giovedì 29 marzo 2012

l’Unità 29.3.12
Ingrao domani compie 97 anni: manifestazioni al Crs e a Lenola


Pietro Ingrao compie domani 97 anni. Il Centro di riforma dello Stato organizza una conferenza per festeggiare il compleanno nella sala Capitolare in piazza della Minerva 38 a Roma (ore 17). Il tema: «L’alta febbre del fare. Democrazia e lavoro nel nuovo secolo». In programma gli interventi di Mario Dogliani, Mario Tronti e Maurizio Landini. Partecipano inoltre Maria Luisa Boccia, Vannino Chiti e Walter Tocci.
Festeggiamento anche a Lenola, il paese natale di Pietro Ingrao. Il 4 aprile, presso il “Cinema Lilla” verrà presentato il sito internet con tutti gli atti e gli interventi parlamentari, nonché i libri, gli articoli, le poesie e gli scritti sul cinema. A illustrare il sito la curatrice, Chiara Ingrao. La serata sarà condotta da Marrigo Rosato, amico di lunga data. La lettura di alcuni brani fra i più significativi è affidata a Pier Giulio Cantarano. Infine un concerto del maestro Ambrogio Sparagna.

l’Unità 29.3.12
Dopo la sentenza che ha dato ragione alla Fiom sulla rappresentanza in fabbrica
Il giornale era stato rimosso dall’azienda un mese e mezzo fa: un gesto clamoroso
Magneti Marelli, «l’Unità» torna nella bacheca sindacale
C’era stata una sollevazione popolare. E ora la ferita politica e sindacale è stata sanata: «l’Unità» è tornata nella bacheca della Magneti Marelli a Crevalcore. Il giorno dopo la sentenza del giudice sulle Rsu.
di Giulia Gentile


Dai cancelli principali della Magneti Marelli rientrano a testa alta i delegati della Fiom-Cgil. E insieme a loro, le pagine de L’Unità. Nel “day after” della sentenza bolognese, con cui mercoledì un giudice ha imposto al gruppo Fiat di riconoscere i Responsabili sindacali d’azienda della Cgil nelle fabbriche del gruppo a Bologna e Crevalcore, nelle bacheche sindacali è comparso il primo volantino dei metalmeccanici Fiom.
E insieme a questo, sono state affisse di nuovo nella vetrina pubblica anche le pagine del nostro quotidiano, con il titolo di prima “Ritorno in fabbrica” e la foto dello stabilimento di via del Timavo a Bologna. «Abbiamo avuto dalla direzione le chiavi per affiggere un nostro comunicato e le prime tre pagine de L’Unità racconta Francesco Di Napoli, ex rsu Fiom di Crevalcore, a una quarantina di Km da Bologna -. Per noi era importante, dopo tre mesi di silenzio e censura, far vedere ai lavoratori che eravamo tornati». Poi sono arrivate le congratulazioni degli operai alle ex Rsu della sigla di categoria Cgil, che nello stabilimento del Bolognese rappresenta il 70 per cento su 350 tute blu, e a Bologna la maggioranza assoluta fra i 665 lavoratori. Ma se è vero che, per il rientro a tutti gli effetti dei delegati negli stabilimenti, secondo il segretario provinciale della Fiom-Cgil Bruno Papignani serviranno almeno alcuni giorni («Non prima di lunedì», pronostica Papignani), già ieri gli ex rsu hanno chiesto ai responsabili del personale di poter rientrare al più presto in possesso della saletta sindacale da cui erano stati sfrattati all’inizio dell’anno.
E pure delle bacheche “specifiche” per i giornali, dove almeno dagli anni Settanta ogni mattina i lavoratori Fiom affiggevano (spesso dopo aver fatto collette di autofinanziamento) il quotidiano fondato da Gramsci. «C’è un gran bel clima dice Massimo Monesi, delegato Fiom in via del Timavo a Bologna -: siamo contenti. E una volta chiariti definitivamente modalità e tempi tecnici del nostro rientro, torneremo alla carica per saletta e bacheca».
Nei giorni scorsi, nei due stabilimenti Marelli del Bolognese Fim-Cisl e Uilm-Uil avevano già avviato le procedure per le elezioni delle Rsa, che con il nuovo contratto del gruppo Fiat da dicembre hanno sostituito le vecchie rsu. Proprio per effetto del nuovo accordo aziendale, siglato tre mesi fa dalle sole Cisl e Uil, Fiom era stata di fatto cacciata dalle fabbriche del gruppo. E con lei, dall’inizio del mese, anche le bacheche con L’Unità erano sparite. «Sembrava volessero dirci “o pensi o lavori” riflette Daria Marrucci, con Monesi fra i sette ex delegati Fiom della ex Weber di Bologna oggi finalmente possiamo festeggiare». La delegata fa anche parte del coordinamento nazionale delle lavoratrici Fiat. E con loro, all’inizio di marzo aveva incontrato a Roma senatori e senatrici Pd per sottoporre loro uno dei tanti aspetti del nuovo contratto aziendale del Lingotto: quello che pone il veto sul premio di produttività (600 euro) per chi manca dal lavoro per oltre nove giorni nei primi sei mesi dell’anno. Ergo, soprattutto per le donne assenti per maternità (compresa quella obbligatoria), allattamento, cura di un famigliare o malattia di un figlio. «Abbiamo scritto anche al ministro Elsa Fornero ricorda Marrucci e ci aveva promesso che ci avrebbe incontrate. Per noi si tratta di una discriminazione chiarissima». Insieme agli altri delegati, e a molti lavoratori della Marelli, anche Daria lunedì prossimo sarà alla grande festa per L’Unità organizzata al bolognese teatro Duse. Intanto, il tam tam sulla vittoria in tribunale della Fiom cittadina passa attraverso il social network Facebook. «Ecco finalmente la libera bacheca sindacale di un tempo!!! esultavano ieri sulla pagina della Fiom-Marelli -. Con noi è rientrata in fabbrica anche L’Unità».

l’Unità 29.3.12
Scritte fasciste contro il direttore de l’Unità


Slogan e celtiche sono apparsi, nella notte fra martedì e mercoledì, nei pressi del liceo Augusto, in via Gela a Roma. le scritte sono firmate da LottaStudentesca, movimento giovanile di Forza Nuova, che li ha anche rivendicati su Facebook. In uno si attaccano i giornalisti, in riferimento anche alla visita del direttore de l’Unità, Claudio Sardo, che ieri mattina ha preso parte all’assemblea di istituto. «Giornalista servo del sistema», recitava una scritta che, sulla pagina Facebook del movimento di estrema destra è stato così spiegato: «Una buona accoglienza per l’Unità al liceo Augusto». Il comitato di redazione de l’Unità ha denunciato «il volgare attacco contro il direttore del giornale». «I toni offensivi della scritta si legge in una nota - la firma con una croce celtica e la rivendicazione on-line del gruppo neofascista “Lotta Studentesca” - ci riportano indietro a ben altri tempi, quando la libertà di stampa e l’autonomia di una testata storica come l’Unità era sotto attacco da parte di chi sperava di spegnere una voce libera e indipendente ed ogni confronto».

l’Unità 29.3.12
Torna l’unità sindacale In piazza per le pensioni
Manifestazione unitaria di Cgil, Cisl, Uil e Ugl il 13 aprile: risolvere il dramma degli esodati. I metalmeccanici della Uil scioperano sull’art. 18
Cgil, Cisl, Uil e Ugl saranno uniti in piazza il 13 aprile dopo molte incomprensioni. La protesta sarà per correggere la riforma delle pensioni e in particolare sul tema degli esodati e delle ricongiunzioni onerose.
di Massimo Franchi


A otto giorni di distanza dal martedì in cui si sono divisi (davanti a Mario Monti) sull’articolo 18 e la riforma del lavoro, Cgil, Cisl, Uil e Ugl si ritrovano uniti. L’annuncio è arrivato ieri: venerdì 13 aprile Susanna Camusso, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti e Giovanni Centrella parleranno dal palco della stessa manifestazione contro la riforma delle pensioni e per risolvere il drammatico problema degli esodati e delle ricongiunzioni milionarie. Si tratta delle migliaia e migliaia di persone (che l’Inps non riesce ancora a quantificare) che hanno firmato un accordo per lasciare le aziende in prossimità della pensione e poi si sono ritrovate senza lavoro e con l’età pensionabile allungata dai 5 anni in su. Accanto a loro, ci sono poi altre migliaia di persone che dovranno pagare, grazie ad un decreto di Giulio Tremonti dell’agosto 2010, centinaia di migliaia di euro per poter ricongiungere gli anni di contributi versati a diversi enti previdenziali. Le loro storie le abbiamo raccontate il 22 febbraio su queste pagine.
CAMBIARE LA RIFORMA
«Quella del 13 aprile ha spiegato il segretario generale della Cgil Susanna Camusso è una manifestazione di tutti i lavoratori, perché tali li consideriamo, che con la cosiddetta riforma delle pensioni sono diventati esodati: dovevano accedere alla pensione invece non hanno né lavoro né ammortizzatori e sono alla ricerca di una soluzione». Ma anche «di tutti quei lavoratori che per effetto delle norme delle finanziarie del governo precedente si trovano a dover affrontare ricongiunzioni molto onerose per poter ricostruire le loro carriere pensionistiche. Tutti quei soggetti che pagano un prezzo altissimo a una riforma che è stata fatta senza tener conto di una realtà presente e dei diritti in essere dei lavoratori».
Dello stesso avviso anche Raffaele Bonanni. «Il governo e il Parlamento ha detto il leader Cisl devono risolvere il problema di centinaia di migliaia di persone rimaste già senza stipendio e senza pensione», i cosiddetti esodati, per effetto della riforma delle pensioni. Deve essere chiaro che su questo problema delle pensioni non faremo sconti a nessuno».
Molto duro il leader Uil Luigi Angeletti: «I lavoratori esodati hanno fatto una scelta fidandosi delle regole esistenti. Un qualunque governo decente deve garantire la validità di patti precedentemente sottoscritti. Si pone un problema di credibilità. Noi lo sollecitiamo ad onorare impegni che lo Stato si è assunto nei confronti di tanti suoi cittadini».
L’argomento “esodati” sarà poi al centro della relazione con cui oggi Giovanni Centrella a Roma darà il via al terzo congresso confederale dell’Ugl, che lo vede unico candidato alla rielezione. «Anche l'Ugl parteciperà alla manifestazione nazionale con Cgil, Cisl e Uil contro la riforma delle pensioni del 13 aprile a Roma annuncia Centrella . Resta fermo il nostro “No” ad un provvedimento iniquo, che ha colpito categorie già deboli, dai lavoratori interessati da accordi di mobilità lunga, i cosiddetti “esodati”, a coloro che erano ormai vicini alla pensione. Le modifiche attuate successivamente prosegue Centrella non sono sufficienti a colmare l’ingiustizia di una riforma che non tiene conto dei sacrifici già affrontati da chi è già stato colpito dalla crisi».
ESODATI: MISTERO SUL NUMERO
Sull’argomento ieri è stato ascoltato in commissione Lavoro alla Camera il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua. A chi gli chiedeva conferma del numero (350mila), Mastrapasqua ha risposto che la cifra «non è ancora definita», ma al ministero del Lavoro è al lavoro un tavolo a cui partecipa anche l'Inps. «Confermo che il ministero ha l’impegno di emanare un decreto al 30 giugno per risolvere il problema e che sta lavorando per rispettare la scadenza temporale del Parlamento», ha spiegato Mastrapasqua. Il problema principale è quello di, dopo aver accertato il numero delle persone coinvolte, individuare la copertura finanziaria sufficiente.
Nei giorni scorsi la ministra Elsa Fornero aveva annunciato un tavolo con i sindacati proprio su questi temi. Ma la convocazione non è ancora arrivata.

Repubblica 29.3.12
Landini, leader della Fiom: la manifestazione unitaria è certamente una buona notizia
"Insieme a difesa dei 350 mila spero succeda anche per Fiat"


"C´è il diritto alla pensione dei lavoratori espulsi Appello a Uilm e Fim"

Una manifestazione unitaria il 13 aprile? «Una buona notizia certamente. Ma per noi non è una novità: abbiamo scioperato contro questa manovra già il 9 marzo». Maurizio Landini, leader nazionale della Fiom, non rinuncia a marcare le differenze ma lancia un appello: «A Fim e Uilm perché anche in Fiat non seguano l´azienda nella strategia della discriminazione».
Landini, come mai una manifestazione unitaria dopo tanto tempo?
«Il problema del diritto alla pensione dei lavoratori espulsi prima del tempo dalle aziende è una questione che riguarda oltre trecentomila persone. E´ giusto che unitariamente si sia deciso di chiedere la modifica della riforma su questo punto. Che era uno dei punti critici da noi segnalati immediatamente».
In questi giorni di proteste contro, l´articolo 18 ci sono sindacalisti che dicono: «Non scioperate insieme alla Fiom». Che cosa risponde?
«Rispondo che a giudicare dalla mobilitazione quegli appelli non vengono seguiti. In molte aziende i lavoratori protestano in modo unitario contro la proposta di modifica dell´articolo 18. La Uilm ha proclamato quattro ore di sciopero».
Segnali di ritorno all´unità sindacale. Accadrà anche in Fiat?
«Per il momento in Fiat c´è un´altra sentenza che ha riconosciuto il nostro diritto ad essere rappresentati in fabbrica anche se non abbiamo firmato l´accordo. Il giudice di Bologna su questo è stato chiarissimo. E´ la quinta sentenza in un anno e mezzo che punisce la Fiat per aver discriminato la Fiom. Anche il giudizio sui licenziamenti di Melfi lo dimostra».
Rientrerete in Fiat accettando gli accordi firmati dagli altri sindacati?
«I tribunali dicono che abbiamo diritto di rientrare anche se non firmiamo. Noi non abbiamo altro scopo che quello di ottenere dall´azienda impegni chiari sugli investimenti e sugli stabilimenti italiani. E di ottenere che venga ripristinata la democrazia in fabbrica. A Fim e Uilm chiedono di non seguire l´azienda in una strategia della discriminazione che oggi colpisce noi, domani potrebbe colpire loro e in ogni caso colpisce i lavoratori».
(p.g.)

l’Unità 29.3.12
Bersani: «Ho fiducia ma non so se tutti sono convinti di abbandonare il Porcellum»
Maroni usa le stesse parole che usò Calderoli: «Una porcata». Vendola attacca il Pd
Lega, Idv, Sel e Destra: bordate contro l’intesa Il testo andrà al Senato
I tecnici dei tre partiti di maggioranza danno il via libera alla riforma che ora approderà in Senato. La prossima settimana ufficio di presidenza del Pdl. In fibrillazione i piccoli, da Grillo alla Destra di Storace.
di Federica Fantozzi


Il giorno dopo l’intesa al vertice per l’addio al Porcellum, i politici hanno già il pallottoliere in mano.
Mentre Monti, impegnato nella sua “missione Asia”, si limita a un no comment. E gli sherpa della maggioranza al termine della riunione con Violante, La Russa, Quagliariello, Bocchino e Adornato hanno dato via libera al testo che approderà in Commissione Affari Costituzionali al Senato.
L’impianto proporzionale, l’elezione dei parlamentari (in parte) con i collegi uninominali, la sostituzione del premio di maggioranza con uno più piccolo di governabilità, soprattutto l’eliminazione del vincolo di coalizione, agitano i partiti. In fibrillazione i piccoli timorosi di soglie si sbarramento killer. Ma anche dentro Pdl e Pd non mancano gli scontenti. Gli ex An chiedono ad Alfano di convocare il partito e discutere «evitando lacerazioni». E il segretario cede: prossima settimana ufficio di presidenza con Berlusconi.
Bersani, ieri a Lisbona, ha espresso qualche preoccupazione: «Ho fiducia ma non posso dire che il percorso sia sicuro. Non tanto per il Pd che ha un dibattito trasparente ma sul fatto che tutti siano convinti di cambiare la legge elettorale. Per noi è una priorità». E a proposito delle critiche interne: «Ci sono i gusti più disparati ma vogliamo tenerci il Porcellum o cambiare? Ciascuno deve uscire dalle convinzioni profonde o ce lo teniamo. Il nuovo modello penalizza soprattutto il Pd? Siamo generosi ma non così tanto».
Maroni attacca frontalmente i tre partiti di maggioranza definendo la bozza di legge elettorale «una vera porcata». Pare di capire che quella del suo collega di partito Calderoli, tuttora in vigore, sarebbe, insomma, un finto Porcellum. Sintonia di espressioni con Antonio Di Pietro: «Dalla porcata di Berlusconi alla vaccata di questa assurda maggioranza». L’ex pm si chiede «perché il cittadino non deve sapere, prima di votare, qual è il programma, chi sarà premier e soprattutto la coalizione? Dopo il voto, i partiti adotteranno le soluzioni e faranno gli accordi che più gli convengono. È prostituzione politica». E il solitamente compassato Donadi chiosa evocativo: «Dal Porcellum al Bordellum».
Anche i Verdi gridano alla «truffa» e chiamano alla mobilitazione i cittadini. Nichi Vendola promette «una reazione durissima contro il Pd» se non cambia questa legge da «blindatura della casta» destinata a peggiorare «un Parlamento segnato dall’antropologia degli Scilipoti». Beppe Grillo teme che la soglia di sbarramento (intorno al 4-5%) cancelli il Movimento 5 Stelle: «I partiti nel panico partoriscono in poche ore il tedesco bipolarizzato». Anche Storace, preoccupato per il futuro della sua Destra, avvisa: «Venderemo cara la pelle».
Nel Pdl, Alfano deve difendersi dall’accusa di aver siglato un patto elettorale con Bersani e Casini senza consultare nessuno. L’ufficio di presidenza si annuncia animato. Il falco Bianconi ha tuonato contro «il partito degli optimati». Ieri l’ex ministro Altero Matteoli ha ribadito: «È necessario che si discuta su un tema vitale, senza una sintesi conseguenze gravissime». Sebbene Gasparri e La Russa siano dialoganti, l’area degli ex An è agitata. Anche dal moltiplicarsi di spinte neo-forziste in tutto il Nord Italia e dalla ventata di «ritorno alle origini» che scuote gli azzurri della prima ora. E teme di ritrovarsi ai margini, senza voce in capitolo. Così il senatore Nania, ex “saggio di Lorenzago” ai bei tempi impegnato sulle riforme, ammonisce. «I partiti che non discutono non sono democratici, Alfano eviti lacerazioni».
Anche nel Pd c’è chi non apprezza la nuova legge. Soprattutto nell’area prodiana. A partire da Arturo Parisi, referendario storico, che parla di «imbroglio» e «porcellinum». Spiega l’ex spin doctor dell’Ulivo: «Stanno intraprendendo un viaggio a ritroso. I cittadini non ricordano da dove eravamo partiti, da una partitocrazia dove i capi facevano e disfacevano i governo ogni dieci mesi regalandoci instabilità e debito pubblico». E ancora: «Mi chiedo se i dirigenti non debbano tornare ai vecchi partiti». Cioè Ds e Margherita. Di avviso opposto Enrico Letta: «L’intesa No Porcellum non è ritorno al proporzionale» ha assicurato «lo schema 50% uninominale e 50% liste è parente del 75-25 del Mattarellum, non della Prima Repubblica».

l’Unità 29.3.12
Avanza la riforma costituzionale: più poteri al premier, sfiducia costruttiva e meno parlamentari
Questioni aperte sulla nuova legge elettorale. Si discute dell’indicazione del premier nella scheda
Torna il collegio. Via le coalizioni. La nuova legge stile Berlino
Intesa più solida sulle riforme costituzionali, pronte a partire in Senato tra due settimane. Complicazioni sulla legge elettorale alla tedesca, ma il mini premio al partito più votato è favorito sul correttivo spagnolo.
di Andrea Carugati


