giovedì 5 aprile 2012

l’Unità 5.4.12
Se il licenziamento economico è infondato, il giudice può riammettere il lavoratore al suo posto
Il passo indietro del governo. Articolo 18, torna il reintegro
L’attesa di Cgil, Cisl, Uil: è un passo in avanti ma aspettiamo il testo
In attesa di valutare il testo definitivo, i sindacati incassano la retromarcia del governo sui licenziamenti economici. Camusso: «No comment, in passato abbiamo avuto sorprese». L’Ugl invece critica: un No convinto.
di Massimo Franchi


Il ritorno della possibilità di reintegro nel caso di licenziamenti di tipo economico come un «primo passo positivo». L’attesa (quasi spasmodica, fino alla pubblicazione verso le 21) per il testo reale del provvedimento, per poterne studiare ogni singola parola e conseguenza rispetto alla legislazione attuale. Memori di esperienze negative precedenti, in cui gli annunci non sono stati seguiti dai testi: «Non vorremmo ritrovarci le sorprese che abbiamo trovato in altre occasioni», sintetizza Susanna Camusso.
I sindacati, divisi davanti alla prima stesura del testo, si ricompattano incassando la modifica richiesta a gran voce. Bonanni e Angeletti parlano subito, Susanna Camusso invece (in trasferta in Emilia) aspetta il testo definitivo e con ogni probabilità oggi lo valuterà con la segreteria prima di esprimere un giudizio esplicito. L’unica concessione ai giornalisti è la battuta sull’appello di Monti ad avere «senso della misura»: «Noi spiega Camusso abbiamo sempre avuto senso della misura, l’appello non lo riteniamo rivolto a noi». Sul l’articolo 18 invece nessuna concessione, solo precisazioni. Il ritorno del reintegro, in particolare, riguarda «questioni giuridiche precise sottolinea il segretario generale Cgil e come sono scritti i testi diventa importante».
BONANNI E ANGELETTI: BENE COSÌ
A commentare invece subito gli annunci di Monti e Fornero è Raffaele Bonanni: «Mi pare che la questione che ci preoccupava di più è stata definita in modo ragionevole. La raccomandazione fatta da noi al presidente del Consiglio e che lui raccolse di non far coincidere i licenziamenti economici con eventuali situazioni fraudolente delle aziende è stata chiarita: ci sarà il reintegro nel caso le aziende tenteranno di portare avanti situazioni fraudolente», ha sottolineato il leader della Cisl. «Ora è arrivato il momento di rasserenare il Paese come ci chiede il presidente della Repubblica, ma soprattutto di risolvere i problemi dell’Italia che sono la mancanza di crescita e l’eccessivo peso fiscale. Per questo noi ci mobiliteremo nei prossimi giorni», chiude Bonanni.
Sulla stessa linea il leader Uil Luigi Angeletti, che dopo la battuta sul «licenziamento per giusta causa» per la Fornero, torna serio. «Il pericolo di licenziamenti illegittimi pare sia stato scongiurato, abbiamo pareggiato fuori casa». Poi la specifica, molto simile a quella di Susanna Camusso: «Nel merito bisogna leggere i testi, perché anche un aggettivo può modificare nella sostanza una norma. Per noi ha sottolineato era necessario che si modificassero le norme relative ai licenziamenti economici perché così come era poteva prestarsi a un uso fraudolento delle imprese». Angeletti ha aggiunto che «senza un accordo della maggioranza non si farebbe in Parlamento nessuna riforma» e che «non ci sono leggi su mercato del lavoro in grado di far aumentare l’occupazione».
A sparigliare (in parte) l’unità sindacale arriva in Giovanni Centrella. L’appena riconfermato segretario generale dell’Ugl a SkyTg24 è molto netto: «Purtroppo le parole del ministro Fornero ci convincono ancora di più a dire di no a questa riforma». E spiega il perché: «Persino le parti buone sono state intaccate da quelle cattive: sono state ridotte le mensilità dell’indennizzo per i licenziamenti economici, non è stato aggiunto il reintegro per gli stessi, infine sull`onere della prova a carico del lavoratore non abbiamo ascoltato risposte chiare. Ovviamente per un giudizio più approfondito dobbiamo leggere tutto l’articolato». Poi però arriva un aggiustamento: «Su alcuni punti non possiamo negare il nostro apprezzamento, in particolare sulla prevalenza data al contratto a tempo indeterminato, sull’apprendistato e sulla chiarezza introdotta nelle fattispecie atipiche». Parole che sembrano un riallinearsi al resto delle confederazioni.
Oggi dunque sarà il giorno dei giudizi ponderati. E non si escludono sorprese.

l’Unità 5.4.12
Bersani: «Passo avanti importantissimo». Ma resta l’invito alla cautela
Modifiche in aula «rispettando i tempi». A cominciare dai parasubordinati
Il Pd incassa il successo «Altri miglioramenti in Parlamento»
«Passo avanti importantissimo» quello compiuto sull’articolo 18 per il segretario Pd. Ma sulla riforma, aggiunge, ci sono ancora dei miglioramenti da fare in Parlamento. E sugli esodati: «Trovare una soluzione»
di Maria Zegarelli


Ha seguito la conferenza stampa fiume dal soggiorno di casa sua, poi si è collegato con il Tg3 delle 19 chiamato a dare il suo giudizio sulla riforma del Lavoro presentata dal premier Mario Monti e il ministro Elsa Fornero. Pier Luigi Bersani ha vinto una battaglia politica sulla quale il Pd si giocava la partita delle partite decisa l’altra sera dopo sette ore e mezzo di vertice prima il faccia a faccia con Monti, poi con gli altri leader di Udc e Pdl ma alla fine quell’articolo 18 che solo qualche giorno fa sembrava blindatissimo è stato modificato. Sarà il giudice a decidere il reintegro in caso di licenziamento per motivi economici per manifesta infondatezza e/o insussistenza. Era quello che chiedevano Pd e Cgil.
IL REINTEGRO
«Il concetto che è emerso è quello che ci stava a cuore, cioè di prevedere comunque che qualsiasi tipo di licenziamento non possa essere semplicemente monetizzato», commenta a caldo. «Quell’articolo non sarà scritto con la mia penna aggiunge -, tuttavia si è fatto un passo avanti importantissimo e l’onere della prova non sarà a carico del lavoratore e credo che questo possa rispondere all’ansia che si stava diffondendo in milioni di lavoratori. Quindi mi pare un risultato certamente importante». Dunque, un giudizio positivo anche se il segretario mostra una certa cautela per-
ché, spiega, «stiamo parlando di 60 articoli, bisognerà leggere le norme, ma qualcosa da migliorare c’è». E sarà il Parlamento, assicura, a lavorare alle modifiche, «c’è gente in grado di dare una mano seria per migliorare alcune norme in tempi celeri» dice sottolineando più volte la necessità di un dibattito in Aula, nei tempi richiesti dall’emergenza e nel rispetto dell’impianto generale del disegno di legge. Per questo il segretario ritiene che non sia il momento di parlare di fiducia sul provvedimento, soprattutto dopo il vertice dell’altra sera e l’impegno che insieme a Casini e Alfano è stato preso per garantire un percorso «breve». «Il Parlamento è lì apposta per dare un contributo in un percorso che credo sarà celere, impegnativo e impegnato. Tuttavia ci sarà occasione anche di perfezionare quelle norme», ribadisce al Tg3. Quanto alla posizione della Cgil, che ieri non si è espressa, Bersani sembra ottimista: «Io voglio credere che chiunque osserverà le nuove norme dovrà registrare un cambiamento, certamente un passo avanti e quindi credo che il mio partito e la nostra gente, i cittadini, siano soddisfatti di questo cambiamento. Mi auguro che lo siano tutti. Dopodiché, ripeto, ci sono tanti altri aspetti da vedere. A fianco delle norme sul lavoro per esempio c’è il tema degli esodati, cioè di un buco che abbiamo, che va risolto. Quindi non è che tutto sta intorno al pur importantissimo art.18». E proprio sugli esodati l’altra sera Monti ha ribadito ai leader di partito l’impegno a presentare novità entro i prossimi giorni.
LE MODIFICHE
A spiegare quali sono i punti su cui ancora si può lavorare con pochi e condivisi emendamenti è il responsabile Lavoro del Nazareno, Stefano Fassina: «In Parlamento si dovrà lavorare per intervenire sull’aumento del 6% per i contributi sociali dei lavoratori parasubordinati e di una parte delle partite Iva». Altre questioni: l’ampliamento degli ammortizzatori sociali per i parasubordinati e i contratti a tempo determinato di natura stagionale per i quali la riforma prevede un onere aggiuntivo. Ma per il Pd è necessaria anche un’accelerazione dei tempi per la definizione delle politiche attive per il lavoro per le quali il testo presentato ieri rinvia ad un provvedimento successivo.
Al netto dei miglioramenti che potranno essere apportati dal Parlamento al Nazareno ieri si respirava una «moderata soddisfazione» in attesa di studiare con attenzione i sessanta articoli che compongono la riforma destinata a cambiare il mercato del lavoro. «Non è stato facile arrivare a questo risultato raccontano dal Pd soprattutto perché all’interno del governo c’era chi opponeva resistenza alla modifica dell’articolo 18 così come è stato formulato». Un lavoro di confronto e ascolto con il ministro Passera a mediare che non sempre è stato fluido, a tratti anche aspro, ma che alla fine non ha potuto non tener conto delle istanze presentate dai partiti e dalle parti sociali.
«Vedrò il testo, ma da quanto ho ascoltato e da quello che so, la modifica all’articolo 18 va nella giusta direzione», commenta Cesare Damiano, citato durante la conferenza stampa dal ministro Fornero, a pro-
posito della norma contro le dimissioni in bianco per le donne. «Una norma a cui lei teneva molto», gli dice il ministro vedendolo in platea. Il capogruppo alla Camera, Dario Franceschini, scrive su twitter: «Torna il reintegro per i licenziamenti economici. Hanno vinto il buonsenso e la determinazione». Giudizio positivo anche da Anna Finocchiaro: «Ci sono tante parti che ci sembrano davvero soddisfare le necessità che abbiamo di fronte: superare innanzitutto lo squilibrio tra i precari e i lavoratori a tempo indeterminato, prevedere strumenti per gli di ammortizzatori sociali che siano adeguati alla difficoltà del momento, agevolare l’accesso al mercato del lavoro. Ci sono anche misure che riguardano l’occupazione femminile che ci sembrano primi segnali nella giusta direzione».

