lunedì 19 marzo 2012

l’Unità 19.3.12
Intervista a Roberto Gualtieri
«Ora progressisti uniti per un’altra Europa»
L’europarlamentare del Pd: «Crescita e democrazia, la svolta è possibile Le polemiche sono provinciali, dobbiamo essere orgogliosi di quanto fatto»
di Simone Collini


Dice Roberto Gualtieri che dopo la stagione del riformismo nazionale socialdemocratico e la terza via di Blair, a sinistra si può aprire la fase di un nuovo «europeismo progressista»: «Non è vero che il modello sociale europeo è destinato a essere superato. Ma la condizione per il suo rilancio è la costruzione dell’Europa politica». La dichiarazione di Parigi è un primo passo in questa direzione. E l’europarlamentare del Pd, che è tra gli autori del documento sottoscritto sabato da Bersani, Hollande e Gabriel, non esita a parlare di un «evento storico»: «Per la prima volta è emersa l’unità del fronte progressista su un terreno europeista inedito rispetto al tradizionale vocabolario socialdemocratico».
Al documento di Parigi hanno lavorato la Feps e altre fondazioni, però ora bisognerà vedere che uso ne farà la politica, non crede?
«La scommessa della Feps si è rivelata vincente, basta vedere il grande rilievo che l’operazione ha avuto sulla stampa internazionale e la qualità delle presenze. Non aver saputo costruire una piattaforma comune europeista nel decennio passato, quando la sinistra era al governo nella maggioranza dell’Ue, è una delle ragioni che ha portato a questo lungo ciclo conservatore. Ora emerge un programma comune che rende concreta la prospettiva di una svolta in Europa».
In Italia si è discusso soprattutto, dopo che Follini e altri hanno firmato un documento critico, dell’opportunità per il Pd di lavorare con i socialisti e di sostenere Hollande invece del democratico Bayrou: non era prevedibile? «Sono polemiche provinciali. La notizia non è che il Pd sostiene Hollande, che è piuttosto una banale ovvietà visto che il Pd al parlamento europeo sta con i socialisti francesi e non con il Modem di Bayrou, che peraltro ha una posizione del tutto marginale nelle presidenziali francesi, in cui il confronto è tra Hollande e Sarkozy. Cedere all’ossessione del dibattito interno può portare a sostenere posizioni poco serie e proporre scelte di marginalizzazione, quando invece il Pd ha l’ambizione di essere protagonista nell’operazione che deve portare a una svolta nella politica europea dopo il fallimento del ciclo conservatore». Se la notizia da Parigi non è l’appoggio a Hollande, quale sarebbe allora? «Che emerge una piattaforma fortemente europeistica nella quale si propone un’Ue più forte e più democratica e misure concrete per coniugare stabilità e crescita. Il documento di Parigi è molto rigoroso sulla disciplina di bilancio ma anche ambizioso sulla costruzione di strumenti per lo sviluppo e l’occupazione, che è quello che non riesce ai conservatori. Più che fare polemiche dovremmo essere orgogliosi: per le standing ovation che hanno accolto i discorsi di D’Alema e Bersani (che ha rivendicato l’originale identità del Pd), e perché dopotutto non è un caso che l’intera operazione rechi il marchio del Pd, visto che è stata promossa non dal Pse ma dalla Feps».
Il Pd sostiene Hollande, che vuole rinegoziare il “Fiscal compact”, e sostiene Monti, che quel trattato di stabilità ha firmato: non c’è una contraddizione? «A Parigi Hollande ha chiarito che per lui rinegoziare non significa venir meno al rigore e allentare i nuovi vincoli europei alle politiche di bilancio. Ha detto che la Francia non ratificherà il trattato se esso non verrà completato con misure per la crescita e la solidarietà. Mi sembra una posizione non solo perfettamente compatibile con la firma del governo italiano, il quale giustamente dice che la disciplina di bilancio è un valore e allo stesso tempo chiede misure per la crescita, ma utile da punto di vista dell’interesse dell’Italia, che vista la situazione dei mercati non può porre con la stessa forza questo aut aut».
L’esito del voto francese può influire sul percorso del dopo-Monti? «Costruire un’alleanza vasta dei socialisti e dei democratici, per rinnovare e allargare il fronte progressista europeo è la missione del Pd, al di là delle singole competizioni elettorali».
Se vince Hollande è più facile per il Pd esprimere il candidato premier?
«Non ci sono automatismi, ma è chiaro che la vittoria di Hollande renderebbe più credibile il progetto politico del Pd e rafforzerebbe la sua legittima aspirazione a guidarlo».

l’Unità 19.3.12
Intervista a Marco Follini
«La strada di Hollande  non è quella del Pd»
Il senatore democratico critica l’iniziativa di Parigi: «Non siamo la sezione italiana del Pse. Non condivido l’attacco al Fiscal compact, firmato da Monti»
di S. C.


Avenue Hollande non è la strada del Pd». Marco Follini è tra i firmatari di un documento critico nei confronti del sostegno del Pd al candidato socialista per le presidenziali francesi. E anche la cosiddetta dichiarazione di Parigi sottoscritta da Bersani insieme allo sfidante di Sarkozy e al segretario della Spd Gabriel convince poco il senatore Pd: «Il nostro partito non è e non può diventare la sezione italiana del Pse. È nato ed è stato costruito su presupposti diversi. Ed è utile che quei presupposti restino punti fermi». Non li si mette in discussione se si partecipa a una manifestazione e si sostiene un candidato che propone la rinegoziazione del patto di stabilità, non crede? «Il Fiscal compact non sarà l’undicesimo comandamento, ma quel trattato porta la firma del presidente del Consiglio Monti e condiziona l’agenda del governo che noi sosteniamo in Parlamento con il nostro voto. Fare di quel trattato il bersaglio di una manifestazione non mi sembra una grande trovata».
A Parigi però è stato chiarito che il punto non è cancellare il trattato ma integrarlo con misure per la crescita. «Questo tema c’è ed è bene che ci sia. In tanti siamo consapevoli che un’Europa votata solo al rigore e alla disciplina di bilancio ha respiro corto e che gettare le basi di un processo di crescita dell’economia è una priorità. Ma ci sono tanti modi di corrispondere a quella priorità».
E quanto detto a Parigi da Bersani, Hollande e gli altri non va bene?
«Non demonizzo le cose dette a Parigi. Penso però che l’orizzonte del Pd sia più largo. Chiudersi nella trincea del socialismo europeo è un errore strategico. È in crisi sia il modello liberista che un’alternativa socialista ritagliata all’interno di quella dialettica. Siamo dentro un passaggio cruciale, e occorre starci con idee innovative. Se la sfida è sulla novità ci siamo. Se è su vecchie appartenenze, la mia idea è e resterà diversa». Cioè che si debba sostenere Bayrou, quando i sondaggi dicono che la partita si gioca tra Hollande e Sarkozy? «Io diffido sempre di scelte istruite all’interno dei sondaggi. Le campagne elettorali sono importanti perché aprono a scenari nuovi. Hollande, a leggere il suo programma, si è caratterizzato come il candidato di una sinistra che tassa di più e spende di più. E non può essere questo il riferimento programmatico di un partito come il Pd. Detto questo, la scelta è dei francesi. Capisco che la campagna si sta internazionalizzando, ma non credo che l’Italia possa essere il luogo in cui Ppe a destra e Pse a sinistra si propongono come stelle polari di un bipolarismo che si sta spegnendo anche nelle nostre contrade».
Lo dirà perché c’è un esecutivo sostenuto da forze storicamente alternative, ma Bersani sostiene che si tratta di un governo di emergenza e che poi si tornerà al confronto politico. «Non si può chiudere questo governo dentro una parentesi. Tutti diciamo che dopo Monti nulla sarà più come prima. Vuol dire che abbiamo fatto punto e a capo rispetto alle strategie dei mesi passati».
Cioè dice che nel 2013 non ci sarà uno schieramento di centrosinistra contro uno di centrodestra?
«Sono cartelli elettorali che abbiamo ampiamente superato, noi e gli altri. La crisi di rapporto tra Pdl e Lega è profonda. E noi non possiamo certo immaginare, dopo Monti, di allearci con le forze che hanno fatto opposizione al governo che noi abbiamo sostenuto».
Se in Francia vincessero i socialisti e in Germania si archiviasse definitivamente l’ipotesi della Grosse Koalition, sarebbe complicato fare in Italia un nuovo governo di larghe intese, non crede?
«Ogni paese dà sue risposte alla sua storia e alle sue difficoltà. Trarre la nostra politica meccanicamente dai modelli degli altri paesi è un’operazione troppo schematica. E poi ricordiamoci, in Francia c’è una tradizione repubblicana che impone di mettere al bando le forze più estremiste e in Germania, guarda caso, i socialdemocratici ad un certo punto hanno preferito governare con la Cdu piuttosto che allearsi con la sinistra. Non lo dico per segnalare modelli da imitare, ma per provare che ogni paese ha diritto a interpretare a modo suo la storia che sta vivendo».

l’Unità 19.3.12
Il cortocircuito di Repubblica
di Francesco Cundari


A differenza non solo dell’Unità, ma anche di Corriere della Sera, Stampa, Messaggero, Giornale e Libero, sulle pagine di Repubblica la manifestazione di Parigi non ha trovato ieri alcuno spazio. La ragione di una simile scelta editoriale meriterebbe di essere discussa.
Il lancio del primo manifesto programmatico comune delle maggiori forze progressiste europee, nel pieno della decisiva campagna per le presidenziali francesi, non può infatti non apparire a tutti una notizia. E scarteremmo anche l’ipotesi che il motivo dell’oscuramento stia in una pregiudiziale avversione di Repubblica per François Hollande o per Sigmar Gabriel. Non resta dunque che una spiegazione di carattere più generale.
Il fatto è che da tempo sui giornali, anche quelli di area progressista, si insiste molto sul tema dell’inadeguatezza dei partiti, sempre più spesso chiamati in causa come tali, senza distinzioni. Sono lontani, purtroppo, i tempi in cui a sinistra s’inorridiva al solo sentir pronunciare frasi come «rossi o bianchi sono tutti uguali...». Bei tempi in cui a simili luoghi comuni si replicava con le parole di Nanni Moretti: «Ma dove siamo, in un film di Alberto Sordi?».
Il trionfo politico e antropologico dell’italiano-tipo interpretato da Sordi è stato in questi anni assoluto e definitivo, anche nella cultura di sinistra. Toni e argomenti di questo nuovo “qualunquismo progressista” sono diventati così il cavallo di battaglia di chi sostiene la necessità di un perpetuo commissariamento della politica, in nome del «vincolo esterno» rappresentato dall’Europa. Ma la tesi di un’anomalia della politica italiana nel Vecchio Continente mal si concilia con l’immagine di Parigi, dove il segretario del Pd è protagonista alla pari con gli altri leader europei di uno sforzo comune per cambiare le politiche dell’Unione. Il cortocircuito con certe campagne di stampa è quindi duplice. Perché quell’immagine smentisce non solo l’idea che solo un governo tecnico sarebbe capace di confrontarsi con i duri vincoli europei. Ma smentisce anche e forse soprattutto l’idea che quei vincoli non possano essere cambiati.

l’Unità 19.3.12
Fornero: faremo la riforma anche senza il sì dei sindacati
È scontro sull’articolo18
Monti non forzi. La via si fà più stretta
di Guglielmo Epifani


La possibilità di un accordo sul tema del mercato del lavoro si è allontanata dopo che nei giorni scorsi si era aperto qualche spiraglio. Sono riapparsi problemi di merito tutt’altro che secondari, a partire dalle tutele in materia di licenziamenti senza giusta causa (ma non solo da queste).
C’è però un’evidente questione di metodo che sta condizionando negativamente il confronto e rischia seriamente di farlo naufragare. Quando si avvia un negoziato tra governo e parti sociali c’è un punto che non può mai venir meno: la fiducia reciproca che quello che si sta facendo è una scelta impegnativa che riguarda tutti allo stesso modo. Anche quando, e può capitare, il confronto non porta a un accordo condiviso. Il governo questa scelta non l’ha mai fatta con chiarezza, di volta in volta aprendo sia a una compiuta logica negoziale sia al suo opposto: cioè procedere in modo unilaterale. Naturalmente ogni governo ha la piena libertà di questa scelta, ma non ne può fare due opposte contemporaneamente perché così, aldilà del merito, si assume la responsabilità del fallimento. Fa parte di questa contraddizione la stessa ripetuta fissazione di un termine perentorio per la fine del negoziato. Che senso ha nel quadro di oggi legare questo alla missione nei Paesi orientali del presidente del Consiglio? Tanto più che i giorni persi sono stati conseguenza di una richiesta del governo di avere tempo per trovare le risorse pubbliche necessarie per il finanziamento dei nuovi ammortizzatori sociali... L’ostacolo fondamentale per l’accordo risiede comunque nel merito che, fermo restando il bisogno di avere un quadro più compiuto delle scelte del governo sui singoli punti dell’agenda, ancora vaghi su più di un aspetto, si può riassumere così: poco rispetto all’ambizione di ridisegnare una profonda riforma degli ammortizzatori sociali di tipo europeo, soprattutto per l’assenza di risorse come era stato abbondantemente detto; poco nella riduzione della precarietà rispetto al bisogno di semplificare realmente le oltre 40 tipologie contrattuali esistenti; tanto, tantissimo, nella riduzione delle tutele contro i licenziamenti ingiustificati e nello stravolgimento dell’articolo 18.
L’asimmetria è troppo evidente anche nell’ottica riformista di valorizzare ogni progresso portato nelle condizioni di precari e lavoratori oggi privi di ogni tutela, e di ragionare sulle cose che vanno aggiustate sui licenziamenti, tanto più che si fa riferimento a un modello tedesco citato da aziende e governo in modo del tutto parziale e di comodo. In questo modo la «riformetta», come è stata chiamata dall’insospettabile Corriere della sera, diventa una vera e propria controriforma in tema di licenziamenti, nel momento in cui l’innalzamento dell’età di pensione apre problemi inediti a lavoratori e aziende.
C’è poi un elemento che il governo dovrebbe valutare con attenzione. Una riforma non condivisa potrà forse far gioire qualche giornale anche internazionale, ma porta inevitabilmente a conseguenze più delicate. Innanzitutto una rottura sociale che non sarà occasionale, che avrà conseguenze per le aziende, e che riguarderà sia i profili giudiziari sia nel tempo quelli contrattuali. In secondo luogo si aprirà un inevitabile contenzioso sulle forme della traduzione legislativa delle scelte del governo. Come si può giusticare un decreto legge su materie che non hanno urgenza di tempi o di provvedimenti? Ma anche la scelta della delega senza un accordo si presta a tante obiezioni di metodo e opportunità. Infine finirà la luna di miele col governo nel nome dell’emergenza e della responsabilità se la lesione ai diritti dovesse essere confermata.
Nei giorni scorsi contro l’intervento del governo spagnolo in tema di licenziamenti si sono mobilitati tutti i sindacati spagnoli fino alla proclamazione dello sciopero generale. E lì governa il centrodestra che ha vinto le elezioni. In Francia dentro una campagna per le elezioni presidenziali ispirata a molta concretezza di proposte e programmi un punto chiave oppone i due candidati: per Sarkozy bisogna governare senza il coinvolgimento delle parti sociali nel nome di un’idea di democrazia referendaria e diretta; per Hollande al contrario si deve continuare a coinvolgere l’insieme dei corpi intermedi nel nome di una democrazia sociale. La scelta che Monti farà, lo si voglia o no, finirà per avere anche un significato politico.

