giovedì 15 marzo 2012

l’Unità 15.3.12
Fornero “bocciata” sull’articolo 18
I sindacati provano col modello tedesco
di M. Fr.


Riappacificati dalla volontà di Elsa Fornero di arrivare a un accordo a tutti i costi, i sindacati hanno passato altri cinque minuti in cui sono ripiombati nella quasi certezza del fallimento della trattativa. Dopo essersi confrontati su ammortizzatori e contratti, la ministra del Welfare ha avanzato la sua proposta di modifica all’articolo 18: «Il licenziamento per motivi economici di un lavoratore non potrà più portare al reintegro. In tutti gli altri casi il giudice non sarà obbligato al reintegro, ma potrà optare per l’indennizzo». I segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e Ugl hanno scosso all’unisono la testa: «Questa proposta è irricevibile». Momenti di tensione, superati dal provvidenziale incontro (già in agenda) fra la ministra Fornero e ReteImprese. Susanna Camusso, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti e Giovanni Centrella rimangono da soli e in quei minuti nasce l’idea di avanzare al governo una proposta unitaria sindacale sul tema della flessibilità in uscita. Una proposta che lascerebbe inalterato l’articolo 18 da un lato ma consentirebbe al giudice di avere più alternative nel valutare le cause per licenziamento. L’idea, vicina al modello tedesco (ruolo del giudice) ma che mantiene elementi della proposta sui licenziamenti economici avanzata dalla Cisl, prevederebbe una disciplina interpretativa distinta fra licenziamenti disciplinari e licenziamenti per motivi economici. Se nel primo caso, al giudice rimarrebbe solo l’alternativa del reintegro, in caso di licenziamenti per ragioni economiche (ecco la novità) aumenterebbero le possibilità per cui il giudice possa decidere di optare per l’indennizzo monetario.
La proposta sarà messa a punto fra oggi e domani. Ma già oggi Susanna Camusso sonderà il terreno con i segretari di categoria della Cgil. Occhi puntati dunque sul giudizio di Maurizio Landini, il più intransigente sul tema dell’articolo 18.

l’Unità 15.3.12
Intervista a Stefano Fassina
«Serve un’intesa con tutti: rivedere gli oneri per le pmi»
Il dirigente Pd: «Prevedere compensazioni fiscali per artigiani e commercianti. La funzione dell’art. 18 va mantenuta, meglio agire sulle procedure»
di Andrea Carugati


Sulla riforma del lavoro vedo dei passi avanti significativi», dice Stefano Fassina, responsabile Economia del Pd, al termine di una giornata che ha riportato un po’ sereno tra governo e sindacati. «La discussione è ancora in corso, ma il dato politico più significativo mi sembra la convinzione da parte di tutti gli interlocutori sulla necessità di arrivare a un accordo innovativo e condiviso».
Quali sono gli aspetti della discussione che giudica più incoraggianti? «Gli impegni del governo sul versante del contrasto alla precarietà nell’accesso al lavoro e su quello degli ammortizzatori sociali. Sul secondo punto, in particolare, registro l’attenzione alla funzione svolta dall’indennità di mobilità. Avendo il governo cancellato le pensioni di anzianità e alzato l’età pensionabile a 66-67 anni, occorre fare i conti con tanti sessantenni che perderanno il lavoro e non possono contare solo su un ammortizzatore che dura 18 mesi. Mi pare che dal tavolo sia emersa una soluzione per questo “buco di copertura” che avrebbe determinato, come ha detto Bonanni, un’ecatombe sociale. Ora si ragiona anche su un fondo specifico per gestire gli esodi».
Sull’articolo 18 si arriverà dunque a una «manutenzione»?
«Noi pensiamo che la funzione fondamentale dell’articolo 18 debba essere mantenuta, e così il reintegro. È utile invece intervenire sulle procedure applicative: ci sono ipotesi diverse in campo, a partire da quella della Cisl e dal modello tedesco che affida al giudice la possibilità di reintegro. Su questa strada si possono trovare soluzioni efficaci che non compromettono il diritto del lavoratore al reintegro quando è licenziato senza giustificato motivo». Cosa ha sbloccato la trattativa? Il governo ha fatto retromarcia?
«C’è un processo, fatto di aggiustamenti progressivi. Un flusso che sta andando nella giusta direzione. Che tuttavia non cancella tutti gli elementi di preoccupazione». Quali sono gli aspetti che non vi soddisfano?
«Ci sono oneri aggiuntivi pesanti per artigiani e commercianti, che verrebbero gravati da nuovi contributi per poter beneficiare di una parte di ammortizzatori sociali che oggi non hanno. Ad esempio, pagherebbero il contributo sugli apprendisti e un altro sui contratti a tempo determinato. Secondo noi bisogna trovare delle compensazioni di tipo fiscale e contributivo, per una categoria, quella delle micro e piccole imprese, già provata da un aumento contributivo previsto dal decreto Salva Italia».
Allo stato attuale i più delusi sembrano industriali e Rete imprese. «Per noi serve l’accordo di tutte le parti sociali. Le condizioni del Paese non consentono strappi. Senza un accordo condiviso il percorso parlamentare sarebbe molto complicato, visto che Pd e Pdl hanno visioni alternative su questo come su altri temi decisivi».
C’è il rischio che un possibile accordo sull’articolo 18 possa aprire uno scontro tra Fiom e Cgil?
«Il dato più importante è che i tre sindacati si stanno muovendo su posizioni comuni. Susanna Camusso mi pare impegnata con grande saggezza a raggiungere un accordo positivo per tutti i lavoratori, stabili e precari».
All’inizio della trattativa il Pd aveva alzato la voce. D’Antoni aveva detto: senza accordo non votiamo. Questo rischio è svanito?
«Noi lavoriamo per l’accordo, non abbiamo subordinate. Ieri Bersani ha visto Bonanni, oggi incontriamo i leader di Rete imprese Italia. Intorno a quel tavolo ci sono forze economiche e sociali molto responsabili. A partire dai sindacati che, di fronte a un intervento brutale sulle pensioni, hanno dimostrato ancora una volta di sapere farsi carico dell’interesse generale. Il governo deve valorizzare questo atteggiamento».
Se questo accordo in filigrana dovesse passare, cosa cambierebbe nella vita concreta dei precari? «Su questo tema i passi avanti sono ancora insufficienti. Certo, i contratti a tempo determinato costeranno di più ai datori di lavoro, con un 1,4% di maggiori contributi per l’assicurazione sociale, con la previsione di restituzione se il lavoratore viene stabilizzato. Il problema è che i precari non avrebbero accesso a questa indennità di disoccupazione. Questo è un punto critico che va rivisto, l’indennità va estesa anche a chi ha un contratto atipico. Così come serve più determinazione nell’eliminazione dei contratti precari. Sono due punti per noi molto rilevanti, non dimentichiamo che l’obiettivo chiave di questa riforma è dare risposte ai precari».

La Stampa 15.3.12
La segretaria Cgil gela Veltroni: e l’Africa?
La sindacalista replica alle accuse di «ideologismo» dell’ex leader Pd
di Pao. Fes.


ROMA «Dopo 50 anni la vita va reimpostata». Considerazioni sagge, pronunciate dall’allora quarantaseienne sindaco di Roma, Walter Veltroni quando nel 2001 dal palazzo del Campidoglio confessava ai media che «a un certo punto tutto finirà e invece di diventare uno di quei politici per i quali si cerca un posto in un consiglio di amministrazione vorrei dedicarmi alla questione Africa».
Frasi certamente impegnative quelle pronunciate più di dieci anni fa dall’ex segretario del Partito democratico, che pure l’anno successivo torna sull’argomento, «ho altre cose nella vita che mi piacerebbe fare. Andare in Africa, ma non so se avrò il coraggio». E così, tante altre volte ancora, nel 2003 alla Tv francese e così nel 2007 in un incontro con i giovani. Tante volte, forse troppe. Al punto, che con il passare degli anni si sono trasformate in un vero e proprio boomerang: promesse mancate tuonavano gli antagonisti, gli avversari politici dell’ex candidato premier. Tutti più o meno pronti a ricordare a Veltroni l’impegno assunto e non mantenuto con il continente nero, a favore della solidarietà, dei popoli in difficoltà.
E ieri la questione Africa è tornata prepotentemente al centro della scena politica per una disputa tutta a sinistra. O meglio tra l’ex segretario dei democratici e la leader della Cgil Susanna Camusso. E così, a Veltroni che nei giorni scorsi in un’intervista aveva chiesto di non avere tabù nella riforma del mercato del lavoro e la revisione dell’articolo 18 criticando i «santuari del no che hanno paralizzato l’Italia per decenni», ieri la leader sindacale - intervistata da Giovanni Minoli nel programma «La Storia siamo noi» - ha risposto sarcasticamente agli inviti-critici di Veltroni sul tema del lavoro: «Veltroni sull’articolo 18? Aveva annunciato progetti importanti - ha replicato Susanna Camusso - per la sua esistenza che non ha portato a termine... ». Battute, insomma, le cui allusioni però sono chiarissime.

Repubblica 15.3.12
L’ultima mediazione di Bersani "Ora buttate la chiave e firmate"
È apparso subito evidente che di fronte a un’intesa separata, il Pd si sarebbe spaccato
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Buttate la chiave e firmate questo accordo». Pier Luigi Bersani vede il traguardo dell´intesa sul mercato del lavoro. È una corsa contro il tempo ma ormai il disegno è definito. Susanna Camusso dirà sì al modello tedesco per la revisione dell´articolo 18: i lavoratori potranno essere reintegrati o indennizzati. Confindustria e le piccole imprese avranno i soldi necessari a garantire le nuove forme di ammortizzatori sociali: 2 miliardi, forse 2,5. E oggi il segretario del Pd, con il responsabile economico Stefano Fassina, vedrà sia Rete imprese sia Emma Marcegaglia, associazioni in grande sofferenza per la crescita sotto zero. «Io li posso incontrare perché conosco i loro problemi», dice con l´orgoglio dell´ex ministro e dell´ex amministratore emiliano. Che è anche una risposta alla recente folgorazione "laburista" di Alfano. Al segretario della Cisl Raffaele Bonanni, con cui si è incontrato ieri, Bersani infine ha chiesto l´impegno a non rompere l´unità sindacale, a tenere insieme il fronte dei lavoratori.
Dopo le frizioni di martedì e l´uscita infelice di Elsa Fornero sulla «paccata di miliardi», ieri è stato il giorno della svolta. In casa democratica danno l´accordo per fatto. «Bastava leggere tra le righe le reazioni alla battuta del ministro del Lavoro. Il web si è scatenato, ma sindacati e partiti sono rimasti zitti», racconta Bersani. Segno che i lavori era già molto avanzati. Nel vertice di ieri tra parti sociali e Fornero si è scesi nei dettagli e sono arrivati nuovi passi positivi.
Sindacati e datori di lavoro sigleranno l´intesa su alcune linee guida di riforma. Poi toccherà all´esecutivo preparare il disegno di legge. In pratica, si abbandona il modello della concertazione, ma rimane «il metodo del confronto. E servirà anche in futuro», precisa il segretario del Pd. L´attivismo del segretario ha una doppia lettura. L´attenzione naturale di un partito di sinistra ai temi del lavoro e la tenuta del Partito democratico. Da subito è apparso evidente che il Pd si sarebbe spaccato in caso di accordo separato. Avrebbe cioè rischiato una scissione, da destra o da sinistra per via di un´ala filo-Cgil molto scettica fin dalla nascita del governo tecnico. Bisognava perciò tutelare i lavoratori e le imprese, ma anche le sorti del Pd. Con la firma della Camusso, fra l´altro, il Pd non avrà molto da temere neanche per le reazioni di Vendola e Di Pietro.
Mancano i soldi adesso. Ma se Bersani si è spinto così avanti qualcosa sul piatto dev´esserci. La sua mediazione serve a percorrere l´ultimo miglio. La Fornero non si sbilancia sulle risorse, tiene le carte coperte. Eppure qualche garanzia è spuntata nei colloqui con le parti sociali. Da Twitter ieri sono scomparse le indiscrezioni sulle riunioni a Palazzo Chigi diffuse in tempo reale dal profilo della Cgil nelle occasioni precedenti. Un altro buon segno. Il silenzio aiuta. Ora il segretario del Pd si prepara a chiudere almeno il match politico nel vertice di maggioranza stasera.
Nel partito ognuno tirerà la coperta dell´intesa dalla sua parte. L´ala laburista guidata da Fassina rivendicherà la difesa dei diritti, la non cancellazione dell´articolo 18, l´estensione di tutele ai precari e a chi rimane senza lavoro in età avanzata vedendo la pensione sempre più lontana dopo la riforma, la Cig estesa anche alle piccole imprese. I moderati metteranno l´accento sull´innovazione del sistema. «Il cambiamento è radicale - sottolinea Francesco Boccia -. L´intero pacchetto degli ammortizzatori sociali viene rivoluzionato. Si taglia il cordone ombelicale che lega attraverso la cassa integrazione aziende decotte e lavoratori. E si sostituisce con l´indennità di disoccupazione». Boccia pensa ad esempio ai lavoratori di Alitalia, che hanno una Cig di 7 anni. Ma le interpretazioni dell´intesa non avranno effetti sulla tenuta complessiva del centrosinistra, garantita soprattutto dall´adesione della Cgil.
Il quadro generale dell´intesa servirà a far uscire i soldi, attesi non solo dalle sigle dei lavoratori ma da grandi imprese e piccole. In questo senso, un aiuto è venuto anche da Corrado Passera, il ministro dello Sviluppo economico che siede sulla poltrona che fu di Bersani. La promessa di sbloccare in parte i debiti dello Stato nei confronti delle aziende ha funzionato da acceleratore dell´accordo. E in un clima così mutato difficilmente stasera il Pdl potrà permettersi di impugnare ideologicamente la bandiera dell´abolizione dell´articolo 18.

l’Unità 15.3.12
Bersani: «Per viale Mazzini non servono soluzioni pasticciate, né commissari»
D’Alema: «Nessuno ha l’interesse né la forza di mettersi contro il governo Monti»
Il Pd: «Sulla Rai non torniamo indietro. La riforma si può fare»
Sulla Rai il Pd non cambia posizione. Bersani: «È necessaria una cesura netta tra politica e azienda». No anche all’ipotesi commissariamento. Sul tavolo del vertice giustizia, lavoro e questione sociale
di Maria Zegarelli