il Fatto 5.4.12
Articolo 18, pace fatta, rischiano gli statali
Reintegro per i licenziamenti economici
di Stefano Feltri


La riforma del lavoro è cambiata, secondo quanto chiedeva il Partito democratico. “Un passo avanti importantissimo”, dice il segretario Pier Luigi Bersani. In una conferenza stampa, ieri, il premier Mario Monti e il ministro Elsa Fornero hanno presentato le novità nel testo del disegno di legge portato al Quirinale. La novità principale riguarda i licenziamenti individuali motivati da ragioni economiche: se il lavoratore ricorre al giudice e questi stabilisce che il licenziamento era indebito, può stabilire un indennizzo tra 12 e 24 mensilità oppure stabilire il reintegro in azienda. Era questo il punto cruciale, di cui martedì hanno discusso fino a tarda notte Monti e i tre leader della maggioranza, Angelino Alfa-no, Bersani e Pier Ferdinando Casini.
IN SINTESI: anche dopo la riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, il giudice potrà sempre decidere se assegnare al dipendente licenziato senza giusta causa un indennizzo oppure reintegrarlo nel-l’impresa. La Fornero parla di reintegro in caso di “infondatezza” della motivazione, il premier corregge il termine in un più netto “insussistenza”. Nella prima bozza elaborata dal governo, invece, se la motivazione era economica il lavoratore poteva aspirare al massimo a un indennizzo di 27 mensilità. L’obiettivo del governo è però che dal giudice ci finiscano pochissimi casi e che le controversie si risolvano prima con una transazione tra lavoratore e azienda presso le direzioni provinciali del lavoro. Pago e ti licenzio.
Mario Monti spiega che l’obiettivo è una “riduzione permanente del tasso di disoccupazione”, la Fornero aggiunge che “tutte le economie con basso tasso di disoccupazione hanno flussi in entrata e in uscita più rilevanti”. Tradotto: nella visione del ministro del Welfare per abbattere la disoccupazione ci vogliono tanti licenziamenti e tante assunzioni. Quanti licenziamenti? Il governo non ha fatto stime, i modelli econometrici – spiega il ministro – sono troppo complicati e “non c’è stato tempo”. Per questo ci sarà un monitoraggio costante e una gradualità nell’applicazione. Anche la riforma delle pensioni è stata fatta in fretta, solo un paio di mesi dopo si è capito che lasciava 350 mila persone senza reddito e senza assegno previdenziale, i cosiddetti “esodati” per la maggior parte dei quali non c’è alcuna protezione.
Ci sono un paio di grandi incognite che impediscono di fare un primo bilancio degli effetti del testo.
Primo: da ieri è ufficiale che la riforma inciderà anche sugli statali, il governo chiederà tre deleghe al Parlamento e una di queste riguarderà proprio i dipendenti pubblici. La Fornero avrebbe voluto che la nuova disciplina agisse subito, ma il ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi ha chiesto di avere tempo di discuterne anche lui con i sindacati.
 TRA GLI ANALISTI finanziari che stanno provando a fare simulazioni sull’impatto della riforma circola un sospetto: visto che nell’insieme la riforma non stravolge la disciplina vigente, forse lo scopo ultimo è rendere gli statali più licenzia-bili. Perché se non si vogliono alzare ancora le tasse, ridurre il personale della Pubblica amministrazione può essere una rapida e strutturale via ai risparmi. In fondo lo Stato è un datore di lavoro che, con il debito al 120 per cento del Pil, avrà sempre una oggettiva ragione economica per licenziare.
Il Pd incassa la vittoria sul punto ad alto valore simbolico del reintegro, preservato. Ma l’ala destra della maggioranza, il Pdl e Confindustria, come ci tiene a sottolineare la stessa Fornero, vedono svanire molti dei limiti al precariato fissati solo 10 giorni fa dal Consiglio dei ministri. I vincoli per evitare che collaboratori a partite Iva mascherino dipendenti sfruttati scatteranno tra 12 mesi. I contratti a termine saranno addirittura più facili, perché scompare l’obbligo di dover indicare una causale per farvi ricorso, almeno nel caso del primo contratto di durata fino a sei mesi. “Una liberalizzazione importante”, dice la Fornero. Che però rischia di diventare per le imprese un incentivo perverso a sostituire i precari ogni sei mesi. Anche l’indennizzo massimo, per i licenziamenti economici, è più basso che nelle bozze, tra 12 e 24 mensilità. Il numero massimo di apprendisti in azienda, che costano meno e sono facilmente licenziabili, sale parecchio: prima il rapporto con i lavoratori “normali” era uno a uno, ora ci potranno essere tre apprendisti ogni due dipendenti a tempo pieno. E le imprese piccole, quelle che il Pdl cercava di accontentare, potranno essere soddisfatte. Va ricordato che quella annunciata ieri non è la riforma definitiva, ma soltanto il disegno di legge che andrà in Parlamento. Ma Monti si aspetta che, vista l’approvazione preventiva dei leader di maggioranza, l’iter parlamentare sarà “approfondito ma anche spedito”.

il Fatto 5.4.12
Ora la Cgil non sa più se confermare lo sciopero generale
di Salvatore Cannavò


Pier Luigi Bersani è soddisfatto. E' riuscito a modificare l'articolo 18 come sperava. La soddisfazione del segretario Pd va in onda durante il Tg3: “Passo avanti importantissimo” dice, subito supportato da un altro personaggio chiave nei rapporti con la Cgil, l’ex ministro Cesare Damiano. “Da quel che ho capito dalla conferenza stampa e da quel che so ritengo che ci sia il passo avanti da noi indicato”. Damiano si riserva di leggere il testo, come tutti, ma poi sottolinea l'aspetto fondamentale: “Sull'articolo 18 non ci saranno emendamenti del Pd, per noi questo punto è concluso”. Diversa la valutazione dell'Idv che con Antonio Di Pietro e il responsabile Welfare del partito, Maurizio Zipponi, dice: “Il governo getta fumo negli occhi dei lavoratori per coprire la vera natura del provvedimento: varare in Italia una legge per avallare i licenziamenti facili”.
In Cgil sono più cauti. Susanna Camus-so non fa dichiarazioni, vuole leggere il testo. Ma il commento che si raccoglie in Corso Italia è che le modifiche illustrate dal governo sono “quello che chiedeva la Cgil”. Tanto che si ipotizza di “sospendere”, non revocare, lo sciopero generale. Niente di definitivo, la segreteria nazionale si terrà oggi ma al momento gli sforzi sono tutti destinati al successo della manifestazione del 13 aprile convocata con Cisl e Uil sul tema degli “esodati” e delle ricongiunzioni onerose. Il sindacato di Susanna Camusso ha l'occasione di recuperare l'unità sindacale con una Cisl che definisce “ragionevole” l'accordo e con una Uil che si dice soddisfatta, ma deve tenere conto di diversi mal di pancia interni. La Fiom, per il momento, sceglie di non pronunciarsi ma è chiaro che il disegno di legge non può piacerle. Il ministro Elsa Fornero ha detto: “La Fiom mi ha invitato a un incontro, penso di andare”.
DOVE PERÒ si drizzano le antenne è nel pubblico impiego. Il testo del Disegno di legge, infatti, contiene una novità importante, la riforma della pubblica amministrazione che sarà attuata mediante legge-delega. Per arrivare a quella delega Patroni Griffi ha già avviato da tempo consultazioni con i sindacati del pubblico impiego e proprio ieri mattina si è tenuto il terzo tavolo di confronto. Il ministro vuole stilare un protocollo sul nuovo modello contrattuale, le forme di assunzione, la mobilità e la previdenza complementare. Da un lato c'è la possibilità che l'articolo 18 sia applicato, proprio nella tipologia dei licenziamenti economici. Ma oltre a questo il sindacato teme soprattutto gli effetti della “spending review” che possono passare attraverso un utilizzo massiccio della mobilità. Gli evidenti allentamenti operati dalla legge Fornero sul tema della precarietà, mettono un'ipoteca sul fronte dei contratti precari che la Funzione pubblica della Cgil stima in circa 100 mi-la nella pubblica amministrazione, Scuola esclusa. “Esprimeremo una valutazione generale dopo aver analizzato il testo”, dice al Fatto il segretario degli statali Cgil Rossana Dettori, che chiederà al governo di “puntare sul rilancio del lavoro pubblico, sul contratto integrativo e sull'importanza dei precari, i più colpiti dalle misure di austerità”.

il Fatto 5.4.12
Le lobby e il decreto fiscale
Vincono le banche e i commercianti, perdono gli anziani
di Marco Palombi


