martedì 3 aprile 2012

l’Unità 3.4.12
La linea Maginot del Pd. Senza reintegro, si rompe
«Su questo non molliamo». Bersani lo va ripetendo a tutti: non accetterà una riforma che preveda il solo indennizzo per i licenziamenti economici
di Simone Collini


«Sul reintegro non molliamo». Pier Luigi Bersani lo ha spiegato chiaramente a tutti i suoi interlocutori, nei colloqui che ha avuto nelle ultime ore. Il Pd non accetterà una riforma del mercato del lavoro che preveda il solo indennizzo monetario in caso di licenziamenti per motivi economici illegittimi. I margini per rivedere il testo uscito dal Consiglio dei ministri del 23 marzo ci sono, secondo Bersani. «Ragionando e approfondendo un’intesa è possibile», è il messaggio con cui rassicura i lavoratori che incontra nella fabbrica Fiamm di Lonigo, in provincia di Vicenza. E poi, a sera, partecipando all’iniziativa organizzata a Bologna da l’Unità, insiste sul fatto che «il lavoratore deve essere pienamente padrone dei propri diritti».
Il leader del Pd ha discusso delle possibili modifiche da apportare alla riforma con esponenti del mondo sindacale ma anche con imprenditori e, ovviamente, con esponenti del governo. E la battuta a cui spesso ha fatto ricorso è questa: «Noi siamo gente flessibile ma che non ama spezzarsi, soprattutto sui diritti dei lavoratori».
Fermo restando che per Bersani il problema non è l’articolo 18 ma «come dare un po’ di lavoro», sbloccare gli investimenti, avviare politiche industriali (e i dati Istat diffusi ieri vengono letti come una conferma in questo senso) il modello a cui guarda il Pd è quello tedesco, che prevede che sia il giudice a decidere se un lavoratore licenziato per motivi economici senza giusta causa debba essere reintegrato nel posto di lavoro o indennizzato economicamente. Un modello a cui guardano con favore tutte le sigle sindacali e su cui ultimamente non hanno chiuso le porte neanche Pdl (al quale il Pd ha assicurato un’apertura sulla «flessibilità in entrata») e Udc. Per questo Bersani non vuole «neanche prendere in considerazione» l’ipotesi che l’esecutivo invece tiri dritto senza ascoltare gli appelli a trovare soluzioni condivise che arrivano da ogni parte (Cei compresa). Perché «incaponirsi» e lasciar cadere nel vuoto soluzioni che potrebbero evitare uno «stato di ansia e di instabilità in tutti i cittadini» non sarebbe una buona mossa da parte del governo, soprattutto in una situazione sociale già resa esasperata da una «instabilità economica tutt’altro che finita». E perché è chiaro che in Parlamento, col Pd messo di fronte a un «prendere o lasciare», il rischio rottura sarebbe molto alto. Anche per una ragione che sottolinea il responsabile Economia del Pd Stefano Fassina: se il Parlamento fosse messo di fronte alla necessità di «approvare per forza» quanto deciso dal governo, «sarebbe un disastro per la democrazia».
I contatti col governo si sono intensificati in queste ultime ore e Bersani aspetta di ricevere oggi da Monti, dopo l’incontro del presidente del Consiglio con Elsa Fornero, il testo della riforma sul mercato del lavoro. Il pressing sul capo del governo per modificare la parte relativa ai licenziamenti per motivi economici è andata avanti, col Pd che ha offerto come contropartita la garanzia che il disegno di legge verrà approvato in prima lettura prima delle elezioni amministrative. Bersani ne ha discusso anche con il leader del Pdl Angelino Alfano e con quello dell’Udc Pier Ferdinando Casini. Ovviamente dipenderà dal trovato accordo o meno il via libera in almeno uno dei due rami del Parlamento prima del voto di maggio.
Ma già oggi si capirà quale atteggiamento assumerà il governo in questa partita e poi di fronte alla discussione in Parlamento: se nei giorni scorsi si prevedeva che il governo rendesse noto l’articolato della riforma subito dopo il Consiglio dei ministri di oggi, i segretari sono stati rassicurati sul fatto che il testo verrà inviato a Napolitano per la firma solo dopo aver ascoltato le loro osservazioni. Basteranno poche ore per capire se sarà effettivamente così.

Corriere della Sera 3.4.12
Giovani, disoccupazione record dal 1999

Tagli, cassa e franchising. Modello veneto per gli esuberi
Uno su tre senza lavoro. Al sud la percentuale femminile tocca il 49,2%
di Francesca Basso


MILANO — Che li si guardi da Bruxelles oppure da Roma, i dati sulla disoccupazione restituiscono un'immagine di urgenza, segnando record che riportano allo scorso millennio: a febbraio nell'area euro i disoccupati hanno toccato il 10,8%, il livello più alto dal giugno 1997; in Italia la percentuale è salita al 9,3% della popolazione attiva con un tasso tra i giovani al 31,9%, i peggiori numeri rispettivamente dal 2004 e dal 1999.
Insomma, mai così tanti disoccupati da quando c'è la moneta unica e soprattutto tra i giovani: da noi uno su tre non trova lavoro, in Europa uno su cinque (il tasso è del 21,6%). Vivono una situazione più critica della nostra solo i giovani spagnoli (50,5%) e greci (50,4%). In Germania però la percentuale scende all'8,2 (a fronte di una disoccupazione generale del 5,7%). Del resto a Madrid e Atene il tasso dei senza lavoro ha raggiunto le due decine, rispettivamente il 23,6% e il 21% (il dato è relativo al dicembre scorso). Numeri che provano come l'area euro stia «attraversando una lieve recessione», per citare il commissario Ue all'Economia Olli Rehn, e che «preoccupano» Bruxelles anche se l'attesa è per «dati positivi di crescita nella seconda parte di quest'anno». Il portavoce di Rehn ha però precisato che al di là della media Ue «in otto Stati membri la disoccupazione è diminuita mentre in 18 è aumentata e in uno è rimasta stabile» e che «questo tasso di disoccupazione molto elevato non riflette solo la crisi attuale ma anche gli effetti di importanti squilibri macroeconomici, strozzature alla crescita e alla creazione di posti di lavoro».
Tornando all'Italia, se si modifica l'arco temporale sotto esame, la situazione peggiora ulteriormente. Nel quarto trimestre 2011, l'Istat ha calcolato che il tasso di disoccupazione tra i lavoratori dai 15 ai 24 anni è salito al 32,6% dal 29,8% dello stesso periodo di un anno prima, con una punta del 49,2% per le giovani donne del Sud. Inoltre i disoccupati in cerca di prima occupazione sono aumentati del 24,9%. Per la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia questi numeri sono la prova che «siamo ancora in recessione»: «I nostri ragazzi entrano nel mercato del lavoro più tardi e con una preparazione più bassa: dobbiamo lavorare su questo — ha argomentato — ma soprattutto dobbiamo creare più crescita».
Giovani e donne (anche over 24) sono le componenti più deboli del mercato del lavoro. E poi c'è il Mezzogiorno nel suo complesso. A febbraio la disoccupazione maschile era all'8,6% contro il 10,3% di quella femminile. Mentre nel quarto trimestre 2011 i senza lavoro al Sud sono stati più del doppio di quelli al Nord: 14,9% contro il 6,7%. E al Centro quasi un lavoratore su dieci era senza lavoro (9,2%). Si è difeso solo il Nordest, con una percentuale del 6,1. Nel complesso, lo scorso anno il numero dei disoccupati è cresciuto di 335 mila unità e di 45 mila solo a febbraio.
Servono le riforme, dunque, e bisogna fare presto. Il capo dello Stato Giorgio Napolitano, commentando i dati dell'Istat, ha spiegato che «esiste un problema molto serio di stagnazione e di non crescita con rischi per l'occupazione, per le crisi aziendali di imprese piccole e anche grossi insediamenti». I sindacati usano toni più accesi. Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil, definisce i dati «allarmanti» e punta il dito contro «la temporaneità dei rapporti di lavoro che continua ad aumentare». Mentre per il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, «il problema è fermare i licenziamenti e non facilitare i licenziamenti, che "facili" lo sono anche troppo». In campo anche la politica, compatta nel sostenere che serve un cambiamento. Per il leader del Pd, Pierluigi Bersani, «qualcosa dobbiamo fare». Secondo il segretario Udc, Lorenzo Cesa, «è urgente proseguire senza incertezze con la riforma del mercato del lavoro» e per il vicecapogruppo vicario Pdl in Senato, Gaetano Quagliariello, «una legge in materia di lavoro è una priorità per il Paese».

Repubblica 3.4.12
L´altra faccia della riforma
Sotto silenzio passa il punto che tende a favorire l´inclusione delle donne nell´economia
I genitori dovrebbero potersi alternare combinando il lavoro e il congedo
di Chiara Saraceno


NON c´è solo la modifica dell´articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (la disciplina sul licenziamento illegittimo) nel progetto di riforma del mercato del lavoro.
Ha ragione la ministra Elsa Fornero a lamentarsi di un´attenzione eccessivamente riduttiva rispetto al complesso della riforma. Allargando lo sguardo agli altri punti, aumenta tuttavia il numero degli aspetti problematici. Alcuni sono stati ricordati anche su questo giornale, primo fra tutti la persistente esclusione di molti lavoratori precari da ogni forma di ammortizzatore sociale. Ma ce n´è uno che è passato stranamente sotto silenzio. Riguarda il punto 7 della bozza del governo, dal titolo "interventi per una maggiore inclusione delle donne nella vita economica". Esso prevede tre distinti interventi.
Il primo, l´unico da accogliere senza riserve, riguarda la messa a punto di procedure che contrastano il fenomeno incivile e illegale delle cosiddette dimissioni in bianco. È una questione che riguarda sia i lavoratori sia le lavoratrici, ma che colpisce soprattutto queste ultime in connessione con la maternità.
Altamente problematiche, nel merito e per il messaggio che mandano, sono invece le altre due proposte. Si tratta del congedo di paternità obbligatorio e del voucher per babysitter da utilizzare nei primi undici mesi di vita di un bambino in alternativa alla fruizione del congedo genitoriale. È difficile davvero capire come tre giorni distribuiti in un arco di tre mesi favoriscano quella condivisione dei compiti di cura che sta a cuore alla ministra. La proposta approvata dal Parlamento europeo un anno fa (non la direttiva sui congedi genitoriali cui la bozza impropriamente si riferisce) parlava di almeno 15 giorni. In un caso e nell´altro, se si vuole davvero incentivare e consentire la condivisione, occorre intervenire sui congedi genitoriali, che già ora sono aperti anche ai padri. Sono pochi i padri che ne prendono almeno una parte, con ciò riducendo di fatto il tempo complessivo teoricamente disponibile per dedicarsi a un bambino piccolo: dieci mesi complessivi nei primi otto anni di vita del bambino, di cui nessuno dei genitori può prendere più di sei, aumentabili a undici se il padre prende almeno tre mesi.
I motivi di questa scarsa fruizione da parte dei padri sono diversi, culturali, ma anche legati alla precarietà dei contratti di lavoro. Anche quando si ha diritto al congedo genitoriale, il timore di non vedersi rinnovare il contratto, o di essere tra i primi a venire licenziati per motivi economici, fa ritenere inopportuno avvalersene (una esperienza anche di molte donne). Gioca a sfavore anche l´esiguità dell´indennità: il 30 per cento dello stipendio (rispetto all´80 per cento del congedo di maternità), solo nei primi sei mesi e solo se fruiti nei primi tre anni di vita del bambino.
In un contesto di risorse scarse e di preoccupazione di non aumentare il costo del lavoro, una riforma a costo zero efficace sarebbe l´introduzione della possibilità di utilizzo del congedo in part time orizzontale. Consentirebbe a madri e padri di combinare lavoro (di fatto a tempo parziale) e congedo, eventualmente alternandosi, senza vedersi eccessivamente ridotto il reddito ed insieme avendo tempo per occuparsi del bambino nei primi anni di vita.
È la direzione che hanno preso molti Paesi europei, compresi quelli, come Svezia, Norvegia, Germania, che negli ultimi anni hanno addirittura allungato il periodo di congedo genitoriale ben compensato, per consentire ai bambini di avere un tempo maggiore di cure e tempo dei genitori.
In direzione opposta sembra andare l´altra misura prevista dal progetto del governo nel campo delle politiche di conciliazione, i voucher per babysitter commisurati al reddito familiare. Essa sembra infatti diretta ad incoraggiare le madri a tornare al più presto al lavoro, senza fruire del congedo genitoriale (tantomeno incoraggiando i padri a prenderlo) e senza neppure garantire loro e ai loro bambini servizi adeguati sul piano quantitativo e qualitativo. Mentre tutte le evidenze empiriche sottolineano l´importanza della qualità della cura e delle relazioni nel primo anno di vita, disinvoltamente si suggerisce che le cure materne/paterne possono essere indifferentemente sostituite dalle cure di una babysitter, comunque scelta/trovata, con qualunque competenza. Un brutto passo indietro e un uso sbagliato delle poche risorse a disposizione.

l’Unità 3.4.12
Via Rasella, la scelta di Sasà
Fu l’autore dell’attentato contro le SS che scatenò poi la rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Aveva 90 anni. Come partigiano difese sempre l’azione che la Cassazione definì «legittimo atto di guerra»
di Bruno Gravagnuolo


Comandava il nucleo di Centocelle e in quel frangente venne interpellato da Salinari a nome
dei gap comunisti: «Te la senti?...» E il suo destino cambiò

Per noi giovani Fgci del liceo Tasso della sezione Ludovisi era semplicemente «Sasà». Sapevo, sapevamo, che era stato uno dei protagonisti dell’attentato a Via Rasella. E anche per le polemiche perenni su quella azione, avevamo timore di «chiedere», e di conoscerlo. In realtà era un uomo semplice e affabile. Che ci raccontò più volte quella giornata, nella quale lui, travestito da netturbino, accese la miccia del tritolo dentro il carretto per farlo esplodere, giusto nel mezzo del corteo armato dei 33 Ss Bozen che transitavano nella celebre via, risalendola appena svoltato l’incrocio di Via del Tritone. Sasà era così: ex combattente non pentito, moderato e saggio, piuttosto di «destra» ai nostri occhi, molto togliattiano Pci.
In realtà il personaggio era anche molto di più di quella circostanza che lo vide protagonista e di cui fu attore di primo piano, quasi per caso. Era un intellettuale aspirante medico, un ex giovane dei Guf, fascista disilluso e dissidente. Prima tentato dai trotzkisti, poi conquistato da Giorgio Amendola e Salinari. Come tanti del gruppo capitolino del Pci, fatto di giovani e men giovani Ingrao tra gli altri che ebbe un ruolo chiave nel traghettare al comunismo italiano la generazione del «lungo viaggio attraverso il fascismo». In seguito Bentivegna fu infatti saggista, polemista e storico. Tutte caratteristiche che marcheranno la sua figura di comunista romano, fino a poco prima dell’era Petroselli. E però veniva da Centocelle in quella primavera del 1943, dove comandava un nucleo partigiano. E in quel frangente fu interpellato da Carlo Salinari a nome dei gap comunisti: «te la senti?». Da allora la svolta vera, almeno nell’immagine pubblica: l’uomo dell’attentato di Via Rasella. Vale a dire: un destino inseparabilmente legato sia a quella del nemico attaccato, sia alla rappresaglia delle Ardeatine. Che la destra reazionaria, quella moderata e anche un certo revisionismo gli misero sul conto. Malgrado la medaglia al valore che gli fu elargita, malgrado i tanti processi che riconobbero che l’attentato era stata un’azione bellica e in un contesto in cui i tedeschi torturavano, deportavano, razziavano ebrei, mentre gli americani erano inchiodati ad Anzio. Già, perché come disse il Dc Taviani partigiano bianco, proprio gli anglo-americani esortavano la Resistenza romana a «rendere impossibile la vita ai tedeschi». In una città che già aveva visto numerose azioni di guerra, con i gap in prima fila contro fascisti e occupanti (e i 33 uccisi in Via Rasella non erano pacifici montanari altoatesini, bensì germanofoni volontari chiamati appositamente per schiacciare e rastrellare).
Dunque rappresaglia consumata in silenzio, con 335 vittime innocenti a fronte dei 33 Ss, e nessun invito a consegnarsi rivolto agli attentatori: la notizia infatti fu data dal Messaggero il giorno dopo. «Se lo avessimo saputo dirà Sasà li avremmo attaccati e dato il segnale della rivolta in città». E però lo abbiamo detto: nonostante l’ombra immane di quei fatti, le accuse ignobili e reiterate lungo tutto il dopoguerra, (dalla destra fino a Pannella), Sasà era sereno. Quasi scettico, disincantato, fermo nei suoi convincimementi e niente affatto risentito. Benché la sua biografia lo avesse reso bersaglio di discriminazioni anche sul piano professionale, ostacolando la sua carriera di medico.
Tutte cose queste che Bentivegna ha raccontato per filo e per segno in numerosi suoi libri, l’ultimo dei quali era stato l’autobiografia Einaudi che va dall’anno della sua nascita, 1922 a Roma, fino alle ultime polemiche mediatiche con Bruno Vespa, che aveva (in video e in uno dei suoi libri) riciclato le vecchie polemiche contro di lui per l’attentato. Per nulla settario, trovò anche il tempo per dialogare con l’ex Rsi Mazzantini, con un libro e il contributo a una fiction Tv sui «ragazzi di Salò». E rimase nel Pci fino a metà degli anni 80, uscendone contro la linea radicale dell’ultimo Berlinguer. Amendoliano, non pentito, disse sempre di non avere particolari virtù e di aver vissutio «senza fare di necessità virtù». Come nel titolo del suo ultimo e bellissimo libro.