Angelino Alfano ci andrà con spirito ecumenico, appoggiando il governo «con opere e omissioni» ed è chiaro dove si annidano le omissioni: sulla Rai e sulla legge anticorruzione. Non contro, sembra, ma morbidamente a lato. Deciso, però, a puntare tutto sul lavoro, ha spiegato. Pier Luigi Bersani ci va con l’intenzione di non accettare preclusioni sul menu da mettere in tavola e «contentissimo» di scoprire un inedito segretario Pdl «in tuta blu», mentre Pier Ferdinando Casini dice che andrà ad ascoltare perché l’agenda la detta Mario Monti. Di sicuro il lavoro di tessitura e mediazione sarà cosa di non poco conto per il premier che dal vertice di oggi dovrà uscire con impegno comune dei partiti che lo sostengono a sgombrare il campo dal rischio di impantanamento dell’azione di governo.
IL NODO RAI
Il ministro Andrea Riccardi è sicuro: «Vedrete che ce la faremo. Il rapporto è più sereno di quanto sembra. Sono ottimisti. Tutti sono consapevoli del bene del Paese». «Siamo così consapevoli del bene del Paese che anche per la Rai, un’azienda che vede il Tesoro come maggiore azionista, pensiamo si debba procedere con urgenza, senza trovare false soluzioni», fanno sapere dal Nazareno. Dunque, il pressing sul segretario Pd, se pressing c’è stato, non sembra aver dato i frutti sperati. Bersani oggi andrà al vertice a quattro avendo «apprezzato molto» la puntualizzazione del premier che ha precisato che non ci sono temi di cui non si parla, ma non tornerà indietro sui suoi passi: «Sulla Rai chiederemo una cesura netta tra la politica e l’azienda», ha spiegato ieri il segretario ai suoi collaboratori. Altrimenti meglio l’Aventino. E se nei giorni scorsi c’è chi ha fatto filtrare da Palazzo Chigi il nome di Enrico Bondi, come tecnico di altissimo livello al vertice Rai in cambio di un via libera dei partiti (soprattutto del Pd) alla nomina del nuovo Cda, dal Nazareno fanno filtrare un gentile ma fermo «no, grazie».
«Non basta ridurre a cinque i membri del Cda e nominare Bondi ragiona Matteo Orfini, responsabile Cultura e informazione è necessario dare una guida certa all’azienda, perché nominare un nuovo Cda con un direttore senza poteri è un meccanismo che non consente di risolvere i problemi che oggi paralizzano la Rai».
Quanto alla preoccupazione di Mario Monti circa la possibilità che proprio sulla Rai si creino fibrillazioni per Palazzo Chigi, Bersani fa sapere che il Pd non ha affatto intenzione di mettere in discussione il governo, quanto piuttosto di rilanciare l’azione politica per arrivare a una governance, «se c’è la volontà si può fare anche in venti giorni», a meno che il Pdl non consideri la Legge Gasparri «scritta sul bronzo» e dunque immodificabile. Anche D’Alema assicura: «Nessuno ha l'interesse o la forza di mettersi contro il governo Monti». Sarebbero, quelle in corso tra Pdl, Pd e Terzo Polo, «schermaglie politiche: Alfano, in particolare, è in difficoltà per le tensioni nel Pdl e perché Rai e Giustizia sono temi sensibili a Berlusconi». Ma il governo «deve comunque fare il governo, deve occuparsi di tutti i problemi, non
può avere materie precluse. È lì nella pienezza dei suoi poteri».
E i problemi sul tavolo oggi saranno diversi: la riforma del mercato del lavoro, la giustizia, la legge sulla corruzione (alla quale lo stesso Monti vorrebbe dare una corsia preferenziale) e la questione sociale per la quale, secondo Bersani, «sono necessari interventi incisivi per la crescita e le politiche di sviluppo che ancora mancano». Dunque, se Alfano dice che dal canto suo la priorità è il lavoro, Bersani ribadisce che la crescita del Paese riparte su più fronti: «C’è bisogno di accelerare ha detto ieri la riforma della giustizia civile perché anche quello è un freno per gli investimenti dall’estero verso il nostro Paese», così come la questione delle carceri, la rimodulazione dei distretti giudiziari. Sulla giustizia Alfano non andrà al muro contro muro ma è pronto al rilancio con la legge bavaglio sulle intercettazioni amara ossessione di Silvio Berlusconi anche se lo fa più per dovere che per convinzione.
«Nessuno può prendersi la responsabilità di alzarsi e andare via avverte Casini l’agenda la fa Monti. Ma parlare di crescita significa parlare anche di giustizia, parlare di imprese vuol dire parlare anche di corruzione, e così via». Ed è probabile che nessuno si alzi, ma le tensioni fra Pd e Pdl sono tutte lì, sul tavolo, aggrovigliate intorno agli interessi del Cavaliere. Casini racconta: «Sono impegnato a distribuire bromuro da mattina a sera, la camomilla è necessaria».

La Stampa 15.3.12
Il sospetto del Pd, un grande scambio nomine tv-frequenze
Cruciali e da decifrare le ultime carte di Passera
di Amedeo La Mattina


ROMA Che intenzioni ha Corrado Passera? Perché il ministro dello Sviluppo Economico sostiene che non c’è più il tempo per modificare la governance della Rai? Anche Monti la pensa così? Bersani arriverà al vertice di maggioranza con queste domande. Il segretario del Pd ha il sospetto che l’ex ad di Intesa San Paolo voglia lottizzare il servizio pubblico d’intesa con il Pdl e allo stesso tempo mettere in vendita le frequenze televisive (tanto care a Berlusconi) con un’asta non proprio gratuita ma «low cost». Sospetti e «cattivi pensieri» che Bersani vuole siano fugati dallo stesso presidente del Consiglio. E non ha dubbi che ciò avvenga. Se invece si arriverà a un semplice rinnovo del Cda Rai, come vuole il Pdl, e non ci sarà una rivoluzione a viale Mazzini, allora Alfano, Monti e Passera dovranno metterci la faccia: per il leader dei Democratici saranno responsabili del disastro del servizio pubblico, condannando la Rai a un destino simile all’Alitalia.
Un vertice in salita quello di questa sera. E potrebbe non bastare la schiarita sulla riforma del lavoro. Il premier dovrà confermare la convinzione di Casini secondo cui il Professore della Bocconi è «più politico di Andreotti». Ma non serviranno solo le grandi capacità di mediazione del vecchio leader della Dc: il presidente del Consiglio dovrà mettere in campo una forza decisionale capace di superare i veti incrociati del Pdl e del Pd. L’Udc con il suo leader è impegnato a distribuire «bromuro da mattina a sera» e consiglia ai partiti maggiori di non forzare la mano: basta «bambinate». Casini non si rivolge solo ad Alfano, che non vuole trattare su giustizia e Rai. Il messaggio è rivolto anche a Bersani. Abbassare i toni, riporre le armi, affidare a Monti la delega per decidere sui temi controversi. Sul ddl contro la corruzione, ad esempio, si potrebbe stralciare la parte che riguarda l’allungamento della prescrizione. Quanto alla Tv di Stato va bene pure la nomina dei nuovi consiglieri d’amministrazione e di un altro direttore generale, un tecnico di alto profilo. «Se non si va in questa direzione spiega Roberto Rao - la soluzione sarà la paralisi e la proroga dell’attuale Cda Rai, che poi è quello che fa comodo al Pdl». In ogni caso per Casini non è possibile delimitare gli argomenti del vertice: «Significherebbe indebolire deliberatamente il governo. Nessuno può prendersi la responsabilità di alzarsi dal vertice e andare via. Renderebbe l’esecutivo gravemente menomato».
Alfano nega che questa sia la sua intenzione. «Non vogliamo complicare la vita a Monti. Sosteniamo lealmente il governo in opere e omissioni. Le opere sono le cose che facciamo per sostenere Monti, le omissioni sono quelle che facciamo per evitare di partecipare a discussioni che possono mettere in difficoltà l’esecutivo». Ma il segretario del Pdl pensa di mettere altra carne al fuoco nell’incontro di Palazzo Chigi. Infatti Alfano vuole aggiungere un altro tema spinoso, quello dell’abolizione delle commissioni bancarie, votata dal Senato da tutti i partiti.
Da giorni va avanti il ping-pong tra esecutivo e maggioranza: a chi spetta l’onere di modificare la norma? Il governo sostiene che è compito del Parlamento che l’ha approvata contro il parere dell’esecutivo mentre la maggioranza vuole lavarsene le mani chiedendo a Palazzo Chigi di provvedere con un «decretino» ad hoc. In sostanza le forze politiche ora nascondono la mano e non vogliono apparire come i difensori degli istituti di credito. Anzi Alfano, ma anche Casini, chiederanno un intervento sul sistema bancario per favorire il credito verso le famiglie e le imprese. Il segretario del Pdl insiste: che fine hanno fatto i prestiti all’1% della Bce ricevuti dagli istituti di credito italiani? L’ex ministro della Giustizia batterà molto sul tasto delle banche per allungare il brodo della discussione ed evitare che si arrivi al tema della Rai.
Insomma, il vertice di questa sera non sarà una passeggiata. Monti dovrà rispondere alle richieste dei partiti che lo sostengono. E forse non basterà a spianare la strada il possibile accordo con le parti sociali sulla riforma del lavoro. I leader del Pdl e del Pd nonvogliono stringerlo in un angolo ma si aspettano risposte. Bersani è convinto che il Professore non si farà piegare dai diktat di Berlusconi sulla tv e le frequenze televisive, sconfessando Passera e prendendo una decisione su viale Mazzini. Magari nominando un commissario, come ha chiesto Enrico Letta.

Corriere della Sera 15.3.12
Rai, Pd isolato contro le nomine Anche l'Udc vuole un nuovo cda
di Paolo Conti


ROMA — Il 28 marzo il consiglio di amministrazione uscente della Rai, presieduto da Paolo Garimberti, approverà il bilancio. E da quel momento in poi la legge Gasparri mette nelle condizioni la commissione di Vigilanza di aprire tutte le procedure per nominare un nuovo consiglio, un nuovo presidente al posto di Paolo Garimberti e (dipenderà dagli equilibri) un nuovo direttore generale al posto di Lorenza Lei. Nel Pdl già si pensa ai nomi e circolano robuste ipotesi. Il Pdl dispone oggi di tre poltrone: Guglielmo Rositani (area ex an) Alessio Gorla e Antonio Verro (ex Forza Italia). Gli ex an già appaiono divisi tra uno sbarramento per la riconferma di Rositani e l'ipotesi di avvicendarlo con Guido Paglia, ora capo della direzione comunicazione e relazioni esterne (ipotesi che piacerebbe ad Angelino Alfano). Alessio Gorla sembra in uscita, nonostante l'antico sodalizio personale con Silvio Berlusconi: molti nel Pdl non gli avrebbero perdonato il voto favorevole alla rimozione di Augusto Minzolini nel consiglio di amministrazione del 14 dicembre 2011. Verro dovrebbe rimanere ma c'è chi vede in Fabrizio Del Noce un temibile concorrente.
Voci di conferma anche per l'udc Rodolfo de Laurentiis. Difficile interpretare le intenzioni della Lega, soprattutto perché, trovandosi ora all'opposizione, giocherà la sua partita per la presidenza (da sempre un ruolo di «garanzia» affidato a chi è contro il governo in carica). Quanto al Pd, solo stasera, dopo il vertice a Palazzo Chigi, si capirà la sua rotta. La posizione di Bersani è nota: non si rinnova il cda con questa governance, noi non faremo i nostri nomi. Ma Bersani sa che la sua posizione è isolata, soprattutto dopo le dichiarazioni di Roberto Rao, Udc, a il manifesto («Non so se il Pd intende andare avanti nella sua decisione. Ma se non si rinnova il consiglio d'amministrazione resta quello che è in carica. Cerchiamo di evitare che resti questo cda per altri sei mesi e cerchiamo di fare una cosa tutti insieme. Non si può fare niente a dispetto degli altri»).
C'è chi, nel Pd, sta facendo circolare un appunto. Maurizio Gasparri, due giorni fa, al Corriere della Sera aveva detto, scherzando ma non troppo: «Se il Pd non si presenta in Vigilanza, vorrà dire che i consiglieri li voteremo tutti noi». Certo, una battuta, soprattutto dopo la posizione espressa ieri da Angelino Alfano («giustizia e Rai? Leali a Monti, evitiamogli difficoltà»). Ma se la situazione si arenasse, la commissione presieduta da Sergio Zavoli potrebbe in teoria nominare non solo i sette consiglieri su nove senza la presenza di Pd-Idv ma addirittura procedere alla ratifica di un possibile presidente radunando due terzi dei voti dopo aver convinto Udc e Terzo polo. Ipotesi, ma non assurde.
Nomi per la direzione generale? Nessuna novità nel toto nomine. O la conferma di Lorenza Lei (nel caso di un'intesa su richiesta pdl). E proprio Lorenza Lei ieri si è tolta un sassolino dalla scarpa: «Non sono "potentissima" perché ho dietro il Vaticano, credo di essere apprezzata per il mio lavoro e i miei principi»). O l'arrivo di Claudio Cappon (legato sia a Monti che a Passera), o di Rocco Sabelli, o di Enrico Bondi. Per la presidenza tutto in alto mare, trattandosi di un incarico considerato «di garanzia» che deve essere se non gradito almeno non sgradito all'opposizione.