Repubblica 19.3.12
La mossa di Cgil, Cisl e Uil Contro-proposta sull´articolo 18 con l’appoggio a sorpresa del Pd
Oggi vertice fra i tre leader. Bersani: la via è il modello tedesco
di Roberto Mania


Ieri giornata di mediazioni con la regia di Bonanni: "Non facciamoci distruggere"
I Democratici vanno incontro alla Camusso: sbagliato aver detto che c´era l´intesa tra i partiti

Uscire dall´angolo e mettere il governo davanti a un bivio: o l´accordo con le parti sociali sul mercato del lavoro, oppure lo scontro. Di fronte a quella che si prospetta come una vera e propria débacle sindacale, Cgil, Cisl e Uil hanno deciso di provare l´ultima mossa, la "mossa del cavallo", secondo una consumata strategia negoziale: presentarsi all´appuntamento di domani a Palazzo Chigi con un documento unitario sull´articolo 18.
Una mossa per sparigliare, per far emergere la reale volontà del governo Monti all´accordo, ma anche una resa dei conti al proprio interno. Una mossa per sopravvivere. E a favore di questa operazione ha lavorato, non solo ieri, il Partito democratico. Perché Pier Luigi Bersani sa benissimo che senza una soluzione condivisa dai sindacati su un tema socialmente esplosivo come quello dei licenziamenti il suo partito rischia un ulteriore scollamento con la base elettorale. E a maggio ci sono le amministrative.
Oggi ci sarà un vertice tra i tre leader confederali, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Non era in calendario. È stato convocato ieri sera al termine di una giornata convulsa, intensissima di contatti telefonici. Regista: Raffaele Bonanni. Mentre Susanna Camusso è rimasta molto sull´Aventino, dopo aver portato la Cgil, per la prima volta, a considerare l´ipotesi di un intervento sull´articolo 18. Si è progressivamente convinta infatti che il governo non voglia l´accordo perché consideri molto più spendibile in termini di credibilità internazionale la sconfitta dei sindacati. Tanto che al "tavolo di Milano" di sabato scorso, il segretario della Cgil ha alzato tatticamente il prezzo fino al punto di chiedere l´estensione del nuovo articolo 18 anche ai lavoratori delle piccole imprese che oggi non ce l´hanno. Emma Marcegaglia, il ministro Elsa Fornero e lo stesso Bonanni sono rimasti basiti. Il leader di Via Po, invece, è convinto che stare fuori dalla riforma del mercato del lavoro significhi «distruggere il sindacato italiano». Vorrebbe dire che dopo aver subìto, senza colpo ferire, la riscrittura del sistema pensionistico, si accetterebbe passivamente anche quella sul lavoro «la nostra prerogativa più intima», sostiene. Ed è stato lui a parlare nei giorni scorsi ripetutamente con Bersani, impegnato a Parigi con i progressisti europei; è sempre stato lui a contattare ieri il responsabile economico del Pd Stefano Fassina. Per rincollare tutti i cocci.
Si è costruito così un inedito asse Cisl-Pd per riportare dentro il gioco pure la Cgil. Sospettosa nei confronti del Pd. A Corso d´Italia si pensa che Bersani, come gli altri due leader di partito, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini, sia andato oltre le proprie competenze politiche quando al vertice della scorsa settimana con il premier Monti ha concordato la soluzione pure sul mercato del lavoro. «Un pasticcio», dicono sottovoce gli uomini più vicini al segretario della Cgil. Al di là dei toni cortesi, una telefonata di Bersani alla Camusso non sembra affatto aver schiarito il quadro. E che questo sia il motivo del raffreddamento tra Cgil e Pd lo conferma lo stesso Bersani nei ragionamenti che ha fatto in questi giorni con diversi interlocutori: «E´ stato un errore dire che al vertice era stato fatto l´accordo sul lavoro. L´accordo si fa al tavolo negoziale».
L´errore, il leader democrat, lo imputa - va detto - al governo. Ma Bersani dice pure - abbracciando davvero l´ultima mossa di Cgil, Cisl e Uil - che «il governo si trova davanti a una alternativa: o accettare il "modello tedesco" oppure quello della deregulation americana. E l´impressione è che dentro l´esecutivo ci sia ancora qualcuno che sia tentato dallo strappo finale». Il "modello tedesco", dunque. Dovrebbe essere questo il perno della proposta di Cgil, Cisl e Uil. Ma non è detto che la Camusso abbia tutti gli spazi di manovra giacché la sinistra cigiellina con la Fiom di Maurizio Landini in testa l´accusa di non avere alcun mandato a trattare la modifica dell´articolo 18. Sentiero strettissimo, sempre di più dopo la rottura alla Fiera di Milano. La maggioranza della Cgil aveva definito finora a una soluzione che solo parzialmente aderisce al "modello tedesco". Una svolta comunque per la Cgil, prevedendo che di fronte a un licenziamento individuale per motivi economici o organizzativi senza giusta causa fosse il giudice a decidere tra il reintegro nel posto di lavoro o il pagamento di un indennizzo monetario al lavoratore. Ma questo è solo un aspetto perché il "modello tedesco" stabilisce che allo stesso criterio siano sottoposti i licenziamenti disciplinari. Oggetto sul quale si è consumata la rottura tra il governo e i due sindacati, la Cgil e la Uil di Luigi Angeletti, perché la Fornero ha limitato il ricorso al giudice solo per questi, stabilendo invece l´indennizzo per i licenziamenti economici. Bonanni pensa a una mediazione: inserire tra le norme che il giudice deve considerare prima di emettere la sentenza anche quelle contrattuali che sono frutto degli accordi firmati dai sindacati. E´ una strada in salita ma percorribile. Cgil, Cisl e Uil hanno 24 ore di tempo per rialzarsi dal tappeto. Ma se dovessero trovare un accordo «sarebbe allora il governo - dice il laburista Fassina - a doversi assumere la responsabilità di dirigersi verso Madrid anziché verso Berlino».

La Stampa 19.3.12
Il timore di Bersani: la Cgil sull’Aventino
Il segretario del Pd: saremmo costretti a votare una riforma più dura
di Fabio Martini


Quella notte le ultime parole del presidente del Consiglio ai tre leader di partito erano state così chiare da apparire conclusive: «Sì, sul mercato del lavoro la cosa migliore è trovare un accordo». Nella notte tra giovedì e venerdì, il grande patto sociale sembrava ad un passo e invece, curiosamente, dal momento in cui Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini si sono congedati da Mario Monti, via via tutto è diventato più complicato. Certo, i tre sindacati confederali non hanno gradito l’" interferenza" dei partiti. Certo, la Fiom è tornata a far pressing sulla Cgil, insistendo sui veti a qualsiasi modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In parole povere, è partito il gioco al rialzo dei sindacati. Ma in questo tourbillon, anche il governo non è restato immobile: nelle dichiarazioni pubbliche e nei colloqui informali, Monti e i suoi ministri di punta non hanno escluso che ci si possa spostare dal minimo comun denominatore avallato giovedì notte dai tre partiti, in particolare l’intesa sui licenziamenti, nella versione alla " tedesca".
Nulla di formale, ma nei pourparler tra governo e leader sindacali sono tornate a circolare ipotesi diverse e più hard, che potrebbero scattare in caso di mancato accordo: per esempio quella di cancellare la possibilità di ricorso al giudice nel caso di licenziamenti per cause disciplinari, lasciando la sola opzione dell’indennizzo economico. Di più: nelle ultime 48 ore è tornata a circolare l’ipotesi di cancellare completamente il " 18" per i nuovi assunti e lasciarlo intatto per coloro che sono già " garantiti". Vere, verosimili o fantasiose che siano, queste ipotesi hanno messo in serio allarme il partito e il leader che più rischiano in questa vicenda: il Pd e Pier Luigi Bersani, che temono lo scenario di una Cgil sull’Aventino, col partito democratico “costretto” ad avallare una riforma “tosta” del mercato del lavoro. In qualche modo la prova di questa preoccupazione sta nelle parole di un moderato come Peppe Fioroni: «Il peggiore accordo sarà sempre migliore di qualsivoglia decisione assunta in solitudine dal governo. Se il tavolo delle parti sociali dovesse rompersi, il governo può essere tentato dall’idea di non fermarsi a quanto concordato assieme ai partiti e all’80 per cento delle parti sociali. Se il governo immaginasse di fare il gioco del “più uno”, appoggiandosi su una posizione più radicale della Cgil, si comporterebbe in modo irresponsabile». Al quartier generale del Pd fanno notare che una eventuale rottura sulla questione-lavoro «aprirebbe una stagione più conflittuale su tutti gli altri dossier».
Ma è così? A palazzo Chigi assicurano che la stella polare di Monti era e resta la stessa: fare l’accordo con tutti. Monti vuole a tutti i costi una riforma di sistema, dunque degli ammortizzatori e dei contratti di lavoro, una riforma che gli consenta di presentarsi a testa alta alla prova finale dei mercati. E la vuole - ecco il punto - costi quel che costi: anche in termini finanziari, il presidente del Consiglio pare sia disposto a qualche ulteriore concessione (sul fronte degli ammortizzatori) pur di chiudere un accordo con tutti, da Confindustria fino alla Cgil. Certo, «l’ideale sarebbe che dalla Cgil arrivasse alla fine un sì con riserva, che consentirebbe alla Camusso di reggere meglio l’urto della Fiom... ». E la prova di questa volontà del governo sta nella decisione di fissare un incontro, fissato informalmente, per questa mattina tra il ministro del Welfare Elsa Fornero e i tre sindacati confederali. Un incontro particolarmente significativo, perché deciso all’ultimo momento e perché precede di 24 ore quello tra il governo e tutte le parti sociali. Nel vertice la Fornero dovrebbe chiarire senza equivoci fino a dove si vuole spingere il governo sulle diverse questioni e dunque aprire la strada all’auspicato disgelo nel vertice di domani presieduto da Monti.

l’Unità 19.3.12
La politica decorativa
di Massimo Adinolfi


Politica e malaffare, giustizia e corruzione: le prime pagine dei giornali tornano a ingrossarsi di inchieste giudiziarie, di scandali e avvisi di garanzia, indagini e sospetti (un po’ meno di sentenze). Dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno torna la rappresentazione dell’Italia corrotta.
Come ai tempi di Tangentopoli, siamo tutti quotidianamente in attesa dei «prossimi sviluppi». La nuova narrazione di cui l’Italia a detta di molti avrebbe bisogno rischia di essere ancora una storia trita e ritrita. Ovviamente non è il caso di sottovalutare il fenomeno della corruzione. Poiché però sue tracce si trovano anche nella Bibbia, in Esiodo e in Dante, non sarà inutile porsi qualche domanda: po’ per storicizzare e per capire. E fare così un passo oltre la sacrosanta indignazione.
La domanda che vorremmo fare è la seguente: i fenomeni corruttivi, gli abusi di potere e le ruberie sono la causa della disaffezione dei cittadini e della crisi della democrazia, oppure la crisi della democrazia è non si dirà la causa, ma almeno una delle cause della corruzione dilagante? Non chiediamo se viene prima l’uovo o la gallina. Un conto è pensare che le istituzioni democratiche sono deboli per l’assalto di un esercito di cavallette voraci; un altro è pensare che la debolezza dei sistemi democratici dipende invece da processi economici e finanziari che li tengono sotto tiro e li svuotano della loro sostanza. Nel primo caso, ciò di cui si ha bisogno è un’opera di disinfestazione; nel secondo, di una cura ricostituente. Magari poi occorrono l’una e l’altra cosa, ma è bene sapere da dove cominciare.
Ora, non sono poche le analisi che negli ultimi trent’anni, in forme e modi diversi, ci mettono dinanzi a una diagnosi tutt’altro che rassicurante sullo stato di salute della democrazia. Ma il punto è che tutte queste disamine non cominciano affatto dagli appetiti di una classe politica autoreferenziale e corrotta, ma da cose come la globalizzazione, il peso delle nuove potenze emergenti come la Cina o il Brasile, la finanziarizzazione dell’economia, la rivoluzione tecnologica nel mondo dei media, e così via. È più ragionevole ipotizzare allora che lo scadimento della vita politica sia conseguenza di simili processi, piuttosto che di malefatte e ruberie (che pure ci sono, e che non vanno affatto sminuite nella loro gravità). E che se la politica viene percepita come distante o scollata dalla realtà, ciò dipende dal fatto che i politici si fanno gli affari loro, ma ancora di più dipende dal fatto che non hanno più gli strumenti per fare gli affari di tutti.
C’è dell’altro. Quanto maggiore è la disaffezione, tanto più si fa strada un’idea dei compiti della politica in termini di risposte a domande, idea che la priva della dimensione fondamentale dentro la quale la politica democratica si è andata costruendo nel corso del ’900. Questa dimensione legittimante si può indicare nei termini della costruzione di una cultura storico-nazionale. Quando questa cultura è viva e innerva la politica, è essa ad assegnare anzitutto i compiti: non per paternalismo ma per senso di appartenenza. Quando invece viene meno, alla politica rimane poco da fare per elevarsi sopra la mera rappresentanza degli interessi. I quali, di conseguenza, si restringono sempre più, fino a coincidere con quelli della stessa classe politica.
Se le cose stanno così, si può provare a ribaltare, in maniera un po’ provocatoria, i luoghi comuni in cui oggi immancabilmente si infila la discussione pubblica. Si dice: politica ed affari devono essere separati; i partiti non devono ricevere soldi pubblici; non devono nominare né dirigenti Rai né primari d’ospedale; devono star fuori da fondazioni bancarie e consigli di amministrazione. Tutto vero, tutto giusto. Ma domandiamoci ora non cosa la politica debba o non debba fare ma «come», attraverso quali leve, debba fare quel che deve fare. Non si tratta di posti, ma di politiche pubbliche e degli strumenti per realizzarle, buoni abbastanza da resistere a condizionamenti di altra natura. Sospetto che senza di ciò alla politica rimarrà solo una funzione decorativa o cerimoniale. Una politica da suppellettile. Naturalmente nessuno si augura di finire sotto i ferri di un chirurgo che è in sala operatoria grazie a una tessera di partito piuttosto che per meriti. Ma bisogna evitare che in sala operatoria non ci si arrivi proprio e che per togliere il raccomandato dall’ospedale qualcuno non pensi che si faccia prima a togliere direttamente l’ospedale.
Pensiamo allora tutto il male possibile dei partiti macchine di potere, come disse Berlinguer nella famosa intervista dell’81. C’era un aspetto di verità nella denuncia della questione morale, e una tensione etica, che è semplicemente irrinunciabile. Ma per scongiurare i partiti macchine di potere evitiamo per favore di ritrovarci con partiti finti, cioè impotenti, e dediti per questo al solo cabotaggio clientelare. Se no continueremo giustamente a dare loro addosso ma i potenti, loro, continueranno a starsene indisturbati da un’altra parte.

l’Unità 19.3.12
Cresce il non voto
L’elettore è «in apnea» tra sfiducia e crisi
Aumenta l’area dell’astensione. E ovviamente i più colpiti sono Pd e Pdl, i partiti maggiori. Si sta perdendo il nesso tra la politica e la rappresentazione degli interessi sociali: un fenomeno iniziato da tempo che però si accentua
di Carlo Buttaroni