il Fatto 3.4.12
Addio al partigiano Bentivegna
La memoria di via Rasella
di Nicola Tranfaglia


Di sicuro pochi sanno oggi, soprattutto tra i più giovani, chi era Rosario Bentivegna, il medico romano di novant’anni che è morto all’improvviso nella capitale, dopo una lunga vita nella quale polemiche infinite lo avevano accompagnato per quell’azione partigiana di cui era stato protagonista il 23 marzo 1944 nella Roma, occupata dalle truppe naziste e dai fascisti loro alleati.
Bentivegna che era nato a Roma il 22 giugno 1922, era un combattente dei Gap, i gruppi di azione partigiani che nella capitale occupata compivano azioni audaci contro gli occupanti, su ordine del Comitato di Liberazione Nazionale.
In particolare fu Giorgio Amendola, rappresentante del Pci nella giunta del Comitato di liberazione nazionale (Cnl), a ideare l’azione e ad ordinarla al Gap di cui faceva parte Benntivegna.
L’OBBIETTIVO dell’azione che, nel primo pomeriggio del 23 marzo, si tradusse nell’attacco all’undicesima compagnia del III Battaglione del Reggimento di poliziotti sudtirolesi di Bolzano, arruolati nel Sud Tirolo dalla polizia tedesca il 1 ottobre 1943, consistette nell’esplosione di una bomba al passaggio dei soldati in via Rasella provocando la morte di 32 militari e il ferimento di altri 110, oltre a due vittime civili. Dei feriti, uno morì poco dopo il ricovero mentre nei giorni seguenti altri nove militari persero la vita, portando a 42 il totale dei caduti.
Ma la rappresaglia nazista, immediatamente decisa dopo l’attacco calcolò l’uccisione di 33 vittime tedesche a cui dovevano corrispondere 320 nemici. E di lì nacque, su ordine del Comando Supremo nazista e di Herbert Kappler, ufficiale delle SS, capo della Gestapo a Roma e del servizio segreto delle SS (l’Sd, ndr) e responsabile anche dell’ordine pubblico nella capitale, l’atroce eccidio delle Fosse Ardeatine in cui vennero uccise 335 vittime rastrellate in fretta e disordinatamente nelle prigioni romane. I processi seguiti fino all’ultima sentenza della Cassazione nel 2009 hanno riconosciuto che l’azione era stata una “legittima attività di guerra” ma questo non ha impedito polemiche aspre e continue per l’attentato di cui Rosario Bentivegna era stato protagonista. Di questi tempi è importante ricordare un personaggio capace di rischiare la vita per i suoi ideali.

La Stampa 3.4.12
Addio a Bentivegna l’uomo di via Rasella
Morto a 90 anni il partigiano autore dell’attentato che nel ’44 scatenò la rappresaglia tedesca alle Fosse Ardeatine
di Alberto Papuzzi

qui


La Stampa 3.4.12
De Luna: «Atto necessario per spezzare l’attendismo»
di Maurizio Assalto

qui

Corriere della Sera 3.4.12
Addio a Bentivegna, il partigiano di via Rasella
Fece esplodere la bomba. «Fu un atto di guerra»
di Dino Messina


«Recentemente qualcuno ha fatto notare che in via Rasella non c'è alcuna targa commemorativa di un fatto così importante nella storia moderna di Roma. Poco male».
Nel suo più recente libro autobiografico, «Senza fare di necessità virtù — Memorie di un antifascista», pubblicato da Einaudi nel settembre dell'anno scorso, Rosario Bentivegna, morto ieri a novant'anni debilitato dalle conseguenze di un ictus che l'aveva colpito il sedici gennaio scorso, prevedeva con un certo distacco e, forse, con una sorta di sollievo, l'oblio che sarebbe calato su uno dei fatti più controversi nella storia della Resistenza italiana. Studente di medicina, comunista, membro giovanissimo dei Gap (Gruppi di azione patriottica), era stato scelto da Carlo Salinari per il ruolo più rischioso nell'attentato fissato per il 23 marzo 1944, anniversario della fondazione dei fasci di combattimento, contro l'XI compagnia del III battaglione SS Bozen di stanza a Roma che ogni giorno verso le 14 risaliva per via Rasella. Travestito da spazzino, lo studente di medicina spinse sino al luogo fissato un carretto carico di 18 chilogrammi di tritolo e di spezzoni di ferro. Aveva riempito la pipa di tabacco e per tre volte l'aveva accesa ritenendo imminente l'arrivo dei soldati tedeschi. L'attesa durò quasi due ore e il commando di partigiani stava rinunciando all'azione finché un quarto d'ora prima delle 16 si udirono passi cadenzati e inni di guerra. Quando i soldati erano vicini, Bentivegna accese la miccia e a passo deciso raggiunse via del Tritone dove lo aspettava con un impermeabile la sua compagna e futura moglie Carla Capponi. Nell'attentato morirono 33 tedeschi, per rappresaglia dopo una serie di convulse telefonate con Berlino, il comando tedesco decise di uccidere dieci italiani per ogni SS caduto. La sentenza venne eseguita alle Fosse Ardeatine, dove le vittime ufficiali, rastrellate tra i detenuti politici, gli ebrei, i comuni, andarono oltre la cifra stabilita: furono 335.
Bentivegna con i suoi compagni (furono in dodici a partecipare all'azione) si nascose prima in città e poi si diede alla macchia. E per tutta la vita dagli avversari, ma anche da alcuni della sua stessa parte politica si è sentito ripetere che lui e i suoi compagni avevano il dovere di consegnarsi per evitare l'eccidio. Seconda una versione tanto falsa quanto dura a morire a Roma sarebbero stati affissi dei manifesti in cui si invitava i partigiani a consegnarsi per risparmiare le vite di innocenti. Contro questa menzogna Bentivegna ha lottato tutta la vita, vincendo non poche cause perché non ci fu nessun manifesto e la prima notizie delle Ardeatine venne pubblicata sul «Messaggero» del 25 marzo, quando la tragedia era consumata.
La Resistenza per quel ragazzo di famiglia borghese con ascendenze risorgimentali (nell'album di famiglia compariva un colonnello Giuseppe Bentivegna che era con Garibaldi sull'Aspromonte) era cominciata molto prima di via Rasella e si sarebbe conclusa ben dopo l'arrivo degli Alleati a Roma il 4 giugno 1944. Inviato da Togliatti con le Brigate Garibaldi a combattere dalla parte di Tito, Rosario Bentivegna riprese gli studi di medicina soltanto a guerra finita. Fu un brillante medico del lavoro e rimase iscritto al Pci sino al 1985, anche se si dichiarò comunista sino alla fine. Militante pronto all'azione, molto legato a Luigi Longo, fu da questi mandato alla fine degli anni Sessanta a recuperare alcuni dirigenti del partito comunista greco in pericolo di vita sotto il regime dei colonnelli. Un'impresa che Bentivegna condusse al timone di un motoscafo d'altura, con l'aiuto della figlia Elena, avuta da Carla Capponi.
Personaggio scomodo del comunismo italiano (la sua medaglia d'argento venne contestata anche dentro al Pci), memoria vivente della Resistenza romana, Rosario Bentivegna nell'ultimo trentennio non ha mai smesso di raccontare e di difendere la sua versione dei fatti. Lo fece una prima volta nel 1983 con «Achtung Banditen», un volume edito da Mursia che fu elogiato da Renzo De Felice per la mole degli episodi narrati e la precisione delle informazioni. Nel '96 pubblicò con il giornalista del Corriere Cesare De Simone, «Operazione via Rasella» (Editori Riuniti) e poco dopo accettò il mio invito a confrontarsi con il «repubblichino» Carlo Mazzantini: ne nacque un volume per Baldini & Castoldi, «C'eravamo tanto odiati» in cui la storia della guerra civile italiana, definizione non accettata da Bentivegna, che preferiva «guerra di liberazione», fu raccontata da due punti di vista contrapposti.
Rosario Bentivegna era un uomo colto e aperto, con un grande senso dell'amicizia. Incredibilmente tenace nel sostenere il suo punto di vista, non si tirava mai indietro, come quando ingaggiò un duello intellettuale con il filosofo Norberto Bobbio che aveva definito l'azione di via Rasella un «attentato terroristico». Sostenere la sua verità su via Rasella è stata, possiamo dire, la bussola che lo ha orientato per tutta la vita. Sentiva pietà per le vittime ma ha sempre ritenuto che tutte le sue azioni partigiane, compresa via Rasella, fossero necessarie per ostacolare il transito delle truppe naziste a Roma e quindi interrompere i bombardamenti degli Alleati.
Divorziato da Carla Capponi, Rosario Bentivegna ha vissuto gli ultimi 38 anni di vita con Patrizia Toraldo di Francia. I funerali saranno celebrati mercoledì nella sede della Provincia: «Sa — dice Patrizia — questo Comune non ci piace».

l’Unità 3.4.12
Cgil davanti alle chiese, nessuno scandalo
di Francesco Scoppola


Grande risalto ha avuto sui quotidiani di ieri la scelta della Cgil di recarsi fuori dalle chiese nella giornata di domenica a distribuire volantini contro la riforma dell’articolo 18.
Alla luce delle tante reazioni è subito sorta spontanea la domanda, dov’è lo scandalo? La decisione del sindacato di stazionare fuori da un luogo sacro, in una giornata centrale quale la domenica delle palme, non ha rappresentato solamente una normale manifestazione di militanza e partecipazione politica, ma ha avuto il significato intrinseco di provare a spostare l’attenzione su una battaglia per l’affermazione di alcuni primari diritti.
Un errore sarebbe interpretare questo gesto come un tirare per la giacca il magistero della Chiesa da una parte piuttosto che da un’altra piuttosto che concentrarsi sulla focalizzazione della persona umana intesa come titolare di diritti.
Non è un caso che proprio negli ultimi quindici giorni si siano succeduti interventi di autorevoli uomini di Chiesa, quali Monsignor Bregantini e il Cardinal Bagnasco, i quali si sono soffermati sul valore da attribuire al lavoratore che non può essere trattato alla stregua di «merce da buttare» ed ancora sulla necessità di ricercare soluzioni condivise sull’articolo 18.
La stessa rivista «Famiglia Cristiana», nell’editoriale dell’ultimo numero, ha manifestato alcune critiche che, pur scendendo in alcuni passaggi nel merito delle questioni, hanno anteposto un principio di metodo nella conduzione della delicata trattativa auspicando con forza una revisione delle parti «socialmente più ingiuste» dell’attuale disegno di legge.
Il punto di collegamento di questa domenica non è stato quindi, come alcune letture semplicistiche hanno erroneamente evidenziato, la volontà del sindacato di disturbare i luoghi sacri o ancora di semplificare i messaggi sostenendo l’identicità delle posizioni, ma il tentativo di spostare l’attenzione sulla figura del lavoratore e sulla natura di una crisi che si scarica in maniera forte su chi già vive situazioni di estrema difficoltà.
È un richiamo a riscoprire la solidarietà come uno dei fattori portanti delle nostre comunità, significa puntare energie sulla condivisione intesa non solo come approccio metodologico nella trattativa sulla riforma, ma come rispetto di chi vivrà quelle norme nella già difficile quotidianità.
È sbagliato quindi aver guardato con fastidio a quanto avvenuto questa domenica, si tratta solamente di aver fatto la propria parte, ognuno a modo suo e ciascuno centrando il «bene comune» come fattore finalizzante della propria azione.

Repubblica 3.4.12
I Frati di Assisi hanno censito le "devozioni" dei membri del governo. Il patrono d´Italia batte tutti con cinque preferenze
Da San Francesco a Santa Caterina ecco a chi si votano premier e ministri
Fornero si affida a San Carlo. Barca l’unico che si dichiara non credente
di Orazio La Rocca


CITTA´ DEL VATICANO - Il premier Monti nei momenti difficili prega San Francesco d´Assisi. Al santo patrono d´Italia si rivolgono anche Andrea Riccardi, Francesco Profumo, Mario Catania, Corrado Clini. Sono le preferenze registrate da un sondaggio sulla pratica religiosa tra i membri dell´attuale governo, svolto dai Frati francescani del Sacro Convento di Assisi. Dall´inchiesta - sarà lanciata oggi dal sito www.sanfrancesco.org diretto da padre Enzo Fortunato, portavoce del Sacro Convento - risulta che il tasso di religiosità tra gli attuali inquilini di Palazzo Chigi "è altissimo" a partire dal premier che confessa di essere un devoto di San Francesco perchè "ha scritto il Cantico delle Creature, un poetico inno alla vita".
"Scontata" la preghiera francescana di Riccardi, ministro della Cooperazione, che come fondatore della Comunità di Sant´ Egidio è tra i promotori dello "Spirito di Assisi", in ricordo del primo storico raduno interreligioso voluto da Giovanni Paolo II nel 1986. San Francesco - è, inoltre, "modello ideale" per Clini (Ambiente) e Catania (Politiche agricole) per la difesa del creato. Personale la devozione di Profumo (Istruzione): «Ho il nome del Poverello e per questo lo prego». Il santo di Corrado Passera (Sviluppo) è Agostino perchè - spiega - «è uno dei più grandi pensatori dell´umanità e un uomo che ha saputo cambiare totalmente la sua vita lasciandosi tutto alle spalle. Agostino ha saputo contemperare nel suo pensiero fede e ragione, e soprattutto ha saputo immaginare e poi contribuire a realizzare un mondo nuovo, superando vecchi dogmi e percorrendo strade di cambiamento». «E´ una risposta al momento storico che sta vivendo il nostro paese nella sua drammaticità e nella sua potenzialità - commenta padre Fortunato - come emerge anche dalle risposte degli altri ministri». Di Paola (Difesa) prega Santa Barbara; Terzi (Esteri) San Luca, evangelista; Ornaghi (Beni culturali) San Lorenzo; Balduzzi (Salute) il "servo di Dio" Giuseppe Lazzati, futuro beato; Severino (Giustizia) la Madonna di Pompei; Cancellieri (Interni) la Vergine Maria; Fornero (Lavoro) San Carlo; Giarda (Rapporti col Parlamento) Santa Caterina da Siena perchè «ha scritto che il potere è un ‘prestito´ di Dio, e dunque nessuno ha il diritto di appropriarsene indebitamente». «Prego Sant´Antonio da Padova perchè è il santo dei poveri», confida Antonio Catricalà, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.
«Ci rallegra vedere che San Francesco ed altri santi sono presi a modello da chi ha responsabilità di governo, santi che in fondo rappresentano la spiritualità e i valori di tutti gli italiani» commenta padre Giuseppe Piemontese, Custode del Sacro Convento. Hanno risposto al sondaggio anche coloro che non idicano "santi di riferimento": sono Patroni Griffi (Funzione pubblica), Moavero (Affari europei), Gnudi (Regioni, sport e turismo). Fabrizio Barca (Coesione territoriale) si dichiara invece non credente e di conseguenza non ha santi da pregare.

l’Unità 3.4.12
La procura di Roma: «Qualcuno sa come e perché Emanuela fu rapita il 22 giungo del 1983»
Il fratello: «Silenzio imbarazzante». Non sarà aperta la tomba del boss De Pedis
L’affondo dei pm: «Orlandi, in Vaticano conoscono la verità»
Qualcuno ancora in vita all’interno del Vaticano sa come e perché la cittadina vaticana Emanuela Orlandi scomparve il 22 giugno 983 quando aveva appena 15 anni. Questo il convincimento di chi indaga
di Angela Camuso