Corriere della Sera 15.3.12
L'Italia dei brogli che fa votare i defunti
Voti contesi e tessere fantasma È l'Italia dei brogli (bipartisan)
Da Palermo a Varese, epidemia di urne «col trucco»
di Gian Antonio Stella


Iscrizioni fantasma, tessere intestate a defunti, firme false per presentare le liste elettorali: varie inchieste giudiziarie hanno dimostrato che non un partito è riuscito a rimanere del tutto estraneo. Era da tempo, tuttavia, che non si accavallavano tanti imbrogli.
Il 17 ottobre 2011 il signor Ampelio Ercolano Pizzato, di Bassano del Grappa, quantunque defunto da tempo, lasciò la sua dimora eterna per iscriversi al Pdl. Prova provata che, come Lui sostiene da anni, la sola evocazione di San Silvio da Arcore fa miracoli. Va però detto che, di prodigi simili, la politica trabocca. A destra, a sinistra, al centro…
L'ultimo caso è la decisione della Lega Nord di annullare le «primarie» di Varese che dovevano eleggere i delegati al congresso della Lombardia: alla conta c'erano 332 voti contro 329 votanti effettivi. Quanto bastava perché l'ex segretario Stefano Candiani, nella culla del Carroccio scossa dalle risse fratricide, dicesse: «Anche un solo voto fuori posto è una circostanza sgradevole. Non vedo alternative alla ripetizione del voto».
Il partito di Bossi, del resto, la «verginità» l'aveva già persa anni fa. Quando il presidente del movimento in Toscana, Vincenzo Soldati, era stato condannato con altri tre militanti per aver taroccato le firme necessarie a presentare la lista alle elezioni.
Varie inchieste giudiziarie, tuttavia, hanno dimostrato che non un partito, manco uno, è riuscito negli anni a rimanere del tutto estraneo a queste faccende. Basti ricordare, tra gli altri, il processo che a Udine, per le provinciali e le comunali del 1995, vide 12 persone finire in manette e 71 a giudizio appartenenti un po' a tutti i partiti, da An al Ccd, da Forza Italia al Pds, dai Verdi alla Lega Friuli e al Ppi. Furono coinvolti perfino, sia pure di striscio, i radicali, che storicamente hanno combattuto le battaglie più dure sul fronte della legalità nella raccolta delle firme, fino alla denuncia per brogli del governatore Roberto Formigoni.
E come dimenticare l'inchiesta genovese di qualche anno fa nella quale restarono inguaiati 49 esponenti di un po' tutti i partiti? Erano false 187 firme su 1.183 dell'asse Pri-Socialisti, 388 su 1.351 del Rinnovamento italiano di Lamberto Dini, 310 su 1.148 del Msi-Fiamma tricolore, 314 su 1.261 delle Liste civiche associate, 53 su 1.133 del Ppi, 161 su 1.141 dei Verdi...
Per non dire delle inchieste aperte a Monza, Trento, Bologna, Rossano, Campobasso, dove la Digos indagando sulle regionali si spinse a denunciare 16 segretari provinciali di diversi partiti… Insomma, le cose avevano preso una piega tale che a metà luglio 2003, mentre la gente boccheggiava nell'estate più calda da decenni, il centrodestra decise di metterci una pezza varando (270 sì, 154 no, 5 astenuti) la depenalizzazione: basta con le manette, basta con la galera. Solo una multa. Il relatore Michele Saponara rassicurò che in fondo, queste truffe sulle firme, «non sono reati pericolosi socialmente».
Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Era da tempo, tuttavia, che non si accavallavano tanti imbrogli. Ancora trasversali. Ed ecco a sinistra lo scandalo delle primarie del Pd per le comunali 2011 a Napoli, dove la vittoria di Andrea Cozzolino è contestata dal segretario provinciale del partito Nicola Tremante: «In molti seggi ci sono stati consiglieri di municipalità ed esponenti dei partiti di centrodestra che hanno portato centinaia di persone a votare. Ne abbiamo le prove». E mostra foto scattate da un militante: «Qui siamo al seggio di San Carlo all'Arena dove si vede la presenza di un consigliere municipale del Pdl». Peggio: a Miano, a nord di Capodimonte, «hanno votato 1.606 persone in 8 ore: 200 l'ora. Tre al minuto. Tecnicamente impossibile».
Un trauma. Ripetuto giorni fa a Palermo. Dove Maurizio Sulli e la sua compagna Francesca Trapani (già indagata per favoreggiamento perché ospitava in casa sua Michele Catalano, arrestato con l'accusa di essere vicino al clan mafioso dei Lo Piccolo) sono indagati, ricorda l'Ansa, «per presunti illeciti nel voto alle primarie del centrosinistra, in vista dell'elezione del sindaco di Palermo, nel seggio allo Zen. Secondo testimonianze la donna e l'uomo avevano decine di certificati elettorali nella propria auto». Una brutta storia. Che ha portato all'annullamento dei voti in quel seggio e spinto il presidente della Toscana Enrico Rossi a sfogarsi su Facebook e Twitter: «Credo occorra trovare delle regole. Se in Internet si digita la parola "brogli", purtroppo viene fuori "brogli Palermo Pd" e "brogli Putin". Io sono un po' stufo di questo».
Imbarazzante. Unica consolazione, in base all'adagio «mal comune, mezzo gaudio», lo scandalo dei falsi iscritti al Popolo della libertà. Ricordate le dichiarazioni trionfali di Angelino Alfano ai primi di novembre? «Oltre un milione di italiani hanno deciso di iscriversi al Pdl. Molti più della somma degli iscritti ai partiti che l'hanno fondato». Giuseppe Castiglione gli fece coro: «Abbiamo doppiato anche le più rosee previsioni: il vero Big Bang siamo noi».
Non l'avesse mai detto! Poche settimane ed ecco il Big Bang vero. Ecco i dubbi nella Regione più grande, quella più amata dal Cavaliere, sintetizzati sul Corriere così: «Mai così tanti iscritti, mai così in basso nei sondaggi. Serve un matematico di quelli tosti per risolvere l'equazione a più incognite del Pdl in Lombardia». Ecco la denuncia sugli iscritti di Modena da parte di una berlusconiana Doc come Isabella Bertolini: «Scorrendo l'elenco dei nuovi tesserati, quasi 6 mila, ho notato un impetuoso aumento degli iscritti in alcuni Comuni a forte rischio di infiltrazioni… I sospetti sono aumentati quando ho verificato che molte iscrizioni erano in blocco, a famiglia, e che si trattava di persone provenienti da Casal di Principe, Casapesenna, San Cipriano d'Aversa…»
Ecco la rivelazione, sul Fatto Quotidiano, di Gianni Barbacetto, che racconta come un dipendente del Cepu avesse «trovato sulla sua scrivania il modulo per l'iscrizione al Popolo della libertà. Con un ordine secco scritto a mano su un post-it : "Da consegnare firmato"». Ecco la militante antiberlusconiana del Pd che si ritrova iscritta al Pdl di Brescia con la tessera numero 158.378. Il cabarettista vicentino Dario Grendele, membro del gruppo «Risi & Bisi» che nega di aver mai dato il suo consenso e dice di essere stato imbarcato a sua insaputa esattamente come i sindaci vicentini di Brendola e Zanè e il segretario udc di Schio.
Seccante. Tanto più per il partito di Silvio Berlusconi, che aveva per anni rovesciato sospetti sugli avversari arrivando a invocare «osservatori dell'Onu» e a tuonare, dopo la sconfitta alle politiche 2006: «Secondo mie informazioni i professionisti della sinistra ci hanno sottratto circa un milione e settecentomila voti». Informazioni di chi? Sue.
Particolarmente sgradevole il caso della provincia berica, storica roccaforte del centrodestra. Dove sarebbe più o meno taroccata la metà delle 16 mila tessere d'iscrizione raccolte dall'eurodeputato Sergio Berlato, che fiero del suo bottino si era fatto fotografare con due valigie extralarge stracolme di adesioni. E dove Il Giornale di Vicenza ha via via raccolto testimonianze strepitose. Come quella di alcuni carabinieri imbarazzatissimi perché mai e poi mai (lo dice la legge) avrebbero potuto iscriversi a un partito. O quella di Marco Berlato, 21 anni, iscritto a Rifondazione. Irresistibile il commento ironico di Giuliano Ezzelini Storti, coordinatore provinciale comunista: «Se il Pdl era così disperato poteva chiederci un piacere, no? Noi stiamo sempre dalla parte dei deboli».

l’Unità 15.3.12
«Occupy Riformista»? I giornalisti contro la possibile chiusura
Il Riformista a rischio chiusura. Domani l’azienda potrebbe liquidare il giornale diretto da Macaluso. I giornalisti pronti all’«Occupy Riformista»: rotto il confronto col sindacato, accordo stracciato. Oggi conferenza stampa
di Natalia Lombardo


Un’altra vicenda amara per l’editoria, un’altra voce della sinistra rischia di chiudere, Il Riformista. Liquidare la società, sembra sia questa l’intenzione della cooperativa editri-
ce Il Riformista (di cui tre soci sono i giornalisti) che ha convocato l’assemblea dei soci per domani con all’ordine del giorno la liquidazione, appuntamento che sembra sia rinviato ma senza conferme ufficiali fino a ieri sera. Un’accelerazione avvenuta «senza aver dato comunicazione», né aver aperto «un confronto con le organizzazioni sindacali» con le quali tre mesi fa l’azienda aveva siglato un accordo per un contratto di solidarietà al 30%, spiega l’Associazione Stampa Romana, presso la cui sede in piazza della Torretta oggi si terrà una conferenza stampa con i giornalisti. Un «atto sconcertante, assimilabile in qualche modo al comportamento della Mrc, società editrice di Liberazione», nota il sindacato, «si fanno gli accordi, poi si cambia idea e si stracciano senza battere ciglio». E sono spiazzati i lavoratori del quotidiano «arancione» diretto dal maggio scorso da Emanuele Macaluso e fondato nel 2002 da Antonio Polito.
12 giornalisti e 10 tra poligrafici e amministrativi, disposti a perdere l’aplomb riformista: «Se l’assemblea dei soci voterà la liquidazione, noi, con lo spirito di quei braccianti meridionali che una volta difendeva Macaluso, potremmo dare vita a un “Occupy Riformista”» come hanno fatto a Liberazione, annuncia Alessandro De Angelis, del comitato di redazione.
Ciò che non torna è l’aver fatto saltare l’accordo siglato a dicembre per compensare i tagli al finanziamento. Una settimana fa, invece, il direttore Macaluso ha annunciato in un’assemblea la chiusura per via dei tagli e per un debito di 800mila euro
che i precedenti editori, la famiglia Angelucci, dovrebbe al Riformista per colmare il divario tra la pubblicità presunta (un milione di euro) e quella realmente entrata. Accordo del quale i giornalisti vogliono «vedere le carte», spiega De Angelis. E chiede chiarezza: «Macaluso ci dica cosa è cambiato da dicembre tanto da far saltare l’accordo?». E «perché non aspettare le cifre ufficiali del finanziamento pubblico?» prima di portare i libri in tribunale.
Il direttore Macaluso spiega a l’Unità: «Non possiamo più reggere dopo un anno, con i tagli all’editoria e la mancata contrattualità dei vecchi amministratori». Quanto al mancato confronto col sindacato: Siamo una cooperativa vera, cambino il direttore e vadano avanti altri, l’ho detto in assemblea, il debito ce lo accolliamo noi». Potrebbe esserci una versione on line, ma i giornalisti auspicano «che non si tenga l’assemblea dei soci e si riapra la trattativa per non spegnere una voce importante dell'editoria e della politica».

il Riformista.it 15.3.12
L’insensato dibattito sul “dopo Monti”
di Emanuele Macaluso


La discussione e anche gli scontri politici sul “dopo Monti”, sono diventati non solo oziosi, ma dannosi. Infatti, oggi, bisognerebbe impegnare le energie politiche e sociali (quelle che ci sono) per affrontare i gravi problemi aperti che questo governo, e le forze che lo sostengono, dovrebbero risolvere. Discutere il “dopo Monti”, senza sapere come si concluderà l’opera del governo e quali saranno le condizioni sociali e politiche in cui si troverà il Paese, è francamente un modo per rendere ancora più pesante la situazione in cui oggi si trova. Eppure, se seguiamo il dibattito interno nel Pd e nel Pdl, ma anche nel cosiddetto “terzo polo” di Casini, il problema che tiene banco, in forme esplicite o implicite, è il “dopo Monti”. Si discute se l’impronta lasciata dal governo, su cui si svolgeranno le elezioni, sarà quella di sinistra o di destra. E Monti con chi si schiererà? Berlusconi, goffamente, lo presenta come una sua creatura, Casini tende a identificarsi col governo e il suo presidente, Bersani è con Monti ma a tempo determinato. Domani cosa farà il ministro Passera? Guiderà il centro o il centrodestra?
E c’è anche la “società civile”, guidata da un sempre disinteressato Carlo De Benedetti.
Il quale, dopo aver prenotato la tessera numero uno del Pd, licenzia Bersani e prenota un suo candidato per il “dopo-Monti”. L’ingegnere sforna anche una piattaforma politica, in polemica con il suo antico socio Eugenio Scalfari. Il succo di questa piattaforma è questo: Monti è un precario con contratto a termine, poi ci siamo noi a guidare una coalizione sorretta dalle truppe ausiliarie del Pd.
L’assemblea dell’associazione “Libertà e giustizia”, in un cinema di Milano, molto sponsorizzata da La 7, con l’ingegnere in prima fila e il prof. Zagrebelsky come oratore ufficiale, introdotto da Concita De Gregorio e Sandra Bonsanti, aveva il carattere di un comizio preelettorale e di investitura.
Intanto, il governo, che ha indubbiamente ottenuto un successo politico e di immagine in Italia e all’estero, anche per la rapidità e la consistenza delle misure adottate per fronteggiare una crisi devastante, oggi è in difficoltà. E lo è a mio avviso per due motivi: il primo è quello cui ho accennato sulle manovre del “dopo Monti; il secondo è dovuto alla difficoltà, a cui contribuisce l’inutile e dannoso chiacchierare della ministra Fornero, a trovare un’intesa col mondo del lavoro su temi spinosi ma vitali per quel mondo. Penso che questo rapporto, che coinvolge anche quello dell’impresa, condizioni tutto. Il ricatto del Pdl sulla Rai e la giustizia, sono appunto solo ricatti, dato che in questa fase di sfascio del Pd, Berlusconi e i notabili del partito, che c’è e non c’è, sanno bene che non potrebbero affrontare elezioni anticipate. Del resto anche il Pd e i suoi incerti alleati non sono pronti. Monti, quindi, senza inutili arroganze, porti avanti il suo impegno politico e programmatico che non può identificarsi con una o l’altra delle forze politiche che sostengono il governo.
Prima del “dopo-Monti”, c’è il Monti di oggi.