Passi in avanti più decisi sulla riforma costituzionale, ancora qualche incertezza sul nuovo sistema elettorale tedesco corretto.
Dopo il vertice dei tre segretari Pd-Pdl-Udc, che ha dato il via libera allo schema di intesa sulle riforme, procede il lavoro degli esperti che stanno mettendo a punto il testo delle nuove norme che modificheranno il funzionamento del sistema politico. Il primo pacchetto di riforme costituzionali dovrebbe iniziare il suo percorso in Senato già tra 15 giorni, sotto forma di emendamenti ai testi di riforma già incardinati.
LA RIFORMA COSTITUZIONALE
I deputati passano da 630 a 500 (più 8 eletti nelle circoscrizioni Estero) e i senatori da 315 a 250 (più 4 eletti all’estero). Si riduce l’età per l’elettorato attivo e passivo: sarà eleggibile alla Camera chi ha compiuto 21 anni e al Senato chi ha almeno 35 anni. La riforma introduce anche il cosiddetto “bicameralismo eventuale”: sarà la Camera ad occuparsi delle materie di «esclusiva competenza dello Stato», mentre palazzo Madama sarà competente per le materie di «potestà legislativa concorrente» tra Stato e Regioni. Dunque, le leggi saranno approvata da una sola Camera,
salvo che l’altra, entro 15 giorni (e attraverso il voto del 30% dei suoi componenti) non richiami a sè la legge in questione.
La bozza prevede anche un rafforzamento del ruolo dell’esecutivo. Il presidente del Consiglio potrà proporre al Presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri e chiedere al capo dello Stato lo scioglimento delle Camere a meno che le Camere, entro 15 giorni, non approvino la mozione di sfiducia costruttiva che deve essere sottoscritta da almeno un terzo dei componenti di ciascuna Camera e contenere l’indicazione del nuovo premier. Inoltre, il governo potrà chiedere che un disegno di legge sia inserito con priorità all’ordine del giorno della Camera che dovrà rispettare termini stabiliti per l’esame e per approvazione.
Resta aperta una questione: a concedere e revocare la fiducia al governo potrebbe essere la sola Camera dei deputati. La proposta è sostenuta con forza dall’Udc, ma finora non si è arrivati ad una intesa.
LA NUOVA LEGGE ELETTORALE
Qualche complicazione in più sul nuovo sistema elettorale, che necessità, come ha confermato Luciano Violante, di una ulteriore messa a punto. Lo schema però è abbastanza chiaro: metà dei deputati eletti in collegi uninominali e metà in liste bloccate, di piccole dimensioni, per favorire la riconoscibilità dei candidati. Nonostante la presenza dei collegi, che favorisce il rapporto eletto-elettore, l’impianto del sistema, come in Germania, è proporzionale: ogni partito prende un numero di seggi in rapporto ai voti ricevuti. Ci sarà poi una soglia di sbarramento al 4 o 5%, e un «diritto di tribuna» per le forze che non la supereranno. Il punto chiave è la fine delle coalizioni preventive che hanno caratterizzato la seconda Repubblica: questo sistema, eliminando il premio di maggioranza, non favorisce più le coalizioni. Ma non elimina la facoltà dei partiti di dichiarare prima del voto le proprie alleanze.
Sulla unica scheda, l’elettore troverà il nome dei candidati nel collegio uninominale con il simbolo dei rispettivi partiti. Non è ancora stabilito se le liste di ogni partito (con 3-4 nomi per la parte proporzionale) saranno stampate sulla scheda. Ci sono diversi punti aperti. Il primo è l’indicazione sulla scheda del nome del
candidato premier, fortemente voluta dal Pdl. Altro nodo irrisolto riguarda la correzione in senso bipolare del sistema. Il correttivo “spagnolo” lavora sulla dimensione delle circoscrizioni: se il numero di eletti per ogni circoscrizione non supera i 14, si ha “naturalmente” un meccanismo che favorisce i partiti maggiori e penalizza lievemente quelli più piccoli. Se invece, come pare più probabile, la scelta cadrà su un collegio unico nazionale, dunque perfettamente proporzionale, l’ipotesi allo studio è di assegnare un mini premio di maggioranza (36 seggi) al partito più votato, o in aggiunta un ulteriore mini premio al secondo classificato.

l’Unità 29.3.12
Le grida ipocrite sull’inciucio
di Massimo Luciani


Con la prima intesa fra i segretari delle principali forze politiche si è avviato il percorso di riforma della Costituzione e della legge elettorale. Non si tratta ancora di una formalizzazione giuridica, né si può parlare di un vero e proprio procedimento riformatore, ma indubbiamente il primo e forse più significativo passo è fatto.
La discussione sui contenuti della riforma, ovviamente, era già cominciata da tempo, ma prima ancora di quelle legate ai contenuti vengono le questioni relative al metodo, sulle quali sarebbe bene che vi fosse da subito chiarezza e condivisione.
La prima è quella del radicamento delle scelte riformatrici in un compromesso fra le tre forze politiche di maggiore consistenza, che ad alcuni garba così poco da gridare all’«inciucio». Questa, francamente, è una posizione assai singolare. Se ci sono scelte normative che debbono essere condivise sono proprio quelle che toccano la Costituzione e la legislazione elettorale, perché incidono nelle regole del gioco cui tutti partecipano.
La stessa Costituzione repubblicana non è forse il frutto di una negoziazione complessa e di un accordo compromissorio? E la legge Calderoli invece non fu esercizio di una vera e propria violenza di maggioranza, imposta a ridosso della fine della legislatura e nell’indisponibilità al dialogo con l’opposizione? Lo spazio del confronto parlamentare, poi, resta tutto aperto, sicché nessuno può escludere che ai protagonisti di questa intesa preliminare si possano affiancare altri attori politici, ovviamente a condizione che condividano il metodo del compromesso e non se ne tengano fuori a priori.
La seconda questione di metodo è quella del coordinamento tra riforma costituzionale e riforma elettorale. Il problema è molto delicato e le soluzioni possibili sono molteplici. Un punto, però, deve essere fermo: che le due riforme non sono concepibili come strade separate o separabili, ma vanno pensate come rotaie del medesimo binario, che debbono a tutti i costi avanzare di pari passo. Questa esigenza di coordinamento è, allo stesso tempo, istituzionale e politica.
È istituzionale perché occorre un nesso di coerenza logica fra le scelte elettorali e quelle costituzionali, se si vuole disegnare un sistema armonico ed efficiente. È politica, perché i termini del compromesso sono evidentemente complessivi, sicché le forze politiche potrebbero essere disponibili a cedere qualcosa poniamo quanto alle scelte costituzionali in materia di forma di governo per ottenere un qualche risultato sperato sul terreno delle regole elettorali, o viceversa. Un difetto di coordinamento, una sfasatura nei tempi dei due procedimenti di riforma, potrebbe avere conseguenze molto gravi sul piano del rispetto del fair play tra i vari interlocutori, della qualità e della legittimazione finale delle riforme.
Un compromesso, insomma, speriamo il più alto e coerente possibile, ma pur sempre un compromesso, che dovrà riguardare, appunto, sia la sostanza delle regole che la via da seguire per la loro riscrittura. La competizione fra i partiti in vista delle prossime amministrative e soprattutto delle non lontane politiche non potrà e certo non dovrà essere messa, per questo, fra parentesi. Ma non c’è alcuna ragione perché un accordo sulle riforme debba esserne travolto.

il Riformista 29.3.12
Proporzionale? Non è solo nostalgia
di Giorgio Merlo


C’è da restare sorpresi di fronte alla polemica sulla bozza di accordo raggiunta tra Pd, Pdl e Terzo polo per la futura legge elettorale.
Sorpresi perché dopo il fallimento del centro destra berlusconiano, la stagione del cosiddetto “governo tecnico” e il superamento, di fatto, dello stesso blocco progressista, è persino naturale che all’orizzonte si staglia un profilo proporzionale per il sistema politico italiano. E questo non perché qualcuno è no-stalgico dell’eterno ritorno al passato ma per il semplice motivo che si è chiusa definitivamente una fase della storia politica italiana e se ne è aperta un’altra, seppur ancora carica di incognite e di punti interrogativi. A cominciare proprio dal sistema delle alleanze e dalla presenza di nuovi partiti sullo scacchiere politico nazionale. Ecco perché, quindi, un sistema neo proporzionale appare più funzionale e più attrezzato a gestire e a governare questa nuova fase politica. Ovviamente, e sempre che la riforma decolli e arrivi al suo compimento nel dibattito parlamentare, sarebbe semplicemente puerile pensare che un partito soprattutto se di governo come il Pd affronti una lunga campagna elettorale all’insegna della confusione e dell’incertezza. È appena sufficiente ricordare la lunga stagione politica della prima repubblica per arrivare alla conclusione che anche in un’epoca iper proporzionale è possibile conoscere anticipatamente le coalizioni che i singoli partiti mettono in campo. E non è difficile sottolineare che anche in quell’epoca la governabilità era garantita seppur con crisi frequenti dovute alle specificità politiche dell’epoca non meno rispetto alla stagione del maggioritario. Del resto, come è possibile riproporre, oggi, quella sorta di “bipolarismo selvaggio” e di permanente confronto muscolare di fronte allo sfarinamento delle coalizioni imperniate prevalentemente sulla delegittimazione dell’avversario? Chiusa la lunga parabola berlusconiana e la violenta polemica che l’ha accompagnata per ben 17 anni, sarebbe curioso se, da domani in poi, le lancette della politica italiana fossero riportate indietro per riproporre un modello di fatto già superato dalla storia.
Certo, poi tocca ai partiti, e in special modo al Pd, costruire una coalizione e un programma di governo che sappia convincere i cittadini sulla bontà di questo progetto e di questa nuova impostazione. E questo perché la discriminante di fondo sarà rappresentata proprio dal profilo di governo della futura coalizione. O forse qualcuno pensa ancora nella cosiddetta area progressista che sia possibile dar vita ad una nuova stagione di governo in compagnia dei Diliberto, dei Ferrero e dei Di Pietro? Se così fosse, avremmo semplicemente la certezza che il centro sinistra si prepara ad una stagione di opposizione o, nella migliore dei casi, ad una brevissima parentesi di governo destinata ad infrangersi contro gli scogli alla prima difficoltà. E, come sappiamo, non c’è che l’imbarazzo della scelta.
In secondo luogo, si definisce un sistema elettorale che restituisce ai cittadini la possibilità di scegliersi i propri rappresentanti. E qui ogni ulteriore aggiunta è del tutto irrilevante. Salvo registrare che i principali detrattori di questo ipotetico nuovo impianto restano quei partiti che, sin dall’inizio, sostengono che ogni ipotesi abbozzata è sempre inferiore rispetto alle aspettative della cosiddetta pubblica opinione. E, su questo terreno, molti cominciano a sospettare che il vero obiettivo dei “benaltristi” sia semplicemente quello di mantenere l’odiato “porcellum”. E questo per due obiettivi: costringere i partiti alle alleanze forzose e raccogliticce da un lato e, dall’altro, per garantire ai segretari nazionali di formare le liste attraverso la nomina dei parlamentari. Un vecchio trucco ormai troppo noto alle cronache per far notizia. Ma, se l’ipotesi di accordo si impone, anche su questo versante si chiuderà la stagione della nomina dei parlamentari e la scelta sarà affidata ai cittadini elettori.
In ultimo, la stagione delle riforme non può naufragare. Certo, la riforma elettorale ha un senso compiuto se è accompagnata e preceduta da quelle istituzionali. Ma, sia detto per inciso, se le cosiddette condizioni politiche dovessero intralciare la revisione dell’impianto istituzionale del nostro paese, la riforma elettorale non può attendere. E su questo versante non c’è “condizione” che possa rallentare o intralciare il percorso. Al di là di tutti coloro che si ispirano al tradizionale gattopardismo e cioè che tutto cambi affinchè nulla cambi è compito adesso dei tre partiti che appoggiano il governo Monti procedere con cautela ma con determinazione e coerenza. È in gioco il futuro istituzionale del nostro paese, ma anche e soprattutto la credibilità e l’autorevolezza dei partiti. E questa volta non si può più fallire.

Nichi Vendola promette «una reazione durissima contro il Pd» se non cambia questa legge da «blindatura della casta» destinata a peggiorare «un Parlamento segnato dall'antropologia degli Scilipoti».
da l’Unità on line del 29.3
Il testo integrale dell’articolo qui
l’Unità on line 28.3.12
Nuova legge, Vendola infuriato col Pd

qui

Corriere della Sera 29.3.12
L’accusa: restaurazione proporzionale
Radicali furibondi: modello «Cosa nostra» delusi dai democratici
di Al. T.


ROMA — «Una riforma pasticciata», se non «una sceneggiata per lasciare tutto com'è e votare con il Porcellum». Rita Bernardini, che segue un po' scoraggiata gli emendamenti radicali alla Camera («qui è tutto inutile»), non apprezza minimamente l'intesa tra i tre leader sulla riforma elettorale. Tantomeno la piroetta del Partito democratico, «che sosteneva il sistema francese». E che l'aria in casa radicale sia di battaglia, lo conferma anche il segretario dei Radicali italiani Mario Staderini, che non esita a definire «modello Cosa nostra», l'accordo Pdl-Udc-Pd, «baratto di regime, disperato tentativo di perpetuare un regime partitocratico e di consegnarlo al furbo Casini, neanche fosse un nuovo De Gasperi». Il futuro dei radicali, penalizzati come i piccoli partiti dallo sbarramento previsto dalla riforma (sia pure mitigato dal diritto di tribuna), è tutto da definirsi. Anche se la Bernardini non esclude una resipiscenza operosa del Pd, che «si renda finalmente conto di quanto il nostro rapporto sia prezioso anche per loro» e che quindi ospiti ancora la pattuglia radicale tra le file dei democratici. E mentre Marco Pannella annuncia il rinvio al 25 aprile della «Seconda marcia per l'amnistia, la giustizia e la libertà», resta confermato invece l'appuntamento di domani, dalle 9.30 a Palazzo Santa Chiara a Roma, con la seconda sessione dell'assemblea annuale della «Lega per l'uninominale», presieduta proprio dal leader radicale (insieme al giurista Fulco Lanchester e ad Antonio Martino). Staderini contesta l'ennesimo «monstrum» democratico che sarebbe edificato con la riforma: «Una restaurazione proporzionale che punta sui partiti e che spero non sia condivisa dal presidente Napolitano. Non è pensabile tenere fuori dal dibattito i cittadini. Che, peraltro, si sono espressi tre volte con referendum in 20 anni: per questo chiedo che la Rai organizzi tribune in prima serata, dove si confrontino i diversi modelli di legge elettorale». La Bernardini spiega che i radicali sono da sempre per il modello anglosassone, con i collegi uninominali: «Ma anche il modello francese del doppio turno poteva essere un buon compromesso. L'ha votato con voto plebiscitario l'assemblea del Pd e ora se lo rimangiano. Che la fanno a fare, allora, questa assemblea? Votino la mozione: "Poi vediamo"». Ma la deputata radicale ha ancora una speranza: «Abbiamo ottimi rapporti con singoli esponenti democratici. Ora che sono al centro del dibattito i temi che abbiamo posto all'attenzione già con i referendum del '99, spero che si possa riprendere un dialogo». Non è detto, comunque, che i radicali non corrano da soli: «Potrebbe anche essere — dice Staderini — se potessimo davvero parlare al Paese. E non è scontato che non lo si possa fare, considerando le iniziative dell'Antitrust contro il silenzio della Rai sulle nostre battaglie». Ma, certo, i radicali continueranno a combattere nel loro stile, che non concede nulla alla piazza e al populismo. La Bernardini, per esempio, si dice contrarissima alla diminuzione dei parlamentari: «Noi siamo per collegi uninominali piccoli. Se tagli i parlamentari, li devi fare più grandi, diminuendo il controllo dei cittadini. Il risultato sarebbe che il Paese finirebbe sempre di più nelle mani di un'oligarchia ristretta di esponenti scelti dai partiti».

il Fatto 29.3.12
Riforme-truffa: 20 anni di bugie sul taglio dei parlamentari
La legge è già a rischio. Parisi: così temo una scissione nel Pd
di Caterina Perniconi


Potevamo partire anche da 30 anni fa, dalla Bicamerale per le riforme del 1983 e di sicuro avremmo trovato qualcuno che chiedeva la riduzione del numero dei parlamentari. Abbiamo deciso di limitarci agli ultimi dieci anni, che bastano a collezionare dagli archivi Ansa migliaia di proclami su un taglio degli eletti alle Camere che, naturalmente, non c’è mai stato. Del resto, chiedere a deputati e senatori di autoridursi sarebbe come chiedergli di tagliarsi un braccio da soli.
Il 24 luglio 2002 Silvio Berlusconi era al governo e spiegava che uno dei punti del loro programma era proprio la diminuzione del numero dei parlamentari che con il Senato delle autonomie avrebbe realizzato un federalismo “di buon senso”. In realtà la diminuzione dei rappresentanti era nei programmi di entrambe le coalizioni che si presentarono alle urne nel 2001. L’8 novembre 2002, in una puntata di Porta a Porta durante la quale si diceva pronto per il Quirinale, Berlusconi annunciò una riforma che prevedeva – guarda un po’ – la riduzione dei parlamentari. Stesso proclama il 9 febbraio e il 31 luglio 2003.
IL 2 MARZO 2004 tocca a Gianfranco Fini: “Nelle riforme è previsto un drastico ridimensionamento del numero dei parlamentari, che non saranno più 915 ma 600”. Bastano pochi mesi e il 6 luglio la Casa delle Libertà annuncia che no, non si possono tagliare 315 posti, al massimo si può arrivare a 750. Sarà Pier Ferdinando Casini, da Vienna, a sostenere il 5 ottobre dello stesso anno che “la riduzione del numero dei deputati è un elemento positivo che dimostra la capacità di essere vigili e selezionare la classe dirigente”. Peccato che la riforma tanto annunciata non sia mai arrivata. Perché il governo Berlusconi aveva realmente inserito nel ddl sulle riforme costituzionali l’intenzione di tagliare i parlamentari. Un buon avvocato potrebbe dire che quella riforma, approvata ben 4 volte tra Camera e Senato, fu poi bocciata dai cittadini col referendum. Ma all’interno prevedeva una riduzione dei parlamentari soltanto a partire dal 2016. Cioè quando buona parte degli onorevoli allora seduti sugli scranni staranno riscuotendo il vitalizio. Lo fece notare, all’indomani del “no” dei cittadini, anche Luciano Violante: “L’unica cosa positiva era la riduzione del numero dei parlamentari, ma va fatta scattare prima del 2016”.
Cambia il governo, vengono eletti sempre 915 parlamentari, e si riparte col balletto: riunioni, accordi, tensioni. Ma la riforma non va in porto. Il 18 gennaio 2007 il democratico Vannino Chiti incontra il leghista Roberto Maroni per cercare un punto di contatto sulla legge elettorale che – neanche a dirlo – portava con sé l’ipotesi di un taglio al numero degli eletti. Nella bozza Chiti erano previsti di nuovo 600 parlamentari, 400 deputati e 200 senatori.
I ministri dell’allora governo Prodi non perdono tempo per elogiare l’iniziativa: “Il governo si impegna in Parlamento per la riduzione del numero dei parlamentari” dichiara Linda Lanzillotta il 13 luglio 2007. “È un segnale positivo e giusto” sostiene Alfonso Pecoraro Scanio il 4 ottobre. E nel frattempo anche l’allora presidente della Camera, Fausto Bertinotti, aveva benedetto l’ipotesi. Che alla fine è rimasta tale. Dopo la nascita del Partito democratico, il nuovo segretario Walter Veltroni non perde occasione per ribadire l’importanza della riforma, ma il progetto non decolla. Rosy Bindi il 4 aprile 2008 parla del taglio dei rappresentanti come una modifica “chirurgica” da fare alla Costituzione. Non avverrà. Cambierà di nuovo governo, gli eletti saranno ancora 915 e il primo a pronunciarsi sarà il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, auspicando “meno parlamentari”. Per Mariastella Gelmini “meno quantità non è meno qualità”. Allora perché non ci si riesce?
Tocca a Pier Luigi Bersani diventato segretario del Pd: “Occupiamoci di cose serie, come la riduzione del numero dei parlamentari”. Forse non lo erano abbastanza. L’8 aprile 2010 di nuovo Maroni sentenzia: “Se non faremo le riforme in 3 anni avremo fallito”. Missione compiuta. Il 9 maggio 2011 Berlusconi sostiene che “siamo l’unico paese al mondo con 1000 parlamentari”, e Anna Finocchiaro assicura che “il dimezzamento ci sarà entro settembre” (sempre del 2010...). Il 9 settembre 2011 il Senato stava esaminando 6 ddl costituzionali. Dieci giorni dopo c’era un’intesa per 450 deputati e 250 senatori. Ancora niente.
IL RESTO è cronaca delle ultime ore: un accordo ABC (Alfa-no, Bersani e Casini) sulla legge elettorale che prevede anche una serie di riforme costituzionali, compreso un taglio dei parlamentari al ribasso (500 e 250), che già scricchiola. Perché nei partiti maggiori sono in molti a rifiutare l’intesa. “É necessario che Alfano convochi il partito per discutere su un argomento vitale per la politica e per il Paese – ha dichiarato il senatore del Pdl Altero Matteoli – senza una sintesi le conseguenze possano essere gravissime”. Come quelle previste per il Pd da Arturo Parisi: “Il vertice del Pd, ovvero Violante per conto di D’Alema e Bersani, hanno intrapreso questo viaggio a ritroso, hanno fatto l’accordo con gli altri e poi lo sottoporranno all’assemblea a cosa fatta. Mi chiedo se i dirigenti non debbano tornare ai loro vecchi partiti. L’accordo è un imbroglio, perché la maggior parte degli eletti sarà scelto dalle segreterie dei partiti, questo è un porcellinum”. Ma anche i partiti minori non ci stanno. “Se la riforma della legge elettorale sarà quella che si legge sui giornali, ci sarà una reazione durissima, innanzitutto contro il Pd” ha minacciato Nichi Vendola. Se finirà come tutte le volte negli ultimi dieci anni, il leader di Sel può dormire sonni tranquilli.