In Vaticano qualcuno conosce la verità sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. E questo qualcuno, se volesse, potrebbe parlare, perché è ancora in vita. A queste conclusioni è arrivata la procura di Roma a qualche mese dalla chiusura della nuova indagine sul rapimento per mano della banda della Magliana e molto probabilmennte l’uccisione della 15enne figlia del postino personale di Papa Wojtyla, sparita a Roma un pomeriggio di giugno dell’’83 mentre ritornava a casa dopo una lezione di musica presso la scuola di Sant’Apollinare, sulla stessa e omonima piazza dove sorge la basilica monumentale in cui è stato sepolto, suscitando uno scandalo su cui tutt’ora si dibatte, proprio uno dei capi della storica gang romana, Enrico De Pedis.
Non a caso, l’indiscrezione è arrivata da piazzale Clodio in questi giorni, visto che si è discusso in Parlamento proprio in merito a quella sepoltura, in risposta a un’interrogazione presentata dal Walter Veltroni che ieri ha riconosciuto il «coraggio della procura», invitando ad insistere sulla strada della verità nella sua qualità di membro della Commissione Antimafia. In particolare sulla questione, ormai annosa, la scorsa settimana è intervenuta il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, per puntualizzare che sebbene la basilica di Sant’Apollinare non rientri dal punto di vista territoriale nello Stato Vaticano, nessuna autorizzazione alla tumulazione nella basilica della salma del bandito, che morì assassinato nel 1990, fu firmata dal Viminale. Il nulla osta per l’onorevole sepoltura arrivò dal preposto ufficio del Comune di Roma. I cui impiegati però scrissero erroneamente, in buona o cattiva fede, che la basilica era un sito extraterritoriale e dunque fuori dalla giurisdizione del Viminale. Era stato l’allora capo della Cei, il cardinale Ugo Poletti, a dare il beneplacito per il trasferimento del corpo di De Pedis dal Verano nella cripta della basilica. Poletti lo aveva fatto a seguito di una lettera di referenze dell’allora reggente di Sant’Apollinare, monsignor Vergari, che tra le altre cose aveva definito De Pedis «grande benefattore».
Il collegamento tra la sepoltura di De Pedis e la scomparsa di Emanuela Orlandi fu suggerito alla procura di Roma da una telefonata arrivata alla trasmissione Chi l’ha Visto nel 2005 da parte anonimo, poi identificato come il figlio di uno degli storici collaboratori di De Pedis. La segnalazione arrivava quando giù le indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi si stavano focalizzando sulla banda della Magliana, soprattutto a seguito delle dichiarazioni shock rilasciate agli inquirenti da una ex donna di De Pedis, Sabrina Minardi. La quale aveva raccontato dei rapporti stretti tra il boss e l’allora direttore dello Ior, l’Arcivescovo Marcinkus. Nonché affermato di aver consegnato Emanuela Orlandi, al momento del rapimento, a un sacerdote. Tuttavia, il racconto della Minardi si era rivelato pieno di incongruenze e contraddizioni. Tant’è che dopo una prima fase in cui si pensava che gli inquirenti fossero vicini alla verità, le indagini si sono arrestate a un punto morto. Questo nonostante l’iscrizione nel registro degli indagati della Minardi e di altre 4 persone, tutti ex fiancheggiatori della banda della Magliana. E nonostante l’individuazione di un possibile, agghiacciante, movente: un rapimento finito male, organizzato per assecondare i desideri sessuali di un alto prelato e poi utilizzato da quelli della Magliana per ricattare il Vaticano e lo Ior, nelle cui casse i banditi, attraverso il banchiere Calvi, avevano investito capitali che non erano stati restituiti.
Di certo, lo hanno rivelato i magistrati ieri ai cronisti, la procura non sarebbe più intenzionata a riesumare il cadavere di De Pedis. Questo perché si ritiene che nella bara ci siano solo i resti del boss. D’altra parte, la cripta è stata già ispezionata. E si è scoperto che nello spazio sottostante la basilica alcuni cunicoli, ora chiusi, portavano proprio alla scuola di musica frequentata da Emanuela.
Ha commentato Pietro Orlandi, fratello della ragazza: «Ora mi aspetto risposte dal Vaticano. Ma non capisco perché i pm abbiano cambiato idea sulla riesumazione. Sia io e che tutti i miei familiari ci siamo sottoposti all’esame del Dna. Ma comunque io non ho mai pensato che nella cripta ci fossero i resti di Emanuela».

Corriere della Sera 3.4.12
Sta per scadere il tempo della verità
di Goffredo Buccini


Sembra una mossa della disperazione. Quando la pubblica accusa alza la voce, tuonando il fatidico «chi sa, parli!», significa in genere che ha ben poco di concreto da portare a processo. Ed è appunto ciò che pare verificarsi nella vicenda della povera Emanuela Orlandi, scomparsa a Roma nell'83 e tirata in causa, da allora, dentro le trame dei più intricati misteri italiani. Tuttavia i pm dicono qualcosa di ulteriore: circoscrivono l'ambito nel quale la verità sarebbe stata custodita in questi ventinove anni.
«Personalità del Vaticano» saprebbero quale fu la sorte della ragazzina, figlia di un funzionario pontificio. Anche questa sembra un'assoluta ovvietà. In quasi tre decenni, le indagini hanno continuato a ruotare attorno agli stessi protagonisti di alcune tra le pagine più nere della nostra storia: monsignor Marcinkus, con il «suo» Ior, e la banda della Magliana, vera spicciafaccende dei poteri più sporchi della Prima Repubblica. Che ci fosse in ballo un ricatto alla Santa Sede, che il problema della gang di Renatino De Pedis fosse recuperare soldi investiti nell'allora spregiudicata banca vaticana o che si trattasse piuttosto di coprire qualche leggerezza molto personale dell'atletico cardinale legato a Calvi e Gelli, il rapimento di Emanuela sembra nascere e finire in quello schema. Ed è probabile che la Procura abbia in mano il nome di qualche prelato ancora vivo e a conoscenza dei fatti, pur non essendo in condizioni di fare un passo ulteriore Oltretevere.
Di qui la singolare sortita, che ha acceso di nuovo le speranze della famiglia Orlandi. Quasi trent'anni dopo, però, il tempo sta per scadere, morte e oblio stanno per scendere su un giallo che ancora in queste ore s'è arricchito dell'ennesimo grottesco giro di valzer attorno alla tomba di Renatino, incredibilmente sepolto come «benefattore» a Sant'Apollinare: dopo tante insistenze i pm hanno ottenuto di aprire il sarcofago, ma vi hanno rinunciato. Solo Benedetto XVI, muovendo archivi e coscienze, può forse cambiare il corso degli eventi. Un Papa che ha avuto il coraggio di scoperchiare il verminaio della pedofilia, potrebbe far crescere una piantina di verità anche in una vigna tanto infestata di rovi.

Repubblica 3.4.12
Monsignor Georg parla di Benedetto XVI a cui dedica un libro in uscita "Dopo pranzo si rilassa scrivendo lettere. E studia la pronuncia delle lingue"
"Vi racconto mio fratello il Papa sa lavare i piatti e guarda le fiction"
di Marco Ansaldo


Ratisbona. Un Papa che sa lavare i piatti. Che al momento della siesta scrive lettere. Che ha scelto il proprio nome di Pontefice - Benedetto - per il significato spirituale, ma attento com´è agli estetismi musicali, anche per il suono. Che il martedì, il giorno prima delle udienze generali, si esercita con il registratore per pronunciare bene le parole nelle lingue con cui saluta i pellegrini. Che la sera si appassiona a guardare in tv i film che parlano di Vaticano. Che si dispiace per gli attacchi ricevuti, ma guarda oltre.
È il profilo inedito che di Joseph Ratzinger fa il fratello maggiore Georg, anch´egli sacerdote, mentre in Italia esce il suo libro, scritto con lo storico del Cristianesimo, Michael Hesemann, "Mio fratello il Papa" (Piemme). Una miniera di aneddoti sulla vita di Benedetto XVI. E una fonte importante per conoscere da bambino, da giovane e infine da uomo il cardinale tedesco poi eletto al vertice della Chiesa cattolica. Georg Ratzinger, che ha 88 anni, oggi conduce vita ritirata nella sua casa di Ratisbona, ma viene spesso a Roma, come farà prossimi giorni per festeggiare l´85mo compleanno di Joseph Ratzinger, il 16 aprile. «Sono molto felice di rivederlo - tiene a dire - poi in Vaticano, il giorno 19, c´è un grande concerto in suo onore, e vi assisteremo insieme».
Monsignor Georg Ratzinger, nel libro lei rivela che diventò triste dopo che suo fratello fu eletto Papa. Perchè?
«Dopo l´"Habemus Papam" quando sentii la parola "Ratzinger" rimasi pietrificato. In tutta sincerità, in quel momento mi sentii scoraggiato».
Come mai?
«Ero preoccupato. Pensavo che per mio fratello si trattava di una grande sfida. E in quel momento non vedevo né gli onori, né gli aspetti positivi, ma solo tutto il peso che quell´incarico avrebbe comportato per Joseph».
E che cosa le disse lui poi del conclave?
«Mi raccontò che la sua elezione era stata come un fulmine a ciel sereno. Era successo tutto così in fretta nel voto che era evidente l´azione dello Spirito Santo».
Le ha rivelato il motivo per cui scelse il nome Benedetto, appellativo del santo di Norcia e fondatore del monachesimo occidentale, ma anche del Papa intellettuale Benedetto XIV e di quello della pace Benedetto XV?
«Una volta ne abbiamo parlato. E lui mi ha spiegato che gli sembrava un bel nome. Era un discorso generale, che non si riferiva a una persona precisa: gli piacevano sia il suono sia il significato, benedetto da Dio e benedizione per gli altri. Ma gli sembrava anche adatto per un Pontefice. Naturalmente è molto affezionato al Santo, e sa che gli altri due sono personaggi di grande levatura. Ma ha scelto di chiamarsi così anche per motivi estetici ed etimologici».
Lei come lo ricorda da bambino?
«Era un ottimo studente. Una volta nostra madre mi disse che era tra i primi tre del liceo, e solo perché in ginnastica e disegno non aveva voti eccellenti. Ma nelle materie scientifiche era sempre il migliore».
Che passioni aveva da piccolo?
«Gli piacevano gli orsi di pezza. Nel 1928 a Marktl am Inn, il nostro paese, si era innamorato di un peluche che stava in vetrina. Poi lo aveva avuto in regalo a Natale. Era davvero affezionato a quei pupazzi. L´orso di san Corbiniano usato nel suo stemma è diventato il simbolo del suo cammino».
Litigavate mai?
«Sempre solo per cose di piccolo conto. In generale eravamo un cuore e un´anima sola».
E il suo piatto preferito quale era?
«Gli piacevano i dolci che faceva la mamma, come i Kaiserschmarren (la strapazzata dell´imperatore ndr)».
Più avanti, da arcivescovo di Monaco di Baviera, e poi a Roma da prefetto del Sant´Uffizio, lui tornava a trovarla?
«Veniva a Ratisbona tre o quattro volte all´anno. Mangiavamo a casa sua. Per fortuna le suore mettevano qualcosa in frigo, perché nessuno di noi due è un gran cuoco. Alla fine lui lavava i piatti e io li asciugavo. Poi facevamo una passeggiata e parlavamo di Dio, del mondo, dei fatti della giornata».
E da Papa trova Joseph cambiato?
«È uguale a prima. Vuole soltanto essere se stesso, e non desidera portare una maschera. È gentile e modesto come è sempre stato».
Si dispiace per gli attacchi che riceve anche da parte dei media?
«Di per sé è molto sensibile. Ma sa quali sono le motivazioni di questi attacchi. Per questo non ci bada molto. Va oltre».
Come affronta la giornata suo fratello il Papa?
«Dopo la messa alle 7 e la colazione alle 8 si prepara agli appuntamenti del giorno. Il martedì organizza l´udienza generale del mercoledì. Per esempio impara la pronuncia delle parole nelle lingue straniere in cui saluta. Ascolta una cassetta per sentire i suoni corretti e si esercita. Dopo pranzo si rilassa, ma invece di dormire scrive lettere e biglietti e legge tutto quello che può. Nel pomeriggio fa una passeggiata recitando il rosario assieme al suo segretario personale, monsignor Georg Gaenswein».
E la sera?
«Cena alle 19,30 e alle 20 guarda i notiziari. Poi quattro passi in giardino. Mio fratello guarda raramente la tv, al massimo un film che parla del Vaticano».

l’Unità 3.4.12
E se desiderassimo ciò che abbiamo?
Dalla smania di potere alla nostalgia:
in questa epoca senza desideri l’analista Massimo Recalcati passa in rassegna le sue molteplici forme
di Bruno Gravagnuolo


Fino a qualche decennio fa, a sinistra e non solo, ci si chiedeva: ma nella vita sociale conta più la struttura economica o l’ideologia, la «sovrastruttura»? Ne nascevano in replica varie miscele di fattori economici e culturali, primati dell’economico sulle idee e viceversa. Di combinazioni e retroazioni tra cause ed effetti. Una querelle lunga, da Marx ed Engels, a Weber, a Croce, alla sociologia post-weberiana fino ad oggi. Pochi in questa disputa, a parte Gramsci col simbolismo «attrattivo» dell’ «egemonia», si sono posti un’altra domanda, in apparenza bizzara: ma quanto conta invece il «desiderio»? Già il «desiderio», una forza che è al centro della psicoanalisi freudiana e di quella post-freudiana di da Jacques Lacan, eretico della psicoanalisi francese, morto nel 1980. Oggi un allievo ideale di Lacan, docente a Pavia e tra i più noti analisti lacaniani in Italia, Massimo Recalcati, rilancia la questione assieme a quella del potere: delle forme di dominio, del destino del «soggetto» in tutta la gamma delle relazioni inter-soggettive nelle moderne società capitalistiche. Recalcati, bravo a scendere in prosa dalle rarefazioni linguistiche del Maestro francese, s’era già occupato per Cortina editore de l’Uomo senza inconscio e di Cosa resta del padre. Mostrando abilità nell’infilzare fenomeni sociali fludi, come l’anestesia delle emozioni profonde, o la cancellazione dell’Autorità paterna (a vantaggio di confusività e nichilismo).
DA DON GIOVANNI A ANTIGONE
Stavolta va al punto chiave: il desiderio appunto. Con un saggio fatto di ritratti e figure emblematiche: Ritratti del desiderio. Ecco alcune delle figure: invidia, angoscia, desiderio sessuale, Don Giovanni, Antigone, desiderio di niente, desiderio di godere, desiderio dell’Altrove, desiderio del desiderio, desiderio dell’Analista. In ultimo un breve ritratto di Jacques Lacan, utile a capire l’uso che Recalcati fa del «suo» Lacan.
Ma torniamo al «desiderio», che Recalcati spiega etimologicamente come allontanamento dalle stelle: de-(sidera)re, contrario di con-siderare, cioè fissare i «sidera». Lo sviamento o perdita della direzione stellare generava «mancanza» e appunto desiderio di ritrovare i sidera. Era un fenomeno noto ai naviganti, o ai soldati di Cesare (i «de-siderantes») che smettevano di guardare in attesa le stelle, per ritrovare gli amici reduci dalla battaglia. Insomma il desiderio è «mancanza», connessa all’umano e alle «umane». Che attende come Eros platonico il suo «riempimento». In un «immaginario» e in un Altrove. In un oggetto del «desiderio» e in una cometa perduta da ritrovare («E andiamo! Con l’indesiderato al posto della cometa», come spiega in poesia Pietro Spataro).
Quell’altrove-oggetto in realtà, scrive Recalcati, è sempre un rapporto inter-soggettivo, una relazione umana. Che si incide nell’anima tramite il linguaggio, con tutte le immagini emotive che racchiude: lacanianamente è il Significante. I «significanti», con il patrimonio simbolico connesso. Ecco allora che anche il Potere, oltre all’amore, si svela come capacità di soddisfare un desiderio: un desiderio di essere riconosciuti dall’altro nella Parola. Protetti, oppure obbediti. È un dato inconscio della natura umana, che prima della psicoanalisi ha ben svelato Hegel, consideratissimo da Alexandre Kojeve (un maestro di Lacan). E cioè: il desiderio è sempre «desiderio del desiderio dell’altro», proprio per venir (riconosciuti) come soggetti. Non è desiderio di «cose». E quando appare come edonismo capitalistico di mercato, virtù dell’accumulazione o appetito acquisitivo, quel desiderio in realtà parla d’altro. Parla di distruttività, masochismo, confusione illusoria tra bisogno animale e desiderio. Tra soggetto e oggetto del desiderio. E perciò parla di nevrosi. Del farsi riconoscere come potente, per cibarsi dell’altro in un godimento assoluto e solitario. In altri termini, per tornare alla politica l’economia è sempre scambio umano, non «tecnica». Dunque rapporto di dominio, oppure di rispecchiamento equilibrato, nel rispetto e nell’accoglienza dell’altro (eguale o più debole), o di contro nella manipolazione e nella divorazione del mio altro. Anche l’economia quindi è una relazione simbolica e di linguaggio, nella quale trapela il «desiderare» che dà forma alla forza e ai rapporti di forza tra gli umani, o all’amore tra persone concrete.
MARX-FREUD
Conclusione: per cambiare l’economia e la politica occorre liberare e capire il «desiderio», che è il vero motore dentro il linguaggio dell’economia. Sicché niente scissione tra economia e ideologia, ma primato dell’economia come «struttura desiderante» del dominio. Detto diversamente: la relazione «servo-padrone» è un incantesimo, dove il primo e l’altro termine «si desiderano» a vantaggio del dominio del secondo. Succede anche nel rapporto violento uomo-donna. E quella relazione stregata va rovesciata. In un desiderio accogliente tra soggetti liberi e distinti. Dove la libertà solidale dell’uno si muta in libertà di ciascun altro. E dove ciascuno può «desiderare il suo desiderio», magari col rischio di fallire, ma senza distruggere o autodistruggersi con «sintomi» e finti oggetti compensativi. Il tutto sarebbe poi per Recalcati il frutto di una cura psicoanalitica riuscita. Magari. Sarebbe un modo per «cambiare il mondo», rilanciando la formula «Marx-Freud», con «l’additivo Lacan».

il Fatto 3.4.12
Ma su Dell’Utri, io insisto
di Antonio Ingroia


Esce oggi il nuovo numero di MicroMega, dedicato in larga parte all'attuale fase politica e alle prospettive per il centrosinistra. Proponiamo un’anticipazione del saggio del Procuratore aggiunto della Dda di Palermo, Antonio Ingroia, sullo strumento penale del concorso esterno in associazione mafiosa.

