martedì 20 marzo 2012

l'Unità 20.3.12
La peste nera
di Moni Ovadia


ATolosa, un “folle” cavalcando uno scooter, armato di una pistola, ha assassinato esseri umani innocenti, grandi e piccoli con feroce determinazione animata da un odio nutrito con ossessione fanatica. Questa volta sono ebrei, colpiti proditoriamente nella loro istituzione educativa.
Le vittime sono un insegnante, due suoi figli piccini e un adolescente anche se l’intento del carnefice era quello di fare una strage di maggiori proporzioni, la logica quella dello sterminio indifferenziato purché l’obiettivo fosse quello odiato, il “perfido giudeo”. La stessa mano probabilmente ha colpito già tre “maledetti mussulmani”, tre paracadutisti francesi di origine magrebina.
In questi casi, di primo acchito, si cerca una spiegazione rassicurante: è un folle. Forse sarà anche un folle e se verrà catturato ce lo dirà la perizia psichiatrica ma, verosimilmente, è prima di tutto un antisemita, un islamofobo, un razzista, un sostenitore della supremazia della razza bianca ariana. Il suo delirio si è abbeverato a quella cloaca pestilenziale dell’armamentario ideologico del nazifascismo che circola incontrastato sulla rete e non solo.
Ne abbiamo già sperimentato i micidiali effetti nella civile Norvegia, dove il neonazista Breivik ha assassinato con la freddezza di un perito cacciatore, i nemici socialdemocratici, rei di volere l’integrazione, l’accoglienza, la civiltà del diritto universale.
In Italia, a Firenze, sono stati abbattuti come vitelli al macello, dei commercianti senegalesi, degli “sporchi negri” che pretendevano di vivere come noi. Anche in questo caso l’assassino nazifascista frequentava ambienti che, dietro la pretesa di fare cultura, fanno coltura dei virus delle pseudo-ideologie nazifasciste.
Ancora abbiamo visto nelle nostre strade, pestaggi di omosessuali, roghi di campi rom solo sulla base delle parole di una ragazzina terrorizzata dai genitori. Abbiamo ascoltato la violenta propaganda xenofoba di esponenti di un partito di governo, la Lega Nord. E cosa fa l’establishement delle caste che ci governano per contrastare i germi della peste nera? Chiacchiere, chiacchiere, retorica  molta falsa coscienza nel Giorno della Memoria.
Che cosa fa la vile Europa con Paesi membri i cui governi sono coalizzati con forze di stampo neonazista? Indignazione soft per non scomporre le ordinate capigliature degli eurocrati.
Che cosa fanno i politici della nostra destra? Si sono lasciati andare per tre lustri a dei veri sabba revisionisti con il solo scopo di calunniare i partigiani e la Resistenza antifascista, spesso davanti ad imbarazzati e balbettanti esponenti dello schieramento di centrosinistra. Risultato: se gli antifascisti sono così cattivi, i fascisti e i nazisti non sono così male.
Per gli ebrei oggi è giorno di dolore ma passato il periodo di lutto, torniamo a ricordare bene cosa sono il Nazismo e il Fascismo e chi sono i loro complici dall’aria per bene.

l'Unità 20.3.12
L’unico antidoto all'intolleranza
di Helena Janeczek


Il diavolo, si dice, sta nel dettaglio. Da quando ho visto la foto del ventenne che preparava un attentato alla sinagoga di Milano dove vado una o due volte l’anno, o alla scuola ebraica, dove alcuni amici hanno iscritto i figli, mi torna in mente il suo sopraciglio destro adorno di due rasature. È un particolare molto tamarro, quindi parecchio occidentale, eppure accentua che il ragazzo non ha nemmeno l’aria da duro o da coatto. Ha uno sguardo dolce al punto da far pensare che, conoscendolo via internet, la liceale di Tradate inquisita come complice avesse notato per prima cosa che quel Mohamed da Brescia fosse proprio carino. Tanto è bastato a spingerla verso l’islamismo radicale da sbattere in faccia alla sua famiglia, ci dicono, molto integrata? C’è qualcosa di incommensurabile nei percorsi di questi ragazzi disposti a uccidere i bambini del nemico benché qualsiasi sopruso o discriminazione possano aver subito, non gli è stato inflitto dal Nemico Sionista. Quanto dev’essere più facile e fortificante rovesciare tante piccole esclusioni in un’unica certezza d’identità e odio, sentendosi supereroi segreti, riparando nella fortezza del pensiero paranoico. Ma l’uomo ricercato per l’odierno massacro nella scuola ebraica di Tolosa è un bianco come Anders Breivik che sognava un’Europa mondata da islam e multicuralismo. La perversa convergenza sugli ebrei di neonazisti e jihadisti parla di un male comune che non può essere mezzo gaudio per nessuno. C’è poco da fare per i più paranoici tra coloro che non si sentono «padroni a casa nostra» ed è purtroppo illusorio credere che basti riconoscere il diritto di culto o cittadinanza ai musulmani per disinnescare estremismo e razzismo. Eppure difendere i principi di libertà, fraternità e uguaglianza, resta l’unico antidoto di cui disponiamo.

l'Unità 20.3.12
«Quelle scuole ebree...»
Ecco la lista nera dei neonazisti italiani
Sul forum di «Stormfront.org» l’elenco dettagliato delle sedi delle comunità ebraiche ma anche degli istituti, movimenti giovanili, fast food, ristoranti e persino pensioni
di Massimo Solani


La stima di ebrei in Italia si aggira intorno ai 45000 individui. Oltre alle comunità, abbiamo negozi, scuole private, associazioni. Dove sono situate? Ecco una panoramica dei luoghi». Inizia così il post che «CaosNietzsche», utente che vanta 1.481 messaggi e che scrive dalla Campania, ha affidato alla sezione italiana del forum Stormfront.org, una delle piazze virtuali del nazionalismo bianco e del neonazismo più frequentate al mondo. Uno spazio web fondato negli Stati Uniti all’inizio degli anni 90 e considerato il forum di riferimento del leader del Ku Klux Klan Don Black («orgoglio bianco in tutto il mondo», recita il motto che campeggia nel banner attorno ad una croce celtica).
Dopo le blacklist di ebrei italiani del mondo della cultura, della politica, dell’informazione e della televisione, dopo la lista di magistrati, religiosi, avvocati, giornalisti e attivisti dei diritti umani che si occupano di immigrati, «Stormfront Italia» pubblica un nuovo elenco. Agghiacciante se riletto oggi dopo la strage di Tolosa e il sangue dei quattro morti che ha macchiato il selciato del collegio privato Ozar Hatora. «Lista delle Comunità Ebraiche in Italia, Negozi, Ristoranti, Scuole», si legge nel titolo del post scritto il 13 maggio del 2011: un lungo e dettagliato elenco di luoghi in tutta Italia (Roma, Milano, Trieste, Venezia, Torino, Firenze, Livorno, Napoli, Bologna, Pisa, Ancona, Modena, Ferrara, Padova, Casale Monferrato, Parma, Merano, Genova, Verona, Mantova e Vercelli) comprendenti sedi di comunità ebraiche, scuole di ogni ordine e grado, centri e movimenti giovanili, macellerie, ristoranti, fast food, pasticcerie e persino pensioni. Tutti, ovviamente, corredati di indirizzo, numero di telefono, indirizzi mail e nomi dei responsabili. «Luoghi chiosa CaosNietzsche che si possono ritrovare facilmente in Internet con una ricerca».
Un elenco che fa tremare i polsi e ricorda le liste di proscrizione. Un elenco che fa ancora più paura se si ricorda quanto successo a Firenze nel dicembre scorso, quando un estremista di destra e simpatizzante di CasaPound, Gianluca Casseri, sparò in strada e uccise due ambulanti senegalesi. «Si è sparato, è gravissimo. È dei nostri», commentava allora uno degli utenti di Stormfront Italia. «Non credo che sia quel Gianluca Casseri... Probabilmente è un omonimo. Ma se fosse lui: solidarietà!». «C’è scritto che è rimasto ucciso purtroppo aggiungeva un terzo utente si è sparato, forse aveva capito che era braccato è il prezzo che ha pagato un eroe, una situazione ormai figlia dell’esasperazione di chi ha creato questa società multietnica che è una bomba a orologeria pronta a esplodere, perché la storia insegna che tante etnie non possono coesistere insieme».
Emanuele Fiano, responsabile forum Sicurezza del Pd, in passato è stato spesso oggetto degli attacchi dei frequentatori Stormfront. Quando al telefono sente leggere la lista dei luoghi ebraici in Italia resta per un attimo in silenzio. «Fa paura», ripete più volte, incredulo. «Verificherò di persona le informazioni pubblicate dice È possibile che non contengano alcun reato, ma certo l’idea di voler segnalare la localizzazione delle istituzioni ebraiche italiane ha molto il sapore della preparazione ad una caccia. Interverrò di nuovo in Parlamento e rinnoverò la mia interrogazione perché si verifichi l’attività di quel forum».
Anche perché le attività di Stormfront sono già finite sul tavolo della magistratura che a dicembre aveva aperto una inchiesta per diffamazione e incitazione all’odio razziale quando era stata pubblicata la lista di coloro che aiutavano i migranti («li odiamo più dei negri», avevano scritto). «Sono fenomeni che vanno monitorati costantemente», aveva commentato il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri. «È un brodo di coltura che non si riesce a isolare. Le forze dell’ordine hanno una attenzione molto alta, ma sono fenomeni che vanno monitorati costantemente». Per il ministro, infatti, occorre tenere alta la guardia perché «la storia ci insegna che queste manifestazioni appartengono all’uomo, ma non devono tornare mai più».

l'Unità 20.3.12
«Io senegalese dico: è il razzismo il male più grande»
La vedova di uno degli ambulanti africani uccisi
a Firenze lo scorso dicembre non ha mai sentito parlare di nazismo: «Ma io so che l’Europa non è solo questa»
di Mariagrazia Gerina


Del nazismo non sa nulla. Del fascismo neppure. Però sa che tre mesi fa, a Firenze, suo marito, Modou Samb, è stato ammazzato, come un cane, tra i banchi del mercato, da un uomo che, infarcito di idee per lei incomprensibili, era uscito di casa armato per fare strage dei senegalesi. «Sia fatta la volontà di Dio ma no che non lo perdono... Il razzismo?», abbassa lo sguardo Ndeye Rokhaya Mbengue, 35 anni: «È una grande cattiveria umana». E mentre parla di cose impossibili a dirsi capisci che l’innocenza della vittima, di tutte le vittime, ha il suo volto d’ebano, avvolto da un chador giallo come il sole, le sue frasi spezzate, i suoi occhi, il suo atteggiamento composto, anche nel lutto, che in Senegal è molto rigido e non finirà prima di aprile. No, nessuna autorità dello Stato l’ha chiamata. L’ha ricevuta il presidente della Regione Toscana e l’hanno invitata a Roma, ieri, Unar e Arci per consegnarle una borsa di studio per sua figlia, tredici ancora da compiere.«In Italia, avrei voluto venire invitata da mio marito», racconta come una giovane sposa Ndeye, vedova partita dal Senegal, con il suo carico di dolore, a interrogare il cuore del vecchio continente. E quando sente che in Francia un uomo ha fatto strage di bambini davanti a una scuola ebraica, abbassa di nuovo lo sguardo e ripete: «Lo so che ci sono persone cattive, ma non credo che siano loro l’Europa, l’Italia». Non era mai venuta in Italia? Che impressione le fa esser qui?
«È molto doloroso, avrei voluto fare un altro tipo di viaggio in Italia, avrei voluto venire qui invitata da mio marito. Quando ho saputo che era stato ammazzato, non ci volevo credere, io so che gli italiani non sono come l’uomo che l’ha ucciso». Cosa sa di lui?
«È difficile per me dire qualcosa su questa persona, farmi una idea di quello che è accaduto».
E del razzismo?
«È una grande cattiveria umana prendersela con un’altra persona perché è diversa da te»
È troppo doloroso pensarci? «Molto, da quando è successo non riesco più a mangiare. Ma nonostante tutto penso: sia fatta la volontà di Dio. Vivo il mio dolore e cerco di non pensare a chi lo ha provocato».
Come ha saputo cosa era successo? «Cheikh Douf, l'amico più caro di mio marito, che viveva a Firenze come lui, quel giorno mi ha chiamato diverse volte, ma non ha avuto il coraggio di dirmi cosa era successo. L’avevo sentito alla tv, ma non sapevo che fosse mio marito. Poi un amico di famiglia ha capito e ci ha chiamato per avvertirci».
Senza lui, come vivete lei e sua figlia?
«Siamo in grande difficoltà, ai bisogni miei e di mia figlia ci pensava lui».
Le mandava spesso soldi?
«Sì, a volte cento euro, a volte meno se le cose non andavano bene. Ci sentivamo tutti i giorni».
E cosa le diceva dell’Italia?
«Lui diceva che si trovava bene, che era tranquillo. Non aveva preoccupazione. Aamil ben problem. Non c'è nessun problema, ripeteva».
Quando vi siete vistî l’ultima volta? «Dodici anni fa, quando è partito dal Senegal. Nostra figlia aveva appena tre mesi».
Lei ha mai pensato a venire in Italia? «No, quando c'era mio marito no. Comincio a pensarci ora, perché non so come fare a campare. E come dare un futuro a mia figlia». Le autorità italiane l’hanno contattata? Qualcuno le ha offerto aiuto? «No. Qualche tempo fa a Dakar è venuto un prete di Pistoia a portarci soldi e solidarietà».
Che futuro vorrebbe per sua figlia? «Vorrei le cose che vogliono tutte le persone normali: che studi, che abbia poi un lavoro, una vita normale, un futuro».
In Italia?
«Sarebbe bello».
Tanti dal Senegal pensano di venire in Italia?
«Sì, ci rendiamo conto che l'Italia sta vivendo un momento di crisi, però meglio qui che laggiù».
Cosa è venuta a dire all’Italia? «Chiedo all'Italia per me e mia figlia l’aiuto, che mio marito non può darmi più».

La Stampa 20.3.12
“Non vedevo Modou da 13 anni Il razzismo me l’ha ucciso”
Strage di senegalesi a Firenze, parla una vedova: “Mi sento tradita dall’Italia”
di Guido Ruotolo


IL MARITO «I ricordi sono lontani non posso neanche dire di averlo conosciuto»
LA CITTÀ DELLA VIOLENZA «Pensavo fosse tranquilla, quando ho visto la tv non mi sono preoccupata»
LA SPERANZA «Che cosa mi aspetto? Atti significativi di dissociazione»
IL LEADER DELLA COMUNITÀ «Il vostro Paese era il sogno poi qualcosa è cambiato: meglio il Nord Europa