il Fatto 29.3.12
Vogliono peggiorare il Porcellum
di Paolo Flores d’Arcais


Il diavolo sta nei dettagli, e dunque non è detto che una nuova legge elettorale veda la luce in tempo per le prossime politiche. Ma intanto si sono messi d’accordo sulle linee fondamentali, e chiamarlo “inciucio” è perfino riduttivo. Bersani, Casini e – absit iniura verbis – Alfano esibivano l’aria palesemente e giustamente soddisfatta del gatto col sorcio in bocca. Peccato che la loro preda siano in questo caso gli elettori, una volta di più “cornuti e mazziati”. Perché sembrava impossibile, dopo la “Porcata” di calderoliana memoria, confermare il detto popolare che “al peggio non c’è mai fine”, e invece la nostra “banda dei tre” sembra intenzionata a riuscirci. Il modello elettorale delineato riesce a mettere insieme, in fatto di scippo ed espropriazione della volontà dei cittadini, il meglio (cioè il peggio) dei diversi sistemi esistenti. Non è chiaro se i collegi elettorali (di ridotte dimensioni) saranno uninominali o meno. Se sì, col turno unico si fanno fuori d’emblée tutti i partiti tranne i due (o tre) più forti, e si sopprime nella culla ogni possibilità di nascita per forze nuove che vengano dalla società civile. Se saranno collegi che eleggono con il metodo D’Hondt 5-7 deputati, il meccanismo cancellerà di fatto liste che non prendano il 10 per cento o anche più. Inoltre, l’obbligo di indicare un candidato premier manterrà la personalizzazione della campagna elettorale, ma la mancanza di ogni vincolo di coalizione consentirà ai gerarchi dei (tre) partiti maggiori di decidere le alleanze dopo le elezioni, secondo opportunità e alla faccia delle promesse agli elettori. Che ovviamente continueranno a contare zero nella scelta dei candidati, e avranno la solita libera alternativa: “O questa minestra o saltare dalla finestra”.
L’aspetto più nauseabondo di questo patto monopolistico della “banda dei tre” è che le formule per consentire insieme sia un’ampia scelta agli elettori (il famoso “riavvicinamento” tra elettori ed eletti, che a ciance tutti predicano e spergiurano) sia la stabilità di governo per l’intera legislatura, ci sono, sono più d’una (sia di stampo proporzionale che maggioritario), sono ben note e sono facili da introdurre. Hanno il solo difetto che toglierebbero agli attuali cacicchi delle tre forze principali l’abnorme potere del Minosse dantesco che “giudica e manda secondo ch’avvinghia”: fare e disfare a proprio piacimento e nella certezza dell’inamovibilità (che poi è anche garanzia di impunità).
Se si sceglie il versante proporzionale, per la stabilità dei governi non c’è necessità di sbarramenti, basta la sfiducia costruttiva e il rischio che in caso di dimissioni senza alternativa il Parlamento va a casa. Il difetto resta però la scarsa rappresentatività dei partiti-macchina, grandi o piccoli che siano. C’è allora un sistema maggioritario che consente di soddisfare a tutte le virtuose richieste sia di rappresentatività che di stabilità: il maggioritario a doppio turno con primarie vincolanti, cioè incorporate nel sistema stesso. Tecnicamente se ne possono dare alcune varianti, la sostanza non muta: fin dal primo turno il cittadino si trova a scegliere fra coalizioni (dunque nessun opportunismo post-elettorale con gran tripudio di voltagabbana), ma lo fa votando uno dei molteplici candidati della coalizione, che saranno i candidati dei singoli partiti, ma anche degli outsider senza partito che abbiano raccolto un numero sufficiente di firme (l’obbligo di raccogliere tot firme dovrebbe valere anche per i candidati sponsorizzati dai partiti, sia chiaro: niente privilegi).
Facciamo un esempio: nella mia circoscrizione per il centrosinistra il Pd candida Bersani, il Sel Vendola, l’Idv Di Pietro, ma per fortuna un gruppo di cittadini con una petizione di grande esito costringe a candidarsi anche Andrea Camilleri, mentre dei “fighetti” rampichini raccolgono firme per Renzi. Finalmente potrei votare senza turarmi il naso, e con me una parte cospicua di quel 45 per cento di elettori che oggi dichiarano esplicitamente che – sic stantibus rebus – a votare non ci andranno più. Al secondo turno passerebbero le due coalizioni più votate, e per ciascuna di esse il più votato all’interno della coalizione. Dato il carattere uninominale del voto, sarebbe altissima la probabilità che in Parlamento una delle coalizioni abbia la maggioranza assoluta. La stabilità del governo potrebbe essere rafforzata dalla clausola della sfiducia costruttiva, ma tale stabilità avverrebbe restituendo potere ai cittadini, non concentrandolo nelle mani di tre leader e dei loro amici e amici degli amici. Sia chiaro, una legge elettorale non produce miracoli. Se non si combatte l’illegalità, la prevaricazione di classe, il crescere a dismisura della diseguaglianza, anche con le primarie a vincere potranno essere i Toni Mafioso e Toni Corrotto di Ascanio Celestini. Un rinnovamento radicale, insomma, può essere figlio solo di tante lotte che mobilitino la società civile in tutti gli ambiti essenziali della vita pubblica.
Ma mentre la proposta di “riforma” elettorale della “banda dei tre” non farebbe che rafforzare il circolo vizioso di monopolio partitocratico – disaffezione dei cittadini – monopolio ancora più corrotto, una legge elettorale che garantisca l’irruzione permanente della società civile nella vita politica fin già dalla scelta dei candidati, aprirebbe degli spazi di rinnovamento e dunque anche di moralizzazione. Che la riduzione radicale dei parlamentari, il limite a due mandati, e altre misure di cui tante volte abbiamo parlato, amplificherebbero ancora.

Repubblica 29.3.12
Bindi boccia la bozza anti-porcellum e bacchetta anche il premier: cedimento al populismo dei sondaggi
 "Il segretario sbaglia, cittadini espropriati quella riforma uccide il bipolarismo"
di Giovanna Casadio


Gli elettori non sceglieranno né candidati, né coalizioni, Si passa da una legge cattiva ad una pessima
Un sistema così produce instabilità e quindi porta alle Larghe Intese. Se ne avvantaggiano Udc e Pdl, ma non il Pd

ROMA - «Questo accordo, se resta così, espropria i cittadini, che non sceglieranno i parlamentari, non voteranno per la coalizione: è la tomba del bipolarismo e non darà stabilità al governo del paese».
Presidente Bindi, la legge elettorale si deve cambiare o no?
«Sia chiaro, cambiare il Porcellum è prioritario, ma questo non vuol dire acconsentire a qualsiasi legge elettorale, cancellare una cosa cattiva per accettarne una pessima».
Il Pd ha votato nella sua Assemblea, e ha presentato in Parlamento, una proposta di legge per il maggioritario a doppio turno. Però se si vuole cambiare davvero, un compromesso va accettato?
«Agli elettori va restituita la scelta dei parlamentari senza espropriarli del potere di optare per la coalizione. Nella bozza dell´accordo ci sono rischi e io ho obiezioni che non credo siano solo mie. Innanzitutto, è da dimostrare che con collegi grandi come due province e liste bloccate si restituisca la scelta dei parlamentari. Secondo me, no. Anche perché resta il problema di chi indica le candidature».
Seconda obiezione?
«Questa ipotesi di riforma elettorale chiede all´elettore di votare il partito non la coalizione. Torniamo ai partiti con le mani libere in un momento di crisi enorme della vita dei partiti. Così si mette a rischio il bipolarismo. Non abbiamo grandi partiti, i principali non raggiungono insieme il 50% dei voti e non possono mai costituire l´ossatura di un bipolarismo certo e sicuro. In Italia il bipolarismo o è di coalizione o non è. L´idea di un premio di maggioranza al partito principale dà un piccolo vantaggio, ma non stabilità al sistema che diventerebbe multipolare».
Dal Porcellum alla porcata bis? Tuttavia questa intesa la difende Bersani, dal quale lei si smarca?
«Come ha detto D´Alimonte non vorrei che puntando a Berlino ci ritrovassimo a Weimar, all´ingovernabilità. Io sto sostenendo la mozione con la quale Bersani ha vinto il Congresso».
Fin qui il merito. Quale è la sua contrarietà politica?
«L´ingovernabilità non può che produrre le Larghe Intese. Sono onesti quelli dell´Udc, lo dichiarano, anche perché se ne avvantaggerebbero. Il Pdl, che prevede di perdere, ha così la possibilità di pareggiare. Ma dove sta il vantaggio per il Pd? Soprattutto dove sta il vantaggio per l´Italia? In questi giorni, il governo tecnico ha avanzato una proposta di riforma strutturale del mercato del lavoro e dell´articolo 18, e si è visto che senza la politica non c´è tecnica che regga, non si fanno le scelte. Perché le riforme strutturali rispondono a un progetto di società, e domandano la democrazia competitiva e dell´alternanza. Non si può stare a lungo nel limbo delle Larghe Intese».
Quindi non le piacerebbe un Monti-bis?
«Un Monti-bis, o chi per lui, non farebbe bene al paese. L´Italia ha bisogno di riprogettarsi e di riprogettare l´Europa. O con le idee del centrodestra o con le idee del centrosinistra. Sulle grandi questioni i due schieramenti continuano ad essere alternativi. Se il Pd fa battaglia sull´articolo 18 è perché abbiamo in mente un certo tipo di società. Con questa legge elettorale rinunciamo a costruire l´alternativa».
Monti ha fatto sapere che per il suo governo c´è un forte consenso e per i partiti no. È così?
«So che siamo in un momento difficile, ma questo non può consentire a Monti di creare un conflitto tra il suo governo e i partiti che lo sostengono in Parlamento. Da Monti un cedimento populista basato sui sondaggi non me l´aspettavo. I partiti però devono riscattarsi, mentre questo accordo sulla legge elettorale è il frutto contraddittorio di una rassegnazione».

l’Unità 29.3.12
Intervista a François Morin
«Serve l’unità dei progressisti per uscire dalla crisi»
L’economista del Ps francese: «Il Manifesto di Parigi delinea un’altra strada per l’Europa. E se Hollande vince le presidenziali sarà uno choc per l’Unione»
di Laura Matteucci


Bisogna mettersi in testa che per evitare uno scenario nero ci vuole una rottura di sistema».
Più nero di così?
«Molto di più. Se i governi non prenderanno coscienza della reale situazione, andremo incontro ad un nuova crisi finanziaria anche peggiore, con conseguenze politiche e sociali gravissime. Sarebbe una catastrofe, perché gli Stati non hanno più risorse finanziarie cui attingere, le casse sono ormai esangui. Questo è uno dei due scenari possibili».
L’altro qual è?
«Una presa di coscienza, che deve portare ad una riconcettualizzazione della finanza a livello mondiale. È l’approccio alla finanziarizzazione che deve cambiare. Una questione culturale, e politica. Ma siamo ben lontani da questo». L’economista François Morin, europeista convinto, già membro del consiglio generale della Banca di Francia, consulente economico di François Hollande nella corsa alle presidenziali francesi, è a Milano, invitato dal laboratorio di analisi storica Lapsus, per presentare il suo saggio Un mondo senza Wall Street? (Marco Tropea editore). Il titolo vuol essere, ovviamente, una provocazione, un grido d’allarme per richiamare l’attenzione sulla malattia della finanza globale, che non ha più la (sana) funzione di finanziare l’economia, ma di produrre speculazione per eliminare i rischi di credito bancario attraverso l’emissione, in particolare, dei prodotti cosiddetti derivati. È questo, sostiene Morin, il risultato della liberalizzazione della sfera finanziaria, dell’abbandono del suo controllo da parte degli Stati, sostituiti dalle grandi banche. Ed è questa la radice del male che stiamo vivendo ormai da anni: crisi economico-finanziaria, e insieme di governance politica.
Professore, dal 2007 ad oggi di regole ne sono state riscritte ben poche, l’Europa stenta ad avere una politica comune e impone agli Stati membri una linea di austerity con effetti pesanti su crescita, occupazione e stato sociale. Una linea secondo lei anche sostanzialmente vana, perché per evitare altre crisi servirebbe di più: che cosa? «Alcune misure andrebbero adottate velocemente: tassazione sulle transazioni finanziarie, eurobond, divisione netta nelle grandi banche tra l’attività di credito e quella speculativa, come prevede anche il programma elettorale di Hollande. Ma poi c’è la necessità che gli Stati riprendano il controllo sui tassi di cambio e di interesse, il che presuppone una riforma del sistema valutario internazionale: l’idea è di andare
verso una moneta non dico unica, ma comune, cui rapportarsi con tassi fissi. Una moneta che rappresenterebbe un “bene comune”. Così si eliminerebbe il 90% della speculazione internazionale».
Sono le misure, alcune almeno, contenute nel Manifesto di Parigi firmato da poco da Hollande, Sigmar Gabriel e Pier Luigi Bersani.
«Infatti, è un documento molto importante perché ha denunciato questo piano di austerity imposto all’Europa, e ha sottolineato come non spetti alle popolazioni pagare la crisi dei debiti sovrani. Si può sperare in una vera mobilitazione di natura progressista affinché l’Europa riesca a risolvere la crisi». Ci vuole un passaggio elettorale: la Francia è prossima, in seguito toccherà a Germania e Italia.
«Se vincesse Hollande sarebbe uno choc politico per tutta Europa. E in effetti è il candidato favorito, anche se nei sondaggi sta andando molto bene pure il Front de Gauche (partito della sinistra radicale, ndr). Se fosse eletto, per prima cosa Hollande dovrà ridiscutere il Patto di stabilità con Angela Merkel, il che sarà molto complicato, ma favorito dal fatto che lui sarebbe un neoeletto e lei un candidato uscente. Si potrebbe verificare un cambio di passo nella exit strategy europea, che non preveda solo rigore, ma anche sostegno alla crescita. Contemporaneamente, non in una fase successiva. La domanda è: questo sarà sufficiente a sventare altre crisi? Personalmente, ritengo ci voglia una strategia anche più ambiziosa, di vera rottura col sistema attuale. Attenzione, perché la speculazione è molto attiva e continua a scommettere sull’esplosione della zona euro: nei prossimi mesi c’è il rischio concreto del default di un Paese o di una grande banca. Dopo la Grecia, lo stato più fragile è il Portogallo, seguito dalla Spagna».
E l’Italia? Le riforme di Monti ci stanno mettendo almeno un po’ al riparo?
«Siamo ancora in piena crisi, nessuno si può pensare al riparo. Quanto a Monti, conoscendone il passato, credo non si possa certo attendere da parte sua una politica progressista. E infatti sta attuando riforme di natura liberista come quella sul lavoro. Ma il vero problema dell’Italia è il fatto di avere il secondo debito europeo. Un debito, come anche quello spagnolo, insostenibile, nonostante le efficaci azioni di Draghi sui tassi di interesse. Insostenibile soprattuttto a fronte di una scarsa o nulla crescita, com’è da anni quella italiana. Il debito non potrà che continuare a salire».

l’Unità 29.3.12
A che cosa dovremmo essere pronti
di Carlo Sini


Il presidente del Consiglio ha avanzato l’ipotesi che il Paese non sia pronto: ma pronto a che? Evidentemente a una trasformazione del mondo del lavoro che inevitabilmente comporterebbe (e già comporta) sacrifici economici rilevanti e significative rinunce alla tutela sociale dei lavoratori.
Questo timore che non siamo pronti sembra suggerire l’idea che non saremmo capaci di adeguarci al futuro del mondo che cambia e ai benefici che ne potranno trarre i più lesti e i più dotati di spirito preveggente. Sarà così, ma vorrei osservare che lo sguardo rivolto a un futuro capace di condizionare in maniera drastica il presente non può andare disgiunto da una altrettanto lucida capacità di ricordare il passato. Solo la corretta interpretazione del passato ci aiuta a capire davvero il presente e a valutare il futuro al quale si vorrebbe che gli italiani fossero pronti.
Tra le cose innumerevoli accadute nel passato vorrei ricordare per esempio che il capitalismo europeo realizza da sempre le sue fortune in modi molto squilibrati rispetto alle restanti popolazioni della terra. Diversi anni fa l’economista Hosea Jaffe calcolò, sulla base di dati ufficiali, che il mondo industrializzato produceva il 40% della ricchezza complessiva e ne ricavava un profitto pari al 60%, sottraendo al cosiddetto terzo mondo un 20% di ricchezza da esso prodotto: una cifra enorme. Il nostro benessere era dunque, e ancora è, superiore ai nostri meriti globali e se ora le cose si complicano non c’è da stupire. Ma il punto è che, come dice la canzone, chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato: non è però il caso di scordare che pochi affaristi, poche istituzioni e governi hanno tratto enorme beneficio dallo squilibrio, mentre le masse dei lavoratori ne sono state rese partecipi in modi non solo parziali e inconsapevoli, ma soprattutto non durevoli. Il medesimo del resto accade ora: coloro che hanno provocato l’attuale crisi, persone e istituzioni, non pagano affatto il conto: lo pagano tutti gli altri. Il che significa che la mentalità che guida la produzione mondiale continuerà a frequentare logiche perverse. Dovremo pertanto aspettarci altre crisi, altri sacrifici e un crescente divorzio tra circolazione di ricchezza apparente, e comunque mostruosamente mal distribuita, e possibilità concrete di fruizione di valori d’uso da parte del mondo dei lavoratori e della società civile nel suo complesso.
Un’altra cosa da non dimenticare in Italia è poi il fallimento della istruzione media e superiore. In molti campi, nel dopoguerra, siamo stati all’avanguardia o addirittura i primi, ma abbiamo perso via via le nostre brillanti posizioni. Non abbiamo saputo proteggere e incrementate le iniziative vincenti, così come abbiamo lasciato che i migliori ingegni emigrassero altrove, sino alla situazione attuale: i giovani, se possono, guardano fuori d’Italia per trovare una formazione efficace, accompagnata dal sostegno delle istituzioni, e per sperare in un futuro lavorativo confortevole. Il fatto è che al benessere complessivo della società, così come esso è cresciuto in Italia dal dopoguerra a oggi, non si è accompagnato un progresso equivalente della cultura generale. Abili consumatori, non siamo stati altrettanto virtuosi nel far crescere le nostre tradizionali capacità intellettuali e morali, lasciando spazio a sacche diffuse di ignoranza e di brutale degrado.
Comprendiamo bene che il nostro attuale governo non ha certo la possibilità di risolvere gli squilibri mondiali e nemmeno quelli del nostro Paese: può solo tamponare una situazione drammatica. Né sembra in grado di avviare una seria riforma della formazione e degli studi: unica possibilità, per il mondo industrializzato, di mantenere una funzione guida nel mondo. Questa triste situazione davvero non giustifica poco credibili lezioni di futuro. Se continua così, l’unica cosa alla quale gli italiani dovranno essere pronti è a veder scivolare il Paese sempre più in basso, senza possibilità di rimedio.