In una reazione a caldo, ho definito le polemiche scoppiate sull’onda dell’annullamento in Cassazione della condanna di Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa come la premessa per il colpo di spugna finale per cancellare anni di indagini e faticosi risultati sul terreno del contrasto al fenomeno della collusione e della complicità mafiosa. Sono stato attaccato e criticato per questo, e c’è chi ha perfino invocato un procedimento disciplinare nei miei confronti. Io credo, invece, di essere stato perfino soft, per avere usato qualche eufemismo di troppo. La realtà è molto più dirompente e i rischi molto più alti, perché la vera posta in gioco non è la sorte di un «illustre» imputato, seppur importante e potente. E non è neanche il passato. I rischi del revisionismo politico-giudiziario, che rimette in discussione pratiche, sistemi e metodiche pensati dai maestri dell’antimafia, Falcone e Borsellino in primis, e sperimentati con successo per decenni dalla magistratura a tutti i livelli, minacciano ancor di più il presente e il futuro della politica giudiziaria antimafia. Di più: investono, incrementandole, le chance di espansione del potere mafioso. Infine: mettono a rischio la stessa tenuta del principio di eguaglianza, e quindi della nostra democrazia. (...)
AL DI LÀ della retorica imperante e dei luoghi comuni, la mafia vincente oggi non è certo quella dei figli di Riina o di Provenzano che conquistano paginate di giornali rilasciando interviste o con iniziative più o meno stravaganti come dichiarare di voler abbandonare la Sicilia per vivere nel Nord Italia. E non è neanche quella dei pochi latitanti superstiti, Matteo Messina Denaro in testa, che rappresentano ormai quel che resta della mafia militare che oggi fa meno paura e gestisce meno potere. Le gravi sconfitte che sul piano militare Cosa Nostra ha subìto le hanno imposto di ripiegare arretrando dall’occupazione militare del territorio, e così passando dal controllo del territorio al più remunerativo sistema del controllo dell’economia. E la mafia oggi è perciò sempre meno territoriale e sempre più finanziaria, sempre meno solidamente radicata, sempre più liquida. Una mafia finanziaria che ha sempre più bisogno dell’efficienza del suo nucleo, ancora più esteso, di consulenti e mediatori, i Complici, un ceto dirigente che costituisce sempre più l’élite criminale del nuovo sistema di potere mafioso integrato, perché interfacciato con altri sistemi criminali collegati ai ceti dirigenti del paese, a partire dal sistema della corruzione politico-amministrativa.
Ed allora, se è questa la fase strategica che sta attraversando la mafia, impegnata anche nel movimento espansivo dei suoi interessi economico-finanziari e della sua sfera di influenza, che ormai interessa territori sempre più ampi delle regioni più ricche del Nord Italia, è facile intuire quanto sia essenziale uno strumento penale come il concorso esterno, e quanto siano rischiosi arretramenti proprio su questo terreno. Il Complice è diventato la vera anima del sistema mafioso, ma nonostante ciò ne rimane estraneo alla struttura organizzativa, e perciò il concorso esterno è, nel contempo, strumento indispensabile e strategico.
RINUNCIARVI sarebbe come rinunciare al principio di obbligatorietà dell’azione penale, come introdurre un odioso discrimine all’interno dell’universo mafioso, condannando i soli «picciotti» per risparmiare i Complici, che sono il vero motore del potere mafioso. Sarebbe una ferita al principio di eguaglianza. Del resto, la giurisprudenza della Cassazione con più pronunce, anche a sezioni unite, ha fissato rigorosi paletti all’applicazione del concorso esterno, finendo per selezionare moltissimo le condotte oggi davvero punibili, restringendone l’ambito di punibilità e innalzando – di fatto – lo standard probatorio a livelli sempre più alti. Ma ciò nonostante, le polemiche in relazione ad alcuni processi per concorso esterno non si placano, anzi diventano sempre più incandescenti. Perché? Davvero la questione attiene alla figura di reato e basterebbe una previsione legislativa che preveda una sanzione per le condotte di concorso esterno per porre fine alla bagarre? Temo proprio di no, perché il problema non è il concorso esterno, ma i Concorrenti esterni, i Complici, la cui impunità va tutelata a tutti i costi. E su questo piano il concorso esterno non c’entra nulla. C’entra invece la qualità di certi imputati. (...)
Ammesso che si possa, e probabilmente si può, articolare una norma equilibrata, una norma incriminatrice ad hoc che punisca la condotta «agevolatrice dall’esterno» dell’associazione mafiosa, con un ambito di applicabilità né troppo ampio né troppo ristretto, dotata di maggiore concretezza ma che non rinunci alle sue potenzialità applicative, sarebbe necessario un confronto serio e costruttivo, e senza doppi fini. E che nessuno persegua l’impunità dei Complici. Ma il clima di quiete instauratosi da quando si è insediato il governo Monti è purtroppo solo apparente, come dimostra appunto la vicenda Dell’Utri.

l’Unità 3.4.12
Pompei, l’Europa  manda il denaro. Non sprechiamolo
Via libera della Commissione alla seconda fase del finanziamento
Dubbi sulla legalità dei lavori di restauro
di Luca Dal Fra


Cosa si muove sotto a Pompei? Dopo i commissariamenti scandalo, i crolli delle domus, le pletoriche dichiarazioni, sul sito flegreo è calato il silenzio, appena increspato da qualche presunto o reale piccolo cedimento. Negli ultimi giorni invece, come si trattasse del Vesuvio, si assiste a una ripresa delle attività. Giovedì scorso la Commissione europea ha dato il via libera alla seconda fase del finanziamento, già deliberato, di 105 milioni di euro per il piano di restauri dell’area archeologica, aprendo la strada ai bandi per gli appalti. Una buona notizia, subito seguita dalla decisione del Governo italiano di nominare Fernando Guida quale prefetto anticamorra per vigilare sulla legalità dei lavori e degli appalti di Pompei. In un’intervista al Corriere del Mezzogiorno del primo aprile, Guida promette certificati antimafia e bonifici on line per tutti come arma per sconfiggere le infiltrazioni della criminalità organizzata, cose in gran parte già usate dalla pubblica amministrazione. Visto che Pompei già godeva del supporto amministrativo di Invitalia, molti si chiedono se questa ultima iniziativa non sia un commissariamento mascherato: l’interessato nega, promette suprema collaborazione con la soprintendenza archeologica di Napoli e Pompei, e spiega che «quando la torta è ricca» -105 ml di euro fa gola a chiunque.
PIANO DELLA CONOSCENZA
Guida sarà alla testa di un gruppo di lavoro, composto da lui e dal prefetto di Napoli per il ministero degli Interni, poi da altri quattro rappresentati, rispettivamente dell’Autority sui contratti pubblici, dei dicasteri di Istruzione, Coesione territoriale e Beni Culturali sarà Fabio Carapezza Guttuso non un tecnico ma un altro prefetto. Dunque un organismo dal profilo barocco più che tecnico investigativo, segnato dalle molte nomine politiche: toccherà al tempo fugare il dubbio se si tratti di vigilanza o di un tavolo di mediazione per i famosi 105 milioni di euro. Nell’ottimismo generale la squadra sarà presentata giovedì a Napoli in una conferenza con il presidente del Consiglio Mario Monti e i ministri Ornaghi, Barca, Cancellieri, a dimostrare quanto il governo tenga a Pompei, fiore all’occhiello dell’archeologia.
Purtroppo da tempo a Pompei non si parla più di archeologia: l’attuale piano dei restauri della soprintendenza del 2011, quello appunto finanziato dalla Commissione europea, è esemplato per non dir copiato da un analogo piano della Segreteria generale del ministero, a sua volta ispirato dalla relazione redatta dall’Unesco dopo l’ispezione del 2010. L’allora segretario generale Roberto Cecchi sulla rivista «Ananke», stabiliva che i restauri su Pompei degli ultimi 50 anni: «sono un accrocco che poco ha a che vedere con le buone regole dell'arte», lanciando un «piano della conoscenza» sul reale stato dell’area e curando il libro Pompei archeologia, finanziato dal ministero per Electa. L’indagine conoscitiva, o meglio i risultati dell’indagine vennero bloccati dalla nomina di Villari come sottosegretario, del libro si sono perse le tracce. Ora che è sottosegretario Cecchi potrebbe almeno far pubblicare il volume, visto che è stato completamente esautorato da Pompei. Nel frattempo sono stati assunti 22 tecnici -13 archeologi e 9 architetti più un amministrativodestinati al sito: un segno di ritorno alla normalità cui l’attuale soprintendenza sembra puntare. Così gli unici ad apparire preoccupati che i fondi servano per reali lavori di restauro e tutela sono i Commissari dell’Ue, che anche nella delibera di giovedì scorso hanno ribadito precise clausole all’utilizzo dei finanziamenti. E la danza sul vulcano continua.

Corriere della Sera 3.6.12
Merah e Breivik terroristi per vendetta. L’ideologia non spiega la loro ferocia
di Ian Buruma


Che cosa mai può essere passato per la testa a quel giovanotto francese, di fede islamica, certo Mohamed Merah, per spingerlo ad assassinare brutalmente tre scolaretti ebrei, un rabbino e tre soldati, due dei quali musulmani come lui? Che cosa mai può essere passato per la mente a un altro uomo, tale Anders Breivik, per crivellare di pallottole una sessantina di adolescenti in un campo estivo in Norvegia? Questi massacri sono talmente inusuali da spingere tutti noi alla ricerca angosciata di spiegazioni. Chiamare «mostri» questi assassini aiuta poco. Perché non di mostri si tratta, bensì di giovani maschi. E accantonare il problema tacciandoli di matti equivale ad assumere un atteggiamento altrettanto ambiguo.
Due ipotesi emergono dall'accavallarsi confuso di commenti da parte di politici e giornalisti, entrambe di natura sociopolitica. La prima porta la firma del discusso attivista musulmano, Tariq Ramadan, il quale accusa la società francese. In particolare, Ramadan denuncia il fatto che i giovani francesi di origine musulmana vengono emarginati per la loro fede e per il colore della loro pelle. Hanno il passaporto francese, eppure sono trattati come forestieri non graditi. Quando il presidente francese Nicolas Sarkozy, egli stesso figlio di immigrati, dichiara che ci sono troppi stranieri in Francia, contribuisce a spingere ancora di più in un angolo tanti giovani come Merah. E una piccola minoranza di questi giovani potrebbe essere tentata di reagire in maniera sconsiderata, sotto la spinta della disperazione.
L'altra ipotesi, per la quale propende lo stesso Sarkozy, è di prendere Merah in parola. Ha detto che voleva vendicare il massacro dei palestinesi e combattere contro lo Stato francese alla stregua dei guerrieri islamici. Si era ispirato ad Al Qaeda. E allora perché non credere alle sue parole? Di qui la decisione di Sarkozy di ordinare una retata di musulmani sospettati di estremismo islamico e di sbarrare le frontiere a certi imam, impedendo loro di partecipare a un convegno religioso in Francia. Chi vede nell'estremismo islamico la radice del problema tende anche a considerare i giovani assassini come Merah quali esempio di integrazione fallita. Non sono mai diventati sufficientemente francesi. Gli immigrati devono accettare e condividere i «valori occidentali».
Nessuno tuttavia mette in dubbio che Anders Breivik non fosse sufficientemente norvegese, sarebbe assurdo. Ma anche lui potrebbe essere preso in parola. La retorica della demagogia xenofoba l'aveva convinto che sterminare i figli delle élite socialdemocratiche serviva a proteggere la civiltà occidentale contro i pericoli del multiculturalismo e dell'Islam.
Nessuna delle due ipotesi è del tutto errata. Molti giovani musulmani si sentono indesiderati nei Paesi di nascita e il linguaggio del fondamentalismo — che sia impiegato dagli islamisti o dai loro avversari — non fa altro che creare un'atmosfera favorevole alla violenza. Tuttavia, tanto Ramadan che Sarkozy offrono spiegazioni semplicistiche, inadatte a catturare il senso di queste stragi eccezionali. Perché anche quando si scontrano con il rifiuto e l'indifferenza, nella stragrande maggioranza i giovani musulmani non si trasformano in assassini assetati di sangue. Merah rappresenta un caso eccezionale, non incarna un esempio tipico di nulla, tanto meno di discriminazione razziale o religiosa.
Lungi dall'essere un fanatico religioso, Merah è cresciuto da piccolo delinquente di quartiere, senza alcun interesse per la religione. La lusinga irresistibile dell'estremismo islamico è stata forse per lui la violenza, anziché il contenuto religioso. Si divertiva a guardare i video delle decapitazioni, girati dagli jihadisti. Aveva persino tentato di arruolarsi nell'esercito francese e nella Legione straniera, ma l'esercito l'aveva respinto a causa dei suoi trascorsi con la giustizia. E così, deve essersi detto, se i francesi non lo volevano, si sarebbe arruolato nella guerra santa. Qualunque cosa che potesse dargli un senso di potenza e una scusa per abbandonarsi ai suoi impulsi criminali. Molti giovani maschi si sentono attratti da fantasie di violenza, ma ben pochi cedono all'impulso di trasformarle in realtà. L'ideologia può servire da scusa o da giustificazione, ma assai di rado rappresenta la motivazione principale dei singoli atti di brutalità. I massacri sono molto più spesso forme di vendetta personale, per mano di infelici pronti a distruggere il mondo che li circonda perché si sentono umiliati e respinti, sotto il profilo sessuale, sociale o professionale.
Non di rado, è difficile individuare una vera e propria motivazione delle stragi, come nel caso della scuola Columbine, dove un paio di ragazzi uccisero 12 studenti e un insegnante nel 1999. In quel caso, si puntò il dito contro i videogame e i film violenti e sadici che gli assassini amavano guardare. Eppure, la stragrande maggioranza degli appassionati di questi generi non si sogna neppure di afferrare un'arma per trucidare i compagni di scuola. Nelle sue allucinazioni, Breivik si vedeva in veste di cavaliere a sgominare i nemici dell'Occidente. Merah sognava di essere uno jihadista. E chissà che cosa pensavano di fare gli autori del massacro della Columbine. I motivi per cui tutti costoro hanno ucciso affondano nella loro stessa mente e non possono essere attribuiti ai materiali o alle ideologie che li hanno ispirati. L'incitamento all'odio e alla violenza svolge un ruolo non marginale, ma farne la principale motivazione delle azioni di individui come Breivik e Merah potrebbe trarci in inganno. La soluzione del problema non sta certo nella censura. In Germania non si fermano i neonazisti vietando il Mein Kampf di Hitler o l'esibizione di simboli nazisti. Per eliminare stupratori e giovani assassini non basta vietare la pornografia sadica e violenta. Un futuro Anders Breivik non verrà fermato impedendo ai demagoghi di farneticare contro i musulmani e la società multietnica. E vietare l'entrata in Francia agli imam radicali non fermerà un nuovo Merah dal progettare e mettere in atto sanguinose stragi.
Piuttosto, paragonare le azioni brutali di Merah all'11 settembre, come ha fatto Sarkozy, è conferire fin troppo onore all'assassino. Non esistono prove che faccia parte di un qualunque gruppo organizzato o che rappresenti le avanguardie di un movimento rivoluzionario. Sfruttare il caso per rinfocolare i timori di una minaccia islamica contro la società sarà pure un espediente elettorale per Sarkozy, ma far leva sulla paura non è mai il sistema migliore per evitare violenze future. Anzi, serve solo ad alimentarle.
(traduzione di Rita Baldassarre)

l’Unità 3.4.12
Ecco come la destra ha «regalato» le donne al presidente Obama
Per i sondaggi è grazie al voto femminile se Barack stacca Romney di 9 punti
Anche a causa della crociata dei repubblicani su aborto e contraccezione
di Marina Mastroluca


