giovedì 22 marzo 2012

l’Unità 22.3.12
Il direttivo ha deciso all’unanimità la mobilitazione. «Il governo attacca i lavoratori»
Il segretario: «La modifica dell’articolo 18 cambia i rapporti di forza a vantaggio delle imprese»
La Cgil proclama lo sciopero
Camusso: la partita non è chiusa
Il giorno dopo il «via libera» alla riforma del mercato del lavoro, la Cgil convoca il suo Direttivo. Mobilitazione di 16 ore di sciopero e campagna d’informazione a tappeto. Camusso: la partita art.18 è aperta
di Massimo Franchi


Mai nella storia della Cgil erano state indette 16 ore di sciopero. Il via libera a larghissima maggioranza ( 95 favorevoli, 2 contrari, 13 astenuti) del Direttivo di Corso Italia conferma la straordinarietà della situazione. La riforma del lavoro firmata Monti e Fornero produce la reazione ferma della Cgil e di Susanna Camusso, una sorta di dichiarazione di battaglia a tutto campo contro l’esecutivo attuale.
Occhi stanchi, sintomo di una notte agitata, e voce più roca del solito, il segretario generale pesa le parole ma attacca a testa bassa: «Il governo scarica sui lavoratori, sui pensionati e sui pensionandi i costi delle operazioni che si vanno facendo», «non è minimamente interessato alla coesione sociale come dimostra la scelta di non concludere la trattativa».
La ricostruzione del «giorno dell’accordo separato», «della fine della concertazione», «dell’isolamento della Cgil» (come sostengono tanti commentatori) parte da una semplice constatazione di «incoerenza» delle parole di Monti: «Continua a dire che l’articolo 18 non era al centro della riforma, ma allora non si capisce perché aveva bisogno di un pronunciamento proprio su questo aspetto». La spiegazione è semplice: «Il messaggio che vuole portare in giro per l’Asia (per il tour governativo che parte sabato, ndr) è che nel nostro Paese si può licenziare liberamente».
LIBERTÀ DI LICENZIAMENTO
Sull’articolo 18 dunque non siamo davanti ad una «semplice manutenzione», ma alla «scelta di cancellare lo strumento di deterrenza verso i licenziamenti: si cambiano i rapporti di potere nei luoghi di lavoro e si mette a rischio licenziamento i lavoratori più deboli». Il messaggio al governo è preciso: «La partita non è chiusa, il Parlamento intervenga e modifichi la norma». L’invito è rivolto a «tutta la politica», e dunque non solo alla sinistra, «è di domandarsi se si può approvare una norma che cambia così profondamente le condizioni dei lavoratori». Il tema è quindi quello della «riconquista del reintegro».
L’analisi del resto della riforma è approfondita e non manca di sottolineare gli aspetti positivi. «Sulla lotta alla precarietà, al netto dell’assalto che il sistema delle imprese sta portando avanti in queste ore, i passi avanti sono importanti anche se una sola forma contrattuale sarà, forse, cancellata (il contratto di associazione in compartecipazione che rimarrà per i soli familiari, ndr). Più negativo il commento sul capitolo ammortizzatori: «L’universalità promessa per la Cassa integrazione e per il cosiddetto Aspi non c’è» e in quest’ultimo caso la mancanza pesa di più perché «il governo che parla sempre di giovani si è totalmente dimenticato di tutti i lavoratori para-subordinati».
L’impegno preso per oggi è quello di partecipare al tavolo fissato per le 16 nella sede tecnica del ministero del Welfare di via Flavia. «Come promesso consegneremo al governo il documento messo a punto dal nostro Direttivo», annuncia Camusso. Anche se non si fanno illusioni sulla possibilità che il governo possa fare alcuna marcia indietro: «È stato Monti a dire che il testo sull’articolo 18 è blindato».
INVITO A CISL E UIL
Lo strappo di martedì ha comunque messo in discussione i rapporti con gli altri sindacati. Messe da parte le accuse con un unico accenno («è stato un gravissimo errore che Cisl e Uil abbiano interrotto un'iniziativa unitaria»), come le critiche avanzate da alcuni «ad essere fidati troppo di Bonanni», il segretario della Cgil rivolge un appello alla Cisl e alla Uil per «costruire una proposta unitaria di cambiamento che metta al riparo i lavoratori». Convinti che sia Bonanni che Angeletti sanno che anche i loro iscritti si uniranno alle proteste in difesa dell’articolo 18.
In mattinata era toccato a Fulvio Fammoni, segretario confederale il cui mandato scadrà ad aprile, proporre al Parlamentino Cgil «una forma di mobilitazione lunga ed articolata». «Non sarà ha spiegato Fammoni la fiammata che si esaurirà in un giorno che il governo ha messo in conto».
Oltre alle 16 ore di sciopero (8 per assemblee e altre otto, in un'unica giornata, con manifestazioni territoriali), anche una «petizione popolare per raccogliere milioni di firme ed iniziative specifiche con i giovani per contrastare le norme sbagliate sul precariato, l’avvio del lavoro con la Consulta giuridica per i percorsi legali (ricorsi) e una campagna nazionale «a tappeto» di informazione».
Nel lungo direttivo non sono mancate posizioni critiche. La minoranza della “Cgil che vogliamo” guidata da Gianni Rinaldini aveva presentato un testo alternativo ancora più duro contro il governo Monti. Poi si è arrivati ad un testo condiviso.

il Fatto 22.3.12
Fornero più a destra di B.
La riforma dell’art. 18 è più dura di quella Berusconi del 2002 Pdl, Udc e Quirinale hanno fretta di approvarla
di Stefano Feltri


Il Pdl quasi non ci crede, a volte le cose vanno meglio di ogni aspettativa: non bastava il Pd spappolato, ora c’è anche un comunista con cui prendersela, Oliviero Diliberto fotografato assieme a una militante con la maglietta “Fornero al cimitero” (“Anche con Marco Biagi cominciò cosi”, ci va già duro Roberto Maroni, Lega, da Facebook). Niente di meglio per blindare la riforma del lavoro, anzi, i pareri raccolti nel confronto con le parti sociali che oggi verrà ufficialmente chiuso. Ma il presidente del Consiglio Mario Monti lo ha già detto martedì: “Sull’articolo 18 la questione è chiusa”.
IL POPOLO DELLE libertà non chiede altro. Silvio Berlusconi tace, Angelino Alfano pure. Se in Parlamento va bene il Partito democratico si spacca a sinistra, se va male riesce a modificare un po’ la riforma del lavoro irritando il governo e mandando in crisi i supermontiani tipo Enrico Letta. “Nessuno ha più diritto di veto. Andiamo avanti con decisione”, freme Maurizio Lupi, del Pdl. Per non parlare di Maurizio Sacconi, ex ministro del Welfare eterno avversario della Cgil, che dice: “Siamo forse prossimi a realizzare l'ultimo miglio, il più faticoso, delle riforme del lavoro di questi anni”. In effetti la riforma Monti per certi aspetti è più drastica di quella tentata da Berlusconi nel 2002, con Maroni al ministero del Welfare: cambiava l’articolo 18, ma soltanto per un periodo sperimentale di quattro anni, risarcimento al posto del reintegro per i licenziamenti indebiti, tranne per quelli discriminatori, deroghe per le trasformazioni da precari a stabilizzati che restavano licenziabili.
MONTI E IL MINISTRO Elsa Fornero vanno molto oltre, questa volta la riforma è strutturale, non un esperimento. E pensare che a dicembre l’economista torinese al Corriere della Sera diceva: “Non ci sono totem e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste”. Poi correggeva: “Il mio era un invito al dialogo senza preclusioni e senza tabù, totem o sacralità intoccabili”. E invece è andata peggio di quello che i sindacati temevano a fine 2011.
“La vera motivazione di questo intervento è modificare i licenziamenti disciplinari, se un’azienda ha un dipendente che ritiene un piantagrane, oggi l’impresa non riesce a liberarsene. Ma l’evidenza dice che in Italia le imprese, quando ne hanno bisogno, licenziano eccome, nella crisi del 1993 per esempio il calo dell’occupazione fu molto netto”, spiega Fabiano Schivardi, economista dell’Università di Cagliari che su lavoce.info è stato molto critico sul luogo comune secondo cui l’articolo 18 condanna al nanismo le imprese italiane che restano sotto i 15 dipendenti.
C’è un piccolo problema, nota Schivardi, nella riforma. Un vizio logico che potrebbe essere utile gancio per il Partito democratico che ha un disperato bisogno di ottenere qualche modifica. In pillole la riforma stabilisce: se il licenziamento è dovuto a ragioni discriminatorie (sesso, religione, razza ecc.) il giudice lo annulla e il lavoratore viene reintegrato. Se la causa è disciplinare e il licenziamento giudicato illlegittimo, spetta al giudice stabilire se il lavoratore viene reintegrato in azienda o riceve un indennizzo (tra 15 e 27 mensilità). Il problema è il terzo caso, quello più sensibile, introdotto dalla riforma, il licenziamento economico individuale. L’azienda licenzia perché dice che non può più permettersi il lavoratore in questione o per “ragioni tecniche o organizzative”, l’interessato ricorre e vince. Il giudice, quindi, stabilisce che il licenziamento economico era illegittimo, ma secondo la riforma Fornero può solo assegnare un indennizzo. Ma questo non è logico: se la causa non era economica, allora deve trattarsi di una delle altre due ragioni, o motivi disciplinari o discriminazioni. E quindi il giudice dovrebbe poter sancire anche il reintegro. Invece non può, e questo espone la legge a rischi di costituzionalità. “La riforma non puo' essere identificatasolamenteconl'articolo18”, premette Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato, tra tutti, sembra quello più ansioso di arrivare in fretta all’approvazione in Parlamento. Ma le tante novità positive che riguardano i precari sembrano interessare poco, sia alla Cgil che ai partiti. Fine degli stage gratuiti dopo la laurea, limite all’uso dei contratti a progetto e a termine, limite di sei mesi per usare le finte partite Iva (formalmente professionisti, di fatto dipendenti), dopo i quali l’azienda è costretta all’assunzione. I precari, elettoralmente parlando, non interessano a nessuno, soltanto Monti dice che tutte le riforme sono rivolte ai giovani. La partita degli ammortizzatori sociali è sospesa: finché il governo non esplicita quanti soldi stanzia per il passaggio dalla cassa integrazione all’Aspi, l’Assicurazione sociale per l’impiego, resta il rebus. Si sta parlando di un aumento della protezione, di spalmare le tutele attuali o di un taglio? Mistero. Ma queste sono quisquilie, ormai. Siamo tornati a 10 anni fa, con l’articolo 18 al centro della scena politica, la Cgil pronta allo sciopero generale, la destra che predica la competizione con la Cina. Unica differenza: questa volta il Pd è nella maggioranza di governo che cancella l’articolo 18.

il Fatto 22.3.12.12
Sciopero generale
La Cgil all’angolo è costretta ad attaccare
di Salvatore Cannavò


La Cgil è costretta a salire di nuovo sulle barricate. La determinazione di Monti a modificare strutturalmente l'articolo 18 e ad affossare la concertazione hanno lasciato il sindacato di Susanna Camus-so senza sponde. E per il momento a prevalere è il sindacato di lotta. Dal Direttivo nazionale riunito ieri per tutta la giornata vengono fuori ben 16 ore di sciopero, 8 per le assemblee e altre otto in un'unica giornata di sciopero generale da decidere in relazione all'iter parlamentare; assemblee ovunque, una petizione per raccogliere milioni di firme, una campagna nazionale a tappeto. La Cgil si mette pancia a terra per raggiungere un solo obiettivo, illustrato da Susanna Camusso: “La riconquista del reintegro”. Perché la riforma “colpisce i lavoratori” e il governo è interessato a inviare un solo messaggio: “In Italia si può licenziare”. Dieci anni fa – la ricorrenza è domani, 23 marzo – lo stesso sindacato portò a Roma, al Circo Massimo, circa tre milioni di persone e il segretario di allora, Sergio Cofferati, bloccò il tentativo del governo Berlusconi – il ministro era Roberto Maroni – di modificare l'articolo 18. Quella riforma era più blanda di quella avanzata da Monti, ma oggi la Cgil non sembra avere la forza di allora anche se la rabbia per lo smacco subito è evidente. “Sull'articolo 18, continua Camusso, Monti non ha mai voluto mediare” ma questa riforma “non porterà nemmeno un posto di lavoro in più”. E dunque ci si prepara a una fase di scontro per cercare di rientrare in gioco.
MA, INSIEME al profilo di lotta, la Cgil ha anche un'anima trattativista e la prospettiva di finire all'angolo in compagnia della sola Fiom – che ieri ha definito “una follia” la cancellazione dell'articolo 18 dicendosi “pronta a tutto” – non piace a molti. Ed ecco che nello stesso direttivo delle 16 ore di sciopero si è sviluppata una accesa discussione sull'obiettivo di questo sciopero. Difendere l'attuale norma dello Statuto dei lavoratori al grido di “l'articolo 18 non si tocca” oppure cambiare le scelte del governo e cercare di attestarsi su una formulazione almeno migliorativa di quella proposta da Monti e Fornero? Nella sua relazione, il segretario confederale Fulvio Fammoni ha proposto la seconda soluzione facendo capire che sarebbe un risultato ottenere anche per il licenziamento economico l'opzione tra reintegro e indennizzo stabilita dal giudice. E il segretario dei Chimici, Alberto Morselli è stato più chiaro: Serve una proposta della Cgil da portare al tavolo già domani (oggi, ndr). Una proposta che risulterebbe comunque utile anche al confronto parlamentare”. La questione, alla fine, resta quella del delicatissimo rapporto con il Pd. In conferenza stampa Camusso non ha voluto dire nulla sul partito di Bersani: “E' già faticoso dire che cosa facciamo noi, non possiamo caricarci di cosa deve fare il Pd”. In realtà i due soggetti sono intrecciati perché Bersani ha bisogno ancora di un appiglio per cercare di difendere in Parlamento la possibilità di un “miglioramento” della riforma non tanto per convincere Monti ma per convincere il suo stesso partito. Ma su questo punto si è scatenato un fuoco di fila di interventi contrari: la sinistra di Cremaschi e Rinaldini, naturalmente Landini, la Funzione pubblica di Rossana Dettori, la Cgil di Torino, quella emiliana, i Trasporti e in particolare la Scuola con Mimmo Pantaleo. Alla fine Maurizio Landini e Nicola Nicolosi (della maggioranza) si vedono respingere con 30 voti a favore contro 73 un emendamento che chiede di difendere l'articolo 18 così com'è. Il documento finale viene approvato con 95 voti a favore 13 astenuti e 2 contrari (l'area di Cremaschi) un risultato comunque apprezzato dalla maggioranza che decide di investire su una mobilitazione che “ricostruisca la deterrenza” dell'articolo 18 e quindi provi a riconquistare la reintegra. Potrebbe essere il “modello tedesco” che lascia al giudice la possibilità di scegliere tra indennizzo e reintegro. A lasciare aperta la possibilità di una trattativa ancora da completare è anche la Uil che ha tenuto ieri la sua direzione nazionale lasciando “sospeso” il giudizio sulla riforma in attesa di alcune modifiche. In particolare la possibilità per le rappresentanze sindacali di intervenire sui motivi che stanno alla base dei licenziamenti economici.
NON È la possibilità del reintegro che chiede la Cgil ma lascia spazio per una dialettica con il Parlamento. Anche Bonanni dice che il Parlamento “può migliorare” le norme e che “se il Parlamento ci chiede una mano gliela diamo”. Insomma, Cgil e Pd cercheranno di aiutarsi l'un l'altra ma non è detto che riescano a farlo. Per ora non resta che la lotta.

il Fatto 22.3.12
Corsi e ricorsi. La manifestazione del 23 marzo 2002
C’era una volta la sinistra al Circo Massimo
Il conto arriva alle 12.50, dal palco: “Siamo tre milioni”.
di Paola Zanca


Alle 2.30 di notte la sveglia si mette a suonare, allungo la mano e torna il silenzio…penso, ed è già tardi. Mi alzo, mi lavo, prendo lo zaino, infilo il k-way, auricolare, cellulare, biscotto. È buio, ho sonno, tira vento, parto. La piazza è piena di pullman ma non bastano. Salgo, è strapieno, saluto, ho sonno, si parte”. Era stanotte, dieci anni fa. Marco è uno dei tre milioni che si è messo in viaggio. È l'esodo del 23 marzo 2002. Destinazione Roma, tutti al Circo Massimo per la manifestazione della Cgil contro l'abolizione dell'articolo 18. Alle nove di mattina dal casello di Fiano Romano sono già passati 2500 pullman. E altre 50 mila persone, dall'alba, sono assiepate alla stazione Tiburtina: è arrivato un treno ogni dieci minuti. Un fiume di gente. Confusi e felici. “Non sappiamo dove sia il Circo Massimo, ma non ci importa, dobbiamo spostarci, buttarci nella mischia, proviamo ad andare lassù, voglio vedere se si vede quanti sono, quanti siamo... Dammi la mano, Nadia, mettiamoci in mezzo al corteo, mamma quanta gente, quante facce, quante voci, quanta rabbia che si legge negli occhi! Quante bandiere, tanto rosso. Che bello essere in mezzo a tutto questo. Siamo in due, io e Nadia, in mezzo a tutta questa gente, siamo piccoli, siamo, 2 fra 2.000.000, ma SIAMO, siamo qui per il nostro futuro, che sia bello, che sia giusto, che sia pulito, che sia onesto, che sia democratico, che sia senza paura di licenziamento o di attentati.
Lì in mezzo, insieme a Marco, a Luca, a tutti quelli che hanno lasciato in Rete il loro ricordo di quel giorno, ci sono anche i Democratici di sinistra.
“LA DELEGAZIONE guidata da Piero Fassino e Massimo D'Alema – ricorda l'Ansa – si è inserita nel corteo partito da Piazza Esedra, all'altezza del teatro Brancaccio. La delegazione formata anche dai capigruppo di Camera e Senato, Luciano Violante e Gavino Angius, dagli esponenti del segreteria, da Giovanni Berlinguer per il Correntone e da Enrico Morando. Sono presenti anche Vincenzo Visco, Vincenzo Vita, Giovanna Melandri, Bruno Trentin. Particolarmente calorosa l'accoglienza sia per Fassino che per D'Alema”. Walter Veltroni in quei giorni è il sindaco della Capitale: “Benvenuti a Roma – accoglie i manifestanti - Se l'Italia è in Europa è anche grazie a voi. E grazie a un modello, quello della concertazione, che rappresenta un patrimonio che sarebbe un grave sbaglio disperdere”. Francesco Rutelli ha fatto una visita lampo, poi è corso a Parma per il congresso della Margherita. Ma lì ha attrezzato tre maxischermi per seguire il corteo perché “rendere più facili i licenziamenti non piace, non convince”.
Stanno tutti all'opposizione. Al governo c'è Silvio Berlusconi, a capo del sindacato Sergio Cofferati. Vuole lo stralcio dell'articolo 18 dalla riforma del mercato del lavoro: “Non c'è nessun rapporto, non c'è mai stato, tra la possibilità per un'impresa di licenziare senza una ragione e la possibilità per la stessa impresa di assumere delle persone”, prova a convincere. Il ministro Antonio Marzano non ci pensa neanche: “Tornare indietro sarebbe un grave errore perchè ci troveremmo, ogni volta che si vuole fare una riforma, davanti a mobilitazioni e veti”. Veltroni oggi non parla, Rutelli è impegnato con il caso Lusi. Dice Fassino, il 23 marzo 2002: “Bisogna capire cosa sono le riforme e modificare l'art. 18 non è una riforma. Noi consideriamo che l'art. 18 va bene come è e cambiarlo è ridurre un diritto dei lavoratori. Lo diciamo in modo pacifico ma lo diciamo”. Oggi non lo dice neanche lui. Solo Giorgio Napolitano sembra non aver cambiato idea. Allora come oggi ha le sue forti “riserve verso comportamenti politici e sindacali non sufficientemente pro-positivi”.

l’Unità 22.3.12
La battaglia per cambiare
di Claudio Sardo


Mario Monti ha deciso lo strappo. Non era obbligato a farlo. Anzi, il suo mandato di affrontare l’emergenza economica nel segno della massima unità possibile suggeriva un’altra strada: quella che Ciampi seguì per il «patto sociale» nel ’93. Monti ha compiuto una scelta politica, non tecnica. E ora politica deve essere la risposta: questa riforma dell’art. 18 non è accettabile e va cambiata.
Non è accettabile anzitutto per una ragione di giustizia: se un lavoratore viene licenziato illecitamente, perché il giudice non può comunque disporre il reintegro e deve limitarsi a fissare l’indennizzo? Così il datore di lavoro è nelle condizioni di decidere in modo arbitrario la fine di un rapporto, rischiando al massimo qualche mensilità aggiuntiva.
̀ chiaro che ciò modificherebbe in profondità le relazioni interne a un’impresa, in senso sfavorevole alla dignità e ai diritti del lavoratore: e si può sostenere credibilmente che questo sacrificio sia davvero funzionale a una crescita della produttività, o della competitività del sistema, o degli investimenti esteri, o della fiducia dei mercati, o delle assunzioni dei giovani? Tutti gli indicatori dicono di no. Del resto, su basi molto empiriche, siamo già testimoni del fatto che nelle piccole imprese italiane, nonostante la piena libertà di licenziamento per motivi economici, non ci sia alcuna corsa a nuove assunzioni, né migliore reattività alla crisi.
Tuttavia lo strappo del governo è grave anche sul piano politico, perché sul suo tavolo era possibile comporre un accordo innovativo di grande valore, paragonabile a quello del ’93 sul superamento della scala mobile. In questo complesso negoziato sul mercato del lavoro dove, va detto, accanto a questa soluzione pericolosa, a problemi e lacune, ci sono anche interventi promettenti sugli ammortizzatori sociali e sulla riduzione della precarietà Monti e la ministra Fornero si sono trovati di fronte a una disponibilità inedita dei sindacati, pure in tema di flessibilità in uscita. La disponibilità riguardava l’adozione del «modello tedesco», affidando appunto al giudice la scelta tra reintegro e indennizzo, qualora il licenziamento per motivi economici si rivelasse immotivato. Chi può negare il valore di questa apertura, giunta anche dalla Cgil? Attualmente l’articolo 18 prevede il reintegro nel posto di lavoro come unica sanzione al licenziamento senza giusta causa (e ciò talvolta finisce per essere una limitazione per lo stesso lavoratore, soprattutto quando le cause si protraggono a lungo nel tempo). Se dunque i «mercati» volevano il segno di un cambiamento, il governo avrebbe potuto esibirlo comunque. Anzi, poteva mostrarlo con il rafforzativo della coesione sociale.
Invece Monti ha voluto forzare, scegliendo la soluzione che avrebbe portato alla rottura certa almeno con la Cgil. Come si giustifica il governo? Che il «patto sociale» non ci sarebbe stato in ogni caso nelle forme del ’93, perché difficilmente le parti sociali avrebbero firmato un documento comune. Purtroppo è vero che la mancata definizione di una proposta unitaria Cgil-Cisl-Uil sull’articolo 18 è stata un colpo per gli interessi del mondo del lavoro. Tuttavia queste difficoltà non possono costituire un alibi «tecnico» per il premier. Se i sindacati non sono stati capaci, per varie ragioni (non ultima la pesante eredità della stagione berlusconiana), di rispondere a pieno all’appello del Capo dello Stato, non per questo Monti doveva sottrarsi al proprio dovere di cercare fin dove possibile l’accordo. O comunque di ridurre al minimo le distanze. Il modello tedesco cioè la soluzione giuridica che la Germania adotta in tema di licenziamenti ingiusti era a portata di mano. Per questo la ragione politica della scelta prevale su ogni altra.
E per lo stesso motivo la questione non può considerarsi chiusa. Quella norma va cambiata. Prima che arrivi in Parlamento. O in Parlamento. Non sarà soltanto una battaglia sindacale. Le forze di centrosinistra possono ritrovare un feeling con il loro popolo: e dimostrare così il segno reazionario delle tesi su «i tecnici buoni e i partiti cattivi». Peraltro è in gioco il profilo del governo: se la sua natura sia ancora riconducibile a un impegno di unità nazionale oppure se stia prevalendo la forza di attrazione dei governi europei di centrodestra (che oggi temono l’emergere di un’alternativa progressista a partire dalle elezioni francesi). Nessuno può sostenere in buona fede che una simile battaglia per riportare il governo Monti dalla linea dello strappo a quella della coesione avrebbe un esito di conservazione. Fino a ieri il modello tedesco era la bandiera dei riformisti: fare come in Germania (magari non solo in tema di flessibilità) è un buon obiettivo per un centrosinistra che voglia difendere il modello sociale europeo. Se Monti invece intende compiere il salto dalla Germania ai modelli anglosassoni, in nome di un maggior tasso di liberismo, lo dica. Sarà tutto più chiaro. Il centrosinistra è stato molto leale con lui. Ora tocca al premier.

l’Unità 22.3.12
La deregulation e la sua falsa ideologia
di Massimo D’Antoni


Una cosa è certa: la soluzione indicata dal governo sull’articolo 18 va ben oltre qualsiasi nozione di «manutenzione». Il mantenimento della tutela reale (il «reintegro») per il solo caso dei licenziamenti discriminatori equivale nei fatti a una monetizzazione di tale diritto in tutti i casi di una qualche rilevanza pratica.
Al di là delle diverse fattispecie si può ben capire che, se la riforma passasse in questi termini, la modalità normale del licenziamento sarebbe quella per motivi economici, con indennizzo monetario. Se ad oggi è l’impresa a dover giustificare, se richiesto di fronte a un giudice del lavoro, il sussistere di ragioni valide per procedere al licenziamento individuale, con la riforma toccherebbe al lavoratore l’onere di dimostrare che quel licenziamento non è realmente «economico» ma dettato da ragioni discriminatorie. Con quali difficoltà ed esiti è facile prevederlo.
Siamo insomma ben oltre il «modello tedesco» indicato dal Partito democratico come limite accettabile alla riduzione delle tutele; ma siamo anche oltre la proposta del senatore Pietro Ichino, che comunque limitava la nuova regolazione contrattuale ai soli nuovi assunti. Non sbagliano pertanto di molto i commentatori stranieri nel descrivere l’azione del governo Monti, senza mezzi termini, come una deregolamentazione del mercato del lavoro e una riduzione dei costi di licenziamento.
Era necessaria? Il nostro mercato del lavoro è così rigido? Gli indicatori più diffusi dicono altro: l’Ocse già colloca l’Italia al decimo posto su 46 Paesi nella scala della facilità di licenziamento individuale di un lavoratore a tempo indeterminato, agli stessi livelli di Danimarca e Irlanda.
Si toccano gli ultragarantiti? I dati ci dicono che il 30 per cento di chi è a tempo indeterminato registra, in un arco di cinque anni, un peggioramento dello status lavorativo, passando alla disoccupazione o a forme di lavoro meno stabile. Cose dette e ripetute da chi cercava di portare il dibattito dal piano dell’ideologia a quello dei fatti e dei dati, e tuttavia ignorate.
Non è un mistero che la richiesta di deregolamentazione risponda a una precisa visione di come l’economia italiana dovrebbe superare la crisi: non già attraverso la strada difficile ma sostenibile degli investimenti, della riqualificazione della pubblica amministrazione, di una rinnovata politica industriale, bensì quella rapida ma socialmente rischiosa di una deflazione salariale, di una sostituzione di lavoratori anziani con (meno costosi) lavoratori giovani, di aumenti della diseguaglianza delle retribuzioni. Una linea che non è certo quella del Partito democratico.
A rendere più difficile un confronto corretto e nel merito dei problemi contribuisce però anche una certa retorica che insiste sulla contrapposizione tra interesse generale (del governo) e interessi particolari (di chi ha una diversa visione, sindacati o partiti), o tra giovani e anziani.
Magari a quei ventenni e trentenni che si afferma di voler difendere sarebbe il caso di spiegare che se un loro maggiore accesso all’occupazione deve venire dalla cosiddetta flessibilità in uscita, è probabile che ciò avvenga, in questo caso sì, a spese dei loro genitori cinquantenni e sessantenni, estromessi dal sistema produttivo perché più costosi e difficilmente reimpiegabili.
In assenza di alternative, un lavoro precario, sottopagato e con minori contributi (la pensione è lontana) è comunque meglio di nessun lavoro, e un lavoro a tempo indeterminato con garanzie ridotte è meglio di un lavoro precario. Chi è debole tende a considerare chi è marginalmente meno debole un privilegiato; se questa è una reazione naturale, è insopportabile costruirvi il consenso per un'azione politica. Tanto più che abbiamo troppa stima per questi giovani per pensare che siano così poco lungimiranti da non capire come una svalutazione complessiva del lavoro non sia per loro un grande vantaggio.