Repubblica 29.3.12
E Pierluigi avverte il Professore "Ci danneggi per le amministrative "
La rivolta dei Democratici. L’addio alle primarie
Il leader non si fida di Pdl e Udc, così tiene aperta la porta all’alleanza con Vendola
di Goffredo De Marchis


ROMA - Pier Luigi Bersani stavolta non ci sta. È davvero stizzito per le parole del Professore. Si sente tirato in ballo perché è della riforma del mercato del lavoro che sta parlando Mario Monti. Ma il Partito democratico non abbandonerà al suo destino Susanna Camusso e la sinistra. «E la Cgil c´entra ben poco. Noi siamo la cinghia di trasmissione della gente comune, di quelli che mi fermano per strada e non ce la fanno a reggere la crisi».
Poteva fare finta di niente, il segretario. In fondo, non è la prima volta che il presidente del Consiglio sbertuccia i partiti inchiodandoli alla loro mancanza di credibilità. Però si avvicinano nuove scadenze. Le amministrative prima di tutto. Nelle elezioni locali (6 maggio) il Pd si presenta quasi dappertutto con la foto di Vasto e non vuole lasciare praterie a Sel e Idv. Non può permettersi di aprire una frattura a sinistra, a maggior ragione se con il modello elettorale tedesco, il prossimo anno, ogni partito farà la sua corsa solitaria. Il Pd ha bisogno di quei voti, ha bisogno di quel consenso. Per questo Bersani non vuole essere confuso nella melassa della "strana" maggioranza. «Noi siamo diversi, abbiamo un nome e cognome».
Non è facile. Ma Bersani sta giocando anche una partita molto tattica. Praticando la «politica dei due forni». Ossia, mettendo il Pd al centro di un progetto che può guardare contemporaneamente all´alleanza del Pd con Vendola e Di Pietro (soprattutto il primo), e alla Grande coalizione che sostiene Monti. Tutto si tiene allora: gli attacchi al premier per le sue esternazioni orientali servono a mantenere il filo con la Cgil, con Sel e con il Paese costretto ai sacrifico. Il dialogo con Alfano e Casini per una nuova legge elettorale segnerebbe invece la fine del centrosinistra classico. «Ma non so come andrà a finire il percorso delle riforme. Voglio cancellare il Porcellum ma posso fidarmi del Pdl e dell´Udc? Per questo non chiudo la porta al piano B, all´alleanza con Nichi», è il ragionamento che il leader democratico sta facendo nelle ultime ore.
Al fondo il segretario punta a preservare una storia, anche quella recente di opposizione all´esecutivo Berlusconi. E uno zoccolo duro. E un bacino elettorale da allargare ma da non disperdere. Prendere le distanze da un governo in calo nei sondaggi mentre le buste paghe sono alleggerite dalla tasse e l´Imu è in arrivo significa poi provare a mettersi in sintonia con l´opinione pubblica. «I sondaggi li leggo anch´io». Bersani sa inoltre di poter contare in questa fase su un partito compatto. La bozza di riforma istituzionale ha provocato il dissenso (contenuto) dei parisiani e di Rosy Bindi. Una situazione gestibile. Mentre le correzioni sul testo Fornero per l´articolo 18 hanno messo d´accordo tutte le correnti. I filo Monti, vale a dire i tifosi del governo nel Pd hanno verificato che il segretario è oggi l´unico in grado di fare la sintesi tra le posizioni della Cgil (e di una larga parte del Pd) e il sostegno deciso a Palazzo Chigi. Enrico Letta, dopo un confronto serrato con il segretario prima della direzione di lunedì, lo ha spiegato ai suoi fedelissimi. «Pier Luigi può garantire tutte le posizioni in campo».
L´altro match è quello della legge elettorale. Vendola annuncia una campagna contro il Partito democratico per fermare la riforma. L´Italia dei Valori evoca la Repubblica di Weimar. Ma il modello tedesco convince Bersani. Che pensa di poter diventare lui l´ago della bilancia, altro che Casini. In più il grande vantaggio della bozza Violante è la fine delle coalizioni coatte. «Significa anche fine delle primarie di coalizione, una formula che non ha mai funzionato», dicono al Pd. Senza dimenticare che con quel tipo di competizione il Pd ha pagato dazio a Milano, Palermo, Genova. Ecco perché il modello tedesco consegna una certezza a Bersani: sarà lui il candidato premier democratico.

il Fatto 29.3.12
Basta clientele e favori, riprendiamoci la politica
Paul Ginsborg lancia un’iniziativa nazionale: creiamo un nuovo soggetto che affianchi i partiti
di Silvia Truzzi


La politica dovrebbe essere come l'acqua, un bene comune. Oggi è il tesoretto privato di un'enclave: e infatti il gradimento dei partiti è precipitato. Una situazione di scollamento tra rappresentanti e rappresentati che deve cambiare: Alberto Lucarelli, assessore della giunta De Magistris, assieme a una manciata di intellettuali ha scritto un manifesto “Per un soggetto politico nuovo”. Tra gli estensori c'è Paul Ginsborg, storico e docente all'Università di Firenze.
Professore, si butta in politica?
Non proprio. Ma va fatto, e subito, qualcosa per rompere con la forma novecentesca del partito. Bisogna aprire il potere a soggetti nuovi. Il Palazzo non è la politica.
Risponda all'accusa più facile: sobillate l'anti-politica?
Ma questa è, squisitamente, politica. È il palazzo a non rappresentare più nessuno.
Come hanno potuto i partiti arrivare al gradimento del 4 per cento?
L'idea dell'amico-nemico è stata molto nociva. O con me o contro di me non funziona, perché così la politica si riduce a competizione tra gruppi.
È la morte della democrazia rappresentativa?
No, fino ad oggi è l'unico sistema che garantisce il voto segreto a tutti gli adulti di una nazione. Ma non basta, è assolutamente necessario affiancare delle strutture di democrazia partecipativa.
Finite le ideologie, sono finite anche le idee: la gente non si riconosce più nei partiti. D'accordo?
Sì. Del Pci, per esempio, si può dire tutto, non che al suo interno mancasse una vita intellettuale. E questo è andato completamente perduto. I partiti si sono smarriti, inseguendo i favori, le clientele, le parentele.
La corruzione dilagante fa
crescere la sfiducia nei partiti?
Lo scandalo della Margherita fa un grande effetto sulla gente. Soprattutto in un momento di estrema difficoltà economica. Le persone si sentono defraudate, altro che rappresentate. Ed è gravissimo. Il livello di fiducia nei partiti è molto basso in tutta Europa: in nessun luogo però è così drammatico come in Italia.
Voi dite: troppo potere concentrato a Roma.
Il nostro documento nasce a Napoli e ha visto la partecipazione di un gruppo a Firenze e uno a Torino. Non volevamo escludere i romani: ma è necessario affermare che il potere deve circolare e connettere i territori con la democrazia. Il movimento in Val di Susa ha provato a fare questo.
Perché questa vostra proposta dovrebbe essere diversa dai girotondi, dai tanti movimenti che non hanno avuto la forza di incidere sulla politica?
Sono state tutte importanti iniziative, ma alla fine delegavano l’azione politica ai partiti. Abbiamo supplicato i partiti di cambiare, di autoriformarsi. Più di una volta mi sono trovato con D'Alema, per esempio, a un dibattito pubblico e gli ho mosso queste critiche...
E lui?
Annuiva, ma non era d’accordo.
Hanno cambiato nome un’infinità di volte.
Ma cambiare nome non vuol dire cambiare le dinamiche interne al partito.
I politici sono o sembrano inconsapevoli? L'impressione è che il popolo che rappresentano li disprezzi.
Quando vanno a Otto e mezzo sono imperturbabili. Ma se tu parli con loro in privato sono angosciati. Non tutti, ma tanti. Quelli più lungimiranti sanno che se andiamo avanti così, vincerà la destra populista. La storia insegna che dalle grandi depressioni economiche non si esce a sinistra. Ma a destra o con la guerra. Non c'è più tempo.
C'è un problema di persone, di mancato ricambio all'interno dei partiti?
Non ho nessun dubbio sul fatto che ci sia un problema di persone. Ma è anche un fattore generazionale. Abbiamo bisogno di una nuova generazione di ‘contestatori civili’.
Il governo tecnico ha dato il colpo di grazia alla politica
nella percezione dei cittadini?
Non credo. Sono molto grato a Monti e agli altri ministri perché sono arrivati dopo i terribili anni di Berlusconi. Però non condivido il loro programma: non è sensato in termini di equità sociale. Le disuguaglianze non sono mai state così grandi nella storia della Repubblica. Nella primavera del 2013 andremo a votare: mi auguro che dentro quella competizione ci sia una forza radicalmente nuova.
Il vostro documento è molto bello. E altrettanto utopico.
Lo vuol essere. Perché bisogna farsi una domanda: dove ci ha portato il realismo?
Cosa proponete?
Una discussione più diffusa possibile sul territorio partendo da questo manifesto. Dove non compare né la parola destra né la parola sinistra. Nasce da un gruppo di sinistra, ma le idee che esponiamo non hanno etichetta, sono un bene comune. Noi speriamo che possa nascere una struttura che abbia come base queste idee: sarebbe positiva la presenza alle amministrative di liste di cittadinanza politica che prendano a riferimento e contribuiscano a costruire questo progetto nazionale.
Quali sono le regole base?
Un limite di mandato: al massimo due legislature per i parlamentari. E poi: trasparenza non segretezza sui finanziamenti. Basta clientele. Ancora: semplicità non burocrazia, potere distribuito non accentrato, rotazione degli incarichi direttivi. Si può fare politica come contributo civile per qualche anno e poi tornare ad altro: la politica non è un vitalizio e i partiti non sono enti previdenziali.

Corriere della Sera 29.3.12
Accordi di Palazzo e bandiere rosse. I tormenti del Pd dai due volti
La Sofferta e doppia identità di un partito
di Antonio Polito


Ai tempi del Pci vigeva una prassi: ogni svolta politica a destra andava preceduta da una svolta sociale a sinistra. Così per anni si abbinò alla vociante opposizione in piazza una fruttuosa consociazione in Parlamento. Forse è stata solo quest'antica sapienza a far
invocare a D'Alema una svolta a sinistra per il Pd; o a indurre l'Unità a credere al Wall Street Journal, e a confondere Mario Monti con la Thatcher.
Si capisce che poche ore prima di incontrare, per giunta nell'ufficio personale di Berlusconi, il nemico storico della Seconda Repubblica, e stringere con lui un patto per fondare insieme la Terza, il gruppo dirigente del Pd abbia voluto sventolare un po' di bandiere rosse in nome dell'articolo 18, a difesa del quale si sono levate del resto perfino le bianche insegne del cardinal Bagnasco. Ma è sotto gli occhi di tutti che non solo di tattica si tratta: nel Pd è in corso una ricollocazione strategica. E la storia più recente delle sue relazioni pericolose con la Cgil e con il Pdl ne sono la prova.
Tra la sinistra politica e il grande sindacato rosso c'è sempre stata competizione. Per un lungo periodo la Cgil è stata più riformista e più moderata, da Di Vittorio a Lama fino a Trentin. Poi, con Cofferati, le parti si sono invertite e tali sono rimaste a tutt'oggi. La ragione sta nei differenti progetti politici. La Cgil è da sempre il laboratorio dell'unità delle sinistre (il che la rendeva paradossalmente più moderna e più plurale ai tempi del monolite comunista). Il Pd è invece nato per fare l'unità dei riformisti, con un inevitabile confine a sinistra. Dopo anni di duelli, si può dire che la partita si sia conclusa con la vittoria della Cgil. Sul fronte delle riforme sociali il Pd non ha né la cultura, né la forza, né il fegato per affermare e sostenere un punto di vista differente.
Questo spiega perché, dopo tanti anni, il gruppo dirigente di quella che si definisce una forza riformista non può intestarsi una riforma che sia una. Se si escludono le liberalizzazioni di Bersani nel secondo governo Prodi, su pensioni, mercato del lavoro, sanità, scuola, pubblico impiego, è una storia di conati, di tentativi appena abbozzati e subito respinti, di battaglie debolmente ingaggiate e malamente perse. I giovani turchi del Pd, che oggi si teorizzano «socialdemocratici» per spiegare questo arretramento, dovrebbero ricordare che le grandi socialdemocrazie europee non sono mai scese a patti con il radicalismo sociale. Il Labour si riprese dalla notte del thatcherismo solo dopo aver spezzato il guinzaglio al quale lo tenevano le Union; la socialdemocrazia tedesca non ha fatto un governo con la sinistra di Die Linke anche a costo di perdere il governo; e l'ultimo socialista francese a soggiornare all'Eliseo fu il Mitterrand che scaricò dal governo i comunisti.
Ma se il fronte sociale è perso, al Pd resta la politica. E qui interviene la seconda relazione pericolosa, quella con il Pdl. Proprio perché ha smarrito la sua egemonia nelle piazze, il Pd deve riconquistarla in Parlamento. Sa bene che il progetto frontista incarnato dal sindacato, che si spinge con la Fiom fino ai confini dei movimenti antagonisti, sarebbe la sua rovina. Rovina tattica, perché come si è visto a Napoli, a Milano, a Genova, a Bari, a Cagliari e perfino a Palermo, se regala il pallone delle primarie ai suoi competitori perde sempre. Ma anche rovina strategica, perché non c'è nessuno nel Pd che non rabbrividisca al pensiero di governare l'Italia con la foto di Vasto, dall'Afghanistan alla Tav. Ecco allora che il Pd ha bisogno del Pdl per liberarsi da quell'abbraccio con una nuova legge elettorale, nella speranza di andare al voto da solo, senza papi stranieri, senza rischiare primarie di coalizione, senza legarsi le mani sulle alleanze, magari assorbendo prima o poi la sinistra di Vendola ma scrollandosi di dosso le lobby dipietresche che lo assediano. Ciò che è andato perso sul piano del riformismo, sarebbe così recuperato sul piano politico.
L'idea è questa: Bersani, dicendosi socialdemocratico all'europea, vuole fare ciò che provò Veltroni dicendosi democratico alla Kennedy e che prima ancora tentò D'Alema dicendosi post-comunista clintoniano. Difficile dire se potrà funzionare nel gran caos italiano. Ciò che è certo è che la bestia dell'antipolitica, allevata e nutrita a sinistra in questi anni, non si placherà per così poco, e morderà Bersani come addentò Veltroni «inciucioni» e D'Alema «dalemoni».

Repubblica 29.3.12
L'ideologia dei tecnici
di Gad Lerner


Il disincanto con cui Monti il tecnico si rivolge dall´estero al Paese malato che gli tocca governare – considerandolo impreparato a comprendere del tutto la terapia da lui somministrata, e però ben allertato contro la malapolitica dei partiti – ormai sta assumendo i tratti di una vera e propria ideologia.
Poco importa se il premier la lasci trasparire per passione, per stanchezza o per calcolo: anche i tecnici hanno un cuore e, dunque, un credo. Resta da vedere se tale ideologia tecnica, niente affatto neutrale, risulti adeguata a corrispondere e guidare lo spirito dei tempi, in una società traumatizzata dalla crisi del suo modello di sviluppo. O se invece si riveli anch´essa retaggio di un´epoca travolta da una sequenza di avvenimenti nefasti che non aveva previsto e che ha contribuito a provocare.
Per prima cosa Monti insiste a comunicarci la sua provvisorietà, e non c´è motivo di dubitare che sia sincero. Che sia per modestia o al contrario per supponenza, poco importa, egli si compiace di descriversi quale commissario straordinario a termine: «Sarà fantastico, per me il dopo Monti», scherza. Né difatti ha alcuna intenzione di dimettersi da presidente dell´Università Bocconi, la vera casa cui intende fare ritorno. La forte motivazione implicita in questo annuncio ripetuto è il disinteresse.
Immune da ambizioni personali di carriera che non siano il prestigio "di scuola", egli rivendica di stare al di sopra e al di fuori degli interessi di parte delle rappresentanze sociali e politiche. Sa bene che alla lunga non può esistere governo neutrale rispetto agli interessi in campo, e anche per questo allude continuamente alla sua provvisorietà. Ma non gli basta per essere creduto: anche lui ha una biografia, non viene dal nulla. Ha partecipato da indipendente ai consigli d´amministrazione di grandi aziende; manifesta una convinta lealtà alle istituzioni dell´Unione Europea in cui ha operato per un decennio; ha frequentato da protagonista i think thank del capitalismo finanziario sovranazionale. Un pedigree autorevolissimo che, unitamente al suo percorso accademico, lo connota quale figura cosmopolita organica a un establishment liberale conservatore, che in Italia è sempre rimasto minoritario. La cui pubblicistica da un ventennio raffigura (a torto o a ragione) le rappresentanze sociali e politiche del nostro Paese come cicale, se non addirittura come cavallette.
Qui s´impone il passaggio successivo dell´ideologia montiana o, se volete, l´idea di giustizia sociale di cui è portatore il tecnico di governo. Dovendo "scontentare tutti", almeno in parte, con le sue ricette amare, non basterebbe certo a legittimare cotanta severità il fatto che ci venga richiesta dalla troika (Fmi, Bce, Commissione europea) e dai mercati finanziari. L´italiano Monti, per quanto provvisorio, non può presentarsi a noi come il "podestà forestiero" di cui nell´agosto scorso aveva paventato l´avvento.
Ecco allora l´autorappresentazione di sé come portatore di un interesse mai rappresentato al tavolo delle trattative con le parti sociali: i giovani, i nostri figli, i nostri nipoti, addirittura le generazioni future. Prima d´ora solo la cultura ambientalista si era concepita come portavoce lungimirante dei non ancora nati, dentro le controversie del presente. Declinata in prosa tecnica, tale ambiziosa pretesa di redistribuzione intergenerazionale cambia decisamente di segno; com´è apparso chiaro nelle motivazioni pubbliche che hanno accompagnato il varo della riforma delle pensioni, prima, e del mercato del lavoro, poi.
Retrocessa in subordine, o addirittura liquidata come obsoleta la contraddizione fra capitale e lavoro, negata ogni funzione progressiva alla lotta di classe, il tecnico di governo assume come impegno prioritario il superamento di una presunta contrapposizione fra adulti "iper-garantiti" (parole testuali di Monti) e giovani precari. Riecheggia uno slogan di vent´anni fa, "Meno ai padri, più ai figli". Come se nel frattempo non avessimo verificato che, già ben prima della recessione, i padri hanno cominciato a perdere cospicue quote di reddito e posti di lavoro; mentre la flessibilità ha generalizzato la precarietà dei figli. Qui davvero l´ideologia offusca e mistifica il riconoscimento della vita reale, fino all´accusa rivolta ai sindacati di praticare niente meno che l´"apartheid" dei non garantiti. In una lettera aperta a sostegno della modifica dell´articolo 18, promossa da studenti della Bocconi e pubblicata con risalto dal Corriere della Sera il 21 febbraio scorso, leggiamo addirittura: "I nostri padri oggi vivono nella bambagia delle tutele grazie a un dispetto generazionale". Bambagia? Davvero è questa la rappresentazione del lavoro dipendente in Italia che si studia nelle aule dell´ateneo del presidente del Consiglio? Corredata magari dal rimprovero ai giovani che aspirano alla monotonia del posto fisso?
Ben si comprende, in una tale visione culturale, che la negazione del reintegro per i licenziamenti economici (anche se immotivati) venga considerata un "principio-base" irrinunciabile dal capo del governo. Così come si capisce la sintonia con le scelte di Sergio Marchionne in materia di libertà d´investimenti e rifiuto della concertazione. La stessa "politica dei redditi" concordata fra le parti sociali, auspicata mezzo secolo fa da La Malfa e in seguito messa in atto da Ciampi, viene liquidata come un ferrovecchio.
Mario Monti non è paragonabile a Margaret Thatcher, come ci ha ben spiegato ieri John Lloyd. Ma l´afflato pedagogico con cui si propone di cambiare la mentalità degli italiani per sottrarli a un destino di declino e sottosviluppo, sconfina ben oltre la tecnica: che lo si voglia o no, è biopolitica. Ha certo la forza sufficiente per tenere a bada gli attuali partiti gravemente screditati; ma al cospetto del malessere sociale rischia di manifestarsi come ideologia a sua volta anacronistica. Non a caso il presidente Napolitano si prodiga nel tentativo di attutirne gli effetti di provocazione. Padri e figli potrebbero indispettirsi all’unisono.