Votate quell’altro». Quando Mitt Romney ha suggerito agli elettori di rivolgersi altrove se volevano che lo Stato garantisse contraccezione e pianificazione familiare, forse non pensava che sarebbe stato preso alla lettera. Impelagato in interminabili primarie, l’ex governatore del Massachusetts ha perso strada facendo la patina di moderato per insidiare i candidati alla sua destra. E con loro ha finito per impantanarsi nelle sabbie mobili di quella che dai blog ai media ufficiali magari solo per confutarla viene definita come la guerra repubblicana contro le donne.
L’ultimo sondaggio Usa Today / Gallup è una doccia fredda per i conservatori. Obama è in vantaggio di 9 punti su Romney - 51 a 42 - in dodici swing States, gli Stati in bilico che possono decidere le sorti delle elezioni. A fare la differenza sono le donne, che al 60% scelgono il presidente in carica: tra l’elettorato femminile la distanza tra Obama e il front-runner repubblicano si allunga a 18 punti percentuali. In poche settimane Romney ha bruciato il suo vantaggio, per finire nelle retrovie. E persino gli analisti del suo partito puntano l’indice sulle primarie scivolate sul terreno di aborto, contraccezione e diritti delle donne. Con effetti devastanti, almeno nel breve periodo.
«Come ha fatto il Grand Old Party a mettersi nella situazione di chi allontana le donne che compongono più della metà degli elettori, specie le donne indipendenti che sono una parte decisiva per le elezioni?». Se lo chiede Richard Klass sull’Huffington Post, e non è il solo. Spunti non mancano per capire come i repubblicani abbiano dissipato il patrimonio politico del voto femminile che nel 2010 è stato determinante per vincere le elezioni di mezzo termine, così come nel 2008 aveva portato Obama alla Casa Bianca (con il 56% delle preferenze al femminile).
Tendenzialmente più vicine ai democratici che ai repubblicani, al contrario degli uomini, due anni fa le donne avevano mostrato orecchie sensibili alla crisi e alle ricette repubblicane. Ma non pensavano evidentemente di aver autorizzato una crociata. Non sono solo le battute di Romney sulla contraccezione, gli anatemi di Rick Santorum sull’aborto e sulle mamme che lavorano, ma una marea montante su tutto quanto riguarda la salute riproduttiva e inevitabilmente i diritti delle donne. Il Guttmacher Institute ha contabilizzato questa febbrile attività: nel 2011 ci sono stati 1100 provvedimenti in materia in 50 Stati, 135 sono già entrati in vigore. Per il 68 per cento riguardano restrizioni in materia di aborto. In Mississippi solo grazie al voto degli elettori è stato respinto il tentativo di definire l’embrione come persona legalmente protetta dal momento del concepimento, primo passo verso la messa al bando dell’interruzione di gravidanza. Fallito il voto, è stata comunque chiusa l’unica clinica che praticava aborti. In Texas è stato imposto l’obbligo di un periodo di riflessione, cinque Stati hanno reso obbligatoria un’ecografia pre-intervento, due avrebbero voluto costringere le donne a guardarla ma la norma è al momento bloccata. In Virginia si è tentato di imporre alle donne un’ecografia transvaginale prima dell’aborto, con il solo scopo di infliggere un’umiliazione supplementare tanto «una penetrazione ci deve pur essere stata» data la gravidanza, come ha argomentato qualche repubblicano. La legge è stata bloccata solo grazie all’indignazione dell’opinione pubblica, ma sono state adottate norme che richiedono requisiti inarrivabili per le cliniche che praticano aborti, con l’obiettivo dichiarato di rendere l’impresa più difficile se non impossibile.
E ancora: in Tennessee è stata proposta la schedatura dei medici abortisti, in New Hampshire approvata la norma che obbliga i medici ad avvertire le donne della correlazione inesistente tra aborto e cancro al seno. In 18 Stati sono stati tagliati i finanziamenti ai servizi di pianificazione familiare. Neanche un dollaro in più per l’educazione sessuale, con l’eccezione di Mississippi e South Dakota dove si punta all’astinenza. In Georgia giace una legge che ambisce a sostituire il termine «vittima» con quello di «accusa» nei processi per stupro: una delicatezza giuridica che non si applica ad altri reati, siano rapina o frode.
Autorevoli esponenti repubblicani si sono fatti in quattro per fare a pezzi la riforma sanitaria di Obama in toto e in particolare sulla contraccezione. Hanno tentato di introdurre una scappatoia che consentisse a datori di lavoro e compagnie assicurative di rifiutarla «per ragioni morali e religiose», non accontentandosi dell’esclusione concessa alle sole istituzioni religiose da Obama. Sono finiti impallinati dai sondaggi: il 62% degli americani considera la contraccezione inerente alla salute della donna non alla religione, il 77% trova fuori luogo un dibattito nazionale in questi termini. Rush Limbaugh, l’arrabbiato commentatore radiofonico dell’ultradestra, ha dovuto rimangiarsi quel «puttana» sputato in faccia a Sandra Fluke, la studentessa che perorava la causa dei contraccettivi gratuiti.

l’Unità 3.4.12
Stupri e abusi, il terribile racconto dell’onorevole Gwen
«La prima volta mi hanno violentata per scommessa»
La deputata afro-americana rivela la sua storia di violenza e sopraffazione maschile in una intervista-shock
di Ma. M.


Gwen Moore sa di che cosa parla quando pronuncia la parola violenza. Quando chiede al Congresso di sbloccare i fondi per la legge che dal 1994 dà un rifugio alle donne stuprate e abusate, non riesce a non vedere se stessa. Non quella di adesso, una donna nera, madre single oggi nonna, arrivata con una gavetta impressionante a conquistarsi un posto a Washington. «La violenza domestica è stata un filo conduttore durante tutta la mia vita. Sono stata una ragazzina ripetutamente abusata e da adulta sono stata stuprata», ha raccontato pochi giorni fa, quando ha inutilmente chiesto un voto bipartisan su quella che è stata finora una legge condivisa. Perché «la violenza contro le donne in questo Paese non riguarda solo i democratici ma anche i repubblicani. Non solo i ricchi o i poveri. Non conosce né genere, né razza».
La buona volontà non basta a starne fuori. Le cose non funzionano come ha suggerito il deputato repubblicano del Wisconsin, Don Pridemore, alle donne abusate in casa. «Se solo riuscissero a ritrovare le ragioni di quando si sono sposate, potrebbe aiutare». Non funziona così, Gwen lo sa. Lo sa da quando un familiare ha approfittato della sua innocenza. Sa che la prima volta che è stata stuprata è stato solo per scommessa: i compagni di classe avevano scommesso con uno di loro che non sarebbe riuscito a portarsela a letto. «Quando ha visto che stava per perdere la scommessa, mi ha stuprato», ha raccontato Moore al Daily Beast. Lei, una scommessa a vincere, ad ogni costo. Nessuno le ha detto che se l’era cercata solo perché è stata zitta, era solo un altro anello nella catena di violenze subite.
Ma è successo comunque, più tardi, quando da adulta la storia si è ripetuta. Figlia di un operaio e di un’insegnante, era riuscita a farsi strada attraverso il college e una sfilza di lavori strani per stare a galla con sua figlia. Pensava di essere arrivata quando è uscita finalmente dalla Marquette University. Non era Harvard, ma una scala per il futuro. Eletta prima all’assemblea del Wisconsin, poi la marcia per conquistare il Congresso. In mezzo, l’incontro con uomini violenti, che la trattavano come una cosa. Un nuovo stupro, lui in tribunale ha negato. «Si è difeso dicendo che non portavo biancheria e che avevo avuto un figlio fuori dal matrimonio. Il processo quel giorno l’hanno fatto a me», racconta. Una vita difficile, segnata dalla violenza «ed era prima del ‘94, quando non c’erano risorse» per le donne abusate.
Fino al 2005 la legge contro la violenza sulle donne è stata rifinanziata senza problemi. Quest’anno i repubblicani hanno fatto muro contro l’introduzione di tutele che riguardano anche omosessuali e donne immigrate: la considerano una trappola dei democratici per scaricare sugli avversari la responsabilità di un no in un anno elettorale. «I democratici hanno archittettato questa “guerra contro le donne” perché sanno che i repubblicani hanno avuto il voto femminile nel 2010. Stanno cercando di creare una distrazione dai problemi reali», così ha motivato il suo rifiuto Cathy McMorris Rogers, repubblicana di rango.
Una risposta che non basta a Gwen. «È spaventoso vedere il ritorno di vecchi costumi, o forse una loro mancanza, sui diritti delle donne dice -. Oggi ho delle nipoti. La più grande mi dice: “Nonna, ma davvero possono fare questo? Ci sono giovani donne che hanno paura del loro futuro e io ho paura per loro».

Corriere della Sera 3.4.12
Gli insorti di Budapest accusati di «fascismo»
Molti intellettuali avallarono le calunnie del Pci
di Paolo Mieli