il Fatto 22.3.12
“Crisi? Alibi per sfasciare la Costituzione”
Carlassare: l’emergenza economica ha scatenato il liberismo sfrenato
di Stefano Caselli


Torino. Siamo diventati una Repubblica presidenziale? Non esageriamo. Il ruolo che il presidente della Repubblica ricopre in questi mesi fa parte della crisi che stiamo vivendo e non è un fenomeno inedito. Io mi preoccuperei di altro: della crisi usata come alibi per distruggere la Costituzione dalle fondamenta”. Lorenza Carlassare, costituzionalista ed esponente di Libertà e Giustizia, non trova eccezionale l’attivismo di Giorgio Napolitano.
Professoressa Carlassare, il governo dei professori, il presidente della Repubblica sempre più sulla scena politica. La crisi economica sta alterando gli equilibri istituzionali tra i poteri dello Stato?
Inizialmente la pressione dei mercati, l’incalzare della crisi, lo spread, hanno indubbiamente influito sul funzionamento del nostro sistema, ma è stato un bene. Si è sbloccata da fuori una situazione assurda e senza uscita nella quale eravamo impantanati. I normali meccanismi istituzionali non erano efficaci, perché la maggioranza precedente si reggeva sì su pochi voti, ma quando mancavano in un modo o nel-l’altro (più nell’altro a quanto pare) i voti si trovavano sempre. Una mozione di sfiducia era di fatto impossibile. E si badi, non c’è stata alcuna sospensione della democrazia: la maggioranza berlusconiana ha per anni contrabbandato una verità fasulla, che il sistema bipolare impedisse un cambio di governo in corso di legislatura, una cosa incredibile. Il sistema parlamentare è fondato proprio sulla possibilità di cambiare esecutivo in qualunque momento. Il governo in carica ha ricevuto la fiducia del Parlamento e tanto basta. Ma forse è quello il problema vero...
In che senso?
Che i rapporti di forza sono sempre gli stessi. Abbiamo salutato con sollievo la crisi che ha sbloccato la nostra situazione politica, ma il sollievo ha forse contribuito a ottundere la nostra sensibilità politica. Certo, ora abbiamo davanti a noi una destra seria, colta e competente. Ma non dimentichiamo che in Parlamento i rapporti di forza non sono cambiati .
Cosa la preoccupa di più di questa situazione?
La crisi ci ha liberato di Berlusconi – o almeno ce ne ha dato l’illusione – ma quella stessa crisi sta ora minando le basi della nostra Costituzione, o meglio, sta sgretolando la sua realizzazione concreta, perché la realtà si sta allontanando sempre di più da quel modello di Stato sociale con lavoro, rispetto della persona e dignità umana al centro di tutto. I problemi sociali sono un fardello, la tutela del lavoro non ne parliamo. Temo che la crisi sia oggi un bellissimo alibi per far valere non il liberalismo, che è una cosa diversa, ma il liberismo sfrenato.
Torniamo al presidente Napolitano. Non starà esagerando con la sua moral suasion?
Anche dopo Tangentopoli fu lo stesso, anche ai tempi del governo Dini. Anche allora si parlò di governo del presidente e simili. È naturale che, quando la politica e le istituzioni parlamentari vanno in crisi, il presidente della Repubblica tenda a occupare un ruolo che nessun’altro potrebbe ricoprire. Il problema semmai è che questa politica non è soltanto in crisi, è completamente squalificata.
Al punto da rendere il nostro sistema sempre più presidenziale e meno parlamentare?
Questo mi sentirei di escluderlo. Il Parlamento è ancora vivo e vegeto. Se non si votano i provvedimenti, Monti non passa. Questa è una buona destra, ma se anche volesse fare politiche migliori non andrebbe da nessuna parte. Questa legge elettorale ha causato danni gravissimi. Non solo per via del Parlamento dei nominati su cui giustamente ci si concentra, ma anche per l’abnorme premio di maggioranza che ci costringe tuttora a essere nelle mani di una maggioranza politica che tale non è più nel Paese ormai da tempo.
Già, la riforma elettorale. La riforma del porcellum, dopo la bocciatura dei referendum, sembra uscita dall’agenda politica.
Si vede che fa più comodo di quanto si tema. Non è stato forse Berlusconi a dire che il governo Monti sta facendo quello che lui avrebbe potuto fare? Non è cambiato nulla. E nulla cambierà fino a che non si cambia la legge elettorale.

l’Unità 22.3.12
Il leader democratico fortemente critico con l’operato del governo: «Aspettiamo e valuteremo»
Il modello tedesco resta l’obiettivo. No a una scelta per decreto: «Su materie così non esiste in natura»
Bersani a Monti: pretendo lealtà «Prendere o lasciare? Non ci sto»
Bersani vuole modifiche sui licenziamenti per motivi economici. Colloquio con Monti, restano le tensioni. «Il Pd è il partito più leale col governo, pretendo lealtà. Inaccettabile il prendere o lasciare»
di Simone Collini


«Ecco un titolo onesto». Pier Luigi Bersani ha davanti la prima pagina del “Sole 24 Ore”. Indica il titolo d’apertura: «Articolo 18, addio per tutti. No Cgil». E sotto: «La regola generale diventa l’indennizzo». Il leader del Pd scuote la testa. «Noi siamo il partito più leale e più coraggioso con il governo Monti, e per questo pretendo lealtà». La notte appena trascorsa è stata tutt’altro che tranquilla. I dubbi su perché l’esecutivo abbia scelto di chiudere sulla riforma del lavoro senza aver trovato un accordo con tutte le parti sociali non sono dissipati dopo una discussione telefonica con il presidente del Consiglio. Anzi.
La scorsa settimana, al vertice a Palazzo Chigi con anche Alfano e Casini, Bersani aveva avuto da Monti l’assicurazione che il governo avrebbe ricercato non «una rottura da offrire ai mercati» ma in tutti i modi e fino all’ultimo l’intesa. «Così non è stato». E sul tavolo ora c’è un testo fortemente discusso, soprattutto nella parte sull’articolo 18 e i licenziamenti per motivi economici. «È inaccettabile mettermi di fronte a un prendere o lasciare», si sfoga Bersani nei colloqui che ha nel corso della giornata. «Se così fosse si aprirebbe un problema molto serio». Sarà un caso ma per la prima volta da quando Monti è in carica, il leader del Pd non mette in chiaro di fronte ai suoi interlocutori che il suo partito garantirà in ogni caso il sostegno all’esecutivo. «Aspettiamo di sentire il governo, poi valuteremo e diremo la nostra». Una formulazione che in serata, nel corso di “Porta a porta”, si modifica di poco: «Monti non può dire al Pd prendere o lasciare. Voteremo quando saremo convinti».
Il forum Lavoro del Pd ieri si è riunito e già si stanno studiando gli emendamenti da presentare in Parlamento. A cominciare da una norma che preveda il ricorso al giudice per decidere tra reintegro o indennizzo non solo per i licenziamenti discriminatori ma anche per quelli giustificati con motivi economici (per i quali il governo propone il solo indennizzo). «Noi non siamo per creare problemi, siamo per creare soluzioni», dice Bersani. Che in serata in tv annuncia che« il Pd si prende l’impegno di correggere» la parte sui licenziamenti economici e non accetterà il ricorso al decreto legge («non esiste in natura su una materia come questa»).
MODELLO TEDESCO, NON AMERICANO
Bersani vede aspetti positivi nella riforma «ma anche cose che vanno cambiate», e punta tutto sul fatto che in Parlamento le norme che di fatto decreterebbero l’addio all’articolo 18 saranno modificate. «La scelta di fondo è tra il modello americano e quello tedesco», fa notare il leader del Pd. Nel testo presentato da Monti e Fornero alle parti sociali si guarda più al di là dell’Atlantico (o del Pacifico, ironizzano amaramente al Nazareno facendo notare che si rischia il modello di lavoro cinese). «L’addio per tutti al reintegro è una regola non adatta al nostro paese. In Europa il modello migliore è il tedesco». In Germania la decisione è affidata al giudice. Una soluzione che era stata proposta anche dalla Cisl. E quando in Parlamento il Pd presenterà emendamenti che puntano al modello tedesco, è il ragionamento che si fa in queste ore al Nazareno, ai voti democratici si aggiungeranno sicuramente quelli dell’Idv e della Lega, in stabile opposizione a Monti, ma anche del Terzo polo, visto che anche Raffaele Bonanni ha detto che «se il Parlamento ci dà una mano a migliorare il compromesso sull’articolo 18 ben venga».
La cautela però è d’obbligo, in queste ore. Parlando a piazza Montecitorio di fronte al presidente della Regione, ai sindaci e ai presidenti di Provincia delle zone terremotate delle Marche, Bersani insiste sul fatto che «nell’emergenza così come nella crisi, solo con la solidarietà e la coesione si può andare avanti». Parole tutt’altro che casuali. E risponde così ai giornalisti che gli chiedono un commento sulla riforma del lavoro: «Parlo stasera dell’accordo dice facendo riferimento alla puntata di “Porta a porta” se di accordo si può parlare». Un sorriso amaro, che scompare quando poco dopo in Trasatlantico si sfoga con Cesare Damiano: «Chiediamo un passo avanti, deve sparire la distinzione procedurale tra licenziamenti disciplinari ed economici. Lasciamo che sia il giudice a decidere, in entrambi i casi. Se devo concludere la vita dando via libera alla monetizzazione del lavoro, non lo faccio. Per me è una roba inconcepibile». Dice a sera in tv: «Quando non so come decidere mi ispiro a una frase di Berlinguer, essere fedeli agli ideali della propria gioventù. I diritti del lavoro vanno modernizzati, ma devono restare in piedi».

il Fatto 22.3.12
La beffa del governo dopo l’“accordo” di Palazzo Chigi
Schiaffo a Bersani
Il Pd si spacca. Il segretario prova a uscire dall’angolo: “Il premier non ci può dire prendere o lasciare. Non lo farà”
di Luca Telese


Alla tedesca, non all’americana. Il sorriso di Bruno Vespa è quello delle grandi occasioni: “Segretario Bersani, ha ragione Monti oppure la Camusso? ”. E il leader del Pd: “Posso fare un ragionamento? ”. Comincia così la serata più lunga di Pier Luigi Bersani, negli studi di viale Mazzini. E non è una puntata facile: “Aggiustiamo il mercato del lavoro? Deve essere più alla tedesca che all’americana”. E l’Articolo 18? “Su 160 mila cause in un anno solo 500 riguardano il mercato del lavoro: è venuta fuori una cosa che non condivido perché va all’americana”. E subito dopo: “I lavoratori si sentiranno dire: te ne vai a casa, e ti darò 15 mensilità. Non va bene. Lavoreremo per correggere”. Così il conduttore fa la domanda delle cento pistole: “Questo vuol dire che o si cambia o va giù il governo? ”. E qui l’incanto del Bersani barricadero si infrange: “Non mi pongo nemmeno la domanda. Non posso credere che su questo tema Monti ci chieda prendere o lasciare”. Sono le colonne d’Ercole oltre cui il leader del Pd non può andare. Il senso di una grande debolezza.
BERSANI È STATO fregato nel vertice dei segretari? Domanda di Vespa: “Ma che vi siete detti in quella cena? ”. Risposta: “C’è stato un difetto di comunicazione. A me sembrava che ci fosse stato un accordo che a giudizio di tutti il mandato fosse: il governo deve lavorare per un accordo”. Ecco perché occorre riavvolgere il film di questi due giorni. Lo sconcerto, tra i dirigenti del Pd inizia a diffondersi fin dalle prime ore della sera della riforma. Ma prende definitivamente corpo nella mattinata di ieri. Il primo problema è la presa di coscienza che la proposta di Monti e della Fornero ha un effetto immediato: il partito viene diviso in due come una mela, tra favorevoli e contrari. Contenti Lettiani e Veltroniani, dubbiosi i dirigenti dell’area Franceschini, contrari la Bindi, i bersaniani, i dalemiani e la sinistra interna.
Così si comincia con dubbi, consultazioni frenetiche, persino il (fondato) sospetto che non si sia trattato di un errore “tecnico”, ma di una mossa studiata a tavolino per disarticolare il partito, ipotecando una futura alleanza di governo (diversa dal centrosinistra). Un gesto compiuto per “mascariare” l’immagine del Pd davanti ai suoi stupiti elettori (ieri inferociti sul web). Mossa che divide, come dimostrava la prima dichiarazione di Enrico Letta, uno dei leader dell’ala “montiana” che, euforico, a caldo spiegava: “Il voto favorevole del Pd non è in discussione”. Nei corridoi di Montecitorio, ieri, si vociferava di una tirata d’orecchi di Bersani, per quella frase. Ma, ospite di Lilli Gruber, Letta non si tirava indietro, anzi: “Mi pare una frase addirittura ovvia”. Il gruppo dirigente bersaniano, invece, era il più colpito. Fin dalla mattina la voce determinata di Matteo Orfini, il più affermato dei dirigenti del nuovo corso, non lasciava spazio a dubbi sul modo in cui la forzatura prendere-o-lasciare del premier Mario Monti è stata percepita: “Siamo messi male, malissimo. Questa riforma, così come è proposta, non ci piace, non crediamo che garantisca i lavoratori in una fase delicatissima della crisi economica. È chiaro – aggiungeva Orfini – che la nostra direzione di lunedì è la sede in cui verificheremo che la maggioranza del Pd è per correggerla in Parlamento”. E poi, in serata: “Sono stato investito da richieste di spiegazioni, mail, inviti a convocare un referendum. È evidente che il testo in Parlamento deve essere cambiato”.
Bel paradosso. Una proposta che è molto più dura di quella contro cui tutto il partito diede battaglia assieme alla Cgil di Sergio Cofferati nell’ormai lontanissimo 2002. “Il messaggio che in queste ore sta arrivando ai nostri militanti è devastante. Non capisco sulla base di quali rassicurazioni – dice oggi Cofferati – si sono diffusi messaggi diversi e persino contraddittori. Adesso il danno è grave: l’articolo 18 è stato scardinato, questo testo introduce la possibilità di licenziare”. Altrettanto netto era il pronunciamento di Rosy Bindi, quasi interdetta: “Questo governo va avanti finché rispetta tutti i partiti che ne fanno parte. Così non è stato. Siamo convinti che in Parlamento il testo si possa modificare”.
Però è in serata che – (mentre continua il silenzio di Walter Veltroni) – arriva l’altolà di Massimo D’Alema, che affida al Tg3 la sua critica: “Il testo sull'articolo 18 è pericoloso e confuso e va migliorato”. E subito dopo: “Non si stabilisce chi è che valuta se il licenziamento è discriminatorio, disciplinare o economico, occorre un vaglio, ad esempio in Germania è una valutazione affidata al giudice. Non si può lasciare solo all’impresa la decisione”. Ancora: ''Ritengo che il provvedimento – aggiunge D’Alema – sia così complesso che si debba far ricorso solo a una legge delega per rispetto della democrazia parlamentare”. Cosa significa? “Lavoreremo per correggerlo – annunciava D’Alema – Noi siamo in una democrazia parlamentare: il governo ha fatto la sua parte (nel testo ci sono alcuni aspetti positivi e altri aspetti sono da migliorare) e ora tocca al Parlamento che è sovrano”.
E BERSANI? Per tutto il giorno, fino a quella dichiarazione a Porta a Porta si erano moltiplicati i segnali di disagio. Dapprima uno sfogo parlando (proprio con Damiano), in Transatlantico. Poi una frase seria: “'Se devo concludere la vita dando il via libera alla monetizzazione del lavoro io non la concludo così. Non so come faremo ma dobbiamo chiedere dei passi avanti”. Poi da Vespa, con il suo portavoce, Stefano Di Traglia che informa su Twitter (!): “In macchina fischietta Baglioni”. Prima che entri in studio arrivano le parole, durissime di Nichi Vendola: “È imbarazzante l'atteggiamento di Monti, a fronte di un'Italia che sta vivendo una sofferenza, un disagio straordinario”. Fino a ieri tra Bersani e Vendola ha retto un patto di non-belligeranza per cui il leader di Sel ha evitato qualsiasi attacco diretto al leader. Un patto che ora viene messo a dura prova. Perché se il Pd non corregge il testo salterà davvero l’alleanza di Vasto. Bersani a Porta a Porta, prova a rassicurare la base: “Devono stare tranquilli. Siamo gente solida”. A vederlo si pensava esattamente il contrario.

Corriere della Sera 22.3.12
Lo scontro si sposta e il Pd promette battaglia in Parlamento


Forse ingiustamente, si guarda all'incontro di oggi come a una formalità: quella che sancirà l'impossibilità di trovarsi tutti d'accordo sulla riforma del mercato del lavoro. D'altronde, nelle ultime ore i toni non si sono né distesi né attenuati. Le distanze fra il governo di Mario Monti e la Cgil appaiono di colpo quasi siderali. E di rimbalzo crescono i malumori del Pd di Pier Luigi Bersani, e un qualche imbarazzo per Cisl e Uil. Mentalmente, tutti sono ormai concentrati su come si muoverà il Parlamento. Il conflitto sull'opportunità di affidare la riforma a un decreto o a un disegno di legge, non è formale: implica la possibilità di cambiare o meno la legge.
La caduta del tabù dell'articolo 18, per ora sembra avere un impatto superiore alle previsioni. Giorgio Napolitano cerca di ricordare che la riforma non si limita a quel punto. Eppure, anche l'invito del capo dello Stato alla ragionevolezza viene inghiottito da un terreno avvelenato dall'esasperazione. Rosy Bindi, presidente del Pd, lancia avvertimenti a Monti. E Massimo D'Alema definisce «confuso e pericoloso» il testo del nuovo articolo 18. Idv e Sel equiparano il governo dei tecnici a quello di Silvio Berlusconi. E la Lega prosegue nel muro contro muro. «Qualsiasi cosa faccia Monti», dice Bossi, «la consideriamo sbagliata».
Gli incoraggiamenti a palazzo Chigi vengono da un Pdl intenzionato però soprattutto a sottolineare le difficoltà del Pd; e da un'Udc disposta a cambiare la riforma ma non a stravolgerla. Alle Camere, il centrodestra invoca un decreto in grado di fare approvare la riforma senza ritardi né ripensamenti. La sinistra invece lo vuole modificare con una legge da offrire all'esame del Parlamento. Insomma, si sapeva che sarebbe stato un passaggio delicato, e lo è. Ma è come se gli interlocutori si sentissero finalmente liberi di dare sfogo alle pulsioni di parte.
Dopo essersi sforzati per settimane di concedere, mediare, accettare un compromesso in nome dell'interesse generale, rivendicano la difesa dei propri interessi. Ma questo può far vacillare il governo. Può darsi sia un riflesso temporaneo. Il rischio che si accentuino le tensioni sociali e si logori la maggioranza trasversale a sostegno di Monti è ben visibile, però. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, lo critica negando che il risultato dell'altra sera possa definirsi un accordo. E aggiunge: «Non concludo la vita dando l'ok alla monetizzazione del lavoro». Bersani deve contenere i malumori del Pd, che vede in quanto è accaduto una vittoria del centrodestra.
In più deve fare i conti con la Cgil di Susanna Camusso, che si appella alle Camere perché non votino la riforma, e che a sua volta sembra condizionata dalla pressione della Fiom. Il Quirinale segue questa spirale cercando di fermarla al più presto. Sa che la minaccia di Antonio Di Pietro, che evoca la miscela letale del «Vietnam parlamentare e della protesta di piazza», potrebbe diventare incombente. Napolitano vuole scongiurarla, e anche per questo si dice che preferirebbe evitare il ricorso a un decreto legge. Forse per la prima volta, lui e Monti potrebbero non avere idee del tutto coincidenti.

Corriere della Sera 22.3.12
L'ultima offerta Cgil: «salvare» il reintegro
Sponda al Pd: valga per i licenziamenti economici. Il no a Landini
di Enrico Marro


ROMA — È una questione di sfumature, ma le sfumature sono importanti in questa partita sull'articolo 18, che il presidente del Consiglio considera «chiusa» e che invece la leader della Cgil, Susanna Camusso, dichiara ancora «aperta», come ha detto ieri ai suoi riuniti nel direttivo della Cgil. E la sfumatura sta nel fatto che ieri il parlamentino del sindacato rosso ha approvato sì 16 ore di sciopero e una mobilitazione vasta con la raccolta di «milioni di firme» contro il provvedimento del governo, ma ha anche respinto a larga maggioranza la proposta della sinistra interna, capeggiata da Landini e Rinaldini, di porre quale obiettivo della lotta il ripristino integrale dell'articolo 18.
Camusso, a porte chiuse, ha detto chiaramente che la Cgil non può aspettarsi di riconquistare l'articolo 18 tale e quale come scritto nello Statuto dei lavoratori del 1970. Il tabù è stato infranto e non si torna indietro. Pensare il contrario significherebbe prendere il giro i lavoratori, ha aggiunto. I quali invece, secondo il segretario della Cgil, possono e devono essere chiamati alla lotta, ma su un obiettivo realistico. Che, a questo punto, è quello di ottenere che anche sui licenziamenti per motivi economici sia il giudice a decidere tra reintegro e indennizzo del lavoratore licenziato illegittimamente. Un obiettivo che Camusso non ha esplicitato solo per ragioni tattiche, ma che tutti sanno essere il nuovo traguardo della Cgil.
E così, nel documento presentato dalla segreteria e approvato con 95 voti favorevoli, due soli contrari (Cremaschi e Bellavita) e 13 astenuti, tra i quali lo stesso Landini, c'è scritto che sul punto dei licenziamenti la Cgil si mobilita per ottenere di nuovo che l'articolo 18 abbia una funzione di «deterrenza» rispetto ai licenziamenti senza giusta causa e giustificato motivo. E la deterrenza esiste se c'è il diritto al «reintegro».
Questo significa, appunto, anche se nel documento non c'è scritto, che la possibilità del reintegro deve tornare dove non c'è nella proposta del governo, cioè sui licenziamenti per motivi economici, che, secondo Monti, devono invece essere possibili in cambio di un indennizzo. Sono questi i licenziamenti «facili» che per la Cgil vanno tolti di mezzo. Come? Con l'estensione, appunto, del modello tedesco ai licenziamenti economici.
Del resto questa era l'ultima mediazione tra Cgil, Cisl, Uil e Ugl, che i sindacati avevano raggiunto lunedì e che i quattro segretari generali avevano rappresentato a Monti martedì mattina a Palazzo Chigi, ma che lo stesso premier aveva seccamente respinto. Ed è questa la proposta che ieri un Pd in evidente difficoltà ha rilanciato, chiedendo al governo di correggere il testo che invece Monti considera chiuso.
A questo punto Camusso e Bersani, che si sono sentiti più volte negli ultimi giorni, tentano di stringere in una morsa il premier. Bersani, infatti, dopo il direttivo di ieri, può contrastare l'affermazione di Monti che la Cgil sia indisponibile a modificare l'articolo 18 e sostenere che invece, se si mette il giudice anche sui licenziamenti economici, si può ottenere il sì, sia pure sofferto, di Camusso.
Tanto più che ieri il leader della Uil Luigi Angeletti, dopo la riunione della direzione, dove due categorie importanti come chimici e agroalimentari hanno preso posizioni molto critiche verso la riforma Monti, ha sostenuto anche lui che ci vuole il giudice sui licenziamenti economici. Una posizione che contrasta con quanto aveva detto il premier l'altro ieri a chiusura della trattativa, cioè che le proposte del governo erano state accettate da tutte le parti sociali, tranne la Cgil. Un teatrino, quello andato in scena ieri sul palcoscenico politico-sindacale, che ha irritato il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, il quale si è intestato il merito della riforma e preferirebbe che la partita fosse chiusa. Ecco perché ieri ha sfidato lo stesso Bersani a presentare entro oggi stesso («visto che i testi della riforma non sono ancora scritti») le sue proposte di modifica a Monti e Fornero «e se li convincono, meglio». Ma più l'asse Bersani-Camusso preme su Monti più è probabile che Confindustria e Pdl si facciano sentire per bloccare ogni annacquamento del nuovo articolo 18.
La partita ora si gioca in Parlamento e nelle piazze. In Parlamento la Cgil guarda al Pd, ma non solo. Nei corridoi del piano interrato di corso d'Italia, dove si è riunito il direttivo, ieri alcuni dirigenti del sindacato rosso si consultavano sugli scenari e speravano nel partito di Pier Luigi Bersani che, per buona parte della Cgil, è ancora il punto di riferimento politico. Qualcuno azzardava che se il Pd si mettesse di traverso, alla Camera il governo potrebbe non avere i voti per far passare il provvedimento sull'articolo 18, presupponendo ovviamente che la Lega e l'Idv siano contrari e che il Pd sia compatto, ipotesi tutta da verificare. Ecco perché Camusso non crede a uno scenario del genere. Sa che il governo non può cadere e che il Pd deve continuare a sostenerlo se non vuole rischiare di spaccarsi. L'unica possibilità, dunque, è mobilitare la piazza e creare problemi nelle fabbriche. Per spingere Monti e la Confindustria, sotto la pressione del Pd, a cedere sui licenziamenti economici, sapendo che a quel punto la Cgil si riterrebbe soddisfatta.

Corriere della Sera 22.3.12
Il Pd chiede modifiche a Monti D'Alema: testo pericoloso e confuso
Bersani: non si può dire prendere o lasciare. Elettori in rivolta sul web
di Monica Guerzoni


ROMA — «Attenzione, Monti non può dire al Pd di prendere o lasciare. Non si può fare... Non lo ha mai fatto e io credo che non lo farà».
Alle nove e trenta della sera, in diretta da Porta a Porta, un Pier Luigi Bersani bellicoso come mai prima scandisce il suo ultimatum sull'articolo 18. Il leader del Pd chiede al governo di «correggere» il testo guardando al modello tedesco e quando Bruno Vespa gli domanda se i democratici voteranno contro, qualora il premier dovesse tirare dritto, il segretario gioca il tutto per tutto: «Mi sono spiegato? Prendere o lasciare no, noi non ci stiamo. Voteremo quando saremo convinti».
È il finale di una giornata tesissima, scandita dal rullar dei tamburi degli elettori che sul web riversano paura e rabbia e vogliono che Bersani stacchi «la spina» al governo. E lui, dagli schermi di Rai1, prova a placare la base: «La pancia deve essere tranquilla. Siamo gente solida noi, non accetteremo che venga ribaltato il rapporto di forza tra lavoro e impresa». Al tramonto, rompendo il riserbo degli ultimi tempi, al Tg3 Massimo D'Alema aveva spostato il suo peso dalla parte della Cgil. Il presidente del Copasir definisce il testo della riforma «pericoloso e confuso» e chiede che sia «migliorato in Parlamento». E quando Bianca Berlinguer ricorda all'ex premier che il vicesegretario Enrico Letta e Beppe Fioroni hanno già dato il via libera, D'Alema li ammonisce: «Ai dirigenti del mio partito, specie in passaggi delicati e importanti come questo, consiglierei maggiore cautela nel rilasciare dichiarazioni». È altissimo il livello di tensione nel Pd, la forza di maggioranza che più subisce, sulla sua pelle, la forza d'urto della rivoluzione in arrivo.
A Montecitorio si votano le liberalizzazioni, ma si parla di licenziamenti. E più d'uno, tra i deputati del Pd, confessa che non riuscirà a «ingoiare il rospo». Bersani sa che il partito può spaccarsi in Aula con conseguenze imprevedibili, ha lasciato trapelare irritazione per il metodo di Monti e sfoga (quasi) pubblicamente la sua delusione. Parla in Transatlantico con l'ex ministro Cesare Damiano e non si cura dei cronisti che lo ascoltano: «Non morirò dando il via libera alla monetizzazione del lavoro! Per me è una roba inconcepibile». Il conflitto tra l'ala sinistra che guarda alla Cgil e quella moderata e riformista, più sensibile alle sirene del governo dei tecnici, appare difficilmente sanabile. I deputati-operai Lucia Codurelli e Antonio Boccuzzi annunciano il loro no e il senatore Vincenzo Vita sprona a schierarsi con la Cgil, «costi quel che costi».
Che accadrebbe se il Pd finisse per dividersi al momento del voto? C'è chi dice che quel giorno segnerebbe il fallimento del partito ed è per questo che Bersani e D'Alema alzano i toni. D'altronde senza il sostegno del Pd l'esecutivo andrebbe a casa e Rosy Bindi lo dice senza concessioni alla diplomazia: «Questo governo può andare avanti se rispetta la dignità di tutte le forze che lo sostengono». E quando la Cgil scenderà in piazza, è pronta alle barricate la Bindi, il Pd sarà «al fianco dei lavoratori».
Il pressing della base è fortissimo, la pagina Facebook di Bersani è zeppa di appelli alla rottura: «Non votate questa vergogna!», «Via da questo governo»... E il segretario, pur convinto che la riforma contenga «delle cose buone che vanno preservate», è costretto a forzare nella speranza di ottenere qualche modifica in extremis: «L'accordo? Se di accordo si può parlare...». E poiché per il segretario un decreto legge «non esiste in natura», Dario Franceschini chiede che si proceda «con un disegno di legge perché il Parlamento possa discutere». Da Vespa, poi, Bersani ha parlato anche di Viale Mazzini: «Se non si fa la riforma della Rai e vanno avanti io non ci sto comunque».
Nella partita sul lavoro, dentro il Pd anche le tecnicalità sono importanti, ma è il merito a disegnare le squadre in campo. Pietro Ichino, il senatore che teorizza la flexicurity, sostiene che Monti abbia attinto al materiale programmatico del partito e sferza i compagni: «Vivere questo progetto di riforma come una medicina amara e indigesta, da ingerire col naso tappato, a me sembra molto fuori luogo». Sul fronte opposto Stefano Fassina chiede che non sia posta la fiducia, per non «esasperare ulteriormente il rapporto con un partito importante che lo sostiene».