Ricordo quel giorno. Ero appena arrivata a casa di una zia, che doveva farmi le treccine ai capelli. La televisione mandava in onda immagini da Firenze. Tra me e me ho pensato che Firenze fosse un città tranquilla e non ho fatto caso a quel che dicevano. Avevo sentito Modou il giorno prima. Mi aveva detto che in settimana mi avrebbe spedito i soldi. Un cugino di Modou, che viveva a Firenze, un paio d’ore dopo chiamò casa di mia zia. Risposi io, gli chiesi se fosse successo qualcosa. Mi disse di no, e chiese di parlare con la madre. Solo dopo un po’ ha preso coraggio, la zia, e mi ha detto la verità. Il mondo mi è crollato addosso».
L’odore di incenso si sente anche nella tromba delle scale. Una casa di periferia, dirimpettaia di Scandicci. Il salotto, tre divani, una brandina con coperte e vestiti, una televisione accesa su un canale satellitare di Dakar. Un vassoio di frutta. Ndeye Rokhaya Mbengue è seduta proprio al centro di uno dei tre divani. Un velo in testa, gli occhi sempre con lo sguardo basso. Parla lentamente. Ha tra le mani una specie di rosario che sgrana nervosamente.
Sotto tutela Lei è arrivata sabato, dopo una spiacevole sosta a Parigi, dove ha dovuto fare scalo prima di arrivare in Italia, visto che dal Senegal non vi sono voli diretti. Non aveva l’«invitation», per la sosta su territorio francese. Telefonate con Roma, con l’ambasciata e dopo 24 ore è finalmente arrivata in Italia. Per incontrare le associazioni che l’hanno presa sotto tutela, garantendole l’adozione a distanza e borse di studio per la figlia, Fatou, che ha 13 anni ed è orfana non avendo mai conosciuto il padre.
Mdeye è la vedova di Modou Samba, 40 anni, ucciso il 13 dicembre scorso con un altro connazionale, Mor Diop, da un esaltato razzista ed estremista di destra, Gianluca Casseri, che dopo aver colpito nei mercati di San Lorenzo e di piazza Dalmazia, uccidendo e ferendo bersagli «neri», si è tolto la vita.
Ndeye racconta di sé e del suo uomo, Modou. Lei oggi ha 35 anni, Madou ne avrebbe 40. «Ci conoscemmo due anni prima che partisse. Io avevo 20 anni e rimasi incinta. Quando nacque Fatou lui già non c’era più. Tredici anni sono passati e se devo dirle di mio marito non so da dove iniziare. Com’era? Che pensieri aveva? Che progetti volevamo realizzare? È troppo difficile rispondere».
Troppo poco insieme Quasi si imbarazza: «Devo dire che Modou non lo conoscevo. Siamo stati troppo poco insieme, due anni, per dire che ci conoscevamo. Ed è da troppo tempo che non lo vedevo, 13 anni. Come donna che le devo dire? E di mia figlia? Che è nata senza mai incontrare il padre».
Che tristezza scoprire che si tratta di una condizione «normale» tra il popolo di emigranti: matrimoni «a distanza».
Mamadou, magazziniere in una fabbrica di Campi Bisenzio, uno dei leader della comunità senegalese di Firenze, che ci fa da traduttore, spiega: «Quando si parte non si dice mai dove si vuole andare. Ma ognuno ha in testa l’Italia. O meglio, aveva l’Italia come meta, prima. Parlo della fine degli anni Novanta. Poi si è incrinato qualcosa e nei nostri sogni il Nord Europa ha preso il posto dell’Italia. E questo per le politiche feroci dell’Italia contro gli immigrati».
Ricongiungimento mancato Modou e Ndeye si sono incontrati nella loro città, a MontRolland, fondata dai vescovi francesi. E per quel maledetto permesso di soggiorno mai in regola, Fatou non ha mai potuto conoscere il padre, venire in Italia, fare il ricongiungimento familiare.
«Con i soldi che mandava a casa (300 euro circa, ndr) vivevamo io e mia figlia, mio padre e nostra cognata». Ndeye ricorda la «generosità» del comune di Firenze, che ha organizzato e pagato a spese sue il trasferimento delle due salme in Senegal. «La vicenda scosse molto il Paese, il 22 dicembre si svolsero i funerali con il rito mussulmano. Fu una grande emozione, il timore del razzismo prese piede e c’era paura per quel che era accaduto in Italia».
E adesso cosa si aspetta una vedova di razzismo? Colpisce per la sua risposta: «Che non succeda a nessun altro straniero che vive in Italia». Pretende - perché non accada più a nessuno quello che è successo a Madou - «atti significativi di dissociazione dal razzismo».
Lo chiede all’Italia e più in generale all’Europa. Mamadou ricorda con amarezza che il governo Monti ha introdotto nuovi balzelli per loro: «Un carta di soggiorno che si pagava 75 euro adesso ne costa 200. E per il rinnovo del permesso di soggiorno si è passati da 50 a 100 euro».
I timori per gli altri La vedova è preoccupata che possa accadere ad altri che solo perché «neri», stranieri, immigrati, qualcuno possa morire. E si appella ai governi europei. Magari uno pensa che potrebbe rivendicare giustamente il risarcimento e invece la donna si rivolge agli italiani da madre, moglie troppo presto diventata vedova. Provo ancora a interrogarla su Modou. Ricorda quando decise di intraprendere il viaggio? «Ricordo che per un mese non lo sentii. Tanto durò il suo viaggio. Senegal, Mauritania, Marocco, Spagna e poi Italia. Non conoscevo mio marito... mia figlia non ha mai conosciuto suo padre. Proprio no, dall’Italia non mi sarei aspettata questo tradimento».

il Fatto 20.3.12
Storie dimenticate
Tunisia, i 3300 libici disperati del campo profughi
di Roberta Zunini


Chi non ricorda le immagini di composta disperazione dei profughi di colore che, ammassati sulla frontiera tra Libia e Tunisia aspettavano, affamati e disidratati, l’apertura di un varco oltre confine? Si trattava per loro di una questione di vita o di morte: non dovevano sfuggire solo ai bombardamenti dei lealisti di Gheddafi ma anche evitare le rappresaglie degli insorti contro i miliziani centroafricani ingaggiati dal defunto colonnello per difenderlo: chi aveva la pelle nera rischiava di essere scambiato per uno di loro e giustiziato.
UN ANNO FA la guerra civile infuriava nello “scatolone di sabbia” e alla fine i profughi, soprattutto immigrati che lavoravano in Libia in condizioni di semi schiavitù, trovarono riparo nel campo tunisino di Shousha a 9 chilometri dalla Libia. Il campo fu allestito in fretta e furia dall’Alto commissariato per i Rifugiati della Nazioni unite e venne aperto il 24 febbraio. Ad oggi ci vivono ancora 3300 persone di diverse nazionalità: eritrei, sudanesi, ciadiani, iracheni, palestinesi e nigeriani. E molti di loro sono stati respinti dall’Italia, già condannata dalla Corte europea di Strasburgo. Le condizioni igieniche, alimentari e di sicurezza di Shousha sembrano peggiorare ogni giorno di più, almeno a quanto si evince dall’inchiesta filmata pubblicata sul sito di giornalismo partecipativo FaiNoti  zia.it   di Radio Radicale.
Nel cortometraggio ci sono immagini relative alle condizioni generali del campo, ma si dà anche spazio alle denunce relative all’operato dell’Alto commissariato che avrebbe violato la privacy di alcuni ospiti, la maggior parte nigeriani, permettendo alle autorità del gigante centroafricano di venire a conoscenza di dati sensibili per l’incolumità dei rifugiati. Molti erano scappati proprio per evitare le persecuzioni dei regimi che opprimono i loro Paesi. Violazioni smentite da Rocco Nuri, funzionario dell’Onu e responsabile del campo: “Non siamo a conoscenza della visita di alcun ambasciatore nigeriano a Shousha. I nostri dossier sono sempre segreti e restano tali anche in caso di diniego”. Nuri invece ha confermato i tempi di attesa per ottenere l’asilo. “Tra il colloquio e il riconoscimento dello status passano in media sei mesi”.
L’ITALIA è uno dei Paesi donatori del campo e per questo i senatori Emma Bonino e Marco Perduca hanno presentato al ministro degli esteri un’interrogazione. Nel testo si legge: “ll 22 maggio 2011, per citare solo uno degli episodi più gravi, il campo fu incendiato, e quattro persone persero la vita mentre l’esercito tunisino, intervenuto per sedare le proteste, sparò sulla folla. I pochi fuggiaschi che riescono a ottenere lo status di rifugiati, dopo attese che si aggirano intorno agli 8 mesi, spesso restano per un periodo di tempo indefinito a Shousha in attesa di un trasferimento dal Paese di prima ospitalità a un altro Stato che accetti di accoglierli. I senatori chiedono pertanto al ministro Terzi se “sia a conoscenza dei fatti riportati dal documentario” e chiedono “a quanto ammonti il contributo italiano al campo Shousha e quali ospiti di Shousha abbiano fatto richiesta di protezione all’Italia e quanti di essi abbiano ottenuto la possibilità di essere trasferiti nel nostro Paese”. Anche Shousha, come molti altri sparsi nel mondo, si è trasformato da un campo di transizione a un limbo permanente.

Repubblica 20.3.12
"Morivamo in mare e la Nato stava a guardare"
di Giampaolo Cadalanu


"Proteggere i civili": era lo scopo dell´intervento Nato in Libia, secondo la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell´Onu. Eppure le navi dell´Alleanza Atlantica hanno scientemente evitato di soccorrere una barca piena di civili in fuga dalla Jamahiriya, abbandonandoli al sole e al Mediterraneo fino a quando le onde li hanno spinti di nuovo sulle coste libiche.
Nel frattempo 63 persone erano morte. In quei giorni alla presidenza del Comitato militare della Nato, incaricato di dirigere l´attività dell´Alleanza, era l´ammiraglio Giampaolo Di Paola, oggi ministro italiano della Difesa.
La vicenda del gommone partito verso Lampedusa il 25 marzo del 2011 era già stata segnalata, ma l´Alleanza aveva smentito ogni contatto. Ora però a rilanciare la storia sono due documentari, con numerose testimonianze: "Mare chiuso", nelle sale cinematografiche, mette sotto accusa l´accordo italo-libico sui respingimenti, ma soprattutto "Mare deserto", trasmesso dalla televisione svizzera, un vero atto d´incriminazione, a cui si affianca un´indagine dell´Assemblea parlamentare del Consiglio d´Europa.
Secondo l´inchiesta della tv svizzera, il gommone parte da Tripoli con 72 migranti di varie nazionalità: etiopi, eritrei, sudanesi, nigeriani, ghanesi. Quando la barca incontra difficoltà nella navigazione, con l´unico telefono satellitare a bordo viene lanciata una richiesta d´aiuto a padre Mussie Zerai, sacerdote eritreo residente in Italia che si occupa di aiuto ai migranti. Il prete contatta la Guardia Costiera, che individua il gommone in acque libiche, a 60-70 miglia dalla costa, e lancia l´allarme, chiedendo alle navi in transito di riferire ogni avvistamento, come prevede la legge del mare.
Entra in scena l´Alleanza atlantica: un elicottero militare sorvola la barca, si allontana, poi ritorna e scarica una decina di bottiglie d´acqua e qualche scatola di biscotti proteici. I testimoni raccontano di aver letto la scritta "Army" sulla fiancata, ma non è chiaro di quale contingente l´elicottero faccia parte. Passano alcuni giorni, i migranti cominciano a morire di fame e di sete, qualcuno cade in mare nella notte. Il gommone avvista diverse navi militari, fra cui forse una fregata che si avvicina. Secondo la Nato, in quel momento sono almeno 21 le navi dell´Alleanza schierate al largo della Libia: potrebbero essere, ricostruisce la tv svizzera, di Italia, Spagna, Turchia, Belgio, Canada, Stati Uniti, Francia o Gran Bretagna. Un testimone racconta di aver sollevato il corpicino di un bimbo morto sul gommone e di averlo mostrato - senza risultato - ai marinai della nave da guerra, che osservavano con i binocoli e fotografavano i migranti.
Per ora di quelle immagini non c´è traccia: le richieste di chiarimenti non danno risultato. Quando la barca torna sulle coste libiche, solo nove persone sono sopravvissute. La Nato nega ogni coinvolgimento, per voce del generale Claudio Gabellini: «In caso le navi della Nato siano coinvolte direttamente in simili eventi, i comandanti delle unità militari faranno tutto il possibile per garantire che il loro comportamento rispetti il diritto marittimo internazionale e le consuetudini». Anche la portavoce Carmen Romero smentisce: «Le unità della Nato in mare non hanno visto né sentito alcun segnale di una chiamata di emergenza in quell´area».
Poi però il quartier generale dell´Alleanza ammette: l´allarme della Guardia Costiera è stato ricevuto, un´unità militare era a 24 miglia dal punto di localizzazione del gommone. Per ora non è chiaro di quale nazionalità fosse. Ma la senatrice olandese Tineke Strik, responsabile dell´inchiesta per il Consiglio d´Europa, ha ottenuto da Catherine Ashton, rappresentante Ue per gli Esteri, l´accesso all´European Satellite Center. Nei prossimi giorni ci dirà chi per ultimo ha chiuso la porta davanti ai migranti, condannandoli a morire in mare.

Repubblica 20.3.12
L'Europa antisemita
di Marek Halter


C´è premeditazione in questo massacro. E ci sono stati sicuramente dei sopralluoghi. Il killer sapeva che alle 8 meno 5 arrivavano i professori e gli alunni
Da duemila anni gli ebrei sono visti come "colpevoli" di tutti i mali. Appena si punta il dito contro un popolo, purtroppo si pensa anche a loro

Quando accadono tragedie come quelle di Tolosa, mi chiedo se si possono ancora considerare gli ebrei come i capri espiatori della Storia. Ebbene, la risposta è sì. Mi torna in mente quella barzelletta triste di quei due amici che s´incontrano al bar e cominciano a parlare di crisi, disoccupazione, miseria.
A un certo punto uno dice all´altro: «È tutta colpa degli ebrei e dei ciclisti!». E l´altro gli risponde: «E perché mai dei ciclisti?». Ora, in questi tempi di ristrettezze sta crescendo in Francia la rabbia verso gli "arabi", perché sono visti come quelli che ci mangiano nel piatto, e parallelamente aumenta l´antisemitismo. Appena la società si rivolta contro una minoranza, a pagarne le conseguenze sono anche gli ebrei, che però non sono minoranza, poiché da secoli gli ebrei francesi sono cittadini francesi come gli ebrei italiani sono cittadini italiani. Ma da duemila anni sono loro i "colpevoli" di tutti mali. Primo tra tutti, quello di aver ucciso Cristo. Appena si punta il dito contro un popolo accusandolo di un peccato qualsiasi, purtroppo si pensa immediatamente anche agli ebrei.
Negli ultimi anni la comunità ebraica di Francia è stata vittima di numerosi attentati: nel 1979 contro una scuola ebraica parigina, nel 1980 contro la sinagoga della rue Copernic, nel 1982 contro un ristorante nel "ghetto" della rue des Rosiers, nel 1996 contro il giornale Tribune Juive. Non è dunque la prima volta, dal dopoguerra a oggi, che si uccidono degli ebrei in quanto ebrei.
La strage di Tolosa è avvenuta nell´anniversario dell´indipendenza dell´Algeria. L´assassino avrebbe ucciso prima dei paracadutisti francesi, che sono gli ultimi che lasciarono Algeri, dopo aver compiuto barbari crimini. Poi ha ammazzato gli ebrei. Ma perché gli ebrei? Perché entrare armato fino ai denti in una scuola nella periferia della città e sparare su chiunque gli si presentava davanti? C´è premeditazione, in questo massacro. E ci sono stati sicuramente dei sopralluoghi, anche perché il killer sapeva che alle 8 meno 5 arrivavano i professori e gli alunni.
È verosimile che l´assassino si sia detto: «Se uccido solo dei parà la stampa non ne parlerà abbastanza. Ma se ammazzerò anche qualche ebreo ne parleranno tutti». Così è stato. Tutto sembra minuziosamente preparato, attentamente meditato.
Nella campagna per le presidenziali francesi alcuni leader hanno proposto un controllo più severo delle frontiere per fermare "l´invasione" di rom o di extracomunitari nordafricani, accusati di chissà quali reati. Il risultato di questa campagna xenofoba è stato devastante, soprattutto se si guardano le cifre degli atti razzisti e antisemiti, che sono aumentati del 150 per cento.
È fortemente simbolico attaccare una scuola religiosa dove si insegna il giudaismo, e dove i bambini indossano tutti la kippà. Chi detesta gli ebrei vuole ucciderli quando sono ancora piccoli. Un po´ come nel culto della Geenna, a Gerusalemme, dove si sacrificavano bambini a Moloch.
In quella scuola di Tolosa c´ero stato all´inizio del mese. Quei bimbi sono poi venuti a vedere il mio documentario su Birobidjan. Ed è terribile pensare che alcuni di quei bimbi che sono venuti ad applaudire il filmato, oggi non ci sono più. Se non fossero bambini ebrei sarebbe altrettanto doloroso.
È già capitato che in Francia un pazzo prenda in ostaggio una scuola. Quando accadde a Neuilly, fu l´occasione per Sarkozy di far parlare di sé per la prima volta. Era allora sindaco di quel ricco sobborgo di Parigi. Entrò disarmato nell´aula dove l´attentatore s´era rinchiuso con i bambini e lo convinse ad arrendersi.
Diverso è l´attacco di Tolosa. Perché non c´è casualità nella strage di ieri. Sono convinto che sia stata ordinata da qualcuno. O voluta da un´ideologia, o da gruppi politici. Come il norvegese neonazista che lo scorso luglio ha ucciso un´ottantina di ragazzi perché ai suoi occhi incarnavano la rivoluzione marxista. Se si sceglie un luogo così simbolico per compiere un olocausto non si agisce solo per follia.
La sparatoria nella scuola è un gesto che ha sconvolto la Francia. Non è un caso che tutti i politici si siano precipitati a Tolosa dopo aver deciso di fermare la campagna elettorale. François Hollande ha annullato un suo intervento in tv e Nicolas Sarkozy ha procrastinato una sua intervista alla radio. Nel nome della Repubblica francese si sentono tutti coinvolti da quanto è accaduto. Anche se questa Repubblica non è in grado di proteggere i suoi cittadini, quando questi sono ebrei.
(testo raccolto da Pietro Del Re)

La Stampa 20.3.12
L’antico demone che risveglia l'orrore
di Elena Loewenthal


La strage di Tolosa ha lasciato muta l’Europa e inorridita Israele. Prima di ogni giudizio, prima di una riflessione che non potrà né dovrà mancare, pesa su tutto lo sgomento. Braccare dei bambini dentro una scuola, rincorrerli fra i banchi per prendere meglio la mira prima di sparare: è una cosa tremenda anche solo pensarla. Eppure, questo delitto che forse ha dei precedenti, forse è il terribile seguito di una catena di orrori - ma forse no - non desta incredulità. Non è una cosa cui non si può credere e che nessuno si sarebbe mai aspettato. Ha, piuttosto, una inenarrabile coerenza, per quanto sotterranea e difficile da ammettere. Ammazzare dei bambini dentro la loro scuola è una cosa cui ci piacerebbe non poter credere, ma non è così. Perché questo delitto si è consumato in una città fitta di conflitti come lo sono molte, nel Sud della Francia. Forse si lega a una sequenza di omicidi di ambiente militare. Ma ha avuto per teatro una scuola ebraica. E le prime immagini che ci sono arrivate da lì mostrano teste di uomini e bambini coperte dalla kippà, la papalina che portano sempre gli ebrei religiosi. Che portano, in Francia, con un certo timore, con la paura di essere aggrediti anche solo per questo. Capita persino che la si lasci a casa, la papalina, per evitare guai per strada.
Incidenti piccoli e grandi sono all’ordine del giorno nei pressi di ogni scuola ebraica. I bambini arrivano scortati, spesso accolti da insulti e non raramente da lanci di pietre. Questa è la Francia del Sud, ma è anche la Francia tout court e in una certa misura lo è tutta l’Europa. In Israele, oggi, c’è paura dell’Europa. Dove, a quanto pare, l’antico demone dell’antisemitismo è ancora vivo, aleggia, sta sotterraneo, magari appena sotto la superficie della civiltà civile e benpensante. È un demone antico e tenace, l’antisemitismo. China la testa, sembra sconfitto per sempre, e poi ricompare, quasi corroborato dal tempo trascorso in clandestinità.
Perché oggi come oggi nessuno si dichiara più antisemita, l’odio per gli ebrei - cioè i diversi, gli irriducibili dell’identità, come se ciò fosse una colpa ancora in questo presente che si fa un vanto del proprio multiculturalismo non è politicamente corretto. Ma il fatto che non sia decoroso dichiararsi antisemiti non significa che questo pregiudizio sia morto. Anzi. Quando viene fuori, non parla ma distrugge. Prima o poi torna. E ci fa paura, in Israele così come in questa Europa ammutolita tanto brava a commemorare retoricamente il passato affinché non si ripeta più, così intraprendente nel condurre le giovani generazioni ad Auschwitz perché imparino la lezione. In questa Europa così saggia e attenta al proprio passato, in questa Europa che ha davanti agli occhi le camere a gas e le racconta con tanto slancio nei libri di scuola, capita ancora di morire perché si è ebrei. L’orrore, lo sgomento, la paura, lasciano addosso una rabbia amara e impotente.