Tra crisi e sfiducia l’elettore è come in «apnea» e così aumenta l’area dell’astensione. E ovviamente i più colpiti sono il Pd e il Pdl.
La curva della partecipazione continua a puntare verso il basso e l’area del consenso ai partiti si riduce sempre più. È questa, anche a marzo, la sintesi dei risultati dell’indagine realizzata da Tecnè.
Un’emorragia di consensi che riguarda innanzitutto Pd e Pdl e che si riversa, prevalentemente, verso l’area dell’astensione. Prendendo come riferimento le politiche del 2008, a fronte del 28,8% di elettori in uscita dai due principali partiti, nessuna formazione evidenzia flussi in entrata particolarmente significativi. Le performance migliori, in termini di consensi, sono quelle dei partiti che non erano presenti alle scorse elezioni politiche. Anche per queste forze, però, il saldo inevitabilmente positivo, non è tale da far presagire un sicuro successo.
Una situazione che rende azzardata qualsiasi ipotesi che riguarda gli esiti futuri di un possibile confronto elettorale. Una parte di indecisi e di elettori oggi orientati verso l’astensione potrebbe scegliere di recarsi alle urne il giorno delle elezioni. E ne basterebbero due su dieci per rovesciare la geografia politica che emerge dalle stime più recenti, realizzate (è bene tenerlo sempre presente) usando come base di calcolo soltanto chi dichiara il partito che voterebbe.
Le stime di questi ultimi mesi, quindi, più che lette come una tendenza, devono essere interpretate all’interno di uno scenario di forte cambiamento, che si distacca dalla tradizionale competizione destra/sinistra, e che ruota, prevalentemente, intorno alla scelta di votare o astenersi.
Un processo iniziato da anni, accelerato dalla crisi economica, che ha progressivamente dato corpo a uno scenario nuovo, il cui protagonista non è più «l’elettore incerto» che per anni ha ispirato la comunicazione politica dei partiti, ma «l’elettore in apnea» che non vede più i partiti tradizionali come i soli interlocutori in grado di dare risposte ai problemi legati alla sua quotidianità.
L’elettore incerto era di confine tra le diverse aree politiche e in cerca di risposte, e faceva la differenza tra un successo o una sconfitta nel momento in cui si sommava allo «zoccolo duro» del consenso più stabile e fedele. L’elettore in apnea al quale l’innalzamento della complessità sociale prima e la crisi poi, hanno tolto ossigeno non formula più domande alle quali i partiti non sembrano in grado di rispondere, soffre un deficit di riferimenti nel momento in cui i partiti hanno perso anche il tradizionale radicamento territoriale e tende ad auto-organizzarsi nel cercare le risposte più adatte ai suoi problemi contingenti.
Uno scenario completamente nuovo rispetto al passato, quindi, che si evidenzia nella progressiva trasformazione delle basi sociali dei partiti. Storicamente la sinistra aveva un consenso radicato nella classe lavoratrice di livello medio-basso, tra gli insegnanti, tra i disoccupati e tra chi viveva un disagio di natura economica e sociale. La destra, al contrario, aveva la sua base elettorale nel ceto imprenditoriale, tra i lavoratori dipendenti di fascia media e medio-alta e tra i commercianti. Per molti anni, in passato, il comportamento politico ha riflettuto, in qualche modo, il profilo sociale del Paese e quelli che erano i suoi bisogni.
Negli ultimi vent’anni la corrispondenza tra collocazione sociale e collocazione politica si è andata sempre più affievolendo, dando spazio, progressivamente, a nuove forme di relazione, determinate dalla stabilità sociale o, al contrario e più appropriatamente dall’instabilità. La dislocazione lungo l’asse centro/periferia sociale oggi non corrisponde più a una gradazione politica e al conseguente voto a un determinato partito, ma è subordinata alla scelta iniziale se andare a votare oppure no.
Le Politiche del 2008 sono indicative sotto questo punto di vista. Un’indagine realizzata da Tecnè all’indomani delle elezioni ha rilevato che la partecipazione al voto tra i cittadini con uno status sociale alto è stata del 94% mentre tra quelli con uno status sociale basso soltanto del 60%. Sempre nel 2008 il centrodestra ha avuto sostenitori soprattutto tra gli artigiani e i commercianti, tra i lavoratori autonomi e i pensionati. La base del voto del centrosinistra è stata, per molti versi, complementare: dipendenti pubblici, dirigenti, insegnanti. Per entrambi gli schieramenti, quindi, il consenso è arrivato da elettori socialmente più stabili e integrati.
Con la fine della Seconda Repubblica e l’accelerazione imposta dalla crisi economica, rispetto alle politiche, lo scenario ha preso una forma in cui la discriminante ruota quasi esclusivamente intorno all’astensione. Lo zoccolo duro dei partiti è ulteriormente assottigliato e la base del consenso ai partiti è prevalentemente rappresentata dai cittadini con uno status sociale medio-alto e alto, mentre la spinta anti-partitica, sostenuta dai disoccupati e dalle più insicure e precarie fasce di lavoratori di livello medio-basso e basso, si orienta verso l’astensione.
La crescita dell’area del non voto non è un abbandono della dimensione politica da parte dei cittadini ma la manifestazione del progressivo allontanamento tra la «società felice» e la «società delusa». E infatti gli elettori astensionisti e incerti non sono tutti di destra, così come non sono tutti di sinistra, ma li unisce una visione del futuro incerta, una forte precarietà, un’evidente contrarietà verso le diverse forme di esercizio politico espresse dai partiti ormai incapaci di intercettare le nuove istanze di stabilità sociale.
È anche per questi motivi che l'argomento che riguarda le differenze tra cultura di Destra e cultura di Sinistra almeno rispetto a come la storia, la tradizione e la società ci hanno abituati a intenderle e, pertanto, a riconoscerle ha perso interesse. La crescente complessità delle società, generando di continuo nuovi ruoli sociali, inevitabilmente favorisce il moltiplicarsi d’identità provvisorie, rendendo gli elettori meno sensibili a richiami ideologici univoci e dati una volta per sempre. Si è affermata la convinzione che alcuni ambiti siano tecnicamente neutri e dunque abbiano bisogno di un terreno altrettanto neutro all’interno del quale esprimersi. È soprattutto nell’ambito economico che le differenze sembrano sfumare peraltro molto più sulla scelta dei mezzi che nella determinazione degli obiettivi dando luogo a un’offerta politica, formata da «pacchetti di issues» variabili nel tempo e da contesto a contesto, che difficilmente possono essere ricondotti a differenti correnti di pensiero.
La crisi politica è figlia della crisi che sta investendo il nostro Paese. Ma nonostante i partiti siano al centro di una «tempesta perfetta» faticano a diventarne consapevoli e sembra che nulla sia accaduto o che tutto debba ancora accadere. In realtà tutto sta già accadendo e la fase di forte instabilità è destinata a protrarsi fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio sociale e politico. E come tutti i processi sociali ciò avviene attraverso quattro fasi: stabilità; rottura dell’equilibrio; adattamento; nuovo equilibrio. In questo momento ci troviamo nel secondo stadio e lo scenario pone questioni inedite che impone ai partiti di sapersi ripensare e riprogettare, lavorando, contestualmente, su «grandi scale» e su «piccole scale».
Finché il cittadino non smarrirà la sua natura sociale, conseguentemente la politica non finirà di svolgere il suo ruolo di governo della società. Per questo, anche se inespresso o sottaciuto, si sente il bisogno di una politica che sappia progettare e farsi carico di quell’interpretazione e rappresentazione della complessità che la società oggi richiede. E ciò è necessario proprio oggi, nel momento in cui il regno dell’economia volge al termine e la razionalità progressiva del neoliberismo si è dimostrata inadeguata. E nel cercare nuove ispirazioni e nuovi equilibri la politica non può prescindere dalla dimensione «locale», intesa come dimensione reale e vitale d’individui che muovono, scelgono, agiscono, in funzione di sé e degli altri.

l’Unità 19.3.12
Presto nuovi sbarchi Segnali inquietanti dal Nord Africa per possibili arrivi da Libia e Tunisia
Trasferiti a Porto Empedocle i migranti arrivati sabato. Il nodo del Centro di accoglienza chiuso
Lampedusa col fiato sospeso per il futuro. In arrivo un’ondata
Il giorno dopo i quasi 300 migranti sbarcati a Lampedusa istituzioni e associazioni preoccupate per le notizie che arrivano su una possibile ondata migratoria nelle prossime settimane verso la Sicilia.
di Vincenzo Ricciarelli


Calma prima della tempesta. I 300 migranti arrivati a Lampedusa non sono il problema: perché le informazioni che diverse fonti in Italia e nei paesi africani sull’altra sponda del Mediterraneo hanno raccolto nelle settimane scorse, vanno tutte nella stessa direzione. Questo è solo l'inizio. Il timore, concreto, è dunque che possa arrivare una nuova ondata di sbarchi: probabilmente non come quella dell’anno scorso eccezionale anche a causa della guerra in Libia e però pur sempre consistente. La questione va quindi affrontata seriamente e in tempi rapidi, dicono organizzazioni umanitarie e istituzioni. Gli sbarchi dei migranti, in sè, non rappresentano una novità. Rispetto agli anni scorsi, però, quest’anno l'Italia ha un problema in più: Lampedusa è stata dichiarata con un’ordinanza «porto non sicuro». In teoria significa che nessuna imbarcazione può attraccare sull'isola. In pratica questo finora non è successo, ma nessuno può escludere che se l’ordinanza non sarà annullata ciò accada. Con tutte le conseguenze del caso: per raggiungere Porto Empedocle, l’approdo più vicino, ci vogliono almeno altre sette ore di navigazione da Lampedusa. Senza contare che costringendo i mezzi di soccorso a raggiungere la Sicilia, si sguarnisce il soccorso, rischiando così di non fare in tempo ad intervenire in caso di allarme.
L’altro problema, non di poco conto, riguarda il Centro dell'isola. Chiuso dopo l'incendio del settembre scorso che lo ha quasi interamente distrutto, non è mai stato ristrutturato. «È fondamentale che Lampedusa abbia di nuovo un centro di accoglienza e soccorso, che sia soltanto una struttura di transito» ripete da tempo Laura Boldrini, portavoce italiana dell'Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) dell'Onu. Anche perchè, sottolinea, il precedente governo «ha forzato la mano, trasformando il centro di accoglienza in un centro di espulsione» e creando così le condizioni che hanno poi portato alla rivolta dei migranti. Stessa richiesta da parte del sindaco De Rubeis: «Ho chiesto al ministero dell’Interno di riaprire nelle prossime 24-48 ore il Centro di accoglienza e trasferire nel giro di un paio di giorni profughi che arrivano. Non possiamo assistere all’arrivo di altri profughi che vengono portati all’ area marina protetta, rischiamo di perdere anche questa stagione turistica». Vista la situazione, si capisce allora perché le autorità sono particolarmente preoccupate dalle notizie che arrivano dall' Africa. Sia in Tunisia sia in Libia, infatti, le organizzazioni criminali che gestiscono la tratta di esseri umani stanno via via riprendendo il controllo dei porti da cui partono le carrette: da Sousse a Gabes fino a Zuwarah sono stati notati diversi movimenti e ammassamenti di migranti. Le informazioni dicono anche un'altra cosa: finora la quasi totalità di somali, eritrei, etiopi, nigeriani arrivati a Lampedusa, partivano dalla Libia. Ora questi migranti vengono segnalati anche nei porti della Tunisia, in attesa di partire assieme a quei tunisini che non credono nella primavera del loro paese. C'è poi un ultimo aspetto che questi primi sbarchi hanno messo in luce: i trafficanti hanno ripreso a far viaggiare i gommoni, se possibile meno sicuri delle carrette in legno, e in molti casi senza dotare i migranti di almeno un satellitare, per chiedere aiuto in caso di allarme.
I CINQUE MORTI DI SABATO
l giorno dopo la tragica traversata del Canale di Sicilia costata la vita a cinque dei 57 profughi che a bordo di una carretta del mare stavano cercando di raggiungere Lampedusa, la maggiore delle isole Pelagie vive quindi momenti di ansia temendo una nuova ondata migratoria dal nord Africa, come accaduto nell'estate del 2011. In poco più di 24 ore sull'isola sono sbarcati oltre 270 immigrati salvati dai mezzi della Guardia costiera, della Guardia di Finanza, e dal rimorchiatore «Asso 30», mentre navigavano su tre imbarcazioni che solo per buona sorte non sono colate a picco. Sulle barche c'erano donne, una delle quali incinta che è stata trasferita all' ospedale civico di Palermo insieme ad altri quattro profughi, e bambini. Come un copione già visto in passato, anche stavolta nonostante i salvataggi siano avvenuti ad oltre 60 miglia a sud di Lampedusa, le autorità maltesi, allertate da quelle italiane, non hanno risposto alla richiesta d'aiuto, negando la possibilità di ospitare i profughi salvati nelle acque di loro competenza. Mistero, poi, riguardo un terzo barcone segnalato nel canale di Sicilia, ma non individuato dal servizio di avvistamento della marina militare; ed un presunto «assalto» da parte di una settantina di migranti nei confronti di un peschereccio sequestrato in acque tunisine.
Nessun nuovo arrivo però è stato registrato nella notte. Secondo quanto riferisce la capitaneria di porto, non sarebbero stati avvistati neppure nuovi barconi. Sono però in corso le operazioni del rimorchiatore Asso 30, a bordo del quale si trovano 107 migranti, gli ultimi soccorsi l’altra sera. Questi ultimi sono stati raggiunti da due motovedette che li porteranno sul traghetto Palladio, il quale a sua vota avrà il compito di trasferirli a Porto Empedocle insieme ad altre 60 persone arrivate a Lampedusa e già identificate.

l’Unità 19.3.12
Nuova emergenza non-accoglienza e ceciutà politica
di Flore Murard-Yovanovitch


Sono oltre 220 i profughi soccorsi sabato scorso dalle motovedette della Capitaneria di Porto e della Guardia di Finanza a sud di Lampedusa, sulla tradizionale rotta dalla Libia. E altre imbarcazioni sono già in vista. Di nuovo. Un “nuovo” che lo è solo per una cieca politica: non per Ong, Unhcr e addetti ai lavori, che da settembre scorso, quando Lampedusa è stata dichiarata “porto non sicuro”, chiedono al governo di prepararsi alla nuova primavera di migrazioni, strutturali dal nord Africa e contingenti per la nuova instabilità della Libia post-Gheddafi. Pochi migliaia di migranti rischiano di diventare “emergenza” per una politica dalla vista corta, che non ha imparato la lezione dell’anno scorso; e che, nei sei mesi dopo il rogo del centro di Contrada Imbriacola, diventato di trattenimento illegale, non ha preso alcuna misura per allestirne un altro, di vera accoglienza.
Ma per prepararsi, per avere una strategia, bisognerebbe saper guardare oltre il barcone, vedere le centinaia di potenziali richiedenti asilo che da Sudan, Eritrea, Etiopia fuggono guerre civili, arruolamento forzato o persecuzioni etniche e cercano in Europa una protezione, che spetta loro di diritto. Basterebbe studiare le cifre degli attuali profughi presenti oggi in Libia, in attesa di imbacarsi: i somali ormai senza Stato e altri migranti del Corno d’Africa, tutti vittime delle persecuzioni da parte delle milizie post-Gheddafi, perché sospetti di essere stati mercenari leali all’ex regime; o le migliaia di scampati alla mattanza siriana, anch’essi rifugiati in Libia.
Ma nessuno osserva l’altra sponda? Meglio chiudere gli occhi, lasciar morire i migranti di mare e di viaggio, ingrossare le drammatiche statistiche della Fortezza Europa che, dal 1994 ad oggi, nel solo Canale di Sicilia, ha già fatto almeno 6.166 vittime, tra morti e dispersi, delle quali 1.822 soltanto nel corso del 2011 (ma il dato reale potrebbe essere molto più alto).
Gli Stati europei avrebbero già dovuto e dovrebbero d’urgenza predisporre corridoi umanitari per garantire una sicura evacuazione ai profughi dalla Libia e concedere loro il permesso umanitario. Invece di continuare ipocritamente a lasciare il destino di centinaia di uomini, donne e bambini, in balìa di meteo avverso, barconi stipati e scafisti senza scrupoli. Peggio, di fare contro i migranti del Sud una vera e proprio guerra, violando il loro diritto a migrare e tutte le convenzioni internazionali, attraverso missioni Frontex, detenzioni e respingimenti, per i quali l’Italia è stata appena condannata dalla Corte europea di Strasburgo (le conseguenze, vite distrutte e sospese, si possono vedere nel documentario “Mare Chiuso” di Andrea Segre e Stefano Liberti). Mentre si è appena stilato, il 12 marzo scorso, un nuovo accordo con Tripoli, che mira a rafforzare le pattuglie congiunte alle frontiere per lottare contro l’immigrazione irregolare, c’è da chiedersi se il governo Monti voglia davvero operare una cesura dal sistema di controllo mortale e illegale alla Maroni; o se invece non si cerchi di proseguire lo stesso, ma sotto altro nome. Il controllo cieco e violento delle frontiere fa già le sue prime vittime: i cinque cadaveri del barcone dell’altro ieri. Riguarda, scava e interroga la nostra umanità. Ci domanda, con forza, se siamo ancora capaci di ribellarci a quest’indifferente “lasciare sparire” uomini e donne, alcune incinte, che ancora avviene a poche miglia marine da casa nostra.

l’Unità 19.3.12
Nuovo muro in Europa
Lo costruisce Atene contro Turchia e migranti
La rotta di terra, attraverso la Grecia, sta incanalando parte del flusso delle migrazioni. Al confine turco già sei vittime dall’inizio dell’anno e 24 l’anno scorso. Il governo ellenico risparmia su tutto ma non sulla barriera
di Alberto Tetta


Siamo entrati illegalmente in Grecia due mesi fa dopo aver passato il confine attraversando il fiume Evros – racconta in un caffé di Salonicco, Ferda, rifugiata politica turca – a Edirne l’intermediario che avevamo conosciuto a Istanbul ci ha consegnati a un altro trafficante, arrivati nei pressi del fiume ci hanno detto di non muoverci e stare in silenzio per non attirare l’attenzione della polizia turca che pattuglia il confine, poi su imbarcazioni di fortuna abbiamo attraversato l’Evros». Entrati in territorio greco Ferda e il suo compagno sono stati individuati dalle telecamere termiche posizionate lungo il confine. La polizia li ha arrestati e rinchiusi in un campo per migranti nei pressi di Soufli: «Ci hanno detto di non preoccuparci, che saremmo rimasti lì pochi giorni, sono passati più di due mesi prima che ci liberassero e iniziasse il procedimento per valutare la nostra domanda d’asilo politico».
«Noi siamo stati relativamente fortunati spiega Hakan, il compagno di Ferda ma nel campo abbiamo sentito storie terribili, molti migranti dopo aver raggiunto il lato greco del confine sono stati spinti di nuovo in acqua, un ragazzo palestinese di circa 30 anni a dicembre ha cercato di attraversare il fiume a nuoto, ma non ce l’ha fatta e hanno trovato il suo corpo congelato sulla riva».
Sono sei dall’inizio dell’anno e 24 nel 2011 i migranti che hanno perso la vita mentre cercavano di attraversare il confine turco-greco segnato dal fiume Evros che dal 2010 è punto d’ingresso privilegiato per i migranti senza documenti che tentano di raggiungere l’Europa. Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, stima che nel 2011 del numero migranti entrati in Europa passando dalla Grecia sia aumentato del 17 per cento. Mentre sono sempre meno gli stranieri che tentano la traversata via mare. Lo scorso anno il 90 per cento degli immigrati irregolari sono stati bloccati dagli agenti dall’agenzia europea proprio in Grecia.
Per contrastare questo crescente flusso di migranti, ora le autorità elleniche hanno deciso di costruire un muro. La barriera lunga 12,5 chilometri e alta tre metri sorgerà nella Tracia settentrionale tra le cittadine di Kastanies e Nea Vyssa lungo l’unico tratto di confine non segnato dal fiume Evros e quindi più facile da attraversare.
L’appalto per 3 milioni di euro è stato assegnato a una compagnia greca a febbraio. Anche se l’Unione europea ha annunciato che non finanzierà il progetto, secondo la Commissaria per gli affari interni Cecilia Malström, la costruzione del muro sarebbe un’iniziativa «inutile» e a breve termine, le autorità greche, tuttavia, sono determinate ad andare avanti da sole e il 5 febbraio il ministro degli interni Papoutsis, socialista e membro del Pasok, ha inaugurato un nuovo centro operativo della polizia di frontiera parte del progetto anti-immigranti: «Da un lato l’Europa rifiuta di rivedere il trattato Dublino II, secondo cui i richiedenti asilo devono tornare nel paese di prima entrata e fa pressione sulla Grecia per tenere sotto controllo le frontiere minacciando sanzioni e dall’altra quando prendiamo l’iniziativa se ne distanzia».
Gli abitanti di Nea Vyssa, tranquillo paesino di frontiera da cui passerà il muro, sono più infastiditi dalla forte militarizzazione del confine che dal passaggio continuo di stranieri. «Non sono un’esperta, un massiccio afflusso di migranti in Grecia potrebbe creare problemi certo, però non capisco che senso abbia con la crisi spendere milioni di euro per costruire 12 chilometri di muro su un confine lungo più di cento – si chiede Anastasia, la padrona di un piccolo caffé nel centro del paese. A Nea Vyssa passano stranieri ogni giorno, mai meno di 15, a volte anche più di 50, racconta, ma il periodo più critico è l’inverno, quando i migranti arrivano in paese assiderati e coperti di neve: «Uno degli episodi che mi è rimasto più impresso risale a qualche mese fa – racconta Anastasia – alla mia porta ha bussato una coppia con due figli piccoli, la donna era in cinta. Quando ho visto i due bambini che piangevano praticamente congelati neanche io sono riuscita a trattenere le lacrime. Li ho fatti entrare e gli ho dato delle coperte e del latte caldo».
A Orestiada, cittadina qualche chilometro a sud di Nea Vissa, è nato un comitato anti-muro che il cinque febbraio ha organizzato una manifestazione contro la visita del ministro Papoutsis. «Un anno fa quando si è cominciato a parlare della costruzione della barriera abbiamo promosso un’assemblea aperta a tutta la cittadinanza per discuterne, li abbiamo deciso di mobilitarci contro un progetto che secondo noi viola diritti umani fondamentali come quello di presentare domanda di asilo politico – racconta Kostantinos, tra i promotori della campagna Stop Evros Wall – ora stiamo cercando di fare uscire la mobilitazione dai confini greci e farci conoscere. Abbiamo lanciato anche una raccolta firme e con l’aiuto dei nostri avvocati presenteremo ricorso alla corte europea dei diritti dell’uomo».
Secondo Kostantinos la costruzione del muro, che terminerà a settembre, più che una risposta al problema immigrazione sarebbe un’iniziativa personale del ex-ministro degli interni Papoutsis che proprio la settimana scorsa si è dimesso per dedicarsi completamente alla campagna per le primarie per la leadership del Pasok.
Sul fronte interno greco i due maggiori partiti, Nuova democrazia e socialisti del Pasok sono a favore del progetto, contrari i comunisti del Kke e gli altri due partiti della sinistra riformista, secondo cui la costruzione del muro sarebbe «un atto inumano e futile». Entusiasti invece i nazionalisti del Laos, movimento populista di estrema destra dato in forte crescita negli ultimi mesi.
Dall’altro lato del confine Ankara si oppone con forza a un progetto che considera un ostacolo al processo di adesione all’Unione Europea. «C’è chi in Europa non perde l’occasione di promuovere iniziative contro la Turchia e ora vogliono costruire un nuovo muro come quello abbattuto a Berlino lungo il fiume Evros». Ha dichiarato il ministro per gli affari Europei Egemen Bagis.
Dalla collina sopra Nea Vyssa, Chronis guarda le due file di alberi che segnano il confine con la Turchia: «Il muro non fermerà l’arrivo degli stranieri, lo renderà solo più difficile – dice – ora arrivano persone, dopo la costruzione del muro vedremo solo cadaveri».