La Stampa 15.3.12
“Diamo allo Stato i soldi rimasti alla Margherita”
Dopo lo scandalo Lusi la proposta di Enzo Bianco punta a recuperare il “grave danno d’immagine”
di Francesco Grignetti


ROMA Sono alla ricerca di un colpo di teatro, i dirigenti della ex Margherita. Con il caso Lusi sui giornali tutti i giorni sentono la responsabilità di una figuraccia di portata epocale e quindi vorrebbero dare un segnale in senso opposto. Quale segnale, però, non è chiaro. Nel frattempo si fa sentire il senatore Enzo Bianco, Pd, che ha la veste di presidente dell’assemblea federale della Margherita: «Convocherò nei prossimi giorni l’assemblea - dice alla trasmissione radio “La Zanzara” - e proporrò che le risorse non spese, per così dire risparmiate in questi anni, siano destinate a iniziative di carattere sociale e pubblico, in modo da restituirle allo Stato».
In cassa, la Margherita ha circa 20 milioni di euro. Sono questi i soldi «non spesi» a cui fa riferimento Bianco. Il quale è stato colpito duro da alcune indiscrezioni che parlano di 600 mila euro versati in questi quattro anni dalla Margherita alla sua Fondazione. A questo punto, però, è legittimo l’interrogativo: davvero un partitozombie che s’è tenuto stretto il tesoretto dei rimborsi elettorali, circa 70 milioni di euro dal 2007 a oggi, è disposto a elargire pubblicamente quello che non è stato speso finora oppure non è finito nelle voraci tasche del tesoriere infedele? Secondo Bianco, sarebbe solo questione di definire i dettagli. «Noi aggiunge - abbiamo collaborato in modo totale con i magistrati. Intanto daremo il buon esempio restituendo allo Stato con iniziative di carattere sociale e pubblico le risorse non spese. Abbiamo bisogno di recuperare credibilità rispetto a una vicenda nella quale, lo dicono i magistrati, c’è stata una grande professionalità, grazie a un sistema di doppia contabilità, che ha occultato risorse destinate probabilmente a uso personale».
Ma un’altra questione all’esame dei big della Margherita, che ne stanno discutendo in gran segreto da giorni, è che fare dei fondi sottratti da Lusi che riusciranno (se mai ci riusciranno) a recuperare. Gli avvocati hanno spiegato che occorreranno anni. Ci vorrà prima un processo penale; poi un giudizio civile. Quel che potrebbero realisticamente ottenere, tra cinque o dieci anni, sarà la confisca dell’appartamento di via Monserrato o della villa di Genzano. Ma per evitare che poi si facciano illazioni del tipo «appartamento di Montecarlo» i vertici della Margherita sono orientati a destinare gli immobili fin d’ora a un uso sociale. Quale, non l’hanno deciso.
Uno che sul serio aveva proposto di restituire alla collettività i fondi pubblici del rimborso elettorale, anzi l’unico, è Luciano Neri, un perugino che prima nella Margherita, poi nel Pd, si occupa di italiani all’estero. Neri nell’estate scorsa, molto prima che esplodesse lo scandalo delle appropriazioni di Lusi, aveva chiesto ai maggiorenti del partito-zombie di dare una metà del tesoretto ai terremotati abruzzesi e l’altra metà a associazioni benemerite come Emergency o Medici senza Frontiere. Lo sbeffeggiarono. Ieri Neri, viste le ultime dichiarazioni di Lusi, specie il riferimento a operazioni pilotate dal gruppo ristretto che governa la Margherita, ha chiesto una convocazione immediata dell’assemblea federale del partito per discutere dello scandalo e di che fare dei fondi: «Chi vuole evitare che indiscrezioni diffuse ad arte siano destinate ad alzare un polverone - dice Neri - non può che convocare l’assemblea mettendola nelle condizione di conoscere tutta la documentazione. Si fermi immediatamente questa azione tesa solo a non fare chiarezza e a nascondere la verità. Basta con questo stillicidio di scontrini, fatture e messaggi trasversali. Occorre un confronto serio, politico e aperto».
I vertici del partito, però, si sono già ampiamente autoassolti. La colpa delle ruberie è del singolo Lusi, tipica mela marcia: «C’era un sistema di controllo - spiega infatti Bianco - ma capita anche nel sistema finanziario o delle banche che ci siano persone che rubano. Purtroppo è capitato anche in un partito politico». E dunque «se quello che abbiamo letto, e confessato, è vero, Lusi è una persona che ha acquistato per sé appartamenti. Un classico caso di appropriazione indebita. Doloroso perché purtroppo è stata carpita la buona fede di molte persone».

La Stampa 15.3.12
Uccise il nonno eroe ma viene assolto: “Black-out psichico”
I giudici: in quel momento non era in sé. Prima e dopo, sì
di Anna Sandri


TREVISO Tra la lucida volontà di uccidere e la furia che conduce all’incapacità di intendere e di volere nel commettere qualsiasi delitto, si estende la zona grigia del «black-out psichico»: quel limbo che ha condotto per la via maestra all’assoluzione un giovane accusato di aver travolto e ucciso con la propria auto un anziano signore, che non gli aveva fatto mai nulla di male e che in vita ha avuto un solo torto: quello di trovarsi sulla traiettoria di una vettura condotta a velocità folle da chi non voleva trovare ostacoli.
L’accusa era doppia: omicidio colposo e omissione di soccorso; il proscioglimento è stato firmato al Tribunale di Vicenza dal giudice per le indagini preliminari Stefano Furlani. Motivazione: l’accusato «non è imputabile». Una diagnosi di pronto soccorso psichiatrico e due perizie confermano che al momento del fatto (e che il fatto sia avvenuto, questo sì, è incontrovertibile) l’imputato era in preda a un «black-out psichico», la sua mente era andata in cortocircuito per motivi che non dipendevano da lui e sui quali non poteva esercitare alcun controllo.
Il fatto risale al 22 febbraio dello scorso anno, il luogo è Alte di Montecchio Maggiore in provincia di Vicenza. Sono le 16 e Antonio Mercanzin, pensionato, già carabiniere decorato e ora nonno vigile adorato dal paese intero, si appresta a dirigere il flusso degli scolari all’uscita dalla scuola elementare. In quegli stessi minuti, a Saonara in provincia di Padova, Luigi Furian - allora trentunenne laureato in Economia e Commercio, culturista, impiegato nell’azienda di termoidraulica della famiglia, ha una discussione con il padre. Niente di grave: ma improvvisamente lo vedono sbiancare, sgranare gli occhi, alzarsi. Prende le chiavi della sua Mégane, fugge. Sarà una corsa folle, che lo porta fino a Alte, dove imbocca contromano e a velocità elevatissima la strada della scuola proprio mentre i bimbi escono. Il nonno vigile vede l’auto, agita la paletta, capisce che non c’è nulla da fare, riesce a spingere di lato un bimbo che è sulla traiettoria e finisce travolto. Muore all’istante. Bisogna arrivare fino a Valdagno perché Furian venga fermato dai carabinieri.
In Pronto soccorso, il giovane appare catatonico e finisce in Psichiatria: qui viene posato il primo mattone che porterà al suo proscioglimento. Ha la bava alla bocca, gli occhi sbarrati, non parla. E quando ricomincia a parlare, tre giorni dopo, ha paura. Parla di gente che lo insegue, che lo vuole uccidere; dice di essere scappato con l’auto, ma continuavano a inseguirlo. Quando gli chiedono se ha trovato ostacoli, ricorda di «aver abbattuto una transenna».
Furian è astemio, non si è mai drogato e gli esami lo dimostrano; ma la sua mente è un mistero. Tre mesi di ricovero fra ospedale e strutture private, sei di arresti domiciliari. L’avvocato Stefano Grolla, di Vicenza, lo ha seguito dal primo giorno. «Sembrava un caso impossibile per la difesa. La vittima era una persona molto amata, è morto da eroe salvando un bimbo; il mio assistito, un giovane culturista che correva a velocità folle, contromano». E invece: «Due periti, psichiatri forensi di grande levatura, Umberto Signorato per il Tribunale e Diego Arsiè per la difesa. hanno dimostrato che Furian è stato colpito da black-out psichico, che è altra cosa dall’incapacità di intendere e di volere. Certo che prova rimorso, ma non ha mai ricostruito il fatto dentro di sé». Il giudice gli ha inflitto tre anni di libertà vigilata, il divieto di frequentare bar e sale da gioco, e l’obbligo di sottoporsi a controlli psichiatrici periodici. L’avvocato Grolla cercherà di far rivalutare la misura di sicurezza; sa già comunque che il caso è chiuso e non ci sarà appello. Renata Mercanzin, la vedova del nonno vigile, ha rinunciato alla costituzione di parte civile: è stata risarcita dall’assicurazione, di Furian non vuole sentir parlare e non vuole ascoltare la parola «perdono». Non ha mai voluto incontrare il giovane culturista né la sua famiglia.

Corriere della Sera 15.3.12
Due scarcerati dopo lo stupro di gruppo
Applicata la nuova linea della Cassazione. Gli abitanti di Sora: giustizia da soli
di Paolo Foschi


SORA (Frosinone) — «Se non ci penserà il tribunale a fare giustizia, ci penseremo noi», dice un ragazzo sotto i portici davanti alla Chiesa di Santa Restituita, nel delizioso centro storico di Sora, Basso Lazio. Qui e nel vicino comune di Isola Liri ieri sono tornati a casa due ragazzi, 24 e 21 anni, accusati di un crimine orrendo: violenza sessuale su una minorenne. Il tribunale del riesame di Cassino ha concesso gli arresti domiciliari, applicando la recente (e discussa) sentenza della Cassazione secondo la quale anche per un reato così grave non è obbligatorio il carcere come misura cautelare.
La vicenda risale alla scorsa estate. Nella notte fra il 23 e il 24 giugno all'uscita di un pub una ragazza non ancora diciottenne, anche lei residente nella zona, fu avvicinata dai due giovani che le offrirono un passaggio in auto. Lei accettò, la sorella maggiorenne, con cui era uscita insieme, preferì tornare a piedi. Secondo la ricostruzione dei carabinieri, la macchina però prima di riportare la ragazzina a casa si fermò in una stradina di campagna. La minorenne ebbe un rapporto sessuale con i due giovani: secondo lei fu violenza, secondo i due ragazzi era consenziente. Dopo più di un mese di indagini, i due giovani furono arrestati il 6 agosto scorso.
La prima richiesta di domiciliari era stata respinta. Poi però la Cassazione ha rimesso in discussione tutto. A partire dal 2009 il Parlamento, con una nuova legge, aveva vietato l'applicazione di misure cautelari alternative al carcere per i delitti di violenza sessuali o di atti sessuali nei confronti di minorenni. Un orientamento bocciato con la sentenza n. 265 della Corte costituzionale del 2010, secondo la quale la norma approvata dal Parlamento è in contrasto con gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione della pena) della Costituzione. Per questo secondo la Consulta spetta al giudice, caso per caso, stabilire le misure cautelari da adottare.
Il tribunale del riesame di Cassino ha dunque deciso che gli arresti domiciliari sono la misura adatta. Ed è scoppiata la polemica. Anche perché è di ieri la notizia della scarcerazione per decorrenza di termini dell'uomo accusato di aver stuprato una turista americana a Villa Borghese. «Uno schiaffo in faccia a tutte le donne di Roma», ha detto il sindaco Gianni Alemanno.
Sulla scelta dei giudici di Cassino Angela Maraventano, senatrice della Lega Nord, ha commentato: «Decisione scellerata». «Siamo di fronte a un arretramento grave del diritto per quanto riguarda la giustizia delle donne», ha aggiunto Barbara Pollastrini, deputata del Pd. Giuseppe Di Mascio, uno dei legali che difende i due ragazzi, ha auspicato che «la decisione di concedere i domiciliari non scateni un altro massacro mediatico di due giovani, che sono innocenti fino a prova contraria. Siamo in attesa di conoscere le motivazioni. La decisione del Riesame non è solo un mero recepimento, ma una valutazione che coinvolge anche il merito della vicenda».
La comunità di Sora è divisa fra innocentisti e colpevolisti. Ma al caffè sotto i portici sono netti: «Non si fanno quelle cose a una ragazzina. Se li mandano fuori, la pagheranno», dicono alcuni ragazzi. Adesso la parola passa al Gup. Domani è fissata l'udienza.

Corriere della Sera 15.3.12
Un’irragionevole via d’uscita
di Fiorenza Sarzanini


È andata come si poteva prevedere, nel peggiore dei modi. Perché la sentenza della Cassazione che rende facoltativo il carcere per lo stupro di gruppo, ha avuto il primo e devastante effetto. I due ventenni di Sora sono i primi a tornare a casa, certamente non saranno gli ultimi. E la spirale violenta adesso potrà avere una giustificazione in più perché in casi di questo genere la prigione è un deterrente forte, soprattutto per i giovani. Mentre la prospettiva di avere una via d'uscita può scatenare gli istinti, anche quelli più brutali.
Era stata la Corte costituzionale, nel 2010, a eliminare l'automatismo della custodia cautelare obbligatoria in carcere per chi è accusato di stupro, ripristinando la possibilità degli arresti domiciliari. Un pronunciamento ragionevole. Non si può negare che in questo tipo di reato il racconto della vittima lasci talvolta dei dubbi. Capita che ci sia un iniziale consenso al rapporto. Addirittura è capitato che una donna si sia inventata la violenza. Se la Consulta non avesse eliminato quell'automatismo, in casi controversi il giudice era obbligato a far tornare libero l'indagato. La Cassazione ha deciso di applicare lo stesso principio allo stupro di gruppo. Ed è proprio questo ad apparire assurdo e irragionevole. Come si può pensare che una donna inventi di essere stata assalita dal branco? In questi casi il corpo è, purtroppo, la prova più evidente. Ecco perché non ci può essere alternativa alla cella.

Corriere della Sera 15.3.12
A Firenze il cimitero dei feti abortiti
di M. Ga.


FIRENZE — Un cimitero dove seppellire i feti, ma anche «i prodotti abortivi e i prodotti del concepimento», come si legge in una nota del Comune di Firenze. Lo ha deciso la giunta del capoluogo toscano approvando il nuovo regolamento di polizia mortuaria. Il camposanto dei feti, destinato probabilmente a provocare polemiche e divisioni anche a livello politico, nascerà all'interno del cimitero di Trespiano. Il regolamento, infatti, prevede l'individuazione di un'area apposita per questo tipo di sepolture. Secondo Palazzo Vecchio, che ha illustrato il provvedimento con una nota poi diffusa dalle agenzie di stampa, la decisione è stata presa per «assicurare, attraverso la chiarezza di ruoli e comportamenti, il rispetto delle scelte della persona e della famiglia, la trasparenza nelle prestazioni e nei costi, la diversificazione di modalità di onoranze e di sepoltura che vengono rese disponibili, per venire incontro a diversità culturali, religiose, psicologiche». Il nuovo regolamento, che sostituisce quello del 1969, non entrerà subito in vigore. L'ultima decisione spetta al consiglio comunale.

il Fatto e The Independent 15.3.12
Mondo arabo. La neutralità impossibile
Le favole islamofobe
di Robert Fisk