Corriere della Sera 22.3.12
I timori dei leader: «Così non reggiamo» E qualcuno pensa alla piazza con la Cgil
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Così non reggiamo»: è preoccupato, il segretario del Pd. E sospettoso. Non ha capito a che gioco stia giocando il governo: «Vogliono lo scalpo dell'articolo 18 per mettere all'angolo la Cgil? O siamo noi l'obiettivo?».
Già, i vertici del Partito democratico temono di essere loro stessi il bersaglio di questa operazione. Sono convinti che si stia puntando a neutralizzare il Pd e a consegnarlo alla logica della grande coalizione chiudendogli ogni spazio di agibilità politica. Per questa ragione Massimo D'Alema usa parole dure, per questo motivo Rosy Bindi non esclude che il partito possa scendere in piazza con la Cgil: «Noi siamo sempre al fianco dei lavoratori».
La verità è che il Pd rischia di spaccarsi: ieri, alla Camera, metà gruppo era contrario alla riforma. E tra questi anche parlamentari moderati, come i «franceschiniani» Antonello Giacomelli e Saverio Garofani. Del resto lo stesso capogruppo Dario Franceschini è più che perplesso nei confronti di questa riforma. Non è sicuramente il caso di Veltroni. Il suo plenipotenziario Walter Verini, in Transatlantico, ieri pomeriggio ha accolto con queste parole il ministro Fornero: «Noi siamo con te». E nemmeno la minoranza dei Modem, o il responsabile del Welfare Beppe Fioroni e il vicesegretario Enrico Letta hanno dei problemi su questa riforma. Ma il resto del partito è in subbuglio.
Al telefono con Mario Monti, Bersani ha insistito su una modifica dell'articolo 18: se i motivi economici dei licenziamenti sono fraudolenti il lavoratore può rivolgersi al giudice che deciderà per il reintegro o l'indennizzo. In cambio il Pd offriva al presidente del Consiglio la possibilità di blindare il testo, anche con un decreto. Ma il governo ancora ieri sera non si spostava di un millimetro. Anzi. Il ministro Fornero ha cercato di convincere i deputati del Pd. Prima impietosendoli: «Lo vedete che ha fatto Diliberto? Ha abbracciato una donna con una maglietta su cui campeggiava la scritta: Fornero al cimitero». Poi cercando di farli ragionare su un altro aspetto: «Non dovete focalizzarvi sull'articolo 18, dovete pubblicizzare tutte le cose che vanno bene anche a voi e su cui invece il centrodestra è contrario».
Se l'ipotesi del ritocco della norma che modifica l'articolo 18 è impossibile, come pare, al Pd resta solo un'altra linea Maginot su cui assestarsi. Ossia quella di rinviare i nodi di questa riforma del mercato del lavoro a una legge delega, in modo da mandare per le lunghe tutta la vicenda ed evitare di andare alle elezioni con un provvedimento impopolare. Anche perché i sondaggi, dopo che si è aperto il caso dell'articolo 18, non sono poi così favorevoli. Infatti il 60 per cento degli elettori del Partito democratico è contrario a questa modifica. Bersani, quindi, è sulle spine: «Non posso concludere la mia vita dando la monetizzazione del lavoro, per me è una cosa inconcepibile». E di nuovo, in serata, prima di andare a Porta a Porta, nella mente del segretario si affollavano i sospetti: «A che gioco sta giocando il governo? Ci vogliono dividere? Vogliono che rompiamo con la Cgil e con le forze alla nostra sinistra? Io stimo Monti, e lo giudico una persona perbene, ma il presidente del Consiglio ci deve dare una dimostrazione del fatto che da parte dell'esecutivo non ci sono retropensieri».
Non è una situazione facile, quella del segretario del Partito democratico. Anche perché all'interno del Pd cominciano a levarsi le critiche per come il leader ha gestito questa trattativa: «Prima aveva dato il via libera nel corso del vertice con gli altri segretari, poi ha fatto retromarcia». E qualche veltroniano mette in discussione un altro aspetto di questa vicenda: «Il segretario l'ha fatta troppo facile e ci ha fatto pensare che Susanna Camusso avrebbe detto di sì». Ed effettivamente Bersani una decina di giorni fa era riuscito a convincere la segretaria della Cgil ad addivenire a più miti consigli. Poi una consultazione interna con le Camere del Lavoro, i sindacati più forti (pensionati, scuola, ecc.) aveva fatto registrare la svolta di Camusso. I «no» alla riforma dell'articolo 18 erano la maggioranza, troppi per non prenderli in considerazione. Bersani a quel punto ha sperato in Monti. Non c'è stato niente da fare. E ora al leader del Pd non resta che dire ai fedelissimi: «Non posso essere io il segretario che cancella la concertazione ed emargina la Cgil».

il Fatto 22.3.12
“È indecente questo Vaticano off-shore”
L’economista Vitale: “Lo Ior? Quella banca non può sfuggire alle leggi”
di Vittorio Malagutti


Milano. Lo Ior? “E che vuole che dica? Certo, è indecente. È indecente il Vaticano off shore. È indecente il comportamento della Chiesa quando pretende che la sua banca sfugga alle leggi che valgono per tutti gli altri”.
Marco Vitale, economista e consulente di grandi aziende, non ha mai sfoggiato gran doti di diplomatico. E come cattolico (ci tiene a precisarlo) nonché studioso delle encicliche sociali della Chiesa, non può proprio fare a meno di prendere di petto anche la questione dello Ior.
Il Fatto ieri ha rivelato che l’indagine della Procura di Roma sulla banca vaticana per violazione delle norme anti-riciclaggio, è approdata in Germania, alla sede di Francoforte dell’istituto americano Jp Morgan, crocevia di molte operazioni targate Ior.
Dopo tante promesse di trasparenza sembra che il Vaticano sia tornato all’antico, collaudato metodo del muro di gomma. È d’accordo?
Non posso e non voglio entrare nel merito di un’indagine così complessa. Da osservatore provo un grande dolore nel vedere la mia Chiesa che si comporta in modo così diverso da quanto va predicando. La trasparenza assoluta nella gestione bancaria è un obbligo pe tutti gli operatori. A maggior ragione per un istituto di credito che di fatto fa capo al Papa.
Le disavventure del passato non hanno insegnato niente, quindi?
Guardi, da Sindona a Calvi lo Ior ha commesso il tragico errore di aprire le sue banche ai peggiori malfattori. Per venire a tempi più recenti anche Calisto Tanzi della Parmalat era portato in palmo di mano dal Vaticano. Questa gente porta denaro, fa grandi favori. Come dimenticare Tanzi che metteva a disposizione il suo aereo ad alcuni alti prelati? In passato, purtroppo lo stile era questo .
Forse gli uomini di Chiesa, non proprio ferrati in materia finanziaria, cadono più facilmente nelle trappole di questi truffatori.
Non credo. I cardinali capiscono benissimo come vanno queste cose. Solo che alcuni non riescono a opporsi e si rassegnano, soffrono in silenzio. Altri invece approfittano della situazione, con tutti i vantaggi personali che ne conseguono.
Abbiamo capito: lei vede nero. Ma concretamente lo Stato italiano che cosa potrebbe fare, come dovrebbe intervenire, a parte ovviamente perseguire i presunti reati legati al riciclaggio?
Lo Stato dovrebbe prendere una posizione molto più incisiva.
In concreto?
Prima di tutto si potrebbe cominciare rivedendo le norme del concordato che riguardano in generale la materia finanziaria, norme che per molti aspetti io trovo semplicemente scandalose.
Si riferisce all’8 per mille?
Certo. La legge prevede il trasferimento alla Chiesa di fondi ingentissimi che provengono dalle tasche di milioni di italiani. Il problema è che non ci sono controlli sufficienti su come questi soldi vengono effettivamente spesi.
Mi scusi, chi dovrebbe controllare che cosa?
Un nuovo accordo con il Vaticano dovrebbe mettere a disposizione dello Stato italiano maggiori strumenti per verificare l’impiego dei fondi provenienti dalle tasse. Vanno alle parrocchie e ai preti sempre più in difficoltà? Oppure vanno altrove? Su un tema come questo non bastano più le dichiarazioni di principio di parte vaticana. Lo Stato dovrebbe controllare di più e meglio. Lo dico da cattolico.

il Fatto 22.3.12
Ai peccati cardinali
di Gianni Boncompagni


COMPLIMENTI vivissimi al Vaticano che ha “rinnovato il senso di dolore e vergogna per casi di pedofilia in Irlanda ammettendo gli abusi”. Il Vaticano negli ultimi tempi sta facendo passi da gigante. Ieri alcuni illuminati cardinali presieduti dal Santo Padre , dopo una lunga, anzi lunghissima discussione animata anche da violente scazzottate, hanno dichiarato con una percentuale che si avvicina al 98% che Dio praticamente non esiste. Anche i santi, secondo la maggioranza dei cardinali, sono una pura invenzione tranne Santa Lucia ma non hanno spiegato il perché di questa eccezione. Inoltre i cardinali sostengono che i peccati sono frutto di pura fantasia dei loro predecessori e sostengono invece che i peccati di gola esistono eccome. La coda alla vaccinara e la burrata, per esempio, sono al bando e non c’è assoluzione che tenga.

il Fatto 22.3.12
Il Papa e il pasticcio messicano
Nel suo viaggio non incontrerà le vittime dell’”abusatore di seminaristi” Marcial Maciel
La stampa locale attacca, ma il Vaticano si rifugia in dichiarazioni poco credibili
di Marco Politi


Come l’ombra di Banquo nel “Macbeth” lo spettro delle vittime degli abusi sessuali, commessi dal fondatore dei Legionari di Cristo, si erge dinanzi a Benedetto XVI che domani parte per il Messico. Chiedono conto degli insabbiamenti decennali del Vaticano. Chiedono conto delle decisioni prese nella Congregazione per la Dottrina della fede, di cui Joseph Ratzinger era prefetto quando gli abusati chiedevano giustizia e nessuno muoveva foglia.
Prima ancora di prendere l’aereo Benedetto XVI vede avvicinarsi una tempesta dell’opinione pubblica e nuovamente, come tante altre volte, ci si domanda chi consiglia il pontefice e quanto i suoi più stretti collaboratori abbiano il polso della situazione.
PERCHÉ pochi giorni fa era stato proclamato con sicurezza in Vaticano che il pontefice non avrebbe incontrato durante la sua permanenza in Messico nessuna vittima di pedofilia. “Escluso”, era stata la dichiarazione categorica. Un paradosso. Benedetto XVI, che si è incontrato con le vittime di abusi negli Stati Uniti, in Inghilterra, a Malta, in Australia e pochi mesi fa in Germania, avrebbe voltato la testa dall’altra parte in Messico. Proprio dove è sorta la stella del demoniaco fondatore di un potente movimento religioso, Marcial Maciel, abusatore di seminaristi, “bigamo e oltre”, i cui comportamenti un comunicato ufficiale della Santa Sede del 1 maggio 2010 descrisse così: “Gravissime e obiettivamente immorali… si configurano talora in veri delitti e manifestano una vita priva di scrupoli e di autentico sentimento religioso”.
Spiegazione ufficiosa dell’incredibile rimozione dal programma il fatto che l’episcopato locale non aveva proposto un colloquio tra il pontefice e le vittime. Toppa peggio del buco. Ma se qualcuno sperava di poter nascondere il problema, si sbagliava. Le principali riviste messicane sollevano la questione nei loro servizi. “Proceso” pubblica in copertina la foto di Maciel con un titolo a caratteri cubici: “Il Vaticano sapeva tutto”.
E ORA, a poche ore dall’arrivo dell’aereo papale, irrompe sulla scena un manifesto pubblico firmato da Juan Josè Barba, una delle vittime più celebri che per anni bussarono invano alle porte di papa Wojtyla e della Congregazione per la Dottrina della fede, retta dal cardinale Ratzinger.
“Santità – scrive Barba – Lei ha detto al giornalista (e biografo) Peter Seewald che solo approssimativamente dal 2000” si ebbero elementi concreti sulle accuse contro il fondatore dei Legionari di Cristo. “Ma noi sin dal 1997, firmando una lettera aperta a Giovanni Paolo II, confidavamo in una risposta che rispettasse la verità, la carità e il diritto a noi dovuto”. Santità, ricorda ancora la vittima Barba, “il 17 ottobre 1998 presentammo domanda canonica (di apertura del processo) a Roma, che fu accettata dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della fede, di cui Voi allora eravate a capo”.
È agli atti che all’epoca tutto fu insabbiato. (Ratzinger, così ha fatto intendere una volta il cardinale Schoenborn di Vienne riferendosi ad un’altra vicenda, si scontrò contro il muro di gomma dei più stretti collaboratori di Giovanni Paolo II e non ebbe il coraggio di sollevare il caso). Niente si mosse fino al momento in cui, morente Wojtyla nel 2005, Ratzinger mandò in fretta e furia il suo inviato mons. Scicluna a New York e Città del Messico, dove in poco più di una settimana si registrarono testimonianze disponibili da oltre dieci anni.
Ora la vittima Barba, anche a nome di altro abusati già defunti, chiede conto: “Eravamo costernati pensando come una saggezza così antica come quella della Chiesa potesse essere ingannata così facilmente (dalle false dichiarazioni di Maciel, ndr) e a livelli gerarchici così alti e per tanto tempo e in tanti luoghi nonostante le tante vittime e i tanto insistenti reclami… Però non venimmo ascoltati e non venimmo creduti”.
LO SCANDALO dell’insabbiamento sta lì. Sebbene da pontefice Ratzinger abbia poi condannato definitivamente Maciel. Ma alle vittime venne negato il diritto ad un equo processo canonico e almeno questa ferita avrebbe potuto essere – se non sanata – alleviato da un incontro autocritico di Benedetto XVI con gli abusati di allora.
Barba ricorda che Ratzinger nel suo libro-intervista con Peter Seewald, apparso nel 2010 con il titolo “Luce del mondo”, abbia definito un “enigma” il criminale fondatore dei Legionari di Cristo. Per noi, ribatte Barba, era invece un problema che la Chiesa non si decidesse a risolvere questo enigma e la “metastasi istituzionale”, che ne risultava. “Per le Vostre mani – conclude la vittima rivolta al Papa – passò l’opportunità di accettare la verità e di accettare noi”.
Nella lettera-manifesto, al fondo più amara che violenta, vi sono parole estremamente dure nei confronti della conferenza episcopale del Messico. “In questa vicenda l’episcopato messicano… si è mostrato non impegnato, irresponsabile e persino servile”. Sono gli stessi, sembra di capire, che hanno ritenuto non necessario un incontro del Papa con le vittime.

Corriere della Sera 22.3.12
I rimborsi gonfiati sul 118 Bari, voci di nuovi arresti
Vendola al telefono si congratula con l'imprenditore per l'appalto


BARI — È una storia di false fatturazioni al 118, ma non solo, quella che ieri ha tenuto la Bari politica di nuovo con il fiato sospeso. Atterrita da voci di imminenti provvedimenti giudiziari in arrivo. Stavolta però il sindaco, Michele Emiliano, non è adiacente al bersaglio. I boatos puntano dritto a Lungomare Nazario Sauro: gli uffici della Regione Puglia. E vanno a colpire i vertici della Sanità pugliese, spina nel cuore del potere di Nichi Vendola, già finita al centro di un'indagine che portò alla richiesta di arresto dell'ex assessore alla Sanità regionale, poi senatore pd, Alberto Tedesco (sempre respinta dalla Giunta con i voti pdl) e al coinvolgimento di Sandro Frisullo, ex vicepresidente della giunta Vendola, incappato nello scandalo escort, poi arrestato per un'altra inchiesta sulle forniture alle Asl di Lecce.
Si riparte da lì, da Tedesco e da Frisullo. E da storie vecchie che si intrecciano a nuove, venute da altre procure, come quella di Foggia che valuta se davvero l'emergenza fosse diventata un business e si gonfiassero i costi per spartirne il guadagno con i politici. O che nella Sanità fossero stati investiti soldi di crac da imprenditori amici dei politici che in tal modo ottenevano l'accreditamento per agire in regime di convenzione. Si torna a parlare della clinica Kentron dell'imprenditore Ritella, amico dei potenti. I sussurri tornano ad appuntarsi anche sul vendoliano Tommaso Fiore, successore di Tedesco fino a pochi mesi fa e proprio in questi giorni citato fra i papabili nella corsa alla poltrona di presidente della Puglia, che secondo Lea Cosentino, ex direttore generale della Asl di Bari lo tirò in ballo per la vicenda accreditamenti facili dicendo: «Sicuramente l'assessore Fiore non poteva non sapere essendo sempre presente in assessorato».
Ma in una Bari ormai teatro di una sanguinosa lotta politica fratricida interna alla sinistra, i sussurri vanno oltre. E accerchiano il presidente della Regione, Vendola, mai coinvolto nelle indagini, che secondo indiscrezioni, avrebbe fatto gli «auguri e complimenti» a uno dei proprietari della clinica, per l'accreditamento appena ricevuto, in una telefonata iniziata da Sandro Frisullo e per questo intercettata dalla Guardia di Finanza.
Ce ne sarebbe abbastanza, ma in una Bari sull'orlo di una crisi di nervi le voci si intrecciano con quelle in arrivo da Foggia dove un'inchiesta sulle forniture agli ospedali ha già portato a una serie di arresti per corruzione e perquisizioni, da cui sarebbero spuntate foto di un politico locale ritenute interessanti. E il filone delle false fatture emesse da cooperative del 118 e pagate dalla Asl. Qui i sussurri si fanno spifferi per la Regione. Si parla di approfondimenti investigativi su almeno 4 consiglieri regionali. Il presidente della Commissione Sanità, Dino Marino, ha definito la notizia di un'indagine a suo carico «destituita da ogni fondamento».
Lo scenario è quello che riemerge dalle carte dell'inchiesta Degennaro: «Di diffusa collusione di politici e pubblici amministratori». Forse si tentava di dissimularlo mentre, durante l'acquisizione delle mail in entrata e in uscita dei Degennaro, qualcuno dal server svuotava la posta.

Corriere della Sera 22.3.12
Cacciari

I san Francesco di Dante e Giotto
di Pierluigi Panza


Assisi è il cantiere di nascita dell'Europa moderna. E San Francesco colui che ha avviato il faticoso viaggio che porta al divino partendo dall'umano. Un viaggio tormentato e di sentieri interrotti, che ha accompagnato la storia dell'individuo dall'Umanesimo al nichilismo contemporaneo. Per queste ragioni il filosofo Massimo Cacciari — che non ha mai abbandonato l'interrogazione sui fondamenti — individua in San Francesco, e nelle prime interpretazioni su di lui, l'origine del dipanarsi di narrazioni sulla coscienza e il destino europeo.
Nel suo nuovo libro, Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto (Adelphi, pp. 86, 7) Cacciari muove alla definizione del «suo» San Francesco alla luce di una conoscenza bibliografica rigorosa, che passa dagli studi di Paul Sabatier a quelli di Henry Thode. E muove per mostrare un Francesco più complesso di alcune interpretazioni postmoderne, che hanno fatto di lui ora un profeta socialista ora un rivoluzionario New Age. Per raggiungere il suo obiettivo, Cacciari interseca le strade tracciate dai due «maggior fabbri del volgare europeo», cioè Giotto e Dante, sulla figura del poverello. E racconta il conflitto d'interpretazione della rivoluzione francescana innescato dai due.
Giotto e Dante sono entrambi cattolici, nati una quarantina d'anni dopo la morte del Santo (1226). E il loro occuparsi di Francesco è già una testimonianza di come la figura del santo fosse percepita come coesa alla Chiesa. Ma i due fabbri non riescono a dare del tutto ragione del «crocefisso di Assisi», perché la sua forza è troppo vasta: entrambi lo traducono e lo tradiscono. Giotto rappresenta Francesco negli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, rifacendosi alla Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio, e a Firenze nella Cappella Bardi in Santa Croce. Dante lo colloca nel Cielo degli spiriti sapienti (Paradiso, XI canto) e ne affida l'elogio a San Tommaso d'Aquino.
«Quella giottesca sembra una visione più ingenua e fresca; in realtà è una precisa operazione politica», sottolinea Cacciari. Nel ciclo di affreschi della Basilica superiore di Assisi, infatti, manca l'incontro di Francesco con i lebbrosi, il dono delle stigmate e la scena del mantello donato al povero è edulcorata, sembra uno scambio tra cavalieri. Anche l'episodio della morte non mostra Francesco nudo sulla nuda terra della Porziuncola. «In sintesi, una rappresentazione omogenea con le esigenze del primo Papa francescano (Niccolò IV): Francesco è in perfetta armonia con la Chiesa e si inchina ad essa».
In Dante la prospettiva è diversa. Francesco è l'alter Christus, che riceve le stigmate sulla Verna. Non si prostra, ma sottopone regalmente al Papa la sua Regola. Non fa miracoli, ma è il serafino di una religione quasi solare («non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Orïente, se proprio dir vuole»). In Dante, Francesco è in guerra con le forze che hanno trasformato il soglio di Pietro in una Babilonia e muore povero e nudo come «profeta» di un nuovo ordine. Nella Commedia viene trattato al fianco di San Domenico, perché Dante cerca nel cristianesimo una concordia di opposti e apprezza sia la forza rigeneratrice della povertà sia quella della sapienza domenicana. Ma la preferenza del poeta va a Francesco e alla sua follia profetica, anche se Dante, e neppure Giotto, paiono comprendere sino alle estreme conseguenze la forza della rivoluzione della povertà: «Povertà è la violenza di chi vuole il Regno. Soltanto il povero è veramente potente», scrive Cacciari; quello di Francesco è uno «svuotamento del sé» simile a quello voluto da Dio per creare l'universo.
Un libro erudito e intenso questo Doppio ritratto, nel quale Cacciari fa anche incontrare le interpretazioni di Francesco con i filosofi a lui cari, come Nietzsche. E scopre Francesco sotto le spoglie del mendicante «da cui occhi parlava la bontà in persona» incontrato da Zarathustra. Con il quale condivide la nausea verso avidità, cupidigia e orgoglio. E riscoprire anche nell'«Anticristo» Zarathustra il volto di Francesco significa che il messaggio del poverello di Assisi agisce ancora oggi sul doppio piano delineato da Giotto e Dante.

mercoledì 21 marzo 2012

l’Unità 21.3.12
Lo strappo di Monti
Il premier non cerca l’intesa: niente più reintegro nel caso di licenziamento per motivi economici
La Cgil contraria: norme squilibrate. Bersani critico: parola alle Camere Passi avanti su dimissioni in bianco e ammortizzatori
Articolo 18, così non va
di Luigi Mariucci


Le notizie sul confronto tra governo, sindacati e industriali sul mercato del lavoro non sono per niente buone. Il governo ha deciso di seguire una via sbagliata e pericolosa: la monetizzazione, ovvero la liberalizzazione dei licenziamenti per motivi economici. Tale misura risulta inaccettabile, per molte ragioni.
Intanto perché questo messaggio in una fase di crisi, con centinaia di migliaia di lavoratori in cassa integrazione, ha un effetto devastante sul piano sociale.
Si aprirebbe la via ai licenziamenti facili per tutti quei lavoratori più anziani, per i quali nel frattempo è stata aumentata l’età pensionabile, creando un problema sociale di enormi dimensioni. Ma, ciò che è ancora più grave, si determinerebbe un effetto sistemico perverso sul piano giuridico. Salva restando la reintegrazione per i licenziamenti discriminatori, che costituisce una pseudo-tutela dato che ovviamente l’intento discriminatorio non viene mai dichiarato ed è difficilissimo da provare, si creerebbe una corsia privilegiata per i licenziamenti individuali per i quali venissero addotti, sul piano formale, motivi di tipo economico. In tal modo verrebbero aggirate, d’un colpo, un numero impressionante di regolazioni, per di più derivate da direttive della Unione europea. Intanto quella sui licenziamenti collettivi: basterebbe licenziare per motivi economici singoli lavoratori a gruppi di quattro a distanza di quattro mesi per aggirare le procedure in materia di licenziamenti per riduzione di personale, che l’Italia ha adottato in attuazione di una direttiva comunitaria. Poi sarebbe facile contrabbandare sotto lo schermo dei motivi economici licenziamenti in realtà dovuti a motivi soggettivi o disciplinari. Infine si aprirebbe la strada a licenziamenti persino arbitrari. Se infatti basta addurre il motivo «economico» per monetizzare con una indennità anche un licenziamento ingiustificato, è evidente che svanisce ogni forma di controllo, giudiziario o sindacale che sia. Che senso ha contestare il licenziamento se alla fine si ottiene solo un indennizzo? Tanto vale monetizzare ex ante.
Il governo andrebbe contro a direttive Ue applicate in Italia
Nell’ordinamento giuridico italiano in questo modo si darebbe vita a un micidiale meccanismo di vasi comunicanti, univocamente declinato nel senso della demolizione dei diritti fondamentali.
Diversa era la strada indicata tra gli altri da chi scrive in un documento del comitato direttivo di Lavoro e Diritto, edito da Il Mulino di Bologna, pubblicato su questo giornale lo scorso 18 marzo: lasciare al giudice, nel caso dei licenziamenti effettuati sia per regioni economiche che per motivi soggettivi, la scelta tra disporre la reintegrazione o l’indennizzo ove sia accertato il carattere non giustificato del licenziamento, in relazione alla natura del caso, alle dimensioni dell’impresa e al comportamento delle parti. Come si fa, appunto, nella Repubblica federale tedesca, dove esiste una disciplina seria e dove la coesione sociale ispira l’intero ordinamento giuridico e non è una parola buona per i comizi della domenica.
Siamo quindi a un punto molto delicato, da cui possono scaturire conseguenze sociali e politiche al momento non prevedibili. Di questo occorre che tutti i soggetti in campo, governo compreso, siano ben avvertiti. A cosa serve alimentare una divisione sociale e una guerra ideologica che non porterebbe da nessuna parte se non ad alimentare conflitti autodistruttivi?
Serve questo al rilancio del Paese? Può avere effetti positivi sul piano economico? Sicuramente no.
Per questo, dopo la scelta del governo di procedere senza alcun supplemento di discussione, auspichiamo che su queste norme inaccettabili ci sia l’intervento del Parlamento e che sia possibile arrivare a modifiche che impediscano che si crei nel Paese un drammatico problema sociale.

l’Unità 21.3.12
Il segretario della Cgil definisce «squilibrata» la proposta: dal governo nessuna mediazione
Oggi il direttivo «Ora mobilitazione». Bonanni soddisfatto. Angeletti: aspettiamo modifiche
I sindacati si dividono Camusso: norme contro i lavoratori
Camusso durissima: un riforma contro i lavoratori, una riforma squilibrata. Ma la conferenza stampa serale ha certificato la nuova spaccatura nel sindacato. Le parole di Bonanni confermano.
di Massimo Franchi


Faccia e completo scuro, Susanna Camusso ha atteso un’ora buona prima di poter parlare. Si presenta sola davanti ai giornalisti, senza avere al fianco gli altri leader sindacali, come nei tavoli precedenti. «Una riforma squilibrata, molto lontana dai suggerimenti che avevamo proposto insieme come sindacati», attacca subito. «I lavoratori sono gli unici che subiscono i provvedimenti del governo. È stato così con le pensioni, è così con la riforma del mercato del lavoro», continua. «All’articolo 18 viene tolto completamente la sua funzione deterrente verso i licenziamenti». In questo quadro la risposta della Cgil non potrà che essere «la mobilitazione» che sarà decisa questa mattina nel direttivo, già in programma a Corso Italia. L’accusa a Cisl, Uil e Ugl è precisa: «Qualcuno ha cambiato idea rispetto agli accordi presi fino a questa (ieri, ndr) mattina».
Dopo di lei parla Raffaele Bonanni, anche lui da solo. E le parole sono molto diverse. Parla di «risultato storico». «Sulla riforma siamo riusciti a tenere una logica. Abbiamo tenuto conto ha proseguito dell’appello di Napolitano e anche della richiesta di collaborazione del premier Monti. Siamo riusciti a tenere le linee guida che saranno completate nei prossimi giorni, abbiamo tenuto una logica», ha sottolineato. Sull’oggetto della rottura con la Cgil, l’articolo 18, sostiene che «gli era stata data troppa importanza». La riforma del lavoro che esce dal vertice con le parti sociali ha subito un cambiamento «molto forte» e Bonanni se ne prende il merito.
Quando Mario Monti in conferenza stampa pronuncia la frase «l’accertamento che abbiamo voluto condurre con scrupolo ci ha portato a concludere che tutte le parti sociali consentono all’articolo 18 nella formulazione nuova, a eccezione della Cgil, che ha manifestato una posizione negativa», i sindacati sono nella stanza attigua.
IL GELO FRA I SINDACATI
Appena viene riferito il contenuto delle parole del premier scende il gelo. Viene certificato, per interposta persona, l’isolamento della Cgil. Un isolamento che in realtà non era così evidente, viste le critiche al testo dell’articolo 18 da parte della Uil. Luigi Angeletti infatti al tavolo aveva espresso un giudizio critico rispetto alla riforma: «Per i licenziamenti economici, invece, avevamo chiesto che fosse delegata al giudice la possibilità di decidere tra indennizzo o reintegro: il testo che ci è stato letto non dice così. Noi chiediamo inoltre che l’impresa informi le rappresentanze sindacali delle ragioni per cui si dovrebbe procedere ad un licenziamento: spetta alle imprese provare che ci sono le condizioni oggettive e il giudice dovrà valutare sentendo anche le rappresentanze sindacali. Queste conclude sono alcune delle modifiche da apportare perché la Uil possa esprimere un giudizio sostanzialmente positivo». Giovanni Centrella, segretario generale dell’Ugl invece esprimeva un «giudizio sofferto» su un impianto di riforma «condivisibile».
Il gelo della Cgil era diventato poi rabbia quando Mario Monti «peggiora la situazione» specificando che sull’articolo 18 il testo è blindato e non si tratta più. Nemmeno nella riunione convocata per giovedì. E addirittura che «non credo che sarebbe stato possibile avere l’accordo della Cgil e delle altre parti». Come a dire che con il sindacato di Corso Italia sia impossibile arrivare ad un accordo.
Sono lunghi i minuti passati in attesa che Monti e Fornero finiscano di illustrare la «loro» riforma e a rispondere alle domande. Momenti di tensione che certificano la rottura di una unità che si era ricostruita in questi lunghi mesi, dall’accordo del 28 giugno scorso in avanti. Camusso, Bonanni ed Angeletti si scambiano poche parole. La decisione non viene neanche discussa: la conferenza stampa sarà fatta per la prima volta separatamente.
Oggi dunque il Direttivo della Cgil deciderà compatto le forme di mobilitazione. Una Cgil comunque poco convinta che Monti possa cambiare idea.