l’Unità 19.3.12
Peggio delle primarie di coalizione a Palermo c’è solo l’annullamento
Lo sciagurato proposito di Sel, Idv e pezzi del Pd di non appoggiare Ferrandelli tradisce questioni irrisolte. Ma è inaccettabile che venga stracciato l’accordo iniziale Se gli sconfitti rompono i patti, le primarie di coalizione vanno abolite in tutta Italia
di Giuseppe Provenzano


Con la Sicilia come metafora, capita di strafare. Però davvero Palermo a questo punto non è più solo Palermo, ammesso che lo sia mai stata. La situazione dopo le primarie non è complicatissima, come si dice, ma fin troppo chiara: una parte della coalizione non riconosce un risultato la cui validità è sancita da un collegio di garanti di altissima scienza e coscienza (Peppino Di Lello, già membro del pool antimafia di Caponnetto con Falcone e Borsellino, e due giuristi di razza, Giuseppe Verde e Antonio Scaglione). L’annullamento del voto in un quartiere popolare e di “frontiera” (lo Zen) e i primi atti di un’indagine della Procura sono gli appigli degli sconfitti (Sel e Idv, supportati da pezzi di Pd) per venir meno all’impegno minimo di appoggiare il vincitore.
Lo sciagurato proposito tradisce questioni politiche irrisolte sul nodo delle alleanze in Sicilia. Ed è un po’ paradossale, perché a Palermo le primarie hanno mancato, con l’impegno di tutti i candidati (non smentito dal vincitore), i confini invalicabili (!) dell’alleanza elettorale. Sul giovane esuberante Ferrandelli, che ha vinto contro tutti i pronostici ed essenzialmente per il suo radicamento popolare e talvolta populista (e per il suo incerto profilo politico, che intercetta anche vaghe e varie spinte di «rottura»), si stanno scaricando ora le scorie dell’intera vicenda politica siciliana, che l’espediente delle primarie non poteva certo smaltire.
Una vicenda che lacera al suo interno il Pd: le «alleanze partitiche» diventano tema esiziale perché il partito è incerto su se stesso, sulla funzione che esercita in un’isola in cui esplode il dramma sociale di inoccupazione di massa e nuove povertà, mentre smarrisce l’importanza di rafforzare le «alleanze sociali» dei corpi organizzati (dalla Confindustria alla Cgil, che manifestano insieme per l’emergenza economica) lasciando gli sventurati in balìa di forconi e altri avventurieri. Ambiguità tattiche e derive correntizie hanno indebolito il corpo del partito, esponendolo ora nel rapporto conflittuale con un’Idv che, dopo l’abbandono di Scilipoti, riduce la sua presenza solo a Palermo e attraverso Leoluca Orlando (protagonista negativo della campagna di Rita Borsellino) ha cercato e cercherà di lucrare sulle contraddizioni della complessa vicenda regionale che ha portato all’appoggio al governo di tecnici presieduto da Lombardo, con più convinzione (e coerenza) sostenuto dall’area del Pd che ha votato Ferrandelli.
Eppure, se il percorso che ha portato alle primarie palermitane è così segnato da vicende locali, dalle tensioni di una politica disgregata, in un contesto di maggiore disgregazione sociale, il loro svolgimento e il loro esito richiamano diverse questioni generali. I limiti delle primarie di coalizione, già emersi altrove benché mitigati dalle ottime personalità comunque espresse, a Palermo arrivano al punto di rottura. Più in generale, bisognerà riflettere con serietà su uno strumento che al Sud esaspera un processo di personalizzazione già degenerato, dove l’alternativa è spesso tra fascinazione neopopulista o pratica di intermediazione impropria finalizzata alla manipolazione dell’accesso al lavoro.
Il problema non è lo Zen ma i processi democratici in vaste plaghe meridionali. Laddove sono bisogni materiali insoddisfatti, che si impongono sulle regole, sulla morale, e persino sul buon costume, per il rachitismo dei corpi intermedi e delle organizzazioni sociali, per l’incapacità della politica di individuare e promuovere interessi collettivi e etica pubblica, i meccanismi di raccolta del consenso seguono canali e incentivi di partecipazione propri di ogni altra elezione (poco voto «strutturato», pochissimo d’opinione, e tanto voto di scambio, clientelare), ma più facilmente attivabili e controllabili all’aperto dei gazebo.
Il «cittadino elettore attivo» (protagonista della favola fondativa del Pd, che popola terre di ceti medi riflessivi e opinioni pubbliche informate, di lettori di giornali, di volontariato civile, e relativo benessere) non esiste, non solo tra i poveri e i bisognosi, ma anche tra le belle facce di professionisti in fila nei gazebo dei centri urbani e dei quartieri residenziali, che vivono solo di commesse pubbliche e clientele d’alto rango, però certo non hanno bisogno dell’euro per votare.
Il problema non è antropologico, dunque, è socio-politico. È ciò che sfugge alla grossolanità mista al razzismo di frasi che pure si sentono ripetere tra i profeti baldanzosi delle primarie: «Il problema non è lo strumento, sono i palermitani, i napoletani». No, cari amici, il problema i sono i vostri miti fondativi. Il continuo ricorso al voto non può supplire ai limiti e alle insufficienze della politica democratica, e può finire spesso per riprodurre e consolidare equilibri politici e sociali esistenti, ben al di là di «rotture» e «ricambi» di ceto politico.
Tuttavia, una sola cosa è sicuramente peggiore di celebrare le primarie nel Mezzogiorno: annullarle quando si sono celebrate, spezzando definitivamente il già debole filo della ricostruzione di trame di partecipazione democratica. La politica che illusoriamente chiama i cittadini a darle quella credibilità che sa di non avere (perché questo sono spesso le primarie...), a maggior ragione, non può mettere in dubbio la credibilità di quei cittadini, con tutte le ombre del circuito democratico in certe «condizioni ambientali». Proprio quando più forti sono le ombre, la democrazia formale diventa l’ultimo appiglio. Non è stata spesso questa la ragione sociale del Pd, del resto, giocata al ribasso? Stavolta, non sarebbe poca cosa.
Il Pd nazionale, con Davide Zoggia, ora rivolge un appello di buon senso al centrosinistra palermitano e al Pd locale per individuare un percorso unitario di ricomposizione, «non disconoscendo il risultato». Solo che quest’appello alla responsabilità rischia di essere un po’ poco, specialmente dopo la lunga distrazione romana dalle cose siciliane, e di lasciare le forze politiche alla loro deriva autodistruttiva, nella Palermo che non è solo Palermo, ma il simbolo decennale del berlusconismo e della destra più devastante. Quella responsabilità, il Pd nazionale, dovrebbe pretenderla da Idv e Sel, che ora chiedono alla sconfitta Rita Borsellino di andare avanti comunque. Non si può consentire, magari in nome dell’eccezione siciliana, uno strappo del genere. Altrimenti, un partito che abbia il minimo rispetto di se stesso, porrebbe subito fine ovunque, da Palermo ad Aosta a quella vera eccezione, a quell’anomala tutta italiana, che sono le primarie di coalizione.

Corriere della Sera 19.3.12
Le ostriche del potere
di Ernesto Galli della Loggia


C'è qualcosa di eccessivo, di sottilmente smodato, nel rapporto tra la classe dirigente italiana e la dimensione del denaro e del lusso che il denaro consente. È una sorta di incontinenza e di esibizionismo senza freno; di compulsività acquisitiva. Sembra che in questo Paese per banchieri e imprenditori, per alti burocrati, professionisti di grido e parlamentari, per chi insomma conta qualcosa, ogni retribuzione non sia mai abbastanza elevata, ogni privilegio e ogni prelibatezza non siano mai troppo esclusivi, ogni manifestazione di ricchezza mai troppo smaccata.
La classe politica fornisce gli esempi se non più clamorosi senz'altro più noti. Intercettazioni, cronache giornalistiche, atti giudiziari restituiscono l'immagine di un gruppo di persone spesso proprietarie di ville su remote spiagge oceaniche o di case con viste strepitose sui più bei centri storici della penisola, intente appena possono a trascorrere vacanze in costosissimi resort esotici, a consumare pranzi e cene in locali da nababbi. Al senatore Lusi capitava di ordinare al ristorante piatti di spaghetti con non so che cosa, del costo di appena 180 euro. Viene da chiedersi: «Era sempre solo? E ai suoi ospiti sembrava ovvio andare in un posto del genere?». Evidentemente sì. Certamente appariva ovvio al sindaco di Bari Emiliano (e nel capoluogo pugliese non solo a lui, a quel che sembra) ricevere come regalo un intero acquario commestibile. Ogni anno, con le scuse più inverosimili, decine di delegazioni di consiglieri comunali e regionali (quelli della Sicilia in testa, di regola) si regalano a spese dei contribuenti viaggi in prima classe nelle mete più lontane e negli alberghi più costosi.
Ma non sono certo solo i politici. Don Verzé e i suoi collaboratori trascorrevano piacevoli (e frequenti) periodi di relax in alberghi e località di gran classe messi naturalmente a carico dei bilanci di enti nati per tutt'altri scopi ma che si ritrovavano non si sa perché ad averne la proprietà. Di espedienti più o meno analoghi si servono migliaia di italiani ricchi per i quali lo yacht o l'aereo privato sembrano ormai diventati necessari come l'aria. Per qualunque medio industriale scendere in un hotel come minimo (come minimo) a 5 stelle è ormai un'abitudine irrinunciabile. Così come in hotel come minimo a 5 stelle, o in favolose ville su qualche lago, o a Capri, o a Santa Margherita, si svolgono i loro convegni. Mai, chessò, in una bella sala dell'«Umanitaria» o alle «Stelline», no. E se proprio deve essere un postaccio come Milano, almeno il «Four Seasons».
È tutta l'élite italiana che ha perduto il gusto aristocratico della sprezzatura che è il contrario dell'affettazione, il piacere e il senso dell'eleganza fondata sulla sobrietà. La famosa mela che il presidente Einaudi chiese durante una cena se qualcuno voleva dividere con lui, forse neppure compare più nei menu del Quirinale. Così come non ha trovato molti imitatori il supremo snobismo, vagamente venato di tirchieria, che portava il suo altrettanto famoso figlio editore a scovare sperdute osterie dal cibo squisito (a suo dire) ma economicissime.
La moda è lo specchio di questo tracollo. I giovani della haute lombarda di una volta, vestiti d'inverno con i loden e le alte scarpe di Vibram; i vecchi tweed inglesi, che un tempo indossavano con nonchalance i signori della buona borghesia napoletana, hanno fatto posto alla tetra eleganza acchittata degli attuali trenta-quarantenni in carriera, abbigliati rigorosamente in nero come bodyguard o necrofori.
Queste odierne esibizioni e possibilità, così vaste, di lusso ostentato, di superfluo, questa mancanza di misura, dicono molte cose dell'élite italiana. Ci dicono per esempio di un gran numero di redditi occulti, di guadagni privati protetti da leggi compiacenti, e naturalmente di evasione e più ancora di elusione fiscale su grande scala, che la caratterizzano. Ci dicono, ancora, di una sua complessiva, forte diversità rispetto agli altri grandi Paesi europei con cui amiamo confrontarci. Nei quali, tanto per dire, almeno un buon numero di parlamentari italiani sarebbe stata già da tempo, per una ragione o per l'altra, costretta a furor di popolo a dimettersi; dove difficilmente sarebbero tollerati i cumuli di incarichi e di prebende con cui in Italia alti magistrati e grand commis si permettono tenori di vita elevatissimi; dove i rapporti incestuosi tra molti di loro e il mondo degli affari privati (conditi spesso e volentieri di cene, viaggi e vacanze insieme) sarebbero oggetto di censure e di provvedimenti severi.
Ma il rapporto della classe dirigente italiana con il denaro e con il lusso forse parla di qualcosa di più profondo. La sfrontata pervicacia con cui troppe volte essa esibisce entrambi sembra rispondere più che altro, infatti, al bisogno di occultare un intimo senso d'insicurezza. Quasi che sentendosi inadeguata al proprio ruolo, ai contenuti reali e impegnativi di questo, l'élite italiana pensasse di mostrarsi superiore nel modo più facile che le è possibile: con i soldi. Ma così agi e guadagni, invece di rappresentare in qualche modo una conferma della sua superiorità, alla fine sono solo la riconferma della sua inadeguatezza. Della sua lontananza dal Paese reale, della sua inettitudine a capire il bisogno che oggi esso esprime di essenzialità e di misura.
Ernesto Galli della Loggia

Repubblica 19.3.12
Sì alla lista Monti da un italiano su quattro ma il 60% non vuole toccare l’articolo 18
E gli elettori del Pd bocciano il progetto della Grande Coalizione
I dati dell’Atlante politico realizzato da Demos. Sì alla Tav dal 55 per cento degli italiani
di Roberto Biorcio Fabio Bordignon


Articolo 18, Tav, diritti delle coppie omosessuali: fra i temi al centro del dibattito politico nelle ultime settimane, tre in particolare sottolineano l´eterogeneità dell´inedita "maggioranza" che sostiene il governo Monti. Se il premier e l´esecutivo mantengono oltre il 60% dei consensi (e una "lista Monti" potrebbe raccogliere, oggi, addirittura il 24% dei voti), le controversie attorno a questi nodi possono incidere notevolmente sul clima sociale. Al contempo, le linee di divisione che, su tali questioni, corrono tra i partiti (e al loro interno) sollevano dubbi sulla possibile tenuta, in chiave elettorale, di una "grande coalizione" tra Pd, PdL e formazioni del Terzo Polo (il cui appeal, peraltro, appare molto inferiore alla somma dei singoli partiti). E´ quanto emerge dai dati dell´Atlante politico, realizzato da Demos per la Repubblica.
Il governo si è fortemente impegnato per la riforma del mercato del lavoro, suscitando un dibattito che occupa da diversi giorni la prima pagina dei giornali. Dall´insediamento dell´esecutivo, la disponibilità dell´opinione pubblica alla revisione (o all´abolizione) dell´articolo 18 è aumentata (dal 27 al 33%), pur rimanendo nettamente minoritaria rispetto alle opinioni contrarie (59%). Le aperture crescono, ma riguardano comunque poco più di una persona su tre, tra gli elettori del Pdl, della Lega e del Terzo polo. L´opposizione a questa misura è invece molto forte nell´elettorato di centrosinistra. Il dissenso è diffuso non solo tra gli operai, ma anche tra i giovani, i disoccupati e gli studenti: le categorie che dovrebbero beneficiare delle nuove regole su assunzioni e licenziamenti.
Prevalgono invece i "sì" per quanto riguarda la realizzazione della Tav. Il 55% degli intervistati - con un incremento di oltre dieci punti rispetto al 2006 - approva la realizzazione dell´opera, sulla quale si sono espressi favorevolmente sia il governo sia i partiti che lo sostengono. La questione costituisce, ciò nondimeno, un fattore di divisione nell´ambito del centrosinistra: sono contrari non solo due terzi degli elettori dell´Idv, di Sel (e del Movimento 5 Stelle), ma anche un ampio settore di chi vota per il Pd. L´opposizione più estesa si registra, ancora una volta, tra i giovani, i disoccupati e gli operai.
Il problema del riconoscimento dei diritti alle coppie omosessuali (nello specifico il diritto di matrimonio) è stato agitato qualche giorno fa da Angelino Alfano, come argomento per contrastare elettoralmente il centrosinistra e recuperare consensi nel modo cattolico. Una strategia già utilizzata con successo da diversi leader conservatori americani ed europei. L´Atlante politico rileva, in generale, una crescente apertura all´istituzione delle unioni civili: il numero dei favorevoli, negli ultimi anni, è salito al 70% - e al 60% tra i cattolici praticanti. Più controversa è l´estensione di alcune prerogative tipiche del matrimonio alle coppie omosessuali, che la scorsa settimana ha visto un importante pronunciamento della Cassazione. Anche su questo punto si registra una costante crescita delle opinioni favorevoli, passate dal 25 al 44% negli ultimi otto anni. I giovani, i più istruiti e i residenti nelle grandi città esprimono il maggiore consenso verso questo tipo di riforma, che continua a rappresentare un elemento di differenziazione degli elettori di centrosinistra rispetto a quelli di centro e di centrodestra. Il dato supera la soglia del 50% tra gli elettori del Pd (51%), dell´ IdV (56%) e (soprattutto) di Sel (90%). Per converso, si schiera a favore poco più di un terzo dell´elettorato del Pdl e della Lega, e appena il 28% nel caso dell´Udc.