Corriere della Sera 29.3.12
La scuola Vendola? «Un'anatra zoppa» «No, è un esempio»

di Luca Mastrantonio

La primavera pugliese? «Un'anatra zoppa, da tempo, per colpa di una storta. Volendo, può guarire. Non volendo, no». Per il sociologo pugliese Franco Cassano, l'intellettuale che ha animato la stagione culturale e politica nata negli anni 90 e poi esplosa, la «storta» non è tanto giudiziaria, legata agli scandali recenti, ma sociale e culturale, legata allo scollamento tra i leader e la pluralità di soggetti attivi sul territorio. Dalle associazioni, che venerdì scorso a Bari hanno assistito al gelido confronto tra Nichi Vendola e Michele Emiliano, agli intellettuali sostenitori di Vendola che, interpellati dal Corriere, si dividono sulla strategia locale o nazionale.
Cassano descrive il dilemma di Vendola in termini critici, ma costruttivi: «Se lascia senza eredi, il laboratorio pugliese rischia di fare la fine del modello Roma di Veltroni. Vero. Ma se non scende in politica a livello nazionale, la sinistra rinuncia all'unico nuovo protagonista di un modo nuovo di essere meridionali, non solo "gomorresco". Diverso dalle riedizioni dell'interventismo straordinario e da certe macchiette. Il dilemma è vero, non è una doppiezza. E si risolve trovando chi faccia un gioco collettivo». Cassano non fa nomi, né esclude un recupero di Emiliano: «Se, passata la buriana delle indagini, impara a giocare per la squadra...».
Il rischio «veltroniano» invece è troppo grande per Alessandro Leogrande — intervenuto sabato scorso sul Corriere — e Nicola Lagioia: Vendola completi il mandato in Regione, poi si vedrà. Lagioia, scrittore barese di stanza a Roma, riconosce il ruolo positivo che il carisma di Vendola ha avuto nel rinnovare la Puglia, ma ne teme gli effetti collaterali. «Credere negli uomini della provvidenza in Italia vuol dire darsi l'alibi per non fare la propria parte. E chi crede di esserlo si assegna compiti impossibili e si preoccupa poco degli eredi. Vendola ora non ha eredi. E abbandonare il laboratorio pugliese quando non è così maturo da diventare autonomo, significa interrompere un'esperienza che alla Regione ha fatto più bene che male. È un film a cui Roma ha già assistito con Veltroni. Soprattutto significa riconsegnare la Puglia ai Fitto e ai D'Alema, facendo un salto indietro di decenni».
Sceneggiatura diversa, per il regista Daniele Vicari (laziale), che ha inviato una lettera al Corriere scritta mentre era al festival cinematografico di Bari, diretto da Ettore Scola, per presentare il film «Diaz»: «Esorto i miei amici pugliesi a non farsi scippare la speranza per un futuro migliore che hanno assaporato pur tra tanti alti e bassi negli ultimissimi anni. La presenza in Parlamento di una forza politica ecologista, attenta ai diritti civili, alla produzione culturale e non giustizialista può essere molto importante per ritrovare nel Paese una dialettica sana e costruttiva. Anche se a sinistra può creare qualche mal di pancia a coloro che si ritroverebbero automaticamente alla sua destra».
Anche Mario Desiati, scrittore di Martina Franca (Taranto) e direttore editoriale di Fandango, vede in Vendola un politico puro, non solo un amministratore. E invita ad abbandonare vecchi schemi: «Vendola ha imposto in Puglia la centralità delle politiche culturali, il rapporto con i giovani, l'impegno sul paesaggio e le energie rinnovabili. Queste cose non spariranno con Vendola, sono diventate patrimonio comune. Anche se alla Regione andasse la Poli Bortone, una politica lungimirante, le cose non cambierebbero. Vendola deve diventare il leader nazionale di una nuova sinistra, come Bertinotti, ma con qualche parlamentare in più». Un leader (nazionale) di lotta e non più (in Puglia) di governo.

Corriere della Sera 29.3.12
Lusi
«I soldi? Il 60% ai Popolari, il 40 ai rutelliani»
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Il patto per la spartizione dei fondi della Margherita assegnava «il 60 per cento ai Popolari e il 40 per cento ai rutelliani». A fare da garante era Luigi Lusi che aveva il compito, come spiega lui stesso ai magistrati, «di mettere al sicuro i rimborsi elettorali», circa 220 milioni di euro. E lo fece «effettuando anche operazioni immobiliari, di cui alcuni all'interno del partito erano a conoscenza». Il verbale del tesoriere indagato per appropriazione indebita e illecito reimpiego dei soldi perché accusato di aver sottratto dalle casse del partito almeno 23 milioni di euro a fini personali, svela quanto accaduto nella formazione politica poi confluita nel Partito democratico dal 2007 in poi riguardo alla gestione del denaro. Dichiara Lusi ai pubblici ministeri: «Dal 2009 ho annotato le uscite perché i Popolari non sapevano quanto prendeva Francesco Rutelli, che ritengo nel tempo abbia avuto qualcosa in più per la nostra vicinanza politica e perché era presidente del partito».
Gli investimenti immobiliari
Dura sei ore l'interrogatorio di Lusi davanti al procuratore aggiunto Alberto Caperna e al sostituto Stefano Pesci. Alla fine firma un verbale di sei pagine che ricostruisce il suo ruolo nel partito. «Il patto era di ripartire i fondi tra Popolari e i rutelliani». Fornisce le percentuali e quando gli viene chiesto se conosce la destinazione dei soldi afferma: «Non so che uso è stato fatto di questi fondi». Sottolinea invece di aver deciso di annotare ogni elargizione dal 2009, quando ci fu la fusione con i Ds «perché ritengo che Rutelli prendesse un po' di più e gli altri non lo sapevano. In particolare posso dire che Bocci e Rutelli erano attenti alle rispettive spese». Poi nega che gli acquisti di ville e appartamenti fosse un'appropriazione indebita: «Io avevo un mandato fiduciario. Nessuno mi ha dato incarico di comprare case o ville. Mi era stato detto soltanto che dovevo investire bene i soldi e io l'ho fatto. Sapevo che se ci fosse stato bisogno di liquidità quegli immobili sarebbero stati venduti». I magistrati gli contestano di essersi intestato la proprietà dei beni, ma lui non arretra: «Se adesso li vendessimo guadagneremmo molto più di quanto è stato speso. Posso assicurare che una volta che il partito avesse avuto necessità, tutti i beni acquistati sarebbero stati dismessi e restituiti». I pubblici ministeri gli chiedono i tempi di questa restituzione e Lusi risponde: «Al più presto, anche perché la liquidità della Margherita era in progressivo esaurimento. All'interno del partito alcuni sapevano di questi immobili, ma non faccio nomi perché tanto mi smentirebbero».
Le operazioni fiduciarie
Afferma il parlamentare indagato: «Dal 2007 c'era necessità di mettere al sicuro i beni dei rimborsi elettorali. Io non volevo nascondere nulla perché questo modo di gestire serviva a proteggere le operazioni fiduciarie. Non volevo truccare i bilanci. Io operavo come fiduciario e per fare queste operazioni ho usato le società Luigia ltd e TTT srl. Le operazioni fiduciarie sono quelle sugli immobili, dunque l'acquisto della villa di Genzano e della "nuda proprietà" di quella di Ariccia oltre all'appartamento di via Monserrato a Roma. Inserisco in questo elenco di operazioni fiduciarie anche la ristrutturazione delle case di Capistrello, i tre milioni di euro che sono stati depositati sul conto di mia moglie e alcuni prestiti infruttiferi fatti ad alcuni miei familiari. In particolare uno a mio fratello di 100 mila euro, a mio nipote 120 mila, a due miei amici 360 mila euro, a un altro nipote 130 mila». Non nega che ci siano stati altri investimenti personali. «La società Filor l'ho costituita nel 2007 e sta realizzando un immobile in Canada. Questa non è un'operazione fiduciaria, mia moglie non sa nulla sull'utilizzo dei fondi della Margherita, pensava che fossero miei risparmi. Non lo sapevano i miei nipoti che mi hanno fatto soltanto un favore, lo stesso vale per mio cognato. In Canada ho trasferito un milione e 600 mila dal conto di mia moglie alla Filor, 270 mila dalla TTT». I magistrati gli chiedono a che titolo avesse preso questi soldi e il denaro utilizzato per i viaggi e le cene. Dichiara Lusi: «I viaggi sono spese inserite nel sistema di cui ho parlato. Per quanto riguarda i soldi che ho speso voglio precisare che, terminato l'incarico di tesoriere avrei fatto la differenza tra quanto speso e quanto era da restituire alla cassa del partito».
I soldi del terremoto
Non nega Lusi di aver emesso assegni «liberi» ma nel caso dell'acquisto della villa di Ariccia sostiene che gli furono chiesti dal proprietario, che invece aveva fornito una versione opposta. Ammette di aver versato oltre un milione di euro in nero per la ristrutturazione delle case di Capistrello. Poi gli viene chiesto di giustificare la mancata consegna di 85 mila euro che risultano destinati ai terremotati dell'Aquila, ma non invece non sono mai arrivati. E lui afferma: «Quando mi sono sposato, anziché farmi fare il regalo di nozze ho chiesto soldi in beneficienza per i terremotati. Ce li ho ancora, ma intendo darli al sindaco per un parco. Li avevo appoggiati sul conto di mio fratello perché ho un contenzioso privato per cui rischiavo un sequestro e quindi li avevo messi lì. Nel dicembre scorso ne avevo parlato con il sindaco Cialente e avevo assicurato che li avrei consegnati al più presto».

il Fatto 29.3.12
Stampa. Per i precari norma anti-sfruttamento


La commissione Cultura della Camera, in sede legislativa, ha dato il via libera alla legge sull'equo compenso per i giornalisti precari (relatore Enzo Carra). Lo rende noto Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21 e deputato del Misto. Il testo, presentato da Silvano Moffa e firmato da parlamentari di tutti i gruppi prevede l’istituzione di una Commissione per la valutazione dell'equità retributiva che aggiornerà un elenco di datori di lavoro che rispettano i requisiti di “equo compenso”. L'iscrizione a questo elenco sarà necessario per l'accesso ai contributi pubblici in favore dell'editoria. In questo modo le testate che sfruttano i precari non potranno più accedere ai contributi pubblici. "Ci auguriamo che questo provvedimento possa ora essere approvato anche al Senato”, ha detto Giulietti.

l’Unità 29.3.12
Fecondazione assistita
In Italia la Legge 40 fa ancora paura
Ufficialmente ogni anno circa 4mila coppie scelgono di andare all’estero. Ma le stime indicano almeno il doppio. Spagna, Austria Repubblica Ceca, Svizzera e Ungheria le mete più ambite
di Jolanda Bufalini


I numeri
Sempre più italiani optano per il turismo procreativo
90 Sono i centri esteri contattati per l’indagine dell’Osservatorio «turismo procreativo».
39 sono invece quelli che hanno dato una risposta. Molto spesso gli istituti per questione di privacy e affari preferiscono non rispondere.
4000 il numero verificato delle coppie italiane che si sono recate con all’estero per la procreazione assistita.
8000 almeno il numero presunto, poiché più della metà dei centri non ha ritenuto di rispondere all’indagine.
1989 fra quelli censiti, il numero dei trattamenti eterologhi. 950 in Spagna, 630 in Svizzera, 204 in Repubblica Ceca, 110 in Belgio, 60 in Grecia, 12 in Austria, 11 in Gran Bretagna, 5 in Danimarca, 5 in Ungheria, 2 in Russia.
1956 il numero dei trattamenti omologhi che si potrebbero anche fare in Italia.

Le coppie che hanno problemi ad avere figli continuano a emigrare per ottenere trattamenti di fecondazione assistita, nonostante le sentenze della Corte Costituzionale che nel 2009 hanno molto alleggerito le durezze della Legge 40. Quasi la metà delle coppie censite (4mila) va in Spagna, Repubblica Ceca, Svizzera, Austria o Ungheria per sottoporsi a trattamenti di fecondazione omologa (spermatozoi e ovociti della coppia) che potrebbe fare in Italia.
Andrea Borini, presidente dell’Osservatorio, spiega che spesso la causa di queste trasferte è da ricercarsi «nell’ignoranza che ancora circonda le norme sulla procreazione assistita in Italia». Molte coppie, per esempio, vanno all’estero per la diagnosi prenatale. Non è vietata in Italia ma era di fatto inutile quando non c’era la possibilità di congelare gli embrioni.
La Consulta ha posto rimedio a questa situazione stabilendo che sulle metodologie i medici «agiscono in scienza e coscienza», nei centri certificati c’è dunque la possibilità del congelamento degli embrioni ma per molte coppie la scelta si basa sul passaparola o sulla pubblicità in italiano dei siti, d’altra parte, gli stessi ginecologi sono poco informati, con conseguenze che possono presentare dei rischi perché spesso la meta è scelta in base alla vicinanza (Austria, Svizzera), alla possibilità di trovare personale che parli italiano, piuttosto che agli effettivi riconoscimenti scientifici ottenuti dall’istituto. C’è poi una difficoltà oggettiva nel valutare i risultati dei singoli centri. Alcuni, ad esempio, vantano un’alta percentuale di successi ma poi si scopre che respingono i casi più difficili e questo falsa le statistiche.
Per Carlo Flamigni c’è innanzi tutto un problema di «proteggere queste persone nei loro diritti» e usa un neologismo per spiegarsi: «All’estero c’è più tronfismo che in Italia», cioè i «medici sono tronfi e non rispondono alle domande e ai dubbi di chi si rivolge loro, limitando la libertà di scelta», in un settore molto delicato. Nella fecondazione eterologa, ad esempio, dice Flamigni, «in Spagna arrivano, per motivi economici, donne dall’Argentina e dalla Russia ed è più difficile conoscere la storia medica di queste persone e la possibilità di malattie ereditarie come il diabete». In Francia, nel caso degli embrioni congelati, «si prevede la verifica dell’Aids ma in molti altri paesi non si fa questo accertamento».
Da rilevare c’è anche che la gran parte dei centri interpellati, soprattutto fra quelli che hanno molti clienti italiani, ha deciso di non rispondere alle domande dell’Osservatorio. Cosa che, oltre a mettere in luce la concorrenza nel settore, fa supporre che le coppie che vanno all’estero siano almeno il doppio, 16mila persone.
Il turismo procreativo ha un altro settore di grande delicatezza, quello dell’utero in affitto, vietato dalla legislazione italiana. Spiega Andrea Borini, che ha lavorato a lungo in California: «Negli Stati Uniti sono i medici a prescriverlo quando una donna non è in condizioni fisiche di portare avanti la gravidanza. E lì i protocolli sono molto chiari e precisi». Vi sono paesi la cui legislazione permette la gravidanza per interposta persona che ammettono anche coppie o single che vengono da paesi dove la legge non lo consente, altri paesi che non li ammettono ma il divieto è facilmente aggirabile.
L’Osservatorio per la prima volta ha tentato quest’anno un’indagine quantitativa sull’utero in affitto. Il flusso degli italiani che partono per questa ragione è stato più volte stimato in un centinaio l’anno. La ricerca presentata ieri si basa su 33 centri o agenzie contattati i 7 paesi, Stati Uniti, Ucraina, Armenia, Georgia, Grecia, Russia, India. Non tutti hanno risposto, oppure lo hanno fatto senza dare cifre, come un centro Usa: «Abbiamo notato un aumento del 100% di coppie e single provenienti dall’Italia». Sulla base delle risposte pervenute almeno 32 coppie hanno fatto richiesta della maternità surrogata, 18 in Russia, 9 in Ucraina, 5 in Georgia e Armenia. La delicatezza del tema sta anche nel fatto che ci sono paesi come l’India dove la diffusione dell’utero in affitto è legato a condizioni di estrema povertà. Carlo Flamigni: «Ci sono modi migliori di regolare queste situazioni, invece dell’affitto c’è la donazione che è un atto d’amore di una sorella o di una parente stretta».

La Stampa 29.3.12
Diventa un giallo la sepoltura in chiesa del boss della Magliana


ROMA È giallo sulla sepoltura del boss della Magliana Enrico De Pedis nella basilica di Sant’Apollinare a Roma. Rispondendo durante il question time a un’interrogazione di Walter Veltroni (Pd), il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri ha ieri dichiarato che non esiste documentazione sul trasferimento della salma al ministero: né un decreto né un interessamento da parte della prefettura di Roma o della direzione generale dei culti. Cosa anomala visto che all’epoca (De Pedis venne ucciso in un agguato a Roma nel 1990) la sepoltura privilegiata in luoghi diversi dai cimiteri era soggetta a una serie di autorizzazioni ministeriali.
Il ministro ha spiegato la mancanza di documentazione citando un decreto regio del 1938 secondo il quale «l’introduzione delle salme dal territorio del regno d’Italia nello Stato della città del Vaticano è autorizzato dal governatore di quello stesso Stato». E la basilica di Sant’Apollinare - ha detto il ministro - è su territorio del Vaticano. Versione però smentita dallo stesso Veltroni che, nella replica, non si è detto soddisfatto e ha chiesto al ministro di approfondire. La basilica di Sant’Apollinare, infatti, non sarebbe in territorio vaticano ma in quello italiano.

Corriere della Sera 29.3.12
«Nuovi accertamenti sulla tomba di De Pedis»


ROMA — La sepoltura del boss Enrico De Pedis nella basilica di Sant'Apollinare diventa un caso politico. «Non ci risulta che sia stato adottato un decreto né che siano stati mai interessati la Prefettura di Roma e la Direzione generale dei culti», sebbene le «tumulazioni privilegiate siano assoggettate a un decreto del ministero della Sanità di concerto con l'Interno». Lo ha detto ieri alla Camera il ministro Anna Maria Cancellieri, rispondendo a un'interrogazione di Walter Veltroni (Pd). Sepoltura irregolare, dunque? Per la responsabile del Viminale «verosimilmente» la mancanza di atti (a parte le «autorizzazioni prescritte per la traslazione della salma rilasciate dal Comune») è legata al fatto che «Sant'Apollinare è ubicata nel territorio della Città del Vaticano». Circostanza non vera, secondo Veltroni: «L'allegato II del Trattato tra Santa Sede e Italia non include Sant'Apollinare tra gli "immobili con privilegio di extra- territorialità". È ora di conoscere la verità». Richiesta accolta dal ministro, che ha annunciato di «disporre ulteriori accertamenti per verificare la completezza di ogni particolare fornito».
Nelle tribune per il pubblico di Montecitorio erano presenti Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, la ragazza con cittadinanza vaticana scomparsa il 22 giugno 1983, e le altre tre sorelle. «Siamo contenti che la ricerca della verità vada avanti — ha detto Pietro Orlandi — da quanto emerso oggi sembra quasi che la salma di De Pedis sia stata sequestrata. Presto spero di poter incontrare il ministro».

Repubblica 29.3.12
Caso Orlandi, giallo sulla tomba di De Pedis
La Cancellieri: "Sant’Apollinare è in Vaticano", poi si corregge
Veltroni: chi l’ha fatta sbagliare?
di Giovanna Vitale


Interrogazione alla Camera. Alla fine il ministro annuncia: "Faremo nuovi accertamenti"

ROMA - È uno dei grandi misteri italiani. La controversa sepoltura del boss Enrico De Pedis nella basilica di Sant´Apollinare, ventidue anni dopo, resta un giallo senza risposta. Tant´è che «saranno disposti ulteriori accertamenti», ha annunciato ieri sera il ministro dell´Interno Anna Maria Cancellieri. Per capire finalmente chi abbia autorizzato il trasferimento della salma dal Verano alla chiesa nel cuore di Roma. Con quali poteri. E perché un tale onore sia stato riservato a un criminale, esponente di spicco della Banda della Magliana, accusato tra l´altro di aver rapito Emanuela Orlandi.
A far riaprire il caso è stato Walter Veltroni, che in una interpellanza alla Camera ha chiesto alla titolare del Viminale di dissipare le molte ombre che ancora avvolgono una vicenda mai davvero chiarita. In particolare l´ex leader del Pd intendeva sapere «se esiste il decreto del ministero degli Interni che autorizza» quella sepoltura, «quando è stato firmato e da chi, e se, assieme a eventuali documenti dei servizi di sicurezza, sia stato consegnato alla magistratura inquirente». Nella sua replica - attesa con trepidazione dai quattro fratelli di Emanuela Orlandi, seduti in tribuna a Montecitorio - la Cancellieri ha quindi spiegato che quella di Enrico De Pedis, detto Renatino, rientra nei casi di tumulazione cosiddetta «privilegiata» in luoghi diversi dal cimitero, per cui era necessario un decreto d´autorizzazione. Ma «da verifiche effettuate presso gli uffici dell´Interno non risulta sia stato adottato un decreto né siano mai stati interessati la prefettura di Roma né la direzione generale dei culti, all´epoca articolazione centrale del mio dicastero». Per cui le autorizzazioni «furono rilasciate a suo tempo dal Comune di Roma», ha concluso, citando testualmente l´audizione resa l´11 ottobre in Commissione Antimafia da rappresentanti della Procura di Roma e della Distrettuale anti-mafia. Senza neppure dimenticare un´altra «circostanza rilevante» per inquadrare i fatti: «Sant´Apollinare è ubicata nel territorio della Città del Vaticano», ha precisato il ministro.
Un passaggio, quest´ultimo, che però non ha convinto Veltroni. «A noi non risulta che Sant´Apollinare sia in territorio vaticano», ha controbattuto l´ex leader del Pd. «E in ogni caso è eticamente inaccettabile che il capo della banda della Magliana sia sepolto in una delle chiese più importanti di Roma. Lo Stato vada fino in fondo e prema sul Vaticano». Un rilevo che troverebbe conferma nel fatto che quella Basilica è sì di proprietà della Santa Sede, ma a titolo privato, che è cosa ben diversa dalla extraterritorialità, potendo semmai rilevare ai fini dell´esenzione fiscale. «A questo punto mi chiedo: perché gli uffici del Viminale hanno mandato il ministro Cancellieri a dire una cosa non vera su una materia di tale delicatezza e rilevanza?», insiste Veltroni. L´ennesima ombra di un mistero senza fine. Che nemmeno il sindaco di allora, Franco Carraro, contribuisce a chiarire: quando il 6 marzo del 1990 De Pedis venne seppellito nel cuore di Roma lui era seduto sulla poltrona più alta del Campidoglio. «Ma mai nella mia vita non mi sono occupato di traslazione di salme, tantomeno di quella del boss della Magliana», taglia corto. «Anche se è passato tanto tempo lo escludo nella maniera più assoluta». Il giallo continua.