Mario Monti, checché ne dicano i detrattori, sta già battendo qualche record: ieri (in Senato) ha incassato la quattordicesima fiducia in quattro mesi e mezzo, una cosa mai vista prima. L’occasione, stavolta, è stato il cosiddetto decreto fiscale (ora atteso alla Camera), votato nelle stesse ore in cui a Montecitorio (stranamente senza fiducia) veniva approvato definitivamente il decreto semplificazioni approvato. Entrambi, al solito, sono stati terreno di battaglia le lobby d’ogni genere presenti nel paese: conviene, dunque, fare una rapida panoramica su chi vince e chi perde alla fine dei passaggi parlamentari.
I sindaci. Sono stati sconfitti su tutta la linea. L’Imu resta un tributo loro solo di nome, mentre nei fatti finirà per la gran parte allo stato centrale. Peggio: in cambio di uno sconticino proprio sull’Imu per le case di proprietà dei comuni e le ex Iacp, il Senato ha reso il Patto di stabilità interno ancora più rigido. Graziano Delrio, presidente dell’Anci, minaccia proteste clamorose, “compresa la violazione collettiva del Patto in alcuni settori”. Alla Camera si preannuncia battaglia.
Banche. Le fondazioni che le controllano, come partiti e sindacati d’altronde, continueranno a non pagare l’Imu: formalmente non fa una piega, visto che sono enti non profit e hanno l’esenzione solo per le sedi di attività istituzionale, praticamente però capitalizzano almeno 150 miliardi di euro e farli pagare un po’ non sarebbe male. Le Banche di credito cooperativo, invece, incassano per quest’anno uno sconto da 20 milioni sulla tassazione dell’utile netto.
Anziani. Quelli che vivono in casa di riposo potrebbero passarsela male: dovranno pagare l’Imu sulla loro abitazione, magari persino come seconda casa sfitta visto che spesso hanno il domicilio in clinica.
I Caf. Il braccio armato del sindacato vince con le modifiche sulle rate dell’Imu che gli consentiranno di far pagare la tassa sulla casa ai loro utenti insieme alla dichiarazione dei redditi: a giugno i contribuenti verseranno la metà delle aliquote base decise dal governo, per l’altro 50% più le maggiorazioni comunali se ne riparla a dicembre.
Terzo Polo. Hanno fatto molto casino (soprattutto il finiano Mario Baldassarri) per creare un fondo per futuri tagli alle tasse alimentato dai frutti della spending review e dalla lotta all’evasione: il governo ha risposto picche.
Commercianti. E’ sparita la black list dei recidivi del mancato scontrino: anche il Garante della Privacy si era schierato contro (“no alle liste dei buoni e dei cattivi”).
Agricoltori. Sono riusciti a farsi abbassare un po’ di imposta sugli immobili agricoli (come i proprietari di dimore storiche).
Imprese. Col dl semplificazioni divenuto legge ieri arriva il sistema dei controlli amichevoli per le aziende. Restano “cattivi” quelli fiscali, come scritto dal governo, e quelli sulla sicurezza sul lavoro (novità imposta dal Parlamento), niente da fare per quelli contro le attività inquinanti.
Telecom. Sulla liberalizzazione dell’ultimo miglio l’ex monopolista porta a casa il rinvio voluto dal governo: niente obbligo di offrire subito servizi disaggrega-ti alle società concorrenti che affittano la rete da Telecom, ma un generico mandato all’Authority che dovrà dire qualcosa sul tema tra quattro mesi.

il Fatto 5.4.12
Le tasse? Roba da pensionati
di Bruno Tinti


È da oggi in libreria “La rivoluzione delle tasse” di Bruno Tinti (edizioni Chiarelettere), un volume che racconta cosa non funziona nel sistema fiscale italiano. A partire dall’enorme evasione.

Pagare le imposte, con un sistema che – se non le paghi – non ti fa niente è una bizzarria, paragonabile al cilicio o all’auto-flagellazione. E infatti non le paga nessuno. Meglio, le pagano quelli che non possono farne a meno. E qui arriviamo al cuore del problema. I contribuenti si dividono in due macrocategorie: quelli tassati con imposta pagata alla fonte e quelli che si autotassano. Il che vuol dire che ci sono contribuenti ai quali l’imposta viene calcolata e prelevata da altri al momento in cui gli viene erogato il loro reddito. E altri contribuenti che si determinano da soli il reddito percepito e l’imposta da pagare.
INSOMMA ci sono i lavoratori dipendenti e i pensionati che percepiscono uno stipendio, un salario, una paga, chiamatelo come volete, o una pensione; e su questo il loro datore di lavoro (pubblico o privato) calcola in automatico l’imposta; e gliela preleva subito, prima che i quattrini arrivino nella loro effettiva disponibilità. E ci sono gli “altri”, i commercianti, gli artigiani, i professionisti, gli imprenditori che debbono tenere una contabilità nella quale annotare quello che incassano (o quella parte che vogliono annotare) ; poi faranno le somme e calcoleranno l’imposta dovuta che verseranno (dovrebbero versare). Si chiama “autotassazione”. Così gli “altri” adottano un sistema semplicissimo: annotano in contabilità solo una parte di quello che incassano. Non emettono scontrini, fatture, parcelle, ricevute. Evitano come la peste pagamenti con carte di credito, bonifici bancari, assegni, tutta roba che finisce in banca e che lascia traccia; hai visto mai, sfiga pazzesca, capita un accertamento e il Fisco acquisisce gli estratti conto e scopre quanto hanno incassato davvero. Così si fanno pagare in contanti, i soldi non finiscono in banca, scontrini e parcelle non ci sono, nessuno sa quanto hanno incassato. Si chiama “nero” ed è lo stile di vita degli “altri”. Possiamo dargli un nome meno generico: sono anche conosciuti come “il popolo dell’Iva”.
Sicché è ovvio che l’evasione arriva dal “popolo dell’Iva”. Non perché lavoratori dipendenti e pensionati non vogliono evadere. Lo vorrebbero, e come se lo vorrebbero. E infatti quelli di loro che fanno un secondo lavoro (in genere gli operai in cassa integrazione che arrotondano facendo gli imbianchini, gli autisti, gli idraulici etc.) si comportano esattamente come il “popolo dell’Iva”: “Nero” totale. Solo che non possono evadere; come fanno? Le imposte gliele prendono subito, prima di dargli la paga, il salario, lo stipendio. Protestano, questo sì; ma pagano.
Il gettito fiscale del 2010 (prima di eventuali controlli, insomma solo quanto dichiarato dai contribuenti) ammonta a 146.500.000.000 euro. Lo hanno dichiarato, complessivamente, 41.529.054 contribuenti. Una prima triste considerazione: l’evasione fiscale si frega più o meno la stessa somma che lo Stato percepisce dai cittadini a titolo di imposta. Se non ci fosse evasione, saremmo ricchi il doppio. Se non ci fosse evasione non ci servirebbero manovre finanziarie, contributi di solidarietà, Imu, patrimoniale, riduzione delle pensioni, dell’età pensionabile etc. etc. etc. Saremmo un paese prospero e felice. Ma c’è. Come sono divisi i 41 milioni e mezzo di contribuenti? 20.870.919 sono lavoratori dipendenti. 15.292.361 sono pensionati. Tutti insieme sono 36.163.280 contribuenti; pari all’88% del totale. Vi rendete conto? I contribuenti italiani, quelli che mantengono lo Stato, sono, per quasi il 90%, lavoratori dipendenti e pensionati. E tutti gli altri? Quanti sono gli “altri”? Sono 5.359.777, pari al 12%. Si può cominciare a riflettere. Ma il bello viene adesso.
PERCHÉ QUEI 146 miliardi e mezzo di euro sono pagati, per 89 miliardi e 500 milioni di euro, dai lavoratori dipendenti e, per 47 miliardi e 700 milioni di euro, dai pensionati. In totale, queste due categorie (veramente un po’ sfigate, bisogna ammetterlo) pagano 137 miliardi e 200 milioni di euro, pari al 93% del gettito tributario. Gli “altri” versano 9 miliardi e 200 milioni di euro, pari al 7% del gettito. C’è qualche dubbio sul fatto che strade, scuole, ospedali e insomma tutto quello che lo Stato fornisce quotidianamente ai cittadini è pagato, per il 93%, da lavoratori dipendenti (pubblici e privati) e pensionati. E che gli “altri” vivono a sbafo? Redditi medi annui dichiarati da alcune categorie; naturalmente al lordo delle imposte. Avvocati: 49.100 euro. Dentisti: 45.100 euro. Ingegneri: 37.400 euro. Architetti: 26.300 euro. Consulenti fiscali: 24.000 euro. Albergatori: 21.000 euro. Psicologi: 17.100 euro. Ristoratori e bar: 16.400 euro. Gioiellieri e orologiai: 15.800 euro. Meccanici: 15.400 euro. Tassisti: 13.600 euro. Parrucchieri e barbieri: 10.400 euro. Capito perché ogni anno lo Stato non incassa da 120 a 160 miliardi di imposte? È semplice. Il popolo dell’Iva conta 5 milioni e mezzo di persone. Se ognuno fa un “nero” di 40.000 euro (che è una stima molto ottimistica), evade imposte per circa 20.000 euro all’anno. Significa un’evasione complessiva di 100 miliardi di euro ogni anno. Naturalmente i 40.000 di “nero” sono una media: ci sarà chi ne fa 80.000 e chi nemmeno un euro. Ma, con i redditi di cui alla tabella, c’è da pensare che gente che non evade ce ne deve essere proprio pochina. Se a questo si aggiunge l’Iva evasa (con la complicità del consumatore finale, è vero; d’altra parte questa è l’unica evasione che si può permettere), che ammonta a circa 44 miliardi di euro, si arriva a 150 miliardi mal contati. Come volevasi dimostrare. Perché lo Stato non è mai andato a prenderseli questi miliardi?
Non è difficile da capire: perché 5/6 milioni di persone non voterebbero mai per una maggioranza che, dopo 50 anni di pacchia, gli dice che la festa è finita. E 5/6 milioni di voti significano andare al governo o all’opposizione. Così si spiegano i “buchi” di un sistema tributario che riesce solo a prelevare i soldi alla fonte ai lavoratori dipendenti e ai pensionati. Far pagare le imposte agli “altri” ovviamente non è, non può essere, nel programma di una classe politica come quella italiana.
La rivoluzione delle tasse di Bruno Tinti, Chiarelettere

l’Unità 5.4.12
Tramonti padani
La crisi della Lega libera milioni di voti
La sfida ora è saper intercettare le domande del Nord, di questo mondo che produce e lavora che si era fidato del Carroccio, ma è rimasto deluso
di Rinaldo Gianola