Repubblica 19.3.12
Un presidente senza partiti
di Ilvo Diamanti


SULLA scena politica italiana del nostro tempo si confrontano partiti senza leader (autorevoli) e un leader senza partiti. Quest´immagine è emersa nei primi quattro mesi del governo guidato da Mario Monti.

Ha fiducia nel governo il 62 per cento, il dato più alto dopo la fase di avvio a novembre
Una lista del Professore convincerebbe un terzo dei cittadini ancora incerti.
E appare largamente confermata – e precisata - dal sondaggio dell´Atlante Politico di Demos, realizzato nei giorni scorsi.
1. La fiducia nel governo Monti, anzitutto. Espressa (con un voto pari o superiore al 6) da quasi il 62% del campione della popolazione. Il dato più alto dopo la fase di avvio, in novembre. Insieme all´auspicio, condiviso da circa 7 italiani su 10, che la sua attenzione non si limiti ai temi strettamente economici ma si allarghi a tutte le questioni importanti del Paese. Riforma elettorale, giustizia e sistema radiotelevisivo compresi. Il 27% degli intervistati, inoltre, vorrebbe che Monti, dopo le prossime elezioni, succedesse a se stesso. Indipendentemente dal risultato.
2. Ancora più elevato è il grado di considerazione "personale" verso il Premier e i suoi ministri più conosciuti. Nella classifica dei leader, Monti è saldamente in testa, con il 67% di giudizi positivi (espressi con un voto pari o superiore a 6). Lo seguono (a debita distanza) i ministri Elsa Fornero (51%) e Corrado Passera (49%). Gli altri leader – istituzionali e di partito – sono dietro. Sensibilmente lontani. Bersani, Alfano, Di Pietro, Vendola, Casini e Fini. Tutti in calo, soprattutto gli ultimi due. (Un segno che il governo e Monti stanno occupando lo spazio del Terzo Polo.) In fondo alla classifica: Berlusconi e Bossi, i leader del precedente governo. Bossi, in particolare, è largamente sopravanzato da Maroni (40%). Nella popolazione. Ma anche nell´elettorato leghista. Tra gli elettori della Lega, infatti, il 50% valuta positivamente Bossi, il 73% Maroni. Segno che il peso di Maroni nella "Lega di opposizione" si è rafforzato ulteriormente.
3. Di certo, oggi è in crisi la legittimità del "politico di professione" mentre si rafforza la credibilità dei "tecnici". Come Monti, appunto. Insieme ai suoi ministri. Oltre il 60% degli italiani, infatti, ritiene i tecnici più adatti a governare rispetto a "politici esperti".
4. È interessante osservare come questi atteggiamenti risentano in misura - ancora - limitata delle valutazioni di merito, nei confronti di specifici provvedimenti. Che sollevano, in alcuni casi, grande insoddisfazione. In particolare, una larga maggioranza di persone si dice contraria a modifiche sostanziali dell´articolo 18. Ma ciò non è sufficiente a modificare in modo sostanziale il giudizio sul governo dei tecnici, sui tecnici e sul Tecnico per eccellenza. Monti. Almeno per ora.
5. L´impopolarità dei leader di partito riflette la – e si riflette nella - sfiducia nei partiti (solo il 4% del campione esprime "molta fiducia" nei loro confronti). Dal punto di vista elettorale, tuttavia, non si rilevano grandi variazioni negli ultimi mesi. Il PD si attesta circa al 27% e il PdL al 24%. Insieme arrivano al 50%. Venti punti meno che alle elezioni del 2008. La Lega si conferma al 10%, come l´UdC. L´IdV all´8%. Mentre SEL è più indietro, intorno al 6%. Avvicinata dal Movimento 5 Stelle di Grillo. L´unica opposizione davvero extra-parlamentare. Movimentista. La No Tav come bandiera. Forse anche per questo premiata, in questa fase. L´esperienza del governo Monti ha, dunque, congelato gli orientamenti elettorali, ma li ha anche frammentati. Complicando le alleanze – precedenti e future.
6. Il PD, che all´inizio aveva beneficiato dell´esperienza del governo Monti, ora sembra soffrirne. Più dei partiti della vecchia maggioranza di Centrodestra, in lieve ripresa, nelle stime di voto. Gli elettori del PD, d´altra parte, continuano a garantire un alto grado di consenso al governo Monti. (Ha il merito di aver "sostituito" Berlusconi). Tuttavia, nella percezione degli italiani, ha mutato posizione politica. Certo, la maggioranza degli elettori (57%) continua a considerarlo "al di fuori e al di sopra" degli schieramenti politici. Ma una quota ampia e crescente di essi (20%) lo ritiene prevalentemente orientato a centro-destra.
7. Il PD risente, inoltre, del conflitto interno fra i partigiani dell´alleanza con le forze di Sinistra e i sostenitori dell´intesa con il Centro. Ma i suoi elettori appaiono turbati anche dalla tentazione di tradurre l´attuale Grande Coalizione di governo in un progetto più duraturo. Un´ipotesi che, tradotta sul piano elettorale, si fermerebbe al 47%. Cioè, circa 13 punti in meno rispetto ai consensi di cui sono accreditati i partiti dell´attuale maggioranza. Per contro, la Lega salirebbe al 19% e la Sinistra oltre il 33%. A pagare il prezzo più caro di questa ipotetica intesa sarebbe, appunto, il PD. Visto che oltre metà dei suoi elettori si sposterebbe sulla coalizione di Sinistra oppure si asterrebbe.
8. Non sorprende, allora, che, una "ipotetica" Lista Monti in una "ipotetica" competizione con gli attuali partiti, nelle intenzioni di voto degli intervistati, sia accreditata di oltre il 24% dei voti. Il che significa: il primo partito in Italia. Davanti al PdL, che, in questo scenario, otterrebbe il 19%. Il PD, terzo con il 18%, risulterebbe il più penalizzato. Perderebbe, infatti, oltre un quarto della base elettorale a favore della lista Monti. La quale, peraltro, intercetterebbe consensi trasversali. Ma, soprattutto, convincerebbe quasi un terzo degli elettori ancora incerti oppure orientati all´astensione. Sul totale degli elettori: circa il 10%.
9. Naturalmente, si tratta di una simulazione. Influenzata, peraltro, dalla popolarità di Monti in questo specifico momento. Conferma, però, lo scenario delineato all´inizio. Evoca, cioè, una Terza Repubblica che oppone Presidenti e Partiti (come suggerì, alcuni anni fa, Mauro Calise in un saggio pubblicato da Laterza). Mentre il Berlusconismo aveva imposto il modello del "Partito personale", che oggi è in declino, insieme alla Persona che lo aveva incarnato.
10. Il Montismo ne ha modificato sostanzialmente il modello. In particolare, nello "stile personale": ha affermato la Tecnica e la Competenza al posto dell´Imitazione-della-gente-comume. L´aristocrazia democratica al posto della democrazia populista. Tuttavia, Monti non si può definire un Presidente "contro" i Partiti, perché i partiti (maggiori) lo sostengono. Anche se qualcuno scorge, alle sue spalle, l´ombra di un nuovo "Partito personale", egli appare, in effetti, un "Presidente senza partito". Legittimato dal "voto" dei mercati, dal "vuoto" della politica – e dalla conferma dei sondaggi. Ma anche dalla sua distanza dai partiti. Il che sottolinea l´ultimo paradosso post-italiano (per echeggiare Eddy Berselli). Una Repubblica dove coabitano due Presidenti forti, molti partiti deboli. E un Parlamento quantomeno fragile. Una Repubblica bi-presidenziale.

La Stampa 19.3.12
Mona Eltahawy: il mio corpo era diventato piazza Tahrir
Parla la scrittrice e giornalista egiziano-americana che ha vissuto sulla sua pelle e raccontato sui social network i giorni caldi della rivoluzione
di Marco Bardazzi


Addio, piazza Tahrir. La rivoluzione egiziana diventa adulta, si evolve, dilaga e saluta il luogo-simbolo. «Resterà l’immagine di quello che è accaduto lo scorso anno al Cairo, ma adesso non è più in quella piazza che si gioca il futuro del Paese», spiega Mona Eltahawy, giornalista, scrittrice e blogger egiziana con residenza a New York, dove è stata costretta a emigrare un decennio fa per essere diventata una voce troppo scomoda nell’Egitto di Mubarak. La piazza la conosce bene, per averla vissuta e raccontata su giornali e social network nei mesi caldi della rivoluzione. E per essere rimasta vittima lo scorso novembre del «lato oscuro» di Tahrir. Una delle spedizioni punitive delle forze di sicurezza del regime fece finire la Eltahawy in cella, con le braccia fratturate e addosso i segni di ripetuti abusi sessuali. «Il mio corpo era diventato piazza Tahrir - ha scritto la giornalista egiziano-americana -, un luogo di vendetta per la polizia contro la rivoluzione che aveva battuto e umiliato Mubarak».
La piazza resterà l’equivalente egiziano di San Venceslao, Plaza de Mayo o Tienanmen, e non è escluso che torni ad affollarsi di tanto in tanto per manifestazioni anti-regime. Ma la rivoluzione è in una fase che va oltre quello spazio fisico. «L’8 marzo abbiamo marciato al Cairo per la festa della donna - racconta la Eltahawy, in Italia per una serie di conferenze che prende il via oggi a Torino - e non ci siamo neppure fermate in piazza Tahrir».
Significa forse che la rivoluzione segna il passo, che la protesta si affievolisce?
«Al contrario, ci sono tutti i motivi per essere preoccupati di quello che avviene in Egitto, soprattutto dal punto di vista dei diritti umani. L’idea che i militari hanno cercato di far passare fin dall’inizio per giustificare la loro presa del potere, quella cioè di essere impegnati a “proteggere” la rivoluzione, è una bugia. I diritti delle minoranze, come i cristiani copti, e i diritti delle donne restano fortemente a rischio. Nessuno è finito sotto processo per gli attacchi alle chiese copte, che questo governo dice di voler proteggere. Quanto alle donne, basta pensare alla vicenda dei vergognosi “test di verginità” con cui i militari cercano di intimidire chi protesta».
Un medico militare accusato dei «test» è appena stato assolto in tribunale. Come va letto questo segnale?
«I test sono veri e propri stupri e dimostrano che la giunta non è certo al potere per “proteggere il popolo” come dicono. Non sorprende che un tribunale militare assolva un medico militare in un Paese governato dai militari. Ora porteremo la vicenda di fronte alle corti internazionali, ma è la prova che in Egitto, se sei donna, se sei un cristiano, o comunque non sei un maschio musulmano eterosessuale conservatore, devi preoccuparti».
I militari però si apprestano a lasciare il potere in meno di quattro mesi. Si apre una fase nuova, con molte incognite. In Egitto come in Tunisia dalle urne sono uscite vincitrici formazioni con una forte impronta islamica, come i Fratelli Musulmani o i salafiti. Teme che la Primavera Araba si trasformi in un Inverno Islamico?
«Occorre in primo luogo abbandonare questa immagine della Primavera Araba, che distrae dalla vera natura della rivoluzione. Non è stato un fenomeno solo arabo e non è una primavera, che poi passa. La voglia di cambiamento ha ormai raggiunto luoghi lontanissimi da piazza Tahrir, ad Alessandria come nel Sud del Paese. È normale che la gente abbia scelto in maggioranza realtà come i Fratelli Musulmani, che sono radicati sul territorio e hanno creato reti di rapporti intorno alle moschee. È giusto che ora si assumano le loro responsabilità. I grandi problemi dell’Egitto sono il lavoro, l’economia, il ritorno del turismo internazionale. Se i partiti che hanno la maggioranza non sapranno risolverli, saranno sostituiti. È la democrazia».
E il movimento nato in piazza Tahrir, che è una minoranza, che ruolo assume in questa fase?
«Le rivoluzioni le fanno sempre le minoranze. Questa è stata portata avanti da una realtà che rappresenta circa il 4% del Paese, ed è una minoranza che continuerà a far sentire la propria voce su libertà, diritti umani, sviluppo economico. L’Egitto oggi è come un triangolo che ha la giunta militare a un vertice, i partiti islamici a un altro e il movimento della rivoluzione al terzo: la dinamica tra questi tre punti determinerà il futuro. Ma sia i militari sia i Fratelli Musulmani devono ricordare che sono al potere grazie alla rivoluzione».
Si è parlato molto del ruolo del social media nelle rivoluzioni arabe. Come blogger e «Twitter-entusiasta», quanto pensa abbiano davvero contato?
«Non è stata la rivoluzione di Twitter e Facebook, come qualcuno ha sostenuto: la gente è andata fuori, in piazza, e ha preso botte in faccia tutt’altro che virtuali. E le realtà dei vari Paesi sono diverse, l’uso dei social network in Egitto o Bahrein non è paragonabile a quello dello Yemen o a ciò che vediamo in questi giorni in Siria, dove la censura è totale. Una cosa però è certa. In Egitto queste piattaforme hanno permesso a gente fino a quel momento marginalizzata di dire “io esisto” e “io conto”, e di trovare altri che dicevano lo stesso. È stata l’occasione per creare una comunità che poi si è ritrovata in piazza. E che ora non intende tornare a chiudersi nel silenzio e nella paura».