La Stampa 20.3.12
La strage e gli altri killer. Le follie solitarie dei malati di odio
Razzisti, suprematisti e imbevuti di ideologia: un filo comune lega gli assassini
di Pierangelo Sapegno


LE TRACCE Tutti hanno sempre annunciato ciò che stava per accadere
GLI ASSALTI Si comportano come fossero dei militari in azioni di guerra

Mentre preparava la sua strage, Anders Breivik scrisse sul suo diario: «Chissà che faccia faranno quando mi vedranno vestito da poliziotto». Nessun senso di colpa. Ma nemmeno la consapevolezza del proprio odio. Sembrano solo uomini nati per uccidere. In meno di un anno, dal luglio del 2011 a ieri mattina, l’Europa è stata marchiata da una serie di stragi sparse lungo la sua longitudine, dalla Norvegia all’Italia, passando per la Francia, sempre con le stesse caratteristiche: l’azione di un uomo solo - un folle - che colpisce e uccide per motivi ideologici e razziali. Un filo comune lega Andreas Behring Breivik, Gianluca Casseri e l’assassino di Tolosa, e prima di loro il cecchino di Malmoe e Hans Van Themsche ad Anversa che sparavano per uccidere gli stranieri, ma è un segno che viene da più lontano, forse anche questa volta dall’America, dalla solitudine psicotica dell’isolamento, da quel senso di vuoto e di morte che esplode sempre nei medesimi simboli e cifrari, in un giorno di ordinaria follia, evocandone quasi il film, quando Michael Douglas sembra impazzire immerso nella moltitudine del traffico, come un bimbo crudele che si ribella improvvisamente alle regole degli adulti. Non è un caso che Breivik passava il suo tempo libero ogni volta da solo, guardando affascinato le serie tv di True Blood e The Shield, e senza mai perdersi una puntata del festival musicale di Eurovision. Gianluca Casseri, che sparò a dei senegalesi a Firenze, invece, cercava di scrivere romanzi esoterici, amando soprattutto la fantascienza e i fumetti di Tex Willer e Tin Tin.
Negli ultimi anni si potrebbe far cominciare questa serie di follie solitarie da Eric Rudolph, un ragazzone nato a Merritt Island, Florida, rimasto orfano a 15 anni, feroce antisemita, figlio di una madre che frequentava movimenti di sopravvissuti alla fine del mondo, arruolato nell’esercito e poi espulso perché beccato a fumare marijuana. Rudolph era diventato un cristiano oltranzista, antigay e antiabortista, e tra il 1996 e il 1998 compì una serie di attentati che fecero 3 morti e 150 feriti: mise una bomba in un parco durante le Olimpiadi di Atlanta, e organizzò attacchi dinamitardi contro medici abortisti e locali frequentati da omosessuali. Fu catturato nel 2003, mentre rovistava in un cassonetto della spazzatura. Secondo l’Fbi aveva ricevuto molti aiuti. Rudolph segnò una pista per tutti quelli che sarebbero venuti dopo. Si comportano tutti come se fossero dei militari in azioni di guerra. Ma il più delle volte lasciano tracce evidenti della propria follia, prima di ogni strage, «comportamenti scritti affidati a Internet, o reazioni spropositate», come scrive Guido Olimpio su Gnosis, rivista di Intelligence: da Jared Loughner, Arizona, che aveva cercato una strage durante un comizio, a Timothy Mcveigh, di Oklahoma City, che aveva lanciato un veicolo contro un palazzo federale, fino a Seung Hui Cho, lo sterminatore di Virginia Tech, tutti in un modo o nell’altro hanno quasi sempre annunciato quello che stava per succedere. Timothy Mcveigh aveva addirittura usato lo stesso metodo raccontato nel suo romanzo preferito, «I diari di Turner», scritto da William Luther Pierce, per spiegare la lotta di un estremista razzista contro lo Stato americano. Ela stessa cosa fa Breivik, nella prima delle sue operazioni - come le chiama lui -, la bomba nel centro diOslo, 7 vittime. Alle altre 90 sparerà sull’isola di Utoya, travestito da poliziotto: tutti ragazzi inermi e disarmati. Breivik, «crociato cristiano», sembra rifarsi anche all’altra bibbia di questi folli assassini, «The Global Islamic Resistance Call», un enciclopedia di 1600 pagine scritta da Abu Musab al Suri, un siriano collaboratore di Bin Laden, che ha teorizzato «l’azione del singolo, dettando regole, comportamenti e tattiche, per motivare e attivare un individuo affinché organizzi un attacco al di fuori di qualsiasi catena di comando». Nella follia della guerra razziale, l’ideologia è trasversale.
Per questo possono rientrare fra i precedenti, sia le stragi dei college americani sia l’incubo vissuto da Washington per tre settimane nel 2002, quando un micidiale cecchino, John Allen Muhammad, sparava sulla gente inerme dall’interno di una vettura modificata e con l’aiuto di un ragazzo minorenne. Lui negò di averlo fatto per la Jihad. Disse che era una vendetta perché gli avevano tolto l’affidamento dei figli. Ma quando li prendono vivi, molti mentono. Seung Hui Cho che fece 32 morti a Virginia Tech aveva lasciato un po’ di videomessaggi, per spiegare il suo odio: «Avete tutto quello che volevate. Le vostre dissolutezze non erano abbastanza». Hui Cho, una volta aveva tentato di dar fuoco al dormitorio. Fino a quel momento era sempre stato soltanto una vittima di abusi e bullismo. Perché al di là delle ideologie razziali e classiste, l’odio nasce quasi sempre, per tutti, da una sconfitta individuale. Così non bisogna nemmeno stupirsi troppo se il feroce antisemita Eric Rudolph in tribunale s’è fatto difendere da Richard S. Jaffe. Un avvocato ebreo.

Corriere della Sera 20.3.12
Georges Bensoussan: «Dietro l'ipocrisia della politica resistono conflitti latenti»
di Maria Serena Natale


«La Francia non è un Paese antisemita ma l'ultimo decennio ha visto montare l'ostilità verso gli ebrei, la politica non ha saputo riconoscere e condannare il fenomeno». Per Georges Bensoussan, storico ebreo francese di origini marocchine, tra i massimi studiosi di antisemitismo ieri a Milano per il seminario sulla banalizzazione della memoria organizzato dall'Associazione Figli della Shoah, «l'ossessione antisemita sopravvive in quella parte del mondo arabo musulmano ferma a modelli arcaici e trova terreno fertile nei Paesi occidentali dove la demonizzazione sistematica di Israele è diventata un modo di esorcizzare il senso di colpa per gli orrori del passato».
Come spiega la nuova ondata in Francia?
«C'è un forte legame con la massiccia immigrazione dal Maghreb dei primi anni Duemila. L'estremismo è una reazione nei confronti di quella modernità con la quale il mondo arabo musulmano mantiene un rapporto di attrazione e repulsione, per questo attecchisce tra le comunità di immigrati più che nei Paesi d'origine. La generale radicalizzazione rilancia vecchi temi come il complotto ebraico e rianima l'antisemitismo al quale la Shoah non ci ha reso immuni».
L'attentatore potrebbe essere lo stesso che una settimana fa ha attaccato militari musulmani di colore: una follia omicida non specificamente antisemita.
«Sappiamo ancora poco. Posso dire che il fanatismo si nutre di simboli, che ieri ricorreva il 50esimo anniversario della fine della Guerra d'Algeria, che in un clima di scontro e violenza latente una mente squilibrata può più facilmente inseguire i suoi fantasmi».
Violenza latente e scontro, il fallimento della «laïcité» repubblicana?
«Il laicismo è un principio positivo con effetti perversi. Impedisce di individuare problematicità specifiche di una comunità culturale e religiosa. In Francia il linguaggio politico è dominato da una profonda ipocrisia, il conflitto e le divisioni sono rimossi in superficie ma resistono in profondità. Uno Stato con un'identità indebolita dal credo multiculturalista è destinato a veder crescere separazioni e risentimenti, a detrimento di un'autentica integrazione».
Partiti come il Front National non favoriscono la distensione.
«Una formazione con una componente violentemente antisemita, che danneggerà la credibilità conquistata da Marine Le Pen».

Corriere della Sera 20.3.12
L'eterno vizio di «minimizzare» e la solitudine dei bersagli dell'odio
di Pierluigi Battista


Non solo in Francia. Anche in Italia hanno ucciso bambini ebrei solo perché erano bambini ebrei. Anche in Italia, su una nave italiana che è territorio italiano, hanno ucciso un vecchio ebreo in carrozzella, solo perché era un ebreo. Non nell'epoca nera dello sterminio. Non nella pagina più vergognosa della storia italiana. Ma negli ultimi trent'anni. Come in Europa, dove la caccia all'ebreo, l'ebreo come bersaglio da annientare, da schiacciare sotto il peso dell'odio, non ha mai conosciuto requie. Fino all'orrenda strage di Tolosa.
Si tende sempre a non crederci, a non prendere atto della realtà. A non evocare l'antisemitismo come veleno permanente, reso ancora più aggressivo quando si traveste da verbo antisionista. Contro l'ebreo si incontrano tutti gli estremisti, tutti i fanatici, tutti quelli che considerano la democrazia un vizio da sradicare. Quando nel 1982 vennero presi di mira in tutta Europa i cimiteri ebraici, le sinagoghe, le scuole israelitiche, i luoghi di culto degli ebrei, gli eredi del nazismo trovarono convergenze e appoggi tra chi, durante la guerra del Libano, predicava insieme la distruzione dello Stato di Israele e degli ebrei, fisicamente. Fu in quei giorni che in Italia, il 9 ottobre del 1984, un piccolo bambino ebreo, Stefano Gay Taché, venne assassinato da un commando di terroristi mediorientali mentre usciva insieme alla sua famiglia dalla sinagoga Maggiore di Roma per celebrare l'ultimo giorno della festa di Sukkot. Assassinato perché era un ebreo: vittima di un odio assoluto e inestinguibile. E altri bambini ebrei feriti, altri adulti ebrei tra la vita e la morte. Una ferita nella coscienza nazionale che non si è ancora rimarginata. Pochi anni dopo, sull'Achille Lauro, nave italiana, un vecchio signore paralitico di nome Leon Klinghoffer venne ucciso da un commando di terroristi palestinesi. Non stava bombardando Gaza, stava in crociera con sua moglie. Ma doveva essere «punito» perché ebreo. Tutta l'«epopea» di Sigonella che ne seguì, quanto tenne in conto che sul territorio italiano alcuni terroristi avevano trucidato un vecchio ebreo, e quanto venne considerato il fatto che lasciar andar via i terroristi significava lasciare impunito il gesto mostruoso di una banda di antisemiti?
E invece si tende sempre a minimizzare. Se non a giustificare, per carità, almeno a ridimensionare la portata simbolica di un delitto contro gli ebrei. Chiunque sia l'assassino: un fanatico nazi o un fanatico islamista che nella sua guerra santa contro «l'entità sionista» prevede anche il massacro degli ebrei, ovunque si trovino. Quando nel 2006 venne rapito a Parigi un giovane ebreo, Ilan Halimi, la polizia francese si affannava a non dare troppo credito alla pista antisemita. Poi si seppe che Ilan, durante i 24 giorni di prigionia, venne torturato, orrendamente seviziato mentre le sue urla, forse, potevano essere captate nella banlieue a maggioranza musulmana dove l'ostaggio era stato rinchiuso, prima di essere arso vivo e gettato come immondizia lungo la ferrovia. Poi, quando vennero scoperti gli aguzzini e gli assassini, si tenne un processo. E durante il processo il capo della banda, dopo aver iniziato il discorso con «Allah Akbar», definì gli ebrei «nemici da combattere per il bene dell'umanità». Perché la polizia francese non imboccò allora la pista giusta da subito, perché aveva tanta paura nel riconoscere che l'antisemitismo aveva assunto un nuovo volto nel cuore di Parigi e che un giovane ebreo poteva essere sottoposto a sevizie per giorni e giorni nel cuore popoloso della città?
Gli ebrei continuano a essere un bersaglio dell'odio razziale, religioso e politico nell'Europa degli ultimi decenni del Novecento e nei primi del Duemila. Quando negli anni Settanta i terroristi dirottarono l'aereo di linea Parigi-Tel Aviv dell'Air France e atterrarono a Entebbe, nell'Uganda del tiranno Idi Amin Dada, divisero gli ostaggi, dopo averne controllato l'identità e i passaporti, in due colonne: quella su cui si poteva trattare e quella da condannare senza indugi. La colonna senza speranza era composta da ebrei, da condannare perché ebrei. C'erano dei terroristi tedeschi, tra i dirottatori, e un vecchio ebreo mostrò a uno dei figli dei «volenterosi carnefici di Hitler» i numeri che gli avevano tatuato sul braccio nel campo di sterminio. Non ebbero pietà nemmeno di lui, e solo il tempismo del blitz israeliano impedì il massacro di ebrei che si stava preparando con scientifica precisione.
La violenza antisemita, punto di incrocio di deliri ideologici di matrice diversa ma di identica capacità di odio, ha conosciuto una recrudescenza significativa negli ultimi decenni. Con un'opinione pubblica impaurita e sgomenta, mai interamente solidale con gli ebrei colpiti dal fanatismo. Un'altra strage. Un altro massacro. Un'altra invocazione di «mai più». Un'altra volta, l'ennesima, disattesa.