Ci risiamo. Questa volta gli insulti razzisti arrivano da una certa ”Bernadette”, esponente della lobby filo-israeliana in Australia, e sono contenuti in una mail indirizzata al giornale. “In tutta la Gran Bretagna, forse in tutto il mondo, non c’è un antisemita fanatico e prevenuto quanto Robert Fisk. Non è un giornalista; è solo un maledetto idiota con un cervello piccolissimo e un Io smisurato. Non si ferma dinanzi a nulla pur di diffondere il suo credo antisemita che gli viene da dove? (sic) - non da approfondite conoscenze personali, ma dal Medio Oriente dove vive. Racconta un mucchio di menzogne a persone credulone e ignoranti disposte a prestargli fede. È una pedina dei musulmani – gli auguro di goderseli quando imporranno la legge della sharia in Gran Bretagna e in Europa. Allora al primo errore gli mozzeranno il capo o lo lapideranno. C’è fin troppa gente pronta a farsi ingannare a causa di persone come lui”.
Nulla mi importa degli insulti personali: mi colpiscono però la sciatteria dello stile e il modo in cui viene strapazzata la grammatica inglese. Ma ciò che mi manda su tutte le furie è l’insinuazione secondo cui la mia vita sarebbe in pericolo e che verrò “lapidato” o decapitato sulla pubblica piazza. L’ultima volta in cui ho dovuto fare i conti con questo genere di immondizia è stato per opera dell’attore John Malkovich che parlando a Cambridge disse che gli sarebbe piaciuto prendere a fucilate me e George Galloway. A parte il fatto di avermi associato a un rimbambito come Galloway, Malkovich fece anche incetta su Internet d’ogni genere di insulti minacciosi. Nel 2001 dopo che alcuni profughi afgani che avevano visto morire alcuni loro parenti nel corso dei bombardamenti dei B-52 su Kandahar mi avevano malmenato nei pressi del confine con il Pakistan, Mark Steyn scrisse un articolo sul mio conto sul Wall Street Journal dal titolo: “Un predicatore masochista del multiculturalismo ha avuto il fatto suo”. Steyn – senza nemmeno ricordare che io stesso avevo scritto che se fossi stato un afgano che aveva perso la famiglia, avrei preso a calci e pugni Robert Fisk – concludeva il suo pezzo dicendo che “bisogna avere il cuore di pietra per non mettersi a piangere dalle risate”. Ma Steyn è andato oltre. L’anno scorso ha scritto che gli attentati del 2007 a Londra e a Madrid erano “le prime avvisaglie di una guerra civile in Europa”.
SECONDO STEYN il continente europeo, invaso da una moltitudine di musulmani, nel giro di venti anni sarebbe tornato alla “preistoria”. In realtà in Europa vivono al momento 13 milioni di musulmani su una popolazione di 491 milioni di abitanti. Quindi le favole che si raccontano sull’islamizzazione dell’Europa sono, appunto, favole. Sarà pur vero che i musulmani fanno più figli, ma arrivare a credere che il loro numero possa decuplicarsi in pochi anni mi sembra francamente troppo. Credo sia per questo che tutti i crimini contro l’umanità vengono attribuiti ai musulmani. Ovviamente i musulmani – o, per lo meno, gente che s’è dichiarata musulmana – hanno fatto la loro parte in materia di crimini contro l’umanità e gli attentati dell’11 settembre 2001 rimangono l’esempio più atroce. Ma c’è da rimanere allibiti nel ricordare che all’indomani della strage compiuta a Oslo dal neo-nazista Anders Behring Breivik – che nel compilare il suo delirante “manifesto” proto nazista aveva attinto alle opere di Steyn – il The Sun titolò “Massacro di Al Qaeda: il 9 settembre della Norvegia”.
Inutile dire che gli “islamofobi”, dopo la rituale condanna del suo gesto, evitarono in larga misura di definirlo “terrorista” - espressione questa riservata ai musulmani – e preferirono bollarlo come “folle”. È lo stesso uso che fa Israele della parola “terrorista”. L’assassino di massa Baruch Goldstein, che nel 1994 massacrò 29 palestinesi a Hebron, fu sempre definito “disturbato” e mai “terrorista”. Il il suo gesto, come quello di Breivik, fu depoliticizzato e iscritto nella generica categoria della follia.
Nel 2006 a Bruxelles uno studente, Joe Van Holsbeeck, fu assassinato nella stazione centrale e derubato dell’MP3. Paul Belien, un giornalista cattolico di estrema destra (oggi consigliere del politico olandese Geert Wilders), pubblico’ un pezzo dal titolo “Dateci le armi”. I musulmani, scrisse Belien, sono “predatori che hanno imparato fin dall’infanzia a massacrare e uccidere”. Agli imam fu chiesto di consegnare l’autore dell’omicidio che, naturalmente, si riteneva fosse musulmano. Poi i giornali scrissero che gli autori del delitto erano polacchi. E poi – ancora peggio – Rom! Infine Ian Buruma scrisse che “l’aggressività è considerata un segno di autenticità e manifestare la propria rabbia una prova di integrità morale”. Quindi Belien, Goldstein, Breivik, Steyn e persino “Bernadette”, l’australiana che prevede la mia decapitazione, fanno bene a mostrarsi arrabbiati. Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 15.3.12
Wen: senza riforme politiche torna la Rivoluzione culturale
I conservatori sono all’attacco perché a ottobre si insedierà la nuova dirigenza del partito
Il monito del premier cinese: a rischio il progresso economico
di Ilaria Maria Sala


HONG KONG Se un analista politico dicesse che la Cina è a rischio di una «seconda Rivoluzione Culturale» di certo sarebbe preso per allarmista, poco informato della realtà del Paese, ormai modificata in modo perenne da 30 anni di riforme economiche. Ma se a dirlo è Wen Jiabao, nel discorso di chiusura dell’ultima Assemblea Nazionale del Popolo che lo vede primo ministro in carica? La Rivoluzione Culturale, lanciata da Mao Zedong nel 1966 e durata per dieci anni, rimane un argomento parzialmente tabù, dato che lo stesso partito politico che la scatenò è tutt’ora al potere.
Nel rivolgersi ai giornalisti cinesi ed internazionali ieri, alla chiusura del principale esercizio politico e legislativo annuale nazionale, in una conferenza stampa teletrasmessa al Paese, Wen però non ha lesinato le parole inquietanti, affermando con più decisione che mai che la Cina ha bisogno urgente di riforme politiche, in mancanza delle quali, per l’appunto, una nuova Rivoluzione Culturale non può essere esclusa. «Senza portare avanti le riforme politiche strutturali, è impossibile riuscire a costruire davvero le riforme economiche in modo strutturale, e quanto abbiamo guadagnato finora in questo campo potrebbe andare perduto», ha detto Wen, ed è inevitabile che il suo discorso sia stato visto come un attacco frontale alle fazioni maggiormente conservatrici del partito comunista cinese, impegnate in una lotta dietro le quinte per aggiudicarsi una sostanziale fetta di potere di qui a ottobre, quando verrà nominato il nuovo Politburo che governerà la Cina per i prossimi dieci anni.
Dietro al riferimento diretto all’epoca di Mao potrebbe esserci dunque un rifiuto delle politiche di Bo Xilai, il segretario di partito della municipalità di Chongqing, uno dei leader provinciali più noti e discussi per l’aver promosso una bizzarra «campagna rossa» che ha ridato attualità alle canzoni dell’epoca della Rivoluzione Culturale, ai suoi slogan incessanti, e a parte della sua iconografia grondante bandiere rosse, ufficialmente per cercare di ridare un senso di moralità politica al Paese. Proprio il mese scorso però la stella di Bo Xilai è sembrata spegnersi, dopo una misteriosa fuga verso il consolato americano del suo numero 2, il capo della polizia di Chongqing, Wang Lijun, attualmente detenuto. Lo stesso Bo sembra essere sopravvissuto allo scandalo, e il discorso pro-riforme di Wen probabilmente va letto in questo contesto. Congetture, ancora una volta, dato che malgrado un’apparenza più moderna, i meccanismi di funzionamento interni al Partito comunista cinese restano opachi e di difficile lettura.
Nel discorso di ieri Wen ha enfatizzato il bisogno di riforme politiche, non per la prima volta, ma è inevitabile notare come, nei dieci anni in cui è stato il Primo ministro, non abbia voluto, o potuto, portare avanti nessuna riforma significativa. Una volta di più, ha evitato di proporre misure concrete: davanti a un giornalista che chiedeva se ci saranno elezioni in Cina, ha risposto che queste stanno venendo introdotte in modo graduale, partendo dai villaggi nelle campagne, senza specificare però che questa riforma è in piedi dagli Anni Ottanta, e non ha fatto finora alcun progresso.
Poi, ancora una volta fedele all’immagine populista coltivata negli anni, Wen ha ribadito l’importanza di avere una società più equa, confermando una crescita dell’economia più lenta per l’anno in corso (+7,5%, secondo le previsioni), ma assicurando che il calo verrà controbilanciato dal diminuire dell’inflazione. Gli interrogativi rispetto alla prossima direzione politica della Cina rimangono, ma rispetto al proprio operato Wen ha solo detto che «sarà la storia a giudicare».

il Riformista.it 15.3.12
La crisi di coscienza di un compagno cinese
Wen Jaobao. Il premier uscente si emoziona parlando dei suoi errori. Chiede riforme politiche. Evoca il tabù della Rivoluzione culturale. E in controluce appare Zhao Ziyang, leader epurato nei giorni di piazza Tiananmen
di Andrea Pira


Riforme politiche o caos. Gira i pollici e quasi abbassa la voce il primo ministro cinese Wen Jiabao quando ammette che senza una riforma politica per il Paese sarà impossibile consolidare i risultati raggiunti negli ultimi anni, con il rischio di dover fronteggiare disordini. Peggio ancora, il premier ha paventato per la Cina una nuova Rivoluzione Culturale, evocando il decennio di caos scatenato nel 1966 da Mao Zedong e sfociato in una fratricida lotta per il potere e per la purezza ideologica.
Non è la prima volta che Wen parla di riforme. Lo fece nel ottobre del 2010, intervistato dalla Cnn, e prima ancora a Shenzhen, nel trentennale dell’istituzione della Zona economica speciale. Questa volta però la platea è quella della conferenza stampa di chiusura dell’annuale sessione plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo, massimo organo legislativo della Cina. L’ultima sessione di Wen nelle vesti di premier prima del cambio di leadership previsto per il prossimo autunno.
Nonostante il tono grave e l’ammonimento alla responsabilità affinché non si ripetano le tragedie del passato, mancano nel discorso del primo ministro indicazioni precise su quali siano le riforme da adottare. Nessun riferimento quindi a possibili svolte multipartitiche del sistema cinese. D’altronde già un anno fa l’agenzia ufficiale Xinhua aveva additato proprio il multipartitismo come una delle soluzioni che avrebbero fatto sprofondare la Cina in una seconda Rivoluzione Culturale.
Wen però tradisce commozione nel confessare di essere «dispiaciuto» per i problemi economici e sociali che il Paese ha attraversato nell’ultimo decennio. E dice di volersi «assumere la responsabilità» per gli ostacoli che la Cina ha dovuto affrontare durante i suoi nove anni di mandato. Da qui i passaggi sulla disparità nella distribuzione del benessere, sulla perdita di credibilità e sulla corruzione.
Sono i temi che lo hanno reso “nonno Wen” soprannome coniato per la sua vicinanza al popolo in difficoltà. Non è dato sapere se sentita o meno. Un’immagine costruita andando in prima linea nei soccorsi alle vittime del terremoto in Sichuan nel 2008, discutendo sui social network con i cittadini, facendosi paladino del rispetto dei diritti dei contadini espropriati. Ed è qui che nascono i dubbi sul personaggio spesso indicato come il riformatore opposto al più austero e conservatore presidente Hu Jintao.
Di Wen si ricorda la foto che nel 1989 lo ritrae giovane dietro l’allora segretario del Partito comunista, Zhao Ziyang che incontra gli studenti in protesta su piazza Tiananmen e che per questo fu epurato. Sulle pagine della rivista Beijing zhi chun, lo scrittore Chen Pokong tuttavia analizza come Wen fu in realtà l’uomo di fiducia di Deng Xiaoping incaricato di tenere d’occhio il liberale Zhao. Le attuali posizioni sarebbero quindi spinte da una sorta di rimorso per quando accaduto al segretario e a un volersi identificare con lui. Come Zhao però anche Wen sarebbe dovuto già essere sconfessato da un partito in cui le sue idee sembrano non trovare spazio. Questo non avviene; perciò, conclude Chen, si potrebbe anche ipotizzare che i due attuali leader della Cina siano protagonisti di una sorta di gioco delle parti. Non a caso lo scrittore dissidente Yu Jie, costretto a riparare negli Usa, ha dedicato al premier un libro intitolato Il più grande attore della Cina, in cui Wen è tacciato di ipocrisia.
Il passaggio più forte della conferenza stampa però è stato proprio l’aver evocato la Rivoluzione Culturale, tema ancora considerato tabù. Si è trattato, forse, di una stoccata a Bo Xilai, fautore di una strategia comunicativa dal sapore maoista. «Il Partito a Chongqing deve riflettere su quanto successo», ha poi aggiunto in riferimento al caso Wang Lijun, braccio destro di Bo nella campagna antitriadi nella megalopoli, che a febbraio cercò asilo nel consolato Usa per cause ancora da chiarire. Gettando così dubbi sull’astro nascente del Pcc.

La Stampa 15.3.12
La prima sentenza del tribunale internazionale fondato 10 anni fa
Bimbi-soldato in Congo Prima condanna all’Aja
Il capo ribelle Lubanga riconosciuto colpevole
di Glauco Maggi


NEW YORK Thomas Lubanga, capo del gruppo di ribelli di etnia Hema «Unione dei Patrioti Congolesi» (Upc), è stato riconosciuto colpevole dalla Corte Criminale Internazionale dell’Aja di aver reclutato bambini-soldati per uccidere gli appartenenti alla etnia rivale dei Lendus nel conflitto della regione Ituri, ricca di giacimenti auriferi, nel 2002-2003. E’ il primo verdetto emesso dal tribunale da quando è stato creato, dieci anni fa, ed è giunto dopo un processo durato tre anni, con una sessantina di testimoni. «La Camera di consiglio», hanno detto i tre giudici all’unanimità, «ha concluso che l’accusa ha provato al di là di ogni ragionevole dubbio che Thomas Lubanga Dyilo è colpevole del crimine di arruolare minori sotto i 15 anni nel FPLC (il braccio armato della Upc, ndr) e di usarli per partecipare attivamente agli atti di guerra». Tra il pubblico anche Angelina Jolie, che ha fondato una Ong per denunciare i crimini di Lubanga e raccontare il lavoro del tribunale.
Fondatore e presidente del suo movimento, 52 anni, laureato in psicologia all’università di Kisangani, sposato e con sette figli, Lubanga era stato arrestato dopo il conflitto e imprigionato nella capitale del Congo, Kinshasa. Ma in carcere ci andò solo dopo qualche tempo in un albergo agli «arresti domiciliari». Inseguito dall’ordine di arresto emesso dalla Corte, il primo della storia ad essere incriminato, era stato trasferito nel 2006 all’Aja, per il processo. Il procedimento inizò nel 2009, il procuratore capo Luis MorenoOcampo accusò il ribelle di aver «allenato i bambini, alcuni dei quali di 9 anni di età, ad ammazzare, saccheggiare e stuprare». Solo tra il febbraio e il marzo del 2003, l’Upc, con il concorso di 3 mila bambini-soldati, è ritenuta responsabile di aver distrutto 26 villaggi ammazzando 350 persone.
Come prove sono stati mostrati filmati in cui Lubanga arringava le sue truppe, tra le quali spiccavano i ragazzini. Il processo si è incentrato soltanto sull’aspetto dell’uso criminale dei minori, mentre i gruppi di attivisti per i diritti umani avevano fatto pressioni per allargare le indagini a tutti i reati commessi durante le razzie nella guerra dell’Ituri. Le stime sono di circa 50 mila morti e centinaia di migliaia di feriti ed esiliati.
Phil Clark, specialista di politica africana, ha commentato che si tratta «certamente di una pietra miliare per la Corte», ma si è stupito per il fatto che «Lubanga, in realtà, è un ufficiale di medio rango nel movimento in generale e una piccola pedina nel conflitto congolese. Moltissimi congolesi passati attraverso questo dramma non si capacitano che la Corte Internazionale non abbia perseguito sospetti di maggior livello, comprese personalità dei governi dell’Uganda e del Congo». «Credo anche che la Corte abbia aspettato troppo per arrivare alle sue conclusioni», ha aggiunto Clark. «E’ stato un procedimento che si è trascinato, e che ha corso il rischio di crollare in almeno tre occasioni, perché le indagini degli accusatori sono state molto deboli. Hanno dovuto fare affidamento su prove di terza mano, non avendo condotto indipendentemente proprie inchieste sul terreno».
Le udienze per fissare la sentenza si terranno nei mesi a venire, e i giudici dovranno decidere anche eventuali risarcimenti. Intanto, Lubanga ha 30 giorni per fare appello. "Diversi testimoni hanno raccontato di ragazzini arruolati per uccidere e saccheggiare villaggi"