La Stampa 21.3.12
Si rompe l’unità sindacale Camusso: non potevo dire sì
La leader della Cgil: la proposta del governo era totalmente squilibrata
di Roberto Giovannini


Susanna Camusso è arrabbiata, certo; ma forse è soprattutto delusa. Perché la numero uno della Cgil, spiega lei, aveva creduto davvero alla possibilità di trattare. E si era spinta fino a mettere sul tavolo - sapendo che nella sua organizzazione sarebbe successo un cataclisma - la disponibilità ad accettare qualcosa che per la Cgil è più di un tabù: la libertà di licenziare per «ragioni economiche», ovvero una fattispecie davvero sconfinata, sia pure con delle limitazioni. Alla fine della trattativa, Mario Monti ha chiarito che questa non era una trattativa, ma una semplice «consultazione». E soprattutto, Camusso sostiene che mentre su tutti gli altri temi discussi si potevano inserire - e così è andata, quasi tutte nella direzione richiesta dalle imprese - modifiche e correzioni, solo su di un punto - l’articolo 18 - l’ipotesi di riforma del governo quella era e quella restava.
E così, ancora una volta la Cgil si trova da sola, unica tra tutte le parti sociali a non accettare una riforma che giornali, istituzioni, Quirinale, partiti giudicano positiva. O in ogni caso da approvare: per ragioni di merito, di opportunità politica, o «perché lo vogliono i mercati». Quando arriva il suo turno nella sala stampa di Palazzo Chigi, Camusso snocciola seccamente le ragioni del «no» della sua organizzazione. Quella sull’articolo 18 «è una proposta totalmente squilibrata», con modifiche dalle quali «l’effetto deterrente dell’art. 18 viene profondamente annullato». La riforma, nel suo complesso, contiene «qualche elemento positivo sulle forme d’ingresso», ma non «cancella la precarietà, quella che il ministro Fornero chiama flessibilità cattiva. È solo un primo passo». Ne consegue, intanto un giudizio durissimo sul governo Monti: «Tutte le volte che questo governo ha preso provvedimenti, dalla manovra alle liberalizzazioni, gli unici che subiscono le dirette conseguenze sono i lavoratori». E soprattutto, ne consegue la risposta: «Faremo tutto quello che serve per contrastare questa riforma». Deciderà già oggi le tappe di questa mobilitazione il Direttivo Cgil, con l’obiettivo di pesare sul dibattito parlamentare (ovvero sul Partito democratico). Si annuncia una stagione di tensioni sociali, chiedono? «Siamo nella stagione in cui dobbiamo decidere la mobilitazione. Ma posso dire che non sarà una cosa di breve periodo».
Sicuramente in questa protesta la Cgil non avrà al suo fianco Cisl e Uil. «C’è stato un intoppo» nell’unità sindacale, conferma Raffaele Bonanni, che ieri a Palazzo Chigi ha suggerito a Monti anche il metodo inedito del «verbale» al fine di «evitare rotture sindacali profonde». Bonanni dà un giudizio molto positivo della riforma Fornero: ci sono interventi «importanti di carattere universalistico», come la stretta sulla flessibilità in entrata e l’avvio dell’Aspi, il nuovo sussidio di disoccupazione. Quanto all’articolo 18, «siamo lontani dal punto di partenza del governo e della pretesa degli imprenditori», e la capacità di deterrenza di quella norma «rimane assolutamente integra». Insomma, partendo dall’accettazione della «richiesta di un clima di collaborazione da parte del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio», la Cisl afferma di aver «almeno influenzato le linee guida della riforma», che «sulle tipologie dei rapporti di lavoro, sugli ammortizzatori sociali fino ad arrivare alla flessibilità in uscita», ha subito un cambiamento di impostazione «molto forte».
Mario Monti dice che la Uil approva le nuove regole sui licenziamenti, ma il numero uno Luigi Angeletti almeno sulla carta spiega che «per dare un giudizio positivo» sull’impianto della riforma del mercato del lavoro «servono modifiche». La prima valutazione, afferma Angeletti, è che «ho apprezzato che sia stato scritto che in caso di licenziamento disciplinare senza giusta causa il giudice non possa fare altro che reintegrare il lavoratore». Per i licenziamenti economici, invece, la Uil aveva chiesto che fosse delegata al giudice la possibilità di decidere tra indennizzo o reintegro: «il testo che ci è stato letto non dice così. Noi chiediamo inoltre che l’impresa informi le rappresentanze sindacali delle ragioni per cui si dovrebbe procedere ad un licenziamento: spetta alle imprese provare che ci sono le condizioni oggettive e il giudice dovrà valutare sentendo anche le rappresentanze sindacali. Queste conclude Angeletti - sono alcune delle modifiche da apportare perché la Uil possa esprimere un giudizio sostanzialmente positivo».

l’Unità 21.3.12
Il Pd deluso per il mancato accordo: il governo ha messo i mercati davanti alla coesione sociale
Emendamenti I gruppi già al lavoro. Ma Letta sostiene: il nostro sì non sarà in discussione
Bersani critico con Monti: ora la parola al Parlamento
Delusione e allarme nel Pd dopo la conclusione del vertice fra il governo e le parti sociali. Bersani rinvia la partita al Parlamento: «Si è preferito guardare ai mercati invece che alla questione sociale»
di Simone Collini


«Il governo doveva cercare l’accordo fino all’ultimo, ma davvero. Non lo ha fatto. Per come ha condotto il confronto con le parti sociali si direbbe che si è preoccupato più dei mercati che della coesione sociale». A Pier Luigi Bersani non è piaciuto come è andato l’incontro tra Mario Monti, Elsa Fornero, sindacati e rappresentanti degli imprenditori.
Il leader del Pd scuote la testa all’idea che la riforma del mercato del lavoro si faccia senza un’intesa tra esecutivo e Cgil, Cisl, Uil. La nota che fa diffondere in serata non rispecchia il suo stato d’animo, ma fa capire le prossime mosse del Pd: «È chiaro che su quel che c’è di buono nell’impostazione del governo e su quel che c’è da migliorare e da correggere, a questo punto dovrà pronunciarsi seriamente il Parlamento».
Il Pd già ragiona sugli emendamenti al testo per rendere la riforma più condivisibile anche da parte delle parti sociali. E se venissero respinti? Al Nazareno non vogliono ragionare su secondarie. E il motivo non è difficile da comprendere. Il Pd sarebbe la forza parlamentare che più avrebbe da soffrire da uno scontro tra governo e sindacati. E la forza a più rischio lacerazioni, di fronte a una riforma osteggiata dalla Cgil. I segnali già si vedono. Se Bersani dice che dovrà pronunciarsi «seriamente» il Parlamento, il vicesegretario Enrico Letta già annuncia che a suo giudizio bisognerà sì lavorare «ancora fino alla fine per soluzioni più condivise», ma il voto favorevole del Pd «pur con tanti distinguo, non può essere in discussione».
È proprio così? A sentire Stefano Fassina non si direbbe. Il responsabile Economia del Pd ascolta in diretta la conferenza stampa di Monti e quando sente parlare di «accordo di tutti tranne che della Cgil» salta sulla sedia: «Mi sembra di risentire Sacconi!». Fassina, che è quello che insieme a Bersani ha tenuto i contatti tanto con Palazzo Chigi quanto con le parti sociali, dice che «il governo ha perso un’occasione importante per fare un accordo innovativo e pienamente condiviso». Il responsabile economico del Nazareno ricorda «l’enorme senso di responsabilità dimostrato dai sindacati di fronte alla riforma delle pensioni». E poi: «Il governo non ha avuto lo stesso senso di responsabilità nei confronti del Paese. È un danno per tutti i lavoratori e per le prospettive di sviluppo dell’Italia».
Aspetti positivi, nella riforma del governo, per il Pd ci sono: dal contratto di apprendistato come canale privilegiato per l’ingresso nel mondo del lavoro alla maggiorazione contributiva per i contratti a tempo determinato (il che disincentiverebbe le imprese dall’applicarli). Ma sia sulle modifiche all’articolo 18 che sull’esclusione per i precari dalla possibilità di usufruire di ammortizzatori sociali il giudizio è negativo.
C’ERA UN IMPEGNO PER L’ACCORDO
Che tiri una brutta aria al quartier generale del Pd si capisce quando prende il via l’incontro a Palazzo Chigi e trapela che Monti punta a un semplice «verbale» che registri le varie posizioni. Al Nazareno comincia a diffondersi l’allarme, che si fa più intenso quando il presidente del Consiglio, parlando di fronte alle telecamere al termine del confronto, insiste sulle modifiche all’articolo 18 e sul fatto che al tavolo c’era un consenso generalizzato, «a eccezione della Cgil». Ma perché insiste sull’articolo 18?, è la domanda che si fanno al Nazareno.
Bersani ricorda che al vertice con Alfano e Casini, l’altra settimana, Monti si era impegnato a cercare un accordo con le parti sociali: «E questo andava fatto». Il ragionamento che fa prima che prenda il via l’incontro a Palazzo Chigi è ancora improntato all’ottimismo: «Il governo ha tutti gli elementi per capire le distanze da colmare e trovare i possibili punti di caduta». Il leader del Pd riunisce la segreteria e tutti i segretari regionali al Nazareno: «In un momento delicato come questo, con un 2012 che sarà duramente segnato dalla recessione, la coesione sociale è un fattore determinante». Il sostegno a Monti non può venir meno, «ma non si può ignorare che c’è una questione sociale a cui far fronte, che già oggi è a un livello critico e che in futuro rischia di peggiorare gravemente». La riforma del mercato del lavoro deve essere il primo passo, a cui poi devono seguire investimenti e politiche per lo sviluppo e l’occupazione. Ma se si parte col piede sbagliato, la strada rischia di essere tutta in salita. Per questo ora l’attenzione è tutta concentrata sull’incontro di domani a Palazzo Chigi, definito «conclusivo» da Monti, e per questo Bersani insiste sul fatto che non serve uno «scalpo» da dare «ai famosi mercati» ma l’Italia «deve dare al mondo il messaggio che sta affrontando le riforme e come nei suoi momenti più difficili riesce a costruire una coesione sociale».

Corriere della Sera 21.3.12
Gelo di Bersani sull'esecutivo «I patti non erano questi»
Pd costretto a dire sì. Il leader teme le tensioni sociali e lo strappo con la Cgil
di Maria Teresa Meli


ROMA — Al Pd lo hanno battezzato il «disaccordo concordato». E ai più anziani tra i dirigenti del partito ha ricordato un termine del politichese del tempo che fu: le convergenze parallele. Tradotto, significa che a Largo del Nazareno sperano di gestire senza strappi, rotture e polemiche con la Cgil questa vicenda della riforma del lavoro.
Non sarà facile. Quando il provvedimento arriverà in aula il Pd sarà costretto a dire il suo sì, anche di fronte al no di Camusso. «Il nostro voto favorevole, pur con tanti distinguo, non può essere in discussione», sottolinea infatti Enrico Letta. Bersani, che in serata parla con la leader della Cgil, preferisce non essere così esplicito. È fortemente irritato con il governo: «Non ha cercato con convinzione l'accordo. I patti non erano questi, i patti erano che si sarebbe tentata l'intesa in tutti i modi», è il suo rimprovero.
Quello che più temono in questo momento i vertici del Pd è lo scoppio di focolai di tensione sociale. Il segretario è stato chiaro con i suoi: «Prepariamoci, perché adesso si apre una fase non facile. La questione sociale esiste e potrebbe aggravarsi nei prossimi mesi. Chi protesta, chi non ce la fa più a fare sacrifici va ascoltato». A questo proposito si mostra preoccupato anche Stefano Fassina: «Il governo rifiutando le aperture fatte dalla segreteria della Cgil alimenta una tensione sociale che non fa bene a nessuno. Quando parlava dell'articolo 18 in conferenza stampa Monti sembrava Sacconi».
Sul merito del provvedimento, come era prevedibile, nel Pd ci sono reazioni diverse. Beppe Fioroni non ha dubbi: «Credo che sia stata trovata, sia nel metodo che nel contenuto, una soluzione importante. Si incentiva il lavoro a tempo indeterminato, vengono rafforzati gli ammortizzatori sociali, l'articolo 18 resta con una significativa manutenzione. Nella riunione, altro fattore degno di nota, si è registrata l'unità su tanti punti. Adesso nessuno faccia saltare il banco». Di tutt'altro tenore le osservazioni di Fassina: «Da quello che si può capire finora ci sono dei punti positivi, ma anche molti buchi, per esempio per quel che riguarda gli ammortizzatori sociali. La parte che riguarda l'articolo 18 non va bene perché lo svuota completamente». Secondo il responsabile economico infatti va introdotto il sistema tedesco nel senso pieno del termine, ossia affidando sempre al giudice la decisione, anche nel caso dei licenziamenti economici. La pensa nello stesso modo Cesare Damiano: «Il modello tedesco, al quale si fa spesso riferimento, prevede nel caso di licenziamento per motivi economici senza giusta causa di lasciare al giudice la possibilità di scegliere tra reintegrazione e risarcimenti».
La linea ufficiale del Pd sull'articolo 18 è questa. E pubblicamente Bersani dice: «Su questa riforma dovrà pronunciarsi il Parlamento». Come a dire che è pronto a chiedere delle modifiche: «Prenderemo le nostre iniziative», assicura Fassina. Ma Bersani sa bene che non si faranno altri passi avanti nella ricerca di un'intesa con la Cgil. Inevitabilmente, le strade del Pd e quelle del sindacato di Camusso si divideranno. E a largo del Nazareno, nonostante le dichiarazioni contrarie, ci si prepara già ad affrontare l'eventuale richiesta del governo di inserire la riforma in un decreto.

Repubblica 21.3.12
"Monti ha rotto il tavolo, ora rischi per tutti"
L’ira di Bersani: imporremo modifiche. Filo-premier soddisfatti, il Pd si spacca
"Se il governo accetta veti sulla Rai, ne dovrà accettare anche su questa materia"
L’insofferenza del segretario verso i dirigenti che tifano per lo strappo con la Cgil
di Goffredo De Marchis


ROMA - Furibondo e deluso. «Il governo ha condotto male il confronto. E non capisco tutta questa fretta. Per un viaggio in Cina?». Chiuso nella sua stanza a Largo del Nazareno, Pier Luigi Bersani segue in tv la conferenza stampa di Mario Monti e Elsa Fornero. Sembra quasi parlare direttamente con il premier e il ministro del Lavoro. «Rompendo il tavolo, il presidente del Consiglio si è mosso non calcolando le conseguenze per il Paese, non per il sindacato, non per la Cgil». Aleggia l´accusa di di «irresponsabilità del premier» nella sede del Pd. In cima ai pensieri del segretario c´è una riforma non condivisa, l´intervento pesante sull´articolo 18. Ma anche gli effetti devastanti che avrà il nuovo mercato del lavoro sul Partito democratico. Il Pd rischia di spaccarsi? «Certo», è la risposta secca del vicesegretario Enrico Letta.
A questo punto, decreto o legge delega, cambia davvero poco per i democratici. La resa dei conti comincia subito. Bersani punta sulle modifiche in Parlamento. Con una certa irritazione si lascia sfuggire che «se il governo accetta veti sulla Rai e modifica le liberalizzazioni alle Camere, accetterà anche interventi su un provvedimento molto più serio, molto più delicato». Ma nel suo partito i filo-Monti hanno già indossato l´elmetto. «Il provvedimento del governo sarà comunque blindato», dice Paolo Gentiloni senza nascondere la sua soddisfazione. Per molti versi sugli ammortizzatori e sulla flessibilità in uscita Fornero è andata oltre Pietro Ichino, il vate della componente "riformista" del Pd: Apsi ridotta a un anno e modello tedesco, sui licenziamenti economici, che va a farsi benedire. «Ma noi non abbiamo alternative. Proveremo a cambiare, faremo le nostre proposte. Ma la strada è questa e il Pd non può tirarsi indietro». Oggi no, ma domani sì. Con una lunga agonia di partecipazioni a cortei a titolo individuale, di interviste, di minacce e di scissioni sempre annunciate. Un quadro drammatico per il segretario che dovrà cercare di tenere tutto insieme quello che insieme non è. «Circoscrivere le differenze per provare a colmarle. È la frase che ho sentito dire a Bersani - ricorda Gentiloni -. Io credo che possa farcela».
La mossa del verbale era apparsa a molti, andreottianamente, una sottile via d´uscita offerta a Monti per il sindacato e soprattutto per il partiti. Il Pd, in particolare, che si trova a dover combattere sul territorio la partita delle amministrative con due oppositori di Palazzo Chigi, Vendola e Di Pietro. Le parole di Monti in conferenza stampa hanno invece sancito, di fatto, la firma di un «accordo separato», non diverso da quelli sempre inseguiti da Berlusconi e Sacconi per piantare la loro bandierina anti-Cgil. Così il premier ha messo ancora più in difficoltà Bersani. Che adesso rischia l´isolamento nella maggioranza con Pdl e Udc, la spaccatura nel partito e sa bene di non poter contare sull´appoggio di Giorgio Napolitano. Anzi. Il presidente della Repubblica terrà fede al patto istituzionale stretto con Monti. Non offrirà sponde. Tanto più che la riforma del mercato del lavoro è materia principe del programma di emergenza.
Bersani è dunque davanti alla partita della vita. Lo è anche il Partito democratico, che si gioca la sopravvivenza. L´appuntamento è il voto in aula. Letta aiuterà il segretario a mediare. Ma cresce l´insofferenza per gli atteggiamenti di Fassina, per la scelta che secondo Francesco Boccia il partito è chiamato a compiere una volta per tutte: «Spezzare il cordone ombelicale con la Cgil, regolare i conti con il sindacato». E con i suoi voti per andare in mare aperto, alla ricerca di nuovi consensi, di altre identità. Il Parlamento è sovrano, dice Bersani. Ma nelle sue poche righe di dichiarazione ufficiale, segno di un brutto momento, non c´è quella frase magica pronunciata sulla Rai: «Non farà cadere il governo per questo». Cesare Damiano, ex sindacalista, oggi deputato democratico, non crede nemmeno un po´ che la Cgil torni indietro. O che lo faccia il governo: «È dura. Cominceranno veti incrociati e nessuno riuscirà a trovare il bandolo». E allora come voterà il Pd in Parlamento? Prima della battaglia, dei vertici, delle trattative politiche, oggi esistono due Pd. Che non si nascondono, che non fanno finta di andare d´accordo. Che sono consapevoli di un passaggio vitale. E che solo Bersani può rimettere insieme. Senza pensare alle foto di Vasto, alla grande coalizione, al dopo Monti. Ma solo a se stessi, al futuro dei democratici.

il Fatto 21.3.12
A Monti serviva lo strappo ma il Pd voterà tutto comunque
di Stefano Feltri


La cravatta rossa, anzichè il classico blu bocconiano, alla fine è l’unica vera concessione di Mario Monti alla Cgil. Il lungo negoziato sul lavoro si è chiuso ieri lasciando sul campo molte vittime. Le prime, un po’ a sorpresa, sono le ambizioni iniziali del governo.
FLASHBACK: novembre 2011, Monti è appena arrivato a palazzo Chigi. Pietro Ichino, senatore del Pd, gongola nei corridoi del Senato perché il premier, nel suo discorso di insediamento, ha fatto suoi i principi della riforma che il giuslavorista predica da anni. I nuovi assunti devono essere tutti a tempo indeterminato ma licenzia-bili con facilità, accompagnati nelle fasi transitorie da sussidi pagati dalle imprese. Per questo bisogna superare il tabù dell’articolo 18, che finora aveva paralizzato tutte le riforme. “La riforma del lavoro arriverà entro la fine di marzo e ci ispireremo al modello della flexsecurity adottato nei paesi del Nord Europa”, dice il premier nella famosa puntata di Matrix sulla monotonia del posto fisso.
Marzo 2012: alla vigilia del viaggio (auto) promozionale in Asia, per vendere Btp e attirare investimenti, Monti ha bisogno di un successo. Il modello Ichino è stato archiviato da quel pezzo, le imprese non vogliono farsi carico di maggiori oneri per gli ammortizzatori, il ministro Elsa Fornero ha capito subito (ma dopo un paio di improvvide dichiarazioni) che non ci sono soldi per il reddito di cittadinanza. E allora bisogna ridimensionare le ambizioni, tutti i partecipanti al negoziato sanno che non ci sono le condizioni per una rivoluzione, per scardinare l’ “aprtheid” tra garantiti e non garantiti. L’obiettivo cambia in corsa, si punta all’immagine: il 7 febbraio il più filogovernativo dei giornali, la Repubblica, cita imprecisate stime governative secondo cui lo scalpo dell’articolo 18 vale 200 punti di spread. La riforma diventa più un messaggio per i mercati che un intervento profondo, la riforma degli ammortizzatori va rinviata e annacquata perché costa troppo (nessuno ha ancora spiegato da dove arriveranno i 2 miliardi che servono per gli interventi minimi).
AI MERCATI non piacciono i compromessi al ribasso, se lo scopo è dimostrare che si fa sul serio, meglio accompagnare la riforma con le proteste della Cgil. E infatti Susanna Camusso, in conferenza stampa, annuncia: “Siamo nella stagione in cui dobbiamo decidere la mobilitazione” .
Ma anche questa linea minima-lista, per Monti comportava dei rischi: il Pd, con Pier Luigi Bersani, aveva detto in tutti i modi che per i democratici sarebbe un problema votare una riforma non condivisa dall Cgil. “Se fallisce il tavolo, liberi tutti”, ha bluffato. Monti non gli ha creduto. E ha architettato uno stratagemma per non umiliare il segretario del Pd: la riforma non è un testo sotto cui i sindacati devono mettere la firma, ma una raccolta di pareri, una proposta da sottoporre al Parlamento che è sovrano e decide. Niente testo, niente strappo.
E adesso il Partito democratico che fa? Discute alla Camera una riforma contro cui la Camusso scende in piazza? Fulmineo il supermontiano Enrico Letta, vicesegretario del Pd, dichiara alle agenzie: “Lavoreremo ancora fino alla fine per soluzioni più condivise, ma il nostro voto favorevole, pur con tanti distinguo, non può essere messo in discussione”. I democratici ingoieranno anche questa. Interviene anche Bersani che commenta anodino: “É chiaro che su quel che c'è di buono nell’impostazione del governo e su quel che c'è da migliorare e da correggere, a questo punto dovrà pronunciarsi seriamente il Parlamento”. Non chiarisce la linea del suo partito, per quello ci sarà tempo, in fondo ci sono abbastanza novità positive sul precariato, gli stage e le finte partite Iva da permettere al Pd di difendere la riforma.
CERTO, SARÀ piuttosto complesso spiegare agli elettori del Pd che la riforma è accettabile, con la Cgil che riempie Roma, magari con uno sciopero generale, con la Camusso che si trova costretta a lottare a fianco della Fiom di Maurizio Landini e dei movimenti, con Emma Marcegaglia e la Confindustria soddisfatta. Il Pdl esulta, in silenzio, sapendo che ora l’esito delle elezioni amministrative di maggio è un po’ meno scontato. Lo aveva detto Angelino Alfano: “Le nostre tre priorità sono lavoro, lavoro, lavoro”. Non era diventato di sinistra, spiegava solo che da questa riforma può dipendere la crisi dei suoi avversari.

La Stampa 21.3.12
Fassina, responsabile economia del Pd
«Buchi e passi indietro questo non è sviluppo»
«Chi vorrà liberarsi di un lavoratore dirà che è per ragioni economiche»
di Francesca Schianchi


Qualche «passo avanti significativo», ma soprattutto «buchi e passi indietro» in un testo imperniato su una linea «che continua a considerare l’arretramento delle condizioni di lavoro come un fattore di sviluppo: cosa che ci porterà in condizioni sempre più difficili». E’ critico il giudizio di Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, sulla proposta di riforma del governo.
Quali sono i passi avanti?
«La valorizzazione dei contratti di apprendistato. Il disincentivo di quelli a tempo determinato. Bisognerà poi valutare nel testo finale la reale efficacia dei vincoli posti alle false partite Iva e ai contratti intermittenti. Il fatto però è che ci sono buchi molto grandi».
Quali?
«Intanto, l’obiettivo della riforma era introdurre ammortizzatori sociali universali, e invece per contratti a progetto e altre forme contrattuali non cambia nulla. E poi la genericità dei punti sulle politiche attive per il lavoro».
L’articolo 18?
«E’ stato fatto un passo indietro molto ampio. Tutti i datori di lavoro che vorranno liberarsi di un lavoratore diranno che è per ragioni economiche, e sarà complicatissimo per il lavoratore dimostrare che si tratta invece di un licenziamento discriminatorio. E trovo che sia uno specchietto per le allodole estenderlo per ragioni discriminatorie alle piccole imprese».
Ma per il governo il discorso è chiuso. Che farà il Pd in Parlamento?
«Valuterà nel merito e presenterà emendamenti per migliorare il testo».
Ma se i miglioramenti non dovessero arrivare?...
«Noi lavoriamo per evitare i problemi e auspichiamo che il governo ascolti le forze politiche che lo sostengono».
Sul lavoro però non siete tutti d’accordo: la sua linea non è quella di Ichino... Non c’è rischio spaccatura?
«Ricordo che a tutto il Pd sta a cuore la lotta alla precarietà. Possiamo fare una discussione di merito e trovare una posizione larghissimamente condivisa ».
La Cgil ha espresso il suo «dissenso» sull’art. 18. Che ne dice della soluzione trovata dal governo di procedere con un verbale?
«Non ne capisco il senso, visto che i protagonisti del confronto comunicano regolarmente col resto del mondo. Mi pare una procedura bizantina per sottolineare una capacità di ascolto che non c’è stata fino in fondo».
Monti dice che l’interlocutore del governo è il Parlamento...

