia a svilupparsi, sottolinea l´importanza per una nazione del numero di cittadini. È Jean-Jacques Rousseau, con la pubblicazione di Emilio nel 1762, a dare un decisivo avvio alla famiglia moderna fondata sull´amore materno. Costruisce un´ideale femminile di felicità e uguaglianza, riuscendo a convincere molte donne che occupandosi solo dei figli, con dedizione e sacrificio, assumeranno un ruolo fondamentale nella società. Ma nel momento stesso in cui si esalta la grandezza e la nobiltà di questo compito, si finisce per condannare tutte le donne che sono incapaci di assolverlo perfettamente. Rousseau inventa il modello della buona e della cattiva madre che ci portiamo dietro ancora oggi».
L´altro elemento chiave nella costruzione della maternità moderna è la psicoanalisi.
«Grazie a Sigmund Freud, la madre è promossa principale responsabile del benessere del suo rampollo. Un´ultima missione che completa la definizione settecentesca. Il ruolo materno diventa ancor più impegnativo e faticoso di quello del padre. Dalla responsabilità alla colpevolezza il passo è breve. Sono stata molto colpita da una psicoanalista come Françoise Dolto che nelle sue trasmissioni radiofoniche sosteneva che i padri non dovevano toccare i bebè. Oggi evidentemente l´amore materno non è più appannaggio esclusivo delle donne. I nuovi padri si comportano come le madri e amano i bambini al pari di loro. E questo dimostrerebbe la non specificità sia dell´amore materno che di quello paterno».
La prima a rimettere in discussione l´istinto materno è stata Simone de Beauvoir.
«Eppure le è stato negato il diritto di parlare della maternità solo perché non l´aveva sperimentata. È una contestazione assurda dal punto di vista teorico e anche pratico. Molte altre femministe seguaci di Beauvoir, come me, hanno avuto bambini. Ma in qualche modo è passata l´idea che femminismo e maternità non fossero compatibili. Da questo equivoco è scaturito il femminismo della differenza, radicalmente opposto, che mette la maternità al centro dell´identità femminile».
Le donne oggi hanno un rapporto diverso con il loro corpo. Il rifiuto della femminilità di Beauvoir è superato?
«Fino a una certa epoca la femminilità ha rappresentato l´obbligo di essere mogli, madri e casalinghe. Tutto ciò che Beauvoir non è stata. Bisogna contestualizzare il suo pensiero. Detto questo, posso esprimerle una critica. Pensava che la femminilità fosse unicamente culturale. La mia convinzione profonda è invece che esista una bisessualità in ognuno di noi. Ci sono donne estremamente virili e uomini con caratteristiche femminili. Anzi, una delle conquiste del femminismo, che molti ignorano, è aver moltiplicato i modelli anche maschili».
La maternità consapevole è veramente libera?
«Progressi scientifici e sociali come la contraccezione o il diritto all´aborto hanno svelato la complessità e le contraddizioni del desiderio di maternità. Si può programmare o ritardare la nascita di un figlio, desiderare di rimanere incinta e poi abortire, sentirsi pronte e avere una crisi di rigetto dopo il parto. I progressi delle tecniche di fecondazione dividono ormai sessualità e procreazione. Grazie alla maternità surrogata, ci sono madri che non partoriscono. Mai nella storia siamo state così libere di scegliere o no di avere figli. Per paradosso, però, la maternità consapevole si è caricata ancora di più di doveri e responsabilità. È questa pressione montante che ho denunciato nel mio ultimo libro, Il Conflitto, concepito come prosecuzione di L´amore in più. Pensavo di poter commentare nuovi progressi rispetto all´analisi di trent´anni fa, e invece ho dovuto constatare un rischio di regressione su molti temi. Non avrei immaginato di ritrovare una nuova santificazione della natura, contro le malefatte della cultura e della scienza, che ricorda il pensiero di Rousseau vecchio di duecentocinquanta anni».

il Riformista 14.3.12
L’800 è femmina C’è un’antologia che lo dimostra
“Donna in breve”. Un gran lavoro di Riccardo Reim: 150 anni di racconti italiani d’autrice, da Grazia Deledda alla sconosciuta, e sorprendente, Neera
di Andrea Di Consoli

Speriamo che le scrittrici, le intellettuali, finanche le femministe si accorgano presto del lavoro straordinario che Riccardo Reim, tra i principali studiosi e “cercatori” di letteratura ottocentesca, ha appena compiuto sull’800 italiano. Sì, perché l’imponente antologia critica Donna in breve. Storie e destini femminili in 150 anni di racconti italiani d’autrice (Castelvecchi, 659 pagine, 35.00 euro)-dovesonoraccoltequaranta novelle di altrettante scrittrici italiane dell’800 (tutte introdotte da una puntuale nota bio-bibliografica) è una di quelle opere che non soltanto è gustosa crestomazia di racconti e novelle, ma ribalta finalmente con cognizione di causa il canone dominante di un ’800 tutto al maschile (e, soprattutto, porta all’attenzione del pubblico popolare nomi dimenticati di tante scrittrici italiane).