Corriere della Sera 20.3.12
Un telefono contro il razzismo


ROMA — Ci sono circa cinque milioni di immigrati oggi in Italia. Di tante religioni diverse: musulmani, buddisti, induisti, ortodossi, copti, ebrei, sikh. Per questo il governo ha pensato di mettere tutti i leader religiosi attorno a un tavolo: ieri si è inaugurata la prima conferenza permanente. Tutto per favorire l'integrazione. L'idea è, appunto, del ministro dell'Integrazione Andrea Riccardi. «Qualcuno prevede che ci sia uno scontro perché troppo differenti sono le culture e le mentalità», ha detto il ministro. E ha spiegato: «Noi siamo invece convinti che si possa vivere insieme. I leader religiosi possono rappresentare un ottimo strumento di integrazione». Anche il ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri condivide questa impostazione. Ha detto: «Mi appassiona il discorso sulla tolleranza costituzionalmente orientata. Dieci anni fa circa venne già stimato che la condizione di straniero riguardava un abitante della terra su 35. Secondo l'ultimo rapporto della Caritas sono 54 milioni le persone che hanno lasciato le loro terre d'origine». Oltre al tavolo della conferenza permanente, il ministro Riccardi ha istituito anche l'Ufficio nazionale antirazzismo che raccoglie le segnalazione di casi di razzismo con un numero verde: 800.90.10.10.

l'Unità 20.3.12
La Fiom sfida la Cgil «Uno sciopero in difesa dell’art. 18»
La Fiom indice per oggi due ore di sciopero per difendere l’articolo 18. Landini: vogliamo un accordo sul lavoro, ma che migliori le condizioni attuali. Ieri cinquemila operai in strada a Genova
di Massimo Franchi


«Almeno due ore di sciopero nella giornata più utile per difendere l’articolo 18». Il martedì che per Mario Monti dovrebbe portare alla firma dell’accordo sulla riforma del lavoro, si aprirà con la Fiom che cercherà di bloccare le fabbriche e dimostrare che i lavoratori «non ci stanno a rinunciare ai propri diritti». Prendendo spunto dagli scioperi spontanei che ieri mattina hanno portato in strada 5mila operai a Genova, Maurizio Landini mette sul piatto della bilancia della trattativa il peso dei suoi metalmeccanici «per arrivare sì ad un accordo, ma un accordo che migliori le condizioni di tutti i lavoratori, non le peggiori». Nel gioco delle parti interno alla Cgil, alla segreteria guidata da Susanna Camusso crea però più disagio la richiesta che «qualunque accordo che esca dal tavolo sia sottoposto a referendum fra tutti i lavoratori».
Il Comitato centrale della Fiom, primo appuntamento ufficiale della settimana decisiva, dà fuoco alle polveri provocando la reazione stizzita di gran parte degli altri sindacati che accusano Landini di «non aver aspettato nemmeno il direttivo Cgil» previsto per domani». Internamente alla Fiom invece la riunione si chiude con una inaspettata unanimità.
Sull’articolo 18 Landini rivendica la posizione uscita dall’ultimo direttivo Cgil: «in quel documento c’era scritto che si poteva intervenire solo sui tempi dei processi, riducendoli anche drasticamente». Sul «reintegro» invece Landini sostiene di «non vedere spazi, margini di mediazione anche volendo ricercare accordi che favoriscano i giovani»: «cedere sui licenziamenti economici significa cedere su tutto perché non ho mai conosciuto un imprenditore che licenzia sostenendo che lo ha fatto per ragioni discriminatorie». Sul «famoso modello tedesco» poi Landini ironizza: «Non si può prenderne solo un pezzo, quello sull’articolo 18, e lasciare il resto: se lo copiamo per gli stipendi alti, mi va bene, ma visto che qualche conoscenza in Germania ce l’abbiamo anche noi, ci dicono che non gli piace di essere citati come modello di licenziamento».
L’analisi di Landini era partita dal «successo dello sciopero di venerdì scorso», passando a criticare «le notizie uscite sui giornali». Per Landini l’addio alla Cassa integrazione straordinaria per cessazione di attività «che è servita a gestire Termini Imerese, Irisbus ed Electrolux». Quello che si prospetta è dunque un sistema di ammortizzatori «semplicemente assicurativo che sarà pagato dai lavoratori invece che dalla fiscalità generale».
Il Comitato centrale è stato segnato dal discorso di addio Fausto Durante. Il leader della minoranza pro-segreteria lascia la Fiom dopo 16 anni per tornare in confederazione con l’incarico di sostituire Nicola Nicolosi alla guida del segretariato Europa. Dopo aver scherzato sul suo addio («So che la notizia giustamente produrrà sollievo in molti, ma vi voglio rassicurare sul fatto che il sentimento è reciproco»).
DURANTE LASCIA E ATTACCA
Durante ha attaccato la scelta di Landini: «Pur condividendo l’analisi di Maurizio, non sono convinto della scelta di uno sciopero perché stiamo discutendo di un accordo che non c’è, di una trattativa che si sta facendo e che non riguarda solo i metalmeccanici: uno sciopero che ha il significato di pre-costituire una posizione pregiudiziale sulla trattativa e, nel caso di un risultato parziale, come tutto lascia intravedere, si rischia di generare una reazione più dura da parte del governo». Incassato l’applauso e il ringraziamento «per la sincerità che non è mai mancata», a nome di Giorgio Cremaschi, ora toccherà alla Cgil scegliere se nominare un successore di Durante nel comitato centrale. La minoranza nel pomeriggio ha poi deciso di votare a favore con la dichiarazione di Fabrizio Potetti, che per la Fiom ha seguito la vicenda Eutelia: «Votiamo “Sì” per senso di responsabilità e per non spaccare la Fiom in questo momento delicato».
FIAT, SÌ A IMPRESE ESTERE
L’ultimo capitolo riguarda la Fiat. Landini è deluso dall’incontro Monti-Marchionne e chiede al governo di riconvocare l’azienda «chiedendogli di spiegare il piano industriale» perché «un paese che perde interi settori industriali non ha futuro», aprendo però all’entrata di aziende estere in Italia: «Non abbiamo mai messo i bastoni tra le ruote». Si avvicinano intanto le elezioni delle Rsa in ogni stabilimento e la Fiom ha deciso di presentare le proprie liste: «nel caso azienda e altri sindacati non ce lo consentano, faremo votare comunque i lavoratori anche fuori dalle fabbriche».

l'Unità 20.3.12
Il Pd non ha un piano B «Monti faccia l’accordo»
Senza intesa «rischia di aprirsi un conflitto di tutti contro tutti. Ma l’Italia non può permetterselo, davanti a una recessione così grave»
L’Idv attacca tutti, Fornero e partiti. Sel tace a tutela della Camusso
di Simone Collini


L’accordo è indispensabile». Pier Luigi Bersani lo ha ripetuto sia a Mario Monti che ai vertici delle parti sociali. Il Pd non ha giocato il ruolo di mediatore nella partita della riforma del mercato del lavoro. Ma da un lato ha chiesto al governo di mettere all’angolo spinte che pure sono arrivate dal suo interno affinché si procedesse senza preoccuparsi di raggiungere un’intesa pur di dare un segnale ai mercati (in questo senso sono apparse sospette alcune uscite del ministro Corrado Passera). Dall’altro, dal Pd è partita la sollecitazione nei confronti di leader sindacali e dirigenti di Confindustria e delle altre associazioni di imprenditori a presentarsi al tavolo con una posizione comune. «Non esiste un accordo separato è il ragionamento di Bersani questo è uno schema che poteva andar bene per il precedente governo, non oggi». Il timore del leader Pd è che senza intesa «rischia di aprirsi un conflitto di tutti contro tutti che di fronte alla grave recessione in atto il Paese non si può permettere».
Per questo ieri sia Bersani che il responsabile per l’Economia del Pd Stefano Fassina hanno passato la giornata al telefono a discutere con governo e parti sociali, insistendo sul fatto che il confronto non può arenarsi sull’articolo 18, che è solo una parte di una più complessiva riforma che deve portare anche a un reale disboscamento dei contratti precari e a un’estensione universalitisca delle indennità di disoccupazione e di mobilità. L’impressione tratta dai colloqui che hanno avuto gli esponenti del Pd è che né Susanna Camusso né Raffaele Bonanni né Luigi Angeletti vogliano o frenare o partire in solitarie fughe in avanti. Ma starà anche al governo creare il terreno favorevole a un accordo. Non a caso il coordinatore delle Commissioni economiche del gruppo del Pd alla Camera, Francesco Boccia, dà al governo questo «consiglio»: «Invece di usare l’accetta e la clava del decreto legge, io userei tanta pazienza perché poi le riforme vengono approvate dal Parlamento, e quindi una legge delega farebbe stare più tranquilli tutti». Si tratterebbe di un segnale, anche se è chiaro che se già in queste ore si arrivasse a un’intesa tra governo e parti sociali, la forma in cui la riforma arriverà in Parlamento sarebbe, per dirla con Bersani, «un problema secondario». Il Pd non dubita che una riforma sia necessaria, anche perché come dice Massimo D’Alema citando Marco Biagi «abbiamo il peggior mercato del lavoro d’Europa». Il presidente del Copasir ricorda il giuslavorista e dice che il suo lavoro può aiutare «a mettere al centro le persone in carne ed ossa e a superare astratte contrapposizioni di principio».
A preoccupare il Pd sono le tensioni interne alla Cgil e la decisione della Fiom di indire subito uno sciopero a difesa dell’articolo 18. Bersani, che ha ricevuto dal governo una rassicurazione sul fatto che non c’è l’intenzione di cancellare «il pilastro» della giusta causa, giudica un errore concentrare la discussione su quello che definisce un «falso problema». E guarda con favore a una possibile convergenza che porti all’introduzione del modello tedesco, che prevede in caso di licenziamento che sia il giudice a decidere tra il reintegro e l’indennizzo monetario.
Il Pd, che chiaramente sarebbe il partito che più soffrirebbe una rottura tra governo e parti sociali, guarda con sospetto anche ai movimenti delle altre forze parlamentari. Non rassicurano infatti né le parole del leader del Pdl Angelino Alfano, per il quale «se non c’è l’accordo noi non siamo per la paralisi, ma per dire sì perché il governo vada avanti», né gli attacchi dell’Idv a Elsa Fornero, definita da Antonio Di Pietro una «Signora Madre Badessa» che non propone un contratto ma «un capestro».
L’ex pm attacca anche «i signori sindacati e i signori politici della pseudo maggioranza che si riuniscono nottetempo per prendersi un bicchierino a palazzo Chigi»: «Non basta che decidiate voi che cosa fare. Bisogna che i contratti li accettino e li firmino i diretti interessati, se sono d’accordo, cioè i lavoratori». Una posizione filo-Fiom che non sposa a questi livelli neanche Nichi Vendola. Il leader di Sel sta invece attento a non uscire con dichiarazioni che potrebbero creare difficoltà a Camusso, e si limita a dire che sarebbe «un fatto gravissimo» una riforma senza l’accordo della Cgil.

La Stampa 20.3.12
Lavoro, Bersani preme sulla Camusso per arrivare all’intesa
Per il Pd lo spettro è l’accordo separato Bonanni-Angeletti
di Ugo Magri


ROMA Se l’accordo sul lavoro dovesse saltare, a quel punto la maggioranza starebbe con Monti. Per mancanza di alternative. Per amore o per forza. Bersani compreso. «Mica potremmo far cadere il governo», allargano le braccia gli uomini del segretario. Però nessuno si augura una tragedia del genere. Non nel Pd, non tra le fila del Terzo Polo e nemmeno dalle parti di Alfano, che in teoria dovrebbe trarre gusto da una bella lite Pd-Camusso: stavolta l’erede di Berlusconi ci va coi piedi di piombo. Il suo modo di contribuire alla «fumata bianca» consiste nel dosare e parole. E dal Pdl, davvero, non si potrebbe pretendere di più. Quanto a Casini, lui è sulla stessa scia ecumenica del Cardinal Bagnasco: che peccato mortale, se non si firmasse l’accordo. Dunque armato di lima Pier Ferdinando telefona a tutti i protagonisti per smussare gli spigoli, anzitutto quelli della Fornero, così rigida e «impolitica». Lo stesso sta facendo, con un filo di nervosismo in più, Pierluigi Bersani che chiama a ripetizione i sindacati, e poi i ministri, e poi lo stesso presidente del Consiglio... Già, Monti.
Nelle sedi dei partiti si è sparsa ieri la voce che il «duro» della trattativa sia proprio lui. Che forte dell’ampia delega ricevuta da «A-B-C» nel vertice di giovedì scorso, il Prof voglia approfittarne per un piano a suo modo diabolico: alzare l’asticella dell’articolo 18 sui licenziamenti fino al punto da rendere ineluttabile la rottura. E presentarsi nel «road show» asiatico di fine mese dicendo ai mercati: «La mia riforma è talmente seria che i sindacati di sinistra non l’hanno potuta accettare», altro che «Italians», altro che tarallucci e vino. A quel punto lo spread potrebbe davvero scendere sotto i 200 punti, come qualcuno va sperando al Tesoro. Ma i partiti, e il Pd in particolare, ce la farebbero a reggere uno stress del genere? Sempre nello staff di Bersani si avanza una distinzione: «Un conto sarebbe rompere per l’impuntatura di una Cgil che corre appresso a Landini e a quei matti della Fiom... Noi per l’appunto non potremmo che stare con Monti. Altra cosa sarebbe, invece, se il negoziato naufragasse sull’onda anomala di forzature del governo in tema di articolo 18. Nel qual caso, anche per noi sostenere la riforma diventerebbe un problema. Rischieremmo l’implosione, la rottura con la nostra base. E tutto potrebbe accadere».
Si fa notare che il 6-7 maggio andranno alle urne 10 milioni di italiani, ultimo test prima del «redde rationem» nel 2013. Bersani giudicherebbe una disgrazia presentarsi all’appuntamento elettorale avendo rotto con Cgil sul lavoro, dopo averci litigato pure sulle pensioni. Il sindacato non sarà «cinghia di trasmissione» del partito come era un tempo, ma il Pd non può nemmeno trovarselo tipo cappio al collo. Lo sforzo del segretario mira a scongiurare accordi separati tra il governo da una parte, Bonanni e Angeletti dall’altra, segando fuori la Camusso. «O tutti a bordo, o nessuno», è la parola d’ordine. Giorgio Napolitano sta dando a Bersani un formidabile aiuto con il suo appello alle parti sociali, e poi con la mediazione in prima persona condotta a sera dall’alto del Colle. Un colpo al cerchio, uno alla botte: ai sindacati ma pure al governo. Casini lo asseconda, guai per tutti se Bersani fosse spinto alla disperazione, tirare avanti un altro anno sarebbe impresa da titani. Per reazione il Pd diventerebbe intrattabile, a cominciare da Rai e Giustizia. Alfano, che sarà giovane ma di politica ha la cattedra, capisce che forse al Pdl tutto sommato conviene porgere una mano agli avversari, per trovarseli davanti meno avvelenati quando si discuterà sul serio di poltrone a Viale Mazzini. Perché su quelle il Cavaliere non transige.

il Riformista 20.3.12
Il Pd avvisa il governo «Non faccia il decreto»
Mentre premier e titolare delWel- fare salgono al Quirinale, Bersani rassicura la lea- der Cgil: «Tutto il partito è contrario allo strappo». Rischio di corto circuito con le amministrative
di Tommaso Labate

qui

il Fatto 20.3.12
La politica qualunque
di Marco Politi


È impressionante: la cecità ostinata del ceto politico nei confronti dei bisogni della popolazione. Non c’è un solo partito, da destra a sinistra, in cui la maggioranza degli elettori approvi la rottamazione dell’articolo 18. Vedere l’ultima inchiesta Demos. D’altronde la Fiat è cresciuta (quando era capace di vendere auto) e le imprese straniere hanno investito in Italia per decenni con lo Statuto dei lavoratori. Però i negoziati al tavolo Fornero proseguono come se niente fosse. Il modo di trattare il tema del lavoro è emblematico. Allo smontaggio dell’art. 18 non corrisponde affatto – come veniva proclamato liricamente – la tutela dei giovani attraverso l’eliminazione dei contratti grigi, fucine di precariato. Contratti atipici e false partite Iva non saranno disboscate. Si limeranno gli aspetti più sfacciati, ma sfruttamento e precarietà sopravviveranno. D’incanto sono spariti dall’orizzonte politico il contratto unico di Ichino per i giovani in ingresso nelle aziende e la proposta Acli sul “contratto prevalente”. Non servono all’idea meccanica e idolatrica del mercato nella sua veste esistente. Primo segnale è stata la resa agli ordini professionali e la rinuncia all’equo compenso per i tirocinanti. È solo ipocrita il “rimborso forfettario” per i giovani laureati, che affollano gli studi degli avvocati . Zero braccio di ferro sul tema da parte dei partiti così pronti a riempirsi la bocca di futuro, crescita e gioventù. La radice del crollo di fiducia nei partiti sta qui. La classe-non-dirigente evita di trattare i problemi per come sono. Non vuole vedere che il partito maggioritario dell’astensione e del disagio non è anti-politica, ma esprime sete di politica. Non vuole sapere che la società non chiede meno Stato, ma uno Stato più presente nel promuovere lo sviluppo dei cittadini. Guai a discutere del futuro che si vuole. Anche la società civile appare più seduta che protagonista. Eppure un compito cruciale per la politica del XXI secolo esiste: rifondare lo Stato sociale, costruire intorno alla nozione di nuovo Welfare il senso del lavoro, il sostegno alla famiglia, la qualità dell’istruzione, della sanità, della cultura. È tragico quanto i “riformisti” laici o cattolici siano privi di visione. Certe encicliche di Wojtyla o Ratzinger sono paradossalmente molto più avanzate del balbettio contemporaneo. Oltre Monti, nel 2013 serve uno scatto di creatività. Altrimenti l’Italia si terrà la qualunque.