Ora che la tela è stata strappata, che il mito della diversità, dell’alterità, è svanito nell’uso personale, familistico, di soldi pubblici, cosa resta della Lega di lotta e di governo? Dov’è finita l’innocenza movimentista celebrata con le feste nella piscina dell’Hotel Mirella di Ponte di Legno, con Umberto Bossi e i suoi sodali a bagno?
E che fine fanno le innocenti crociere sul Po travestiti da Asterix col fiasco in mano, adesso che un amministratore di nome Francesco Belsito ha dirottato i fondi del partito in Tanzania, con il sospetto di riciclaggio, truffa e appropriazione indebita e sarebbe quasi la “novità” meno negativa se confrontata con i legami inquietanti con ambienti criminali, la ’ndrangheta, come ipotizzano le indagini di tre procure?
In molti scrivono che la Lega finisce perchè il suo fondatore e capo indiscusso, creatore di un autentico, forse l’ultimo partito leninista, Umberto Bossi, non regge più lo scettro del potere, indebolito dalla fatica e dalla malattia, e ormai ostaggio di un gruppetto di sodali, guidato dalla moglie Manu pensionata-baby a 39 anni che vorrebbe trasferire ai figli l’eredità e la leadership politica del marito. È possibile che la Lega soffra di questo scandalo, che patisca un rovescio elettorale alle prossime elezioni amministrative, anche se le tangenti Enimont, gli intrecci con la Popolare di Lodi di Fiorani, gli strani investimenti in Croazia e il crac della banca Credieuronord non hanno prodotto a ben vedere sconfitte o arretramenti politici.
Finora, è bene ricordarlo per non farsi illusioni, gli scandali leghisti, e ce ne sono stati, sono passati senza lasciare tracce e conseguenze, come se la credibilità del suo leader e la missione politica del movimento fossero stati più forti, prevalenti sulle inchieste della magistratura e sui comportamenti poco ortodossi di militanti e dirigenti del Carroccio. Bossi e i suoi hanno sempre beneficiato dell’adesione totale, quasi acritica, fedele, dei militanti, dei tanti elettori leghisti convinti per lungo tempo della presunta moralità cristallina del movimento e dei suoi dirigenti.
Il sociologo Aldo Bonomi, attento alle dinamiche sociali ed economiche del Nord, invita a riflettere sulla politica e a non concentrarsi «sul dito, ma sulla luna: cioè la Lega può anche entrare in crisi perché c’è qualcuno che ruba, perché il suo capo è in difficoltà, non è più in grado di governare e di controllare le fazioni perché una volta c’era Gipo Farassino coi suoi piemontesi che non voleva farsi guidare dai lombardi, ora tornano le spinte autonomiste dei veneti e di altri. Ma gli interessi, le paure, i problemi che sono stati rappresentati dalla Lega restano tutti e anzi si aggravano, questo potrebbe essere un segnale importante per la sinistra se riuscisse a intercettare gli umori profondi che si muovono nelle aree più produttive del Paese». Quali tensioni, quali problemi? «È il Nord della produzione, delle piccole imprese, degli artigiani, degli operai che oggi patisce ancora di più la crisi, gli effetti della globalizzazione dell’economia, della competizione internazionale. È un bel pezzo d’Italia che si era fidata di Berlusconi e di Bossi, che aspetta ancora la modernizzazione delle infrastrutture, magari l’autostrada Cuneo-Asti o la Pedemontana, e oggi si ritrova deluso, affaticato, con poche risorse da impiegare».
Dal Piemonte al Friuli, in tutto il Nord, la Lega occupa posizioni di potere enorme, ha governatori come Cota e Zaia, sindaci di grandi città, centinaia di amministratori radicati sul territorio e consiglieri di amministrazione, manager di aziende municipalizzate o partecipate da interessi pubblici. È diventata una rete di potere diffuso nelle regioni più ricche del Paese, e in questa crescita la Lega si è ovviamente contaminata con interessi particolari, economici, finanziari e forse anche altri poco presentabili.
L’inchiesta emersa poco più di un mese fa che ha coinvolto il presidente dell’assemblea regionale lombarda, il leghista Davide Boni, ha rappresentato un salto di qualità, la magistratura è arrivata ai piani alti, ai dirigenti di punta della Lega. E oggi le inchieste sono in casa Bossi, il santuario del partito, toccano i lavori di ristruttirazione di Gemonio, le auto del Trota, e aprono una resa dei conti finale tra le varie anime e correnti, quasi che il tramonto del berlusconismo segnasse anche la crisi della Lega, dopo una lunga stagione di convivenza e di commistione nel potere del Paese. Nata e cresciuta per emancipare il Nord e dare una risposta moderna alla produzione e al lavoro, la Lega si trova ostaggio dei difetti del governo centralista e di Roma, ha analizzato il vecchio saggio lombardo Piero Bassetti.
Ma quale sarà il prossimo atto? Ci saranno altre sorprese nelle inchieste giudiziarie che velocizzeranno il ricambio? Chi prenderà la guida di un movimento che al Nord mantiene la capacità di mobilitare milioni di elettori? Daniele Marantelli, deputato del Pd di Varese e conoscitore dell’evoluzione dello stato maggiore leghista, spiega: «Quello che sta accadendo alla Lega non è solo un incidente indotto dalla convivenza col potere e con i soldi, ma rappresenta un segnale della crisi politica, di leadership del movimento, la gestione oligarchica non regge più». Successori? «Il candidato perenne è sempre Maroni, ma già in passato ha sbagliato la bracciata e ha dovuto ripiegare, rientrare nella truppa. Adesso sembra deciso a dare battaglia e gode di un certo consenso tra la base, ma Bobo deve mostrare di avere coraggio, deve rischiare lo scontro, e non sempre ha dato prova di esser un cavaliere senza macchia e senza paura. Maroni ha cavalcato in questi mesi le note dell’opposizione totale al governo Monti e ai partiti che lo sostengono, usando parole e toni della Lega delle origini per monetizzare in termini di voti questa svolta solitaria. Ma un ritorno al passato, questa volta, non è possibile nemmeno per i leghisti, devono pagare dazio pure loro perchè l’antica purezza è andata smarrita nelle frequentazioni inquinate del potere».
I raggiri e le truffe di Belsito e compagnia, la Tanzania e le case ristrutturate coi soldi dello Stato, possono mettere in circolazione milioni di voti che cercano una nuova casa affidabile, credibile. È una buona occasione per la sinistra per rompere definitivamente la cappa della destra al Nord.

La Stampa 5.4.12
Bonino: “L’autoriforma? Non la faranno mai pronti al referendum”
Radicali: i bilanci devono essere depositati
di Mattia Feltri


Senatrice Bonino, i casi della Lega le suggeriscono riflessioni nuove?
«No, sempre quelle. Cambiano solo i dati di cronaca, quindi adesso che aggettivo vogliamo usare? ».
Lei quale userebbe?
«Insopportabile? Irritante? ».
Senatrice, glielo chiedo subito: lo avrete anche denunciato voi, ma pure il vostro tesoriere...
«Sa quanto mancava? Ottantamila euro. Non milioni. Il magistrato non credeva ai suoi occhi, diceva che era la prima volta che vedeva dei politici entrare di loro spontanea volontà nel suo ufficio. E poi ha aggiunto: ma vi rendete conto che così mi autorizzate a controllare ogni minuzia? E Pannella gli ha risposto: ho tutto con me. E gli ha riempito la scrivania di scatoloni».
È il sistema di finanziamento che fa acqua da tutte le parti.
«I punti sono due. Primo, la Costituzione inattuata. Secondo, il referendum tradito».
Partiamo dalla Costituzione.
«Il famoso articolo 49, “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi... ” eccetera, era nato da un dibattito il cui succo era: col tempo i partiti devono applicare a sé una democrazia interna che è il presupposto necessario alle norme sul finanziamento».
Non è mai successo.
«Appunto. La nostra è la Costituzione più bella del mondo anche perché è la Costituzione meno applicata del mondo. Dunque, i partiti dovevano diventare soggetti con personalità giuridica, obbligati a depositare i bilanci, con organi dirigenti precisi, in cui fosse indicato chi controlla chi, eccetera. Invece ancora oggi sono organizzazioni private che però prendono un finanziamento pubblico sotto forma di rimborso elettorale».
E ne fanno ciò che gli pare, come si vede.
«Certo. Allora, prendiamo un caso, l’Italia dei Valori. Nel 2010 dichiara di avere speso 4 milioni di euro per la campagna elettorale ma ne incassa 13 e mezzo. Sono dati della Corte dei Conti. Vogliamo parlare dei numeri della Lega, o quelli che ci danno i giornali sono sufficienti? »
Li prendete anche voi i rimborsi.
«Noi siamo gli unici che dichiarano di spendere più di quanto incassano. Lo ha certificato la Corte dei Conti».
Che cosa vuole dimostrare?
«Se spendi meno di quanto incassi, non sono rimborsi elettorali! È un finanziamento pubblico mascherato! Io non voglio accusare nessuno, ma perché la Margherita, o come diavolo si chiama, deve avere duecento milioni in cassa? Che poi tutti i soldi che avanzano per forza che vanno in ristrutturazioni di case, in fondi della Tanzania, in azioni canadesi. Tanto non si può controllare».
E qui siamo al referendum.
«Lo sanno tutti: nel 1993 una consultazione popolare abolì il finanziamento pubblico che venne subito reinserito con l’intesa di tutti i partiti, tranne i Radicali, e ipocritamente ribattezzato rimborso elettorale. Un euro a elettore, che siano elezioni politiche, europee o regionali. Dal 2002 si distribuiscono 200 milioni l’anno, due miliardi di euro di in un decennio. Ma adesso ci riproviamo».
Un altro referendum?!
«Da ottobre cominciamo a raccogliere le firme. Prima non possiamo per complicazioni legislative».
Sì, ma come si finanzia la politica?
«Si può fare qualsiasi cosa, anche dare un rimborso elettorale o persino un finanziamento pubblico, purché i partiti diventino soggetti pubblici con bilanci rendicontabili, di modo che chiunque sia in grado di verificare dove finisce ogni euro versato dallo Stato e di modo che ogni elettore sia in grado di sapere a quanto ammonta e da dove proviene il patrimonio del partito».
Ma questo sistema famelico non è in grado di riformarsi. Nel famoso discorso del ‘92 Bettino Craxi disse che la questione non era puramente criminale, che serviva pure un riflessione politica, e la riflessione non ci fu.
«Noi a Craxi glielo gridammo, glielo gridò Pannella, che così facevano tutti, tranne uno, il Partito radicale. Però certo, il suo era un invito giusto. Putroppo la misera riflessione che ne seguì sapete a che portò? Ai rimborsi elettorali. E come si autoriforma questo sistema? Oreste Massari dice che lo stato di salute di una democrazia si vede dallo stato di salute dei partiti. Appunto».