I «fatti» sono noti. Nel 1956, a seguito del XX Congresso del Pcus, quello in cui Kruscëv denunciò i crimini di Stalin, nei Paesi dell'Europa orientale si ebbero una serie di piccole e grandi rivolte da parte di popoli che chiedevano libertà e democrazia. Il 23 ottobre si mosse l'Ungheria, con una gigantesca manifestazione a Budapest. L'Unione Sovietica reagì inviando i suoi carri armati. Si insediò un governo guidato dal comunista riformatore Imre Nagy. Ma i nuovi progetti di democratizzazione preoccuparono ancor più l'Urss, la quale il 4 novembre spedì l'Armata rossa a deporre Nagy (che due anni dopo verrà messo a morte) e a reprimere i moti. Il Partito comunista italiano — a dispetto di alcuni suoi intellettuali che solidarizzarono con gli insorti — non ebbe esitazione, per via della risolutezza in tal senso del segretario Palmiro Togliatti, ad appoggiare la scelta di Mosca. E bollò quelli che da allora furono definiti, con un eccesso di eufemismo, i «fatti di Ungheria» come un tentativo controrivoluzionario contrastato dall'«aiuto fraterno» dell'esercito che aveva sconfitto i nazisti. La parola «fatti» come sinonimo di «invasione» tornerà ancora più e più volte sulla stampa del Pci. Addirittura nel gennaio 1969 — quando il giovane Jan Palach si diede fuoco per attirare l'attenzione internazionale sul regime dispotico instauratosi in Cecoslovacchia a seguito dell'ingresso, il 21 agosto precedente, dei carri armati russi — l'«Unità», organo di un Pci che pure aveva espresso una cauta riprovazione per l'accaduto, scriverà che il ragazzo aveva voluto protestare «contro l'attuale situazione politica nel Paese, determinatasi dopo i fatti di agosto».
Tornando all'Ungheria, sotto il profilo storico non c'è molto di più da scoprire rispetto a quel che è già stato scritto — solo per citare alcuni autori — da Victor Sebestyen in Budapest 1956. La prima rivolta contro l'impero sovietico (Rizzoli); da Enzo Bettiza in 1956: Budapest, i giorni della rivoluzione (Mondadori); da Federigo Argentieri e Lorenzo Gianotti in L'ottobre ungherese (Valerio Levi editore); da Ferenc Fehér e Agnes Heller in Ungheria 1956 (SugarCo); da François Fejtö in Ungheria 1945-1957 (Einaudi). E, per ciò che riguarda le tensioni tra il Pci e i suoi uomini di cultura, da Giancarlo Pajetta in Le crisi che ho vissuto (Editori Riuniti); nel libro curato da Roberto Ruspanti Ungheria 1956. La cultura si interroga (Rubbettino); da Paolo Spriano in Le passioni di un decennio 1949-1956 (Garzanti) e da Giuseppe Vacca in Gli intellettuali di sinistra e la crisi del 1956 (Editori Riuniti).
O meglio, qualcosa meriterebbe di essere approfondito: ciò che ne scrissero giornali e periodici del Pci o ad esso riconducibili. Ed è questo il lavoro al quale si è accinto con grande scrupolo ed eccellente mestiere Alessandro Frigerio con un risultato che lascerà un segno: il libro, venuto fuori da questa ricerca, si intitola Budapest 1956. La macchina del fango. La stampa del Pci e la rivoluzione ungherese: un caso esemplare di disinformazione, ed è edito da Lindau. Quella ungherese è stata infatti una «rivoluzione calunniata» (così la definì già nel 1996 Federigo Argentieri, in un volumetto che divenne un piccolo caso dal momento che fu pubblicato dall'Arca, società editrice dell'«Unità»). Ed è di grande interesse rivisitare merito e metodo di quelle lontane diffamazioni. L'intervento dei carri armati russi, scrive Frigerio, fu difeso a spada tratta grazie alla «volontaria complicità» della maggior parte del mondo culturale che gravitava intorno al Pci. Difeso «anche quando era ormai evidente che l'esercito sovietico stava schiacciando una rivoluzione di popolo in cui l'unica vera contaminazione non era rappresentata da fantomatiche forze restauratrici, bensì dai consigli operai».
Fino al 23 ottobre, il giorno della grande manifestazione a Budapest, la percezione dell'«Unità» di quel che stava accadendo in Ungheria fu (o volle essere) nulla. Quello stesso 23 ottobre un breve articolo in pagina interna dava notizia in modo anodino di una discussione all'università di Szeged e veniva segnalato un dibattito «vivace» tra gli studenti al Politecnico della capitale ungherese. Il 24, tra le quattro edizioni dell'«Unità» (romana, milanese, torinese e genovese) quella più decisa nel lanciare l'anatema contro l'inizio della rivolta fu «l'Unità» di Milano, diretta da Davide Lajolo, con il titolo «Tentativo reazionario di distorcere il processo di democratizzazione. Scontri nelle vie di Budapest provocati da gruppi armati». L'edizione torinese, diretta da Luciano Barca, fu molto più cauta. Un articolo di Adriana Castellani raccontava di giovani «scalmanati» e «facinorosi» che avevano dato l'assalto alla sede della radio di Stato, fronteggiati da poliziotti dal «contegno calmo». Quel giorno, il 24, ci fu l'ingresso dei carri armati russi e, l'indomani, «l'Unità» di Milano titolò: «Il governo ha fatto appello al popolo contro il tentativo di una restaurazione reazionaria. I controrivoluzionari si arrendono a Budapest dopo i sanguinosi attacchi al potere socialista». Stavolta l'edizione torinese fece un titolo ugualmente allarmato. Già quel giorno comparve l'evocazione dell'ammiraglio Miklos Horthy, che nel 1919 aveva travolto il regime comunista di Béla Kun, e aveva poi governato l'Ungheria tra le due guerre, per schierarsi infine a fianco dell'Italia fascista e della Germania nazista. All'eredità di Horthy, secondo il quotidiano comunista che di ciò non portava nessuna prova (e non avrebbe potuto dal momento che di evidenze non ce n'era neanche una), avrebbero fatto riferimento gli studenti in rivolta.
Il direttore dell'«Unità» di Roma, Pietro Ingrao ammetteva la possibilità del dubbio («Domani si potrà discutere e anche differenziarsi sui modi e sui tempi della rivoluzione socialista»), ma aggiungeva che «quando crepitano le armi dei controrivoluzionari, si sta da una parte o dall'altra della barricata»: in poche parole che bisognava schierarsi a favore dell'invasore russo. Ingrao, in seguito, tornerà su quell'articolo: nel 1986 (trent'anni dopo) concederà che tra coloro che si opponevano all'Urss, insieme ai reazionari, c'erano persone rimaste «fedeli agli ideali socialisti»; nel 2001 definirà «pessimo» (e qui di anni ne erano trascorsi 45) quel suo articolo di fondo del 1956.
Ma l'editoriale di Ingrao non fu la cosa peggiore pubblicata sulla stampa comunista in quella circostanza. Le cronache del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, scritte da Praga, erano firmate da Orfeo Vangelista, il quale sostenne subito che il movimento di rivolta rivelava «una chiara impronta provocatoria» e che dietro quelle masse in ebollizione si intravedeva nitidamente la regia di «forze non solo interne ma straniere». Niente di questo, sia detto per inciso, fu poi provato. Vangelista scrisse il primo giorno (quando ancora si pensava che la rivolta non fosse contro il partito comunista ungherese) che i manifestanti del 23 ottobre erano stati centomila; il giorno successivo sostenne che erano stati diecimila. Poi iniziò a parlare dei «massacri di comunisti»: «gruppi di squadristi», scriveva, «sono penetrati nelle abitazioni dei dirigenti sindacali e di partito e li hanno tirati fuori trucidandoli davanti alle porte di casa». Nessun cenno agli spari sulla folla da parte della polizia politica. Secondo «l'Unità», già la sera del 24 ottobre l'ordine era stato ristabilito a Budapest e nella titolazione di prima pagina del 25 — a differenza di quel che già era pubblicato sui giornali di tutto il mondo — non si faceva menzione dell'intervento sovietico. Mentre veniva costituito il governo presieduto da Imre Nagy, «l'Unità» sentenziava: «Il fatto che la sommossa controrivoluzionaria sia stata sconfitta, non può che essere salutato da ogni democratico sincero». Non si parlava sul giornale comunista né dei «consigli operai» né del fatto che alcuni reparti dell'esercito si erano schierati a fianco dei manifestanti. In occasione dell'assalto alla sede della radio, il quotidiano del partito di Togliatti ometteva di menzionare le vittime provocate dalla polizia del regime. Tutti i morti venivano messi nel conto delle «sparatorie dei rivoltosi».
A questo punto si pone una domanda: era possibile, già in quei giorni, conoscere e capire quel che stava realmente accadendo in Ungheria? Sì, gran parte dei giornali anglosassoni e dei più importanti quotidiani italiani pubblicavano cronache sufficientemente obiettive. E anche il leader socialista Pietro Nenni (che, a seguito anche di quella vicenda, si stava riavvicinando al socialdemocratico Giuseppe Saragat) scriveva sull'«Avanti!» essere quello ungherese «un combattimento fratricida in cui la linea divisoria non passa tra partigiani e nemici del socialismo, ma ha trovato da una parte operai e studenti, i quali volevano sul serio la liberalizzazione, la democratizzazione degli istituti politici e della vita pubblica (e la purezza delle cui intenzioni non può essere offuscata dalla schiuma fascista che certamente s'è mescolata alla limpida corrente delle rivendicazioni popolari) e dall'altra un vecchio gruppo dirigente comunista, che ai suoi errori di direzione politica, ai suoi crimini, ha aggiunto l'appello insensato alle truppe sovietiche».
«L'Unità» evitò di attaccare Nenni, preferì prendersela con Saragat assimilandolo ai «cani arrabbiati» americani che «sognavano la bomba atomica sul Cremlino» e accusandolo di essere in preda a «un autentico rigurgito scelbiano» che lo aveva indotto a lanciare «oscure (ma non troppo) minacce contro i comunisti». A sistemare Nenni ci avrebbe pensato, nel mondo socialista, un autorevole italianista, Giuseppe Petronio, il quale, sulla rivista vicina al Psi «Mondo Operaio», perorò anche «la necessità ineluttabile, a un certo momento, della "rivoluzione", del "salto qualitativo" che porti, e non conta per quali vie, dal mondo borghese al mondo socialista». Una corrente filocomunista di dirigenti del Psi, che appoggiavano i carri armati sovietici (e che perciò furono detti «carristi»), si manifestò fin dall'inizio. Ma grande fu la sorpresa quando al loro fianco si schierò Sandro Pertini, il quale sostenne che in Ungheria i comunisti venivano «torturati, trucidati, impiccati», per poi giungere a questa conclusione: «Se tacessimo considerando questa bestiale reazione una logica conseguenza delle responsabilità dei dirigenti comunisti da noi tempestivamente denunciate, cesseremmo di essere socialisti, e diverremmo, sia pure inconsapevolmente, complici della reazione che in Ungheria tenta di riaffermare il suo antico potere». Pertini faceva poi appello alla «solidarietà di classe che ogni socialista deve sentire in ogni circostanza, ma in modo particolare quando sulla classe operaia sovrasta la tempesta, perché è troppo agevole essere con la classe operaia soltanto nelle giornate di sole».
Numerose furono le esagerazioni e (spesso) i veri e propri falsi. «L'Unità» diede notizia dell'assalto a «Szabad Nép», organo del partito comunista ungherese, nel corso del quale sarebbero stati uccisi «tutti i redattori» (in verità ci fu soltanto un morto, vittima di un colpo partito accidentalmente). Il quotidiano annunciava l'uccisione del campione di calcio Ferenc Puskas «caduto in combattimento contro gli insorti» (anche questa notizia si rivelò infondata). L'organo del Pci pubblicava in prima pagina una foto del capo della polizia di Mosonmagyarovar ricoverato in un ospedale dal quale, riferiva la didascalia, sarebbe stato successivamente prelevato per essere linciato (omettendo il particolare che quell'uomo due giorni prima aveva ordinato ai suoi di aprire il fuoco sulla folla). Si dava la notizia (non vera) che in Ungheria «avrebbero tentato di atterrare aerei provenienti dall'Occidente portanti armi per i rivoltosi». Anzi si specificava che «in parte sarebbero già atterrati in diverse località». Si parlava (Giuseppe Boffa, da Mosca) di migliaia di quadri del partito comunista ungherese «assassinati, squartati, impiccati, decapitati, bruciati vivi dalle squadre di rivoltosi più ferocemente oltranzisti e fascisti» (al processo contro Nagy, il partito comunista ungherese dirà ufficialmente che gli uccisi dai «controrivoluzionari» erano stati in tutto 234). Dell'odissea che condurrà Imre Nagy (sequestrato dai sovietici dopo la seconda invasione) al patibolo, l'«Unità» dipingerà un quadretto idilliaco: il deposto capo del governo e i suoi collaboratori erano «partiti in autobus per concedersi un periodo di riposo in Romania»; poi Nagy si era trovato in compagnia di amici «in un'amena località in Transilvania», e una persona di fiducia avrebbe telefonato per tranquillizzare i suoi familiari circa la sua «ottima sistemazione», il suo «buon umore», il «tempo magnifico dei Carpazi» e persino «la sua soddisfazione di essere lontano dagli avvenimenti ungheresi». E quando Nagy verrà ucciso, Luigi Pintor rimprovererà al socialdemocratico Paolo Rossi di aver manifestato il proprio cordoglio senza «dire una parola sui torturatori algerini» e ai democristiani, «soddisfatti che i crocefissi abbelliscano le galere spagnole», di essersi «sbracciati per l'esecuzione dei capi rivoltosi in Ungheria», creando così «un fronte politico con i fascisti repubblichini».
A differenza del modo di argomentare di dirigenti del Pci come Antonio Giolitti e Fabrizio Onofri, quanto meno dubbiosi nei confronti delle scelte compiute dal segretario del partito, la polemica dei seguaci di Togliatti fu bestiale. «Toni più pacati», registra Frigerio, furono quelli di Antonello Trombadori che, sul «Contemporaneo», esortò a tener presente che i dirigenti ungheresi avevano fatto ricorso a «metodi repressivi che arrivarono sino alla persecuzione di leali e illuminati combattenti per il socialismo». Così come il leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio — in seguito costretto all'autocritica — elogiò gli insorti e disse con chiarezza che nelle manifestazioni non c'erano affatto «forze di popolo che richiedono il regime di terrore fascista di Horthy». Le parole di Di Vittorio furono riportate da tutti i giornali, tranne «l'Unità». Sul quotidiano comunista, Alberto Jacoviello scrisse qualche iniziale reportage in cui trattava la rivolta d'Ungheria come un genuino movimento di popolo (Togliatti, per tutta risposta, gli rimproverò la frequentazione di troppi giornalisti «borghesi»). Su iniziativa di Carlo Muscetta, un gruppo di intellettuali (101) sottoscriveva un manifesto che, pur con toni giudicati non a torto da Frigerio «estremamente cauti, generici, rispettosi nei confronti del partito», esprimeva solidarietà agli insorti di Budapest: molti di loro, nei giorni successivi, furono costretti ad un pubblico pentimento per quel documento, peraltro anch'esso mai pubblicato dall'«Unità». Il direttore del giornale filocomunista «Paese Sera», Tomaso Smith, diede alle stampe le corrispondenze assai poco ortodosse di Giorgio Bontempi ed esponendosi in prima persona domandò: «Perché si parla di movimento controrivoluzionario quando l'intero popolo magiaro — lavoratori, contadini, studenti, soldati, intellettuali — è insorto in difesa del vero socialismo e della vera democrazia che esigono, sì, disciplina e consapevolezza, ma non comportano coercizioni e arbitrii?»
I grandi nomi della cultura, però, si schierarono tutti (o quasi) dalla parte di Togliatti. Concetto Marchesi: «Alla cagnara reazionaria, clericale e fascista che si è scatenata sui fatti di Ungheria non intendo associare la mia voce; se taluni comunisti lo hanno fatto, tanto peggio per loro e tanto meglio per il nostro partito». Lucio Lombardo Radice, con uno sperimentato artificio retorico, così si rivolse a un «professore universitario ungherese» che avversava gli insorti: «Compagno, oggi io non posso pronunciare per intero il tuo nome su queste colonne, sulle colonne dell'"Unità", potrebbe forse significare la tua condanna a morte da parte dei gruppi armati dell'estrema destra… non voglio essere io, io che oggi non penso che a te, fratello e compagno, a indicarti agli assassini». Augusto Monti, ricorrendo ad un altro artificio retorico, così proseguì: «Chissà che croce addosso anche a me, domani, se comparissero queste mie dichiarazioni e io fossi messo nel numero — picciol numero a quanto pare — di "coloro che giustificano l'intervento dell'Urss in Ungheria"; ma io, se accadrà, me ne riderò, parendomi assai più giusto e onesto stare oggi con questi pochi e non confondersi con quei molti». Poche righe dopo, Monti se la prenderà con «quei socialisti e perfin quei comunisti che uniscono le loro voci al coro dei muggiti borghesi». Ranuccio Bianchi Bandinelli farà valere l'assenza di prove documentarie, se non qualche «fotomontaggio», dei «massacri sovietici», mentre «i massacri anticomunisti sono stati documentati ampiamente da fotografie». Antonio Banfi accuserà Imre Nagy di essere rimasto inerme di fronte «alle violenze terroristiche scatenate dai rappresentanti del vecchio nazismo alimentato dalla tradizione feudale e clericale». Su «Vie Nuove», il dirigente del Pci Velio Spano ebbe l'idea di raccontare di (inesistenti) «teste di comunisti mozzate ed esposte come trofei sulle picche». E quando, dopo la seconda invasione sovietica, molti ungheresi cercarono di lasciare il Paese, «l'Unità» parlò di «una minoranza che, resasi colpevole di massacri o presa dal panico, cerca oggi di fuggire dall'Ungheria».
Possibile che nessuno si accorgesse dell'enormità di questi toni e di questi argomenti? Lo scrittore Carlo Cassola si allarmò per questo modo di «difendere» l'Urss e così scrisse ad Antonello Trombadori, in una lettera privata che sarebbe stata resa pubblica molti anni dopo da Paolo Spriano: «Vi rendete conto che siamo ormai alla svolta, al punto critico? Non credo che i dirigenti di un partito, i quali definiscono "bande armate controrivoluzionarie" i rivoltosi di Budapest, possano essere più creduti da nessuno… nessun governo che si metta contro quella che è l'evidente volontà del popolo ungherese, e tacci di fascisti gli operai, gli studenti e i soldati, può restare in piedi ventiquattr'ore; cos'hanno nel cervello Togliatti e compagni?». Sbagliava. Purtroppo. Allo stesso Trombadori scriverà Togliatti, per lamentarsi del fatto che i comunisti dell'Einaudi, con in testa Italo Calvino, avevano preso posizione contro l'invasione sovietica: «I controrivoluzionari della cellula Einaudi di Torino», li definirà il segretario del Pci. Nelle sue memorie Davide Lajolo, che in anni successivi dirà di aver nutrito qualche perplessità sulla linea scelta da Togliatti, racconterà che ogni mattina si affacciava alla porta della sua stanza Salvatore Quasimodo e gli diceva: «Tieni duro!».
Invano su «Mondo Operaio» — rivista dalle cui pagine Franco Fortini osò polemizzare direttamente con Togliatti — l'intellettuale magiaro Tibor Méray avvertiva: «Non uno degli scrittori deportati o internati è stato seguace del cardinale Mindszenty, non uno che sia un fascista, un legittimista, un horthysta». E infatti molti tra i leader della protesta avevano partecipato alla Resistenza e i più giovani erano operai iscritti al partito. Niente da fare. Particolare esecrazione è mostrata dall'«Unità» per i membri del Consiglio operaio in rivolta. Con un clamoroso capovolgimento, gli operai di Budapest («elementi declassati, divenuti operai negli ultimi anni», si minimizzava) che avevano aderito in massa alla rivoluzione erano accusati di aver spalancato le porte ai nemici di classe, e nel contempo venivano elogiati contadini e piccoli proprietari rimasti in disparte (anzi, secondo «l'Unità», erano stati «i primi ad invocare l'adozione di drastiche misure contro coloro che minacciavano di aprire la strada al ritorno del feudalesimo»). I giovani operai vengono definiti «giovinastri», «sfaccendati», reclutati da «ufficiali horthysti» in ragione del loro «primitivismo» e «infantilismo politico».
Stesso discorso vale per i loro coetanei italiani, studenti che «hanno disertato le aule per inscenare una manifestazione» unendosi ad «alcuni gruppi di persone estranee alla scuola». Il «Contemporaneo» parla di ragazzi tra i dodici e i quattordici anni «lasciati in libertà dai loro compiacenti presidi i quali tra un evviva e l'altro lanciato all'indirizzo dei lavoratori ungheresi, con manate sulle spalle, spinte e calci agli stinchi, esternavano la propria soddisfazione per aver potuto saltare un altro giorno di scuola». Il già citato Augusto Monti scriveva d'aver saputo che un gruppo di Civitavecchia aveva organizzato una «novella marcia su Roma» e ne traeva la conclusione che l'Ungheria «s'apprestava a essere la più vasta incubatrice d'un più vasto neofascismo non più italiano ma europeo». Sulla stessa lunghezza d'onda, il giornalista e scrittore Aldo De Jaco giurava di aver visto attorno alle manifestazioni di solidarietà all'Ungheria in lotta «i volti noti degli agenti in borghese, col manganello e la pistola nascosta sotto il vestito» impegnati a «far largo alla gente, fermare le macchine, far da maestri di scuola a questa impresa per ragazzi». Sicché il ricordo andava alla sua «trista stagione» di liceale durante il ventennio mussoliniano, «quando mi ritrovai un giorno a camminare con una grande bandiera con la croce uncinata davanti, uscita da chissà dove, e un tedesco sul marciapiede ci faceva le fotografie e un ragazzo agitato ci guidava» (episodio che, ad ogni evidenza, aveva lasciato una traccia per lui alquanto imbarazzante). Contro Jean Paul Sartre, che aveva osato manifestare dubbi sul comportamento sovietico, scendevano in campo Augusto Pancaldi («Sartre non si differenzia più dalla massa urlante che invoca la caccia al comunista»), Carlo Salinari e Michele Rago i quali sostenevano, non si sa sulla base di quale elemento, che fin dalle prime manifestazioni (come quella silenziosa del 6 ottobre in occasione dei funerali postumi dell'ex ministro dell'Interno Laszlo Rajk, impiccato nel 1949) si potevano individuare personaggi «coscientemente controrivoluzionari». Adesso, nel 1956, «l'Unità» definiva Rajk come «martire». Quella definizione di «martire» tornerà sul giornale comunista nel 1989 in occasione delle esequie postume di Nagy (31 anni dopo la sua impiccagione), onoranze funebri alle quali parteciperà l'ultimo segretario del Pci, Achille Occhetto. Giusto in tempo: mancavano poche settimane alla caduta del muro.
paolo.mieli@rcs.it

Corriere della Sera 3.4.12
Il triangolo amoroso di Gramsci, conteso tra le sorelle Schucht
di Antonio Carioti


È un piccolo giallo sentimentale: la soluzione era davanti agli occhi di tutti, ma camuffata in modo tale che per lunghi decenni nessuno se n'è accorto. Si parla di Antonio Gramsci e dei suoi rapporti con le sorelle Schucht. Il dirigente comunista sposò Giulia, la più bella, dalla quale ebbe due figli. Ma prima, qui è la novità, aveva avuto una relazione sentimentale intensa con la più anziana Eugenia, conosciuta in un sanatorio russo nell'estate del 1922.
Le prove sono affiorate durante il lavoro collettivo di preparazione della edizione nazionale delle opere di Gramsci, che comporta un attento riesame delle fonti originali. Ne riferisce la studiosa Maria Luisa Righi in un saggio sul fascicolo uscito in questi giorni di «Studi Storici», rivista della Fondazione Istituto Gramsci. Innanzitutto risulta errata la datazione di quella che finora era stata ritenuta la prima lettera di Antonio a Giulia Schucht, già trepidante d'interesse per la ragazza: fu spedita in agosto, come risulta dal testo, ma non nel 1922 — i due si conobbero nel settembre di quell'anno — bensì nel 1923. Inoltre due lettere di Gramsci datate 13 febbraio 1923, una formale e l'altra di carattere amoroso, non possono essere state spedite entrambe a Giulia, anche perché quella romantica fa riferimento a problemi di salute che la più giovane Schucht all'epoca non aveva. Ne soffriva invece la sorella Eugenia, che appare quindi la vera destinataria di ciò che Antonio chiama «il mio amore» e di frasi del tipo: «Ci vogliamo bene e questa è la più bella e più grande e più forte ragione del mondo».
Nessuna delle lettere chiama l'interlocutrice per nome, ma gli elementi filologici evidenziati da Maria Luisa Righi non lasciano dubbi. E inducono a concludere con ragionevole certezza che un'altra appassionata lettera di Gramsci (senza data ma risalente al gennaio 1923), in cui l'autore mostra rammarico per aver «fatto del male» alla donna cui si rivolge e le chiede di aiutarlo a superare «qualche ferita che sanguina, fin da quando ero bambino», fosse diretta non a Giulia, come si riteneva, ma a Eugenia. Lo stesso vale per una terza missiva, databile tra febbraio e marzo del 1923.
Antonio era giunto in Russia nel giugno 1922, ma aveva presto accusato forti malesseri, per cui era finito nello stesso sanatorio dove era ricoverata Eugenia, che conosceva bene la lingua italiana. Qui era nato il loro amore, durato probabilmente fino alla primavera dell'anno successivo. Poi però Gramsci aveva provato una crescente attrazione per Giulia, incontrata tramite la sorella: la relazione tra i due sbocciò nell'autunno del 1923 e nell'agosto 1924 nacque Delio, il loro primo figlio.
«Tutto ciò spiega il successivo comportamento di Eugenia», dichiara al «Corriere» Maria Luisa Righi. Per esempio si faceva chiamare «mamma» dal piccolo Delio. E quando tutti si trasferirono per qualche tempo in Italia, dove viveva Tania, altra sorella Schucht, Eugenia non volle che i due sposi andassero ad abitare insieme. «Finora si è ritenuto che Eugenia fosse segretamente innamorata di Antonio e gelosa di Giulia, invece provava il risentimento tipico di un'amante tradita», nota l'autrice del saggio.
D'altronde è significativo che le lettere incriminate rimangano a lungo ignote e vengano alla luce solo nel 1962 quando Eugenia e Giulia le consegnarono al segretario del Pci Palmiro Togliatti, sostenendo che Antonio le aveva scritte alla futura moglie. Viene da chiedersi però perché Eugenia non le tenne per sé. «Non possiamo sapere — risponde Maria Luisa Righi — quali meccanismi psicologici siano scattati in lei. Certo non voleva che la sua delusione amorosa fosse svelata, ma al tempo stesso forse desiderava che quelle parole, così belle e appassionate, fossero conosciute. Trovò così una soluzione ingegnosa, che ha consentito al suo segreto di resistere fino ad oggi».