Repubblica 20.3.12
La tecnica al potere
di Roberto Esposito


Da più parti risuona il monito a guardarsi dal governo tecnico. Non tanto per i contenuti dei suoi provvedimenti - naturalmente discutibili - ma per la sua stessa natura tecnica. Certo, si ammette, esso è stato necessario a salvare il Paese da un baratro economico in cui stava precipitando. Segna comunque un salto di qualità, nel profilo e nello stile dei suoi componenti, rispetto a quello che lo ha preceduto. Ma resta un´eccezione, un´anomalia, che va contenuta in limiti temporali e anche operativi ben definiti. Altrimenti c´è il rischio che prenda il posto della politica, spingendo questa in una posizione marginale e subalterna. Se la sua forza nasce dalla debolezza della politica, si argomenta, il suo stesso successo può avere il risultato di approfondirla, cerando così una pericolosa potenza antipolitica. Cui la politica deve, al più presto possibile, rispondere, preparando la propria rivincita, sostituendosi alla tecnica che ha, nello stato di eccezione verificatosi, preso il suo posto.
C´è in questo ragionamento - che viene da ambienti culturali anche diversi - una preoccupazione comprensibile. Come negare che un´evidente inadeguatezza del ceto politico abbia favorito, se non imposto, un passaggio, e anche un´accelerazione inedita, nel ricambio di governo, guidato con forte assunzione di responsabilità da parte del capo dello Stato? Ed è anche vero che, comunque la si metta, è difficile immaginare un qualsiasi tipo di democrazia che faccia a meno dei partiti o che li mantenga in stato di perenne minorità. Ma tale considerazione non va assolutamente confusa con la teorizzazione di un contrasto di principio tra politica e tecnica. Basta uno sguardo all´indietro per dissolvere tale ipotesi infondata. Fin dall´inizio della storia moderna, e ancora prima, da quando la politica si è secolarizzata, non è neanche pensabile che essa possa fare a meno della tecnica.
Nonostante la presenza di un filone culturale tenacemente tecnofobo - che ha toccato il culmine negli anni Venti e Trenta del Novecento, vale a dire proprio quando la tecnica conosceva la stagione della sua massima espansione - non solo la grande filosofia politica moderna, ma perfino la tradizione classica hanno sempre riconosciuto il nesso inestricabile tra politica e tecnica. Non è necessario arrivare a Weber - e neanche a Machiavelli - per accorgersi che senza un sapere dei mezzi, qualsiasi fine sarebbe irraggiungibile. Già Aristotele riconosceva che senza calcolo esatto degli strumenti, dei modi, dei tempi, la vita stessa della polis sarebbe stata in pericolo. Certo lo scopo ultimo della città è la composizione concorde degli interessi in conformità con l´idea di giustizia. Ma, perché ci si possa approssimare a tale obiettivo, bisogna mettere in campo un sapere tecnico in assenza del quale esso resta del tutto fuori dalla nostra portata.
Nel mito di Prometeo raccontato nel Protagora, Platone ricorda che tale sapere - necessariamente specialistico - non basta in quanto tale a fondare la polis. Per questo fine superiore Zeus dona agli omini aidos e dike, rispetto e giustizia. Ma, lungi dal contrapporli alle tecniche che già aveva distribuito loro, li unisce ad esse. È da questo rapporto che nasce la società. Ciò che il mito intendo affermare è che la polis non è qualcosa di astrattamente opposto alla techne, ma da essa deriva e di essa si nutre. Anche se ad essa non è riducibile, anche se il suo fine varca i limiti della tecnica, ma senza mai perdere il contatto con essa. Tutta la grande tradizione filosofica è consapevole di questa necessità, con tutte le contraddizioni che essa comporta. Sa che senza la scienza dei mezzi, la prassi politica resta pura utopia. Virtù politica, secondo Machiavelli, è quella che tiene insieme i due poli, piuttosto che contrapporli. Così come, per Max Weber, vero uomo politico è chi, nonostante la loro differenza, riesce a non separare etica della convinzione ed etica della responsabilità.
Ma se non esiste politica effettuale capace di rinunciare alla tecnica, se la politica ha al proprio interno un irrinunciabile nucleo tecnico, allo stesso modo la tecnica, tutt´altro che opposta ad essa, ha sempre un effetto politico. E ciò perché, come ha spiegato a suo tempo Carl Schmitt, la politica, o il politico, non è un settore come altri della vita umana. Essa è il grado di intensità dell´unione o della separazione che si produce all´interno di ciascuno di essi. Ogni contrasto nell´ambito religioso, economico o culturale si trasforma in politico se diventa tanto intenso da dividere il terreno comune in due campi opposti e concorrenti. È perciò che, contrariamente a quanto si suppone, la tecnica, come ogni altro settore dell´esperienza, non può essere di per sé apolitica, è necessariamente traversata dal conflitto politico tra interessi e valori contrastanti. "La tecnica - scrive Schmitt - proprio per il fatto che serve a tutti non è neutrale. Dall´immanenza del dato tecnico non deriva nessuna decisione umana e spirituale unica, men che meno quella nel senso della neutralità". Piuttosto che contrapporre la politica alla tecnica, aspettando la rivincita della prima sulla seconda, occorre, anche da noi, orientare il binomio insolubile che esse formano nella direzione di un modello di società insieme più giusto ed efficiente.

Repubblica 20.3.12
La politica e il lessico dell'accordo
di Nadia Urbinati


È un luogo comune che gli italiani siano esperti di retorica, un bene e un cruccio a seconda di come si voglia vedere la politica, se una questione di vittoria o anche una questione di vittoria giusta. Vincere persuadendo è certamente meglio che vincere eliminando l´avversario; ciò non toglie che si debba essere critici attenti dell´arte di far uso della persuasione per far fare agli altri ciò che altrimenti non farebbero. Anche la retorica, del resto, è capace di servire ragioni di giustizia quando riesce a fare mettere chi scrive le leggi nei panni di chi le leggi le deve obbedire.
Diceva Adam Schmitt che non è necessario vedere soffrire per sapere che cosa si provi soffrendo, proprio perché noi tutti sappiamo essere partecipi immaginativamente di quello che succede ai nostri simili. Non dovrebbe essere necessario essere un lavoratore dipendente per fare una legge sul mercato del lavoro che sia equa, anche per i lavoratori dipendenti. Il linguaggio della politica è efficace quando riesce a far sentire tutti partecipi, anche se ideologicamente (o per appartenenza di classe) distanti tra loro. Diversamente si tratta di linguaggio privato, che non consente di attuare mediazioni perché prospetta soluzioni che sono a somma zero, a vantaggio cioè di una sola parte. Ecco perché il linguaggio della politica non dovrebbe essere né solo preoccupato di vincere né avere il carattere dell´intransigenza; la prudenza non è mollezza ma saggia fermezza.
Fare accordi, cercare la via più vantaggiosa per giungere alla risoluzione di un problema di portata generale non equivale ad arrendersi né, d´altra parte, a portare a casa un bottino. Al contrario, in politica si vince quando non si vince troppo perché si vince tendendo l´avversario in gioco. Il linguaggio politico serve a incanalare le idee diverse verso uno scopo che è comune; le parole contengono quindi il senso della possibilità e della fallibilità: poiché se solo una parte è nel vero (o nel falso), non c´è proprio nulla da mediare. La verità non vuole compromessi.
L´arte del linguaggio politico non è solo una questione di stile. Il senso delle parole è altrettanto importante perché può avvicinare o allontanare gli interlocutori. Prendiamo per esemplificare tre parole in uso costante in questi mesi di trattativa sull´articolo 18: "dogma", "privilegio" e "merito". Tre parole che sembrano neutre e innocui, ma che hanno un bagaglio ideologico pesante. Dogma è diventato il termine usato per designare la resistenza alla flessibilità nel mercato del lavoro. Il dogma, quando non si riferisce al mistero della divinità, è uno stigma. La persona dogmatica assume che quel che pensa sia una verità insindacabile. Il dogma è indice di stupidità e irragionevolezza. Ora, il diritto di chiedere conto (e l´obbligo di rendere conto) viene dipinto come una pretesa irrazionale, anacronistica. In quanto dogma, non è più "diritto", ma un "privilegio".
L´uso del termine privilegio è anch´esso molto indicativo. Infatti, se c´è una cosa che in una società democratica tutti detestano è che qualcuno sia più uguale degli altri, che goda cioè di privilegi. Ovviamente ci sono molti privilegiati di fatto, ma nessuno per diritto. Per esempio, i politici godono di straordinari privilegi ma sono comunque sottoposti al giudizio dell´elettore e quindi mai inamovibili. Nemmeno il profitto è un privilegio perché sottomesso comunque ai rischi del mercato. In questa fase della storia delle democrazie occidentali, gli unici a godere di un privilegio sembrano essere i più deboli - il repubblicano americano Newt Gingrich nei suoi comizi inveisce contro il popolo della "tessera di povertà", privilegiati assistiti che non meritano l´interesse della politica poiché sono un peso per tutti. Questo è il rovesciamento della realtà di cui la retorica è capace. Chi gode di un privilegio non ha bisogno di diritti. Perché il diritto è uno scudo che protegge il debole (perché ha meno potere) dal forte (che avendo potere non ha bisogno di diritti, mentre dovrebbe essere soggetto a obblighi). Lo Statuto dei Lavoratori è stato fatto per protegge il lavoratore dall´arbitrio di chi ha tutto il potere di decidere. Senza un limite posto dalla legge, quel potere si fa arbitrario. Se si vuole giungere a una giusta riforma si dovrebbero togliere i veri ostacoli all´attuazione di quel diritto, uno per tutti: le disfunzioni della giustizia italiana che impiega anni a risolvere un contenzioso, ed è causa di vera ingiustizia per tutti, per il lavoratore, per chi cerca un lavoro e per il datore di lavoro.
A coronamento della strategia linguistica viene infine il "merito", che sta sia contro il privilegio che contro il dogma. John Rawls aveva tenuto fuori il merito dalle ragioni di giustizia distributiva perché condizionato dal contesto familiare, economico, scolastico, eccetera, e non traducibile in procedura imparziale. Solo un´identica (e irrealistica) condizione di partenza e identiche condizioni familiari, educative e socio-econimiche potrebbero fare del merito un criterio di giustizia distributiva. Ma le società sono dense di contingenze che sporcano questo ideale. Essere nati in un quartiere invece di un altro è condizione sufficiente per rendere il giudizio sul merito nullo, anzi ingiusto, quando si tratta di decidere come distribuire beni o oneri. Certo che le carriere devono seguire il merito! Ma questa dovrebbe essere la norma operante - senza di che c´è corruzione. La norma del merito dovrebbe semplicemente funzionare, e se non funziona il torto deve essere punito. Ma se se ne fa un ideale da perseguire è perché c´è ingiustizia e corruzione. Però, se così è, invocare il "privilegio" degli occupati come causa della disoccupazione di chi "meriterebbe" un posto di lavoro diventa davvero irrazionale.
Dogma, privilegio, merito: queste parole danno un´idea di quale direzione possa prendere il mutamento della nostra società. Non si può fare come se si tratti solo di parole. Decostruirle, riflettere sul loro significato e le loro implicazioni è una condizione preliminare importante per discutere in maniera prudente sulle decisioni da prendere, e soprattutto per prendere decisioni che siano giuste.

Repubblica 20.3.12
Nuovo sfogo di Lusi che torna a polemizzare col leader dell´Api: ha chiesto il mio arresto
"Ho accettato un patto scellerato" Rutelli? Dà pure numeri sbagliati"
di Giovanna Casadio


ROMA - Allineate su un tavolo nello studio di Luigi Lusi ci sono dieci cartelle con i documenti di bilancio della Margherita dal 2001 al 2010. Ma, davanti a tutto, sono impilate le agendine bianche dove con scrittura minuta il tesoriere accusato di avere usato i soldi del partito per acquistare ville da sogno e spassarsela a caviale e champagne, ha appuntato tutto. Dal 1999 al 2006. Le gite e le spese. Gli appuntamenti e le richieste. Entrate e uscite segnate con rigore maniacale, come gli ex amici del Margherita gli hanno sempre riconosciuto, prima dell´accusa del saccheggio di 20 milioni di euro dalle casse di "Democrazia è Libertà". Quindi, nessun falò di prove, come pure aveva sostenuto.
Lusi premette di non voler parlare. «Io ho accettato un patto scellerato; sono stato leale e un po´ coglione». Questo dice oggi, alla vigilia della istanza di riesame del provvedimento di convalida del gip sui sequestri. Lusi ora vuole vedere le carte che lo accusano e aspetta di essere interrogato dai giudici. «Non ne posso più, soprattutto per la mia famiglia. Vengono continuamente dette cose che non esistono nei miei confronti, Rutelli è andato a chiedere il mio arresto, ha dato numeri sbagliati, parlato di cose che non esistono», si sfoga. Dopo l´inchiesta dell´Espresso sui versamenti alla fondazione Cfs (Centro futuro sostenibile) di cui Rutelli è presidente, il clima già rovente, è diventato incandescente. Rutelli querela, Lusi non vuole soccombere.
Ieri 34 senatori hanno chiesto al presidente Schifani di prendere provvedimenti contro Lusi, con una lettera e una riunione imminente (in settimana), perché il senatore (espulso ormai dal Pd) ha dato un´intervista a "Servizio pubblico", nella quale ha dichiarato che se lui parla il centrosinistra potrebbe crollare. Intervista rubata - sostiene l´ex tesoriere - però nell´ufficio del Senato: «Ho commesso ingenuità clamorose», colloqui con persone di cui «mi sono fidato». Rischia sanzioni per «inquinamento della correttezza dei rapporti politico-istituzionali», come gli ex amici scrivono. L´iniziativa è stata di Rutelli e firmata tra gli altri da Enzo Bianco, Baio, De Luca, Giaretta.
L´avvocato Lusi però non vuole restare nell´angolo. Vuole patteggiare? «E chi l´ha detto?». È un ladro? «Sì, patentato. Sin dall´inizio. Per questo mi avevano affidato di fare il tesoriere», replica con sarcasmo. È uno che si è montato la testa maneggiando un sacco di soldi senza controllo per conto di un partito defunto, e ha pensato di trattenerne un bel po´ per sé? «La verità storica sarà dalla mia, ma ci vorranno otto, dieci anni prima che se ne venga a capo. Tra otto, dieci anni sarò morto dal punto di vista pubblico e mediatico». Risponde così ormai, mentre freme per dire la sua e l´avvocato Luca Petrucci gli consiglia di tacere («Massimo silenzio») e pazientare. Ha carte che provino come quei soldi siano serviti a foraggiare le correnti e i leader della fu-Margherita, o che c´era un accordo per una divisione delle risorse? «Quali altri documenti dovrei avere?». È sul punto di lanciare altre accuse. Però si trattiene: «Non alludo, non minaccio, non voglio insinuare. Quella cosa sul centrosinistra è stata una sbruffonata». Sembra un´offerta di tregua dopo lo tsunami di accuse. «Non è un complotto contro di me, non penso questo - sarà uno dei punti a difesa - però un coacervo di interessi sì, che vanno oltre me».

l'Unità 20.3.12
Ma Gramsci non fu mai un intollerante
di Lucia Matergi
, presidente Istituto Gramsci di Grosseto

S u Antonio Gramsci si registra oggi un notevole interesse e ovunque si moltiplicano dibattiti su un grande pensatore che seppe guardare il proprio tragico mondo alla luce di una chiara visione ideale e seguendo un rigore etico sicuramente incontestabile.
Ora, se può risultare strano l’oblio di cui Gramsci è stato oggetto per tanto tempo, anche da parte della sinistra, non meraviglia affatto questo attuale recupero, che cerca di rispondere al diffuso bisogno di un pensiero forte cui rifarsi per rifondare il senso della politica, che poi è il senso della cittadinanza.
Forse proprio per questo nasce, in un clima che concede troppo all’antipolitica, l’animosità di certe critiche all’uomo Gramsci, tra le quali si segnala l’interpretazione di Alessandro Orsini nel suo libro «Gramsci e Turati» e poi sostenuta da Roberto Saviano, scrittore e intellettuale che sembra figlio di un tempo in cui spesso lo scoop mediatico ha decisamente la meglio sull’informazione. La critica che anima il suo intervento demolitore verte sulla contrapposizione tra la «pedagogia della tolleranza» di Turati e la presunta intolleranza e violenza verbale (e non solo) di un Gramsci dipinto quasi come un antesignano delle Brigate Rosse.
Ora, per ricondurre la questione su un piano di maggiore onestà intellettuale, possiamo dire che la tolleranza non si misura con il metro della buona educazione, ma con quello dei contenuti veri: è tollerante chi, pur condannando il male, indaga al contempo sui motivi che danno origine al male.E in questa accezione la maggiore tolleranza è stata mostrata proprio dal pensiero gramsciano. Esso non pone mai un assoluto astratto in nome del quale condannare qualcosa o qualcuno.
Il fascismo stesso, pur strenuamente combattuto, ha ricevuto da Gramsci la definizione di «rivoluzione passiva» e non gli insulti scomposti di cui vogliono farne un teorizzatore. È il picchiatore fascista, invece, l’uomo che non indaga su se stesso e non capisce niente del fenomeno di cui si è fatto cieco strumento.
Sono stati il fascismo, il nazismo e oggi, per altri versi e con modalità diverse, il leghismo e il berlusconismo che hanno dato di sé sempre definizioni ideologiche, e non scientifiche. In Gramsci, invece, l’esercizio dell’egemonia comincia proprio da questa forma profonda di tolleranza, da questa capacità di tollerare, con il pensiero, la storia e i suoi effetti sull’uomo e sulla società. Il resto sono chiacchiere da salotto televisivo.

l'Unità 20.3.12
I figli non nati
risponde Luigi Cancrini


La giunta Renzi ha approvato la proposta di istituire uno spazio all’interno del cimitero comunale per i bambini non nati. Le scrivono due genitori di Roma che anni fa hanno perso due figli, prima Samuele e poi Donato, al quinto mese di gravidanza e che nel momento del dolore avrebbero voluto poterli seppellire.

Risposta: Convinto come sono del fatto che l’attuale legislazione italiana in tema di interruzione volontaria della gravidanza sia fondamentale per tutelare il diritto della donna e della coppia alla procreazione responsabile, vorrei esprimere qui tutto il mio rispetto, altrettanto pieno e convinto, alla posizione di chi, avendo perso un bambino prima della sua nascita, esprime il desiderio di ricordarlo in un cimitero. Vivo è l’altro che vive nei nostri cuori, nel gioco incerto e felice (o infelice) delle nostre aspettative e dei nostri sogni e vivi sono dunque, per Norma e Carlo, i piccoli Samuele e Donato, i figli che non sono riusciti a nascere ma che della loro storia e della loro unione sono stati e sono parte integrante. Giorno verrà, forse, per gli esseri umani, in cui il rispetto per questo tipo di esperienza non si trasformerà in condanna delle scelte di chi pensa e agisce in modo diverso ma in occasione per interrogarsi, con curiosità e affetto, sulle sue esperienze. All’interno di un dialogo quieto fra i genitori che piangono al cimitero i figli non nati e quelli che ne custodiscono il ricordo e il rimpianto nel segreto del loro cuore.