Repubblica 19.3.12
Sognava l’Italia e una promozione la vita frustrata del sergente killer
Afghanistan, in un blog le confidenze della moglie di Bales
Non sopportava più la guerra il soldato che ha ucciso donne e bambini a Kandahar
di Alberto Flores d’Arcais


NEW YORK - Sognava di trasferirsi in una base in Germania o in Italia, lontano dalla prima linea e dagli agguati dei nemici, per trovare un po´ di pace dopo anni di missioni pericolose tra le periferie di Bagdad e le montagne dell´Afghanistan. Il sergente Robert Bales, il soldato "impazzito" che ha ucciso a sangue freddo sedici civili (soprattutto donne e bambini), non ne poteva più di quel «lavoro» cui aveva dedicato la vita.
Ci sono ancora molte zone oscure in questa terribile e orribile vicenda. Ci sono gli afgani che accusano il Pentagono di nascondere verità ancora più atroci, c´è una corte marziale che potrebbe condannarlo a morte, ma anche Bales è a modo suo una vittima, l´ennesima di una guerra che dura da oltre dieci anni. Il soldato che secondo i vicini era tutto «casa e famiglia», il padre che (quando non era in missione) giocava amorevolmente con i figlioletti di tre e quattro anni nel giardinetto della casa di Lake Tapps (Stato di Washington), si era confidato con la moglie, voleva cambiare, basta Iraq e Afghanistan. Lei, Karilyn, aveva affidato le sue angosce di donna del soldato a un blog. Che oggi forse aiuta a capire qualcosa di più.
Poco meno di un anno fa, era la fine di marzo del 2011, Karilyn affida al blog la sua (e del marito) frustrazione. Il sergente non ha avuto la promozione che sperava, quel passaggio a «sergente di prima classe», che era convinto di meritare dopo i suoi "tour" tra l´Iraq e l´Afghanistan. «Ci siamo rimasti male, dopo tutto quello che Bob ha fatto, tutti i sacrifici cui si è sottoposto per amore di questo paese, della sua famiglia e dei suoi amici».
Negli stessi giorni Karilyn spera che cambi qualcosa, che l´esercito lasci al sergente «un po´ più di autonomia nello scegliere la prossima destinazione» dopo tutti gli anni passati nella base Lewis-McChord (Stato di Washington), a Bagdad, nel Kandahar. Fa un elenco di dove vorrebbero andare. Due «prime scelte», la Germania («best adventure opportunity») e l´Italia («la seconda migliore opportunità»); ma anche le Hawaii («non c´è bisogno di spiegare»), il Kentucky («saremmo almeno vicini alla famiglia di Bob») o la Georgia («per insegnare a sparare ai cecchini, non certo perché sia un posto divertente»). Vanno bene tutte, perché da questi posti sarebbe «più difficile» che lo richiamassero in Iraq o in Afghanistan.
Èun blog in cui racconta le sue paure quotidiane, le partenze di Bob all´alba («e Quincy è venuta a dormire nel lettone»), la nascita della stessa Quincy mentre il padre si trovava in un aeroporto del Kuwait, i «brutti sogni» che ha iniziato a fare dal 2009 ogni volta che il marito si trovava al fronte. Racconta dell´orgoglio di Bob che va a combattere per l´America e per la libertà, ma anche della sua stanchezza, dello stress della guerra.
Quattro missioni di combattimento in un decennio, l´ultima che si è chiusa nel massacro di civili in quel piccolo villaggio di Panjwai, nella provincia di Kandahar, roccaforte della guerriglia talibana. Per i critici del Pentagono sono troppe, non si può chiedere ad uomini, per quanto bene addestrati, di affrontare così a lungo battaglie, agguati, violenze e morti. Per il portavoce dell´esercito non è questo il problema: «Ci sono molti soldati che hanno affrontato quattro periodi di missione, ma nessuno è accusato di quello che ha fatto Bales».
È così, ma c´è sempre una prima volta, e anche nell´esercito c´è chi teme che qualcosa del genere possa ripetersi. Le vittime da «stress da guerra» tra i soldati americani sono migliaia, le cure in diversi casi sono servite a poco o a nulla.

l’Unità 19.3.12
Vaticano - Urss
L’incontro segreto che avviò il disgelo
Furono protagonisti Togliatti e don De Luca, il prelato di cui proprio oggi ricorre il cinquantesimo della morte. Il segretario del Pci convinse Krusciov a inviare un telegramma di auguri per gli 80 anni di Papa Giovanni XXIII
di Giuseppe Vacca


Don De Luca e l’amicizia con Togliatti
Don Giuseppe De Luca (Sasso di Castalda, 15 settembre 1898 Roma, 19 marzo 1962) è stato un prete, editore e intellettuale italiano. Iniziò nel 1909 i suoi studi seminariali dai gesuiti, che proseguì a Roma. Da filologo e da storico frequentò la Facoltà di Lettere di Roma e strinse sodalizi intellettuali con i più illustri docenti. Fu anche amico di Togliatti. Tanto che il leader del Pci scrisse di lui: «La sua mente e la sua ricerca mi pare fossero volte, nel confronto con me, a scoprire qualcosa che fosse più profondo delle ideologie, più valido dei sistemi di dottrina, e in cui potessimo essere, anzi, già fossimo uniti. La sostanza della comune umanità».

L ’11 ottobre 1961 Togliatti, in partenza per Mosca, riceve da don De Luca un consiglio: un messaggio di auguri di Krusciov a Papa Giovanni XXIII.
Don Giuseppe De Luca e Palmiro Togliatti si conobbero a cena da Marisa Cinciari e Franco Rodano la vigilia di Natale del 1944. Non si frequentarono molto, ma come risulta dalle testimonianze e dai pochi documenti che abbiamo, fra loro nacque un’amicizia. Le testimonianze riguardano il ruolo di don De Luca e di Togliatti nell’avvio del disgelo tra il Vaticano e l’Unione Sovietica. I documenti sono assai significativi dei contenuti intellettuali e morali che sostanziarono non solo il loro rapporto, ma anche la stagione del dialogo fra comunisti e cattolici a lungo cercata da Togliatti e giunta con il pontificato di Giovanni XXIII.
IL VIAGGIO
L’11 ottobre del 1961, alla vigilia della partenza di Togliatti per Mosca, dove era in programma il XXII congresso del Pcus, si incontrarono a cena in casa Rodano e don De Luca propose a Togliatti di suggerire a Krusciov di dare un segnale distensivo anche al Vaticano. Il disgelo fra Usa-Urss aveva già segnato un momento di grande valore simbolico nell’incontro fra Kennedy e Krusciov a Vienna nel giugno 1961, e la costruzione del muro di Berlino (13 agosto) aveva avviato un periodo di stabilizzazione dell’assetto europeo che sarebbe durato fino alla sua rimozione (9 novembre 1989). Nel nuovo clima internazionale caretterizzato dalla presenza di tre grandi figure carismatiche Kennedy, Krusciov e Papa Giovanni che facevano sperare nel superamento della contrapposizione fra Est e Ovest, De Luca ebbe l’approvazione del Papa e Togliatti portò a Krusciov la sua proposta.
Fra le carte di Togliatti c’è un appunto di mano di De Luca che dice: «Nell’80 ̊ del Papa, farsi vivi. Cioè non ereditare i rancori della Chiesa russa, superando anche in questo il nazionalismo. Non fosse altro come un possibile tramite di propaganda, il cattolicesimo romano è più diffuso del protestantesimo inglese e tedesco e del cristianesimo russo. Roma è l’unico ponte possibile». L’annotazione autografa di Togliatti, «da don D. L. prima del 22», rivela quale fosse il suggerimento di don De Luca: far inviare da Krusciov un telegramma di auguri al Papa per il suo 80 ̊ compleanno. Il telegramma giunse a Roma il 25 ottobre e fu reso noto dall’Osservatore Romano. Ma, fatto ancora più rilevante, si avviarono anche trattative per un evento di grande impatto simbolico, che si sarebbe verificato il 7 marzo 1963 con l’udienza in Vaticano di Alexiej Adjubei, direttore delle Izvestia, accompagnato dalla moglie Rada, figlia di Krusciov. Poche settimane dopo, con la pubblicazione dell’enciclica Pacem in terris l’11 aprile, Papa Giovanni abrogava di fatto la scomunica del 1949 poiché, nel ribadire la condanna del marxismo, introduceva la distinzione fra «l’errore» e «l’errante» restituendo alla valutazione dei comportamenti politici e morali dei singoli, il giudizio della Chiesa sui comunisti.
Tornando a De Luca, il 30 novembre del 1961 egli commentò il telegramma di Krusciov nei suoi diari: «É un immenso fatto (dal 1917, silenzio, odio), e sarà il seme della storia futura». Si riprometteva quindi di dar seguito alla sua azione e il 17 gennaio 1962, rispondendo agli auguri di Togliatti per l’anno nuovo, rievocava la cena che aveva originato il telegramma e scriveva: «Torno a ringraziarla di quella sera, di quello che si disse, di quello che ne seguì, torno a dirle che volentieri sempre parlo con lei e lei è per me tra quei pochi che, vivendo, della mia vita sono stati un po’ la compagnia e un po’ la fierezza». Come ha ricordato Marisa Rodano nelle sue memorie, stavano cercando di organizzare un’altra cena, che però non ebbe luogo per il precipitare della malattia e della morte di don De Luca.
La lettera citata echeggia il carattere della loro amicizia con toni analoghi a quelli usati da Togliatti nel ricordo scritto poco dopo la sua morte («Lui sacerdote, io non credente», ripubblicato da l’Unità il 15 marzo scorso). Ma, per cogliere il senso più intimo del desiderio di riconoscimento reciproco che animò la loro relazione, vorrei ricordare il passo di un’altra lettera, la prima delle tre conservate fra le carte di Togliatti, che illumina il motivo centrale del suo successivo ricordo. Dopo anni d’interruzione dei contatti personali, il 20 febbraio 1960 Togliatti aveva inviato a De Luca una sentita lettera di condoglianze per la morte del fratello Luigi, che si occupava delle Edizioni di Storia e Letteratura. Rispondendo, il 4 marzo, don Giuseppe scriveva: «Dirle che ne ebbi conforto grande è un dirle cosa che a lei non farà meraviglia perché sa come le sono legato e come la sento legata a me in un sentimento umano e dell’umano che non domanda nulla per esistere e per valere, ma ha in sé la sua ragion d’essere ed è, se non beato, contento e rende contento (o mi sbaglio?)». Quel «sentimento umano e dell’umano» troverà una corrispondenza profonda nel ricordo di Togliatti: «La sua mente e la sua ricerca mi pare fossero volte, nel confronto con me, a scoprire qualcosa che fosse più profondo delle ideologie, più valido dei sistemi di dottrina, e in cui potessimo essere, anzi, già fossimo uniti (...). La sostanza della comune umanità».
IL DISCORSO DI BERGAMO
Si può fondatamente ritenere che l’amicizia e lo scambio spirituale con don De Luca abbiano contribuito a far maturare definitivamente in Togliatti la persuasione della irriducibilità e dell’autonomia del fatto religioso che furono al centro del suo discorso di Bergamo, «Il destino dell’uomo», tenuto non a caso nella città di Papa Giovanni il 20 marzo del 1963, tre settimane prima della Pacem in terris. Va sottolineato che quel discorso segnò il punto più alto della revisione togliattiana del comunismo in tema di dottrina della guerra e teoria delle relazioni internazionali. Forse la chiave di lettura più feconda per capire l’incidenza della relazione con don Giuseppe De Luca sul pensiero di Togliatti è quella suggerita dalla bellissima biografia del «prete romano» che dobbiamo a Luisa Mangoni, «In partibus infidelium». La cifra della straordinaria figura intellettuale del sacerdote lucano era nella visione culturale dei problemi politici, religiosi e umani del suo tempo. E questa sensibilità l’aveva portato a scrivere il 21 aprile del 1947, agli albori della guerra fredda: «Il comunismo è più che un partito, è una religione. Una religione non la si combatte né con l’irreligione né con la violenza, così anzi la si fa riardere più potentemente. Ma il comunismo è anche un partito e una politica (...). Bisogna scindere tra i due elementi: la forza religiosa dell’idea, la forza politica di chi quest’idea ha monopolizzato. Questa bisognerebbe isolare e battere, nell’interesse stesso delle idee eccellenti, anzi ammirabili, che bisogna riconoscere nella predicazione comunista». Forse questa percezione non fu estranea alla mente dello stesso Togliatti almeno negli ultimi anni della sua vita, segnati da un profondo travaglio per la crisi del comunismo sovietico.

Repubblica 19.3.12
Prada, Hermès e i comunisti cinesi
di Moisés Naìm


In questi giorni la rivista Forbes, come fa ogni anno, ha pubblicato l´elenco delle persone più ricche del mondo. Casualmente questa pubblicazione è coincisa con un altro evento annuale che si svolgeva agli antipodi della sede newyorchese della rivista: si tratta della riunione dell´Assemblea nazionale del popolo, formalmente l´organo supremo dello Stato cinese, quello che rappresenta il potere legislativo. La cosa sorprendente è che questi due fatti sono collegati: la lista dei delegati all´Assemblea include quasi tutte le persone più ricche della Cina, e alcuni di questi nomi compaiono anche sulla lista di Forbes.
Con i suoi 2.987 rappresentanti, l´Assemblea nazionale del popolo è il Parlamento più numeroso del mondo e le sue riunioni, che si tengono nella Grande Sala del Popolo, sulla leggendaria piazza Tienanmen di Pechino, fanno sempre notizia. Non per le decisioni che vengono prese: questo organo in pratica non ha nessun potere. È un´istituzione simbolica e le sue riunioni coincidono con quelle di un´altra istituzione che ha grandi numeri e poco potere, la Conferenza politica consultiva del popolo. L´importanza di questi congressi annuali è legata al fatto che i veri leader del Paese utilizzano i loro discorsi per far conoscere al popolo cinese e al mondo le loro priorità e le loro preoccupazioni. In quest´ultima riunione, per esempio, il primo ministro Wen Jiabao, ha segnalato che la Cina deve intraprendere riforme urgenti, ha riconosciuto che la disuguaglianza e la corruzione sono problemi fondamentali e che la crescita economica in futuro sarà più lenta di com´è stata finora.
La riunione dell´Assemblea nazionale del popolo ha fatto notizia anche per l´eleganza dei rappresentanti. La giornalista Louisa Lim ha sottolineato, ad esempio, il completo della delegata Li Xialin – un Emilio Pucci che costa 2.000 dollari – e la borsa Louis Vuitton modello Alma da 2.500 dollari che sfoggiava la delegata Cheng Ming Ming. Mi sembra pertinente informarvi che la signora Li è la figlia dell´ex primo ministro Li Peng e che la signora Cheng, che accompagnava la borsetta Louis Vuitton con una chiassosa pelliccia, è la proprietaria di una delle più importanti aziende di cosmetici cinesi. Non mancavano anche i rappresentanti di certe minoranze etniche, che combinavano i loro abiti tradizionali con borse Burberry da 800 dollari. Inevitabilmente, la vivace e sempre più audace comunità di blogger cinesi ha cominciato a definire le riunioni dell´Assemblea "la Settimana della Moda di Pechino".
Le probabilità che queste borse, vestiti o cinture siano delle imitazioni non sono molto alte: i delegati dell´Assemblea possono permettersi il lusso di comprare gli originali. La loro opulenta eleganza è la manifestazione della loro immensa ricchezza. Il patrimonio personale dei 70 delegati più ricchi dell´Assemblea nazionale del popolo nel 2011 ha raggiunto, secondo Bloomberg, i 90 miliardi di dollari, 11,5 in più che nel 2010.
I delegati della Conferenza politica consultiva del popolo sono ancora più ricchi: il patrimonio personale di ognuno di loro supera il miliardo e mezzo di dollari (il 14 per cento in più dell´anno scorso). Per avere un´idea delle proporzioni, basta sapere che il reddito medio pro capite in Cina è di appena 4.200 dollari all´anno. Pur essendo raddoppiato rispetto al 2000 resta più basso di quello di Paesi molto poveri come il Sudafrica o il Perù.
La presenza dei super ricchi in cinesi in queste istituzioni ha avuto inizio con una decisione meravigliosamente paradossale: circa dieci anni fa, il segretario del Partito comunista, Jiang Zemin, aprì le porte ai "capitalisti" del suo Paese, concedendo loro di potersi iscrivere al partito. Molti dei ricchi si iscrissero, ma è evidente che molti dei membri del partito sono diventati ricchi. «È una situazione come quella dell´uovo e della gallina: sono potenti politicamente perché sono ricchi o sono ricchi grazie al loro potere politico?», si domanda Rupert Hoogewerf, che pubblica Hurun, un elenco annuale dei mille cinesi più facoltosi. La rivista Forbes, con il suo elenco dei più ricchi, può aiutare il signor Hoogewerf a trovare la risposta: esaminando le origini delle fortune più ingenti del pianeta si vede chiaramente che in molti casi hanno potuto crescere al riparo (a dir poco) dei governi. In molti Paesi è lo Stato, e non il mercato, la via per ottenere ricchezze incommensurabili. E in questo la Cina non fa eccezione.
Traduzione di Fabio Galimberti

l’Unità 19.3.12
Le meraviglie del neutrino cinese
Un esperimento di Jun Cao e altri 240 fisici ha misurato il terzo angolo di mescolamento delle particelle. Una scoperta di grande portata
di Pietro Greco


Ha fatto molto rumore l’annuncio effettuato sul sito arXiv da parte di Carlo Rubbia, ideatore e direttore di quell’esperimento Icarus che presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso studia le oscillazioni dei neutrini, compresi quelli del progetto Cngs (Cern Neutrinos to Gran Sasso) a Ginevra. Abbiamo misurato la velocità con cui viaggiano tra la Svizzera e l’Abruzzo le elusive particelle – hanno detto i fisici di Icarus – e abbiamo verificato che sono un po’ più lenti della luce. La misura del gruppo diretto da Carlo Rubbia corrobora la convinzione, ormai diffusa, che la velocità superluminale dei neutrini misurata dal gruppo Opera diretto da Antonio Ereditato sia frutto di un errore. Errore che lo stesso gruppo Opera ha individuato qualche settimana fa.
Ora non resta che attendere le misure del tutto indipendenti che saranno realizzate negli Stati Uniti e in Giappone per chiudere la vicenda del «neutrino più veloce della luce».
Ha fatto, tuttavia, meno rumore un altro articolo pubblicato sul medesimo sito arXiv da Jun Cao e dagli altri 240 fisici impegnati nel «Daya Bay Reactor Neutrino Experiment». Un articolo almeno altrettanto importante. Sia per i contenuti fisici che propone. Sia per il luogo, la Cina, dove l’esperimento è condotto. Il gruppo ha infatti misurato con grande precisione uno dei tre «angoli di mescolamento» dei neutrini, quello detto «Teta 13». Ai più questo parametro dirà poco. Ma non è complicato da spiegare. I neutrini sono particelle che interagiscono poco con la materia. Ma grazie a Bruno Pontecorvo, allievo di Enrico Fermi, sappiamo che ne esistono di tre tipi (elettronici, muonici e tau) che «oscillano», ovvero si trasformano l’uno nell’altro mentre corrono nello spazio (a velocità prossima, ma a quanto pare non superiore a quella della luce). Se i neutrini oscillano, diceva Pontecorvo, allora hanno una massa, sia pure piccolissima.
L’IPOTESI DI PONTECORVO
Il gruppo Opera negli scorsi anni ha dimostrato che Pontecorvo aveva ragione: i neutrini oscillano e, dunque, hanno una piccola massa. Già ma «quanto oscillano»? In che percentuale i neutrini elettronici si trasformano in muonici viaggiando, per esempio, tra il Sole (uno dei luoghi dove vengono prodotti) e la Terra? L’«angolo di mescolamento» ci dice a quanto ammonta questa percentuale. Finora ne erano stati misurati due, di angoli di mescolamento. Il «Daya Bay Reactor Neutrino Experiment» ha misurato il terzo e ha chiuso il quadro. Il bello è che la sua misura «spalanca una porta», come sostiene sulla rivista Science l’americano Robert Plunkett, un fisico del Fermi National Accelerator Laboratory di Batavia, in Illinois. La porta spalancata è quella della verifica di una asimmetria tra il comportamento dei neutrini e quello degli antineutrini. Asimmetria che potrebbe spiegare perché il nostro universo è costituito in larga parte di materia e non di antimateria. Insomma, il «Daya Bay Reactor Neutrino Experiment» apre una nuova pista di ricerca e dimostra che lo studio di queste elusive particelle dominerà la fisica delle alte energie nei prossimi anni.
Ma oltre il contenuto scientifico, c’è la dimensione geografica della notizia. Il «Daya Bay Reactor Neutrino Experiment» ha battuto sul tempo una serie di altri esperimenti analoghi: il Minos negli Stati Uniti, quello condotto col reattore Double Chooz nella città di Chooz in Francia, il Reno in Corea del Sud. Questo, come sostiene Robert McKeown, un americano in forze al Thomas Jefferson National Accelerator Facility di Newport, in Virginia, è probabilmente il più grande risultato di fisica finora raggiunto in Cina. E dimostra che la fisica cinese delle particelle è ormai in grado di competere alla pari con chiunque.