Repubblica 5.4.12
Cambiamo quella legge
di Stefano Rodotà


Che cosa alimenta ogni giorno l´antipolitica, la fa crescere, la fa divenire un elemento che strxuttura la società e il sistema politico, che allontana i cittadini dall´idea stessa di partecipare alle elezioni, come dimostrano rilevazioni e sondaggi?
Lo sappiamo, i fatti sono ormai da troppo tempo sotto gli occhi di tutti. E´ un viluppo di corruzione e privilegi, di uso privato di risorse pubbliche e di spudorata impunità, che è divenuto sempre più stringente, che soffoca una democrazia in affanno e ne aggrava una crisi già drammatica. Ed è proprio la politica, vittima di questa deriva, a farsene complice, comportandosi come se non fossimo di fronte ad una emergenza devastante, perché essa stessa ha finito con il radicarsi sul terreno concimato da un finanziamento pubblico ai partiti che ha tradito le sue ragioni ed è divenuto veicolo di nuove opportunità corruttive, di diffusione dell´illegalità.
A questi argomenti, o piuttosto constatazioni, si oppongono risposte indignate e virtuose. Basta con i moralismi, non si può fare d´ogni erba un fascio, non tutti i partiti sono allo stesso modo coinvolti negli scandali, i politici corrotti sono una minoranza. Ma queste sono parole ormai consumate, che suonano false. I politici onesti, i partiti che fanno certificare i loro bilanci non possono limitarsi ad essere i custodi della loro virtù. Essi, più d´ogni altro, hanno il dovere di agire, di pretendere un radicale mutamento, poiché non si può certo chiedere ai corrotti d´essere i protagonisti di una simile stagione.
Questi sono tempi di scoperte quotidiane dei modi fantasiosi in cui viene usato il denaro pubblico destinato ai partiti. Abbiamo conosciuto una nuova figura sociale, quella del tesoriere/faccendiere, sciolto da ogni vincolo, legittimato ad ogni impudicizia, milite ignoto per i leader dei partiti. Da lui si ritraggono, o meglio fingono di ritrarsi, i sodali di ieri. Ladri, pecore nere – questo sarebbero. E la responsabilità penale, come vuole la Costituzione, è e deve rimanere personale, non può contaminare gli altri dirigenti, gli onesti militanti. E così, per l´ennesima volta, viene eluso il nodo della responsabilità politica, che è assai diversa da quella penale, e ci si sottrae all´obbligo di mosse politiche impegnative, che avviino da subito quel tanto di rigenerazione di politica e partiti ancora possibile.
È di ieri la notizia che la commissione sulle retribuzioni di parlamentari e amministratori pubblici, affidata al presidente dell´Istat Enrico Giovannini, si è arresa, ha rimesso il suo mandato e ha invitato la politica a prendersi le sue responsabilità. Dal Governo è venuta la prevedibile risposta burocratica: «Proseguirà la propria azione nell´obiettivo di giungere ad una razionalizzazione dei trattamenti retributivi in carico alle amministrazioni pubbliche». E il Parlamento, e i partiti? Si rendono conto che l´uscita di scena di quella commissione non fa nascere un problema, ma è la caduta di un alibi? Il tempo è scaduto. Una agenda politica responsabile deve avere in cima la questione del finanziamento pubblico. In Parlamento sono state presentate molte proposte di legge, che qui non è possibile discutere nei dettagli. Ma è urgente una risposta immediata, anche nella forma di una disciplina transitoria, che blocchi definitivamente assurdità come il denaro a partiti inesistenti, ridimensioni radicalmente l´ammontare del finanziamento, imponga severissime regole di gestione e sanzioni penali adeguate. Un ceto politico con un minimo rispetto per se stesso, che aspiri ad una sopravvivenza rispettabile, o fa subito questo o è destinato ad essere giustamente sommerso dal discredito. E tuttavia anche questa mossa non basterebbe in assenza della nuova normativa sulla corruzione, oggi impantanata e per la quale il Governo non ha impiegato un grammo di quella energia spesa nella battaglia ideologica sull´articolo 18, pur sapendo che la corruzione è un vero freno agli investimenti e allo sviluppo. L´invito alla trasparenza del Presidente della Repubblica cade al momento giusto. E dovrebbe indurre ad uscire dagli opposti estremismi che hanno contribuito a far degenerare la questione del finanziamento pubblico. A chi difendeva un finanziamento pubblico senza se e senza ma, infatti, si è opposta la pericolosa suggestione di un finanziamento tutto privato. Certo, un referendum abrogativo del finanziamento pubblico è stato colpevolmente aggirato e sono stati ignorati proprio gli inviti ad abbandonare un sistema che impediva nella sostanza ogni controllo sui bilanci dei partiti (ricordo le accuse di moralismo rivolte negli anni ‘80 a Gustavo Minervini e ai deputati della Sinistra Indipendente che insistevano testardamente su questo tema). Ma una politica tutta affidata solo al contributo dei privati è fatalmente destinata alla dipendenza del potere economico, alla creazione di diseguaglianze. Questo tema è stato affrontato mille volte, ed è all´origine delle discipline sul finanziamento pubblico esistenti quasi ovunque, accompagnate però anche da limiti severi alle spese elettorali (in Francia Jack Lang perdette il suo seggio all´Assemblea nazionale per aver superato di poco la soglia fissata, mentre in Italia sono state cancellate tutte le pur modeste sanzioni previste dalle leggi). Proprio il costo delle elezioni divora la democrazia, come dimostra il loro vertiginoso accrescersi negli Stati Uniti, dove le nuove opportunità di raccolta di fondi direttamente dai cittadini, rese possibili da Internet, non hanno affatto ridimensionato il potere delle grandi imprese private, favorite da una "liberalizzazione" del finanziamento privato imposta dalla Corte Suprema. Non dimentichiamo che, all´inizio di questo millennio, alcuni senatori americani decisero di non riproporre la loro candidatura, dichiarando che il tempo da dedicare alla ricerca di fondi superava ormai quello dedicato allo svolgimento dei compiti pubblici. Un filosofo liberale, John Rawls, ha proposto che le campagne elettorali dovrebbero essere finanziate solo da fondi pubblici eguali per tutti i candidati, proprio per neutralizzare il potere del denaro. Pur senza accogliere questo suggerimento ragionevole e radicale, è ovvio che sono necessarie forme di incentivazione fiscale del finanziamento privato, accompagnate però da una totale pubblicità del nome d´ogni finanziatore. E non dimentichiamo, tornando a casa nostra, che il Pdl si fonda su una gigantesca fideiussione concessa da Silvio Berlusconi. Chi altri potrebbe fare lo stesso? E come non concludere che chi paga dall´interno diventa padrone del partito e della sua politica? E non dimentichiamo che l´unica opera di difesa della legalità possibile in questa materia viene, ancora una volta, dalla magistratura. Non a caso la sua affidabilità è grandemente cresciuta presso l´opinione pubblica, mentre precipita quella di Parlamento e partiti.

l’Unità 5.4.12
Paolo De Zorzi
La speranza di Sasà


«....nel periodo dell’occupazione nazista, malgrado le terribili prove alle quali la gente fu sottoposta, la percentuale dei suicidi tra la popolazione romana diminuì di oltre la metà. Anche questo era un segno della speranza». Questa frase l’ho ripescata giorni fa pensando ai suicidi che si susseguivano sulle cronache giornalistiche e motivati, variamente, dalla crisi economica. Fu scritta da Rosario (Sasà) Bentivegna, il partigiano “Paolo”, nel suo libro Achtung banditen, Roma 1944 (Mursia 1989).
Sasà Bentivegna è morto. La frase mi sembrava mettesse bene in chiaro, con un azzardato confronto, la situazione che viviamo oggi rispetto a quella di Roma nel ’44. Allora si poteva morire ogni giorno, per i bombardamenti o perché rastrellati e passati per le armi. La vita era precaria, ogni giorno che cominciava (così mi raccontava mio padre) ti domandavi se ce ne sarebbe stato un altro. Chi aveva familiari che combattevano l’occupazione nazista (e a Roma erano in molti) aveva l’ulteriore ansia per la sorte di fratelli, sorelle, figli che non si sapeva più se erano ancora liberi (e combattenti) o se incarcerati e torturati a Via Tasso o a Palazzo Braschi. I genitori di Sasà pensavano fosse rifugiato in Vaticano, quando invece combatteva a Centocelle, organizzando l’«insurrezione», o a Palestrina o colpendo ripetutamente le forze di occupazione nella «città aperta». Però, pur in questa realtà di morte incombente e di povertà vera, i suicidi diminuivano ci racconta Sasà. C’era la speranza che tutto stesse finendo e che il sacrificio di alcuni avrebbe portato ad una nuova vita, alla riconquista della libertà, con la dignità propria di chi è riuscito ad opporsi e a riscattarsi. I suicidi diminuivano per questo? Forse sì, forse no. Ma ci voglio credere.