Corriere della Sera 20.3.12
Quei «figli di papà» cinesi con il vizio di sfasciare Ferrari
Il regime censura le notizie sugli incidenti dei rampolli
di Marco Del Corona


PECHINO — Quando domenica la notizia ha cominciato a diffondersi, con macabro cinismo qualcuno si è affrettato a notare sul web che la Ferrari schiantatasi alle 4 del mattino lungo una delle circonvallazioni di Pechino era nera, non rossa. Non si trattava, cioè, dell'auto per la quale è famoso Bo Guagua, figlio dell'ex segretario del Partito a Chongqing, Bo Xilai. Ma le implicazioni di una Ferrari distrutta, con il giovane al volante morto e due ragazze a bordo ferite gravi, hanno cominciato a farsi più problematiche di ora in ora. E la storia nel giro di una giornata era praticamente scomparsa da portali e siti cinesi.
Le corse notturne dei bolidi della gioventù dorata di Pechino non sono una novità, ma questa conclusa contro un guardrail del quarto «anello» è un caso. Qualche dettaglio è rimasto in circolo. L'incidente è avvenuto nella zona di Haidian, a nordovest della capitale, area di università e hi-tech, e i corpi sarebbero stati sbalzati a una certa distanza dalla carcassa. Quando sul web i commenti hanno cominciato a diradarsi e le ricerche dell'argomento «Ferrari a Pechino» a non dare risultati, si è imposta l'ipotesi inverificabile che la vittima fosse il figlio di un alto dirigente, addirittura di un leader. Nessuna conferma.
Che la vittima sia o no l'erede di un esponente di punta del Partito conta relativamente. La vicenda raccoglie in sé diversi spunti che la propaganda cinese maneggia con grande cautela, specie nell'anno del congresso che rinnoverà i vertici comunisti. Un giovane in Ferrari è l'archetipo del figlio del potente, imbozzolato nel privilegio, lontano dall'affannato benessere delle classi medie urbane (per non dire delle campagne…). Inoltre, la disparità di reddito, il gap ricchi-poveri è il cavallo di battaglia della sinistra (approssimativamente definita «neo maoista») interna al Partito, adesso in difficoltà dopo gli attacchi pro-riforme sferrati dal premier Wen Jiabao e dopo la rimozione di Bo Xilai, il suo campione.
Bo, figlio di un eroe rivoluzionario, aveva fatto della municipalità di Chongqing un feudo rosso, all'insegna di un populismo nostalgico e di politiche sociali indirizzate alle classi meno abbienti. Ora è bruciato.
I figli dei potenti sono a loro volta spesso figli di leader dell'era di Mao, i «principini». Allevati in scuole d'élite, educati all'estero, beneficiari di investimenti familiari cospicui ma anche destinati a perpetuare le glorie del clan, non piacciono all'opinione pubblica. Lo scorso settembre un famoso tenore dell'esercito, Li Shuangjiang, aveva dovuto chiedere perdono dopo che il figlio quindicenne (e dunque senza patente) al volante di una Bmw senza targa aveva centrato un'auto ferendo la coppia a bordo. Visitando i malcapitati in ospedale, Li aveva ammesso di non essere stato capace di educare il ragazzo. Nell'autunno 2010 era invece diventata un tormentone nazionale la frase «Mio padre è Li Gang», pronunciata dal figlio di un vicecapo della polizia di Baoding in Hebei, che aveva investito a morte una studentessa in un campus universitario. Le parole con cui aveva tentato di ottenere un'istantanea impunità lo avevano reso famoso.
La propaganda si ingegna perché i leader non appaiano lontani dal popolo, con una progenie viziata e arrogante. E invece i figli sono spesso oggetto di quelle voci online che sono tra i nemici prioritari del sistema informativo del governo. Eppure, qualche pezzo di verità anche i pettegolezzi rosa dei super rampolli lo raccontano. Pochi giorni prima che scoppiasse lo scandalo fatale a Bo Xilai, si disse che la promessa sposa del figlio, Chen Xiaodan (guarda caso nipotina di uno degli «otto immortali del Partito», Chen Yun), avesse rotto il fidanzamento con Bo Guagua. Gran preveggenza. La Ferrari di Bo Guagua, però, dovrebbe essere intatta, se non altro.

La Stampa 20.3.12
La Cina prova a scommettere sulle quotazioni del mais
di Wei Gu


I prezzi del mais in Cina sono saliti del 10% da inizio anno, facendo segnare un record storico. Le speranze che la Cina possa diventare un grande importatore di granturco stanno spingendo al rialzo i prezzi del cereale in tutto il mondo. Ma è del tutto possibile che la tendenza rialzista sottovaluti la volontà di Pechino di essere autosufficiente su questo prodotto agricolo chiave, di cui solo l’America è un grande esportatore. I prezzi del mais si dimostreranno vulnerabili quando la Cina inizierà a lavorare sull’efficienza degli allevamenti di suini e sui colli di bottiglia che attualmente rallentano le catene di fornitura. Le tendenze rialziste sul prezzo del mais scommettono sul ripetersi di quanto era avvenuto nel mercato dei semi di soia. La Cina, ex esportatrice di semi di soia, è diventata il primo importatore e consumatore mondiale di questi legumi con un acquisto annuo di 55 milioni di tonnellate, pari al 60% del commercio mondiale.
Allo stesso modo la Cina, che in passato era un paese esportatore di mais, ne ha importato oltre 1 milione di tonnellate in ognuno degli ultimi due anni. Secondo le proiezioni del ministero dell’agricoltura, le importazioni cinesi nella stagione in corso dovrebbero arrivare almeno a 2 milioni di tonnellate. Pechino ha eliminato le quote e i dazi sui semi di soia dieci anni fa, ma è improbabile che decida una misura analoga per il mais in tempi brevi. Il granturco è strategicamente più importante dei semi di soia, poiché rappresenta circa la metà dei mangimi per animali contro appena il 20% della soia. La Cina può controllare il rapido aumento della domanda rendendo più efficienti gli allevamenti di suini. Inoltre, l’offerta di granturco sta aumentando rapidamente nel Paese. La Cina ha registrato un record di raccolti nel 2011. La recente impennata dei prezzi del mais potrebbe essere dovuta a pratiche di accumulo. Secondo un sondaggio della Dalian Commodity Exchange, i coltivatori cinesi stanno trattenendo una parte dei raccolti in attesa di ulteriori rincari. Considerando che la carenza di mais in Cina non è così forte come si potrebbe pensare, è molto probabile che questi agricoltori vadano incontro a una cocente delusione.
Per approfondimenti: http://www.breakingviews.com/ (Traduzioni a cura del Gruppo Logos)

Repubblica 20.3.12
Così la Cina ferma le Ferrari
di Giampaolo Visetti


La censura cinese è sempre più impegnata dagli incidenti stradali. Ieri è stata costretta a bloccare la notizia dello schianto mortale di un ventenne a Pechino. Ha perso il controllo della sua Ferrari all´alba, dopo aver rimorchiato due amiche. Tivù e siti web non hanno fatto in tempo a dare il particolare più importante: il nome della vittima. Perché il partito – hanno chiesto gli internauti – ora censura anche i frontali? Oscurati migliaia di commenti. La parola "Ferrari" è stata bannata: un clic e lo schermo diventa nero. Se la censura politica si muove, significa che occorre. La vittima sarebbe il figlio di un leader del partito comunista. La privacy non c´entra. Il popolo non deve sapere che i rampolli di funzionari a stipendio fisso scorazzano sui bolidi, si ubriacano con le modelle, fanno spese a Londra e cenano a Singapore. Tra i professionisti della dolce vita di Pechino c´è anche il figlio di Bo Xilai, "principe rosso" epurato giovedì perché sognava il Grande Timoniere. Non sta bene ammettere che i figli emulano i padri: e questa volta, nonostante la passione per la Rossa, non c´entra nemmeno la nostalgia di Mao.

La Stampa 20.3.12
Un complotto per cancellare il Paese
Grecia, la crisi brucia anche la cultura
I teatri cancellano gli spettacoli e sono frequenti i suicidi di intellettuali
di Sandro Cappelletto


Esiste un complotto che ha l’obiettivo di cancellare il mio Paese e ora sta cercando di cancellarci anche materialmente con la mancanza di lavoro, la fame e la miseria... Suggerisco che noi si smetta di comperare materiale bellico dalla Germania e dalla Francia
Mikis Theodorakis

Dimitra Theodossiou, cantante: «Mio padre mi ha lasciato in eredità due negozi in città. Da mesi nessuno li affitta. Ho detto al Comune: vi do le chiavi, fateci entrare la gente che non ha più casa e non sa dove dormire. Ci vivono sessanta persone, trenta per ogni negozio. Vergogna: noi greci siamo in tutto dieci milioni di persone e i nostri “fratelli” della Comunità Europea non ci hanno voluto aiutare!».

Myron Michailidis, direttore d’orchestra e direttore artistico dell’Opera Nazionale di Atene: «In tre anni il contributo dello Stato al teatro è sceso da 33 a 16 milioni di euro. Abbiamo fatto contratti più flessibili ai nostri dipendenti, riorganizzato i turni di lavoro, ridotto il costo dei biglietti, produciamo spettacoli per bambini e famiglie con ingresso a dieci euro. Ma ogni giorno è più difficile continuare».

Jannos Eolou, compositore, soprattutto di musica per film: «L’industria nazionale del cinema è ferma. Dischi non se ne vendono, perché i ragazzi scaricano la musica da Internet. Chi assisteva a venti concerti l’anno, adesso non arriva neppure alla metà. Mi dite come facciamo a vivere? C’è solo una notizia positiva: di fronte alla crisi, la gente non ne vuole più sapere delle stupidaggini della televisione, del “glamour” e del “gossip”. Il pubblico chiede meno esteriorità e più serietà, per sollevare lo spirito, per ricordare che la bellezza continua ad esistere».

Istantanee da Atene al tempo del default. Il paese che ha narrato i miti fondanti della nostra cultura, adesso sacrifica ad altre divinità: le banche, il debito, lo spread, il piano di rientro. «Sono dei crudeli», dice Eolou. «Esigono sacrifici umani».
Il cartellone dell’Opera Nazionale, teatro inaugurato nel 1940, pochi mesi prima della dichiarazione di guerra dell’Italia alla Grecia, è pieno di date vuote. L’Elisir d’amore lo scorso novembre, poi La ragazza di Creta , un’operetta di Spyros Samaras, Un ballo in maschera di Verdi, Faust di Gounod, Die Flut , opera contemporanea di Boris Blacher. Soltanto cinque titoli lungo un’intera stagione. «E la prossima probabilmente sarà ancora più ridotta», commenta Michailidis. «Cerchiamo comunque di salvare alcune recite degli spettacoli estivi nei teatri di Erode Attico e di Epidauro, dove vengono molti turisti». Meravigliosi anfiteatri all’aperto, dall’acustica perfetta, dove cantò prima giovanissima e poi diva universale Maria Kalogeropoulos, la Callas.
«Non basta ridurre i cachet, ormai siamo al punto che saltano contratti già firmati. La nostra gente non si era mai confrontata con il dramma del suicidio, adesso non passa giorno senza che arrivi notizia, anche nel nostro ambiente, di amici, di conoscenti che si tolgono la vita», racconta la Theodossiou. Indomabile oppositore dei «sacrifici» richiesti ai greci, è ancora una volta Mikis Theodorakis. Il musicista che ha creato tra tanti altri titoli - la colonna sonora di Zorba il Greco , ha infiammato l’orgoglio degli artisti scrivendo una lettera aperta al suo popolo, rivolta contro gli ultimi governi greci e contro le decisioni prese dagli organismi finanziari internazionali: «Esiste un complotto che ha l’obiettivo di cancellare il mio Paese e ora sta cercando di cancellarci anche materialmente con la mancanza di lavoro, la fame e la miseria... Per quanto riguarda l’Europa, suggerisco che noi si smetta di comperare materiale bellico dalla Germania e dalla Francia, e che si faccia tutto il possibile in modo che la Germania ci versi i debiti di guerra che ci deve e che ammontano - allo stato attuale e tenendo conto anche degli interessi relativi - a circa 500 miliardi di euro... Ho 87 anni, non riuscirò a vedere la salvezza della mia amata patria. Ma morirò con la mia coscienza tranquilla, perché continuo a fare le mie battaglie per gli ideali della Libertà e del Diritto fino alla fine».

l'Unità 20.3.12
Se il lavoro fosse più umano
L’anticipazione Come trasformarlo da condanna biblica a strumento di realizzazione personale?
Un saggio esplora, con l’aiuto di alcuni pensatori del Novecento, le concrete possibilità di un sistema economico più etico
di Nicola Costantino


Era il 1995. Andando in Consiglio di Facoltà avevo portato con me, per ingannare l’attesa, un libro da poco iniziato: La fine del lavoro, di Jeremy Rifkin. Un amico, sedendomi accanto, e sbirciando il titolo, commentò: «Nicola, che lettura iettatoria...». Dopo pochi minuti, un altro collega (è difficile resistere alla tentazione di guardare cosa legge chi ci sta vicino...) esclamò: «Sta finendo il lavoro? Che bello! Avremo un sacco di tempo libero!». Entrambi stavano scherzando, naturalmente, ma il contrasto tra le due battute era (è) una conferma della fondamentale e irrisolta ambiguità che il lavoro ha nella nostra vita: strumento di sostentamento e di realizzazione professionale e personale per molti (anche se non per tutti...) ma anche condanna biblica («Con il sudore del tuo volto mangerai il pane»). Parafrasando una vecchia battuta, originariamente riferita ai proprietari di barche, si potrebbe dire che nella vita di ogni lavoratore ci sono due bellissimi momenti: il primo giorno di lavoro, che ci schiude davanti un futuro pieno di rosee speranze; e l’ultimo, spesso vissuto come liberazione da un ultra decennale asservimento che ci ha tenuto lontano dai nostri reali interessi.
IL PANE DI ADAMO
Certo, per la maggior parte di noi (ma c’è anche chi vive di rendita...) lavorare è una necessità, ma la quantità, e ancor più la qualità e la redditività, del lavoro che ci viene richiesto o offerto dipende da moltissimi fattori: oggettivi, come sviluppo tecnologico, domanda e offerta di fattori produttivi e di prodotti intermedi e finali, congiuntura economica, finanziaria e politica; e soggettivi, quali i nostri personal skills, la cittadinanza e la residenza. Per Adamo, condannato a procurarsi il pane con il sudore del suo volto, la relazione tra quantità e qualità del lavoro da una parte, e soddisfacimento dei propri bisogni dall’altra, era di immediata e trasparente causalità, pur nell’incertezza di siccità e inondazioni. Oggi invece un lavoratore può essere minacciato da eventi lontanissimi, quali innovazioni tecnologiche di prodotto e di processo, ingresso sul mercato globale di nuovi competitors, speculazioni finanziarie, disordini socio-politici ecc., che incidono sul suo tenore di vita, cioè sul soddisfacimento dei suoi bisogni, indipendentemente dalla qualità e dalla quantità del suo lavoro.
Più in generale, il rapporto tra bisogni e lavoro appare sostanzialmente invertito: se Adamo (cioè l’uomo primitivo) doveva lavorare quanto richiesto per soddisfare una quantità circoscritta di bisogni primari, oggi possiamo soddisfare tutti i bisogni, reali o presunti (estremamente differenziati in quantità e qualità) che il lavoro che svolgiamo (o meglio il reddito che ne deriviamo) può compensare.
E se è vero che l’epoca industriale ha visto una progressiva riduzione dell’orario di lavoro (da tempo attestatasi, peraltro, intorno alle 40 ore settimanali, almeno per i paesi industrializzati), è anche vero che le epoche precedenti hanno registrato situazioni molto diverse. Come ricorda Domenico De Masi, «il lavoro è un vizio recente»(...) Il rapporto tra lavoro, produttività e produzione nell’economia globalizzata dei prodotti (e, solo parzialmente, dei fattori di produzione) è diventato oggi estremamente complesso, riducendo gli spazi individuali di autodeterminazione della maggior parte dei lavoratori.
Non solo: in un’economia sempre più dominata dalla finanza (e non dalla produzione) la moneta ha cessato di essere un mezzo di razionalizzazione degli scambi (e di accumulazione del risparmio), per diventare una risorsa primaria, che si accumula sempre più nelle mani di pochi privilegiati. A tutti gli altri è schizofrenicamente chiesto di guadagnare poco (perché la competizione concorrenziale impone lo schiacciamento verso il basso dei salari), ma di consumare molto (perché l’enorme massa dei prodotti da loro stessi realizzati deve pur trovare un mercato di sbocco): da qui molte delle inevitabili instabilità dei mercati, compresa l’ultima crisi del 2008, finanziaria prima, economica poi.
Come ci siamo cacciati in un simile pasticcio?