Repubblica 19.3.12
Dario Biocca torna sulla questione della scarcerazione dell’intellettuale e dirigente comunista
La iberazione di Gramsci e gli altri detenuti politici
"Le cattive condizioni di salute e la buona condotta non bastavano per uscire: veniva sempre giudicato anche il ravvedimento"
di Dario Biocca


Nel commentare quanto ho scritto su la Repubblica il 25 febbraio il prof. Buttigieg, Presidente della International Gramsci Society, ha affermato che nel 1934 Gramsci beneficiò della libertà condizionale non per il suo ravvedimento, che allora non era richiesto dalla legge, ma per la buona condotta tenuta in carcere. L´argomento sarebbe stato già trattato da autorevoli studiosi (Fiori, Spriano, Santucci), ogni altra ipotesi dunque è fantasiosa anzi è "lorianismo" – come dire: sciocchezze.
Ciò che il prof. Buttigieg sostiene a proposito del testo della legge è corretto ma è anche largamente incompleto. È vero che nel 1930 la clausola del ravvedimento non era prevista dal nuovo Codice penale; essa fu tuttavia introdotta, nella normativa e nei fatti, l´anno successivo. Con l´art. 43 del Regio Decreto n. 602 del 28 maggio 1931, infatti, Mussolini attribuì al Ministro della giustizia, cioè al suo governo, l´autorità di emanare le disposizioni applicative della legge ed emettere i relativi decreti. Come documentano decine di fascicoli di detenuti politici, le nuove procedure furono applicate con severità e imposero la verifica del ravvedimento – reintegrato infine anche nel testo della legge nel 1962.
Il tema della liberazione di Gramsci, in realtà, non è stato approfondito dai biografi; lo testimonia (anche) la cronologia curata dalla Gramsci society che, come numerose fonti a stampa, attribuisce la concessione della libertà condizionale ad «articoli del codice penale e regolamenti penitenziari relativi ai diritti dei detenuti malati». Come ho appena detto, così non era. Il problema è dunque aperto a nuovi studi e riflessioni.
Nel corso degli anni ´30 numerosi reclusi condannati dal Tribunale speciale si trovarono in condizioni giuridiche e disciplinari analoghe a quelle di Gramsci ma le loro istanze furono respinte, anche in presenza di gravi condizioni di salute. La ragione era sempre la stessa: i detenuti, come si legge nelle delibere (che pubblicherò in un prossimo saggio) esibivano attestati di buona condotta ma non prove di ravvedimento. Non si trattava di adempimenti burocratici o dichiarazioni formali (e fasulle), come oggi tendiamo a credere, ma di precise disposizioni che richiedevano (con questionari e fascicoli pre-stampati) i pareri delle autorità carcerarie, delle parti lese, degli organi di Polizia, del Tribunale di sorveglianza, ecc. Come nel caso di Gramsci, era alla fine Mussolini a decidere, non un magistrato. Se così non fosse stato, del resto, il fascismo avrebbe affidato a pigri meccanismi amministrativi la sorte dei suoi oppositori. Invece il regime mussoliniano, proprio in ragione di queste procedure, era una dittatura. Chi volesse documentarsi può esaminare le carte: non un militante o dirigente comunista beneficiò della libertà condizionale se non dopo la puntigliosa verifica del suo ravvedimento. Sappiamo inoltre dalle corrispondenze sequestrate ai detenuti e finora mai pubblicate che molti comunisti considerati "irriducibili" appresero con sorpresa, a volte con sconcerto, la notizia che invece Gramsci aveva ottenuto la scarcerazione.
Il prof. Buttigieg ritiene che in Gramsci non vi fu ombra né onta di ravvedimento, che in quel contesto giuridico e politico significava impegnarsi a interrompere ogni rapporto con i comunisti. Ritiene anche che io accusi Gramsci di essersi «inchinato al cospetto del duce» o essere "un pentito" al solo scopo di «distruggere il mito» o «fare uno scoop». Buttigieg sbaglia. Tutto ciò che emerge dagli archivi induce a ritenere che negli ultimi anni della sua vita, non potendo più altro dire o scrivere anche per l´aggravarsi delle sue condizioni fisiche, Gramsci tacque interrompendo anche la stesura dei Quaderni. Credo sia necessario esplorare questo capitolo della biografia senza reticenze né pregiudizi, interrogandosi anche sul significato che oggi noi attribuiamo alle parole – tra le quali il "ravvedimento" – e sul silenzio di Gramsci, che si protrasse fino all´ultimo giorno.

Repubblica 19.3.12
La replica
Non si fa storiografia senza documenti
di Joseph Buttigieg


Biocca ammette il serio errore filologico in cui è incorso: anticipare al 1934 il testo dell’articolo del codice penale – il 176 – in uso a partire dal novembre del 1962. Serio perché nel testo del 1962 figura quell´atto di "ravvedimento" che manca nello stesso articolo in vigore nel 1934 quando Gramsci fa richiesta di libertà provvisoria. Di questo articolo del codice penale Biocca faceva l´architrave di un intervento che si proponeva didemolire la storiografia su Gramsci.
Non potendosi più affidare al testo della legge in vigore nel 1934, Biocca tenta ora di ripresentare il suo argomento appoggiandolo su supposizioni e illazioni che – in assenza di una nuova documentazione – sono destinate a rimanere tali. Un modo di procedere che non dovrebbe essere permesso. La farraginosa spiegazione produce un solo risultato: quello di rimarcare l´infondatezza della tesi. Tra tanti "questionari", "fascicoli", "verifiche" citati nell´articolo, Biocca non riesce a trovare un solo documento che mostri "il ravvedimento" gramsciano. L´autore inoltre continua a eludere una domanda fondamentale: perché Mussolini avrebbe nascosto il "ravvedimento" del suo nemico? Non sarebbe stato logico utilizzarlo sul piano della propaganda, essendo Gramsci un caso internazionale?
In conclusione. Tutti auspichiamo che nuove conoscenze aprano nuovi orizzonti nel campo degli studi gramsciani, ma il contributo di Biocca non è ahimè in grado di far ciò, e questo suo tentativo non è aiutato dalla frettolosa liquidazione di una storiografia che ha lavorato con ben altra serietà, anticipando molte delle cose che ora Biocca sembra scoprire per la prima volta. Il mio giudizio sul suo metodo non può quindi essere diverso da quello già espresso.
(L´autore è presidente della Gramsci Society)

Repubblica 19.3.12
La bomba a orologeria dell’autismo ignorato
di Mario Pirani


Quasi in concomitanza con la nostra ultima rubrica sulle vicende di 400.000 bambini con salute mentale a rischio (Repubblica, 12/3), leggo su Le Monde (9/3) due pagine dedicate alle più aspre ma similari discussioni che si svolgono in Francia, un paese che non ha ancora realizzato l´integrazione scolastica per la presa in carico dei minori affetti da Ted (turbe invadenti dello sviluppo), in modo particolare l´autismo. Quanto all´Italia i messaggi ricevuti forniscono un riscontro sensibile da parte di varie regioni. Segnala, ad esempio, il presidente della Onlus Autismo Toscana, Marino Lupi, (www.autismotoscana.it), composta di familiari di bambini-ragazzi autistici, come questi ad un certo punto letteralmente "scompaiono", in quanto non più seguiti nella vita adulta. «Pensi – mi scrive Lupi – che da un´ indagine regionale che la nostra Onlus è riuscita a fare nel 2006, le persone con autismo sopra i 18 anni risultavano in tutta la Toscana appena 75 mentre in nessuna Usl si segnalavano casi di autismo superiori ai 44 anni di età. Malgrado la cecità statistica la domanda è sempre la stessa: quale futuro per le persone cresciute con autismo? Quanto ci costerà questo disastro umano ed economico annunciato?».
Posso solo citare tra le molte altre missive quella del dott. Farrugia, segretario laziale della Società di neuropsichiatria dell´infanzia, e di due terapiste che seguono soggetti con «disabilità non visibile a livello macroscopico (disturbo specifico del linguaggio, ritardo psicomotorio, disturbo di apprendimenti o disturbo dello spettro autistico e della coordinazione) spesso considerati soggetti lenti e svogliati, immaturi o bizzarri, con scarso riconoscimento del Disturbo». Infine il prof. Stefano Seri, distaccato all´Aston University di Birmingham, Uk, sostiene anche lui una «revisione della legislazione incentrata in primo luogo sulla sostenibilità nel lungo periodo».
Il prof. Gabriel Levi, primario di psicoterapia infantile, che assieme al compianto Giovanni Bollea ha raccolto i dati tecnici per una Legge sulla Salute mentale in Età evolutiva, ci ha spiegato: «A via dei Sabelli abbiamo in fase avanzata diversi progetti di ampio respiro. Sulla riabilitazione per fasi di età dell´autismo. Sulle malattie neurologiche rare. Sulla terapia integrata delle crisi psicotiche adolescenziali. Sui disturbi specifici di apprendimento. Sulla prevenzione precoce della depressione e dei disturbi di personalità in età adulta. Abbiamo il know how per utilizzare a 360 gradi una esperienza di 5 anni, unica in Europa. Ci mancano pochi soldi. Basterebbero, per esempio, i fondi per 6 contratti o di mobilità per 6 giovani psichiatri infantili per andare ad un organico a pieno regime». Potremmo arrivare con bassissima spesa e il massimo di riordino alla nuova legge, da affiancare alla legge 170 che affronta la dislessia e l´integrazione scolastica. Un passo indispensabile anche con l´intento di impedire che la diagnosi di Dsa (disturbi specifici di apprendimento) venga attribuita a un numero eccessivo di bambini, spinti verso un riconoscimento di handicap, con l´evidente fine di ottenere l´insegnante di sostegno. Per contro la legge dovrebbe servire ad integrare i diversi interventi a francobollo con spese regionali oggi frammentate (dall´autismo al bullismo, dalle difficoltà dei minori migranti agli affetti da depressione). I disturbi vanno differenziati secondo il loro grado di gravità (spesso dovuto alla tardiva scoperta e presa in carico) e, analizzati secondo l´età dell´individuo. Comunque il dato globale che giustifica una legge ad hoc deriva dal quadro seguente: in Italia 4 bambini su 100 vengono seguiti dai Servizi di neuropsichiatria dell´età evolutiva per problemi significativi, mentre per ogni bambino che non viene visto ne esiste un altro che non è segnalato e che se non sarà preso in carico, "esploderà" da adolescente o da adulto. Una bomba già innestata.

Repubblica 19.3.12
La dittatura del presente
Augé: Questo "non tempo" ci impedisce di crescere
L’antropologo analizza la situazione attuale e spiega come si potrebbe uscirne
"Non dimentichiamoci dell’albero della conoscenza e del gesto di Eva: grazie a questo si costruisce il domani"
“L’attimo è la nuova unità di misura: oggi tecnologia ed economia che sono più veloci mettono all’angolo la politica"
di Marino Niola


«La crisi provocata dalla finanza ci ha rubato il futuro. Lo ha letteralmente seppellito sotto le paure del presente. Tocca a noi riprendercelo». A dirlo è Marc Augé, uno dei più celebri antropologi del mondo, nel suo ultimo libro, Futuro, (Bollati Boringhieri). Misura accuratamente le parole l´autore di Non luoghi. Non ha la veemenza né l´irruenza del tribuno, eppure dietro la sua riflessione pacata si avverte il rigore inflessibile dell´illuminista. Che lascia al mondo una speranza: quella di essere salvati dalle donne.
Perché per la maggior parte delle persone l´avvenire è diventato un incubo più che una speranza?
«Le cause sono molte, ma due mi sembrano decisive. L´accelerazione impressa alle nostre esistenze dalle nuove tecnologie e la crisi della finanza. Una miscela esplosiva che ha cambiato l´esperienza individuale e collettiva del tempo. Facendo dilagare l´incertezza, rendendo epidemico il timore di ciò che ci aspetta».
Trasformando insomma il futuro in un frutto avvelenato.
«Intossicato da un´incertezza che accomuna tutti. I giovani temono di non trovare un lavoro, di non poter progettare il loro avvenire e si sentono bloccati in un eterno presente fatto di precarietà. I loro padri invece hanno paura di perdere la pensione, l´assistenza sociale, di finire in miseria».
Il risultato è che la vita sembra impallata in un immobilismo senza uscita. Senza progresso.
«Senza più alcuna speranza di mobilità sociale. È questa la differenza con il passato. Mio nonno non aveva potuto studiare, ma era un uomo intelligente e ha investito sulla formazione dei suoi figli. Mio padre era un funzionario statale e ha voluto che io diventassi un intellettuale, realizzando in me i suoi sogni. Questo è stato possibile grazie alla scuola pubblica e all´istruzione di massa. Oggi non è più così».
Anche perché ormai la scuola riproduce le ineguaglianze, le conferma, non mira più a colmarle, a stemperarle.
«Questo è vero per la scuola come per tutti gli altri dispositivi di formazione pubblica. È il caso dell´abolizione del servizio militare che ha ridotto le occasioni di incontro, di rimescolamento e di livellamento delle diverse classi, appartenenze, culture, ceti. Così il corpo sociale è sempre più immobile, ciascuno chiuso nei propri quartieri, nelle proprie scuole, nelle proprie famiglie, con una tendenza quasi castale, premoderna».
Tipica di una civiltà che ha abolito i riti di passaggio, le tappe iniziatiche della vita, rendendo difficile costruirsi un avvenire. Così di fatto stazioniamo tutti in un perpetuo hic et nunc.
«Effettivamente noi viviamo in una sorta d´ipertrofia del presente. Che è amplificata dai media, vecchi e nuovi. In un certo senso il nostro tempo non è più lineare ma circolare. Come quello delle società primitive, come quello del mondo contadino. Fondati sull´alternanza delle stagioni. E anche noi del resto viviamo di stagioni: sportive, scolastiche, politiche».
Un´esistenza ridotta a calendario. L´opposto del tempo storico, del progresso, del sol dell´avvenire.
«È il contrario di quello che si pensa comunemente della civiltà tecnologica che sarebbe perennemente protesa verso l´innovazione. Invece siamo prigionieri di una sorta di eterno ritorno scandito non più dai rintocchi delle campane, ma dai palinsesti televisivi e dai ritmi della finanza globale. Viviamo più a lungo, ma iniziamo a vivere più tardi. Pensi alla rivoluzione francese. È stata fatta da persone che avevano poco più di vent´anni. Erano dei ragazzi ma cambiarono il corso della storia. Paradossalmente la vita più breve costringeva tutti a maturare più rapidamente».
Quindi la globalizzazione ha globalizzato anche il tempo?
«Proprio così, oggi il tempo è diventato l´unità di misura di tutto, anche dello spazio. Non parliamo più in termini di distanza chilometrica ma di tempo di percorrenza. Tre ore di volo. Due di alta velocità. Quattro di autostrada. E i nostri riferimenti sono globali, non più nazionali. Città e non paesi. Si parla di New York, Mumbai, San Paolo, Parigi. L´insieme forma una nuova geografia, un´inedita territorialità virtuale. In questo senso la tecnologia e l´economia sono più veloci e potenti della politica. E la mettono nell´angolo».
Dai non luoghi ai non tempi. È il capitalismo finanziario globale che riscrive le coordinate della realtà.
«Il capitalismo finanziario di fatto ha realizzato a suo modo l´ideale universalista del proletariato di una volta, il cosiddetto internazionalismo socialista».
Come dire, proprietari di tutto il mondo unitevi.
«Ovviamente la finanza ha trasformato l´universalismo in globalismo, in economia multinazionale. Ecco perché le ineguaglianze sono aumentate nonostante l´ingresso di nuovi protagonisti sulla scena della storia».
È anche per questo che la politica è ormai ridotta a governance, a semplice gestione di consumi e servizi?
«Sì e per giunta si tratta di cattiva gestione. È un´idea della politica da fine della storia. Con un certo modello di libero mercato e di democrazia che si mondializzano e diventano pensiero unico, non resta altro che assicurare il buon funzionamento del mercato. Così il mondo viene ridotto a un´unica immensa provincia. È l´ultimo atto di quel tramonto delle grandi narrazioni, filosofiche, politiche, nazionali, in cui Jean-François Lyotard identifica lo spirito della postmodernità».
Ma allora è tutto perduto o possiamo fare qualcosa per riprenderci il futuro?
«A dispetto delle apparenze non tutto è perduto. Intanto dei varchi importantissimi li stanno aprendo passo dopo passo la scienza e la tecnologia. Noi siamo abituati a pensare che per creare un mondo nuovo si debba prima immaginarlo. Invece le grandi invenzioni che stanno rivoluzionando le nostre vite, dalla pillola a internet, non sono nate da un´immaginazione politica o da chissà quale utopia. Non da una grande narrazione, insomma, ma semplicemente dalle ricadute concrete delle scoperte scientifiche. Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo. Stiamo diventando degli esistenzialisti pragmatici. E da questo potrebbe nascere la nuova sfida per il futuro».
Quindi grazie alla scienza e alla tecnologia il futuro lo stiamo già vivendo senza saperlo?
«Sì, ma resta da fare il passo essenziale per diventare titolari del nostro avvenire».
Cioè?
«Raccogliere fino in fondo la sfida della conoscenza. È solo il sapere che può schiuderci le porte di un domani migliore. Forse il segreto della felicità degli individui e delle società sta nel cuore delle ambizioni più vertiginose della scienza. E per realizzarle le due priorità assolute sono il potenziamento immediato dell´istruzione pubblica e il raggiungimento effettivo dell´eguaglianza fra i sessi. Detto in altre parole: la scuola e la donna».
È per questo che lei fa l´elogio del peccato originale?
«Sì e non è solo un paradosso. È grazie a Eva che l´uomo ha mangiato il frutto dell´albero della conoscenza ed è diventato uomo. Così è iniziata la nostra storia e se vogliamo che ci sia un futuro dobbiamo continuare a mangiare quel frutto. Dividendo la mela in parti uguali».