l’Unità 5.4.12
Intervista a Carlo Smuraglia
«Inqualificabile odio per un uomo che ha dato tutta la vita per la libertà»
Il presidente dell’Anpi sugli attacchi alla figura di Rosario Bentivegna «Grave che vengano da chi predica memoria condivisa e pacificazione»
Il giorno dopo la scomparsa di Bentivegna e gli attacchi alla sua figura, come «assassino» detto da Storace, la replica nelle parole e nel ricordo del numero uno dell’Associazione nazionale partigiani.
di Salvatore Maria Righi


Forse anche peggio degli insulti, «assassino», quel minuto di silenzio da spartirsi con Chinaglia. Con tutto il rispetto per Bob, non proprio geniale l’idea che è venuta al quinto municipio di Roma, mescolare la memoria di un partigiano con quella di un calciatore, già che c’erano potevano infilarci anche un tributo ai dischi in vinile. Vedi alla voce rispetto, insomma.
Quello che non tutti hanno dimostrato per Rosario Bentivegna, coi suoi novant’anni di battaglie e di ferite, nonostante gli onori resi dal presidente della Repubblica. Carlo Smuraglia, presidente dell’Anpi, non si era però fatte molda chi predica la condivisione di vate illusioni. lori e una memoria comune vuol di«Spero sempre che prevalgano il re che possiamo aspettarci qualsiasi buon senso e la ragionevolezza, ma cosa. Trovo inqualificabile queste che questi attacchi vengano proprio espressioni di odio e disprezzo. Anche perché, perfino sotto il profilo giudiziario, sono state cancellati tutti i dubbi su Bentivegna».
Si riferisce alle accuse su via Rasella naturalmente.
«Certo, ci sono una serie di sentenze che hanno fatto chiarezza una volta per tutte su quella vicenda. Non c’erano nemmeno i presupposti in concreto per fare lo scambio con i prigionieri poi giustiziati, per il semplice motivo che i tedeschi hanno parlato delle Fosse Ardeatine solo dopo, a massacro avvenuto».
La figura di Bentivegna secondo l’Anpi?
«Un comandante partigiano che coi Gap e poi anche col Comitato di liberazione nazionale ha combattuto a tutto tondo per la libertà e per i diritti di questo paese, con una coerenza e un impegno che non sono mai venuti meno. Dopo tante strumentalizzazioni e speculazioni sarebbe ora di ragionare in termini diversi, certi atteggiamenti non fanno onore a chi li tiene perché non è solo questione di rispetto per chi muore, ma anche per chi ha dedicato la vita alla libertà degli altri». Ferite che dopo tanti anni non sono ancora chiuse.
«Evidentemente c’è ancora chi non accetta la resistenza, le stesse persone che come detto parlano spesso di memoria condivisa e di pacificazione. Eppure credo che in un paese civile sia necessario una specie di patto storico comune sulle vicende fondamentali come il risorgimento, la resistenza e la costituzione. Per questo un paese come l’Italia deve saper fare i conti col proprio passato e ricordare la sua storia più importante, invece si continua a sentire di negazionismi e revisionismi». Come racconterebbe Bentivegna ad un ragazzo del Duemila?
«Un uomo che con l’Italia divisa in due per l’occupazione dei tedeschi ha scelto di combattere per il suo paese unito e per il bene di tutti, anche dei ragazzi di oggi, nel nome della libertà e della democrazia».

l’Unità 5.4.12
«Ciao, patriota Sasà» l’addio al partigiano fra rose, pugni chiusi e segni della croce
La folla è sfilata alla camera ardente, allestita alla sede della provincia di Roma. Commozione e riconoscenza per l’uomo di via Rasella, che «ha lottato per le sue idee, ed erano idee di libertà». Presenti Veltroni e Zingaretti.
di Gioia Salvatori


C’è chi depone una rosa rossa e chi fa il saluto militare. Chi dice una preghiera, chi alza il pugno chiuso dopo essersi fatto il segno della croce. Sfilano pezzi del Pd, della sinistra radicale, ex partigiani, iscritti all’Anpi di ogni età, i ragazzi delle occupazioni e dei centri sociali. Accanto alla bara, la compagna Patrizia Toraldo di Francia resta in piedi: accoglie, saluta, ringrazia. Indossa un tailleur nero, i bianchi capelli allacciati in una coda. Si vede che è orgogliosa di “Sasà”, nonostante le abbia fatto lo scherzo di andarsene, il 2 aprile, per le conseguenze di un ictus.
Ieri centinaia di romani hanno salutato per l’ultima volta Rosario
“Sasà” Bentivegna nella camera ardente allestita nella sede della Provincia di Roma. Per tutti è il partigiano che ha messo la bomba in via Rasella il 23 marzo 1944, ma il suo impegno politico è durato una vita lunga 90 anni. Se ne va un «combattente», «un patriota» dice la gente: un partigiano che ha fatto la storia ma anche un uomo che non ha mai smesso di battersi per le sue idee, un pensatore libero che non si sottraeva ai confronti, da ultimo attivissimo nelle scuole su progetti per la memoria. Uno col quale era facile polemizzare, uno che non la mandava a dire, un oratore brillante, appassionato. La figlia naturale, Elena, avuta dalla moglie e partigiana Carla Capponi, ieri ha assistito insieme alla sorella di Rosario Bentivegna ai funerali laici. A loro hanno stretto la mano parenti, amici e tanti romani che non avevano mai conosciuto di persona Bentivegna. «Se ne va un partigiano che ha fatto la storia mettendo la bomba di via Rasella, con l’intento di risvegliare una città», dicono. «Se volete vedere dove è nata la nostra Costituzione dovete andare in via Rasella», diceva Piero Calamandrei, ieri citato da Walter Veltroni. Lo sa chi è a ricordare “Sasà”, non lo sa chi anche nel giorno della morte chiama Bentivegna, scagionato in più processi, «assassino». Non perde l’occasione Francesco Storace de La Destra che ieri ha abbandonato l’aula del consiglio regionale durante il minuto di silenzio commemorativo. Il giorno prima lo avevano fatto tre consiglieri del Pdl nel diciassettesimo municipio romano.
LA GENTE NON LO DIMENTICA
«La madre degli Storace è sempre incinta», replica senza tenersi il vicepresidente vicario dell’Anpi Roma, Ernesto Nassi. Ma anche se La Destra e alcune frange del Pdl rivangano l’antica polemica, anche se il sindaco di Roma Alemanno manda un assessore ai funerali laici di Bentivegna, la città è con il partigiano gappista, poi militante del Pci, di cui tutti ricordano la passione. Sfila, nella camera ardente, un universo vario che va dai ragazzi col bomber a Giorgio Cremaschi, Gianni Borgna, Carla Verbano e tanti iscritti all’Anpi. Durante il funerale laico viene ricordato quanto Bentivegna diede alla medicina del lavoro e quanto amasse l’arte moderna. Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti apre la cerimonia ricordando l’impegno di “Sasà” per la memoria ed esorta alla raccolta del testimone; il segretario del Pd Bersani in una nota mette tutta la sua gratitudine al partigiano e il suo omologo del Pd Lazio, Enrico Gasbarra, chiede che a Roma venga intitolata una strada a Rosario Bentivegna. Davide Conti, storico e amico di “Sasà”, piange mentre elenca i falsi storici su cui si basano le tesi revisioniste perché soffrendo, Bentivegna, vi ha combattuto contro tutta una vita: via Rasella è sempre stata con lui. Nella sede della Provincia di Roma per l’ultimo saluto sono pugni chiusi sulle note di Bella Ciao, poi c’è il trasferimento al cimitero per la cremazione.
L’ultimo saluto di Vittorio Sartogo per l’amico “Sasà” è con i versi de Il congedo del viaggiatore cerimonioso di Giorgio Caproni, poeta amato da Bentivegna: Ciao e grazie per l’ottima compagnia.

il Fatto 5.4.12
Caso Orlandi “Troppi silenzi dal Vaticano”
Veltroni: Ora collabori
La Sepoltura de De Pedis? Un insulto per i cattolici
di Silvia Truzzi