Repubblica 21.3.12
Fassina, responsabile Lavoro: buchi enormi nelle tutele
“L’articolo 18 è stato svuotato sembrava di sentire Sacconi"


ROMA - Fassina, il Pd come vede questo accordo?
«Accordo? Non è un accordo. Non mi pare che ci sia un accordo».
È un accordo senza la Cgil.
«Quando Monti in conferenza stampa ha parlato di accordo di tutti, tranne che della Cgil, mi è parso di risentire Sacconi. Inoltre anche Angeletti, il segretario della Uil, sostiene siano necessarie modifiche. E neppure Bonanni, cioè la Cisl, era entusiasta della parte relativa all´articolo 18».
Lei è molto critico.
«Il governo ha scelto di registrare le posizione delle parti sociali, che sono differenziate. Noi, Pd, insistiamo affinché nel tempo che rimane a disposizione prima di inviare i testi in Parlamento si faccia un ulteriore sforzo perché si cambi».
I Democratici cosa faranno in Parlamento?
«Il Pd valuterà autonomamente il merito. E proporremo i nostri emendamenti. Ci sono punti positivi che vanno sottolineati, e ci sono dei buchi enormi. Un intervento nato per dare a tutti gli ammortizzatori sociali continua a lasciare collaboratori e contrattisti a progetto senza tutele. E poi non va la strada scelta per l´articolo 18, così è uno svuotamento».
Qual è il limite per il Pd?
«Questa riscrittura dell´articolo 18 non va bene, perché rischia di rimanere un guscio vuoto con un notevole allargamento delle possibilità di licenziamento. Non a caso in Germania ci sono le stesse tipologie di sanzioni per la causa economica e quella discriminatoria».
(g. c.)

Repubblica 21.3.12
Fioroni, responsabile Welfare: la Cgil moderi il dissenso
"Questa è una riforma seria e noi dobbiamo appoggiarla"


ROMA - «Un lavoro importante, sia nel metodo che nella sostanza». Giuseppe Fioroni, coordinatore della consulta sul Welfare del Pd, è soddisfatto.
Il maggior sindacato italiano dice no sull´articolo 18. Che ne pensa?
«Guardiamo alla sostanza. Si favorisce in modo forte l´accesso al lavoro con il tempo indeterminato e con percorsi semplificati, si potenziano gli ammortizzatori sociali che in un periodo di crisi danno sicurezza e certezze, ci sono norme forti contro la flessibilità cattiva, quella utile solo a risparmiare sulla pelle dei giovani».
E la flessibilità in uscita?
«L´articolo 18 resta, nonostante le iperboliche dichiarazioni ascoltate fin qui, come chi voleva che non valesse per i nuovi assunti. Se ne fa una manutenzione seria che secondo me può essere utile».
Il metodo del "verbale" la convince?
«È una formula intelligente perché denota la volontà del governo di valorizzare ciò che accomuna senza dividere, lasciando la porta aperta a un percorso di progressiva unità. Poi, ognuno si prenderà la responsabilità di quel che verbalizza».
Sta con il governo o con la Cgil?
«Mi auguro che il governo sappia fare tesoro di questo buon lavoro tenendo la barra dritta. E spero che la Cgil non voglia esprimere dissensi apodittici. Certo è che se il governo presenterà un testo conforme ai principi finora largamente condivisi, il Pd non potrà che sostenerlo».
(a.cuz.)

Corriere della Sera 21.3.12
I veti fuori dal tempo
di Dario Di Vico


Verbalizzare al posto di concertare. Con la richiesta del premier Mario Monti di mettere fine alle lungaggini del confronto con le parti sociali e di scrivere nero su bianco le obiezioni avanzate al testo governativo è finito un lungo ciclo della storia socio-politica dell'Italia. La concertazione, che pure non dimentichiamo era stata definita come «la nostra Costituzione materiale», ieri è andata in pensione. Davanti all'incapacità del sindacato di presentarsi a Palazzo Chigi con una proposta credibile, una piattaforma capace di delineare un nuovo tipo di scambio all'altezza delle sfide che si devono affrontare in un'economia integrata, il governo Monti alla fine ha tirato dritto. Si è richiamato in un crescendo prima alle ragioni dei non garantiti, poi ha messo in guardia da ulteriori esercizi del potere di veto, infine ha riaffermato il potere del Parlamento. Toccherà ai politologi spiegare il paradosso di un governo tecnico che, accusato di aver confiscato le prerogative della politica, le riconsegna invece lo scettro nell'ora delle decisioni difficili.
Per quanto a un primo superficiale esame quello raggiunto sull'articolo 18 possa sembrare un ennesimo accordo separato (senza la Cgil), la novità è più profonda e solo l'abilità tattica di Luigi Angeletti e Raffaele Bonanni l'ha in parte mascherata. Se infatti la Cgil può pensare di rispondere alla crisi della concertazione con un (illusorio) ricorso al movimentismo, Cisl e Uil dovranno per forza avviare una riflessione di carattere strategico. Ben venga e speriamo che coinvolga tutti i corpi intermedi. La democrazia italiana, nella versione universalistica e anti-consociativa che ieri ci hanno proposto il premier Monti e il ministro Fornero, deve azzerare le rendite del veto ma ha bisogno comunque di una rappresentanza responsabile, capace di essere classe dirigente «dal basso».
La riforma Fornero per come si è delineata ed è stata esposta è solo una prima rata. L'obiettivo è ambizioso: superare il dualismo del mercato del lavoro e costruire un welfare dinamico e non meramente risarcitorio. Di fronte alla gravità della recessione un governo «normale» avrebbe aspettato tempi migliori, ma l'Italia dell'incubo-spread non può permetterselo. E di conseguenza ha iniziato ad affrontare alcune delle contraddizioni più evidenti quali lo straripante numero dei precari, l'abnorme crescita del numero delle partite Iva, l'assenza di un moderno sistema di ammortizzatori sociali e la presenza, invece, di una normativa ipergarantista sulla flessibilità in uscita. Lo scambio vincente in assoluto sarebbe stato «più lavoro per nuove regole», ma come è purtroppo ormai assodato la crescita non si fa per decreto e quindi, volenti o nolenti, siamo costretti a lavorare oggi per crearne le condizioni domani. Il governo, però, giunto a questo punto ha un obbligo quasi morale: la stessa determinazione che ha messo in campo nella fase uno deve replicarla nell'auspicata fase due.

Corriere della Sera 21.3.12
L'esito ambiguo di una trattativa con troppi paletti
di Massimo Franco


N on c'è rottura, né accordo. La fotografia della trattativa sulla riforma del mercato del lavoro consegna un ambiguo compromesso che in teoria lascia aperta la possibilità di un'intesa fino a domani. Ma di fatto, vede per il momento vincenti quanti, fra le parti sociali ma anche nel governo dei tecnici, preferiscono affidare al Parlamento la soluzione di una sfida difficile. L'appello col quale martedì il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, invitava a far prevalere l'interesse generale, esprimeva dunque un timore e un tentativo reali: il timore che non tutti fossero pronti a spendersi fino allo spasimo per mediare, concedere e dire «sì»; e il tentativo di spezzare una logica che portava diritto al risultato di ieri.
Gli ultimi margini si sono consumati ieri mattina, nell'ennesimo incontro informale fra il premier Mario Monti e prima i segretari di Cgil, Cisl e Uil, poi i vertici di Confindustria. Lì si è capito che l'ostacolo dell'articolo 18, per come il ministro del Welfare, Elsa Fornero l'aveva riformulato, era insormontabile per la Cgil; ma anche che il governo non era disposto a fare concessioni al sindacato di Susanna Camusso: quel punto era troppo importante.
Anche e soprattutto simbolicamente. Il mancato consenso della Cgil «ovviamente mi dispiace e mi preoccupa», ha detto Monti. Con un'aggiunta significativa: «Non so se sarebbe stato possibile, avendo il consenso della Cgil, avere quello delle altre parti. Non lo credo». Su questo sfondo, è difficile dire se per Palazzo Chigi quanto è avvenuto sia vissuto come una sconfitta o qualcosa di quasi inevitabile. Idem per sindacato e imprese.
Il capo del governo che affida a un verbale «le posizioni di accordo e disaccordo», additando il Parlamento come «interlocutore principale», ottiene due risultati. Il primo è di procedere con la riforma che si è prefisso e che le istituzioni europee gli chiedono. Il secondo è di essere libero di proporla agli alleati, con le parti sociali altrettanto libere di criticarla perché non l'hanno sottoscritta: almeno finora. Eppure, dopo gli appelli di Napolitano, reiterati ieri dallo stesso Monti, a lasciare da parte interessi di parte, viene il sospetto di un'occasione mancata.
Il ministro Fornero conferma che il testo non si cambierà più dopo il 23 marzo. E a qualcuno viene il dubbio che se la trattativa fosse stata impostata in modo meno ultimativo, forse le «rigidità contrapposte», che tutti dicevano di voler combattere, non avrebbero prevalso. Ma bisognava evitare paralisi decisionale e veti, anche se un dubbio fastidioso continua a insinuarsi dal giorno del lunghissimo vertice notturno fra Monti e i segretari di Pdl, Pd e Udc: quello di un gioco delle parti il cui esito non sarà stato voluto né cercato, ma certo messo in preventivo fin dall'inizio.

La Stampa 21.3.12
“L’odio per Israele riaccende l’antico antisemitismo”
L’etnologo Augé: solo razzismo, non c’è cultura
di Mario Baudino


È presto per poter capire quel che è successo a Tolosa, però una cosa è certa: l’antisemitismo, in Francia, è una corrente di certo minoritaria, ma forte, soprattutto nell’area dell’estrema destra. Detto questo, non penso che si possa parlare di antisemitismo virulento». Marc Augé, il padre della teoria dei «non luoghi», non commenta volentieri la tragedia della scuola ebraica perché, dice, è troppo presto.
Eppure, professore, è difficile non pensare a questa strage come un punto d’arrivo, un salto di qualità dopo anni di attentati, violenze contro cimiteri israelitici e scuole. Nel 2004 Ariel Sharon, allora premier israeliano, invitò gli ebrei francesi a emigrare in Israele.
«Bisogna distinguere dall’impatto delle crisi internazionali, che è stato forte, e la tradizione antisemita francese, che pure è innegabile. Esiste un clima di violenza generalizzata, dove si incrocia il razzismo antiebraico, quello antiarabo o antimusulmano, quello contro gli immigrati di qualsiasi provenienza. Per quanto riguarda Tolosa, però, va sottolineato come tutti abbiamo percepito l’orrore. Persino Marine Le Pen, l’attuale leader del Front National che ha forti componenti razziste e antisemite, ha aderito alla giornata di lutto».
Non crede che l’assalto alla scuola discenda dalla stessa tradizione del processo Dreyfus?
«Al momento ci sono ancora interrogativi sulla provenienza ideologica. L’attentato potrebbe venire anche da islamisti radicali, posto che il killer sembrerebbe lo stesso che ha ucciso tre paracadutisti di origine maghrebina, e si può immaginare che nel suo delirio metta insieme per qualche ragione parà e bambini ebrei».
Quindi da un nuovo antisemitismo, e non da quello che attraversa la storia francese?
«In Francia non si può negare questa componente. È una Paese d’accoglienza, dove i cittadini di origine ebraica sono tanti, e hanno raggiunto posti importanti, pensi a Dominique Strauss Kahn. Da Leon Blum in poi, abbiamo una grande tradizione di politici ebrei. Se guardiamo alla mia generazione, però, moltissimi non facevano proprio caso alla loro origine. Solo dopo le vicende mediorientali la situazione è cambiata. Diciamo che si rischia di confondere i piani. Esistono, oggi, varie forme di C’è un clima di violenza Tutti però hanno percepito generalizzata che mescola l’orrore. Persino Marine razzismo antiebraico Le Pen ha aderito antiarabo, anti-immigrati alla giornata di lutto rifiuto collettivo, in un Paese che smo vede una continuità con questo il vero problema». storicamente è stato ed è ancora quello del cattolicesimo me- Lei dice giustamente che non di immigrazione. Poi c’è l’antise- dioevale? si possono far paragoni tra mitismo, che è più antico». «Non direi. Quando c’è, è razzi- Francia e Italia. Il nostro antiseProprio a Tolosa si celebrò fi- sta e basta, senza venature reli- mitismo storico è cialtrone e no a metà del XII secolo una ce- giose. È una forma “pura” di raz- incolto. Quello francese ha rimonia pasquale che consiste- zismo. Ripeto, è molto minorita- prodotto anche intellettuali va nel dileggiare e malmenare rio, però esiste eccome. In mez- importanti, come Céline. È membri della comunità ebrai- zo ci sarà anche qualche fonda- una antisemitismo elitario, o ca. Quando parla di antisemiti- mentalista cattolico, ma non è anche popolare?
«Né l’uno né l’altro. Ormai è piuttosto politico, fatto di gente che confonde antisionismo e antisemitismo. La tradizione cui lei fa riferimento esiste, ma oggi non ci sono persone con un profilo intellettuale che siano ad essa riconducibili. È forte nell’estrema destra, come le dicevo: che sotto sotto ha più simpatia per l’Iran che per Israele».
Non vale anche per l’estrema sinistra?
«Sì. Le estreme si equivalgono quanto a ambiguità».
Lei però non sembra considerare la componente antisemita, nella violenza generalizzata, come la più importante.
«Infatti non credo che lo sia. Ce ne sono altre, in forme diverse».
Potremmo definirla un «non luogo» sociale?
«O piuttosto una moltiplicazione di luoghi mal compresi. Esistono nelle società luoghi di identità collettiva, e sono importanti a due condizioni: che non opprimano i loro componenti, e non rifiutino gli altri. In questo caso abbiamo un problema di luoghi, più che di non-luoghi. Un problema grave».




l’Unità 21.3.12
«Complici di Israele» e intellettuali ebrei:
nuove liste nere sul web
Sul sito di estrema destra «Holywar» 163 professori universitari di tutta Italia Elenchi di giornalisti e politici. In più la mappa dei cognomi di 1650 famiglie
di Massimo Solani


Dopo quella delle scuole ebraiche e dei centri di cultura pubblicata dal sito neonazista “Stormfront Italia”, adesso tocca alla lista dei “sayanim”. Ossia delle persone «liete di servire Israele, pur vivendo in uno Stato diverso da quello ebraico»: un lungo elenco comprendente i nomi di 163 professori universitari di 26 atenei italiani e stranieri che «collaborano con l’intelligence israeliana» e che sono «da considerare persone molto pericolose». La lista dei nomi è stata pubblicata dal sito Holywar.com, uno spazio web norvegese di ispirazione cattolico-oltranzista e antisemita che ospita però anche le pagine in lingua riferibili a diversi paesi Italia compresa, e comprende filosofi, storici, letterati, economisti e giuristi, molti dei quali noti anche al grande pubblico. «Naturalmente, non è sicuro che tutti coloro i quali vedete nella lista siano sayanim si legge ma su di essi grava un ragionevole sospetto, visto che hanno collaborato attivamente con la lobby che ci ha infeudato».
In fondo all’elenco, poi, una seconda lista di «complici volonterosi dell’antisemita (perché ferocemente anti-araba) Fiamma Nirenstein (giornalista e deputata Pdl, di orgini ebraiche ndr). Questi signori vogliono mettere il bavaglio ad Internet». Cinquantuno nomi di giornalisti (da Paolo Mieli a Giuliano Ferrara, da Carlo Panella a Peppino Caldarola), intellettuali, professori accademici e deputati in cui compaiono anche quelli di Riccardo Pacifici, presidente Comunità Ebraica di Roma, e di Leone Paserman, presidente della fondazione Museo della Shoah di Roma.
Ma non è tutto, perché navigando nella sezione italiana di Holywar. com ci si imbatte persino in una pagina (in lingua inglese) dove compare un elenco di 1.650 cognomi di famiglie italiane di origine ebraica. I cognomi sono raggruppati sia in ordine alfabetico che in base alla provincia dove sono più diffusi. I patronimici, definiti «i cognomi degli ebrei e dei falsi convertiti», sono raccolti in liste diverse per ciascuna delle zone ritenute a maggiore diffusione. In particolare, nella sezione del sito denominata «il problema della sinagoga di Satana», si trova l’elenco delle famiglie di origine ebraica di Roma, Firenze, Pitigliano (Grosseto), Pisa, Livorno e Genova.
Da Stormfront a Holywar si conferma così che l’antisemitismo, negli ultimi anni, ha trovato nella Rete un potente strumento di amplificazione e propaganda. Un allarme noto alle forze dell’ordine visto che già nel 2009 il ministero dell’Interno aveva scoperto e monitorato ben 1200 siti e gruppi di discussione di natura razzista, il 50% in più rispetto all’anno precedente. Un settore su cui lavora da tempo anche l’Osservatorio del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec). «L’antisemitismo in Italia vive e si alimenta principalmente nel cyberspazio scrivono infatti Betti Guetta e Stefano Gatti nel loro ultimo lavoro per lo Stephen Roth Institute dell’università di Tel-Aviv Il sempre maggiore utilizzo di Internet ha trasferito ed amplificato a dismisura quanto prima si evidenziava con graffiti sui muri delle città o in certe pubblicazioni di nicchia. È stato soprattutto l’avvento e lo sviluppo dei social networks (Facebook, Twitter,YouTube, ecc) che ha determinato la grande diffusione dell’antisemitismo in Rete. È difficile quantificare il numero di contatti, ossia quante persone entrano in relazione con questi contenuti online ma talvolta è possibile, come nel caso del gruppo Facebook “Umorismo sottile come un deportato”, istituito il 14 ottobre 2011 e che alla fine di novembre contava oltre 30mila sostenitori».
«Non so cos’altro debba accadere in Europa o in Italia perchè ci si renda conto che ci sono in questo Paese persone e luoghi che creano un clima di odio verso gli ebrei e l’antisemitismo commentava ieri Emanuele Fiano, il responsabile sicurezza del Pd che ha portato in aula il caso della lista pubblicata da l’Unità Insistiamo perché il ministro dell’Interno tenga sotto stretta osservazione questo sito per verificare se esistono i presupposti per chiuderlo in base alla legge Mancino». Il sito Stormfront, tra l’altro, proprio in questi giorni ha lanciato una durissima offensiva contro il Pd e la sua iniziativa per la cittadinanza ai bambini stranieri nati in Italia. «Una squallida provocazione commentava ieri il ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione, Andrea Riccardi Occorre maggior impegno da impegno da parte di tutti per isolare questi deliranti e pericolosi predicatori di odio». Riccardi, poi, ha chiesto una nuova legge internazionale per bloccare sul web i fenomeni di razzismo e antisemitismo.

Corriere della Sera 21.3.12
«Qualcosa di malvagio agita gli animi del mondo»
Elie Wiesel: l'assassino si può forse chiamare uomo?
di Alessandra Farkas


NEW YORK — «Dopo la guerra credevo di non dover mai più assistere al massacro di bambini ebrei, uccisi soltanto in quanto ebrei. Mi sono sbagliato: qualcosa di terribilmente malvagio continua ad agitare gli animi di questo nostro mondo».
Elie Wiesel, il grande scrittore sopravvissuto ad Auschwitz e Premio Nobel per la pace nel 1986, ha la voce rotta dalla commozione mentre cerca di dare un senso a un'altra tragedia che lo rituffa indietro nel passato. A quella notte senza luna del 1944 — immortalata nel suo capolavoro La Notte (Giuntina) — quando arrivò nel campo di Auschwitz per diventare un numero tatuato sul braccio, A-7713, e da cui tornerà orfano. «È stato l'ennesimo tuffo al cuore», spiega al Corriere l'84enne Wiesel.
Abbiamo collettivamente trascurato i segnali che avrebbero potuto aiutarci a prevenire l'eccidio di Tolosa? E se sì, di chi è la colpa?
«Non sono un esperto di intelligence e non posso sapere quale tipo di informazione avevano ricevuto i servizi segreti francesi. Però questa strage doveva e poteva essere evitata».
In che modo?
«Un tempo i servizi di sicurezza israeliani proteggevano i cittadini ebrei e le istituzioni ebraiche in tutto il mondo, soprattutto in Europa. Ma negli ultimi anni questi non sono bene accetti dalle autorità dei vari Paesi e ciò è un vero problema. Si è creato un vuoto che ovviamente le polizie locali non hanno saputo colmare. Vorrei sapere perché i detective israeliani sono stati costretti a fare le valigie».
Quando se ne sono andati?
«Una decina di anni fa circa e francamente è un vero mistero visto che si tratta di un'industria gigantesca e molto efficiente che protegge i privati e le istituzioni di tutto il mondo, non solo ebrei. Quello che è successo pesa sulla coscienza della polizia francese».
Si è chiesto il perché di questa mattanza?
«Non esiste un perché. Entrare nel tempio del sapere, dove giovani vulnerabili e innocenti non fanno null'altro che studiare e apprendere, soltanto per ucciderli, è la prova che un antisemita ancora oggi è disposto a oltrepassare i limiti dell'umanità. Si può forse chiamare uomo quello?».
Perché hanno colpito proprio quel bersaglio?
«Perché da sempre i nemici del popolo ebraico prendono di mira scuole e sinagoghe. Nel Medioevo, così come durante l'occupazione nazista dell'Europa, i luoghi di culto e studio furono i primi a essere bersagliati. E, immancabilmente, i primi a essere distrutti. Penso che chi ha colpito sia animato dallo stesso odio che infiammava i criminali nazisti».
La crescente ostilità dell'opinione pubblica europea contro il governo israeliano può aver giocato un ruolo?
«Che cosa c'entra la politica con una scuola dove dei giovani scolari vanno a studiare? Lo ripeto: chi ha colpito è un antisemita che odia ciecamente e visceralmente tutto ciò che è ebraico ed è disposto a qualsiasi cosa pur di colpire l'oggetto del suo disprezzo».
L'ultimo rapporto dell'Anti-Defamation League (Adl) pubblicato proprio oggi denuncia «livelli altissimi» di antisemitismo in ben dieci Paesi europei, dall'Italia all'Ungheria e dalla Spagna alla Polonia.
«L'antisemitismo sta espandendosi a macchia d'olio ovunque e dopo Auschwitz questo boom è a dir poco incredibile. Se Auschwitz non è riuscita a curare questo cancro profondo, che cosa potrà mai riuscirci?».
Gli ebrei europei sono dunque ancora vulnerabili?
«Purtroppo lo sono. Se una strage del genere è potuta accadere in una cittadina tranquilla come Tolosa, in futuro può accadere ovunque. Il pericolo è tra noi e tutti gli ebrei, giovani e vecchi, uomini e donne sono nel mirino di gente allevata solo per odiarci».
Che cosa possono fare gli ebrei per difendersi?
«Solo affidarsi alla competenza e serietà delle forze pubbliche dei vari Paesi, che hanno i mezzi ma forse non sempre la volontà per proteggere quelli che sono a tutti gli effetti loro cittadini. Ma il problema non riguarda solo gli ebrei europei. Io stesso nel 2007 fui vittima di un negazionista dell'Olocausto che a San Francisco tentò di sequestrarmi. Da allora sono costretto a girare ovunque con la scorta».
Arriverà mai il giorno in cui i bambini ebrei potranno andare a scuola senza paura di essere ammazzati?
«Continuo a sperare che quella nuova alba sorgerà un giorno sul nostro pianeta malato, ma oggi non posso fare a meno di essere pessimista. La priorità adesso è catturare il killer, poi si faccia un esame di coscienza collettivo perché ciò non accada mai più. Ma questa volta per davvero».

Repubblica 21.3.12
Il male oscuro dell’Europa
di Barbara Spinelli


TUTTI ci stiamo trasformando, senza quasi accorgercene, in tecnici della crisi che traversiamo: strani bipedi in mutazione, sensibili a ogni curva economica tranne che alle curve dell´animo e del crimine.
L´occhio è fisso sullo spread, scruta maniacalmente titoli di Stato e Bund, guata parametri trasgrediti e discipline finanziarie da restaurare al più presto. Fino a quando, un nefasto mattino, qualcosa di enorme ci fa sobbalzare sotto le coperte del letto e ci apre gli occhi: un male oscuro, che è secrezione della crisi non meno delle cifre di bilancio ma che incide sulla carne viva, spargendo sangue umano. La carneficina alla scuola ebraica di Tolosa è questo sparo nel deserto, che ci sveglia d´un colpo e ci immette in una nuova realtà, più vasta e più notturna. Come in una gigantesca metamorfosi, siamo tramutati in animali umani costretti a vedere quello che da mesi, da anni, coltiviamo nel nostro seno senza curarcene. Il naufragio del sogno europeo, emblema di riconciliazione dopo secoli di guerre, e di vittoria sulle violenze di cui Europa è stata capace, partorisce mostri. Non stupisce che il mostro colpisca ancora una volta l´ebreo, capro espiatorio per eccellenza, modello di tutti i capri e di tutti i diversi che assillano le menti quando son catturate da allucinazioni di terrene apocalissi.
In tedesco usano la parola Amok (in indonesiano significa «uccisione-linciaggio in un impulso d´ira incontrollata»), e tale è stato l´attacco di lunedì alla scuola di Tolosa. Uno squilibrato, ma abbastanza freddo da uccidere serialmente, ammazza in 15 minuti il maestro Jonathan Sandler, due suoi figli di 4 e 5 anni (Gabriel e Arieh), una bambina di 7, Myriam. Chi cade preda dell´amok è imprevedibile e socialmente reietto, ma se ha potuto concepire il crimine (e spesso parlarne sul web) vuol dire che per lungo tempo non si è badato al pericolo, che l´ambiente da cui viene era privo di difese immunitarie. I massacri nelle scuole sono considerati episodi tipici del comportamento amok. Nella cultura malese l´assalto amok evoca lo stato di guerra, ma l´omicida seriale interiorizza la guerra. La spedizione militare è condotta da individui che vivono nel nascosto, ed escono allo scoperto in una sorta di raptus. Non dimentichiamo che il nazismo quando prese il sopravvento aveva caratteristiche affini, e assecondava la furia amok: «Marcia senza approdo, barcollamento senza ebbrezza, fede senza Dio», così lo scrittore socialdemocratico Konrad Heiden descriveva, nel 1936, la caduta di milioni di tedeschi nel nazismo e nell´«era dell´irresponsabilità». È nelle furie di quei tempi che hanno radice i contemporanei massacri palingenetici, e anche lo spavento stupefatto che scatenano. Non era stato detto, a proposito delle fobie annientatrici: «Mai più?». Invece tornano, perché un tabù infranto lo è per secoli ancora. Il piccolo racconto di Zweig (Amok è il titolo) racconta proprio questo: l´esplosione in mezzo a bonacce apparenti di una "follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana... un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun´altra intossicazione alcolica". Un torbido passato ha fatto del medico protagonista un mutante: nella solitudine si sente «come un ragno nella sua tela, immobile da mesi». Amok è scritto nei primi anni Venti: un´epoca non meno vacillante della nostra. Già prima del ´14-18, Thomas Mann vedeva l´Europa sommersa da «nervosità estrema».
«L´amok è così – spiega Zweig nel racconto– all´improvviso balza in piedi, afferra il pugnale e corre in strada… Chi gli si para davanti, essere umano o animale, viene trafitto dal suo kris (pugnale, in malese, ndr), e l´orgia di sangue non fa che eccitarlo maggiormente… Mentre corre, ha la schiuma alle labbra e urla come un forsennato… ma continua a correre e correre, senza guardare né a destra né a sinistra, corre e basta. L´ossesso corre senza sentire… finché non lo ammazzano a fucilate come un cane rabbioso, oppure crolla da solo, sbavando». Ci furono opere profetiche, negli anni ´20-´30: i film Metropolis e Dottor Mabuse di Fritz Lang, o il racconto di Zweig. Dove sono oggi opere che abbiano quell´orrida e precisa visione del presente?
Se fosse un caso isolato non ne parleremmo come di un fatto di cultura, colmo di presagi. Ma non è un evento isolato, solo criminale. Quest´odio del diverso (dell´ebreo o del musulmano o del Rom: tre figure di capro espiatorio) pervade da tempo l´Europa, mescolando storia criminale e storia politica. E ogni volta è una fucilata subitanea, che interrompe finte normalità. Fu così anche quando nella composta Norvegia scoppiò la demenza assassina del trentaduenne Behring Breivik, il 22 luglio 2011. L´attentato che compì a Oslo fece 8 morti. Il secondo, nell´isola Utoya, uccise 69 ragazzi.
Fenomeni simili, non immediatamente mortiferi, esistono anche in politica e mimeticamente vengono imitati. Nell´America degli odii razziali, in prima linea: l´odio suscitato da Obama meteco tendiamo a sottovalutarlo, a scordarcene. Ma l´Europa è terreno non meno fertile per queste idrofobie umane, peggiori d´ogni intossicazione alcolica. Colpisce la loro banalizzazione, più ancora del delitto quando erompe. In Italia abbiamo la Lega, e banalizzati sono i suoi mai sconfessati incitamenti ai linciaggi. Nel dicembre 2007, il consigliere leghista Giorgio Bettio invita a «usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino». Lo anticipa nel novembre 2003 il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni, che menzionando un gruppo di clandestini sfrattati prorompe: «Peccato. Il forno crematorio di Santa Bona è chiuso». Il gioco di Renzo Bossi (vince chi spara su più barche d´immigrati) è stato tolto dal web ma senza autocritiche.
Com´è potuto succedere che gli italiani divenissero indifferenti a esternazioni di questa natura? Com´è possibile che l´Europa stessa guardi a quel che accade in Ungheria alzando appena le sopracciglia? Eppure il premier Viktor Orbán, trionfalmente eletto nell´aprile 2010, non potrebbe esser più chiaro di così. Il suo sogno è di creare un´isola prospera separata dal turbinio del mondo: una specie di autarchia nordcoreana. A questo scopo ha pervertito la costituzione, le leggi elettorali, l´alternanza democratica, scagliandosi al contempo contro l´etnicamente diverso. A questo scopo persegue una politica irredentista verso la diaspora ungherese in Europa. Il sacrificio di due terzi del territorio nazionale, imposto al Paese vinto dal trattato di Trianon del 1920, è definito «la più grande tragedia dell´Ungheria moderna». Ben più tragica dello sterminio di 400.000 ebrei e zigani nel 1944. Il vero scandalo dei tempi presenti è la punizione inflitta alla democrazia greca, e la non-punizione dell´Ungheria di Orbán. I parametri economici violati e gli spread troppo alti pesano infinitamente più dell´odio razzista, della banalizzazione del male che s´estende in Europa, della democrazia distrutta.
In due articoli sul Corriere della Sera, il 7 e 12 marzo, lo storico Ernesto Galli della Loggia ha difeso lo Stato-nazione oggi derubato di sovranità: lo descrive come «unico contenitore della democrazia», poiché senza di lui non c´è autogoverno dei popoli. È una verità molto discutibile, quantomeno. Lo Stato nazione è contenitore di ben altro, nella storia. Ha prodotto le moderne democrazie ma anche mali indicibili: nazionalismi, fobie verso le impurità etnico-religiose, guerre. Ha sprigionato odii razziali, che negli imperi europei (l´austro-ungarico, l´ottomano) non avevano spazio essendo questi ultimi fondati sulla mescolanza di etnie e lingue. La Shoah è figlia del trionfo dello Stato-nazione sugli imperi. Vale la pena ricordarlo, nell´ora in cui un fatto criminoso isolato, ma emblematico, forse ci risveglia un po´.