Corriere della Sera 29.3.12
Gli investimenti cinesi in Italia? Si fermano alle porte di Oristano
di Giuliana Ferraino


MILANO — Questa è una piccola storia (ma 51 milioni di euro non sono poi così pochi) che racconta perché chiedere ai cinesi di investire in Italia, come si appresta a fare Mario Monti in arrivo a Pechino, non serve se poi l'investimento diventa a rischio. A maggior ragione quando ad aprire il portafogli è la China development bank (CDB), la banca di Pechino che gestisce gli investimenti internazionali.
Protagonista della vicenda è Trp Pve, joint venture 50-50 tra il gruppo Tolo Green di Gilberto Gabrielli, ex banchiere convertito alle energie verdi, e la Saae, l'azienda hi-tech controllata dallo Stato cinese e quotata in Borsa a Shanghai. A fine dicembre 2010 Trp Pve completa, nei tempi previsti, due campi fotovoltaici da 11,8 megawatt a Milis, paesino in provincia di Oristano, con un investimento di 51,3 milioni sborsati interamente dalla CDB. «Abbiamo cominciato a produrre e a vendere energia elettrica all'inizio di giugno 2011, ma ci viene pagata soltanto la parte ordinaria e non la tariffa incentivante prevista per le rinnovabili dal Gse» afferma Gabrielli, presidente di Tolo Green e ceo della jv. Il motivo? Il Gestore dei servizi energetici non ha riconosciuto il diritto perché «mancavano le parti rimovibili di plastica dalla serra, che noi avevamo deciso di non mettere per ragioni meteorologiche, ma che erano state comprate e lasciate in deposito presso il rivenditore», secondo la versione del manager-imprenditore. Negare la tariffa significa non rientrare nell'investimento, perché «il prezzo comune dell'energia non lo ripagherà mai», valuta Gabrielli visto che il mercato paga tra 0,70 e 1 cent a chilowattora, mentre la tariffa incentivante vale 4 cent a chilowattora. Con un aggravante: «l'impresa a cui viene rifiutata la tariffa non può fare investimenti per 10 anni nel settore». Perciò la Trp Pve ha fatto ricorso al Tar, che lo ha respinto. E ora aspetta la sentenza del consiglio di Stato, attesa entro aprile. Nel frattempo Gabrielli oggi volerà a Shanghai e poi proseguirà per Pechino, per spiegare la situazione ai partner cinesi.

Repubblica 29.3.12
Il marchio della democrazia
di Lucio Caracciolo


La democrazia è un marchio geopolitico. Il marchio dell´America vittoriosa nella guerra fredda, che sull´onda di quel trionfo eleva la sua idea di democrazia a modello di un mondo finalmente globale. Il pianeta unificato nella grande pace capitalistica, segnato dall´espansione della liberaldemocrazia. E perciò dominato dagli Usa in quanto idealtipo della sintesi fra capitalismo e democrazia. L´America mondiale nel mondo americano. Egemonia assoluta, descritta dallo storico Walter Russell Mead come "opzione global only, in cui gli Stati Uniti sarebbero completamente sovrani, senza alcun sistema di controlli e bilanciamenti e nessuna responsabilità per le nostre azioni se non verso noi stessi". (...)
Oggi sappiamo che anche quel Dio ha fallito. Il marchio geopolitico del globalismo americano è scaduto. La sua sconfitta si riverbera nella Grande Crisi scaturita nel ventre della finanza a stelle e strisce. Una cesura storica. Essa investe la credibilità della democrazia occidentale come sistema politico e della sua potenza leader come protagonista geopolitico. (...)
Secondo Amartya Sen l´idea della democrazia universale è "un frutto del XX secolo". Solo nel Novecento l´Occidente capì che "un Paese non deve essere pronto per la democrazia, ma lo deve diventare mediante la democrazia". In parole povere: la democrazia è figlia di se stessa. L´argomento del grande economista e moralista indiano sembra involontariamente adombrare la ragione per cui il XXI secolo difficilmente sarà l´epoca della democrazia universale. Se la democrazia si diffonde per partenogenesi, se per crescere si deve nutrire delle proprie radici, potrà al meglio procedere a macchia d´olio dalle sue terre d´elezione. Ossia dall´Occidente. Sfortuna vuole che vinta la fatidica battaglia contro l´Oriente rosso, l´Occidente residuo si specchi nella Francia di oggi, che ogni tanto s´illude di incarnare l´Occidente di ieri. Comunica grandeur, pratica petitesse.
In attesa che dagli alambicchi di qualche geniale scienziato scaturisca la formula della democrazia universale, o del migliore regime che dovrà superarla, la geopolitica ci invita all´esercizio della prudenza. Noi occidentali abbiamo il diritto di rivendicare la nostra democrazia, così come altri popoli e altre culture possono rifiutarla o declinarla secondo gusti che forse a noi non parranno troppo democratici. Abbiamo anche il dovere, se professarsi democratici ha un senso, di salvarla da noi stessi e dalle nostre velleità di usarne come strumento d´influenza globale.
Se vorremo continuare a sperare in un mondo più democratico, dovremo assorbire l´idea che non sarà mai tutto democratico. Converrà riconoscere che la diffusione dei nostri valori non è una guerra di religione, anche perché la perderemmo. E temperare laicamente l´universalismo dei princìpi con la constatazione che la demografia ci impone: siamo una minoranza dell´umanità, con tendenza al restringimento. Ammesso di poter convertire la maggioranza alla superiorità del nostro marchio, dovremmo crederci un po´ più di quanto ci riesca oggi. Non perché sia scritto in un Libro, ma perché avremo confermato, anche contro alcune esperienze del nostro presente, che la democrazia funziona come fattore di pace, ordine, benessere e libertà.

Repubblica 29.3.12
Quando i candidati locali contano più dei partiti
di Carlo Galli


Per le prossime elezioni amministrative si annuncia un moltiplicarsi di formazioni e simboli nuovi dovuto alla crisi degli schieramenti tradizionali
La politica moderna ha come dimensione appropriata non la città, ma lo stato. La differenza di scala comporta anche un salto di qualità
Ma può accadere anche che i cittadini per entusiasmo o disperazione si rimbocchino le maniche e si mobilitino

È implicito, nel concetto di lista civica, che il rapporto fra politica e città sia problematico. Quel rapporto dovrebbe essere di piena adeguazione – dopo tutto, le due parole sono l´una figlia dell´altra, poiché politica è l´insieme delle cose pubbliche che riguardano la città –; e invece la lista civica si contrappone a liste elettorali non civiche, o almeno non percepite come tali. A liste che esprimono la disgiunzione fra politica e città. Com´è stato possibile ciò? E com´è possibile che una lista civica vi possa porre rimedio?
La politica moderna ha come dimensione più appropriata non la città ma lo Stato; non il libero Comune ma l´intera società civile nella sua vastità e nelle sue interconnessioni. In ogni caso, lo spazio cittadino è uno spazio diverso da quello statale, nazionale; la differenza di scala comporta una differente qualità della politica, che nella città deve confrontarsi con problemi locali, e deve promuovere uno sviluppo e una qualità della vita non necessariamente omogenei a quelli della nazione intera. Anche quando il livello locale è il laboratorio di proposte rivoluzionarie – come nei municipi "rossi" di inizio Novecento –, il "nuovo" vi si presenta con una capacità amministrativa, con un´attitudine all´ascolto ravvicinato, con uno sguardo attento e concreto che ne muta le caratteristiche. Non a caso il socialismo che a livello nazionale era diviso tra massimalisti e riformisti, era poi operosamente riformatore nei municipi e nei territori.
Perfino il tempo delle ideologie ha dovuto prendere atto della differenza municipale, della particolarità della dimensione civica. Nella rossa Bologna dal secondo dopoguerra, e fino al 2000 – oltre quindi la fine del Pci –, il "partitone" alle elezioni amministrative non si presentava nella forma politico-ideologica che assumeva alle elezioni politiche (appunto, come Pci, con tanto di falce e martello), ma col simbolo cittadino delle Due Torri: liste comuniste, ma aperte anche a personalità indipendenti, aperte alla città, che raccoglievano più voti di quelli che la sinistra sommava alle politiche. Segno che la dimensione civica riusciva a superare anche le più aspre contrapposizioni ideologiche.
Ma quella ri-cucitura fra politica e città non era alternativa ai partiti; anzi, questi si rivelavano capaci di saturare l´intera domanda di politica della società, in tutti i suoi ambiti e in tutti i suoi piani, offrendo "prodotti" diversi per pubblici diversi.
Quando, con la crisi della Prima repubblica, alla politica dei partiti si sostituì la politica spettacolo, tutta spostata sulla comunicazione e sul carisma del leader, questa politica, omogenea a livello nazionale, ha perduto la presa sui territori, che sono rimasti consegnati a gruppi locali, a clientele e a cricche ormai autoreferenziali, semplici anelli di cordate politico-affaristiche rispetto alle quali il brand politico nazionale era, ed è spesso tuttora, una copertura ideologica pubblicitaria, di pratiche sostanzialmente private, prive di respiro pubblico e civico. Non dalla forza della politica, ma dalla sua debolezza nascono le nuove liste civiche; la proposta dell´Italia delle "cento città" – poi finita nel nulla – era la manifestazione di un bisogno di civismo, di una nuova stagione della politica che assumeva la dimensione municipale non come chiusura localistica ma come ricerca di concretezza al di là della rissa mediatica, in nome di una partecipazione consapevole alla vita associata.
Oggi, in un tempo ancora diverso, nel tempo cioè della politica inefficace e delegittimata – che proprio sui territori mostra la sua collusione con l´affarismo e la faccenderia, e la sua inettitudine a risolvere i problemi che la crisi mondiale scarica sulle città –, le liste civiche, che potrebbero essere le protagoniste delle prossime elezioni amministrative, sono certamente il segnale della disaffezione fra gli italiani e la politica dei partiti; ma, accanto a una componente qualunquistica e antipolitica – che fa parte molto più del problema che non della soluzione –, accanto a velleitarie chiusure localistiche, quasi che la città potesse immunizzare dal mondo, accanto al rischio di frammentazione del tessuto nazionale, acquistano spesso anche il significato politico di una rivendicazione di autogoverno; come se, insomma, i cittadini presi dall´entusiasmo, o dalla disperazione, fossero spinti al volontariato civico, a rimboccarsi le maniche dall´urgenza di far fronte al degrado delle città e al crollo della qualità della vita.
Certo, c´è la possibilità che le liste civiche siano il palcoscenico per capetti carismatici locali, solo il veicolo di spregiudicati arrivismi, oppure non siano altro che operazioni più o meno credibili di camuffamento di ceti dirigenti locali logori e impresentabili; che improbabili candidature siano destinate a scontrarsi con la complessità della politica e a venire manipolate da vecchi marpioni del mestiere. Eppure, oltre che il segno di una crisi dei partiti – che resta il problema principale della politica (di quella crisi è infatti parte integrante anche la corruzione) – le liste civiche sono il segnale che – dopo la politica astratta delle ideologie, dopo la politica virtuale della comunicazione, dopo la politica inerte della grande crisi che stiamo attraversando – c´è ancora chi vuole invertire il circolo vizioso grazie al quale il globale scarica tutte le contraddizioni sul locale, per fare della dimensione concreta dei territori il punto d´appoggio per riqualificare il rapporto col mondo vasto e terribile. Per far rinascere la politica da dove è nata: dalla città.

Repubblica 29.3.12
Le radici di una tendenza che si diffonde
La nuova moda nazionale
di Ilvo Diamanti


La legge sull´elezione diretta del sindaco ha contribuito in modo decisivo alla "personalizzazione" della competizione. Ora diventa anche un modo per marcare "l´autonomia" dalle sedi centrali

Le liste "civiche" hanno una storia lunga, in Italia. Nella Prima Repubblica sono state utilizzate alle elezioni amministrative. Da leader e gruppi locali per sottrarsi alle appartenenze di "partito". Oppure, al contrario, promosse proprio dai partiti maggiori. Nei comuni più piccoli: per sfruttare il sistema maggioritario, eleggendo oltre ai consiglieri di maggioranza, anche quelli dell´opposizione. Ma, a volte, anche in quelli più grandi, per dare un´identità cittadina, cioè: "civica", al partito dominante. Oggi, però, le "liste civiche" conoscono un successo, del tutto particolare. Soprattutto e anzitutto, di nuovo, alle elezioni amministrative. Almeno dal 1993. Da quando è entrata in vigore la legge che stabilisce l´elezione diretta del Sindaco. Da allora, infatti, i candidati Sindaci – soprattutto se in carica - hanno valorizzato e sfruttato la loro capacità di attrazione promuovendo "liste personali". Le "liste del sindaco", appunto. Utilizzate, talora, anche a livello regionale e provinciale. Le "liste del Presidente". I partiti nazionali vi si sono adeguati, in modo più o meno convinto. Facendo di necessità virtù hanno accostato le loro liste a quelle del candidato. Oppure hanno cercato di de-partitizzare la loro identità rendendola più aderente al territorio. Limitandosi, perlopiù, ad accostare al marchio del partito il nome della città, regione oppure area in cui si presentano. Liste civiche fittizie, insomma. Partiti nazionali mascherati.
Da qualche tempo, però, le liste civiche sono divenute "tendenza di moda". In ambito locale, vengono promosse dai leader per marcare le distanze dal partito. Per rivendicare la propria autonomia personale. Come ha fatto Flavio Tosi a Verona. Oppure, per sperimentare soluzioni e alleanze inedite, che superino i confini degli schieramenti oltre che dei partiti. Ma le Liste civiche stanno conoscendo una certa popolarità anche in ambito nazionale. Almeno come ipotesi. Prospettiva. Minaccia. Vi ha fatto riferimento, in modo esplicito, Silvio Berlusconi, alla ricerca di un marchio e di un prodotto nuovo e diverso da lanciare sul mercato elettorale. Ma se ne parla, da qualche tempo, anche per dare rappresentanza alla grande popolarità di cui gode il governo tecnico e soprattutto il premier, Mario Monti. I sondaggi ipotizzano, infatti, che una lista riferita direttamente al Premier potrebbe raccogliere oltre il 20% dei voti. Un terzo dei quali intercettati da coloro che attualmente non si esprimono, perché non si sentono rappresentati dall´attuale offerta politica. Dagli attuali partiti. Il che chiarisce i caratteri e i confini della spinta verso le liste "civiche" in questa fase. Riflette, principalmente, due componenti. Da un lato, rispecchia l´insofferenza verso gli attuali partiti, distanti dalla società. Verso la malattia oligarchica che li affligge. Dall´altro, intercetta e rende visibile uno spazio effettivamente non rappresentato dai partiti –tradizionali e nuovi – né dai valori e dalle distinzioni che essi propongono. Destra e sinistra. Berlusconismo e antiberlusconismo. Vecchio e nuovo. Perfino Nord e Sud. Infine, l´interesse sollevato dalle liste civiche riflette l´importanza assunta, negli ultimi vent´anni, dalla "personalizzazione". Le Liste civiche, cioè, evocano la relazione tra le "persone" che si rivolgono "direttamente" a una "persona".
Conseguenza del clima populista diffuso ovunque. Senza distinzioni di appartenenza – politica e sociale. Ma al tempo stesso segno della domanda di rinnovamento (della politica e della democrazia). Da troppo tempo annunciato. Da troppo tempo deluso.

Repubblica 29.3.12
"Così finiremo come la Grecia" Spagna in corteo contro Rajoy
Oggi sciopero generale per tagli e licenziamenti low cost
di Ettore Livini


L´incubo dei nuovi disoccupati senza sussidi e gli sfratti per chi non riesce a pagare il mutuo
Cinque milioni e mezzo senza lavoro, economia in recessione per la crisi e l´austerity

MADRID - Il male oscuro dell´Europa non si misura solo in spread e rapporti deficit/pil. Lo raccontano anche le migliaia di spagnoli che oggi scenderannno in piazza per lo sciopero generale contro i "licenziamenti facili" varati (senza concertazione) dal governo Rajoy. Oppure le lacrime di Ana Mendez, 55enne arrivata a Madrid dall´Ecuador dieci anni fa per realizzare il sogno di una vita («un lavoro decente e un tetto per me e i miei figli») e finita ora in un incubo. «È successo undici mesi fa - racconta piangendo a 200 persone pigiate come sardine in un seminterrato a due passi da Plaza de Toros - . Dopo nove anni come badante, sono rimasta disoccupata. Zero lavoro, zero soldi. Per due mesi sono riuscita a mettere assieme i 1.100 euro del mutuo. Poi basta. Mi hanno buttato fuori di casa e ora dormo da mia sorella, otto in 30 mq!». Applausi e altre lacrime in sala. Nella sede della "Plataforma de afectados por la hipoteca", la Ong che assiste casi come il suo, la capiscono tutti. Per un semplice motivo: sono tutti nelle stesse condizioni. Una quarantina di spagnoli, un centinaio di immigrati da Quito e Guayaquil, una manciata di nigeriani e maghrebini. L´esercito di braccia che ha costruito un mattone alla volta la Fiesta iberica di inizio millennio, rimasto oggi senza lavoro, senza soldi per il mutuo e con la casella della posta gonfia di lettere della banca che annuncia lo sgombero.
Le 50mila persone cacciate di casa in Spagna nel 2011 per morosità sono solo la punta dell´iceberg. La via crucis dell´economia di Madrid è una strada strettissima tra due baratri: la crisi che obbliga il governo a tagliare servizi sociali e approvare riforme lacrime e sangue come quella sul lavoro e un disagio sociale sempre più simile alla tragedia andata in scena ad Atene: 5,6 milioni di disoccupati (il 47,8% tra i ragazzi sotto i 25 anni), tagli alla sanità (nei pronti soccorsi - lamentano le associazioni dei medici iberici - si aspetta 24 ore per trovare un letto), le scuole superiori di Valencia costrette a spegnere il riscaldamento in pieno inverno per risparmiare. Un circolo vizioso in cui l´austerità si autoalimenta, mandando in recessione il paese (-1,7% il pil 2012) e a picco le sue entrate fiscali, con Iva (-9,8%) e Irpef (-2,7%) crollate nel 2012.
Il governo conservatore di Mariano Rajoy fatica a tenere la barra dritta: da una parte ha chiesto alle banche di sospendere gli sfratti per disoccupati con case di valore inferiore ai 200mila euro. Dall´altra ha varato «la riforma del lavoro più regressiva della storia di Spagna», come dice Candido Mendez, leader dell´Ugt, alla vigilia dell´ottavo sciopero generale della storia iberica nel dopo-Franco.
«Pioverà sul bagnato. Guardi qui fuori - vaticina Ana Labrato, responsabile dell´Ufficio di collocamento di Villaverde, quartiere popolare a sud di Madrid - è così ogni mattina». Le dieci sedie nella sala d´attesa di Plaza Mayor sono tutte piene. Quindici persone bivaccano in piedi da almeno un´ora. Jose Luis Guerrero, rassegnato, sa già che sarà un altro giorno buttato via. «Ho 29 anni, sono senza lavoro dal 2008 e campo con i 420 euro del sussidio di Zapatero - dice - . Grazie all´Agencia de Empleo ho organizzato venti colloqui e un corso da cuoco di 250 ore. Ma a parte qualche impiego saltuario, nada».
Rajoy dice che le nuove norme sul lavoro sono fatte apposta per gente come lui: garantiscono aiuti a chi assume ragazzi sotto i trent´anni. Limitano a due anni i contratti a tempo determinato. E istituiscono i licenziamenti low-cost: 20 giorni di indennizzo per anno lavorato (erano 45) per un massimo di un´annualità (erano 42 mesi) per le imprese che registrano fatturati in calo per tre trimestri. Un male necessario «per garantire la crescita che farà decollare l´occupazione», sostiene ottimista Juan Rosell, numero uno della Ceoe, la Confindustria spagnola.
Sarà. Se il buongiorno si vede dal mattino, però, i segnali non sono incoraggianti: la Gedesma, società di gestione rifiuti del Comune di Madrid, ha licenziato in tronco nei giorni scorsi - riforma Rajoy alla mano - 8 dipendenti su 42 «per la mancanza di prospettive economiche». E secondo la Fundacion Idea, think tank dell´ex-ministro socialista Jesus Caldera, la deregulation «farà saltare nel 2012 ben 150mila posti di lavoro in più dei 635mila previsti dal Governo».
È pessimista pure Ernesto Torres, ex operaio edile 53enne, ridotto a fare l´uomo sandwich a quattro euro l´ora per un "compro-oro" in Paseo Alberto Palacio ("40 euro al grammo, più che in Puerta del Sol!"): «Io sento il polso della strada. La situazione peggiorerà. L´Europa? È una matrigna che regala mille miliardi alle banche e a noi chiede di tirar la cinghia». Oggi Ernesto sarà in piazza «per fare sentire la voce della gente a Merkel e a Bruxelles». Abituati male, è convinto Mendez, dalle timide reazioni sociali (molotov degli incappucciati a parte) nelle strade di Atene. Rajoy e la Ue sperano in un flop, contando nella debolezza di un sindacato «vissuto come un´oligarchia autoreferenziale e scavalcata dalla freschezza degli Indignados». Parola di Jose Luis Alvarez, professore di sociologia a Harvard e all´Insead.
Si vedrà come andrà. Chi cerca un lavoro stabile e non si fida né del governo né dei sindacati, intanto, può sempre affidarsi al Signore: «Quante promesse ti hanno fatto senza mantenerle? Io non ti garantisco un gran stipendio. Ma ti assicuro un posto fisso», recita la pubblicità più controversa in onda in questi giorni su tv e radio spagnole. Lo stipendio è di 850 euro al mese. A pagarlo è la Conferenza episcopale che per attirare seminaristi ha bombardato l´etere di spot che promettono lavoro e «ricchezza eterna», cavalcando la sirena della stabilità. Un tema d´attualità (pure la Cei ha bacchettato Fornero) anche nell´alto dei cieli.