Ci sono molte, troppe storie che hanno dolorosamente segnato la mia generazione e sono ancora avvolte in un orribile mistero”, spiega Walter Veltroni che recentemente ha riportato sotto i riflettori, con un’interrogazione al ministro dell’Interno, il caso di Emanuela Orlandi, la ragazza scomparsa nel giugno dell’83. E continua: “Penso al delitto Pasolini, alle stragi del ‘92-‘93, alle bombe di Piazza Fontana”.
Onorevole, possibile che sia più semplice accertare la verità a distanza di quasi trent’anni?
Sì: o la verità emerge subito oppure paradossalmente succede dopo qualche anno. Come nel caso delle stragi. Più trascorrono gli anni, più mi convinco che la vita dell’Italia abbia conosciuto, nei suoi momenti più delicati, dei punti di svolta che hanno chiamato in causa soggetti altri. I punti di svolta sono tre: Piazza Fontana, il rapimento Moro, le stragi del ‘92-‘93. Queste ragioni mi spingono a non smettere di cercare: è una specie di ossessione civile.
Quali sono i soggetti “altri”? Del caso Orlandi si è detto di tutto.
Non voglio entrare nelle ricostruzioni perché siamo nel campo delle ipotesi. Cosa c’è di strano nella sparizione della Orlandi? Una ragazza esce da Sant’Apollinare dove è andata a studiare musica, è figlia di un cittadino del Vaticano e sparisce nel nulla. A questa sparizione corrispondono una quantità infinita di telefonate e depistaggi: la famiglia viene perfino trascinata nella vicenda di Ali Agca. Dopodiché si scopre che il capo della banda della Magliana è sepolto in una delle Basiliche più importanti di Roma. E che due persone – padre e figlio, vicini alla la banda della Magliana – sono gli autori di due telefonate, una a casa Orlandi subito dopo la sparizione e una a Chi l’ha visto, più di vent’anni dopo. Poi: l’auto con cui si dice Emanuela sia stata rapita viene ritrovata dopo 13 anni nel parcheggio di Villa Borghese e si scopre che prima di De Pedis era di proprietà del faccendiere Flavio Carboni. Ancora: alla manifestazione organizzata da Pietro Orlandi, due gendarmi del Vaticano scattano delle foto.
Tutti dati obiettivi: metterli insieme è lavoro della magistratura. E lei?
Per la parte che mi riguarda cerco di fare in modo che questo lavoro si acceleri. Aver posto al question time alla Camera le due domande, una riguardante la sepoltura di De Pedis e l’altra riguardante il fotografo, ha prodotto un effetto: far dire al governo, dopo errori vari, che quella Basilica non è extraterritoriale. E che le autorizzazioni rilasciate dal Comune di Roma sono relative a una pratica illegale: in tre lettere diverse si passa dalla definizione di “Basilica di Sant’Apollinare” sic et simpliciter, a “Sant’Apollinare Stato del Vaticano” infine a “Stato del Vaticano”, come se De Pedis fosse stato translato in San Pietro.
Un trasferimento illegale. Perché è stato approvato e perché nessuno è intervenuto ?
Io credo che questa cosa sia intollerabile per i cattolici, prima che per chiunque altro.
Ecco: com’è possibile che un criminale sia seppellito in Sant’Apollinare? Sono passati molti anni, c’era modo di fare qualcosa.
Bisogna volerlo, prima di tutto. La magistratura su questo tema è impegnata da anni. Ho scritto tempo fa una lettera pubblica al Vicariato per chiedere di intervenire. Stiamo parlando di una persona che era a capo di una delle agenzie della strategia del terrore in Italia. Perché la banda della Magliana va a sparare a Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano? Perché entra nel caso Moro con il comunicato del Lago della duchessa? Se era gente che voleva solo gestire il traffico di droga e le scommesse, che gli’importava? Questi qui per molti anni hanno fatto un lavoro per conto terzi. Vorrei che qualcuno ci spiegasse come la Chiesa cattolica può aver fatto una scelta di questo genere.
Non dovrebbe esserci da parte del Vaticano un interesse a uscire da questo imbarazzo?
Me lo auguro. Perché nel mondo della Chiesa in tanti – Don Puglisi, Don Diana – si sono impegnati nella battaglia per la legalità. E tanti ancora lo sono: posso immaginare cosa significhi per loro questo incomprensibile segnale.
Infatti non è stato spiegato: un silenzio quanto meno strano.
Nessuno è in grado di motivare perché una persona così, che ha diritto a una sepoltura come tutti, riposi in un luogo riservato a chi ha benemerenze speciali.
Dalla risposta che il ministro Cancellieri le ha dato in aula emerge anche che non esiste, come dovrebbe, una carta che autorizzi lo spostamento della salma di De Pedis.
Esatto: due volte illegale. Non sono state rispettate le norme nazionali e nemmeno quelle comunali perché appunto si è detto che il corpo sarebbe stato portato in Vaticano. Questo è il punto di partenza.
Ci sono più legami con l’Oltretevere. Emanuela Orlandi è figlia di un cittadino del Vaticano e studia musica nella scuola di Sant’Apollinare, nella cui Basilica verrà poi sepolto un uomo coinvolto nella sua sparizione. Troppe coincidenze, non trova?
Non c’è dubbio. Faccio appello al Vaticano perché fornisca la sua collaborazione alla famiglia e alla magistratura con tutte le testimonianze e le carte di cui dispone. E prenda un’iniziativa: la sepoltura di De Pedis è impresentabile.

Corriere della Sera 5.4.12
Legge elettorale, si tratta sul premio di maggioranza
Dubbi del Terzo polo: c'è il rischio di ingovernabilità
di Lorenzo Fuccaro


ROMA — Gli sherpa che lavorano alla nuova legge elettorale per conto di Pdl, Pd e Terzo polo torneranno a vedersi giovedì prossimo per definire la bozza che dovrà poi passare al vaglio del Parlamento. Ieri, nell'incontro al quale erano presenti Ignazio La Russa e Gaetano Quagliariello per il Pdl, Luciano Violante e Gianclaudio Bressa per il Pd e Pino Pisicchio, Italo Bocchino e Ferdinando Adornato per il Terzo polo si è registrato un clima positivo che lascia intravedere un'intesa a breve. Anche il segretario pdl Angelino Alfano a «Porta a porta» ha precisato che «chi vince costruisce l'alleanza per governare, ma il candidato premier deve essere chiaro prima del voto».
Lo schema ormai acquisito e sul quale si discute è quello del modello simil tedesco, messo a punto la scorsa settimana da Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini. Un modello che, negli auspici di Pdl e Pd ma assai meno del Terzo polo, dovrebbe favorire il cosiddetto bipolarismo possibile. Ovvero dovrebbe, osserva Quagliariello, «favorire i grandi partiti e non più le coalizioni». Ed è appunto su quali correttivi adottare per produrre una torsione maggioritaria che ieri si è arenata la discussione. E di comune accordo è stata decisa una pausa di riflessione. «Noi del Terzo polo però — argomenta Pisicchio — nutriamo forti perplessità, perché quando su un sistema elettorale coerente come quello in vigore in Germania si introducono artifici si rischia di ottenere un ibrido ingovernabile».
La fase quindi è delicata. C'è la volontà di tutti di andare avanti nel trovare un testo che cancellerà il porcellum perché esiste già un'intesa sulle riforme costituzionali e si è anche convenuto di farle procedere congiuntamente con la modifica del sistema di voto. Il nodo è come riuscire nell'impresa di far convivere l'impianto proporzionale con i correttivi maggioritari.
Per Quagliariello «si può agire su tre elementi: soglia di sbarramento posta al 5%; premio di governabilità o al primo partito o al primo e al secondo; ripartizione dei seggi su base circoscrizionale con collegi piccoli in modo da alzare il limite di accesso».
Ebbene, sono proprio questi suggerimenti che non piacciono a Pisicchio perché, sostiene, «snaturerebbero il modello tedesco». Del resto, aggiunge l'esponente del Terzo polo, «i motivi per cui Pdl e Pdl lo hanno accettato dipendono dal fatto che entrambi non sono più in grado di fare coalizioni. Tuttavia, poiché un'intesa va trovata è possibile che si raggiunga un compromesso garantendo un premio di governabilità a tutte le forze che abbiano superato un certo sbarramento che però dobbiamo ancora definire». L'importante, afferma Bocchino, «è evitare che si arrivi a un assetto che obblighi i partiti a formare coalizioni eterogenee». Certo è che, avverte La Russa, la prospettiva è «superare l'attuale bipolarismo per arrivare a un bipolarismo partitico evitando però che si torni al passato con governi che cambiano ogni nove mesi».

Corriere della Sera 5.4.12
Pdl primo partito, Idv sotto lo sbarramento se si andasse al voto con il nuovo sistema
Gli scenari possibili testando le ipotesi di riforma sui numeri delle elezioni del 2008
di Renato Mannheimer


Uno dei compiti principali — e, secondo i sondaggi, più richiesti in questo momento dalla popolazione — attribuiti ai partiti mentre il governo tecnico procede con le riforme, è il varo, possibilmente unitario, di una nuova legge elettorale, al posto dell'attuale, unanimemente definita una «porcata». I leader delle tre forze politiche principali si sono riuniti e hanno stilato una prima bozza di accordo al riguardo, nella quale vengono delineati i principi ispiratori del nuovo ordinamento. Per quel che si comprende si tratta sostanzialmente di un ritorno al proporzionale con (forse) una soglia di sbarramento ai partiti più piccoli per impedire un eccessivo frazionamento delle rappresentanze parlamentari. Nel suo insieme, ciò comporta un sostanziale abbandono del sistema bipolare sperimentato in questi ultimi anni, forse non necessariamente del bipolarismo come tale. Una conseguenza importante dell'ipotesi messa a punto dai tre leader è che l'elettore non conoscerà più con certezza il governo sostenuto dal suo voto, ma dovrà lasciare, come un tempo, la scelta dei governi agli accordi e alle mediazioni tra i partiti dopo le elezioni, sulla base dei risultati di queste ultime. Tuttavia i margini di mediazione potrebbero essere diversi se il sistema individuasse un partito vincitore anziché una coalizione.
Naturalmente, è impossibile prevedere oggi quale sarà l'assetto parlamentare prodotto dalle nuove elezioni con questo sistema di voto poiché le scelte future dei cittadini sono ignote persino a una gran parte di questi ultimi, dato che nei sondaggi sulle intenzioni di voto, quasi metà degli intervistati dice di non sapere per che partito optare o di essere tentato dall'astensione.
Ma può essere egualmente interessante testare le indicazioni per il nuovo sistema elettorale sui risultati delle ultime consultazioni del 2008. Come sarebbe andata allora se si fosse votato già col nuovo sistema? Berlusconi avrebbe vinto lo stesso? La simulazione che proponiamo tenta di rispondere a questi quesiti ovviamente con un limite: basandosi sui risultati del 2008 la base di partenza presenta per definizione margini minori o maggiori comunque a favore di Berlusconi. Inoltre bisogna cambiare ottica: non chiedersi se c'è, come ieri c'era con l'ampio premio della legge, una coalizione vincente, ma solo un partito. In alternativa al vecchio premio di coalizione, si sta pensando a un premio più modesto (ipoteticamente di 36 seggi) da attribuirsi al partito che ottiene più voti (forse anche al secondo).
Ma prescindiamo per ora da questo premio e esaminiamo i risultati elettorali passati applicando la proporzionale pura e ipotizzando una diminuzione del numero dei deputati (abbiamo per ora limitato la simulazione alla Camera) a 500 invece dei 630 attuali, cioè con la soglia della maggioranza assoluta a 250. Assumendo una soglia di sbarramento al 4%, il Pdl sarebbe come partito più votato il perno del sistema. Tuttavia non si può dire che la governabilità sarebbe favorita e neanche l'alternanza: infatti le alternative sarebbero solo una riedizione dell'intesa Pdl-Lega con un solo seggio di maggioranza, una coalizione ancora più eterogenea con l'Udc o, a quel punto, la più probabile riedizione della Grande Coalizione attuale. Viceversa il Pd non otterrebbe la maggioranza neanche alleandosi contemporaneamente con l'Idv e l'Udc.
Con l'introduzione di una soglia di sbarramento più elevata (5%), Di Pietro perderebbe, secondo i risultati del 2008, la rappresentanza parlamentare. Di fatto se ne avvantaggerebbe il centrodestra: il Pdl potrebbe governare da solo con la Lega con 264 seggi e decidere se allearsi con l'Udc o dar vita a una Grande Coalizione rinnovata. Un risultato comunque appeso al fatto che qualche partito significativo resti sotto lo sbarramento.
Se ora si introduce l'ipotesi di un premio di maggioranza, il quadro si fa più roseo per il primo partito, nel nostro caso per il Pdl. Che non arriverebbe a disporre delle maggioranze attuali, ma potrebbe godere di un discreto vantaggio: infatti sarebbe da solo a 226 o 236 seggi, perno decisivo di un bipolarismo ristrutturato sul partito più grande, in grado di allearsi o con la sola Lega o con la sola Udc. Nel caso di un premio di maggioranza ripartito tra il primo e il secondo partito, la posizione dominante sarebbe assai più esigua.