Repubblica 21.3.12
I nuovi mostri
da Dostoevskij a oggi la fenomenologia del male quotidiano
di Roberto Esposito


Un saggio di Simona Forti aiuta a capire le origini e le metamorfosi della violenza
L´epicentro simbolico attorno a cui ruota il testo sta nel celebre episodio dei "Fratelli Karamazov" dove appare il Grande Inquisitore
La necessità di scardinare la gabbia interpretativa entro cui il problema è stato chiuso da secoli di tradizione filosofica

Come può accadere che, in un giorno come gli altri, un uomo scenda da una moto, entri in una scuola ebraica di Tolosa, insegua e spari a sangue freddo dei bambini con i genitori, poi risalga in moto e si allontani? Che egli sia lo stesso – pare – che la settimana scorsa ha ucciso alcuni militari di colore aggiunge all´orrore della vicenda una motivazione razzista che la rende ancora più odiosa, ma non scioglie l´enigma che si profila dietro di essa. Perché, in quali vesti, con quali lugubri movenze, il male torna ad affacciarsi in un mondo che sembra averlo spinto ai suoi margini? Ed è lo stesso male che ci perseguita da sempre? Che ha devastato l´Europa nei primi decenni del Novecento? Oppure è un male diverso, nei modi e nelle intenzioni, se non nei suoi esiti omicidi? Quali sono, e da quali scaturigini emergono, i demoni che ancora ci afferrano alla gola? Una risposta di alto profilo a queste domande è adesso fornita da Simona Forti in un libro, appena pubblicato da Feltrinelli, intitolato appunto I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere. Va subito detto che esso va ben al di là di una pur compiuta ricostruzione della riflessione otto-novecentesca sul male, per ingaggiare un vero e proprio corpo a corpo con la tradizione filosofica contemporanea. La questione del male – nel suo rapporto costitutivo col potere – diventa l´angolo prospettico da cui l´autrice riesce a serrare in un medesimo giro d´orizzonte il pensiero che da Kant muove da un lato verso Heidegger e Levinas e dall´altro verso Nietzsche e Foucault, fino a lambire l´attuale dibattito su nichilismo e biopolitica.
L´epicentro simbolico, e il perno di rotazione interno, del libro si può trovare nel più celebre episodio de I fratelli Karamazov di Dostoevskij. «Noi non siamo con Te, siamo con lui» – sussurra il Grande Inquisitore a Cristo, ritornato fra gli uomini ed imprigionato, mentre centinaia di eretici bruciano ad maiorem Dei gloriam. In questa scena leggendaria, in cui il vegliardo enuncia a Cristo i motivi per i quali la Chiesa avrebbe scelto il demonio, l´autrice individua il "paradigma Dostoevskij" – alludendo allo sguardo abissale con cui l´autore de I demoni sfonda la soglia estrema davanti alla quale, pur cogliendo l´enigmatica relazione tra libertà e male, Kant si era ritratto, spaventato della sua stessa scoperta. Il volto della medusa sul quale lo scrittore russo getta un fascio di luce, lacerando di colpo il velo con cui la tradizione metafisica lo aveva coperto, è la consapevolezza che l´uomo non fa il male perché ignaro di farlo, o magari perché costretto dalle circostanze, ma perché ne trae il piacere inebriante di sottomettere altri uomini, fino a distruggerne la carne e lo spirito. In questo senso – che è quello, primordiale ed ancora attuale, del dominio e del sangue, della violenza e della resa – una intera linea interpretativa ha parlato di nichilismo come capacità di ridurre l´uomo letteralmente a niente, a pura materia, vivente o morente, di una smisurata volontà di potenza.
Ma le parole del Grande Inquisitore dicono anche qualcosa di altro, non del tutto percepibile nella furia devastante degli eroi negativi de I demoni. Esse dicono che il potere – come si esercita in tutti gli incunaboli della sovranità – non è che la controfaccia di una volontà di obbedienza che chiede di essere attivata per proteggere gli uomini non solo dai rischi esterni, ma da una libertà che essi temono di esercitare. Qui, nel cuore della sua analisi, Simona Forti apre un varco ermeneutico, già inaugurato da Nietzsche e allargato, in maniera diversa, da Hannah Arendt e Michel Foucault. Al suo centro vi è l´individuazione di quella volontà di vita cui la riflessione contemporanea ha assegnato il nome di biopolitica. Qualsiasi cosa si voglia intendere con esso, ciò che tale dispositivo teorico revoca in dubbio è quel rapporto verticale tra vittima e carnefice che a lungo è stato attribuito al regime del male – anche quando questo si è infinitamente ampliato sia nel numero di coloro che lo esercitavano sia in quello di coloro che sono stati costretti a subirlo.
Perché perfino quando tale rapporto – tra la malvagità senza freni dei persecutori e l´indigenza più inerme delle vittime – ha conosciuto, nel genocidio ebraico, l´apice e, per così dire, il grado zero, neanche allora si è trattato di una semplice relazione a due. Anche in quel caso, tra gli uni e gli altri, si è inserita la presenza, grigia e incolore, di demoni minori che pure hanno collaborato indirettamente al massacro o lo hanno consentito con la loro inerte compiacenza. Dal libro di Hilberg sulla Distruzione degli ebrei in Europa (Einaudi 1999), a quelli di Browning Uomini comuni (Einaudi 1995) e di Goldhagen I volenterosi carnefici di Hitler (Mondadori 1998), è stato ampiamente documentato il ruolo di quei desk killers che, protetti dal loro compito burocratico, hanno costituito le rotelle, silenziose e decisive, del meccanismo di sterminio. Ma forse nulla più del processo ad Adolph Eichmann – documentato negli straordinari reportage di Hannah Arendt editi col titolo, forse riduttivo, ma certamente sintomatico, di La banalità del male (Feltrinelli 2003) – esprime il carattere, apparentemente anodino, di questo Effetto Lucifero (Cortina 2008), come Philip Zimbardo ha definito il comportamento sadico indotto dalla emulazione e dalla sudditanza ad un aberrante principio di autorità. E del resto cosa altro traspare dal sorriso ebete dei soldati americani che ad Abu Ghraib si sono autofotografati accanto al corpo inerte di nemici morti o torturati?
Ciò che dall´evocazione dei nuovi demoni – dell´inerzia e del conformismo, dell´obbedienza cieca e della irresponsabilità – l´autrice ricava è intanto la necessità di scardinare la gabbia interpretativa entro cui la tradizione filosofica ha chiuso, di fatto neutralizzandola, la fenomenologia del male. Il male non è né una semplice increspatura dell´essere, destinata ad essere risarcita e dissolta nei processi di secolarizzazione, né una sostanza metafisica eternamente in lotta con il principio, altrettanto assoluto, del Bene. Esso, tutt´altro che irrigidito in una livida sentenza di morte, nasce e si sviluppa come effetto sinistro di una indifferenziata volontà di sopravvivenza – sopravvivenza ad ogni costo, anche quello di poggiare sulla infinita piramide di morti che Elias Canetti ha intravisto nei tratti sfigurati di un potere originario (su cui si veda il bel saggio di Giacomo Marramao Contro il potere, Bompiani 2011, già segnalato in queste pagine da Nadia Fusini).
Ma Simona Forti è andata oltre la decostruzione di una lettura semplicemente dicotomica del male. Ciò che si profila nelle pagine finali della sua genealogia, dedicate a due autori del dissenso contro il regime sovietico come Jan Patocka e Vàclav Havel, è una modalità non soltanto critica, ma anche affermativa, di intendere la relazione tra potere e soggetti. Se è vero, come ha sostenuto Foucault, che ogni processo di soggettivazione ha a che fare con una qualche forma di assoggettamento, è anche vero che il potere genera sempre, se non l´attualità, quantomeno la possibilità di una resistenza. Per tenerla sveglia, anche quando un peso infinito sembra gravare sulle nostre vite, si tratta di tentare uno sdoppiamento nei confronti di noi stessi. Di resistere alla tentazione del cedimento e della compromissione nei confronti del male, attraverso l´attivazione di una forza contraria cui la tradizione occidentale talvolta ha dato il nome, limpido e intenso, di anima.

il Riformista 21.3.12
Mirava ai bambini È genocidio
di Ubaldo Casotto


Dalla ricostruzione fatta dai testimoni dell’eccidio alla scuola ebraica di Tolosa emerge una intenzione che, se possibile, aumenta il ribrezzo, l’obbrobrio e la pericolosità di quello che è successo. Facendo di quella carneficina anche, purtroppo, una strage simbolica.
Il rabbino Jonathan Sandler non era nel mirino dell’omicida, è morto perché, così ha raccontato un testimone, ha messo il suo corpo a protezione della vita dei suoi due figli. L’assassino, infatti, mirava ai bambini; li ha inseguiti nel cortile della scuola, ha mirato alla testa e ucciso. Poteva sparare nel mucchio di genitori e scolari all’ingresso, ha fatto una scelta precisa.
Si fa scientemente più male a una persona quando, invece di aggredirla direttamente, la si colpisce nei suoi affetti più cari. Uccidere i figli vuol dire bloccare la discendenza, eliminare la stirpe, “estirpare” un popolo. È il massimo segno di odio.
In Francia non veniva ucciso un bambino ebreo da più di sessant’anni. L’infanticidio di Tolosa è antisemitismo al suo stato più puro. Chi ha sparato sarà anche un folle, ma un folle che oltre alle pistole ha imbracciato un’idea: il popolo di Israele deve sparire dalla faccia della terra.
Un’idea che rovescia la profezia biblica del salmo 128: «Possa tu vedere i figli dei tuoi figli, pace su Israele». Un’idea che ha in sé il germe del genocidio. Un’idea che cova latente in troppi distinguo che ancora ci permettiamo tutte le volte che la vediamo riemergere nella sua capacità di armare mani assassine, siano quelle di un pazzo solitario o quelle di capi di Stato, le cui minacce ci accontentiamo di bollare come “farneticazioni”.
Finché sulla nostra ignavia non scorre il sangue.

il Fatto 21.3.12
La Procura di Roma indaga sul conto dello Ior in Germania
Rogatoria per conoscere i movimenti di denaro del Vaticano
di Marco Lillo


La Procura di Roma sta indagando in Germania sulla banca del Vaticano, lo IOR. È questo l’ultimo colpo di scena che vede opposti da un lato il procuratore aggiunto Nello Rossi e il sostituto procuratore Stefano Rocco Fava e dall’altro il presidente e il direttore generale dell’Istituto Opere Religiose, rispettivamente Etto-re Gotti Tedeschi e Paolo Cipriani, indagati dal settembre del 2010 per violazione delle norme antiriciclaggio.
SIAMO DI FRONTE a una vera e propria partita a scacchi che va avanti ormai da un anno e mezzo, e che ora si sposta su uno scenario internazionale. Mentre il Vaticano cerca disperatamente di convincere gli ispettori dell’organismo internazionale Moneyval a farlo uscire dalla lista grigia degli stati poco virtuosi (il Comitato di Esperti per la valutazione delle misure di contrasto del riciclaggio è stato a Roma la settimana scorsa) i pm italiani inseguono le rotte delle sue finanze oscure fino in Germania dove lo IOR si è arroccato. I pm romani vogliono conoscere tutti i movimenti del conto corrente dello IOR presso la JP Morgan di Francoforte e hanno inoltrato una prima richiesta di rogatoria internazionale alle autorità tedesche tramite il ministero della giustizia.
Quattro mesi fa però le autorità federali tedesche hanno negato la loro collaborazione con una risposta cortese ma ferma, ispirata probabilmente più da ragioni politiche che tecniche. I magistrati romani non si sono dati per vinti e stanno tentando di ottenere il medesimo risultato utilizzando un canale alternativo: l’UIF, cioé l’Ufficio di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia, che ha già inoltrato la sua richiesta al corrispondente organismo tedesco.
Per capire la ragione di tanto interesse verso la filiale di Francoforte del colosso bancario americano bisogna partire da un dato: lo IOR, dopo decenni di ottimi rapporti, ha deciso di limitare drasticamente fin quasi allo zero l’operatività con le nostre banche. La vera ragione di questa scelta secondo gli investigatori italiani risiede nel mutato atteggiamento delle autorità del nostro paese nell’applicazione della normativa antiriciclaggio. Lo IOR, infatti, spesso opera non come una banca ma come una vera e propria società fiduciaria che scherma la reale proprietà dei fondi sui suoi conti correnti. Il caso di scuola è quello dei nove bonifici per 225 mila euro partiti da un conto IOR e destinati a un gruppo di catanesi vicini alla mafia. Quei soldi erano il provento di una truffa ma - grazie alla gentile collaborazione del nipote sacerdote di un mafioso - giungevano a Catania con la berretta papale a coprire la coppola.
Quando la Procura di Roma ha scoperto che lo schema veniva replicato da chiunque volesse nascondere l’origine dei suoi soldi grazie alla complicità di un sacerdote amico, è immediatamente corsa ai ripari.
ALL’IMPROVVISO nel 2010 lo IOR ha scoperto gli obblighi antiriciclaggio. Il nodo è venuto al pettine il 6 settembre del 2010 quando l’Istituto finanziario vaticano presieduto da Ettore Gotti Tedeschi ha ordinato al Credito Artigiano di trasferire 23 milioni alla Jp Morgan di
Francoforte ( 20 milioni) e alla Banca del Fucino per 3 milioni. Lo Ior pretendeva che la banca omettesse le comunicazioni previste dalla normativa antiriciclaggio italiana. Per questa ragione la
Procura chiese il sequestro e da allora indaga il presidente e il direttore generale dello IOR. Per sbloccare i fondi c’è voluto di fatto un motu proprio del Papa del dicembre del 2010. La nuova legge creava l’AIF, l’Autorità di Informazione Finanziaria che avrebbe dovuto collaborare con l’UIF italiano utilizzando propri poteri di ispezione sullo IOR e gli altri enti vaticani.
Inizialmente sembrava filare tutto liscio: la prima richiesta di informazioni inoltrata dal-l’UIF ottenne una risposta a tempo di record dall’AIF, presieduta da un cardinale autorevole come Attilio Nicora. Per premiare il cambio di direzione i pm romani nel giugno del 2011 diedero il
loro parere favorevole al dissequestro dei 23 milioni. Da quel momento però si è realizzato il detto popolare “passata la festa gabbato lo Santo”. Lo IOR non ha più fornito informazioni all’AIF sulle informazioni relative a rapporti precedenti all’aprile del 2011, data di entrata in vigore della legge. Poi il 25 gennaio un secondo colpo di scena: con un decreto il Vaticano, su input del Segretario di Stato Tarcisio Bertone, ingrana la retromarcia: l’Aif perde i poteri di ispezione che tornano sotto il dominio della Segreteria di Stato.
Nel frattempo la Banca d’Italia impone agli istituti italiani di chiedere allo IOR il nome del reale titolare dei soldi movimentati e la banca vaticana si disamora della penisola. Con una serie di bonifici per decine e decine di milioni di euro i soldi del Vaticano lasciano le banche italiane, come l’Unicredit ex Banca di Roma, e volano a Francoforte alla banca Jp Morgan.
LO IOR, per effettuare i suoi bonifici milionari che alimentano l’attività delle Congregazioni usa un conto acceso presso l’unico sportello della banca americana Jp Morgan in Italia. Il conto 1365 presso la filiale di Milano però si muove in modo particolare: in forza di una clausola contrattuale il saldo di fine giornata deve essere sempre riportato a zero e il suo contenuto refluisce sul conto Ior a Francoforte. Di fatto è il cavallo di Troia attraverso il quale lo IOR opera in Italia: i movimenti nell'arco di un anno e mezzo superano il miliardo e mezzo. Nell'ottobre 2011, la Procura di Roma scopre l’inghippo e chiede all'Uif - l'Unità di informazione finanziaria della Banca d'Italia - di intervenire. Gli ispettori di Bankitalia chiedono informazioni sui reali intestatari dei soldi movimentati dallo IOR. JP Morgan gira le richieste allo Ior che risponde picche. Il 15 febbraio, per evitare guai, Jp Morgan comunica a IOR la chiusura definitiva del conto a far data dal 30 marzo 2012. Ora la banca del Vaticano si è ritirata a Francoforte, nella Germania di papa Ratzinger. Ma la Procura di Roma è arrivata fin lì.

il Fatto 21.3.12
Firenze apre il cimitero dei feti
Furio Colombo risponde a Valdo Spini


Caro Furio, in un comunicato stampa la Giunta comunale di Firenze annuncia di avere approvato un nuovo regolamento di polizia mortuaria nel quale si afferma “il diritto alla sepoltura dei feti (compresi i prodotti abortivi e i prodotti da concepimento) prevedendo la realizzazione di un’area a ciò destinata”. In caso di approvazione, assisteremo all’istituzione di un “cimitero degli aborti”. Questa delibera accetta la posizione che il feto sia una persona, con tutte le conseguenze giuridiche che ne derivano, e ciò contro una legge dello Stato confermata da referendum. La nostra opposizione in Consiglio comunale sarà quindi molto ferma, come fermo è il nostro appello al Partito democratico perché intervenga a fare chiarezza su questo tema così importante e delicato”.
Valdo Spini

HO SCELTO di pubblicare la lettera di Valdo Spini che, dopo essere stato deputato e ministro in vari governi del centrosinistra e oppositore di Matteo Renzi nelle primarie del Pd a Firenze, è adesso uno dei leader dell’opposizione allo strano sindaco Pd. La prima cosa che colpisce, nell’iniziativa (per ora tentata, ma non realizzata dal giovane promesso sposo del Partito democratico italiano) è la cattiveria. L’intento è di insinuare l'immagine del delitto e la colpa di omicidio contro le donne che hanno abortito. Ma lo sguardo del sultano, nel paesaggio squallido degli ospedali italiani, dove, per ragioni di carriera, sempre più medici fanno obiezione di coscienza contro il diritto delle donne a decidere, vede più lontano. Vede l'abolizione di un diritto fondamentale delle donne attraverso impedimenti di fatto: un simbolo terrificante (il cimitero degli aborti); più pressione violenta sull’opinione pubblica; astensione ancora più estesa del personale sanitario. C'è cattiveria, ho già detto, c’è abuso del più forte (maschio e sindaco). E c'è viltà, perché un fatto di tale portata viene imposto senza il coraggio di affrontarlo. Naturalmente il sindaco di Firenze potrebbe negare tutto. Speriamo.

Corriere della Sera 21.3.12
Firenze, sì alla sepoltura dei feti Donne del Pd contro la giunta Renzi
Polemiche dopo l'approvazione del regolamento cimiteriale
di Marco Gasperetti


FIRENZE — Un articolo di un regolamento comunale, uno dei tanti. Tre righe appena, quasi invisibili. Eppure destinate a sconquassare la relativa calma del Pd (e della sinistra) fiorentina. E suscitare polemiche tra le donne del partito, soprattutto tra quelle approdate al Pd dai Ds e da altre forze laiche e socialiste. Insomma, quelle iscritte al partito che hanno combattuto per l'approvazione prima e la difesa poi della legge 194 sull'aborto.
Il regolamento sulla graticola, appena approvato dalla giunta comunale con il placet del sindaco Matteo Renzi, è quello cimiteriale. Che individua nel camposanto di Trespiano, uno dei principali della città sulla via Bolognese, un luogo ad hoc dove seppellire i feti, ma anche «i prodotti abortirvi e i prodotti del concepimento», come si legge testualmente.
I problemi non sono arrivati dalle assessore (sono 5 per 10 poltrone complessive), ma da parlamentari, consigliere comunali, esponenti di partito e delle associazioni vicine alla sinistra e ai democratici. Tra le prime a far sentire la propria voce critica è stata la senatrice fiorentina Vittoria Franco. Che ha definito il regolamento «una provocazione verso il dramma dell'aborto e del rapporto delle singole donne con la maternità» e ha chiesto un immediato ripensamento della giunta guidata da Renzi. «Agghiacciante», lo ha invece definito un'altra parlamentare democratica, la senatrice Magda Negri.
Ma è a Palazzo Vecchio, sugli scranni del Salone de' Dugento, sede del consiglio comunale, che si giocherà la partita decisiva del provvedimento. «Molto ideologico e poco pratico — spiega la consigliera e parlamentare del Pd, Tea Albini —. Anche perché già oggi la legge consente la sepoltura di feti e aborti e non c'era nessuna necessità di presentarlo. Si rischia una spaccatura forte all'interno del gruppo consiliare e nella sinistra. Ne valeva la pena? Io sono per la politica come arte della mediazione. Il sindaco, invece, cerca lo scontro. Spesso mediatico». Ancora più dura Claudia Livi, vicecapogruppo pd: «Mi dissocio da un atto che mi offende profondamente come donna».
Difficilmente però la spaccatura, se ci sarà, si registrerà all'interno della giunta Renzi. Tutti gli amministratori, comprese le cinque donne, sembrano favorevoli. E l'assessore Rosa Maria Di Giorgi (Pd) ha anche diffuso un comunicato nel quale stigmatizza «le sortite di alcune parlamentari e di consiglieri comunali», sottolineando che l'area per seppellire i feti «esiste a Trespiano dal 1996 e che si tratta di un luogo dove i genitori possono chiedere di seppellire i bambini nati morti». Spiegando poi che in quel regolamento non c'è niente di più. «Nessun attacco alla laicità, né alla legge sull'aborto — sottolinea Di Giorgi —. Solo il riconoscimento di una sensibilità, nel rispetto di quelle donne che avrebbero voluto un figlio e purtroppo lo hanno perso. Nulla a che vedere con offese alle donne che hanno invece liberamente scelto di interrompere la gravidanza».
Le donne della sinistra, però, non sembrano fidarsi troppo. E c'è chi minaccia una battaglia in aula. Il regolamento, infatti, dopo il sì della giunta deve arrivare in consiglio comunale. L'approvazione è scontata, perché su questo punto il centrodestra si dichiara favorevole. «Però la spaccatura sarebbe reale e per certi versi pure devastante», spiega Ornella De Zordo, docente universitaria e consigliera di Perunaltracittà, una lista civica di sinistra. «Non è una novità e altre città hanno approvato provvedimenti simili — spiega De Zordo — ma sono stati sempre Comuni amministrati da giunte di centrodestra. Firenze è la prima di centrosinistra. Un record preoccupante. Proporrò un emendamento abrogativo dell'articolo».
Si muove anche il mondo dell'associazionismo. Liberetutte di Firenze, un'associazione che nello statuto ha tra gli obiettivi la difesa della libertà e l'autodeterminazione delle donne, ha chiesto a tutte le consigliere comunali un incontro. «Vogliamo discutere quello che per noi è un attacco alla 194 — spiega la portavoce Luisa Petrucci —. Il regolamento vuole trasformare feto ed embrione in una persona e non è questo lo spirito della legge. L'articolo del regolamento approvato ci pare una macabra trovata che lede la sfera privata delle donne e la loro dignità».

l’Unità 21.3.12
Se i cinesi ammirano l’università italiana
di Maria Chiara Carrozza


L ’intervistatrice di un giornale cinese nella megalopoli di Chongqing, dove mi trovavo, mi ha posto pochi giorni questa domanda: perché molti giovani cinesi vengono volentieri a studiare a Pisa, nonostante la grave crisi economica che ha colpito Italia ed Europa? A questa domanda ho risposto con quella che mi sembra un’elementare verità: l’istruzione universitaria italiana, checché se ne obbietti da destra e da sinistra, ha un rapporto fra costo e qualità ancora assai buono. Si può diventare medico o ingegnere in una Università pubblica, e sottolineo pubblica, con una preparazione competitiva a livello internazionale, senza sostenere costi elevati come in altri Paesi, che hanno di fatto scelto la strada della sostenibilità attraverso l’innalzamento incontrollato delle tasse universitarie. Questa è la sostanziale differenza fra un’impostazione che punta all’equità e alle pari opportunità piuttosto che al prevalente interesse di singoli individui o di particolari élites. Certo, la nostra Università ha bisogno di una vera modernizzazione, ma partendo da queste basi, non distruggendole. Intanto, si pone il problema dei costi. È necessario alzare le tasse? Ma gli studenti universitari non sono «clienti», bensì cittadini in formazione per inserirsi nel sistema produttivo e culturale. Dunque, piuttosto che l’innalzamento indiscriminato del prezzo dell’istruzione, serve avviare una politica fiscale equa che consenta una tassazione progressiva equilibrata.
Valore legale del titolo di studio? Questione importante e forse giusta, ma in sé mal posta, che non entra mai nel merito delle singole professionalità e destinazioni. Mal posta come molte altre che prescindono da una visione generale del sistema universitario e della ricerca: non esiste il singolo provvedimento risolutivo, anzi c’è il rischio di ritocchi apparentemente innovativi, ma che possono dar luogo a fenomeni di instabilità o desertificazione. Aumento delle tasse più abolizione valore legale? Cioè affidamento al cosiddetto mercato della esistenza stessa e della distribuzione sul territorio delle Università e dei centri di ricerca? O non è necessario, tanto più in fase di evoluzione in senso federalista, un disegno di coesione sociale e di sviluppo territoriale equilibrato nell’interesse nazionale, dal quale far conseguire provvedimenti mirati di razionalizzazione, ricambio generazionale, investimenti in aree e settori strategici? Anche in campo universitario i provvedimenti tecnici devono ispirarsi alle scelte politiche. La tecnica può essere utilizzata quando si deve fare la «spending review», ma quando si deve programmare la crescita non si può fare a meno della politica.