Corriere della Sera 19.3.12
La doppia eredità di Bonaparte
I codici modernizzatori ma anche le tentazioni autoritarie
di Luciano Canfora


Il protagonista del più celebre romanzo di Arturo Pérez-Reverte, Il club Dumas, l'avventuroso Lucas Corso, si rilassa replicando, a tavolino, la battaglia di Waterloo. Corso ogni volta porta l'imperatore alla vittoria, in contrasto con l'esito effettivo dello sventurato evento e conclude ogni volta: «Allonsanfan. Tutti i libri di storia possono andare al diavolo!». Incominciare e concludere con Waterloo un libro intitolato I dieci errori di Napoleone (così Sergio Valzania, Mondadori, pp. 240, 19) è sintomatico di una immortale «Bonaparte-mania», che è incominciata già vivo l'imperatore. Sarebbe appropriato ricordare a questo proposito, oltre alla vasta letteratura che illumina questo fenomeno — dalla Certosa di Parma al Colonnello Chabert, all'impressionante fascinazione che traspare dal manzoniano Cinque maggio —, le convulsioni di personaggi poi assurti a simbolo del liberalismo più «perbene», come Benjamin Constant, attratti però dal ritorno dell'imperatore persino nella tumultuosa parentesi dei Cento giorni. Fu infatti Constant che, nei Cento giorni, pose mano all'«atto costituzionale» col quale Bonaparte, tornato inopinatamente al potere, intendeva dare una facciata costituzionale al suo potere, definito «tirannico» dagli avversari delle più diverse fedi.
La centralità, anche umana, di Waterloo è dunque più che comprensibile. E legittima appare la domanda, implicita sia nei «giochi di guerra» di Lucas Corso che nel libro di Valzania: quale sviluppo avrebbe avuto la storia d'Europa se nella «triste pianura» di Waterloo (come la chiamò Victor Hugo in una celebre poesia) l'imperatore avesse vinto la battaglia, rimasta in bilico fino all'ultimo? Non è senza significato che, nei Miserabili, Hugo dedichi un intero libro alla dettagliata descrizione dei luoghi, dei modi e dei tempi di quella battaglia, prendendo a pretesto il fatto che, nell'economia del romanzo, ha un ruolo un atto di sciacallaggio compiuto dall'ignobile Thénardier sui corpi dei caduti a Waterloo. E come Hugo ha sentito il bisogno di inserire nel romanzo un intero libro su Waterloo, così — in polemica frontale con il filobonapartismo dei Miserabili — Lev Tolstoj dedicherà un intero libro di Guerra e pace ad Austerliz col proposito esplicito di dimostrare la inanità dei piani dei grandi generali, Bonaparte incluso, rispetto all'effettivo andamento e all'esito delle battaglie: a partire proprio da quella che fu giudicata (e Valzania lo mette bene in luce) la più splendida delle vittorie napoleoniche.
Valzania non è insensibile alla tematica del «tradimento», all'interferenza cioè di questo micidiale fattore, non sempre percepito dagli storici nella sua rilevanza, e considerato piuttosto come un condimento romanzesco della ricerca. Si tratta della questione del mancato arrivo di Grouchy, e della sua colonna nel momento cruciale della battaglia di Waterloo. Non sembra però che nel caso specifico le fonti disponibili consentano di superare il piano del generico sospetto.
Il grande errore di Napoleone è, ovviamente, la campagna di Russia. Valzania segnala con molta forza l'apologetica considerazione retrospettiva del Bonaparte: il mio proposito non era di conquistare la Russia. Una considerazione non del tutto chiarificatrice in merito a quell'impresa sommamente impegnativa e risoltasi totalmente in perdita, perché fondata su una carente conoscenza del «pianeta Russia». L'altro fallimento, 130 anni dopo, del rinnovato tentativo — quello hitleriano — di piegare la Russia attraverso un colossale sforzo militare, ha rappresentato la controprova fattuale dell'errore basilare compiuto dal Bonaparte. E si potrebbero elencare anche, cento anni prima di Napoleone, il fallimento dell'attacco svedese contro la Russia, nonché, dopo il 1991, il fallimento del tentativo, verificatosi al termine della «guerra fredda», di declassare la Russia a potenza di seconda o terza fila attraverso lo smembramento dell'Urss attuato da Boris Eltsin d'intesa con la parte più disinvolta ed interventista del vertice statunitense. Il bilancio storico che se ne cava è che esistono Paesi non conquistabili: la Russia, la Cina, gli Stati Uniti. In tutti e tre i casi è la geografia che aiuta a capire.
L'analogia tra le due campagne di Russia, quella di Bonaparte e quella di Hitler, fu messa in luce nell'immediato dopoguerra in un libro molto interessante del diplomatico rumeno Gafenco (Preliminari della guerra all'Est), il quale era ambasciatore a Mosca al momento del patto russo-tedesco dell'agosto 1939. Gafenco istituisce un parallelo significativo tra l'accordo di Tilsit (1807) tra Bonaparte e lo zar Alessandro I, sfociato pochi anni dopo nell'attacco francese alla Russia, ed il patto del '39 sfociato due anni più tardi nell'«operazione Barbarossa» (giugno 1941). Oggi una storiografia revanscista, di cui è protagonista soprattutto il polacco Musial, tende a far passare la tesi, poco fondata, secondo cui Stalin si preparava ad attaccare la Germania e fu solo preceduto da Hitler con l'«operazione Barbarossa». Tutto fa pensare che tale tesi sia inconsistente (la scelta staliniana del '39 era tutta orientata, all'opposto, nella direzione di una ostinata volontà di restar fuori dalla guerra; e per tutti gli anni Venti e Trenta l'incubo dell'Urss era stato appunto quello del «pericolo di guerra»). Nondimeno resta vero che l'intero periodo che intercorre tra il patto e l'attacco tedesco del giugno '41 è un periodo di apparente intesa e in realtà di crescente dissenso su tutto, drammaticamente esploso durante la visita di Molotov a Berlino (ottobre 1940). Del tutto analoga la situazione fra Bonaparte e lo zar Alessandro I tra Tilsit e l'invasione del 1812.
Valzania si chiede dove e quando Bonaparte ha sbagliato. L'errore, se così può definirsi, consistette invero nell'ottica «dinastica» (piazzare congiunti e subalterni più o meno fidati al vertice dei Paesi satelliti) e nell'incomprensione del fattore nazionale, attizzato e potenziato proprio dall'occupazione francese. Per altro verso la duratura vittoria di Napoleone, che fa passare in secondo piano le reiterate sconfitte militari, fu lo svecchiamento — da lui determinato — della vecchia Europa attraverso i codici (primo tra tutti il codice del commercio), sui quali si è fondata e ha prosperato l'Europa moderna, borghese e aggressiva. Non a caso è col 1830, quando, a seguito di una nuova rivoluzione presto confiscata dalla «Francia dei banchieri», il ramo orleanista sale sul trono di Parigi, che tornano in grande stile sulla scena i quadri medio-alti che avevano costituito l'ossatura dell'impero.
A tacere poi della vittoria postuma più imbarazzante, conseguita dal Bonaparte: quella consistente nell'aver lasciato in eredità all'Europa, tanto a destra quanto a sinistra, il fenomeno indomabile del «bonapartismo».

Corriere della Sera 19.3.12
La guerra civile greca: un dramma in due atti
risponde Sergio Romano


Anche la Grecia ha conosciuto negli anni finali della Seconda guerra mondiale un periodo caratterizzato da forti scontri interni tra movimenti affiliati alla Resistenza europea e le forze nazifasciste in fuga. Quanto durarono gli eventi e a quali effetti condussero?
Giorgio Arcadini

Caro Arcadini,
T ra la resistenza greca alle potenze occupanti (Germania, Italia, Bulgaria) e l'inizio della guerra civile, verso la fine del 1944, non vi fu alcun intervallo. Le condizioni del Paese erano drammatiche: 400.000 morti (di cui 300.000 civili uccisi dalla fame, dalle malattie, dalla brutalità delle repressioni), le campagne abbandonate dai contadini, le fabbriche chiuse, il mercato nero fiorente.
In un piccolo libro pubblicato a Patmos nel 2010, uno studioso dell'università svizzera di Neuchâtel, Nicolas Boudanis scrive che il partito comunista e le sue formazioni militari rivendicavano, di fronte alla monarchia e ai partiti borghesi, il diritto al potere. Winston Churchill e il suo ministro degli Esteri, Anthony Eden, corsero ad Atene nel Natale del 1944 e installarono al vertice dello Stato, con la funzione di Reggente, l'arcivescovo Damakinos. Vi fu una tregua, firmata l'11 gennaio 1945, e vi furono numerosi governi di transizione sotto l'occhio vigile della Gran Bretagna (6 nel corso di un anno) che tentarono faticosamente di ripristinare l'ordine. Vi fu anche una consultazione elettorale nel marzo del 1946 che dette la vittoria al partito popolare monarchico. Ma i comunisti avevano rifiutato di partecipare al voto e il secondo atto della guerra civile cominciò nel maggio dello stesso anno con il sostegno dell'Unione Sovietica, della Bulgaria e della Jugoslavia.
Fu quello il momento in cui gli Stati Uniti decisero d'intervenire con un massiccio programma di aiuti civili e militari. Boudanis ricorda un rapporto della commissione Porter, presentato al Congresso americano il 28 marzo 1947, in cui le condizioni della Grecia sono descritte con queste parole: «Il governo non ha altra politica fuor che quella di mendicare incessantemente l'aiuto straniero per conservare il potere e salvaguardare gli interessi di una cricca di mercanti e banchieri che costituiscono il potere invisibile». Il rapporto permise tuttavia al presidente Truman di ottenere lo stanziamento di 400 milioni di dollari.
Quel denaro era anche e soprattutto un messaggio a Stalin, la prova dell'impegno con cui gli Stati Uniti si sarebbero adoperati per evitare che la Grecia scivolasse nel campo sovietico. Il leader dell'Urss evitò di lasciarsi coinvolgere direttamente nella guerra civile, ma non smise di sostenere i partigiani comunisti servendosi della Bulgaria e della Jugoslavia. La guerra civile greca fu quindi il primo conflitto per procura scoppiato dopo l'inizio della Guerra fredda. Grazie agli aiuti americani, l'economia cominciò a dare qualche segnale di ripresa e l'esercito greco, meglio armato e addestrato, riuscì finalmente a battere le formazioni comuniste. La chiusura della frontiera jugoslava nel 1950 dette agli insorti il colpo di grazia. Nel periodo che intercorre fra l'inizio del secondo atto e la fine dei combattimenti, i morti, secondo Boudanis, furono 65.000 e quelli che cercarono rifugio nei Paesi comunisti circa 200.000. La sorte peggiore fu quella dei 70.000 che vennero accolti in Unione Sovietica e vennero spesso soggetti a una rigida disciplina militare. La loro condizione accennò a migliorare soltanto nel 1956, dopo l'inizio della destalinizzazione.
Credo che l'eredità di questa vicenda, caro Arcadini, ci aiuti a comprendere l'alto tasso di violenza che ha distinto molte manifestazioni ateniesi degli scorsi mesi. Forse la brace della guerra civile non è ancora del tutto spenta.

Corriere della Sera 19.3.12
«Troppi segreti su Anghiari» La ricerca divide gli studiosi
di Marco Gasperetti


C'è un'altra battaglia, stavolta senza la maiuscola come merita l'opera di Leonardo dedicata ad Anghiari, che fa discutere, dividere e inquietare Firenze e il mondo intero. Si combatte tra gli scenari più vari: nei laboratori dei restauratori, nelle aule universitarie e persino nella Sala dei Duegento di Palazzo Vecchio, sede del consiglio comunale a pochi passi dal sontuoso Salone dei Cinquecento dove, dietro la parete est affrescata da Giorgio Vasari, l'équipe di Maurizio Seracini, ingegnere e professore all'università di San Diego in California, cerca l'affresco perduto del grande da Vinci. Ed è una battaglia dove non mancano frecce avvelenate.
Dopo la clamorosa presa di posizione di cinquecento intellettuali (tra i massimi esperti d'arte nel mondo) che hanno firmato un documento critico, anche un'affermata restauratrice di Leonardo, Cinzia Pasquali, si dichiara molto perplessa sulla scientificità delle ricerche e da Parigi, dove ha appena concluso il restauro (anch'esso contestato) di Sant'Anna, la Vergine e il Bambino, uno degli ultimi capolavori di Leonardo conservato al Louvre, definisce «un'aberrazione effettuare analisi distruttive su un capolavoro come quello del Vasari (che nasconderebbe appunto la Battaglia di Anghiari) solo per togliersi la curiosità di sapere se dietro si nasconde un Leonardo». Secondo la restauratrice le analisi «sono distruttive ed è come supporre di mettere il Vasari in secondo ordine».
Cinzia Pasquali, poi, chiede di pubblicare i risultati di tutti i dati scientifici prodotti. E denuncia: «Un anno e mezzo fa il conservatore del Louvre, Vincent Delieuvin, ha chiesto a Seracini di studiare la diagnostica, ma né lui né gli altri hanno mai ricevuto nulla».
E sono proprio le analisi che adesso rischiano di provocare un caso politico. Tanto che il vice presidente della commissione Cultura del Comune di Firenze, Mario Tenerani (Pdl) in consiglio comunale chiederà maggiori approfondimenti e soprattutto una controprova. «Le analisi non sono state effettuate dall'Opificio delle pietre pure, uno dei più importanti laboratori al mondo — spiega Tenerani — ma da una struttura privata di Pontedera. L'Opificio ci ha informato di aver avuto dati solo parziali dello studio e che le analisi non saranno ripetute. Noi non diamo giudizi a priori. Vogliamo però che le indagini abbiano una valenza scientifica e a oggi mancano alcuni requisiti importanti, come la verifica».
Un altro aspetto che fa discutere è il presunto via libera alla seconda parte del progetto dato dal ministro dei Beni culturali, Lorenzo Ornaghi. «Non spetta al ministro stabilire se la ricerca deve continuare — spiega Tomaso Montanari, professore di Storia dell'Arte all'università di Napoli — ma bensì alle sovrintendenze e al comitato tecnico scientifico all'interno del ministero. La comunità scientifica sta ancora aspettando di leggere le pubblicazioni della ricerca indispensabili per farsi un giudizio di merito. Oggi abbiamo avuto solo comunicazioni attraverso conferenze stampa e trovate mediatiche».