L’800, si sa, è il secolo aureo di Manzoni, Leopardi, Belli, Nievo, Verga, Capuana, Carducci, Fogazzaro, eccetera. Di scrittrici ottocentesche,invece-aesclusione di Matilde Serao se ne conoscono poche. Davvero, come molti pensano, non ce ne sono state? Reim, con la sua opera, smentisce la vulgata dominante, e antologizza ben quaranta scrittrici dove, oltre alle più conosciute Contessa Lara, Marchesa Colombi, Carolina Invernizio, Matilde Serao, Annie Vivanti, Grazia Deledda, Ada Negri, Amalia Guglielminetti e Sibilla Aleramo (l’antologia, com’è evidente, si muove in un arco temporale che dai primordi dell’800 arriva sino ai primi del ’900), ci sono scrittrici sconosciute ai più come Caterina Percoto, Cecilia Stazzone, Luigia Codèmo, Memini, Neera (una vera sorpresa per l’estensore di queste note), Vittoria Aganoor, Virginia Olper Monis, Jolanda, Giselda Fojanesi,Sfinge,AnnaFranchi,Clarice Tartufari (altra scrittrice notevole), Paola Drigo, Cesarina Lupati, Maria Messina e Carola Propseri (e tanto altre non le citiamo solo per motivi di spazio).
Ovviamente non tutte queste scrittrici sono di prim’ordine, ma leggere tutte insieme queste novelle permette uno sguardo femminile d’insieme sulle miserie, le mode, i languori, i sogni, le frustrazioni, le ingiustizie, le passioni, le idee politiche, sociali e religiose dell’800. Un secolo, come ci ricorda Riccardo Reim, che vide fiorire, in specie nella seconda parte del secolo, numerose riviste periodiche (tra le tante, ricordiamo almeno Il Corriere delle dame, Il giornale delle famiglie, Il Fanfulla della Domenica, Cronaca bizantina e Il Marzocco, che pubblicarono in prima stesura gran parte dei romanzi e delle novelle dell’epoca in seguito raccolte in volume), sulle quali poterono per la prima volta esporsi e misurarsi le scrittrici, anche perché lentamente le donne, oltre a scrivere, iniziarono pure a leggere in gran numero (ma su questo tema rimandiamo alla puntuale introduzione di Reim, che spiega, da profondo conoscitore qual è finanche delle pieghe più segrete dell’800, in che modo fu possibile questa granderivoluzioneculturaleche trasformò le donne da “oggetto” a soggetto culturale e artistico).
L’antologia di Reim, quindi, accorpa e raggruppa cronologicamente le scrittrici italiane dell’800 partendo da Isabella Teotochi Albrizzi (nata nel 1760) fino ad arrivare alle più “recenti” Térésah (nata nel 1877), Flavia Steno (nata nel 1877) e Maria Messina (nata nel 1887). Tutta questa letteratura ha raggiunto il suo culmine, a nostro modesto avviso, non solo con Matilde Serao giornalista e romanziera di notevole forza espressiva ma soprattutto con Grazia Deledda, che nel 1926 vinse il prestigioso premio Nobel, con il quale, ci piace pensare, fu premiato l’intero pantheon delle scrittrici italianeches’imposero,lentamente ma con forza, in un contesto maschilista e addirittura lombrosiano dove le donne, anche secondo i precetti del famigerato Traité de l’èducation des filles di Fénelon (del 1684), non dovevano far altro che «governare le loro case e obbedire ai mariti senza ragionare troppo». Non a caso della Deledda Reim ricorda questo struggente e pudico pensiero intorno al suo esordio: «Leggevo e scrivevo di nascosto. Di nascosto mandai una prima novella a un giornale di Roma: il mio nome stampato mi dava come un senso di allucinazione». Ma chissà quante voci e quante parole femminili, nei tanti secoli precedenti, l’ottusa protervia maschile ha soffocato e costretto all’oblìo. Ma questo crimine oscuro, purtroppo, nessuno potrà mai quantificarlo.