La Stampa 21.3.12
Asia, giochi di guerra
Tra Cina e India è gara a chi si arma di più
Impennata di budget militari anche per Corea del Sud, Pakistan e Singapore
di Ilaria Maria Sala


HONG KONG È corsa agli armamenti in Asia: l’ultima relazione SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) non lascia dubbi, e riporta dati molto significativi. I due giganti asiatici, Cina e India, mostrano un’impennata nei budget militari (più 11 per cento per la Cina, più 13 per cento per l’India), ma non solo: secondo l’Istituto svedese, «il volume dei trasferimenti di armi mondiale nel periodo 2007-2011 è aumentato del 24 per cento» rispetto ai cinque anni precedenti, «e i cinque maggiori importatori di armi sono tutti Paesi asiatici».
Il primo importatore è l’India, che da sola si aggiudica il 10 per cento delle importazioni di armamenti globali. Seguono la Corea del Sud, con il 6 per cento, il Pakistan e la Cina, entrambi con il 5 per cento, e Singapore, la piccola città-Stato del Sud-Est Asiatico che da sola importa il 4 per cento degli armamenti. La posizione relativamente modesta della Cina non deve però trarre in inganno: è vero che stia acquistando molte meno armi dall’estero, ma non per un diminuire della sua spesa bellica, anzi. La Cina infatti è divenuta uno dei primi Paesi produttori, ed importa meno solo perché produce di più. Negli ultimi cinque anni, la Cina ha raddoppiato la quantità di armi che esporta, assestandosi al sesto posto mondiale come Paese esportatore, subito dopo il Regno Unito.
Tutta quest’attività del resto aiuta a mettere in prospettiva il lungo contenzioso fra la Cina e l’Unione Europea, che impose un embargo sulla vendita di armi a Pechino dopo la sanguinosa repressione delle manifestazioni studentesche in piazza Tiananmen nel 1989. In un comunicato stampa, Pieter Wezeman, ricercatore al Programma Sipri sui trasferimenti d’armi, ha detto che «i principali Stati asiatici importatori (di armi) stanno cercando di sviluppare le loro industrie degli armamenti, e di diminuire la loro dipendenza da rifornimenti d’armamenti esterni».
I trasferimenti d’armi, del resto, avvengono in misura significativa fra partner asiatici: così, il quasi raddoppiare delle esportazioni cinesi d’armi è conseguenza diretta del fatto che il Pakistan acquista in modo massiccio dalla Cina, e costituisce il principale mercato del gigante asiatico che, secondo Sipri, non ha per ora conquistato in modo significativo altri mercati importanti. I Paesi asiatici si aggiudicano dunque circa il 73 per cento della produzione cinese dedicata all’export, mentre il resto delle armi cinesi va in particolare in Medio Oriente e in Africa (rispettivamente il 12 e il 9 per cento), con un 6 per cento diretto invece in America del Sud.
Molte delle armi prodotte localmente, però, lo sono dietro licenza: l’India, per esempio, produce carri armati T-90S e aerei da combattimento Su-30 Mk dietro licenza russa, e sottomarini Scorpene dietro licenza francese, aerei da combattimento Jaguar e Hawk dietro licenza britannica, e radar navali dietro licenza olandese. Inoltre New Delhi ha importato fra il 2007-2011 120 caccia Su-30 e 16 MiG russi.
E la Cina ormai esporta armi sempre più raffinate: aerei da combattimento, carri armati, fregate, mentre appronta da vecchie portaerei ucraine la sua prima portaerei quasi-indigena. In alcune cose, però, continua a dipendere dall’estero: i motori per i suoi jet vengono per lo più importati dalla Russia, e altri componenti dalla Francia, dalla Svizzera, dal Regno Unito e dalla Germania (che, grazie alla vendita di componenti non esclusivamente militari possono aggirare l’embargo imposto dall’Ue).
Nella regione, malgrado la crescita degli armamenti indiani, la Cina resta quella a budget militare più elevato, consacrando 110 miliardi di dollari Usa all’esercito. L’India, invece, spende 38.8 miliardi di dollari Usa per le sue forze armate. In secondo luogo, se la corsa agli armamenti cinesi è spesso criticata, in particolare da Washington, per la scarsa trasparenza che la caratterizza, per quanto riguarda l’India le minacce dalle quali vuole essere in grado di difendersi provengono dallo stesso Pakistan armato dalla Cina, e da quella «minaccia interna» costituita dai gruppi di «guerriglieri rivoluzionari», in particolar modo i Naxaliti (anche detti «maoisti», balzati alle cronache negli ultimi giorni per il rapimento di due turisti italiani).
Nelle aspirazioni di Pechino c’è in particolar modo la «riunificazione» con Taiwan, definita dalla Cina come una «provincia ribelle», per quanto la separazione sia avvenuta nel 1949 quando le truppe nazionaliste di Chiang Kai-shek, sconfitte da quelle comuniste di Mao Zedong, ripararono sull’isola, governata da allora in modo autonomo. Taiwan è protetta da una possibile invasione esterna dal Taiwan Relations Act, che gli Usa firmarono con Taipei nel 1979 quando riconobbero la Cina, interrompendo le relazioni diplomatiche con l’isola. E del resto, Pechino punta sempre il dito verso gli Usa e la loro massiccia presenza nel Pacifico quando le viene chiesto a cosa possa servire un giorno avere un armamentario bellico così imponente.

Corriere della Sera 21.3.12
Kimberley, la Miss Wisconsin paladina delle donne afghane
In tribunale senza velo e in jeans: minacciata di stupro
di Viviana Mazza


Il caso di Gulnaz ha suscitato reazioni di sdegno in tutto il mondo. È una ventunenne afghana che era stata condannata a 12 anni di carcere per adulterio, dopo aver denunciato di essere stata stuprata dal cugino del marito. Meno noto è il nome dell'avvocato che ha seguito il caso fino a che la ragazza ha ottenuto la grazia lo scorso dicembre dal presidente Karzai. Quell'avvocato è Kimberley Motley: trentaseienne americana, ex reginetta di bellezza oggi madre di due figli che non parla le lingue locali (si affida ad un team di interpreti) e per tradurre la legge islamica usa l'iPad, e che non aveva mai lasciato gli Stati Uniti prima di trasferirsi, quattro anni fa, in Afghanistan, dov'è diventata una paladina del cambiamento del sistema legale.
«C'erano altri avvocati che conoscevano il caso di Gulnaz — ha detto alla Bbc — e che non pensavano fosse una buona idea presentare una richiesta di grazia». È cresciuta in un quartiere difficile di Milwaukee, in Wisconsin, dove «la gente spesso entrava e usciva di prigione», ha raccontato, e dove girava molta droga. Il papà afroamericano era nell'aviazione, conobbe la mamma di Kimberley a Seul. Dopo un incidente d'auto al lavoro, l'assicurazione rifiutò di compensarlo. Ed è per questo che lei non si è accontentata di diventare Miss Wisconsin, ma ha studiato legge. Dopo aver lavorato per otto anni negli Usa, è giunta a Kabul nel 2008 con un programma del dipartimento di Stato Usa e il compito di addestrare avvocati difensori locali, ma ha notato che i diritti degli accusati sono spesso violati: viene loro negata la possibilità di parlare in corte, l'accesso a legali e capita che i tribunali sovraccarichi emettano condanne con scarse prove. Motley dice di aver rifiutato la pratica diffusa di pagare mazzette in cambio di una riduzione della pena — ma le sue frequenti denunce sulla corruzione del sistema hanno provocato l'ira del governo.
È stata pure criticata perché non si copre la testa con il velo. In tribunale non mette mai la gonna, perché sostiene che sia meglio somigliare il più possibile ad un uomo per essere ascoltata. Ha ricevuto minacce di stupro. «Immagino che se fossi un uomo riceverei molte più minacce di morte. Ma non mi mancano neanche quelle», ha detto alla giornalista Elise Jordan, che l'ha ritratta per il blog di Tina Brown, The Daily Beast.
È registrata come avvocato presso molte ambasciate in Afghanistan, inclusa quella italiana. Si è occupata di un australiano nel braccio della morte per l'assassinio di un collega afghano, di un sudafricano condannato a 15 anni per traffico di droga, e di un ex militare inglese che doveva scontare due anni per aver pagato una mazzetta. Quest'ultimo, Bill Shaw, manager di «G4S», una compagnia di contractor responsabile della sicurezza dell'ambasciata britannica a Kabul, si dichiarava innocente: non era una mazzetta ma una multa, così diceva di aver creduto, per riavere due veicoli antiproiettile confiscati dalla sicurezza afghana. Alla fine, è stato prosciolto per carenza di prove. Se i suoi guadagni vengono soprattutto da casi come questo, ha difeso però anche pachistani e africani arrestati per detenzione di stupefacenti — spesso si tratta dei cosiddetti «muli della droga», usati dai trafficanti.
C'è chi l'accusa di usare storie come quella di Gulnaz per farsi pubblicità. Lei nega. Certo però per aiutare davvero ragazze afghane come lei la strada è ancora lunga, e non si conclude in tribunale. Benché graziata, i giudici le hanno consigliato di sposare lo stupratore. La famiglia potrebbe costringerla.

Repubblica 21.3.12
"Rapimenti, torture, esecuzioni ecco i crimini dei ribelli siriani"
Denuncia shock di Human Rights Watch
di Alberto Stabile


Sui prigionieri dei rivoltosi, chiari segni di violenza fisica: bruciature e ferite sanguinanti
C´è il rischio che la protesta per i diritti civili e la dignità degeneri in un conflitto settario

BEIRUT - Rapimenti, torture, esecuzioni sommarie, non sono un´esclusiva delle forze di sicurezza siriane e delle milizie a loro associate, ma anche l´opposizione ha fatto ricorso a queste pratiche criminali. Ora, avverte Human Rights Watch, l´organizzazione umanitaria con base a New York nota per l´obiettività dei suoi rapporti, «le tattiche brutali del governo siriano non possono giustificare gli abusi commessi da gruppi dell´opposizione» contro i loro avversari, «in nessuna circostanza». Anche se non si tratta di «strutture organizzate, ma di elementi armati dell´opposizione».
La denuncia di Hrw, resa nota con una lettera firmata da Sarah Leah Whitson, la direttrice della Divisione Medio Oriente, oltre che su alcune testimonianze raccolte, si basa su 25 filmati "postati" su YouTube e analizzati, in cui compaiono esponenti dei servizi di sicurezza siriani catturati dai rivoltosi che confessano, evidentemente trovandosi in condizioni estreme, di aver commesso crimini e abusi contro i ribelli. In 18 di questo filmati i prigionieri presentano chiari segni di violenza fisica: ferite sanguinanti, bruciature, una marcata sofferenza.
E non basta. Hrw avalla la testimonianza di un attivista chiamato Mazen secondo cui un gruppo denominato Abu Issa nel villaggio di Taftanaz, nella provincia di Idlib, ha rapito e torturato a morte tre persone che avevano lavorato per il governo. A Saraqeb, sempre nella provincia di Idlib, alcuni residenti hanno denunciato rapimenti a scopo di estorsione da parte del battaglione Al Nur, un gruppo dell´opposizione salafita. Infine, Human Rights Watch cita almeno due casi di esecuzioni sommarie di elementi delle forze governative fatti prigionieri. Tra questi, un presunto appartenente alle milizie alawite, i cosiddetti shabiba, che appare impiccato ad un albero in un video del 4 febbraio. Nel commento si afferma che l´uomo è stato "giustiziato" dal battaglione Kafr Takharim, appartenente al Libero esercito siriano.
Tuttavia Human Rights Watch non lancia un´accusa generica contro l´opposizione e neanche contro il Consiglio nazionale siriano, che, per quanto diviso al suo interno, ha almeno fatto il tentativo, qualche giorno fa, di imporre un coordinamento delle varie formazioni armate attraverso un Comitato di Difesa (una sorta di Ministero della Guerra) la cui autorità, tuttavia, non è stata riconosciuta dal Libero esercito siriano, che riunisce i disertori dell´esercito di Assad e altri gruppi combattenti.
Ad accrescere l´incertezza, non soltanto sulle forze in campo ma anche sulla direzione che sta prendendo la rivolta siriana, c´è anche il rischio che quella che era nata come una protesta per i diritti civili e la dignità umana, cui il regime ha risposto con una brutale repressione, degeneri in un conflitto a sfondo settario che vede contrapporsi la minoranza alawita (corrente eterodossa della confessione sciita) cui appartiene anche il clan degli Assad, al potere da 40 anni, e la maggioranza sunnita.
Anche di questo aspetto si preoccupa Hrw quando dichiara che alcuni attacchi condotti da forze dell´opposizione sembrano aver messo nel mirino musulmani sciiti o membri della setta alawita, in quanto tali. Il che potrebbe portare a un allargamento del conflitto all´intera regione, se si tiene conto che Assad riceve il sostegno dell´Iran (sciita) e degli Hezbollah (sciiti) in Libano, mentre all´opposizione vanno i favori della componente sunnita del mondo islamico, in pratica la quasi totalità dei paesi arabi, dalla monarchia saudita ai paesi del Nord Africa. Ora, dice Whitson: «L´opposizione deve chiarire che immagina una Siria che volta pagina rispetto alle violazioni dell´era Assad e accoglie tutti, a prescindere dalla loro appartenenza religiosa e dal loro retroterra».

l’Unità 21.3.12
Gramsci, e ancora ci provano!
di Bruno Gravagnuolo


E ancora insiste! Non pago della figuraccia fatta per aver attribuito a Gramsci un «ravvedimento» inesistente, dopo aver citato un articolo del Codice Rocco che nel 1934 non lo includeva (quello a cui Gramsci si appellò per la libertà condizionale), Dario Biocca torna alla carica su Repubblica. Così: vero, l’art. 176 non prevedeva ravvedimento, ma Mussolini con l’art. 43 del Regio Decreto n. 502 del 28 -5 1931 attribuì al Ministero della Giustizia l’autorità di emanare le disposizioni applicative, con relativi decreti che imposero la verifica del ravvedimento, etc., etc.
Ma ci faccia il piacere, direbbe Totò! È roba da azzeccagarbugli. Intanto c’è la svista, marchiana per uno storico: aver citato un testo del 1962, retrodatandolo al 1934. Poi, nella sua istanza Gramsci si appella all’art. 176 quale era allora, e non anche a «disposizioni attuative» che non mutarono quell’articolo e che lasciavano comunque ampi margini di discrezionalità all’autorità. Inoltre Gramsci non firmò o barrò nessuna casella di un (eventuale) prestampato dal quale risulti essersi ravveduto. A latere, si impegnò solo a non far politica nel sito della libertà condizionale. E nell’istanza addusse, oltre alle mere «condizioni giuridiche e disciplinari» che lo abilitavano alla libertà condizionale, soprattutto drammatici motivi di salute (perché fosse chiara la motivazione della richiesta). Infine, se Gramsci si fosse ravveduto, Mussolini non se la sarebbe rivenduta la notizia? Decise per il sì, perché v’era stata una campagna in Europa, con alla testa Roland Rolland. Altra sciocchezza di Biocca: Gramsci nel 1934 interruppe i Quaderni. No, li protrae nel 1934 e nel 1935 e con dentro Americanismo e fordismo e altre cose straordinarie o politicamente pericolose. Eroicamente. Altro che pulci e processetti mediatici!

il Fatto 21.3.12
L’uomo e lo scienziato
On line l’archivio di Einstein
di Andrea Valdambrini


Lo scienziato, il pacifista, semplicemente l’uomo. È un ritratto a tutto tondo di Albert Einstein quello che emerge dalla pubblicazione online di oltre 80.000 documenti d’archivio per iniziativa della Hebrew University of Jerusalem – che lo stesso Einstein ha contribuito a fondare, e a cui ha lasciato i diritti dei suoi lavori e della sua immagine –, finanziata dalla britannica Polonsky Foundation e in collaborazione con Princeton University e California Insitute of Techology. Fotografati e messi in rete per la prima volta ( http: //alber  teinstein.info  ), i manoscritti restituiscono tanto il lavorìo scientifico che prepara e segue la Teoria della Relatività, quanto il profilo umano del nobel per la Fisica.
Sul fronte privato, ecco affiorare particolari perfino umoristici. Non solo il fisico tedesco collezionava lettere di fan dei suoi capelli, tra cui quello di una bambina di 6 anni che scriveva: “Ho visto una tua foto sul giornale. Penso tu abbia proprio bisogno di un taglio”, ma anche un appunto di un collega: “Sto facendo un’indagine scientifica per determinare perché il genio ha spesso la tendenza ai capelli lunghi”. Tra i miti da sfatare, quello di un giovane Einstein non bravo a scuola, mentre un altro testo finora inedito demolisce l’idea che la sua identità ebraica, timida nei primi anni, si fosse rafforzata solo ai tempi del nazismo.
MA È FORSE il pensiero politico di Einstein che emerge con più forza dalle nuove carte. “Fu un sionista, ma attenzione all’uso di questa parola”, ha avvertito Roni Grosz, curatore dell’archivio. Inizialmente scettico sul progetto di Stato di Israele, salvo poi appoggiarlo in modo convinto dal 1948, l’anno della sua nascita, il premio Nobel credeva fermamente nel dialogo tra arabi ed ebrei, che nella sua visione ideale avrebbe dovuto portare ad una futura “intima comunità di nazioni”, come sostiene nel corso di una corrispondenza datata 1929 con Azi al-Nashashibi, direttore del quotidiano palestinese Falastin.
Non è la prima volta che il web dimostra le sue straordinarie potenzialità di divulgazione scientifica, preziose anche per scopi di ricerca. La stessa Polonsky Foundation aveva collaborato alla resa digitale dell’opera di Isaac Newton, senza dimenticare come anche 6000 fogli manoscritti di codici leonardeschi sono visibili in rete già dal 2007. “La conoscenza non è nascondere, ma aprire”, sottolinea infatti Menachem Ben Sasson, rettore della Hebrew University.

Corriere della Sera 21.3.12
Partigiana e femminista La donna due volte libera Da «staffetta» a scrittrice Einaudi
Marisa Ombra, lettera aperta a un'adolescente d'oggi
di Elisabetta Rosaspina


Il nuovo libro di Marisa Ombra si intitola: Libere sempre, sottotitolo: «Una ragazza della Resistenza a una ragazza di oggi», pagine 84, 10, ed è edito da Einaudi Stile libero.
Marisa Ombra compirà tra poco 87 anni, è nata infatti ad Asti il 30 aprile 1925. Staffetta partigiana, è vicepresidente nazionale dell'Anpi. Nel 2006 è stata nominata Grande Ufficiale della Repubblica. I l Sessantotto è iniziato nel Quarantatré. Una guerra di liberazione dentro «la» Guerra di Liberazione. La prima volta che una ragazza, partigiana, si è rifiutata di cucire un bottone a un ragazzo, partigiano. La prima volta che una diciassettenne si è assunta la responsabilità di un turno di guardia in montagna; o ha saputo domare il suo imbarazzo nel dormire, unica donna, in una stalla, assieme a venti compagni di battaglia. Venticinque anni prima che la promiscuità nelle aule universitarie occupate suscitasse scandalo o, al contrario, vanità rivoluzionarie.
«La Liberazione aveva liberato molte cose» scrive, convinta, Marisa Ombra, con una preoccupazione fissa lungo i 23 capitoli e le 82 pagine del suo libro: non fare prediche, non dare consigli, non diventare paternalistica, «come una vecchia zia saccente». A 87 anni, rivolgendosi a un'adolescente di oggi, l'ex staffetta partigiana, l'eterna femminista, cerca piuttosto di ritrovare emozioni, paure e desideri di quella ragazza del 1939, nella consapevolezza che «avere quattordici anni oggi non è molto diverso da averli avuti settant'anni fa»; e che anche i tempi di questa e quella gioventù hanno qualcosa in comune.
«Nel '43, quando avevo poco più di 17 anni — ricorda — avevamo alle nostre spalle molte macerie e molto veleno. Esattamente come questa generazione. E anche se le macerie adesso non si vedono, sono dappertutto». Non è dato di sapere chi sia la quattordicenne di oggi che ha ispirato la lettera aperta di Marisa Ombra, quanto sia cresciuta dal loro primo incontro, avvenuto grazie alla mediazione di Ettore, un esuberante labrador biondo, ai giardini di Villa Pamphili, e quanto le siano servite, per maturare, le confessioni di un'ottuagenaria, riluttante finora a metterle nero su bianco per timore di cadere nella pedanteria.
Oggi forse non avrebbero un titolo, Libere sempre, un editore, Einaudi, e un posto sugli scaffali delle librerie, se Marisa Ombra non avesse scoperto un doloroso «inganno, nella frase: il corpo è mio e lo gestisco io». E se non nutrisse un dubbio, più simile a una speranza di riparazione: «Che qualcosa di questo racconto possa arrivare a tutte quelle ragazze convinte che il successo sia un'apparizione di dieci minuti alla tivù, il grande inganno». Di cui non vorrebbe sentirsi responsabile, sebbene involontaria.
«Quando gridavamo in piazza "il corpo è mio e lo gestisco io", mai avremmo immaginato che quella rivendicazione si sarebbe trasformata in un'arma a doppio taglio» si rammarica l'autrice. Si chiede come sia potuto accadere, come quel grido di indipendenza si sia potuto ribaltare «in una forma di schiavitù volontaria». Nel diritto di una giovane donna di proclamarsi libera e fiera «velina dentro», per esempio. Certo coerente con la libera gestione — ed esibizione — del proprio corpo. Ma in totale contrasto con le intenzioni della generazione che aveva coniato quello slogan: «L'esatto contrario perché il corpo, se esiste solo per essere desiderato e comprato, finisce per esistere in funzione dell'altro. Non è più mio, ma di chi ne gode» ha cominciato ad allarmarsi, fin dalla metà degli anni 80, Marisa Ombra, quando apparvero «sugli schermi le prime immagini di ragazze che si dimenavano seminude intorno a un presentatore che annunciava colpi grossi».
Non era per quel genere di libertà che aveva combattuto la sua guerra di liberazione: «Si è realizzato un paradosso: l'autonomia e la capacità di decidere del proprio destino sono cercate da quelle ragazze attraverso l'asservimento volontario e la perdita della dignità».
Non è facile evidenziare la trappola a una quattordicenne, senza tornare ai propri 14 anni e a quello straordinario momento in cui cambia la percezione di se stessi; e del proprio fisico: «Essere bella, è naturalmente, il desiderio più grande. Provi a capire che cosa valorizzerebbe gli occhi, le gambe o altre parti del corpo». Succedeva alle coetanee di Marisa Ombra anche fra la primavera del '39 e l'estate del '40, nonostante l'Italia si stesse avvicinando alla guerra. Ma lei stava combattendo un'altra guerra comune alle adolescenti di oggi, contro l'anoressia: non era stata l'ossessione per un corpo perfetto, ma il dolore di un lutto a provocarla. E fu una singolare terapia famigliare a curarla: l'impegno del padre, operaio, della madre, della sorella e di Marisa stessa, diciassettenne, nella Resistenza.
«La Resistenza. Almeno fino al 1982, quarant'anni più tardi, non avevo più pronunciato la parola Resistenza. Era stata per me una scelta talmente naturale — sembra ancora sorpresa la scrittrice —. È stato da femminista, nei gruppi di autocoscienza, che ho ripensato a quel momento».
Neanche questo è molto semplice da spiegare a una ragazzina di oggi. Se non in una chiave universalmente comprensibile, quella della «banda» di giovani che, in quel caso, si formò alla macchia, sconvolgendo antichi equilibri e collaudati rapporti fra i sessi, inaugurando l'era del cameratismo fra maschi e femmine, e una parità ancora sconosciuta, ma limpida. Almeno nei ricordi dell'ex staffetta: «La Resistenza fu la mia occasione».
Ma chi è nato negli ultimi anni del ventesimo secolo dove troverà la «sua» occasione? «È più difficile — riconosce Marisa Ombra —. Anche noi avevamo i nostri miti. Magari sbagliati. Come quell'amico partigiano che si faceva chiamare "Stalin" e che morì prima di sapere chi era davvero il suo idolo, senza avere il tempo di restarne deluso». Può già prevedere a quali delusioni porteranno certi miti di oggi, bellezza e successo, ma si astiene dal giudicare. Sa che ognuna dovrà combattere la sua guerra di liberazione anche quella dall'illusoria certezza che tutto si riduca a fare «quello che si vuole in quel momento».
Una ragazza, che sta diventando donna e che l'ha già capito: «È molto seria e impegnata. Lavora da precaria in campo giornalistico», non vuole dire di più su di lei, chi le ha scritto quella lettera. Ma può capitare di trovarle a chiacchierare insieme, in compagnia di Ettore, a Villa Pamphili.

Corriere della Sera 21.3.12
Il coraggio di Prometeo e l'intolleranza di Zeus
Così Eschilo racconta il supplizio del titano
di Paola Casella


«Fu mia, quella scelta». In questa dichiarazione sta la singolarità della tragedia Prometeo incatenato, nella decisione cosciente e autonoma del suo protagonista di sfidare Zeus, prima rubandogli il fuoco per regalarlo agli uomini, poi rifiutandosi di rivelare al sovrano dell'Olimpo un'informazione sul suo futuro: «Io non dirò chi deve rovesciare Zeus dal suo potere». Eppure quella rivelazione procurerebbe a Prometeo la libertà dal supplizio al quale Zeus l'ha costretto: incatenato a una roccia ai confini del mondo, con un'aquila che ogni giorno arriva, puntuale, a squarciargli le carni per divorargli il fegato. «Io non mi piegherò», ripete Prometeo, riaffermando quotidianamente la sua dignità di irriducibile. «Io sapevo questo, tutto questo», ribadisce colui il cui nome significa «presago». «Ho voluto il mio peccato: e non lo smentirò».
Eschilo costruisce il Prometeo incatenato, elemento di una trilogia i cui altri componenti, Prometeo portatore di fuoco e Prometeo liberato, sono andati in gran parte perduti, come l'espressione di una volontà libera, invece che come la realizzazione di un fato incontrovertibile e arbitrario. L'autore struttura la tragedia attraverso la polarizzazione simmetrica di due personalità contrapposte: da una parte Zeus, intollerante a qualsiasi forma di dissenso, il despota che domina «oltre ogni legge»; dall'altra Prometeo, costituzionalmente incapace di accettare imposizioni dall'alto e sempre pronto a sfidare l'autorità, a qualunque costo: un martire che va incontro al suo destino con piena consapevolezza, rifiutando di «parlare» per ottenere la clemenza del dittatore.
La modernità di Prometeo sta nella sua valenza di campione dei sottoposti, tanto più eroico (e pericoloso) per via della sua appartenenza alla stirpe divina: è un titano, «cugino» di Zeus, che era figlio di Crono. La contrapposizione fra Zeus e Prometeo è ancora oggi di eccezionale forza drammaturgica, perché rappresenta l'eterno contrasto fra la volontà di dominio del potere e la determinazione dell'individuo a mantenere salva la propria dignità.
Non è un caso che la cultura popolare abbia spesso attinto al mito di Prometeo per rappresentare un certo tipo di eroismo iconoclasta e una certa aspirazione degli uomini a superare i propri limiti: da ultimo l'atteso kolossal fantascientifico di Ridley Scott, che si intitolerà proprio Prometheus. Le arti figurative hanno rappresentato Prometeo nell'atto sia di donare il fuoco agli uomini, sia di subire il martirio che punisce il suo gesto. Anche la musica, da Beethoven a Liszt, da Fauré a Nono, ha attinto a quel mito a piene mani, per non parlare della letteratura: non dimentichiamo che il titolo completo del romanzo di Mary Shelley, storia di uno scienziato che vuole farsi Dio «creando» un essere mostruoso, era Frankenstein, o il moderno Prometeo. Ma se da un lato Eschilo fa del suo eroe un simbolo della ribellione a ogni autorità assoluta, dall'altro è abbastanza scaltro, drammaturgicamente parlando, da renderlo speculare a Zeus.
Oltre all'affetto, Eschilo evidenzia la condiscendenza di Prometeo verso gli uomini, «indifesi e muti come infanti» che, prima di lui, «avevano occhi e non vedevano». Ciò che maggiormente pesa al portatore di fuoco è la solitudine alla quale lo costringe il supplizio, e l'azione, in questa tragedia che vede il proprio eroe costretto all'immobilità, consiste esclusivamente nel viavai di una serie di interlocutori cui Prometeo può manifestare la propria sofferenza e il proprio sdegno: cui può raccontare di sé.
L'amor proprio di Prometeo, pericolosamente vicino a quella hybris cui la tragedia greca riserva sempre una punizione esemplare, diventerà dunque il «difetto fatale», e lo stratagemma drammaturgico, che consentirà a Eschilo di offrire, nel Prometeo liberato, una via d'uscita al reciproco incatenamento di Prometeo e Zeus. L'intransigenza di entrambi i personaggi si stempererà per consentire la conciliazione, secondo un iter già preannunciato dallo stesso Prometeo nell'Incatenato, laddove, parlando di Zeus, dice: «Verrà incontro ansioso alla mia ansia, vorrà legarsi con me d'amicizia». Proprio in questo anelito reciproco, nella sofferenza che causa ad entrambi il ritrovarsi su fronti opposti, sta infatti un'altra componente essenziale della tragedia: da una parte Zeus ingannato dal suo leale alleato, nonché membro della sua stessa stirpe; dall'altra Prometeo che vede tradito da Zeus il proprio senso profondo di giustizia, e per questo gli sottrae potere consegnandolo ai suoi sudditi «immeritevoli», noi uomini.