La Stampa 15.3.12
Gramsci nella guerra dei mondi
Dalle illazioni sul “quaderno mancante” alla contrapposizione con Turati: un classico usato per regolare i conti del presente
di Angelo D’Orsi

qui

La Stampa 15.3.12
Ius culturae ma che cosa vuol dire?
di Marco Aime


Ci sono parole che usiamo normalmente, senza per forza riflettere sul loro significato originario. Un piccolo peccato da cui talvolta sarebbe bene emendarsi. Una di queste è il verbo naturalizzare, utilizzato per indicare la concessione della cittadinanza nazionale a uno straniero (processo in genere assai veloce se lo straniero è un calciatore). Naturalizzare significa «rendere naturale», riportare allo stato di natura, ma non c’è nulla di naturale in una nazione e nella sua appartenenza. La nazione è una creazione storico-politica degli uomini, destinata a mutare se non anche a sparire.
La concessione della cittadinanza è pertanto cosa umana, culturale e storicamente avviene secondo due principi generali: il ius soli, secondo cui chi nasce sul suolo di una nazione ne è automaticamente cittadino, come negli Stati Uniti o in Francia; il ius sanguinis per cui la cittadinanza dipende da quella dei genitori, vigente in gran parte dell’Europa, Italia compresa.
Alla luce del dibattito apertosi recentemente sulla concessione dei diritti agli immigrati, caldeggiata anche da Napolitano, il ministro per la Cooperazione internazionale e l’Integrazione Andrea Riccardi ha suggerito l’introduzione di uno ius culturae. «Quando si aderisce alla storia e alla cultura dell’Italia, bisogna poter avere il diritto di acquisire la cittadinanza italiana» ha detto il ministro. Si tratta di un tentativo lodevole, ma come applicarlo? E sarebbe poi davvero più giusto degli altri due modelli?
Cosa significa aderire alla storia e alla cultura italiane? Conoscere la storia? Sarebbe discriminatorio: quanti italiani la conoscono davvero? E anche studiando benissimo la storia di un paese, non significa aderire alla sua cultura. Posso conoscere perfettamente la storia del Giappone, ma non per questo sentirmi nipponico. E quando parliamo di cultura italiana, cosa intendiamo? «Che cos’è il tempo? Se nessuno m’interroga lo so. Se volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so» scriveva Sant’Agostino. Una risposta simile si potrebbe dare a proposito della cultura, entità quanto mai sfuggente e sfaccettata, tanto più in un paese come il nostro, attraversato da mille identità (il termine campanilismo esiste solo in italiano).
Personalmente mi sento culturalmente più vicino a un curdo o a un tibetano onesti che a un mafioso italiano. Inoltre, una cultura per essere davvero condivisa ha bisogno di rituali collettivi, cosa che ormai manca anche a noi italiani per nascita e per tradizione.
Perché per una volta non possiamo provare a fare le cose semplici e dire che è cittadino italiano chi chiede di esserlo e rispetta i valori e i principi della Costituzione e le leggi dello Stato? Un atto che, finalmente, potrebbe renderci tutti uguali sul piano dei diritti. Accontentiamoci di questo, sarebbe un gran passo avanti.

l’Unità 15.3.12
La storia e l’Enciclopedia Britannica on line
di Chiara Valerio


U n’enciclopedia cartacea diventa nell’istante esatto in cui viene stampata». Prima
di aprire il sito di Bbc News ieri pomeriggio non avevo mai sentito il nome di Jorge Cauz. Jorge Cauz è il presidente della società Enciclopedia Britannica e dopo 244 anni ha deciso di interrompere la pubblicazione cartacea dell’enciclopedia. L’ultima edizione rimarrà dunque quella del 2010, 32 volumi, circa 120.000 voci. Non un’opera monumentale quanto sembra a vedersela davanti agli occhi, se si pensa che le voci di Wikipedia sono circa 4 milioni. Mamma e papà hanno comprato la Britannica per me e le mie sorelle diversi anni fa, ogni anno arrivavano gli aggiornamenti, era un po’ come una festa comandata, ci chiedevamo sempre Ma cosa avranno aggiunto? Scommettevamo anche. Non vincevamo mai. D’ora in avanti la Britannica sarà solo online le voci sul sito sono aggiornate in tempo reale e in Dvd. Le motivazioni di Jorge Cauz e dei suoi consulenti sono quelle che immagino mentre leggo. Velocità dell’informazione, diffusione di tablet et alia sui quali scorrere rapidamente voci enciclopediche (?), il fatto che nel grafico a forma di torta delle entrate 2011 solo la fetta 15% portava l’etichetta «vendita enciclopedia cartacea». Capisco tutto e d’altronde l’articolo è giu-
stamente su «Bbc Business» e non sono nemmeno una persona troppo nostalgica. Tuttavia mi viene da pensare che per cancellare una riga scritta ci vuole un segno, per eliminare una linea su uno schermo invece basta premere un tasto. Così vorrei solo che, da qualche parte, la Storia, che pure è una parola che si sono inventati gli uomini e che quindi non esiste come ha scritto Vasilij Grossman rimanesse inchiostro su carta, potesse insomma portare memoria di tutte le cancellazioni. Da qualche parte.

l’Unità 15.3.12
Il ricordo del Migliore
Palmiro Togliatti stimava il prelato, tanto che scrisse un testo su don Giuseppe in occasione del primo anniversario della sua morte. In questa pagina dedicata a don De Luca ripubblichiamo quel testo, che apparve su «Rinascita» il 15 giugno 1963.
«Lui sacerdote io non credente»
di Palmiro Togliatti, da Rinascita


Con don Giuseppe De Luca io ebbi soltanto un certo numero di incontri. Non molti. Eppure bastarono a stabilire tra di noi una corrente che non era soltanto di comprensione e simpatia, ma di amicizia. Vi era qualcosa di comune, mi pare, negli orientamenti della nostra cultura. In questo senso, che entrambi avevamo vissuto, anche se partendo da posizioni diverse e con diverso punto di arrivo, la grande crisi e svolta del Novecento. Mi era sembrato strano, quando lo venni a conoscere, che la mente di quel sacerdote si fosse travagliata attorno alle stesse opere, agli stessi contrasti di idee e di costume, attorno al contenuto delle stesse riviste e rivistine, persino, che erano state l’oggetto del travaglio nostro, di Antonio Gramsci, mio, di altri giovani ora scomparsi, in anni da oggi tanto lontani. Mi è parso perciò di avere acquistato più Gli incontri
«Qualcosa di comune negli orientamenti della nostra cultura»
precisa coscienza, nel contatto con lui, del fatto che una generazione è qualcosa di reale, che porta con sè certi problemi e ne cerca la soluzione, soffre di non averla ancor trovata e si adopra per affidare il compito di trovarla a coloro che sopravvengono. E in questo modo si va avanti.
Ma eravamo approdati a diverse rive. Lui sacerdote, io non credente. Ed ora mi chiedo, ciò che conversando e discutendo con lui non mi ero chiesto mai, perché noi potessimo così ampiamente e liberamente comunicare e trovare contatto. È vero, questioni di religione non ne affrontavamo. L’ultima volta che ci vedemmo ci fu una certa malizia, da parte mia (avevo da poco letto i Trattati antimanichei, nella recente edizione che ne è stata fatta in Francia), nel citargli una espressione di Sant’Agostino, nella quale coglieva il germe e un germe ben dispiegato di dottrine hegeliane. Lasciò cadere. Non era quello il terreno su cui dovevamo confrontarci. E non era neanche quello della politica, nel senso ristretto, tradizionalmente chiuso, di questa espressione. La sua mente e la sua ricerca mi pare fossero volte, nel contatto con me, a scoprire qualcosa che fosse più profondo delle ideologie, più valido dei sistemi di dottrina, in cui potessimo essere, anzi, già fossimo uniti. Cercava e metteva in luce la sostanza della nostra comune umanità; lo interessava che vi fosse in noi una comune coscienza dei problemi che alla umanità si presentavano, oggi, in un momento così grave, così terribile della sua storia, come è il momento presente. Nel momento in cui ci attende o un nuovo inesauribile slancio di creazione, oppure la distruzione ad opera delle nostre stesse mani.
Ho sempre avuto la visione precisa ch’egli considerasse cosa certa che le fratture, gli abissi che oggi lacerano e contrappongono gli uni e gli altri, i gruppi sociali e le società umane saranno colmati. Penso sia normale, in un credente, questa aspirazione. Ciò che trovavo nelle sue parole era però anche la convinzione che per colmare questi abissi si può e si deve agire subito, e per agire subito, non basta essere vicini e conoscersi, ma bisogna comprendersi. E questo non è sempre facile. Richiede uno sforzo, uno scontro, talora, ma uno scontro che sia insieme ricerca comune di cose nuove. In questo modo io capisco, ora, e credo di collocare giustamente, nell’immagine che mi è rimasta di lui, quel suo acuto senso della realtà e quei suoi giudizi diretti, crudi, a volte persino violenti, e che colpivano in tutte le direzioni. Che non creavano una barriera, però, anzi, portavano a comprendersi meglio, creavano una condizione e un animo tali che consentivano di guardare assieme, lontano a mète comuni.
Conserverò in me sempre, profonda, circondata d’affetto e di venerazione, l’immagine di quest’uomo, la cui fiducia ferma nell’avvenire e nella salvezza dell’umanità ha dato maggior forza e tranqullità alla stessa fiducia che anch’io nutro.

l’Unità 15.3.12
È possibile prepararsi alla morte? Forse sì, forse no
Umberto Curi ci spiega in un saggio che si può essere terrorizzati e nello stesso tempo invocare la fine ultima
di Giseppa Cantarano


Alla testa del suo imponente esercito, mosso dalla curiosità, il re Serse vuole vedere dall’alto la più numerosa armata mai esistita, posta sotto il suo comando. Salito, durante una sosta, su un promontorio, si compiace nell’ammirare l’intero Ellesponto punteggiato dalle sue navi. E la retrostante e immensa pianura, interamente ricoperta dai suoi battaglioni. Ma dopo qualche istante racconta Erodoto -, la sua gioia si muta in cupo sconforto. E comincia inspiegabilmente a piangere. A chi gli chiede la ragione del suo contraddittorio comportamento, egli risponde: sì, un istante fa ero felice, mentre ora sono addolorato perché «mi è sopraggiunto un senso di commiserazione, al pensare quanto è breve nel suo complesso la vita umana, se di tutta questa enorme folla nessuno sarà in vita tra cento anni».
PIANGERE O RASSEGNARSI
Rattristarsi per la fragile caducità della nostra vita. Per la brevissima durata dei suoi giorni. Oppure rassegnarsi al fatto che la nostra vita è sempre accompagnata da disgrazie e sofferenze. Per cui, la morte scongiurerebbe ulteriori pene. Insomma, dovremmo rattristarci e versare lacrime come fa Serse per la fugacità della vita? Oppure prendere serenamente atto che la morte farebbe cessare le sofferenze che essa comporta? Apparentemente, sembrerebbero due opzioni opposte. Incompatibili. La prima quella simboleggiata da Serse considera negativamente la morte. Che mette fine ai giorni della nostra vita. Nella seconda, invece, è la morte ad essere positivamente valorizzata. Poiché ci libererebbe da quel male che è la nostra stessa vita.
In realtà ci dice il filosofo Umberto Curi (Via di qua. Imparare a morire, Bollati Boringhieri, pp. 236, euro 16,50 ) le due prospettive, sebbene possano risultare antitetiche ad un primo sguardo, condividono la stessa convinzione. Possiamo averne paura ed esserne terrorizzati e perciò fuggirla o, al contrario, invocarla in quanto metterebbe fine al «male di vivere». In un caso o nell’altro, ci rendiamo conto che la morte non solo non può essere separata dalla vita. Ma osserva Curi «ne definisce il senso e l’importanza, perché ne fa affiorare la sua più intima essenza. Deprecata perché segna la fine di quel bene supremo che è la vita precisa Curi o auspicata come termine ai mali di cui la vita stessa è intessuta, la morte è ciò che conferisce alla vita il suo significato più proprio».
È senz’altro vero, quello che sostiene Curi. Dobbiamo accettare la nostra finitezza. Non possiamo sbarazzarci della morte. Non possiamo affrancare il nostro corpo dai suoi limiti naturali. Soprattutto come afferma Luciano Manicardi, monaco della comunità di Bose «dal suo limite radicale, la morte» (Memoria del limite. La condizione umana nella società postmortale, Vita e Pensiero, pp. 141, euro 10,00 ). Resta tuttavia il fatto che noi non vogliamo morire. Che nonostante le innumerevoli riflessioni accumulate nel corso della storia, la morte continua ad essere per noi uno scandalo. Che ci terrorizza. E al quale non vogliamo rassegnarci. Certo che continua ad essere malgrado la sua odierna tecnicizzazione biomedica un evento naturale. Come la pioggia. Come il vento. Ma mentre alla pioggia, al vento ci siamo «abituati», al naturale evento della morte non ci abituiamo. È il solo evento biologico al quale non riusciamo ad adattarci, come diceva il filosofo Vladimir Jankélévitch (Bourges 1903 Parigi 1985) nel suo libro La morte (Einaudi, pp. 474, euro 28,00). Per questo, «prepararsi alla morte» resta un mito. Per questo è difficile «imparare a morire».