l’Unità 29.3.12
Shalabi, una donna a capo della protesta dei detenuti palestinesi senza processo
Un nuovo caso di estrema denuncia delle detenzioni amministrative illegali di prigionieri politici palestinesi può trasformarsi in tragedia: una donna, Hana Shalabi, in fin di vita, ricorre alla Corte suprema israeliana.
di Rachele Gonnelli


Il nuovo volto della protesta contro le detenzioni arbitrarie di palestinesi nelle carceri israeliane è quello di una donna. Si chiama Hana Shalabi, ha 30 anni, viene da una famiglia di agricoltori del villaggio di Burqin, sobborgo di Jenin, e dopo la morte del fratello durante un’incursione israeliana voleva studiare per diventare infermiera a Nablus. È stata arrestata il 18 ottobre dell’anno scorso per essersi ribellata durante una perquisizione della sua casa. Rilasciata nello scambio di prigionieri tra israele e Hamas per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit, è stata riarrestata quattro mesi dopo, il 12 febbraio, senza un’accusa precisa. Secondo il padre Yehia Shalabi su Haaretz il motivo potrebbe essere che essendo la famiglia legata alla Jihad islamica e non ad Hamas, per lei lo scambio non valeva. Ma si tratta di una ricostruzione informale, senza prove. Ora da quarantadue giorni è in sciopero della fame. Le sue condizioni oggi sono critiche, i suoi legali dicono che potrebbe avere le ore contate.
Le autorità israeliane cominciano a temere che la sua lotta non violenta possa trasformarsi in martirio, tanto che da una settimana l’hanno trasferita nell’ospedale Meir di Kfar Sab, vicino Tel Aviv, dove però la sua situazione clinica sabato scorso è ulteriormente peggiorata. L’associazione palestinese per i diritti umani e il sostegno ai prigionieri Addameer, con sede a Gerusalemme est, dice che «Hana ha iniziato ad assumere calcio e vitamina K per essere protetta da infarto immediato». L’atrofia muscolare della donna è aumentata e potrebbe presto raggiungere il muscolo cardiaco. Domenica scorsa la corte militare di Ofer, la più vicina a Ramallah, ha rifiutato l’appello presentato dai legali di Hana Shalabi contro l’ordine di detenzione amministrativa. Il giudice ha deciso che la detenuta dovrà rimanere in carcere fino allo scadere della detenzione, il 23 giugno 2012, poiché «rappresenta una minaccia alla sicurezza di Israele», sostenendo di avere informazioni di intelligence che la donna aveva «intenzione di attuare un attacco terroristico» contro gli israeliani. «Il tribunale militare israeliano ha respinto il ricorso ed ora andremo alla Corte suprema», ha riferito all’agenzia di stampa Nena Jawad Bulus, avvocato della Shalabi, precisando che la donna «continuerà lo sciopero della fame».
AMNESTY PROTESTA
Nel frattempo, mentre la detenuta rimarrà sotto osservazione in ospedale per evitare un ulteriore peggioramento delle sue già critiche condizione di salute, un comitato etico dell’ospedale di Meir ieri ha preso la decisione di obbligare la donna all’alimentazione forzata. Un trattamento considerato «inumano e crudele» da Amnesty International. Anche per Amnesty «Hana Shalabi deve essere rilasciata subito o accusata di un crimine riconosciuto a livello internazionale».
A Gaza il suo volto ha sostituito quello barbuto di di Khader Adnan che dopo due mesi ha posto fine allo sciopero della fame con la promessa di essere liberato allo scadere della detenzione amministrativa nella stessa lotta per denunciare le detenzioni politiche di Israele sotto forma di provvedimenti amministrativi. Originariamente basata sui Regolamenti di emergenza del mandato britannico del 1945, questa pratica è stata ripresa nel 1970 ed è entrata ufficialmente nell’ordinamento israeliano nel 1979. Oggi, da misura eccezionale, la detenzione amministrativa si è trasformata in una pratica che Israele utilizza costantemente contro la popolazione palestinese.
In base all’Ordine militare numero 1651 i comandanti militari dei Territori occupati della Cisgiordania possono trattenere in stato di detenzione amministrativa i palestinesi per «fondati motivi di sospetto che possano nuocere alla sicurezza» per un massimo di sei mesi, ma la procedura può essere rinnovata indefinitamente. Attualmente più di 300 persone, tra cui 20 membri del Consiglio Legislativo Palestinese il parlamento dell’Autorità nazionale palestinese sono detenuti senza accusa né processo nelle carceri israeliane.

Corriere della Sera 29.3.12
Castro in cerca della fede «Non è ateo ma non lo dirà»
Dal rifiuto della religione alla riscoperta di Dio

di R. Co.

L'AVANA — Di un possibile riavvicinamento alla fede di Fidel Castro si parla da anni, un sospetto rafforzato di recente dalle dichiarazioni della figlia Alina (con la quale però il leader cubano non ha rapporti da decenni, la donna vive a Miami), e da un approccio via via più aperto ai temi religiosi nei suoi scritti. Anche se, va precisato, sarebbe scorretto parlare di conversione in quanto Castro, nato in una famiglia cattolica e battezzato, non è mai stato scomunicato dal Vaticano, contrariamente a quanto si è supposto per molto tempo. Il religioso a lui più vicino, il frate brasiliano Frei Betto, che lo incontra diverse volte all'anno, non ha mai rivelato dettagli sulle loro conversazioni. Interrogato sulla questione, Betto rimanda sempre al suo noto libro-intervista «Fidel e la religione», datato 1985, un classico della teologia della liberazione, e ammette solo che da allora «l'apertura di Castro per i temi religiosi ha continuato ad aumentare». Il brasiliano è stato visto all'Avana diverse volte nel 2006, quando un'improvvisa operazione all'intestino costrinse Fidel Castro a lasciare il potere al fratello Raúl. Si seppe poi che in quei giorni era davvero in fin di vita, e al suo capezzale avevano accesso in pochissimi, tra i quali appunto il frate domenicano.
Un indizio importante lo offrì al Corriere, in una intervista dell'agosto 2006, Leonardo Boff, anche lui brasiliano e teologo vicino alla causa cubana. Rivelò di conservare in casa un appunto che Castro gli aveva scritto poco tempo prima, accompagnato da un manifesto storico della Rivoluzione. «Se un giorno ritroverò la fede della mia infanzia, Leonardo e Betto, sarà grazie a voi due», diceva il biglietto. Boff aggiunse di non poter dimenticare una frase che Fidel disse ai due amici al termine di una lunga notte di conversazione. «Il giorno della mia morte vi vorrei qui entrambi al mio fianco». Da allora Boff ha sempre nel cassetto un biglietto aereo per Cuba. Ironia della storia, il frate brasiliano venne messo a silenzio dal Vaticano dopo un processo ecclesiastico per le sue posizioni a favore del marxismo in America Latina. E il cardinale che si trovò davanti nel 1985 era Joseph Ratzinger, all'epoca alla guida della Congregazione per la dottrina della fede. «Non ho mai pensato che Fidel sia davvero ateo — dice Boff —. Credo però che qualunque risoluzione personale non verrà mai alla luce, lui non amerebbe le ripercussioni».
Se nel libro con Frei Betto, il leader cubano raccontava di aver abbracciato insieme al marxismo anche l'ateismo a causa dell'educazione rigida e dogmatica ricevuta dai gesuiti, nelle interviste degli anni successivi Castro ha poi preferito svicolare sulla questione diretta se credesse o meno in Dio, definendolo un tema sul quale non si può parlare in pubblico. Nessun dubbio, invece, rimane sulla sua apertura alle posizioni della Chiesa su alcuni temi. Se nei giorni di successo della teologia della liberazione, l'interesse era più che altro teorico, cioè l'asserita non incompatibilità tra marxismo e cristianesimo (però l'iscrizione dei cattolici al partito comunista cubano è rimasta preclusa fino al 1991), negli anni successivi Castro ha dichiarato ammirazione per le prese di posizione di papa Wojtyla su temi riguardanti il futuro dell'umanità, dallo sviluppo sostenibile all'ambiente. Il loro incontro storico del 1998 impressionò il mondo, ma non si è mai saputo cosa si siano detti in privato. Silenzio che si ripeterà certamente oggi, dopo la mezz'ora con Benedetto XVI.

Corriere della Sera 29.3.12
Centinaia di afghane in carcere per «crimini contro la moralità»
Sono donne in fuga da mariti violenti o da matrimoni forzati

di Viviana Mazza

«Non lo so. Sono andata dal governo a chiedere aiuto e, invece, mi hanno arrestata». Bashira, 14 anni, è una delle 400 donne accusate o condannate per «crimini contro la moralità» rinchiuse in prigione in Afghanistan. In alcuni casi, devono restarci per oltre 10 anni. È la denuncia dell'organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch in un rapporto intitolato «Dovevo scappare via». I loro crimini: fuggire da mariti abusivi o da matrimoni forzati; avere rapporti sessuali fuori dal matrimonio, anche se accade perché sono state stuprate o costrette a prostituirsi. L'organizzazione si dice scioccata che accada ancora, 10 anni dopo il rovesciamento dei talebani.
È anche un problema di leggi: l'Onu ha chiesto che vengano abolite le norme sui «crimini contro la moralità», incluse quelle che puniscono i rapporti sessuali fuori dal matrimonio («zina») con 15 anni di carcere. Inoltre, il nuovo Diritto di famiglia promesso dal governo nel 2007 non è ancora legge: ottenere il divorzio è difficilissimo per una donna, semplice per un uomo. Ma non è solo un problema di leggi.
È che polizia, procuratori e giudici — afferma il rapporto — trattano le donne da criminali anche quando denunciano di essere vittima di crimini (che restano impuniti). Ad esempio: dal 2009 esiste una legge contro la violenza sulle donne, ma quando Nilofar, una delle 58 afghane intervistate dai ricercatori, si è presentata con molteplici ferite inflittele dal marito con un cacciavite, il procuratore ha replicato che non erano mortali e l'ha fatta arrestare per adulterio (aveva detto di aver invitato un uomo a casa). Altro esempio: «Scappare di casa non è un crimine secondo il codice penale, ma capita che il giudice dia per scontato che la ragazza abbia tradito il marito». I giudici «spesso le condannano solo sulla base di "confessioni" rilasciate in assenza di legali e "firmate" senza essere state lette da donne che non sanno leggere né scrivere».
Ed è anche un problema politico. Il presidente afghano Hamid Karzai è intervenuto spesso per graziare donne imprigionate per crimini contro la moralità: erano 565 nel 2010 secondo l'Onu. All'inizio di marzo ha graziato in blocco le ragazze fuggite per sposare l'amato anziché l'uomo scelto dalla famiglia (i funzionari le stanno ancora identificando). Ma Karzai è stato anche pronto a compromessi con i conservatori, per motivi politici. Di recente ha approvato un editto del Consiglio degli Ulema (i dotti islamici), la principale autorità religiosa del Paese, che afferma che le donne non dovrebbero «mischiarsi a uomini estranei in attività di carattere sociale come l'istruzione, nei mercati, negli uffici e in altri aspetti della vita» e spiega che «molestare, importunare e picchiare le donne» è vietato «a meno che non avvenga per un motivo legato alla sharia (legge islamica)».


Corriere della Sera 29.3.12
Noi ragazze non ci piegheremo
di Fariha Khorsand


Oggi le donne afghane non sono più quelle che erano nel 2001. Oggi oltre 4 milioni di ragazze frequentano scuole e istituti di istruzione superiore. Nel pubblico impiego, il 17% è donna, da un capo all'altro del Paese. Occupano il 25% dei seggi in parlamento, mentre centinaia di organizzazioni femminili si prodigano per mettere fine a violenza e discriminazione contro le donne persino nelle valli più sperdute. Tuttavia, le afghane si ritrovano oggi ad affrontare nuove sfide. L'ostacolo principale sono le pressioni dei conservatori religiosi, che agitano lo spauracchio dell'anarchia morale, conseguenza inevitabile — a loro dire — dell'accesso delle donne al mondo del lavoro e della visibilità in ruoli di rilevanza sociale. Il consiglio degli Ulema ha emanato una dichiarazione in cui si ribadisce il divieto di uso promiscuo degli edifici pubblici. E si impone alle afghane il rispetto assoluto della dottrina islamica. Questo malgrado il fatto che la costituzione sia basata sulla legge islamica e consenta alle donne il diritto di voto, l'istruzione, il lavoro in ogni contesto e viaggiare da sole. La dichiarazione degli Ulema ha incontrato la reazione negativa della società civile. Purtroppo il presidente Karzai ha firmato la dichiarazione: i diritti delle donne sono merce di scambio nelle manovre politiche. Noi, donne afghane, siamo decise a difendere le nostre conquiste e invochiamo l'appoggio della comunità internazionale per realizzare le nostre legittime aspirazioni.
Traduzione di Rita Baldassarre

Repubblica 29.3.12
L’età adulta dei paesi emergenti
di Federico Rampini


La Cina rallenta la sua crescita, si scopre vulnerabile alla recessione europea e s´interroga su come aiutare l´eurozona. India e Brasile perdono colpi e hanno la tentazione di rilanciare la crescita attraverso il protezionismo. I Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica) sono a un appuntamento storico, il vertice annuo che li riunisce oggi a New Delhi deve decidere se sono pronti ad assumersi un ruolo da leader nell´economia globale. Le locomotive emergenti erano passate quasi indenni attraverso lo shock sistemico del 2008-2009, grazie a robusti programmi di spesa pubblica e alla tenuta della domanda interna. Ora i segnali di difficoltà si moltiplicano anche per loro.
La Cina, abituata a tassi di crescita del 10% annuo, nel 2012 dovrà "accontentarsi" di un aumento del Pil del 7,5% (previsioni governative). Il Brasile dal 7,5% è sceso a una velocità di crescita del 4,5%. In parte i Brics soffrono di problemi creati dall´Occidente. L´America con la sua politica monetaria ultra-espansiva ha inondato il pianeta di liquidità, che nei Brics genera inflazione e bolle speculative. L´Europa con l´austerity si fabbrica in casa una seconda recessione, deprime i consumi e riduce la domanda di prodotti "made in China". Ciascuno dei Brics vede affiorare debolezze specifiche. Pechino rischia la "malattia di mezza età" descritta da un recente rapporto della Banca mondiale: una sindrome ben nota perché fu sofferta da Giappone e Corea del Sud. È una crisi che colpisce nazioni "a reddito medio", in quella fase di transizione che segue il primo decollo industriale: non si può andare avanti all´infinito con un modello di sviluppo fondato su bassi salari e trainato prevalentemente dalle esportazioni; bisogna riconvertirsi su produzioni ad alto contenuto tecnologico, alzare i salari, dare più spazio ai consumi interni, creare un Welfare State.
La transizione non è stata facile (né perfettamente compiuta) in Giappone. Tanto meno lo è per la Cina, che ha una popolazione dieci volte più numerosa, vaste regioni ancora sottosviluppate, un regime autoritario legato a doppio filo agli interessi della lobby industriale dell´export. I vertici della Repubblica Popolare, impegnati proprio quest´anno in un avvicendamento generazionale, s´interrogano anche sul loro ruolo nel mondo. La Cina si rende conto che è arrivata a un tale livello di potenza, da dover assumere maggiori responsabilità nella governance dell´economia globale. Il suo ministro del Commercio estero Chen Deming ieri a New Delhi ha ribadito ciò che era stato annunciato dal presidente Hu Jintao: «la Cina contribuirà ad aiutare l´eurozona», sia con una partecipazione al fondo salva-Stati, sia con investimenti esteri diretti. È una generosità interessata: il Giappone fece lo stesso con l´America di Ronald Reagan, per salvare il proprio cliente più importante.
India e Brasile indicano però delle possibili ricette alternative. Il governo di New Delhi, proprio mentre ospita il summit dei Brics, sta aggiungendo nuove misure a un armamentario di leggi protezioniste: ora minaccia una tassa sui capitali stranieri investiti alla Borsa di Mumbai (200 miliardi di dollari, il 17% di tutta la capitalizzazione del mercato azionario indiano). È dal 2008 che l´India ha imboccato un graduale ripiegamento protezionista, segnalato da gesti punitivi contro la speculazione finanziaria e le multinazionali straniere. Dal mondo angloamericano piovono dure critiche contro questo "ritorno ai vizi del passato", ma l´India può esibire una crescita ancora sostenuta e ormai pressoché uguale a quella cinese. La sua caratteristica è di essere trainata dalla domanda interna, quindi meno vulnerabile ai cicli americani o europei. Il Brasile ha una ragione in più per fare ricorso a misure protezioniste: la presidente Dilma Rousseff ritiene che l´industria brasiliana è stata penalizzata dalla "guerra delle valute" fra Washington e Pechino, con il real che si rivalutava eccessivamente rispetto a dollaro e renminbi. Al vertice di New Delhi il governo indiano ha messo all´ordine del giorno la creazione di una nuova banca multilaterale dei Brics, una sorta di "Fondo monetario delle potenze emergenti", e la Cina è pronta a finanziarlo in renminbi varcando una nuova tappa nell´internazionalizzazione della sua moneta. È un passaggio cruciale: gli emergenti entrano nella loro età adulta, e vogliono dotarsi di istituzioni comuni, per diventare qualcosa di più di un "club", forse l´embrione di una vera coalizione.

il Riformista 29.3.12
Fra i misteri senza fine dell’epurazione di Bo Xilai spunta un cadavere inglese
Bo il rosso era l’astro nascente dell’ala sinistra del Pcc. Poi le “vacanze terapeutiche”. E nella ridda di ipotesi compare un presunto putsch fallito
di Andrea Pira