Corriere della Sera 20.3.12
I ricordi dell'uomo che rappresentava Himmler in Italia
Intrighi, spie e delazioni nella Roma di Dollman
Così venne tradito Giuseppe di Montezemolo
di Paolo Mieli


Eugen Dollmann era nipote del medico di fiducia dell'imperatrice austriaca Sissi e un giorno, il 10 luglio del 1914, alla vigilia della Prima guerra mondiale, suo padre gli fece conoscere l'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe. All'epoca Dollmann aveva 14 anni e per il resto della sua vita restò impressionato dal tratto, dall'eleganza, dallo stile di quel «grande» che aveva avuto l'occasione di incontrare. Studiò poi all'università Ludovico Massimiliano di Monaco, dove si laureò con lo storico Hermann Oncken che gli cambiò il destino procurandogli una borsa di studio in Italia per scrivere una tesi sul cardinale Alessandro Farnese. Alessandro Farnese che, avrebbe scritto Dollmann, «fu così fortunato da non avere in me il suo biografo: nel 1945 i servizi segreti alleati a Roma trovarono una cesta piena di documenti, appunti, fogli d'archivio, riproduzioni e altro ancora sul suo conto; credettero probabilmente che si trattasse di un agente di collegamento con il Vaticano e portarono via tutto il materiale». Perché tanta attenzione da parte dei servizi segreti alleati? Dollmann era diventato il rappresentante in Italia di Heinrich Himmler, con il quale aveva un rapporto personale e diretto, nonché buon amico del potente capo della polizia fascista Arturo Bocchini, e in quanto tale il nazista più importante e misterioso a Roma sotto l'occupazione tedesca.
Prima di partire alla volta del nostro Paese aveva conosciuto un'altra personalità del suo tempo, l'ex cancelliere tedesco Bernhard von Bülow, il quale gli aveva detto una frase destinata a restargli impressa: «Resti tutta la vita in Italia, lì si trova sempre una via d'uscita da qualunque situazione e persino dalle alleanze». Dollmann seguì quel consiglio. Di lui ha scritto Erich Kuby ne Il tradimento tedesco (Rizzoli): «Era un ufficiale superiore delle SS, pur non avendo mai messo piede in una caserma, ma non c'era una sola ordinanza emanata dall'alto a giustificare la vita brillante che il nostro conduceva nella Roma occupata». In compenso, com'è ovvio, «abbondavano le dicerie e le voci; certo è che durante il periodo 1943-44 fu il tedesco più potente, e di conseguenza il più temuto, nella capitale italiana». Frequentava l'alta società, proseguiva Kuby, «con la naturalezza e la disinvoltura di un pesce nell'acqua, era una iena da salotto, parlava l'italiano come d'Annunzio, si era rimpinzato di cultura italiana e sapeva come gettare polvere negli occhi fingendo di indossare l'uniforme delle SS per puro divertimento e dando a credere di non essere altro che l'interprete di cui i dittatori si servivano a volte, in occasione dei loro incontri».
Eitel Federico Moellhausen, console in quegli stessi anni di Germania a Roma — in La carta perdente. Memorie diplomatiche 25 luglio 1943 - 2 maggio 1945, edizioni Sestante — parlò così delle relazioni tra lui e il capo operativo delle SS a Roma, Herbert Kappler: «Corsero tra loro rapporti buoni soltanto in apparenza, in realtà Kappler non riconosceva a Dollmann le qualità adatte per occupare il posto di rappresentante politico delle SS… Lo giudicava molle, senza virilità e senza carattere; a sua volta Dollmann considerava Kappler intollerante, freddo e spietato». Suo grande estimatore fu, invece, il feldmaresciallo Albert Kesserling, che nella prefazione a un suo libro (L'eroe della paura, edito da Longanesi) scrisse: «Eugenio Dollmann rappresenta esattamente il contrario di tutto ciò che il mondo è abituato ad associare al nome di SS, egli è stato l'uomo che, coi suoi soli mezzi ed entro i limiti a lui imposti, ha fatto di tutto per dare alla guerra un volto umano, e si deve riconoscere che in parte vi è riuscito». Persino lo storico inglese Raleigh Trevelyan, che prese parte allo sbarco di Anzio e combatté in Italia contro i tedeschi, scrisse (in Roma '44, edito da Rizzoli) che Dollmann era tutt'altro che «un mostro assetato di sangue».
Adesso la casa editrice Le Lettere pubblica un suo libro, La calda estate del 1943, composto da articoli e saggi pressoché inediti che Dollmann scrisse nei primi anni del secondo dopoguerra. Racconta Dollmann che dopo la caduta del fascismo (25 luglio del 1943) si occupò di «stabilire fili di collegamento con il potentissimo dittatore della Fiat, ingegner Vittorio Valletta» per mettere in piedi «un gabinetto pulito formato possibilmente da tecnici e funzionari apolitici, preferibilmente non compromessi con il fascismo». Piano che, dopo l'8 settembre e la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, «venne accantonato con danno per tutti, italiani e tedeschi». A proposito della suddetta liberazione del Duce, la definisce «una leggenda», deride il «liberatore» Otto Skorzeny («non era che una ruota dell'ingranaggio»), ed esalta la figura di chi ordì quel piano, il generale Kurt Student. Parla della sua diffidenza nei confronti di Galeazzo Ciano (che, però, a suo dire, quando fu fucilato a seguito del processo di Verona, «morì da valoroso») e della sua stima nei confronti di Dino Grandi («ovunque mi si presentasse l'occasione, esprimevo sempre la mia preferenza per Grandi»). Non gli piaceva Ciano, ma ammirò sua moglie Edda («aveva sempre esercitato su di me una grande impressione»). Del ministro degli Esteri tedesco von Ribbentrop, scrive che fu un «megalomane».
Ad arricchire il libro, già di per sé molto interessante, una illuminante prefazione di Francesco Perfetti, secondo il quale che la figura di Dollmann fosse di primo piano «lo si vide nei giorni frenetici e drammatici che precedettero e seguirono la caduta del fascismo, quando quest'uomo di bell'aspetto, biondo, elegante, dall'eloquio brioso e frizzante, fu al centro di attenzioni, incontri, pressioni da parte di chi pensava di poterne utilizzare le conoscenze, giocando sulle sue amicizie e inimicizie, per ottenere informazioni, lanciare messaggi o ricavare qualcosa».
Una terribile macchia restò, però, sulla divisa di Dollmann: quella del massacro — il 24 marzo del 1944 — delle Fosse Ardeatine. In un colloquio del 28 luglio 1946 tra Mario Missiroli e Giovanni Ansaldo (che ne scrisse nel libro Anni freddi. Diari 1946-1950, il Mulino), si registrano voci che collegavano — «peraltro impropriamente», precisa Perfetti — il «mostro» Dollmann all'eccidio. E invece, secondo Perfetti, va ricordata «l'iniziativa posta in essere all'indomani dell'attentato di via Rasella, quando la sera del 23 marzo 1944 Dollmann cercò di interessare il Vaticano tramite l'abate generale dell'Ordine dei Salvatoriani, padre Pancrazio Pfeiffer, e ottenerne l'intervento al fine di scongiurare l'eccidio delle Fosse Ardeatine». Della stessa natura, aggiunge lo storico, fu anche l'organizzazione, con l'aiuto di Virginia Agnelli, di un colloquio segreto fra il generale Wolff e il Pontefice (Pio XII), che ebbe come esito almeno la liberazione (mal digerita da Kappler) del giurista Giuliano Vassalli. Le sue doti di «mediatore e di tessitore di accordi segreti», Dollmann ebbe modo di metterle in luce anche durante l'agonia della Repubblica sociale, allorquando, trasferitosi al Nord dopo la liberazione di Roma, diventò protagonista, utilizzando la mediazione del cardinale Ildefonso Schuster e poi attraverso i suoi diretti rapporti con i servizi segreti americani, «delle trattative che avrebbero portato alla resa dei tedeschi». Il che gli procurò un qualche credito a Washington. Tant'è che, sulla base di documenti statunitensi recentemente declassificati, si può affermare che «gli Alleati non solo coprirono Dollmann, ma pensarono anche di utilizzarlo per operazioni di intelligence e, del resto, egli fu in contatto anche con i servizi segreti italiani». Servizi segreti italiani che nel 1949 gli rilasciarono addirittura un falso passaporto intestato a Eugenio Amonn, grazie al quale Dollmann poté riparare in Germania e trasferirsi a Monaco, dove visse indisturbato fino al 1985.
Ma, tornando alle Fosse Ardeatine, per una singolare coincidenza della ricerca storica, proprio in questi giorni si riaccendono le luci su una delle figure di maggior rilievo tra quanti trovarono la morte in quella strage nazista: il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, capo della Resistenza monarchica a Roma. L'editore Dalai sta per dare alle stampe un esaustivo libro di Mario Avagliano, Il partigiano Montezemolo, che si pregia di un'acuta prefazione di Mimmo Franzinelli e di un'appendice di Sabrina Sgueglia della Marra. Quest'ultima ha scritto poi un saggio, dal titolo Uno scambio fallito, che sarà pubblicato a breve dalla «Nuova Rivista Storica», saggio in cui è contenuta una importante rivelazione. Sgueglia, già autrice per parte sua di una pregevole biografia del colonnello (Montezemolo e il Fronte Militare Clandestino), edita dall'ufficio storico dello stato maggiore dell'Esercito, ha trovato documenti molto importanti, che gettano una nuova luce su come i nazisti catturarono Montezemolo. Da queste carte emerge che Montezemolo fu tradito da una personalità di spicco della resistenza monarchica. In che modo? Siamo nei primi mesi del 1944. Gli Alleati sono appena sbarcati ad Anzio, ma si sono arenati su quel litorale a 55 chilometri da Roma (arriveranno nella capitale solo agli inizi di giugno). Il 25 gennaio Montezemolo va in via Tacchini ad una riunione clandestina a casa di Filippo de Grenet. All'uscita, le SS lo arrestano, lo conducono nel carcere di via Tasso e, successivamente, alle Fosse Ardeatine dove troverà la morte.
Come riuscirono i nazisti in questa impresa? Nel libro Lettere a Milano (Editori Riuniti), Giorgio Amendola ipotizzò che quella cattura fosse dovuta ad una delazione da parte di qualcuno interessato ad infrangere la collaborazione tra militari (leali a Vittorio Emanuele III) e partiti del Comitato di liberazione nazionale, ancora in parte ostili al re d'Italia. Manfredi, il figlio maggiore di Montezemolo, pur ammettendo di non avere prove, pronunciò anche il nome del possibile delatore: il tenente colonnello Ettore Musco che, per degli errori commessi, era stato duramente redarguito da suo padre. Il fratello del colonnello ucciso alle Fosse Ardeatine, Renato Montezemolo, aveva invece puntato l'indice contro Elena Hohn, amante del tenente colonnello dei carabinieri Giovanni Frignani (l'uomo che il 25 luglio del 1943, su ordine del re, aveva tratto in arresto Benito Mussolini e che, anche per questo, era braccato dai nazisti). Pure in questo caso senza prove certe. Anzi, sulla base di semplici intuizioni.
Adesso però c'è un'importante novità che viene fuori quasi per caso. Sabrina Sgueglia ha potuto consultare il carteggio (dal 1952 al 1972) tra l'avvocato Tullio Mango e il suo assistito Herbert Kappler. Che c'entrano Mango e Kappler con Montezemolo? Nel luglio del 1948 Kappler era stato condannato all'ergastolo non già per l'uccisione di 320 ostaggi alle Fosse Ardeatine (i giudici dissero di non avere la certezza che egli avesse avuto «la coscienza e la volontà di ubbidire ad un ordine illegittimo»), bensì per i dieci in più di cui decise la morte alla notizia che era deceduto il trentatreesimo poliziotto altoatesino rimasto ferito nell'attentato di Via Rasella e per le cinque persone uccise in soprannumero (i suoi coimputati erano stati invece assolti, perché i magistrati italiani valutarono che avevano agito per ordine superiore). Nei primi anni Cinquanta, Kappler si convinse che c'era anche per lui una nuova opportunità di uscire dal carcere militare di Gaeta e si era rivolto all'avvocato Mango, già vicequestore a Maderno nella Repubblica sociale, perché reimpostasse il suo caso. «Caro Tullio», gli aveva scritto, «sono deciso ad affidarmi alla tua discrezione da galantuomo e da persona nobile, al tuo senso di tatto e alla tua amicizia provata. Se mi vuoi e mi puoi aiutare ti sarò molto grato — ma anche se credi di non poterlo fare, per l'una o l'altra ragione, non te ne vorrò affatto e ti pregherò soltanto di dimenticare quanto ti avevo detto e chiesto. Mi rendo perfettamente conto che quanto ti avrò da chiedere non possa mai essere di gradimento ma, purtroppo, è straordinaria e tale anche la mia situazione attuale da poter, forse, giustificare sia una mia richiesta del genere come l'eventuale tua disposizione di agire in merito». Mango capì, leggendo tra le righe, che Kappler gli stava chiedendo qualcosa di più di un semplice esercizio di difesa. E provò a sottrarsi spiegando al suo interlocutore che sarebbe stato più funzionale un legale politicamente impegnato. «Ti dirò schiettamente», gli scrisse, «che i migliori risultati dei processi di questi ultimi tempi sono stati raggiunti proprio dagli avvocati dello stesso colore politico dei loro difesi. Ci sono in loro un calore, un convincimento, uno sdegno per le leggi eccezionali e per la giurisdizione eccezionale che, in un modo o nell'altro, hanno il loro peso nel processo. De Marsico è veramente un grande, un grandissimo avvocato: politicamente fu tra i membri del Gran Consiglio che il 25 luglio del '43 votarono per la mozione Grandi, origine della caduta del fascismo. Suggerirei il suo nome a chiunque, anche se non è propriamente dei "nostri"». Ma l'uomo delle Ardeatine voleva un difensore affidabile sì, ma dal profilo politico meno pronunciato. E insistette con Mango che, alla fine, accettò l'incarico.
La tesi difensiva di Kappler era stata che, dopo l'attentato di via Rasella, Himmler (e Dollmann che lo avrebbe consigliato in tal senso) progettava la deportazione in Germania degli abitanti di interi quartieri di Roma; al che lui, Kappler, «ritenendo la faccenda sotto tutti gli aspetti politici, umani, economici, della sicurezza, una mera bestialità» aveva fatto «l'unica cosa possibile per poterla evitare»: «Ho accettato l'ordine, ho detto dieci volte sì signore». Così facendo aveva evitato la deportazione di moltissimi uomini e donne. Ma non era questo il punto forte della nuova iniziativa destinata, secondo lui, a fargli riconquistare la libertà. Il punto riguardava la cattura di Montezemolo. In merito ad essa, al processo aveva detto che se ne era occupato il capitano delle SS Carl Schutz (poi tra gli esecutori materiali dell'eccidio delle Fosse Ardeatine) e che lui ignorava come Schutz avesse ottenuto l'informazione di giorno e luogo in cui avrebbe potuto catturare il colonnello. Mentiva. Kappler conosceva il nome di chi aveva denunciato Montezemolo e ora intendeva servirsene. In che modo? Nel 1953, Kappler, più che su una revisione del processo, mirava a un'amnistia che lo facesse uscire di prigione quasi di soppiatto. Doveva esserci, però, qualcuno che di questo progetto di amnistia, contenente una clausola a lui favorevole, si occupasse in Parlamento. Kappler lo individuò nell'uomo che aveva dato ai nazisti l'informazione decisiva per giungere alla cattura di Montezemolo: Enzo Selvaggi, anche lui esponente monarchico della Resistenza, fondatore e direttore del giornale «Italia Nuova», un uomo che nel dopoguerra era diventato assai famoso perché nel giugno del 1946 aveva presentato alla Corte di Cassazione il ricorso per invalidare il referendum con cui gli italiani avevano scelto la Repubblica.
In seguito, anche per via di questa grande notorietà, alle elezioni del 1953, Selvaggi era stato eletto deputato nelle fila del Partito monarchico. E in quanto parlamentare adesso, secondo i desiderata di Kappler, avrebbe dovuto occuparsi dell'amnistia. Selvaggi era stato arrestato dalle SS nel gennaio del 1944 e, nella versione ufficiale, dopo un lungo interrogatorio era stato rilasciato dal momento che la polizia tedesca «ammise» di «aver commesso un errore di persona». Dopodiché riparò in Vaticano, restando però in contatto con la Resistenza che lo considerava un eroe particolarmente fortunato. In realtà, stando ai ricordi che Kappler confidava adesso, nel 1953, al proprio avvocato (il quale ne prese diligentemente nota e tale nota è adesso spuntata fuori dalle sue carte), era stato liberato dai nazisti dopo che aveva parlato rivelando dove, come e quando le SS avrebbero potuto catturare Montezemolo. Per essere più preciso Kappler indicò a Mango la foto di Selvaggi su un giornale. Il tutto è rimasto nell'incartamento di Mango. Assieme ad una lettera del capo SS datata 17 luglio 1953.
«Mio caro Tullio», recita la missiva, «oggi ti trasmetto una letterina che ti dovrebbe servire d'introduzione presso quel signore di cui abbiamo guardato insieme la foto ritaglio di giornale. Ti ricordi vero? Ed anche quanto te ne dissi? Ritengo che non possa fare del male attaccare con lui una discussione sul come penserebbe di ricambiare il mio silenzio, ti pare? Comunque dovrebbe essere informato che sono riuscito a trattenere i miei amici dal rendere noto quanto anche loro si ricordano bene. Forse egli crederà morto Schutz e gli potresti dire che invece sta bene… e si ricorda! Mi potrei immaginare che si potesse giungere a una vera "pacificazione" non escludendo me dall'applicazione delle amnistie che sono state e che saranno. Mi comprenderai, caro Tullio, e saprai far bene come sempre. Lascio decidere a te come meglio credi. Naturalmente sono dispostissimo di garantire anche pel futuro (ed il tuo interlocutore dovrà convenire con noi che so mantenere davvero la mia parola!) la discrezione sin'ora mantenuta, ma ho anch'io certi doveri specie verso la mia vecchia Mamma ammalata e priva del sostegno dell'unico suo figlio».
Proprio in quei giorni, però, Selvaggi fu vittima di un grave incidente automobilistico e per Mango fu impossibile, come scrisse a Kappler, «avvicinarlo» immediatamente. Se ne riparlò a settembre, quando l'onorevole si ristabilì. Mango lo incontrò e ne riferì a Kappler in questi termini: «Ho fatto visita a quel signore della foto. Gli ho consegnato la tua lettera e gli ho detto che tu, pur non avendo voluto fornirmi precisazioni, avevi motivo di far ricorso alla sua riconoscenza. Imperturbabile, mi ha risposto che ti ricordava con piacere, ti stimava come un gentiluomo, ma credeva di non doverti essere particolarmente grato. Ho risposto che mancavo, su questo punto, di concrete notizie data la tua riluttanza a parlare anche col tuo avvocato di fiducia, di questioni concernenti un determinato periodo, ma che comunque non mi era del tutto difficile intuire qualcosa, riservandomi di insistere con te per essere meglio informato. Dopo generici accenni alla sopravvivenza di Schutz e di altri tuoi ex dipendenti, ho detto al mio interlocutore che, in ogni caso, io desideravo ottenere dal suo gruppo politico l'appoggio ad un allargamento dell'imminente beneficio in modo da includere anche te. Su questo egli ha fatto le più ampie promesse ed io mi sono "cordialmente" accomiatato lasciandolo deliberatamente cuocere nel suo brodo».
In una lettera successiva Mango informò Kappler che Selvaggi gli aveva detto di essersi attivato e di aver preso contatti con alcuni parlamentari, tra i quali il comunista Fausto Gullo, il ministro della Difesa Taviani e il sottosegretario Bosco (entrambi democristiani). Poi Mango aveva illustrato a Selvaggi un dettagliato progetto di amnistia dicendo: «Inutile dirle che non è necessario menzionare la questione specifica del col. Kappler, dato che la formula da me proposta si applicherebbe certamente anche a lui ma è abbastanza abile da non lasciarlo trasparire». Nel contempo Mango informava il suo assistito che «quel signore della foto» si stava dando da fare «molto attivamente». «Non voglio lasciarmi prendere dall'entusiasmo, anche perché sono solito vietarmi di essere ottimista», gli scrisse il 18 novembre del 1953, «ma credo proprio che per Natale sarai a casa, caro Herbert!». Finalmente, il 9 dicembre, la notizia tanto attesa: «Appena un quarto d'ora fa», scrive Mango a Kappler, «la Camera ha approvato il provvedimento di amnistia che, oltre ai reati politici e a quelli connessi, si applica ai reati (evidentemente di ogni genere dato che non vi sono limitazioni) comunque riferibili in tutto o in parte alla situazione determinatasi nel Paese per eventi bellici o per le loro successive ripercussioni, commessi non oltre il 18 giugno 1946. Come vedi, caro Herbert, il testo è così chiaro che non abbisogna di miei commenti!». Poi aggiungeva: «La notizia l'ho appresa al telefono dal noto onorevole», con un trasparente riferimento a Selvaggi.
Ma le cose non erano state poi così semplici come apparivano all'avvocato Mango. L'iter per definire meglio i termini dell'amnistia fu lungo e tortuoso. E si concluse il 1° febbraio 1960, allorché il tribunale militare respinse l'istanza di applicazione del provvedimento di clemenza a Kappler. Selvaggi in ogni caso aveva fatto «il suo dovere». «La solerzia e l'impegno dimostrati immediatamente da Selvaggi», scrive Sgueglia, i tentativi indefessi di coinvolgere altri gruppi di deputati per condizionare gli equilibri parlamentari a favore di scelte legislative volte alla scarcerazione di Kappler, gli sforzi profusi in questo senso attestati dal suo epistolario con l'avvocato Mango successivi alla data dell'amnistia, appaiono come «un'ulteriore conferma della sua responsabilità». Né Kappler, né Mango si occuparono più di lui. Anche perché, particolare curioso e destinato ad affascinare i dietrologi, Enzo Selvaggi scomparve, prima ancora della conclusione della vicenda, nel 1957, in un secondo (dopo quello del '53) incidente automobilistico. Singolare che l'uomo che custodiva quel terribile segreto sia stato vittima, nel giro di pochi anni, di due gravi infortuni d'auto. Davvero molto singolare.