Corriere della Sera 15.3.12
Montaigne, l'uomo misura di tutte le miserie
«L'anima è fragile, i nostri sensi ci ingannano: non si può stabilire nulla di certo»
di Giorgio Montefoschi


N el secondo libro dei Saggi — che Bompiani presenta nella traduzione riveduta e aggiornata di Fausta Garavini, basata sul testo critico del 1998, stabilito da André Tournon — Michel Eyquem de Montaigne, avendo superato da un pezzo i quarant'anni, descrive fisicamente se stesso. Dice d'avere una corporatura robusta e forte, pur essendo di statura un po' sotto la media; un viso non grasso ma pieno; mani impacciate; indole fra il gioviale e il malinconico, moderatamente sanguigna e calda. «Le mie condizioni fisiche, insomma», conclude, «vanno molto d'accordo con quelle dell'anima. Non c'è nulla di vivace: c'è solo un vigore pieno e saldo».
Nacque, da nobili genitori, nel 1533, in una regione di confine fra la Guyenne e il Pèrigord. La sua infanzia, «governata in maniera dolce e libera», fu esente da rigorose soggezioni. Dai maestri del collegio di Bordeaux, nel quale entrò a sei anni, imparò presto il latino e le discipline umanistiche; dai contadini che vivevano attorno al castello di famiglia, la sapienza vera: che consiste nel seguire in tutto e per tutto la natura. Più tardi, studiò diritto; entrò nel tribunale di Bordeaux e ci rimase tredici anni; si ritirò, nel 1570, nella proprietà ereditata da suo padre, in cui riceveva persone importanti: persino il futuro re Enrico di Navarra; non si sottrasse — nella Francia devastata dalla guerra civile — a interventi politici e di mediazione; viaggiò, nei Pirenei e in Italia, anche per curarsi il «mal di pietra» (i calcoli) di cui soffriva moltissimo; fu eletto sindaco di Bordeaux (nel 1581) e rieletto una seconda volta; morì il 13 settembre del 1592: mentre preparava una nuova edizione dei suoi Saggi.
Queste, in estrema sintesi, le notizie biografiche di Montaigne: una biografia non ricchissima (che i lettori, volendo, potranno approfondire leggendo il volume di Sarah Bakewell, Montaigne, L'arte di vivere, recentemente pubblicato da Fazi). Del resto, la maggior parte del tempo della sua vita Montaigne la trascorse nel suo castello: nella torre d'angolo del suo castello. «A casa mia» scrisse, «mi ritiro un po' più spesso nella mia biblioteca, da dove comodamente governo la mia casa. È di forma rotonda con un solo lato dritto, tre finestre di ampia e libera prospettiva. Mi piace che sia un po' inaccessibile. Sotto di me vedo il giardino, la corte, il cortile e tutte le parti della casa. Qui sfoglio ora un libro, ora un altro, senz'ordine e senza programma, come capita; ora fantastico, ora annoto e detto, passeggiando, queste mie idee». I suoi autori preferiti (possedeva mille libri: un numero ragguardevole per l'epoca) erano Ovidio e Virgilio, Cicerone e Tacito, Platone e San Paolo, gli amatissimi Seneca e Plutarco — in particolar modo Plutarco, perché in ogni episodio della storia vedeva l'uomo. Ma Montaigne non aveva una buona memoria; presto dimenticava quello che aveva letto. Così, tratte dai libri di questi autori, sulle travi del soffitto, aveva fatto scrivere alcune frasi. Per esempio, questa di Euripide: «Come puoi considerarti un grande uomo, quando basta il minimo incidente di percorso per atterrirti?». Oppure, questa frase tratta dalla Storia naturale di Plinio il Vecchio: «La sola certezza è che niente è certo e che nulla è più misero e superbo dell'uomo».
L'uomo, e soltanto l'uomo, con le sue incertezze e le sue paure, le sue debolezze e le sue passioni, la sua viltà e il suo coraggio, la sua pazienza e la sua insofferenza, il piacere e il dolore, è il protagonista dei Saggi. Dio, in questo meraviglioso libro tagliente e morbido, sfuggente e netto, continuamente modificato e arricchito, è completamente assente. Certo, un essere supremo dotato di ragione e armonia deve aver creato l'universo e l'uomo, e noi ne vediamo i segni; ma al di là di quei segni, al di là delle nostre immaginazioni terrene, di questo essere supremo noi non possiamo sapere nulla. Dio è inconoscibile. Pensare di conoscerlo è il «prodotto di una straordinaria ubriachezza dell'intelletto umano». Pitagora, che più di ogni altro s'era avvicinato alla verità, riteneva che «la cognizione di questa causa prima, di questo essere degli esseri, doveva restare indefinita, non stabilita, non dichiarata: che essa non era altro che l'estremo sforzo della nostra immaginazione verso la perfezione». L'uomo in realtà, non sa nulla. La sua presunta sapienza — come ci ricordano l'Ecclesiaste e San Paolo — non è altro che un travaglio e un tormento che ci fa sprofondare negli abissi infernali. «L'uomo più saggio che ci sia mai stato, quando gli fu domandato che cosa sapeva, rispose che sapeva di non sapere nulla». Eppure, siamo figli di Dio, di questo essere sconosciuto; e una scintilla del suo «divino sapere» la possediamo fin dalla nascita. Per riconoscerla, dobbiamo farci umili e ignoranti, diventare «semplici». Gli uomini veramente sapienti sono come le spighe di grano: «Esse si elevano e si innalzano, la testa dritta e fiera, finché sono vuote; ma quando sono colme e piene di grano nella loro maturità, cominciano a diventar umili e ad abbassare il capo. Hanno rinunciato alla loro presunzione e riconosciuto la loro condizione naturale».
Dove conduce la sapienza «semplice»? In primo luogo a considerare che il bene più prezioso è la salute: la sola cosa «che meriti in verità che uno vi dedichi non solo il tempo, il sudore, la fatica, ma anche la vita per ottenerla; poiché senza di essa la vita viene a esserci penosa e fastidiosa». In secondo luogo — ma in pratica nello stesso momento — a non guardare davanti, bensì dentro noi stessi. Guardando dentro noi stessi, scopriamo molte più verità di quante non immaginiamo; e impariamo tantissimo. Scopriamo, per esempio, che se facciamo come gli animali i quali, nel momento in cui decidono di ritirarsi nella loro tana cancellano le tracce davanti alla tana, subito diventiamo padroni della nostra vita e non abbiamo più bisogno dei falsi o illusori giudizi del mondo: perché «non è per mostra che la nostra anima deve rappresentare la sua parte, ma nel nostro intimo, dove nessun occhio penetra se non il nostro». Scopriamo che siamo fatti di anima e di corpo: «Che la nostra intelligenza, il nostro giudizio e le facoltà della nostra anima in generale soffrono secondo i movimenti e le alterazioni del corpo», tanto che se la salute ci arride o il sole splende siamo amabili, laddove se solo un alluce ci duole diventiamo corrucciati e intrattabili. Scopriamo che, al pari della natura, che è in perpetuo mutamento, anche la nostra anima è in perpetuo mutamento, scossa dal dubbio, preda dei sentimenti, fragile «come un fragile scafo sorpreso sul mare da un vento furioso»; scopriamo che i sensi ci ingannano; che mai si può stabilire nulla di certo, perché «non c'è alcuna esistenza costante, né del nostro essere né di quello degli oggetti. E noi e il nostro giudizio, e tutte le cose mortali andiamo scorrendo e rotolando senza posa». Infine, scopriamo il sentimento innato che ci lega agli esseri e alle cose che popolano l'universo: «Perché noi non siamo né al di sopra né al di sotto del resto: tutto quello che è sotto il cielo è sottoposto a una stessa legge e a una stessa sorte… Le anime degli imperatori e dei ciabattini sono fatte su uno stesso stampo… Il modo di nascere, di nutrirsi, di agire, di muoversi, di vivere e di morire delle bestie è simile al nostro… Gli animali sono molto più regolati di quanto siamo noi, e si tengono con maggior moderazione entro i limiti che la natura ha prescritto»: dunque, scopriamo e impariamo che «è più sicuro lasciare alla natura, che a noi, le redini della nostra condotta».
La moderazione è la maggiore delle virtù. Questo lo impariamo a poco a poco — e per il nostro vantaggio — esercitandoci (talvolta con fatica, dal momento che virtù «facili» non esistono) in tutto ciò che umanamente significa la parola moderazione. Vale a dire: nel saper ascoltare piuttosto che nel prevaricare quando conversiamo; nel saper cogliere le novità e le diversità quando viaggiamo; nel saper riconoscere che non c'è piacere disgiunto dal dolore; nel saper godere dei nostri sensi, senza lasciarci travolgere dai nostri sensi; nel saper accettare la giovinezza e la vecchiaia; nel saper «trattenere l'anima fra i denti», perché, come diceva Seneca «la legge di vivere, per la gente dabbene, non è di vivere quanto a loro piace, ma quanto devono»; nel non avere paura della morte; nel saper affrontare serenamente la morte.
Montaigne era ossessionato dalla idea della morte. Il suo libro — sul quale sono state scritte biblioteche — da molti, quasi da tutti, è stato definito un autoritratto: il breviario laico di un uomo che in definitiva non vuole far altro che specchiarsi, che parlare di se stesso, felice della sua vita. Invece è qui, proprio qui, che sta la sua straordinaria bellezza, insieme alla inquietudine che produce: nell'essere un autoritratto e nello stesso tempo — come intelligentemente suggerisce Fausta Garavini — una galleria di specchi in cui non si riflette un solo ritratto, bensì una folla di ritratti, quanti corrispondono alle infinite nature sempre mutevoli, sempre cangianti degli esseri umani. E nell'essere, certamente, un breviario laico rassicurante, un breviario laico che infonde saggezza, ma anche, e soprattutto, un libro in cui il suo Autore cerca aiuto e conforto: nei libri e nelle parole di saggezza che gli altri libri contengono e parlano della vita e della morte, nei volti dei suoi simili sui quali sono incisi i segni della vita e della morte, negli esempi della storia che raccontano la vita e la morte. La sua prosa — che Montaigne a torto disprezzava, ritenendola aspra e sregolata, molle e fiacca — questa oscura, dolcissima, incerta, inafferrabile, fluttuante marea che è la vita, non fa altro che riprodurla con la giusta ansia; e la giusta imprecisione. Non a caso, una grande ammiratrice di codesto flusso era Virginia Woolf.

Corriere della Sera 15.3.12
La rivincita degli introversi nel mondo sommerso dalle parole
di Cristina Taglietti


Introversi, il mondo ha bisogno di voi. Anche se voi cercate la solitudine, se ogni volta che uscite vi sentite prosciugati, se non amate i lavori di gruppo o il multitasking. Sappiate che non sempre il mondo premia gli estroversi. È stato timido Albert Einstein, lo è stata Rosa Parks che rifiutandosi di cedere il posto a un bianco in autobus ha innescato una rivoluzione. Lo è anche Steven Spielberg. E lo è Susan Cain, laureata ad Harvard, ex avvocato di grandi aziende americane, autrice di un libro intitolato «Quiet: the power of introverts in a world that can't stop talking» (il potere degli introversi in un mondo che non può smettere di parlare) con cui, a dispetto della conclamata timidezza, ha conquistato le copertine dei grandi giornali americani e inglesi, dal Time al Guardian.
La tesi è molto semplice: l'introversione (tratto della personalità individuato da Carl Jung in opposizione all'estroversione ed esposto nel 1921 in Tipi psicologici) non è un handicap, non è un difetto, non è un problema anche se, per esempio, ci sono, online, una Clinica della timidezza o una Lega Italiana per la tutela dei diritti degli introversi (Lidi, fondata da Luigi Anepeta che al tema ha dedicato un libro pubblicato da Franco Angeli).
Il mondo, insomma, non è (solo) nelle mani di chi ha la battuta sempre pronta, di chi ama circondarsi di persone e, magari, essere al centro della scena, anche se diversi studi hanno dimostrato che l'estroverso è in genere considerato più sveglio, più piacente, più interessante, più desiderabile, vincente in quasi tutti i campi lavorativi. Tranne che in letteratura dove, anche senza essere d'accordo con l'affermazione tranchant di Emile Cioran secondo cui «la timidezza, fonte inesauribile di disgrazie nella vita pratica, è la causa diretta, anzi unica, di ogni ricchezza interiore», il ripiegamento su sé stessi ha dato vita a capolavori indiscussi, basti pensare ad autori come Leopardi, Svevo, Pavese, Cechov, Orwell, Proust, Salinger. Insomma, ci si può sentire forti e potenti anche se si è introversi, ma la letteratura difficilmente ne trarrebbe giovamento.