Più si aggiungono pezzi, più si complica il puzzle del terremoto politico cinese scatenato dalla caduta di Bo Xilai, potente capo di Partito nella municipalità di Chongqing. L’ultimo tassello è la richiesta di Londra affinché si faccia chiarezza sulla morte di un imprenditore britannico, consulente per una società privata d’intelligence di un ex funzionario del MI-6, il servizio segreto di Sua maestà.
A sollevare il caso il Wall Street Journal. Il cadavere di Neil Heywood, 41 anni, era stato ritrovato lo scorso novembre in un hotel della megalopoli. Causa ufficiale della morte: abuso di alcool. Il corpo fu poi cremato senza autopsia e la vicenda si chiuse lì. Almeno fino a gennaio, quando il consolato britannico e la famiglia, insoddisfatti per l’archiviazione, chiesero nuove indagini. In questi giorni, indiscrezioni e sospetti sulla lotta tra fazioni del Partito in vista del cambio di leadership fissato per l’autunno l’hanno riportato alla ribalta, collegando il caso alla tenta fuga di Wang Lijun, il braccio destro di Bo nella lotta contro la criminalità organizzata a Chongqing, che tentò di rifugiarsi nel consolato statunitense di Chengdu.
Secondo le ricostruzioni, Wang confidò all’ex astro nascente della politica cinese di un’inchiesta sul presunto avvelenamento di Heywood, che riguardava anche la moglie di Bo, Gu Kailai, in affari con la vittima. La tesi troverebbe conferma in una registrazione audio, pubblicata la scorsa settimana su Youtube, in cui un funzionario locale spiega che a portare alla rimozione di Bo fu il suo tentativo di ostacolare le indagini su membri della sua famiglia.
Un’altra ipotesi riguarda invece i modi e i tempi della campagna antitriadi lanciata nel 2009, di cui Wang fu il braccio operativo come capo della polizia, prima di essere rimosso e venire spedito in “vacanza terapeutica”, un eufemismo che scatenò l’ironia degli utenti di Weibo, il twitter cinese. «Anche per gli standard del Partito comunista cinese sono successe cose inaccettabili», ha spiegato sul New York Times il professor Cheng Li del Brookings Institution in riferimento alle torture e alle confessioni estorte con la violenza nel corso della “mani pulite” che portò in carcere oltre 4.500 imputati tra boss, criminali comuni, funzionari pubblici e imprenditori. «Si è trattato di un terrore rosso» ha aggiunto Li.
Per i detrattori di Bo, la campagna servì inoltre a sbarazzarsi dei rivali politici. La popolarità guadagnata con l’offensiva antitriadi e con una rinnovata attenzione alla retorica maoista lo avevano fatto emergere come candidato papabile per uno dei sette posti disponibili del prossimo Comitato permanente del politburo del Pcc, il gotha politico della Cina. Bo si era imposto come uomo simbolo dell’ala sinistra del Pcc. Oltre alla riscoperta del maoismo, il cosiddetto “modello Chongqing” puntava a un maggior controllo pubblico sui gangli dell’economia e tentò esperimenti di riforma del sistema di gestione delle terre e di quello sui certificati di residenza.
Il personaggio non è tuttavia mai stato gradito al vertice di Zhongnanhai, il Cremlino cinese. Degli attuali componenti del comitato permanente solo due non hanno mai fatto visita alla Chongqing di Bo. Si tratta delle due massime cariche dello Stato, il presidente Hu Jintao e il primo ministro Wen Jiabao. Proprio il secondo, a chiusura dei lavori del parlamento cinese, scagliò l’ultimo attacco a Bo Xilai, esortando i politici a continuare sulla strada delle riforme per evitare che la Cina cada in una seconda Rivoluzione Culturale, il decennio di caos e lotte per il potere scatenato da Mao nel 1976.
Nell’ultimo anno Wen ha cercato di ritagliarsi il ruolo di paladino dell’ala liberale del Partito parlando più volte, seppur in modo vago, di riforme politiche. Secondo indiscrezioni riportate dal Financial Times, il premier potrebbe addirittura far cadere il maggior tabù della politica cinese, riabilitando il movimento studentesco di piazza Tiananmen. Un passo forse
possibile perché la futura generazione di leader, capeggiata salvo improbabili imprevisti da Xi Jinping come capo di Stato e da Li Keqiang premier, sarà la prima non legata alla repressione del 4 giugno 1989.
Al contrario Hu fu il segretario locale del Pcc che a marzo di quell’anno ordinò la repressione delle proteste in Tibet, prologo di quanto sarebbe successo tre mesi dopo. Di Wen si ricorda invece la foto in piazza dietro all’allora segretario generale del Partito Zhao Ziyang, unico esponente del vertice a voler dialogare con gli studenti e per questo epurato. Mentre di Bo si ricorda il ruolo del padre, Bo Yibo, uno dei grandi vecchi del Pcc e tra i fautori della linea dura. Per adesso si tratta soltanto di voci.
Come quelle su un presunto fallito colpo di Stato orchestrato da Bo Xilai, che avrebbe messo su un esercito privato armato di 5mila fucili con il sostegno di Zhou Yongkang, suo alleato nel comitato permanente e potente capo degli apparati di sicurezza. Dato per esautorato, Zhou è riapparso in video la scorsa settimana, mentre non hanno trovato conferme le voci sul golpe e sui mezzi blindati attorno a Zhongnanhai, fatte circolare dal quotidiano statunitense Epoch Times, vicino alla sette religiosa Falun Gong, illegale in Cina, e considerato non sempre affidabile. La censura sulle discussioni online ha però fatto da acceleratore perché i sospetti divampassero.
Di certo, al momento, c’è la distruzione passo dopo passo del modello Chongqing. Ieri è stato rimosso Chen Cungen, presidente della locale Assemblea del popolo e ideatore della campagna per inviare i quadri del Pcc nelle aree rurali, associata da molti alla pratica in voga durante la Rivoluzione culturale.

l’Unità 29.3.12
Si può calcolare lo spessore della realtà?
A proposito della «querelle» tra pensiero debole e nuovo realismo
in cui è stato coinvolto Umberto Eco: per risolvere la questione una via eccellente sarebbe rilanciare il vecchio Kant con il «volano» di McLuhan
di Renato Barilli


Èin atto da qualche tempo nel settore filosofico del nostro Paese una tenzone che vede l’un contro l’altro armato due «opposti estremismi», destinati, come succede in questi casi, ad elidersi reciprocamente e a far auspicare una soluzione intermedia che apparirebbe come la più saggia, e si legherebbe oltretutto a prestigiosi contesti storici che entrambi gli schieramenti sembrano aver dimenticato.
La querelle nasce in seno alla scuola del «pensiero debole» di Gianni Vattimo, da cui un suo allievo di ieri, Maurizio Ferraris, a un tratto si è chiamato fuori aderendo a un preteso «nuovo realismo» cui sarebbe approdato l’Umberto Eco nazionale, il quale accetta quel neofita, ma con qualche imbarazzo e replica avanzando molti «distinguo» e concludendo, come avviene nell’ultimo Alfabeta 2, con la formula di un realismo negativo.
VECCHIE SOLUZIONI IDEALISTE
Il capo d’accusa mosso dall’ex-allievo Ferraris a Vattimo è che nelle sue riflessioni resterebbero solo in campo delle «interpretazioni» da cui la realtà risulta intaccata, logorata, ridotta alla condizione di un gruviera pieno di buchi. In definitiva Vattimo non nega una versione del genere, anzi, in sostanza la conferma in un saggio recente, Della realtà (Garzanti), confermando anche la sua adesione a una linea di pensiero negativo, da Nietzsche a Heidegger. Ma questa è una strada che rassomiglia molto a vecchie e scontate soluzioni idealiste, il mondo non esiste in sé, siamo noi a farlo esistere con i nostri atti di coscienza. Contro questa soluzione già tante volte apparsa sul filo dei secoli, e altrettante volte contestata, ci sta bene l’ennesima protesta inalberata da Ferraris, che ora la affida a un Manifesto del nuovo realismo (Laterza), però a sua volta ha il torto di cadere nel cosiddetto realismo ingenuo, di chi dimentica che comunque siamo noi a vedere, a toccare, a fare congetture su questa ipotetica realtà. In definitiva, l’uno e l’altro sembrano dimenticare il grande padre Kant, usualmente posto all’inizio della nostra età contemporanea (attenzione, non la si chiami moderna, visto che questa etichetta deve restare assegnata al precedente pensiero razionalista-empirista).
Kant aveva posto in campo la perfetta e non superabile formula del giudizio sintetico a priori, un match alla pari, dove noi essere umani mettiamo in gioco la nostra sensibilità e le nostre categorie mentali con cui andiamo a plasmare l’altrimenti amorfa materia d’esperienza, la quale però deve esserci, fornire un ineliminabile supporto ai nostri interventi. Naturalmente molta acqua è passata sotto i ponti, e del resto la geniale soluzione kantiana soffriva di tanti limiti storici. Infatti egli conferiva al soggetto umano il vecchio apparato di forme e categorie risalenti alla geometria euclidea, al pensiero classico, e non teneva in alcun conto l’asse del mutare dei tempi e delle situazioni materiali e sociali.
Da qui l’ampia produzione dei «filosofi della crisi» di fine Ottocento, i pragmatisti, con Peirce e Dewey in testa, Bergson e Husserl e tanti altri, a loro volta in piena sintonia con le rivoluzioni di Freud e di Einstein. Di tutto questo, in reazione agli anni cupi della dittatura fascista, era stato buon erede presso di noi Antonio Banfi, pronto in definitiva a formulare una sorta di «pensiero debole» dell’epoca, cioè a mettere in moto le categorie, troppo rigide in Kant, proclamando che ogni tempo deve allontanare le ipotesi ormai invecchiate e rifarsi un guardaroba ben commisurato sui fatti da valutare. Da lui è venuto il fronte che nel dopoguerra ha provveduto a reintegrare l’Italia in un quadro di pensiero internazionale, partecipando alla nostra ricostruzione e aprendo anche il dialogo col marxismo. Mi riferisco a Enzo Paci, Giulio Preti, Luciano Anceschi...
Bei tempi, quelli, in cui lo stesso Eco, allora funzionario della Bompiani e in procinto di varare una enciclopedia della filosofia, poi non realizzata, mi scriveva che ci saremmo ispirati a Husserl e non a Heidegger, allora sospetto di un forse ingiusto fiancheggiamento del nazismo. Poi, Vattimo ha promosso un suo eccessivo sdoganamento, ereditando anche gli eccessi di nichilismo e terrorismo concettuale che ora gli vengono imputati dall’allievo ribelle.
Eco allora si collocava assai bene in quel quadro, ponendosi anche alla testa della neoavanguardia sul fronte letterario, e producendo quello che forse resta il suo miglior apporto saggistico, l’Opera aperta.
Dopo, ha provveduto anche lui ad assottigliare lo spessore della realtà attraverso l’impresa semiotica, in cui i segni, anzi, le loro due facce, significanti e significati, giocano di specchi e rimandi tra loro, mancando di andare ad ancorarsi, al termine della trafila, sulla realtà.
Nel suo articolo sopra menzionato Eco dimentica del tutto il grande sfondo del miglior pensiero del primo Novecento, come se fossimo nati solo ieri, o ieri altro, e nel tentativo di salvare capra e cavoli si rifugia in una formula compromissoria, proponendo un «realismo negativo», che in definitiva è un modo di avvicinarsi o rendere omaggio al compagno dei vecchi tempi, Vattimo, in fondo entrambi sono venuti fuori dal pensiero di uno spiritualista come Luigi Pareyson.
E dire che oggi ci sarebbe una via eccellente per rilanciare il vecchio Kant, si pensi alla formula centrale del McLuhan-pensiero, ricordata tante volte l’anno scorso per celebrarne il centenario dalla nascita, «il medium è il messaggio», al centro di tutto c’è il nesso, la connessione, che stringe in un nodo stretto, inscindibile, il soggetto e l’oggetto, senza che l’uno possa pretendere di cancellare l’altro.

Sette del Corriere della Sera 29.3.12
Neutrini e dintorni
Dove sono andati a finire gli scienziati autori delle scoperte sbagliate
di Giovanni Caprara

qui
Repubblica 29.3.12
Carlo Rivolta e i movimenti degli anni Settanta
Storia di una generazione
di Miguel Gotor


Le sue cronache avevano il pregio di portare il lettore dentro gli avvenimenti, insieme con le passioni che ne animavano la scrittura
Era una corsa sempre più solitaria verso il tramonto e non riuscì a sfuggire alla scimmia invisibile che lo divorava
Un libro racconta il giornalista di "Repubblica" scomparso nel 1982 E con lui un´epoca della vita italiana, dagli studenti al terrorismo alla droga

Prima di leggere questo libro, già conoscevo il suo protagonista, un fantasma incontrato in emeroteca. Senza sapere nulla di lui, ho potuto parlarci meditando gli articoli che scrisse nel biennio 1977-1978, quando raccontò sulle pagine di la Repubblica il movimento del ´77 e le violenze metropolitane di autonomia operaia, la tragedia Moro e il diffondersi del terrorismo.
Le sue cronache avevano il pregio di portare il lettore dentro gli avvenimenti, insieme con le passioni che ne animavano la scrittura. Essa partecipava al mondo che descriveva senza nascondersi dietro il fantasma ipocrita della neutralità: era consapevolmente militante, ma al tempo stesso fredda e asciutta, con un gusto per la vivisezione delle dinamiche del potere, all´improvviso squarciata dall´irrompere di una disperata vitalità. "Pasoliniana", se l´aggettivo non fosse abusato, da leggersi con una canzone di Rino Gaetano in sottofondo, cui lo accomunava non solo l´età e le origini calabresi, ma il sarcasmo e il disincanto.
Quando scoprii che era nato nel 1949, e dunque contemporaneo ai movimenti e agli eventi che raccontava, mi venne spontaneo paragonarlo al Nanni Moretti di Ecce bombo. Come il regista, era parte della generazione che descriveva e dotato di un terzo invisibile occhio che gli consentiva di vivere guardandosi vivere, sviluppando profondità di sguardo e corrosive capacità d´analisi. Come dichiarò in un´intervista, egli cercava di essere «un giornalista critico verso la mia professione e, dal punto di vista politico, un militante critico verso la mia stessa area di appartenenza».
Anche per questa ragione rimasi colpito, quando scoprii che le Brigate rosse lo avevano minacciato di morte nel 1979 e perciò tornai a riflettere sui suoi articoli con un´attenzione nuova, per cercare di comprendere il motivo di quella sentenza. Il libro di Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale L´aspra stagione (pubblicato da Einaudi Stile Libero, pagg. 272, euro 18) approfondisce la personalità e l´attività di Rivolta collocandola nel contesto umano, professionale e politico in cui visse, e consente di scoprire, tra l´altro, che analoghe minacce gli erano già arrivate da parte di autonomia operaia. Al cosiddetto "partito armato" dispiaceva non solo che i suoi articoli fossero rigorosi e informati, ma soprattutto che provassero a contrastare il tentativo dell´autonomia di egemonizzare il movimento del ´77 e quello delle Brigate rosse di infiltrarlo, un rischio assai presente a Roma.
Dalla lettura del libro emerge come Rivolta abbia interpretato meglio di tanti altri un tratto esistenziale che accompagnò i primi anni di vita di la Repubblica, ossia l´idea di un giornale scritto da giovani per i giovani, in cui ogni cronaca fosse anche l´autobiografia di colui che raccontava la realtà. Sarà proprio il vitalismo di Rivolta, l´impegno a vivere fino in fondo le storie che riferiva a renderlo rappresentativo dell´evoluzione di una generazione e della crisi di quel movimento. Il tragico incontro personale con la droga lo indusse a scrivere, tra i primi in Italia, sulla diffusione, il commercio e la realtà della tossicodipendenza. Articoli di notevole spessore in cui cronaca e vita, reportage ed esperienza continuarono a confondersi fin quando egli da "cronista del movimento" divenne il "cronista di se stesso", della propria crisi esistenziale e psicologica in cui filtrava il vissuto comune a tanti suoi coetanei.
Quando, nella primavera del 1978, durante il sequestro di Aldo Moro, la Repubblica scelse la strada civile della lotta senza quartiere al terrorismo, racconta il libro che Rivolta e quelli come lui sospesi tra due mondi si trovarono progressivamente sempre più isolati nel giornale. Al giornale come nella vita. Eppure, negli anni in cui le migliori penne della sua generazione abbandonavano la militanza rivoluzionaria nei quotidiani e nei partiti dell´estrema sinistra per lavorare nei principali gruppi imprenditoriali italiani che fino a qualche tempo prima avevano ferocemente contestato, Rivolta imboccò una strada opposta che lo rende, in qualche misura, unico.
Rifiutata un´offerta dell´Europeo, scelse di collaborare con Lotta Continua, ove continuò a scrivere reportage sulla guerra in Afghanistan e a progettare inchieste sui cambiamenti della società meridionale. La sua, però, era una corsa sempre più solitaria verso il tramonto e non riuscì a sfuggire alla scimmia invisibile che lo divorava, la penna nel taschino, lei appoggiata sulla spalla: l´11 febbraio 1982, nel corso di una crisi di astinenza, precipitò dalla finestra di casa sua e, dopo qualche giorno di coma, morì a soli 32 anni.
Di lui restano centinaia di articoli appassionati, il ricordo di chi lo ha amato e gli è stato amico o collega, il rimpianto per le tante esperienze umane e professionali che avrebbe potuto vivere grazie al suo talento e la misteriosa capacità di rappresentare, in anticipo sui tempi, l´estraniamento di una parte della sua generazione, passata, senza colpo ferire, dall´iperpolitica all´antipolitica, dalla rivoluzione al riflusso: un destino che, siamo sicuri, Rivolta avrebbe saputo raccontare con la consueta lucidità e partecipazione, se solo ne avesse avuto il tempo.

Repubblica 29.3.12
Jorge Luis Borges
Fantasmi e sogni del maestro "Ho solo paura di non morire"
di Fabio Gambaro


"Oggi c´è troppa informazione: penso che si stesse meglio nel Medioevo quando c´erano pochi libri che però venivano letti"
Dagli archivi, grazie al sito di "Libération" è riemerso il video di un´intervista allo scrittore della fine degli anni Sessanta

Oltre venticinque anni dopo la sua scomparsa, torna a risuonare la voce di Jorge Luis Borges. Grazie al sito del quotidiano Libération che l´ha messa in linea, dagli archivi dell´Institut National de l´Audiovisuel è riemersa una vecchia intervista dello scrittore argentino realizzata alla fine degli anni Sessanta dalla televisione francese.
Intitolato Borges, i giorni e le notti, il documentario di un´ora, nel quale si esprimono anche la madre e la moglie dello scrittore, venne girato da André Camp e José-Maria Berzosa a Buenos Aires, dove il celebre autore di Finzioni fu intervistato tra i libri della Biblioteca Nazionale e in altri luoghi della città.
Esprimendosi in un francese perfetto, Borges parla del suo lavoro e delle sue letture, si lamenta dell´eccesso d´informazione e, dopo aver ricordato la sua concezione elitaria della democrazia, rievoca gli anni infausti del peronismo, quando sua madre e sua sorella furono incarcerate.
Lo scrittore ribadisce anche il suo amore per la novella e per la poesia minore, «che esige la perfezione per esistere», spiegando inoltre che Bouvard e Pécuchet di Flaubert, Così muore la carne di Butler e Don Quichotte di Cervantes vanno annoverati tra i maggiori romanzi di tutti i tempi. Insomma, l´intervista riproposta dal sito del quotidiano francese è una preziosissima testimonianza che aiuta a conoscere meglio uno dei più grandi scrittori del XX secolo.

Fantasmi e sogni del maestro "Ho solo paura di non morire"

"Oggi c´è troppa informazione: penso che si stesse meglio nel Medioevo quando c´erano pochi libri che però venivano letti"
Dagli archivi, grazie al sito di "Libération" è riemerso il video di un´intervista allo scrittore della fine degli anni Sessanta

Oltre venticinque anni dopo la sua scomparsa, torna a risuonare la voce di Jorge Luis Borges. Grazie al sito del quotidiano Libération che l´ha messa in linea, dagli archivi dell´Institut National de l´Audiovisuel è riemersa una vecchia intervista dello scrittore argentino realizzata alla fine degli anni Sessanta dalla televisione francese.
Intitolato Borges, i giorni e le notti, il documentario di un´ora, nel quale si esprimono anche la madre e la moglie dello scrittore, venne girato da André Camp e José-Maria Berzosa a Buenos Aires, dove il celebre autore di Finzioni fu intervistato tra i libri della Biblioteca Nazionale e in altri luoghi della città.
Esprimendosi in un francese perfetto, Borges parla del suo lavoro e delle sue letture, si lamenta dell´eccesso d´informazione e, dopo aver ricordato la sua concezione elitaria della democrazia, rievoca gli anni infausti del peronismo, quando sua madre e sua sorella furono incarcerate.
Lo scrittore ribadisce anche il suo amore per la novella e per la poesia minore, «che esige la perfezione per esistere», spiegando inoltre che Bouvard e Pécuchet di Flaubert, Così muore la carne di Butler e Don Quichotte di Cervantes vanno annoverati tra i maggiori romanzi di tutti i tempi. Insomma, l´intervista riproposta dal sito del quotidiano francese è una preziosissima testimonianza che aiuta a conoscere meglio uno dei più grandi scrittori del XX secolo.