Corriere della Sera 3.4.12
Sul web il Museo dei musei
Google allarga la piattaforma d'arte da visitare online
di Serena Danna


Che a Mountain View ci sia una passione per l'arte è intuibile dalla cura con cui, ogni volta che c'è un avvenimento speciale, viene ridisegnato il logo di Google (i cosiddetti Doodle). Certo, tra un vezzo e un progetto di democratizzazione della fruizione artistica ci passa un mondo, eppure il colosso web dovrebbe averci abituati alle grandi imprese. Per questo motivo nessuno si stupirà quando oggi, contemporaneamente in decine di Paesi, l'azienda lancerà la seconda fase del Google Art Project: il sito, partito nel febbraio del 2011, che propone opere d'arte e visite virtuali nei musei. Grazie alle nuove partnership si passa dai 17 musei iniziali a 151 e da 9 a 40 Paesi coinvolti.
«Nella prima fase avevamo solo istituzioni europee e americane — racconta Amit Sood, responsabile dell'Art Project —, il nostro sogno era coinvolgere realtà lontane dall'Occidente». Obiettivo raggiunto: tra i nuovi templi dell'arte visitabili online ci sono quello dell'Arte Islamica in Qatar, il Museu de Arte Moderna di San Paolo e la National Gallery of Modern Art di Delhi. «Sono cresciuto in India — ricorda Sood —, lontanissimo dalle grandi realtà culturali europee. Google Art Project è pensato per tutte le persone che, come me da bambino, sognavano i musei come luoghi irraggiungibili».
Alla tecnologia Street View (che fornisce viste panoramiche a 360 gradi in orizzontale e 290 gradi in verticale), si aggiunge adesso la possibilità di navigare tra le 30 mila opere disponibili: gli utenti possono filtrare il nome dell'artista, opera, museo, Paese, collezione ed epoca.
Le foto sono tutte in alta risoluzione, ma alcuni musei hanno fornito un'immagine con risoluzione Gigapixel, che consente di studiare i dettagli delle singole opere: i fregi dell'Acropoli di Atene risalenti al 440 a.C., le opere giapponesi del XVI secolo, la Pietra del Sole azteca del Messico e la street art brasiliana del duo Os Gêmeos. Ai musei si aggiungono istituzioni non legate al mondo della cultura in senso stretto, ma che vantano importanti collezioni artistiche: a fare da apripista c'è la Casa Bianca, che apre agli utenti il mitico Studio Ovale. «Il nostro obiettivo — continua Sood — è coinvolgere sempre di più istituzioni o palazzi storici che vogliano condividere il loro patrimonio attraverso il web».
Da Mountain View assicurano di aver risolto i difetti di usability del sito segnalati da alcuni blogger al lancio dell'Art Project. È stata migliorata la funzione «galleria», che permette agli utenti di selezionare singole opere e creare collezioni personalizzate. Certo, essere tutti piccoli Gagosian virtuali è un'idea seducente, ma la rivoluzione più interessante riguarda la svolta «social» del sito: è infatti possibile commentare e condividere le opere con gli amici via social network. «Gli studiosi di arte di tutto il mondo, le scuole e anche i semplici appassionati — spiega Sood — potranno lavorare insieme sulle opere».
Peccato che su tablet il sito sia ancora visibile solo su piattaforma Android (quella Google), ma giurano da Mountain View che sarà presto disponibile anche la versione per iPad.
Il manager indiano racconta: «Il progetto è nato nel 2010, si utilizzava il 20 per cento di tempo libero che avevamo: lavoravamo tutti in diversi settori dell'azienda, in comune avevamo solo la passione per l'arte e il desiderio di utilizzare la tecnologia per renderla più accessibile». A partire da una domanda: perché socializzare la musica e non le opere d'arte?
In 18 mesi, un ritaglio di tempo utopico è diventato un lavoro a tempo pieno. «Noi offriamo ai giovani una maniera divertente per imparare — continua Sood — e ai musei una piattaforma unica per collaborare tra loro come fossero un'associazione».
Google Art Project fa parte di una serie di progetti aziendali, non a scopo di lucro, legati al mondo culturale — dalla digitalizzazione dell'archivio di Nelson Mandela alla ricostruzione in 3D delle città d'arte. Quest'anno da interventi occasionali si è passati all'apertura di un centro di ricerca ad hoc: «La tecnologia può aiutare a preservare la storia — spiega il responsabile del centro Nelson Mattos —, a comunicare velocemente e ampiamente i valori culturali, sociali, politici legati alle opere».
Democratizzazione della cultura o un'intelligente operazione di soft power per consolidare l'egemonia online di Google? Amit Sood sorride: «Sono progetti educativi, per fare profitto e proseliti utilizziamo altri mezzi».
Impossibile dargli torto.

Repubblica 3.4.12
La corsa dei padri al test del Dna sui figli
"Ditemi se questo è mio figlio" corsa dei papà al test fai-da-te
Boom di esami del Dna. E in un caso su cinque il genitore è un altro
di Fabio Tonacci


Solo nei centri accreditati ne sono stati fatti migliaia senza un ordine del giudice: +15% nel 2011
La risposta del laboratorio arriva in meno di una settimana e il risultato è affidabile al 100 per cento

Non si riesce nemmeno a immaginare l´amarezza di quel professore 51enne di Padova che con un test di paternità comprato per gioco su Internet ha scoperto che i due figli non erano biologicamente suoi. Non solo, erano di due diversi papà. Lo sfortunato fa parte di quel gruppo sempre più nutrito di padri che si rivolge a un laboratorio genetico.
Cerca la risposta al più atavico dei dubbi: «È veramente mio figlio?». In Italia nel 2011 solo nei laboratori accreditati sono stati eseguiti 3600 test di paternità "fai da te", ossia senza un ordine motivato del giudice. Chiesti e ottenuti per pura curiosità. Sono aumentati del 15 per cento rispetto al 2010 grazie al moltiplicarsi dell´offerta in rete, dove spuntano decine e decine di strutture più o meno accreditate. E la corsa al test del Dna come corollario regala ai mariti anche un´arma diabolica per scoprire l´infedeltà. Basta un mozzicone di sigaretta o un capello sospetto, e il tradimento può essere scoperto.
Fare un´analisi genetica è diventato clamorosamente semplice. Ci sono multinazionali come la tedesca Medigenomix o la bolognese NGB Genetics che vendono online il test di paternità informativo (da non confondere con quello di genetica prenatale, che si fa a scopi medici, o parentale per stabilre la fratellanza). Il prezzo varia da 300 a 600 euro. Arriva a casa il kit con due tamponi da strusciare all´interno della guancia dei soggetti, padre e figlio, e da inviare al laboratorio in una busta chiusa correlata dal consenso scritto di entrambi. In 4-5 giorni si ha la risposta, con un´affidabilità del risultato praticamente del cento per cento.
E qui arrivano le sorprese, perché in due casi su dieci quel timore atroce già ben sintetizzato dai latini con la frase "mater semper certa est, pater numquam" si conferma reale: non esiste legame biologico, la mamma aveva un segreto. «La percentuale di esito negativo è alta - spiega Matteo Ercolin, responsabile per l´Italia della Medigenomix - perché chi fa il test ha già un sospetto forte. Da noi vengono papà non più giovani o perché la coppia è andata in crisi o perché vogliono un certificato di paternità da allegare al testamento, per evitare controversie con l´eredità. A volte vengono i figli, di solito intorno ai 30 anni». C´è anche una quota pari al 20 per cento di extracomunitari a cui il certificato serve per il ricongiungimento familiare.
Su Internet però si può trovare di tutto. Accanto ad aziende con laboratori certificati Iso 17025 come la EasyDna, colosso internazionale del settore, ci sono sedicenti centri medici che promettono test genetici al prezzo inverosimilmente low cost di 90-100 euro. Quando va bene sono società che fungono da intermediarie, altrimenti si cade nella truffa. «Non è tanto alla qualità che bisogna stare attenti - spiega Giovanni Neri, presidente della Società italiana di genetica umana - quanto all´interpretazione dei risultati. L´esito di un test del Dna dovrebbe essere spiegato da un genetista medico. Non so quante di queste società online abbiano strutture serie per analizzare i campioni».
E quando i reperti inviati sono "rubati", cioè sono mozziconi di sigaretta, slip, lenzuola, stuzzicadenti o altro (il 2% dei test complessivi), l´intenzione è quella di scoprire un tradimento in atto. I laboratori possono stabilire se il Dna trovato su un reperto appartiene a chi l´ha portato, oppure a un terzo soggetto, di cui però al massimo viene comunicato il sesso. Senza consenso scritto non si possono fare confronti, ma c´è chi aggira il divieto e pur di incassare si presta a paragoni illegali tra campioni. Una possibilità che porta agli eccessi. Come racconta la storia di quel signore che si è presentato in un laboratorio a Roma con l´intero sedile dell´auto della moglie, su cui aveva trovato una macchia sospetta. Era gelato, per la cronaca.

Repubblica 3.4.12
Quel virus del dubbio che ha contagiato gli uomini
di Michela Marzano


Di fiducia ce n´è veramente poca in questo momento. Non solo nei confronti della politica e dell´economia, ma anche all´interno delle coppie. Come se il virus del dubbio avesse contagiato veramente tutti, soprattutto gli uomini. Che ormai non sopportano più l´idea di essere stati traditi. E allora cercano in tutti i modi di rassicurarsi. Spiano, controllano, verificano. Fino a quest´assurda moda dei test del Dna per determinare con certezza la propria paternità. Come se essere padri si limitasse a trasmettere un pezzetto di codice genetico. Come se la fiducia, per esistere, avesse bisogno di un´accumulazione di prove irrefutabili…Peccato che siano proprio le persone in cui abbiamo veramente fiducia che hanno poi la possibilità di tradirci. E che fedeltà e tradimento vadano spesso di pari passo. Come spiega il sociologo Georg Simmel, la fiducia è come l´amore: è sempre e solo una "scommessa"; non può che essere un "salto nel buio". È per questo che, in amore, si è vulnerabili. Ci si aspettano tante cose, talvolta "tutto". E che il pensiero del tradimento è quasi intollerabile. Nessun essere umano, però, è affidabile al cento per cento. Chi lo pretende mente, a se stesso o agli altri. Perché il desiderio evolve e si trasforma. E forse l´unico modo per tenerlo acceso è quello di non cedere al fascino discreto del dubbio. Shakespeare lo aveva già detto parlando di Otello: le certezze non esistono e, quando le si cerca in modo ossessivo, finiscono solo col produrre una tragedia.

Repubblica Salute 3.4.12
Autismo, terapie senza dogmi
di Guglielmo Pepe


Nell´approccio medico biologico e farmacologico si può trovare una cura che, dopo la sperimentazione, sia efficace per una determinata malattia. Spesso le opzioni terapeutiche sono più di una. A maggior ragione appare improbabile che nel campo dei disturbi intellettivi, cognitivi, affettivi, vi possa essere un´unica terapia. Invece proprio questo sta avvenendo con le linee guida sul "trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti", emanate dall´Istituto superiore di Sanità, che indicano come intervento psicologico valido solo quello cognitivo comportamentale. La decisione condizionerà il lavoro dei centri di riabilitazione, che dovranno adeguarsi. Non essendo un esperto, non posso dire quale sia la cura migliore. Però, in occasione della Giornata mondiale per l´autismo, si sono moltiplicate le prese di posizione contro la scelta compiuta. Studiosi, molte associazioni e parlamentari di vari partiti domandano: se si adottano delle linee guida, si può al tempo stesso cancellare la ricerca e dimenticare gli altri studi di alto livello? E da quando in medicina si impone il pensiero unico, il dogma?

Repubblica Salute 3.4.12
Psicosi
Riconoscerla entro i 5 anni per evitare i danni più gravi
di Francesco Cro


Discussi a Verona i risultati dello studio su 117 Centri di salute mentale: "La preparazione del personale troppo spesso è carente". Le "buone pratiche" suggeriscono l´approccio integrato, informazioni e psicoterapie anche familiari

I disturbi psicotici sono le malattie mentali più severe e disabilitanti. I danni più gravi dal punto di vista clinico e sociale si instaurano entro i primi cinque anni di malattia; sono quindi di cruciale importanza un tempestivo riconoscimento di queste condizioni e un intervento terapeutico-riabilitativo quanto più precoce possibile. Numerosi dati dimostrano però che in Italia (come in molti altri Paesi) la competenza degli operatori dei servizi di salute mentale al riguardo è spesso carente; di conseguenza, raramente vengono offerte ai pazienti e alle loro famiglie le strategie terapeutiche migliori (trattamenti farmacologici e psicosociali integrati e effettuati in un ambito multidisciplinare; psicoterapie e interventi di informazione e sostegno alle famiglie). Il programma di ricerca Get Up (Genetics Endophenotypes and Treatment: Understanding early Psychosis), durato tre anni e finanziato dal ministero della Salute e coordinato da Mirella Ruggeri, docente di psichiatria presso l´università di Verona, ha analizzato proprio i trattamenti offerti dai Centri di Salute Mentale (Csm) italiani, allo scopo di approntare un modello di intervento efficace ed applicabile nelle diverse realtà. Coinvolti oltre 300 professionisti e circa 600 pazienti di 117 Csm (Veneto, Emilia-Romagna e nelle province di Bolzano, Milano e Firenze). I risultati, presentati di recente a Verona, segnalano che, nonostante la maggior parte dei pazienti trattati ottenga una remissione dei sintomi, solo una parte di essi raggiunge un soddisfacente livello di benessere. L´obiettivo resta, dunque, quello di individuare le "buone pratiche" per offrire servizi e trattamenti (individuali e familiari) per migliorare la qualità della vita.
* Psichiatra, Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, Viterbo

Repubblica 3.4.12
Studio tedesco su 127 giovani a rischio: niente farmaci né solo supporto psicologico
Sintomi e primo episodio, cura efficace se integrata
Una intervista strutturata per individuare precocemente i più "esposti"
di Francesco Bottaccioli