Repubblica 15.3.12
Le parole o le cose
Tra postmoderno e realismo la filosofia non è più in crisi
Dal dibattito di questi mesi, che ha mostrato la vitalità di una disciplina, è nato il saggio di Maurizio Ferraris
È un "Manifesto" che cerca di superare le tesi della "svolta linguistica"
Restano alcune zone critiche nel testo, come il rapporto con il desiderio
di Roberto Esposito


Sul presupposto di partenza del Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris (Laterza, pagg. 113, euro 15) – il cui contenuto è già ben noto ai lettori di queste pagine – si può senz´altro convenire. Si tratta della convinzione che alla fine del ventesimo secolo la filosofia contemporanea abbia ruotato intorno al proprio asse, assumendo una diversa inclinazione. Quella che ha mostrato la corda è l´eredità filosofica della cosiddetta "svolta linguistica" dei primi decenni del Novecento, incentrata intorno al primato trascendentale del linguaggio. Che a tale primato si attribuisse una connotazione analitica come in area anglosassone, ermeneutica in Germania o decostruttiva in Francia, l´idea che sottintendeva tale concezione era il carattere linguistico dell´intera realtà. Da qui una conseguenza di tipo dissolutivo, che investiva non solo il reale, risolto in una serie di narrazioni prive di riscontro oggettivo, ma anche la filosofia stessa, dichiarata dai suoi stessi esponenti finita o quantomeno in perenne crisi. Sfuggendole in linea di principio la presa sull´oggetto, essa non poteva rivolgere la propria attitudine critica che a se stessa in una sorta di perenne autoconfutazione. In queste condizioni, si può dire, essa riusciva ad affermarsi solo negandosi. Piuttosto che elaborare – come suo compito – nuovi concetti, si limitava a smontarli, in una proliferazione di domande senza risposta. È a questa situazione, per così dire bloccata, che il Manifesto intende reagire.
Ma la tesi più suggestiva di Ferraris è che la necessità di muovere in una direzione diametralmente opposta – quella appunto di un "nuovo realismo" – si origini non dal fallimento, quanto dal successo della prospettiva postmoderna del primato dell´interpretazione sui fatti. Il superamento dell´oggettività – già proclamato da Nietzsche, fatto proprio da Heidegger e riproposto diversamente da Foucault – non avrebbe portato ad un´emancipazione dai vincoli oppressivi di una verità totale, ma alla configurazione di quella società dello spettacolo il cui frutto avvelenato è il populismo mediatico diffuso nelle nostre democrazie. Da qui l´esigenza che, dall´inizio degli anni Novanta, ha condotto l´autore ad abbandonare il paradigma ermeneutico a favore di un confronto diretto con il reale sul triplice terreno dell´estetica, della teoria della conoscenza e dell´ontologia sociale.
Questa la prospettiva del libro, proposta con l´intelligenza brillante e caustica cui Ferraris ci ha da tempo abituati. Molte le pagine che risultano convincenti, e anche equilibrate, a favore di quello che egli stesso definisce un "realismo modesto", ancorato alla distinzione tra epistemologia ed ontologia. Realismo, egli sostiene, non equivale né a scientismo, né, tantomeno, al vecchio positivismo. Esso non nega che vi siano oggetti socialmente costruiti, ma solo che tutti lo siano. Così come non contiene alcuna apologia dello stato di cose esistente. Solamente che, per poterlo criticare, è necessario prima conoscerlo "oggettivamente". Accertare qualcosa nella sua radice ontologica non vuol dire, per questo, accettarla supinamente. Anzi è la condizione preliminare per poterla, eventualmente, trasformare. I controeffetti di slogan apparentemente liberatori come quello dell´immaginazione al potere sono del resto sotto gli occhi di tutti: spesso sono stati proprio essi ad impedire, nel loro entusiasmo utopistico, un intervento critico nei confronti della realtà.
Detto questo, la tesi profilata dall´autore si presta ad una serie di critiche e di domande che aspettano una risposta. Innanzitutto l´idea che oggi sarebbe venuto meno ogni effetto impositivo da parte dei dispositivi di verità è tutta da provare. La battaglia, dagli esiti tuttora incerti, contro il fondamentalismo cattolico, per esempio sul piano della bioetica, lascia pensare piuttosto il contrario. Così come l´ascrizione, operata da Ferraris, della rozza ideologia di Bush, e dei suoi consiglieri neo-con, al pensiero postmoderno può lasciare interdetto il lettore. Ed è, poi, vero che la semantica del desiderio, connessa alle ragioni del corpo, riconduce all´arcaico, alla infanzia, alle Madri? Come osserverebbe l´intera scuola lacaniana, Ferraris sta confondendo il desiderio – sempre connesso alla legge e al limite che questa impone – con il godimento. Non a caso le nostra società soffrono di una mancanza crescente di desiderio, quanto più sono sottoposte all´imperativo di godere senza limiti.
Ma la questione di fondo che la prospettiva di Ferraris apre è per me ancora un´altra. Ed è relativa al superamento della svolta linguistica di cui si diceva. Il realismo, per quanto nuovo, ne è davvero fuori o non è che lo spostamento dall´una all´altra della sue polarità interne? Non riprende, con altri argomenti, la polemica che Carnap aveva, da un punto di vista logico-realistico, rivolto al decostruzionismo di Heidegger? Non resta dentro il perimetro definito dall´avversario che combatte? Detto in altre parole, la rivendicazione dell´autonomia dell´oggetto presuppone necessariamente, come contraltare logico, quella del soggetto che pure intende contestare. Io credo si tratti di capire qual è il trascendentale, vale a dire la categoria costitutiva, che, nel pensiero e nella realtà – difficilmente separabili, visto che il pensiero non soltanto nasce sempre dentro una data realtà, ma a sua volta produce realtà – ha sostituito il linguaggio negli ultimi decenni, se non ancora prima. La risposta che una parte significativa della cultura filosofica internazionale ha dato a questa domanda è che si tratta della categoria di vita, nella sua relazione complessa con la politica e la storia.
Cosa deve intendersi qui per "vita"? Non certo un impulso irrazionale o, tantomeno, una forma mascherata di volontà di potenza, ma esattamente il superamento di quella contrapposizione tra soggetto e oggetto che ha condizionato la filosofia postkantiana trattenendola al di qua di una certa soglia epistemica. Da questo punto di vista autori come Nietzsche, e tanto più Foucault, indicano una direzione in singolare risonanza con quella linea di pensiero che è stata definita Italian Theory. Si tratta della rottura delle classiche bipolarità tra soggetto e oggetto, natura e storia, prassi e tecnica. Oggi, sia nel campo della filosofia continentale che in quello della filosofia analitica, i programmi di ricerca più promettenti sono proprio quelli situati nella zona di indistinzione, o di oscillazione, tra poli che un tempo apparivano reciprocamente incompatibili. Mai come in questa stagione quelle che sembrano, e di fatto sono, invariabili della natura umana vengono sussunte e, per così dire, mese al lavoro, storicizzate, modificate, dalla tecnica in una forma difficilmente riducibile al contrasto tra interno ed esterno o soggetto e oggetto.
L´individuazione del rapporto tra potere e sapere – implicita, ad esempio, nel concetto foucaultiano di "dispositivo", ma anche in quello, gramsciano, di "egemonia" – non ha nulla a che vedere con l´idea che "il potere ha sempre ragione", o con la proclamazione retorica di un contropotere, se non altro perché ogni forma di potere implica di per sé una resistenza. Ciò non solo non è estraneo ad un atteggiamento realistico – è anzi al centro del grande realismo politico da Machiavelli in poi – ma consente di ripensare la soggettività in chiave conflittuale. Non esiste un soggetto unico, contrapposto al proprio oggetto. Il confronto – ed anche lo scontro – che insieme unisce e divide gli uomini verte sulla relazione insolubile di realtà e pensiero, natura e storia, tecnica e vita. Rispetto a tutti questi problemi, ovviamente aperti, il Manifesto di Ferraris permette di aprire una discussione franca e vivace.

il Riformista.it 15.3.12
Colpisce prima Cupido oppure l’ormone?
Un’analisi dell’Università di Stanford in California è andata ad indagare l’origine dei sentimenti umani. E ha cercato di scoprire la predisposizione a provarli che ha ogni persona.
di Pierluigi Smith


Chicago. Ormai è possibile giudicare anche quanto una persona sia innamorata di un’altra. Lo dimostrano i risultati di una nuova analisi condotta dal dipartimento di scienze cognitive e neuropsichiatriche dell’università di Stanford in California.
In una conversazione con il Riformista, Brent Hoff, l’ideatore dell’esperimento e il regista di un fortunato cortometraggio sull’argomento, “The Love Competition”, grazie al quale il progetto è giunto all’attenzione del vasto pubblico, racconta: «A molte persone l’idea che i sentimenti umani possano essere spiegati tramite uno studio scientifico di reazioni chimiche non piace perché sottrae un certo romanticismo all’idea stessa di “amore”. Dobbiamo però ricordarci che in fondo siamo simili a tutti gli altri animali e reagiamo anche noi rispondendo a istinti dettati dal funzionamento ormonale. Ti faccio un esempio: in un famoso esperimento due colonie di arvicole (un topo di campagna) nonostante vivessero a poco più di duecento metri di distanza ostentavano comportamenti sessuali antitetici. Il primo gruppo, denominato “di montagna”, si distingueva per la condotta promiscua dei suoi membri. Quelli appartenenti al secondo gruppo invece, qualificato come “di prateria”, privilegiava un solo partner. Come spiegare questa differenza? I ricercatori hanno dimostrato che l’ormone della dopamina, presente nel gruppo promiscuo e assente in quello dei monogami, è la causa principale di questi comportamenti discordi».
Per gli uomini è lo stesso. Secondo i ricercatori di Stanford, infatti, la grande maggioranza dei sentimenti umani legati all’empatia, all’attrazione, alla fiducia reciproca e più in generale a tutte quelle reazioni che in società sono comunemente denominate come “amore”, sono determinate da quattro ormoni fondamentali: come nel caso delle arvicole l’ormone della dopamina al quale si aggiungono quello dell’ossitocina, della serotina e infine quello della vasopressina. Semplificando, questi componenti, variando la propria presenza determinata sia da fattori esterni sia dai processi individuali nella zona del cervello nota come NAC determinano l’abilità di un individuo di innamorarsi con più o meno “profondità”.
Per dimostrare la propria tesi i ricercatori hanno usato sette persone di entrambi i sessi tra i dieci e i 75 anni. Ai volontari, prima dell’inizio dell’esperimento, è stato chiesto di scrivere “l’oggetto del desiderio” con cui avrebbero stimolato il proprio cervello nel tentativo di produrre gli ormoni “dell’amore”. La macchina che ha poi registrato il livello ormonale è stata l’MRI (tomografia a risonanza magnetica), uno scanner in grado di monitorare le attività del cervello grazie ai più di mille fotogrammi al secondo che è capace di scattare.
Se si dovesse tirare a indovinare ci si aspetterebbe che più una persona ha esperienza di vita (e si spera dunque in amore), maggiori sono le possibilità che sia in grado di pensare a un qualcuno da amare. Da un lato è stato proprio così perché Kent, un uomo di 75 anni, sposatosi tre giorni dopo aver incontrato la sua futura moglie è risultato il volontario con «maggior propensione a innamorarsi». C’è però una sorpresa. Il secondo posto è stato ottenuto da Milo, un ragazzo di 10 anni, che ha sviluppato livelli di flussi ormonali ben maggiori della giovane e ben curata ragazza di 23 anni con un fidanzato fisso, del 55enne connoisseur della vita, o del trentenne che a distanza di un anno da quando ha lasciato la sua ragazza la considera ancora l’amore della sua vita.
Dunque per essere in grado di innamorarsi non basta aver vissuto a lungo; ma, secondo quanto sembra suggerire l’esperimento, bisogna avere una certa predisposizione individuale. «La ricerca conclude Brent fa vedere che non sono gli ormoni a determinare i sentimenti ma è il contrario: sono le straordinarie capacità di alcuni esseri umani, alimentate da emozioni di diversa intensità, a far produrre gli ormoni dal nostro corpo. A volte, come nell’esperimento, basta il solo ricordo di una storia passata o un amore lontano».

il Riformista.it 15.3.12
Come è erotico Platone. Ma c’è una ragione
Raccontando il rapporto con l’amore che hanno avuto i grandi pensatori nel loro vissuto, lo spagnolo Manuel Cruz arriva a definirlo una “invenzione”, che la cultura e la storia ogni volta ridisegnano
di Corrado Ocone


Se la scienza spiega l’amore, la filosofia è amore. È a questa antica sapienza greca che forse bisogna ritornare. La filosofia dai greci è identificata con Eros, essere ancipite (e ambiguo) per definizione perché vive nella tensione di raggiungere un quid che non potrà mai interamente possedere. L’amore non è una proprietà, nemmeno del soggetto. Non è un possesso, ma uno stato dell’essere. Basterebbe partire da questa consapevolezza per mettere in scacco ogni tentativo oggettivante dell’amore da parte del pensiero, sia esso quello della metafisica sia quello della scienza.
Particolarmente ridicoli sono gli scienziati che, come i ricercatori di Stanford, riducono i sentimenti d’amore a una chimica o a una meccanica di neuroni, ormoni, combinazioni. Non perché questo modo di agire, seguendo i parametri della logica naturalistica, non possa avere qualche sua funzione pratica. Ma perché in esso non c’è la consapevolezza di quel limite che la scienza non può superare, pena trasformarsi in una mistica e non in una conoscenza. La mistica del dato, che è stata del peggior positivismo e che a volte ritorna col perverso gioco di specchi che si realizza fra ricerche in laboratorio, finanziamenti alla ricerca, inseguimento di effetti mediatici. Limite che è anche capacità di riconoscere che il dato scientifico viene dopo e non prima di quell’apertura (storica) dell’essere che ci costituisce e che è già di per sé amore, tensione.
Il filosofo spagnolo Manuel Cruz, autore di un bel libro sul rapporto con l’amore dei grandi filosofi, è consapevole di tutto ciò. Il volume, che esce in italiano con lo strano titolo L’amore filosofo (Einaudi, pagine 244, euro 25), è perciò rivolto a scandagliare non in astratto le idee sull’amore dei filosofi, ma le loro concrete esperienze amorose. Come hanno vissuto le loro storie d’amore, ovvero come hanno amato in concreto Platone stesso e i suoi successori. Certo, il rischio è di cadere nel banalismo di alberoniana memoria, nell’intimismo e nello psicologismo. Ma non può non essere corso. L’idea di Cruz è che l’amore sia una “invenzione”, nel senso che è la società e la cultura dei tempi a ridisegnarlo ogni volta. Con il necessario corollario che l’amore come è oggi, nella nostra tarda età borghese, si porta dietro non solo le concrete esperienze amorose del passato ma anche le elaborazioni intellettuali delle stesse. Gli autori scelti da Cruz hanno sottolineato, cioè isolato e esagerato, ognuno degli aspetti che leghiamo a questo sentimento: l’energia e l’espansione delle forze vitali (Platone), il senso di colpa cristiano (Agostino), la passione erotica (Abelardo), la necessità (Spinoza), l’impossibilità (Nietzsche), la sperimentazione di nuove pratiche (Sartre), la fusione appassionata (Arendt), l’amore come risultato di pratiche sociali e di rapporti di potere (Foucault). Questa pluralità di modi di essere e di considerarsi dell’amore, complicato dal suo intrecciarsi con l’istinto sessuale, ne segnano il carattere di ambiguità, come si diceva, ma anche di evanescenza.
Eppure, è da chiedersi: non c’è forse in questo istruttivo e raffinato modo di affrontare il tema amore sub specie filosofica ancora un residuo di intellettualismo? Come se l’amore aspettasse il filosofo per portare all’idea ciò che già da sempre è. E siamo poi così sicuri che sia l’amore a risentire delle effettività storiche e non sia piuttosto la storia a darsi come quell’ apertura di amore che ci sorregge in vita.
C’è un motivo su cui si è spesso insistito: l’irrazionalità e assurdità dell’amore. Vladimir Jankélévitch, forse il massimo filosofo della quotidianità del secolo scorso, che alla dialettica dell’amore ha dedicato belle pagine, ha scritto: «L’amore senza ragione di amare trova nella sua stessa assurdità una causa necessaria e sufficiente!» (nell’intervista con Béatrice Berlowitz, appena edita da Einaudi a cura di Enrica Lisciani Petrini: Da qualche parte nell’incompiuto, pagine 215, euro 22). Ma è chiaro che l’irrazionalità di cui qui si parla non è l’opposto del logos, bensì la condizione di possibilità di ogni possibile.