Repubblica 20.3.12
Tornano in ristampa anastatica i libri, da Mill a Sturzo, che l´intellettuale pubblicò
Quei classici del pensiero nelle edizioni Gobetti
di Paolo Mauri


Il suo programma puntava a incrementare il dibattito politico, offrendo una tribuna aperta, tanto più necessaria nel momento in cui il fascismo restringeva le libertà

Nel 1966 Franco Antonicelli mise insieme un libretto con alcuni frammenti autobiografici di Piero Gobetti: Vanni Scheiwiller che lo pubblicò volle il titolo L´editore ideale perché, tra le altre cose, c´era anche uno scritto in cui Gobetti dava conto del suo lavoro editoriale. E diceva così: «Ho in mente una mia figura ideale di editore. Mi ci consolo, la sera dei giorni più tumultuosi, 5, 6 per ogni settimana, dopo aver scritto 10 lettere e 20 cartoline, rivedute le terze bozze del libro di Tilgher o di Nitti, preparati gli annunci editoriali per il libraio, la circolare per il pubblico, le inserzioni per le riviste, litigato col proto che mi ha messo un errore nuovo dopo 3 correzioni… Penso un editore come un creatore. Creatore dal nulla se egli è riuscito a dominare il problema fondamentale di qualunque industria: il giro degli affari che garantisce la moltiplicazione infinita di una sia pur piccola quantità di circolante. Il mio editore ideale che con una tipografia e un´associazione in una cartiera controlla i prezzi; con quattro librerie modello conosce le oscillazioni quotidiane del mercato, con due riviste si mantiene a contatto coi più importanti movimenti di idee, li suscita, li rinvigorisce, non ha bisogno di essere Rockefeller».
Di Gobetti si ricordano in genere le riviste, Energie nove, La Rivoluzione liberale e Il Baretti, di cui esistono anche cospicue antologie, ma molto meno la casa editrice che portava il suo nome e che produsse oltre un centinaio di volumi, alcuni stampati dagli amici dopo la sua morte avvenuta il 16 febbraio del ´26 a Parigi. È notizia di non poco rilievo l´iniziativa del Centro Gobetti e delle Edizioni di storia e letteratura di riproporre in anastatica l´intera produzione delle edizioni Gobetti, cominciando con Risorgimento senza eroi dello stesso Gobetti, che in realtà uscì postumo, e proseguendo con un libro di Luigi Sturzo, La libertà in Italia e con un saggio di John Stuart Mill, La libertà con la prefazione di Luigi Einaudi e una postfazione di Nadia Urbinati. Scelte non casuali. Gobetti stesso aveva chiesto a Einaudi, suo professore all´università, di scrivere un´introduzione a Mill. L´agilità e la competenza con cui il poco più che ventenne Gobetti si muoveva in mezzo ad intellettuali molto più anziani di lui, è una cifra ricorrente del suo agire. D´altra parte quando, a diciott´anni, andò a Firenze per incontrare Salvemini, si sentì proporre la direzione della rivista che Salvemini dirigeva, L´Unità.
Il programma di Gobetti puntava a incrementare il dibattito politico, offrendo una tribuna aperta, tanto più necessaria nel momento in cui il fascismo stava restringendo i margini di libertà. Lo stesso Gobetti nel ´24 dedicò uno scritto a Matteotti (secondo un recensore «la migliore commemorazione che di Matteotti sia stata scritta in Italia») e citiamo ancora Una battaglia liberale. Discorsi politici (1919-1923) di Giovanni Amendola, La rivoluzione meridionale di Guido Dorso, Le lotte del lavoro di Einaudi, La pace di Francesco Nitti, Nazionalsocialismo di Luigi Salvatorelli. Ma lo spettro degli interessi di Gobetti era prodigiosamente ampio e dunque non mancarono i libri squisitamente letterari e fra tutti è giusto indicare per primo Ossi di seppia di Montale, il racconto Amedeo di Giacomo Debenedetti, il saggio su Jacopone da Todi di Natalino Sapegno, il repêchage dello scapigliato Cagna con Alpinisti ciabattoni. E poi c´è l´arte, a cominciare dal saggio di Gobetti stesso su Casorati…
Ritrovare, con postfazioni ad hoc, tutti questi libri spesso introvabili, sarà dunque un concreto omaggio all´editore ideale che fu Piero Gobetti. Che, nello scritto sopra citato, nota come La pace di Nitti sia stato il libro politico più venduto in Italia, mentre il successo maggiore lo ha avuto in Bulgaria, Svezia e Cecoslovacchia. «Il libro di cultura in Italia si stampa normalmente in 2.000 copie, in Germania in 5.000; la prima edizione di un nostro romanzo importante è di 5.000 copie, in Francia di 20.000… La verità è che paragonata colla cultura europea moderna l´Italia manca di autori, di editori, di librai, di pubblico». Questo pensava Gobetti nel 1925 e certo la situazione non è più quella da tempo, anche se la parola crisi ricorre ciclicamente. Pochi anni dopo, nel ´33, Giulio Einaudi, che aveva incontrato Gobetti una sola volta di sfuggita quando era venuto a parlare con suo padre, avrebbe fondato la sua casa editrice che di quella gobettiana è in qualche modo un´erede.

Repubblica 20.3.12
Prendersi cura del mondo
"Le piccole buone azioni del nuovo radicalismo"
Il saggio dello storico Piero Bevilacqua ribalta e ridisegna, provocatoriamente, un concetto
di Francesco Erbani


E se fossero proprio i radicali, a dispetto dell´etichetta che li inchioda, i fautori di una vita individuale e collettiva più sobria, più misurata, più moderata? E i moderati, invece, i sostenitori di un ordine economico e sociale votato alla competizione, all´eccesso, all´estremismo? È il doppio quesito che corre lungo le centosettanta pagine di Elogio della radicalità, un saggio dello storico Piero Bevilacqua che propone di ribaltare una questione partendo dal nome delle cose e arrivando alle cose stesse. E che si offre come una riflessione per molti aspetti spiazzante sulle cause profonde della crisi, «anche se il vero volto di certo capitalismo l´abbiamo visto a prescindere dalla crisi», dice lo studioso che da tempo indaga gli effetti sull´ambiente, i paesaggi e le risorse naturali di scelte politiche ed economiche.
L´elogio della radicalità come l´elogio della follia di Erasmo da Rotterdam?
«Erasmo contrapponeva un modo di pensare ragionevole, fondato sul buon senso al dottrinarismo astratto. Nel nostro tempo il dottrinarismo astratto pretende che il mercato aggiusti da sé ogni cosa e che compito della politica sia di oliare la macchina».
E i moderati, lei dice, sostengono questo assetto?
«Assumono i rapporti di forza esistenti come un dato di realtà immodificabile. Ma che cosa c´è di moderato nella pretesa delle imprese di avere prestazioni sempre più intense dai dipendenti, i quali sono sempre più precarizzati? E che cosa nella spinta a un consumo senza limiti, pur che sia, che divora risorse e che porta dissesti nei complicati equilibri del pianeta?»
E sarebbe questo il vero estremismo?
«È estremista l´ideologia di una società fondata sulla competizione ossessiva. Noi abbiamo conosciuto la torsione berlusconiana del moderatismo, che era estremismo allo stato puro. E non parlo dei comportamenti sessuali, ma dello stravolgimento di ogni regola istituzionale».
E il radicalismo, invece?
«Chi viene definito radicale ha una prospettiva rovesciata. Propugna la riduzione degli sprechi, individuali e collettivi. Combatte la bulimia distruttiva di risorse, la mortificazione dell´operosità ridotta a merce. Insomma valori che recuperano la base etimologica del moderatismo, il latino modus, misura».
È la decrescita teorizzata da Serge Latouche, che tante polemiche solleva.
«Non credo molto nella praticabilità politica di alcune tesi di Latouche. Ma del suo messaggio mi convincono il rifiuto del consumismo compulsivo e di una crescita illimitata che sperpera suolo, natura, biodiversità, cioè i patrimoni su cui è vissuta l´umanità. Quello di Latouche è comunque un linguaggio moderato».
Lei sostiene che questo capitalismo avrebbe perso capacità egemonica.
«Il capitalismo è il primo sistema economico portatore di egemonia, non solo di dominio. Cattura consenso, dicevano già Marx ed Engels. Ma ora cedono entrambi i pilastri su cui si è retta questa abilità, la stessa che gli ha consentito di vincere il comunismo alla fine del XX secolo. E cioè la capacità di produrre ricchezza come nessun altro sistema nella storia umana, una capacità smentita ancor prima della crisi: sono aumentate le disuguaglianze, la ricchezza è nelle mani di sempre meno persone e nel 2000 nei paesi Ocse c´erano 35 milioni di disoccupati, senza contare i precari».
E il secondo pilastro?
«La liberazione dell´uomo, trasformata in un individualismo patologico. Zygmunt Bauman e schiere di filosofi denunciano l´infelicità prodotta dalla malattia esistenziale di uomini e donne spinti a fare da sé, a scollarsi dalla società. Ormai dilaga la letteratura medica sui malesseri che affliggono i ceti alti, prodotti da frustrazione e da assorbimento totale nel proprio ruolo lavorativo. All´inverso si camuffa la precarietà con la creatività, provocando lo sbriciolamento dell´identità individuale. Storicamente il capitalismo ha sempre promesso un miglioramento costante della condizione umana, attraverso sia il lavoro, sia il progressivo accorciamento dei suoi tempi. Ora entrambi vengono negati. E con essi ogni promessa di felicità, il che non produce più consenso».
È una crisi di sistema, dunque?
«La crisi dell´egemonia, non è la crisi del dominio. Si comanda, ma senza consenso, promuovendo anche forzature nelle regole democratiche».
Lei dedica un capitolo a grandi opere e piccole opere. Estremiste le prime, moderate le seconde?
«Chiunque studi le grandi opere del passato riconosce l´ammirevole sforzo di infrastrutturare un paese moderno e industriale. Tuttavia: quand´è che finisce l´infrastrutturazione massiccia di un paese? Per questo capitalismo, mai. Le grandi opere sono uno dei modi in cui esso funziona. Si cercano aree da utilizzare per profitti a prescindere da altre valutazioni».
Lei è contro la Tav?
«Non ci possiamo permettere una gigantesca opera che concentra enormi capitali e lavoro in un piccolo pezzo d´Italia mentre poco si destina per riparare il nostro territorio nel suo complesso, unico per fragilità e debolezza strutturale, un territorio completamente rifatto nei secoli».
Che cosa vuol dire rifatto?
«La pianura padana è opera dell´ingegneria umana, dalle bonifiche dei benedettini nel medioevo a quelle degli Stati regionali e dello Stato unitario. Gran parte del ferrarese è tenuta asciutta dalle macchine idrovore. E le opere d´artificio necessitano di cure costanti. Eppure la pianura padana è una delle parti più stabili del paese, nonostante le minacce del Po e l´intensità del costruito, se paragonata ai versanti montuosi, dalla Liguria alla Sicilia. Possiamo veder franare tutto questo territorio oltre quel che è già franato? Un tempo i contadini controllavano le acque, curavano scoli e rogge, rimboschivano. Ora i terreni sono abbandonati. Il 66 per cento della popolazione è insediata nelle fasce costiere. E il cemento sottrae suolo all´assorbimento di piogge sempre più intense e concentrate su porzioni limitate di territorio».
E che cosa c´entra questo con la Tav?
«La Tav non è una priorità. Una manutenzione costante e diffusa mette in sicurezza il paese e crea sviluppo nelle aree interne soggette all´abbandono: attività forestali, pescicoltura, allevamento di selvaggina, agricoltura che valorizzi biodiversità, agricoltura non solo per produrre, ma per la ricreazione, l´assistenza sociale. Spesa pubblica è quella per la Tav spesa pubblica anche questa, che però alimenta iniziativa privata».
Esiste una tradizione italiana in questo genere di opere?
«Basterebbe ricordare la secolare opera di ingegneria idraulica volta a conservare l´equilibrio della laguna di Venezia. Ma una eccellente lezione viene dalle cosiddette bonifiche integrali, elaborate negli anni Venti del Novecento da Arrigo Serpieri e da altri. Si prosciugavano i pantani e si costruivano i villaggi, le strade, si dava la terra ai contadini e li si istruiva. Le singole opere non resistevano, bisognava realizzare comunità».