Recentemente sul British Journal of Psychiatry un gruppo di psichiatri tedeschi dell´università di Colonia ha pubblicato i risultati di uno studio randomizzato controllato su 127 giovani (età media 25 anni) che dimostra l´efficacia di un intervento psicologico integrato nel prevenire il manifestarsi del primo episodio psicotico in persone a rischio.
È davvero una gran bella notizia perché finalmente si intravede una strada efficace nel contrasto dei disordini psicotici che negli Stati Uniti hanno un costo annuale per la società di 63 miliardi di dollari e che in Europa, secondo l´European Brain Council, nel 2010 hanno toccato i 94 miliardi di euro tra costi diretti e indiretti.
Lo studio tedesco ha paragonato un trattamento psicologico integrato senza uso di farmaci con un trattamento di semplice supporto psicologico (counselling). Al controllo dopo 24 mesi, 17 dei 127 hanno sviluppato un episodio psicotico, di questi 13 erano del gruppo del counselling, tre volte di più del gruppo del trattamento integrato, che ha quindi avuto un tasso di conversione del 6,3% contro il 20%.
Ma come sono stati individuati questi giovani a rischio e in che consiste il trattamento integrato?
Sono diversi i gruppi di ricerca nel mondo, tra cui il Centro per l´individuazione precoce della psicosi dell´ospedale milanese Niguarda, che da anni lavorano alla codificazione dei sintomi che possono, nel tempo, dare origine al primo episodio psicotico e poi al dispiegarsi dei disordini psicotici tra cui innanzitutto la schizofrenia nelle sue diverse manifestazioni. Gli psichiatri tedeschi hanno stilato una lunga lista di quelli che hanno chiamato "sintomi di base", che riguardano diversi aspetti relativi al pensiero (magari con evidenti difficoltà scolastiche), a fenomeni transitori di derealizzazione (ottundimento della percezione della realtà), a disturbi sensoriali (vista e udito), alla tendenza all´isolamento, all´apatia. Per identificare le persone a rischio ci sono vari strumenti tra cui una "Intervista strutturata" elaborata dal gruppo di McGlashan dell´università del New Haven. Il trattamento psicologico integrato, nello studio tedesco, è consistito nella combinazione di una psicoterapia individuale cognitivo comportamentale (25 sedute), di incontri di gruppo di apprendimento di abilità sociali (15 sedute), di un training cognitivo realizzato con programmi computerizzati per migliorare attenzione, vigilanza, memoria (12 sedute), di incontri educazionali con le famiglie (3 sedute).
Infine occorre ricordare che altre ricerche sono in sviluppo, per esempio sull´alimentazione, come ho avuto modo di segnalare (vedi R2 Salute del 23.02.10), con promettenti risultati sull´uso degli acidi grassi omega-3. Insomma si cerca finalmente di vedere la persona nella sua interezza e superare la "schizofrenia della cura", che ha separato la psichiatria dalla psicologia ed entrambe dalla medicina, con risultati finora davvero poco esaltanti sia nella prevenzione e cura della malattia sia nella salute di queste persone, la cui vita media è di 56 anni.
* Presidente onorario società Neuropsicoendocrinoimmunologia

Repubblica Salute 3.4.12
Turismo procreativo, nella metà dei casi non è per i divieti
Presentati i nuovi dati dell’Osservatorio tra le quattro e le otto mila le coppie che si sono rivolte ai centri esteri nello scorso anno
Ancora pochi sanno che è consentita di nuovo la diagnosi preimpianto per malattie genetiche
di Elvira Naselli


Si continua ad andare all´estero per tentare di avere un figlio con la procreazione assistita (Pma). Quattromila coppie nel 2011 - ma è una cifra che secondo il ginecologo Carlo Flamigni potrebbe anche essere doppia - hanno varcato la frontiera per affrontare il travagliato percorso della Pma. Quel che è strano, però, è che soltanto la metà delle coppie è andata all´estero per la donazione di spermatozoi od ovociti, pratica vietata in Italia. Le altre donne sono partite per sottoporsi a trattamenti che avrebbero potuto fare qui. Con costi, disagi e incomprensioni certamente minori. Fanno eccezione i casi di maternità surrogata, una trentina quelli accertati. Qui, oltre all´aggiramento del divieto nazionale ci sono problemi legali al rientro, con un riconoscimento non scontato da parte dello Stato del certificato di nascita e dell´attestazione di genitorialità. Se il riconoscimento non arriva (ed è capitato) la coppia è accusata di alterazione dello stato di nascita, reato punito con la reclusione da 3 a 10 anni.
I dati sono quelli che, per il quarto anno, mette insieme l´Osservatorio del turismo procreativo. Con qualche curiosità. «Quest´anno su 90 centri esteri contattati - ragiona Andrea Borini, presidente dell´Osservatorio - hanno risposto solo in 39, e dunque i numeri che abbiamo sono riferiti soltanto a quelli. Inoltre abbiamo notato qualche reticenza a rivelare la tipologia di trattamento cui si sottopongono gli italiani. Non abbiamo nulla contro i centri esteri, ce ne sono alcuni che hanno fatto e continuano a fare la storia della medicina riproduttiva ed è comprensibile che si vada dove l´offerta è migliore. Altri, però, non hanno all´attivo neanche una pubblicazione scientifica e il loro successo è legato solo al passaparola tra pazienti».
Spesso, infatti, le coppie decidono di espatriare per scarsa conoscenza: dopo la legge 40, e le successive diverse sentenze, ultima quella della Corte Costituzionale del 2009, pensano che in Italia la coppia affetta da malattie genetiche non possa eseguire la diagnosi pre-impianto dell´embrione o che persista il divieto di congelarli o che non si possano fecondare più di tre ovociti, cosa che per una donna di 40 anni equivale ad abbassare drasticamente le chance. Infine è il medico, con la donna, a decidere quanti embrioni trasferire, con l´obiettivo di evitare una gravidanza multipla.
Occorre - secondo Carlo Flamigni - un´attenzione maggiore ai diritti delle coppie. «Chi va all´estero per la donazione di ovociti - spiega - che garanzie ha? La Spagna ha quasi esaurito le donatrici locali e ricorre ad ovociti argentini e russi, ma a che test li sottopone? Soltanto la Francia utilizza ovociti ed embrioni congelati per poter fare il test dell´Aids, perché altrove non è così? Il rischio business è concreto, bisogna proteggere le coppie». E certamente la notizia del guasto al San Filippo Neri di Roma, con la distruzione degli embrioni, non tranquillizza neanche chi decide di restare.

Repubblica Salute 3.4.12
La pillola contraccettiva dei 5 giorni dopo adesso si può comprare anche in Italia


Dopo un iter durato un paio d´anni, è in vendita da ieri nelle farmacie italiane un altro contraccettivo d´emergenza, la pillola dei cinque giorni dopo, nome commerciale EllaOne (principio attivo ulipristal acetato), commercializzata dall´azienda Hra Pharma, la stessa che produce l´altro contraccettivo d´emergenza, il NorLevo, da utilizzare invece entro i tre giorni da un rapporto sessuale considerato a rischio. EllaOne è stata approvata dall´Aifa (agenzia italiana del farmaco) che ha posto come condizioni per il suo utilizzo una prescrizione medica e un test di gravidanza negativo (basato sul dosaggio dell´Hcg beta).
Ma, secondo una videoinchiesta del canale satellitare Doctor´s Life (Sky), è possibile da tempo acquistare il farmaco su internet senza rispettare i due passaggi previsti dalla legge italiana e ad un costo nettamente superiore (60 euro contro i 35 che costerà nelle farmacie). La consegna è molto rapida e si deve soltanto rispondere ad un generico questionario medico on line. Di dubbi però ce ne sono tanti: in primo luogo la sicurezza dei farmaci acquistati su internet, poi il rischio dell´autoprescrizione e del ricorso continuo a questo tipo di contraccezione.
La Sigo (società italiana ginecologi ospedalieri) aveva subito dato il suo parere negativo sull´obbligo del test di gravidanza, che in altri paesi non è previsto e rischia di scoraggiare le donne, dirottandole appunto su internet. Inoltre - come ha sottolineato il farmacologo Silvio Garattini all´Adnkronos Salute - non ci sono garanzie sulla fonte di approvvigionamento e sul contenuto delle compresse e si possono rischiare danni legati alla mancata assunzione del principio attivo che si crede di aver preso, senza dimenticare che può avere anche alcuni effetti collaterali».

Repubblica Salute 3.4.12
Afrodisiaci
Viaggio nel mondo degli "integratori dell´amore" un business in continua crescita dietro cui si nascondono truffe e forti rischi
Inutili o dannosi, le false promesse degli "integratori"
di Aldo Franco de Rose


Le pubblicità (soprattutto su internet) assicurano sia l´aumento del desiderio che addirittura delle dimensioni del pene e tutto grazie alle supposte virtù di estratti vegetali e animali mai testati scientificamente Un business in crescita dietro cui si celano truffe e rischi per la salute
Dalle pinne di pescecane ai testicoli di toro per ottenere "circonferenza extra-large, rigidità marmorea e tanto appetito sessuale"

«La donna è insoddisfatta delle tue prestazioni? Noi possiamo aiutarti: 3 cm. il primo mese, 4 il terzo, 7 cm. il sesto». Altri, parafrasando un noto film, assicurano "7 cm. in 7 giorni", spesso con «circonferenza extra-large, rigidità marmorea e tanto appetito sessuale». E-mail di questo tipo arrivano regolarmente a migliaia di ignari cittadini, con la promessa di rinvigorire la sessualità del maschio. In genere vengono subito cestinate, ma altre volte inducono a curiosare. E qui cominciano le vere sorprese: la composizione della "compressa miracolosa" sembra più un intruglio da fattucchiera che un rimedio naturale. Quello che infatti stupisce è la complessità di questi prodotti: si va dai 6-7 elementi sino ai 14-18. I più usati sono Muira Puama, Ginseng, Maca, Damina, Tribulus Terrestre, Eleuterococco, Ginko, Cinnamomun Zeylanicus, Taurina, Cola Acuminata, Yoimbina e anche Capsicum Annuum (peperoncino). Non mancano nemmeno i prodotti di origine animale, come la polvere del corno di rinoceronte, di testicoli di tigre o la pinna di pescecane. In ogni caso si tratta di prodotti di cui non è mai stata dimostrata alcuna validità scientifica nel determinare l´erezione mentre più spesso sono da considerare afrodisiaci, cioè sostanze capaci di aumentare genericamente il desiderio, il piacere e la performance sessuale, al pari delle ostriche che, come Afrodite (Venere) provengono dal mare e vagamente ricordano i genitali femminili.
Alcune di queste erbe determinano un aumento modesto della vasodilatazione periferica generalizzata per una riduzione del tono adrenergico, oppure una azione stimolante a livello cerebrale, con il pericolo però di possibili effetti collaterali come ipotensione, emicrania, insonnia, vertigini , soprattutto quando l´assunzione supera i 2-3 mesi. In pratica le piante non sono in grado di assicurare una erezione sufficiente per un rapporto sessuale. Ma il mercato illegale in internet, come testimonia il recente censimento dell´agenzia americana per il controllo del farmaco, prolifera in maniera esorbitante con più di 40 mila farmacie censite e solo 220 (0,5%) in regola, soprattutto per i prodotti contro il deficit di erezione, spacciando spesso come integratori naturali non solo erbe ma anche compresse al cui interno si trovano le molecole di Viagra , Cialis e Levitra. Ma questo è un altro discorso e riguarda il capitolo triste e più pericoloso della contraffazione: queste molecole sono le uniche a risolvere realmente il problema dell´impotenza sessuale maschile; la loro azione è quella di inibire l´enzima fosfodiesterasi 5 selettivamente a livello del pene, facilitando i processi di vasodilatazione locale che conducono all´erezione in presenza, però, di desiderio. Al contrario le compresse di erbe, pappine o sciroppi che vengono proposte possono essere considerati degli integratori, afrodisiaci, ma non farmaci in quanto la loro azione favorente l´erezione è stata sempre pubblicizzata ma mai dimostrata scientificamente con studi controllati. E gli integratori, a differenza dei farmaci, non curano né tantomeno sono in grado di determinare ingrossamento o allungamento del pene.
Questi messaggi pubblicitari, dunque, non sono da prendere in considerazione in quanto si tratta di pubblicità ingannevole. Inoltre è alto il rischio di assumere prodotti contaminati, come è risultato da un´inchiesta presentata al Senato degli Stati Uniti dove, su 40 prodotti testati, 37 sono risultati contaminati da mercurio, cadmio, arsenico e 16 da pesticidi. In più questi prodotti naturali possono interagire e potenziare l´azione di anticoagulanti (il Ginko), antipertensivi o antidepressivi, già assunti come terapia medica, e quindi favorire effetti collaterali pericolosi. La stessa arginina, in dosaggio elevato, può attivare il virus dell´herpes, anche se latente da molti anni, mentre la Yoimbina può addirittura far male a reni e fegato. Meglio rivolgersi ai prodotti di quelle aziende che hanno aderito al Codex Herbarum (garantiti qualità e sicurezza) che anche il ministero della Salute ha fatto suo.
* Spec. urologo e andrologo, osp. S. Martino, Genova

Repubblica 3.4.12
Aumentano gli acquisti di Viagra, Levitra o Cialis. Un consumatore su dieci compra online
Alla ricerca della super-prestazione, se anche i ragazzi usano la "pillola"


Spesso sono giovani in buona salute, ma vivono i rapporti sessuali come una competizione. Altre volte sono giovani e meno giovani che avvertono semplicemente il disagio del rapporto, raramente però si tratta di un vero problema medico. È questo l´identikit della new generation del Viagra che cerca un aiuto farmacologico per una prestazione super o evitare una brutta figura. Per fortuna si tratta di una minoranza che gli specialisti hanno calcolato attorno al 10% tra coloro che richiedono una prescrizione o acquistano farmaci dal web, spesso contraffatti, non sapendo che questi ultimi possono risultare pericolosi a causa dell´interazione con altri farmaci, per l´inquinamento della stessa composizione o addirittura essere inefficaci per l´assenza del principio attivo. A volte le sorprese spiacevoli arrivano, certamente a loro insaputa, anche dalle rivendite ufficiali. Appena un anno fa i Nas, nelle farmacie e nelle erboristerie di tutta Italia, hanno sequestrato poco meno di 6 mila confezioni di "Jugran 400", un prodotto che sarebbe dovuto essere a base di estratto di gheriglio di noce e da vendere senza ricetta, come rimedio naturale contro la disfunzione erettile. Peccato che del prodotto naturale non ci fosse nemmeno l´ombra, mentre era presente Viagra proveniente dalla Cina, con tutti i potenziali rischi.
Ma a dominare il mercato illegale è sempre internet. L´agenzia di controllo statunitense del farmaco, su 40mila farmacie online monitorate, ne ha trovate in regola solo 220 (0.5%) mentre l´Aifa, l´agenzia del farmaco italiana, ha chiuso cinquanta pagine internet (scritte in italiano) e corrispondenti ad altrettanti siti illegali. In ogni caso, ovunque il farmaco venga acquistato, quasi sempre, quando non risulta dannoso, contribuisce a sviluppare una dipendenza psicologica, specialmente tra i giovani.
A testimonianza del largo consumo di questi prodotti c´è una crescita del mercato ufficiale. Lo scorso anno il fatturato italiano degli inibitori delle fosfodiesterasi 5 ha battuto ogni record: 150 milioni di euro. Il tadalafil (Cialis) ha conquistato la quota di mercato più alta con il 54,2 % e 82,6 milioni di euro di guadagni. Il sildenafil: (Viagra) è al secondo posto con il 29% e 44 milioni di euro di fatturato, mentre il vardenafil (Levitra) ha raggiunto il 16,9% con 25 milioni di euro di introiti, ma è in ascesa per la recente commercializzazione della "mentina dell´amore" che si scioglie in bocca. All´aumento però dei rapporti sessuali, soprattutto occasionali, è corrisposto un aumento delle malattie sessualmente trasmesse, soprattutto tra gli adulti in quanto, rispetto ai giovani, usano minore protezione
(a. f. d. r.)

Repubblica 3.4.12
Se si va a letto con l’ansia da prestazione


Il sesso è una grande risorsa legata al piacere, al gioco dei sensi, delle emozioni, alla capacità di provare e dare sensazioni di eccitazione, benessere. Da sempre, oltre alla "qualità" cerca di affermarsi la "quantità" (numero e durata dei coiti, dimensioni del pene). Da quando le donne si sono inserite nella ricerca del piacere, è cresciuta la paura maschile di non essere all´altezza. Questa paura è poi ulteriormente coltivata dall´offerta continua di prodotti, perché il maschio ha un sesso fisiologicamente fragile e nello stesso tempo pone una parte del suo valore nel suo organo genitale. Incentivare le soluzioni facili è una responsabilità sia dei venditori di fumo (il corno di rinoceronte), che della medicina, se di fronte ad una paura sessuale si offrono subito pillole magiche per erezione e eiaculazione. Distinguere tra problemi reali e paura resta il compito dei sessuologi, sia nella consultazione che nell´educazione alla sessualità. Va chiarito il significato relazionale della sessualità, l´importanza della protezione dalle malattie, la capacità di scegliere con chi, come, dove, quando fare il sesso e l´amore. È il pensare alla sessualità solo come prestazione che muove l´ansia da prestazione.
Negli ultimi anni la consultazione individuale e di coppia verte molto sulla ricomposizione di una dimensione qualitativa della sessualità, con la ricerca degli stili personali e di coppia e in adolescenza sulla costruzione di una consapevolezza personale e relazionale. I farmaci comprati in internet nascono dal desiderio di possedere la formula magica a basso costo e questo aumenta i rischi dei navigatori. Nella consultazione il sesso torna ad abitare un luogo piacevole, dove relazione e competenza trovano un accordo e questo è lo sforzo che medicina e psicologia devono fare insieme.
* www.irf-sessuologia.it