Corriere della Sera 21.3.12
La spinta verso il progresso


Uno dei paradigmi più antichi della lotta umana contro le forze ostili della natura e la tirannia del destino, è la figura del titano condannato da Zeus per aver rubato il fuoco. Il settimo volume della collana è appunto il Prometeo incatenato di Eschilo, che esce domani assieme al «Corriere» (al prezzo di un euro più il costo del quotidiano) con una introduzione inedita di Edoardo Boncinelli. E lo sguardo del genetista, oltre a sottolineare la fortuna del personaggio nella storia, ad esempio tra i Romantici, vaglia il mito anche sotto una luce insolita, quella della spinta al progresso e del rapporto cultura-natura. Così Prometeo «incarna la nostra evoluzione culturale», scrive Boncinelli, rispetto «al secolare processo dell'evoluzione biologica che ci accomuna a tutte le altre specie viventi». Non stupisce che il titano sia divenuto simbolo dell'aspirazione umana a sfidare la propria condizione: «Un dio, e dei più antichi — spiega Boncinelli — che riesce ad assurgere a simbolo dell'uomo», e lo fa nei toni drammatici e umani della tragedia eschilea. (i.b.)

Corriere della Sera 21.3.12
Platone pone l'Amore alla base della sapienza
Senza la passione non esiste vera cultura
di Nuccio Ordine


«Sarebbe bello se la sapienza fosse qualcosa che può scorrere, al semplice contatto, dal più pieno al più vuoto di noi, come attraverso un filo di lana l'acqua scorre dalla tazza più colma a quella più vuota»: l'ironica battuta di Socrate, indirizzata al tragediografo greco Agatone, tocca uno dei nodi cruciali del Simposio di Platone. Il sapere non è un dono (come ci vorrebbe far credere una certa pedagogia edonistica che ha sfasciato, negli ultimi decenni, la scuola e l'università), né si può comprare (anche in una società dove tutto si può acquistare, compresi i parlamentari): la conoscenza e la scelta di una vita retta presuppongono uno sforzo interiore, una partecipazione attiva, una ricerca continua.
Non a caso il protagonista assoluto di questo famoso dialogo platonico è Eros. Di lui discutono i sette personaggi (otto se includiamo anche la sacerdotessa Diotima, che interviene indirettamente nel dibattito attraverso le parole riportate da Socrate), offrendone diverse definizioni. Sospeso tra corpo e anima, tra pura voluttà e bellezza morale, tra umano e divino, tra sofferenza e felicità, tra separazione e unità, tra particolare e universale, Amore si caratterizza soprattutto per essere espressione di una mancanza, di una privazione.
Spetta ad Aristofane, infatti, introdurre una delle immagini più poetiche evocate nei miti platonici. Gli esseri umani delle origini erano caratterizzati da una forma sferica: un doppio corpo composto da una doppia faccia, da quattro mani e da quattro piedi. Distinti in tre sessi (uomo-uomo, donna-donna e uomo-donna), furono separati da Giove, che li tagliò in due come punizione per aver attaccato gli dei. Così Eros non è altro che la ricerca della propria metà: una ricerca che spinge gli amanti a ritrovare l'unità perduta.
Diotima, subito dopo, colloca in una dimensione diversa e più alta il tema della privazione attraverso il mito del concepimento di Eros. Durante la festa per la nascita di Afrodite, Poros (dio dell'ingegno) si concede, ubriaco di nettare, a Penia (dea della povertà): dalla loro unione viene alla luce Eros, destinato, a causa delle opposte qualità dei suoi genitori, a perdere e ad acquistare ogni cosa. Né mortale né immortale, né ricco né povero, Amore, nel suo ruolo di «mediatore», riesce a rappresentare simbolicamente la condizione del filosofo, sempre sospesa tra ignoranza e sapienza. Infatti tra gli dei, che non cercano la sapienza perché la posseggono, e gli ignoranti, che non la cercano perché credono di possederla, il vero filosofo, amante della sapienza, cercherà di avvicinarsi a essa, rincorrendola tutta la vita.
Eros, attraverso la generazione, può rendere immortale l'essere mortale. Ma Amore non genera solo figli. Oltre a fecondare i corpi, feconda anche le anime che partoriscono, a loro volta, le virtù. Un'anima gravida passa dalla bellezza dei corpi alla bellezza interiore di un'altra anima. E dall'unione tra anime belle si può dar vita a quei filosofi, «amici del Bene», in grado di reggere lo Stato, la città ideale più volte evocata da Platone.
Non bisogna, però, lasciarsi ingannare dalle apparenze. Un corpo non bello può contenere al suo interno un'anima di straordinaria bellezza. È l'esempio di Socrate stesso, che Alcibiade, nelle appassionate e commoventi pagine finali, paragona a un Sileno: si tratta di una statuetta che nell'antica Grecia rappresentava all'esterno un'immagine comica (un satiro) e all'interno raffigurava una divinità. Qui Platone ci invita a esplorare il Sileno, a penetrare al suo interno, a diffidare sempre e comunque di ciò che vediamo in superficie. Il tesoro di Socrate è custodito «dentro» di lui.
Il Simposio ci propone, insomma, un'ermeneutica che investe anche i generi letterari. Il comico — al contrario di quanto sosterrà più tardi Aristotele — non può essere separato dal tragico: «Socrate li costringeva ad ammettere che lo stesso autore deve saper comporre commedie e tragedie, e chi con la sua arte è tragediografo deve essere anche commediografo». Nei testi e nella vita l'alto e il basso, la tragedia e la commedia interagiscono continuamente tra loro. Non a caso l'immagine del Sileno sarà rilanciata con grande successo nel Rinascimento da autori come Erasmo, Rabelais, Bruno.
Così come, indipendentemente da un'adesione alla metafisica platonica, il mito di Amore-filosofo ritornerà più volte in tante riflessioni dedicate alla natura della filosofia. Senza Eros, infatti, senza quella travolgente passione che scuote il corpo e l'anima, sarebbe difficile immaginare l'avventura della conoscenza.

Corriere della Sera 21.3.12
L'Eros visto dagli antichi


Tra le opere più note di Platone, il Simposio esce sabato, come ottavo volume della collana, con la prefazione inedita di Eva Cantarella. La studiosa conduce il lettore a scoprire dapprima le caratteristiche del «simposio» in sé, cioè dell'incontro conviviale degli antichi greci («Quello che noi traduciamo spesso impropriamente con banchetto era infatti un rito»), per poi entrare nel merito del tema del dialogo platonico, l'Eros, di cui gli ospiti esaminano e confrontano tutte le forme, dalla più volgare alla più elevata. Si tratta di un documento imprescindibile «per conoscere — scrive Eva Cantarella — la concezione e la valutazione culturale dell'amore» presso i greci; è infatti «il trattato sull'amore più esteso pervenutoci dall'antichità», nonché «un'opera di importanza fondamentale non solo dal punto di vista filosofico, ma anche da quello storico». La settimana prossima, in edicola giovedì 29 marzo i Consigli politici di Plutarco (prefazione di Luciano Canfora), e sabato 31 marzo Le Nuvole di Aristofane, con prefazione di Franco Cordelli. (i.b.)

Corriere della Sera 21.3.12
Ritrovare il primato della cultura senza demonizzare l'economia
di Andrea Carandini


T rattare di cultura in rapporto all'economia sembra agli schizzinosi mescolare la spiritualità dell'umanesimo alle impurità del capitalismo. Ma ogni civiltà è stata un miscuglio di ingredienti, virtuosi e barbari. Le civiltà possono essere tuttavia migliorate, aumentando le virtù individuali (la libertà dei moderni) e quelle civiche (la libertà degli antichi), combinando merito e uguaglianza.
Vi è nelle civilizzazioni tuttavia un fondo immutabile: sono sistemi in cui si intrecciano potenza, produzione, credenze e saperi. Basta guardare al sorgere della modernità in Italia, intorno al 1500, segnata da una combinazione particolare di religione, scienza, esplorazione, commercio, espansione.
Ridurre patrimonio e produzioni culturali a merci significa mortificarne la qualità, ma depurare la cultura da qualsiasi nesso imprenditoriale, di servizio e tecnologico è altrettanto sbagliato. La vita è stata e sarà marea fluttuante e imprecisa di alto e basso, bellezza e numero, immaterialità e materialità: è il suo bello!
Proprio perché le civiltà sono sistemi, le cui componenti sono utili l'una all'altra, ogni accentuazione estrema diventa anti-sistema, buona per una ideologia più che a una politica. Ad esempio, demonizzare banche, imprese e il desiderio individuale di arricchirsi e migliorare è il contrario di quel contemperare interessi particolari e generali in cui è il segreto delle democrazie liberali. Se tutto è speculazione orrenda ne deriva che tutta la politica è in eguale misura da condannare: ma vi è mai alcunché di uniforme fra gli umani? Si salvano unicamente coloro che si autorappresentano puri da principio e per sempre, maestri nell'autoescludersi dal tutto malefico da loro configurato e nel porsi in un altrove indeterminato e raffigurato incontaminato. È un modo subdolo e partigiano di mostrarsi al di sopra delle parti, senza esserlo.
Il qualunquismo massimalistico ha una sua ragione d'essere tragica in Italia, dove — per esempio — il culto del mattone e del consumo del paesaggio è stato trasversalmente fervido — neppure un piano paesaggistico regionale è stato ancora approvato — ma tale ragion d'essere è forse anche un rimedio, offre un progetto di sviluppo equilibrato, oppure convalida, suo malgrado, il brutto concreto cui si contrappone, proponendo astrazioni illimitate, salvifiche, impraticabili?
Se tutto il fare è parimenti malefico, se la Tav in val di Susa equivale al malfamato ponte sullo Stretto, l'anima si salva ma non si elabora un'idea di sviluppo integrata, innovativa, attuabile. Non tutte le opere pubbliche sono l'inferno. Esse e i lavori privati andrebbero orientati in primo luogo al mantenimento idro-geologico, al miglioramento degli edifici contro il rischio sismico, alla loro riconversione se degradati, a una cura particolare se storicamente e artisticamente rilevanti, per non dire dei paesini di collina e montagna da salvare ripopolandoli, delle ville da riusare, e ciò per salvare o riscattare il patrimonio edilizio nazionale, impedendo che altra campagna muoia soffocata nel cemento (in questi campi servono esenzioni fiscali).
Quale potrebbe essere, allora, un'idea di crescita alternativa alla crescita abnorme? Non una crescita quale che sia (come è avvenuto), neppure la non-crescita (figlia della disperazione), neanche una crescita in cui il bene comune sia contrapposto per principio al vantaggio di singoli, imprese e banche, come avviene nei regimi autoritari volti a «perfezionare» le democrazie. Serve al contrario un contemperamento faticoso e concreto dei diversi bisogni individuali, di gruppo e generali, fra loro combinati, nello spirito della costituzione e delle leggi. Dopo i tagli indiscriminati, bisogna tornare a investire in conoscenza, bellezza, ricerca e scuola. Sono da ricostruire non solo le nostre istituzioni ma anche la cultura. Verrebbe la tentazione di dire: investiamo soprattutto in cultura, ma purtroppo i mezzi sono e saranno limitati e i bisogni della nostra società sono multiformi. Ma le priorità stanno cambiando.
Secondo un recente questionario Istat, cui hanno risposto sul web 2.500 italiani, precedono salute, istruzione e servizi (oltre il 91 per cento), in posizione intermedia sono lavoro, ricerca, patrimonio culturale, relazioni sociali (tra il 76 e l'89 per cento) e in fondo stanno benessere economico, soddisfazione per la vita, partecipazione politica, sicurezza (tra il 30 e il 44 per cento). Il benessere personale è giunto sul proscenio e con esso i beni e le produzioni culturali: la Costituzione rivive.
Il patrimonio culturale merita dunque, nell'opinione di questi cittadini, un investimento rilevante in cultura, ricerca e scuola, pari almeno a quello dei più avanzati Paesi europei come la Francia: una rivoluzione! È da sperare che il governo Monti o uno a venire, mi auguro dello stesso genere, osi elaborare un progetto di crescita in cui le varie componenti della nostra civiltà si coagulino in un sistema significativo e virtuoso. Avremmo allora finalmente quel progetto innovativo e lungimirante che negli ultimi quarant'anni è mancato, degno di una società oramai post-industriale dalla tradizione produttiva e culturale che il mondo da sempre ammira.
Pensiamo all'Italia romana: costruì vie che tagliavano campi e rivi dei valligiani di allora e che ora felicemente percorriamo; all'Italia medievale che rifece e inventò le città; all'Italia del Rinascimento, che fu non in primo luogo culturale, come idealisticamente ancora si crede, ma un laboratorio frenetico e multiforme. Partita doppia combinata a pittura non fu il segreto del nostro primato? Traiamo dunque ispirazione dalla storia passata della penisola, in cui il globo riconosce le ragioni del nostro valore. Tornare a fare contrappunto, armonioso sistema a più voci: questo si deve.
Unire ingegno alla fatica, bellezza ai lavori senza gloria, intransigenza a mitezza, profondità a lievità, dignità al coltivare (colere) in tutti i modi tutti i campi umani è un'aspirazione audace e anche possibile. Siamo in attesa, non deve passare troppo tempo, se vogliamo rialzarci.
Presidente del Consiglio superiore
per i Beni culturali

Corriere della Sera 21.3.12
«Si lavora troppo?» La provocazione di due studiosi: ora una svolta etica
di Emanuele Buzzi


MILANO — Da Adam Smith al dragone cinese che avanza sullo scacchiere mondiale: un viaggio dentro al mondo del lavoro per comprendere l'evoluzione del rapporto tra il sistema di produzione capitalistico e l'uomo. Nessuna soluzione certa, ma proposte per un orizzonte da cambiare (e che l'attuale crisi finanziaria sta già mutando): è il saggio E se lavorassimo troppo? Lo stomaco di Menenio Agrippa, gli spilli di Adam Smith e i baffetti di Charlie Chaplin di Nicola e Marco Costantino (Donzelli editore, pag. 118, euro 15), in libreria da oggi. Gli autori prendono in considerazione gli aumenti di produttività e tracciano un profilo teorico-economico di come si siano sviluppati negli ultimi due secoli: «Il rapporto tra lavoro, produttività e produzione — nell'economia globalizzata dei prodotti (e, solo parzialmente, dei fattori di produzione) — è diventato oggi estremamente complesso, riducendo gli spazi individuali di autodeterminazione della maggior parte dei lavoratori», si legge nel saggio. L'obiettivo attuale, quindi, è quello di traslare l'ottica del lavoro «dalla quantità alla qualità», come racconta al Corriere Nicola Costantino, rettore del Politecnico di Bari. «Per questo era necessaria una riflessione utopistica», una riflessione condivisa con il figlio Marco, studioso esperto in commercio equosolidale. «Occorre una svolta etica», spiega il rettore. E precisa: «Assistiamo a un doppio fenomeno. Da una parte, il livellarsi delle economie dei singoli Paesi e, al tempo stesso, l'aumento delle differenze tra poveri e ricchi all'interno dei singoli Stati. Serve un nuovo patto geopolitico che guardi alle persone». Il nodo, però, sulla questione del lavoro, non è solo etico, ma anche strutturale: «L'economia globalizzata produce sempre più beni (e, in misura inferiore, servizi) che hanno bisogno di acquirenti — scrivono gli autori —; ma la stessa economia ha bisogno di mettere i lavoratori in competizione tra loro, abbattendone il più possibile i salari». Oltretutto, la «crescita dei consumi da parte dei Paesi emergenti accelera ulteriormente l'avvicinamento al "punto di non ritorno" per gli equilibri biofisici del nostro pianeta». La soluzione? Un lungo percorso che tocca (anche) Bertrand Russell e Amartya Sen. Con una traccia: «Imparare a "produrre valori con i valori", far sì cioè che l'etica e il rispetto della persona non siano più considerati sovrastrutture». Ipotizzando anche una fase di decrescita. «Dobbiamo imparare a immaginare prima, e attuare poi, modelli di vita più equi e sostenibili, a livello mondiale». O anche, incentivare lo sviluppo della finanza etica. «Sono esempi in controtendenza e dimostrano che l'impostazione classica economica di considerare il consumatore egoista non è l'unica». Anzi. Nel 2009 le vendite al dettaglio di prodotti equo-solidali hanno raggiunto il valore di 3,4 miliardi di euro. Dal lato della produzione, si contano 445 organizzazioni di produttori membri di World Fair Trade Organization in più di 70 Paesi. In fondo, ricorda Costantino con una battuta, «il lavoro è fatto per l'uomo e non l'uomo per il lavoro».

La Stampa TuttoScienze 21.3.12
Uno studio dell’Isi Founfation ha esaminato 130 milioni di messaggi su Twitter: ecco cosa ha scoperto
“So che cosa pensate e perché”
La scienza della complessità indaga le tempeste della psiche collettiva
di Gabriele Beccaria


Ciro Cattuto Fisico RUOLO: E’ VICEDIRETTORESCIENTIFICO EDIRETTOREDEL LABORATORIO DI «DATASCIENCE»DELL’ISIFOUNDATION DI TORINO IL SITO: HTTP://WWW.ISI.IT/

Centotrenta milioni di messaggi su Twitter concentrati in pochi mesi: è questa la miniera in cui inoltrarsi. Obiettivo: prima di tutto non perdersi e poi capire come le emozioni si appiccicano a fatti e personaggi e altrettanto rapidamente se ne separano, dando vita ai fenomeni che sbrigativamente definiamo «popolarità».
A uno scienziato sociale di qualche decennio fa un’impresa del genere sarebbe sembrata un sogno inafferrabile. Ora per gli scienziati della complessità è un’avventura possibile, sospesa tra l’abisso della potenza di calcolo e la voragine dell’imprevedibilità. Da una parte ci sono gli algoritmi da far girare sui computer e dall’altra i fuochi d’artificio delle sorprese: quali sono le leggi che governano bonacce e tempeste della psiche collettiva?
Ciro Cattuto è il vicedirettore scientifico dell’Isi Foundation di Torino alla guida del gruppo che ha affrontato la mole dei 130 milioni di messaggi e li ha spremuti e trasformati: «Il bello - spiega - è osservare come si concentra l’attenzione di una folla su una storia e come si risolve. Twitter svela in tempo reale fenomeni che finora restavano nascosti». E infatti il sistema risponde istantaneamente e produce scie di impronte digitali che intersecano i fatti reali. «Abbiamo sfruttato gli “hashtags”, il meccanismo con cui gli utenti annotano i contenuti, per filtrare i messaggi e capirne le caratteristiche». E di analisi in analisi ecco la scoperta: «Sono apparse quattro categorie» - continua Cattuto - che corrispondono agli atteggiamenti individuali. Le reazioni «prima e durante» un fenomeno, quelle «durante e dopo», quelle «simmetriche», vale a dire in contemporanea, e quelle «sul singolo giorno» del picco dell’evento.
Interagendo, gli atomi degli individui diventano folle rumorose. E si rivelano sotto forma di visualizzazioni grafiche elaborate dalle sequenze numeriche. Nel «trend anticipatorio» in occasione dei Masters di golf si assiste al crollo dell’attenzione quando Tiger Woods esce di scena, mentre nel «trend in tempo reale» innescato dalla sparatoria di Winnenden il processo è opposto, con un isterismo istantaneo che velocemente decresce. Il «trend simmetrico», invece, con una parabola di anticipazioni e reazioni è esemplificato dalle discussioni sul kolossal «Watchmen» e si contrappone al «trend in tempo reale» materializzatosi con il discorso sullo stato dell’Unione di Obama: un singolo flash di energia collettiva, capace di annullare il prima dell’attesa e il dopo delle riflessioni.
Agli occhi dello studioso si tratta degli scenari sputati dalla dimensione parallela che intreccia l’iper-struttura tecnologica, i contenuti semantici e le dinamiche sociali. Inghiottita da Twitter, la cronaca sparisce, ma a farla riapparire è proprio la logica della complessità applicata dal team di Cattuto. Il caos originario (indecifrabile) lascia il posto ai processi epidemici (decifrabili). «Facciamo in modo che la massa di bytes diventi navigabile grazie a tecniche di analisi automatica del testo: così si evidenziano i movimenti d’opinione su eventi specifici e li si studia sotto una varietà di punti di vista». Giornalisti e storici pregustano opportunità uniche, ma non solo. La National Library di Washington archivia Twitter per future consultazioni e il dipartimento dei pompieri di New York lo monitora allo scopo di reagire a possibili emergenze. «E’ chiaro che il nostro lavoro - sottolinea Cattuto - è solo uno dei tasselli del lavoro di interpretazione di un flusso quasi infinito tra uomini e macchine».
Tra gli uni e le altre si estende la «terra di mezzo» degli algoritmi. «Anche se non ce ne rendiamo conto, i comportamenti online - dice Cattuto vengono indotti o influenzati da decisioni prese dalle formule che fanno funzionare il “machine learning”, con il quale si estraggono regolarità in un oceano altrimenti indistinto». Così chi frequenta siti come Amazon è tenuto d’occhio da software che aggiornano il suo profilo: «Più frequenti sono le interazioni e più raffinato diventa il modello che i computer hanno di noi». Insomma, miliardi di identikit che contribuiscono all’esplosione delle informazioni nota come «Big data»: le bulimiche banche dati sugli utenti si affiancano a quelle della grande scienza.
Neuroscienze, biologia, fisica. Sono alcune delle discipline che sbriciolano le capacità di saturazione dei cervelli biologici, inaugurando l’era dei saperi estremi. Dall’osservazione dei fenomeni sociali alle ricerche sul sé la complessità trascende l’obiettivo del riduzionismo: un ordine da trovare e idealizzare in una teoria semplice quanto elegante. Ora, invece, ci si focalizza sulle proprietà dei sistemi, con sguardi da «macroscopio». Un simbolo è la climatologia, punteggiata da misteri e sempre più gonfia di dati, raccolti da satelliti in orbita, boe nei mari, centraline nelle città. Temperature, precipitazioni, CO2 e cicli solari: continua a fuggire nel futuro il momento in cui si darà un senso al tutto (e al molto che resta ignoto) e intanto si fa interagire ciò che si raccoglie e si elaborano i risultati, in una catena che si autoalimenta. Se non è complessità questa...
Ma il simbolo dei simboli è Google: il re dei motori di ricerca è il network che processa ogni tipo di conoscenza e rappresenta il candidato ideale per fondere mondi virtuali e realtà materiali attraverso computer le cui prestazioni corrono dal peta all’exa, fino allo yotta. Su questa onda molti scienziati promettono scoperte rivoluzionarie. Ciò che si sente già adesso, però, è il profumo dei dollari, come testimoniano i Brin di Google e gli Zuckerberg di Facebook. I megaricchi sono i maestri della gestione dei megadati e chi sogna il successo deve seguirne le tracce. Dice il McKinsey Global Institute che negli Usa è iniziata la caccia a 190 mila professionisti dell’«expertise analitica» e a un milione e mezzo di managers esperti (i «data-literate»). In attesa dei futuri Nobel ci si gode il business.

La Stampa TuttoScienze 21.3.12
Qual è il vero? I due Darwin che fecero litigare il mondo
Est vs Ovest: su ereditarietà e ambiente si è giocata una lunga partita ideologica Ora potrebbe risolversi con la nuova traduzione della sua opera “La variazione”
di Alessandro Volpone


Alessandro Volpone Storico della scienza RUOLO: E’ RICERCATORE DI STORIA DELLA SCIENZA ALL’UNIVERSITA’ DI BARI IL LIBRO: «LA VARIAZIONE DEGLI ANIMALI E DELLE PIANTE ALLO STATO DOMESTICO» - EINAUDI

Negli Anni 50 del secolo scorso, in Occidente, la Grande Sintesi evoluzionistica suffragava «L’origine delle specie» di Charles Darwin del 1859, riformulando la teoria darwiniana in accordo con le moderne conoscenze genetiche. Nello stesso periodo anche l'Urss magnificava il naturalista inglese, ma per un'altra opera: «La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico» del 1868. Sulla base delle cognizioni dell'epoca in cui fu scritta, la «Variazione» poneva particolare enfasi sul ruolo dell'ambiente e proprio per questo veniva apprezzata nei Paesi che, sotto l'egida di Stalin, avevano abbracciato le teorie ideologizzate dell'agronomo ucraino Trofim D. Lysenko. Si ebbero così due Darwin, corrispondenti a due differenti visioni della scienza della vita.
È questo il culmine di una lunga controversia di natura sia scientifica sia politico-culturale iniziata già alla fine degli Anni 20. Nel corso del 900, infatti, la «Variazione» aveva ricevuto un' attenzione sempre più scarsa, cadendo nell'oblio. In Italia si può prendere ad esempio la voce «genetica» della Grande Treccani, scritta dal padre dello studio di geni e cromosomi, lo statunitense Thomas H. Morgan. Menzionava l'«Origine» di Darwin tra i lavori anteriori alla riscoperta delle leggi di Mendel nel 1900. Ma taceva sulla «Variazione», opera ciclopica e specificamente dedicata all'argomento. Questo e altri silenzi appaiono oggi significativi. Le uniche riproposizioni novecentesche dell'opera si ebbero in nazioni che ruotavano nell' orbita sovietica: nel 1951 fu realizzata una nuova traduzione in russo, seguita nel 1959 da traduzioni in polacco e in ungherese.
Ciò che era in discussione non era il darwinismo in sé, ma il meccanismo ereditario alla sua base. La genetica mendeliana-morganiana - oggi ancora essenzialmente valida - era etichettata come scienza «borghese e reazionaria», perché radicava le mutazioni nelle dinamiche «interne» di geni e cromosomi e riteneva che fossero casuali. I genetisti sovietici d'impostazione «occidentale», come Nikolaj Vavilov, furono perseguitati e uccisi, le loro scuole disperse. L'idea di Lysenko di poter modificare indefinitamente la struttura ereditaria «dall'esterno», al contrario, sembrava soddisfare le tesi del marxismo-leninismo, che prevedeva nei processi trasformativi sia della società sia della natura azioni reciproche di tipo «dialettico».
La contrapposizione ideologica, probabilmente, spinse a irrigidire le interpretazioni delle idee di Darwin in materia di variazione ed ereditarietà, che sono rimaste misconosciute a lungo e solo di recente l'argomento è stato affrontato con maggiore lucidità. Qual è, dunque, il vero Darwin? L'origine della variazione, nella sua ottica, era basata sull'interazione di (almeno) tre fattori. Darwin identificava la causa primaria con l'azione «indefinita» dell'ambiente e la causa secondaria con gli effetti dell'incrocio e ad entrambe affiancava come con-causa la natura dell'organismo. Non credeva, però, nella trasmissione dei caratteri acquisiti, come talvolta si sostiene; e nel principio dell'uso e del disuso non vedeva una causa di variabilità, ma una modalità di crescita.
La nuova traduzione italiana della «Variazione», in versione integrale, rappresenta ancora, clamorosamente, l'unica riedizione post-ottocentesca dell'opera in un Paese occidentale. La posizione di Darwin, così come emerge in questa pubblicazione edita da Einaudi e da me curata, non coincideva né con l'una né con l'altra stigmatizzazione culturale, ma era intermedia tra internalismo ed esternalismo. È interessante notare che oggi la ricerca sviluppa una diversa concezione del rapporto organismo-ambiente, tenendo conto sia dei fattori interni (mutazione e ricombinazione) sia di quelli esterni (l'interazione con l'ambiente). C'è stato quindi un maggiore avvicinamento alle idee originali di Darwin, che possono essere viste sotto una nuova luce. Anche in questo caso, però, bisogna non eccedere con le attualizzazioni: Darwin è stato uno scienziato acuto e lungimirante, ma resta pur sempre un naturalista della sua epoca.
A cura dell’Agi - Associazione Genetica Italiana 8 - CONTINUA LA PROSSIMA SETTIMANA