Repubblica 5.4.12
Della Valle
"Vogliono controllare il Corriere la mia battaglia non finisce qui"
Il patron Tod’s: gestiscono tutto un ragazzino e un funzionario
di Fabvio Massimo Signoretti


Elkann e Pagliaro si sono messi a brigare intorno al patto, ma sono due dilettanti allo sbaraglio
La mia quota salirà? Posso dire che vado avanti: da persona che dove va compra, continuerò la mia strada

ROMA - «Sono voluto uscire dal patto di sindacato perché in Rcs ho visto una situazione gestita da un ragazzino e un funzionario con la pretesa di decidere per tutti. Diciamolo chiaramente: era in atto il tentativo di Elkann e Pagliaro di mettere il cappello sul Corriere della Sera anche con l´invenzione dei consiglieri indipendenti, tutti uomini legati a loro, mentre io in consiglio volevo gli azionisti. Ma sono due dilettanti allo sbaraglio. E, mi dispiace, ma io non ci sto». Diego Della Valle, appena uscito dal patto di sindacato di Rcs, è furente. E attacca frontalmente il presidente della Fiat, John Elkann, e il presidente di Mediobanca, Renato Pagliaro, principali protagonisti della "rivoluzione" nella governance di Rcs.
È stato questo scontro a spingerla a chiedere l´uscita dal patto Rcs?
«È un pezzo che lo chiedevo. Volevo tornare libero. Oggi mi hanno ridato le mie azioni. Sono libero e farò quello che mi pare. Basta con questi metodi. Può una società quotata in Borsa affondare da un mese nel pettegolezzo, lasciando in pasto ai giornali i nomi di chi ci sarà a guidare l´azienda? Elkann e Pagliaro si sono messi a brigare intorno al patto, ma questo non competeva loro perché è un compito che spetta al presidente del patto. Sono due dilettanti allo sbaraglio: un impiegato e un ragazzino. Mi dispiace ma non ci sto».
Lei usa parole molto dure, avete litigato nel corso della riunione?
«Si sono comportati male e finalmente la mia voglia di andarmene è stata premiata e la situazione si è sbloccata all´unanimità. Ma questa vicenda ha creato molto malumore tra gli azionisti abituati a respirare aria di mercato. Non si può gestire un´azienda così. Preferisco uscire e avere mani libere».
Avrà pure le mani libere, ma così è uscito dal sancta santorum di Rcs, la stanza dove si decide tutto.
«Ma decide cosa?»
Il presidente, l´amministratore delegato, i direttori dei giornali...
«Creda a me, lì dentro non si decide proprio niente. Anzi, il vero, gigantesco problema è che non si decide mai. La capacità di mettere le mani sui giornali c´è, ma non c´è la capacità di decidere. Tutto è difficile con una compagine così allargata di soci. È un´azienda in cui ho perso molto tempo».
Ma ora che ha le mani libere, pensa di incrementare ulteriormente la sua quota?
«Ora sono libero. Sono un imprenditore abituato a vivere nel mercato e non solo a parlare. Ogni volta che sono andato in un posto ho comprato azioni. A me le azioni non le ha mai regalate nessuno. E non le ho avute in carico da un´azienda, né ho gestito un pacchetto azionario di una banca. Quelli sono metodi da vecchia scuola, ma che vanno giù come birilli. Posso dire che vado avanti: da persona che dove va compra, continuerò la mia strada».
Delle decisioni di ieri non c´è proprio nulla che l´ha soddisfatta?
«Sono contento per i giovani confermati, anche se loro non li volevano. Ma sono dispiaciuto per gente per bene come Bertazzoni e Lucchini che hanno mostrato sempre grande correttezza e sono stati fatti fuori da un giorno all´altro».
Dalle sue parole sembra che tutto sia arrivato all´improvviso. Non ne avevate parlato nelle scorse settimane?
«La lista dei consiglieri indipendenti l´abbiamo vista solo questa mattina (ieri mattina n.d.r.). Fino a martedì non c´erano i nomi né degli indipendenti, né del presidente, né dell´amministratore delegato. Le pare il modo? E anche ora c´è una società quotata in Borsa che dice che troverà l´amministratore delegato ma non sa chi sarà. Ci siamo ridotti a comunicare al mercato che non abbiamo un capo azienda. Intendiamoci: anche in passato ho visto operazioni di potere. Ma erano fatte da vecchi marpioni capaci di muoversi. Oggi mancano i piloti di una volta. A Bazoli (presidente del cds di Intesa Sanpaolo n.d.r.) la situazione è evidentemente sfuggita di mano. Mi guardavo intorno al tavolo, si era creata una situazione di assoluto disagio. E qualche tentazione di uscire con me a qualcuno è venuta in mente».
Ora che è uscito dal patto di sindacato di Rcs sulla quale aveva puntato molto, si sente sconfitto?
«Scherziamo? La battaglia continua e continua con le mani libere. Prima ero vincolato ad accettare anche decisioni che non condividevo perché avevo tutte le mie azioni lì dentro ed ero sempre più stufo, anche nell´ultimo atto: tre giorni di discussione per non decidere niente osservando le manovre di impiegati e ragazzini che non hanno ancora imparato a lavarsi i denti».
Anche questa volta ha utilizzato metodi poco consueti nel mondo paludato dell´alta finanza. Perché ha deciso di attaccare in modo così pesante e diretto Elkann e Pagliaro?
«Ho deciso di fare nomi e cognomi e continuerò a farlo. Ripeto: sono dilettanti allo sbaraglio che vogliono mettere il cappello sui giornali e non sanno dove si comincia. L´unico risultato è un imbarazzo generale e una mancanza di decisioni vere. Un peccato perché resto convinto che Rcs ben gestita sarebbe davvero una bella azienda».
La sua quindi è un´altra dichiarazione di guerra dopo quella lanciata a suo tempo contro l´allora presidente di Generali, Cesare Geronzi, poi spinto a dimettersi?
«Quelli che stanno sul mercato e hanno aziende di primo piano non possono accettare di prendere ordini da questi mondi finiti, da personaggi che fanno affondare tutto quello che toccano: guardi cosa capita alle aziende toccate da Mediobanca. Devono capire che la cooptazione è finita, quello che conta è il mercato».
Ma la cooptazione in questi mondi c´è sempre stata, non può essere una sorpresa per lei.
«Certo, ma creda a me: c´erano altri pesi nei cappotti. Oggi vedo solo cappotti vuoti».

l’Unità 5.4.12
Oltre 2 milioni di schiavi nel Terzo Millennio
E sono quasi tutte donne
Le cifre dell’Onu sul traffico di esseri umani: l’80% viene sfruttato sessualmente,
il 17% è destinato ai lavori forzati. I fondi per contrastare il fenomeno? Troppo pochi
di Umberto De Giovannangeli


Cifre agghiaccianti per un fenomeno sconvolgente. In tutto il mondo, 2,4 milioni di persone sono vittime di traffico di esseri umani. In tutto il mondo 2,4 milioni di persone sono vittime di traffico di esseri umani. Tra loro, l’80% viene sfruttato come schiavo sessuale. A denunciarlo è il Rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc).
A darne conto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite è Yuri Fedotov, a capo dell’ Unodc. Il 17% delle vittime della tratta, ha spiegato Fedotov, è costretto al lavoro forzato. Due vittime su tre, ha precisato, sono donne. Ogni anno i criminali che gestiscono le reti di traffico di esseri umani guadagnano in media 32 miliardi di dollari (24,2 miliardi di euro). Catturare questi criminali, ha spiegato il capo dell’Unodc, «è una sfida di proporzioni straordinarie». «In qualsiasi momento ha ribadito Fedotov 2,4 milioni di persone soffrono la miseria di questo crimine umiliante e degradante». Secondo l’Unodc, soltanto una su cento vittime della tratta viene liberata e salvata. Fedotov ha fatto appello per una risposta coordinata a livello locale, regionale e internazionale per compensare «un’applicazione della legge progressiva e attiva» con azioni che lottino contro «le forze del mercato che contribuiscono al traffico di esseri umani in molti Paesi di destinazione». Cherif Bassiouni, professore di legge della DePaul University di Chicago, ha notato che la maggior parte dei Paesi criminalizza prostitute e altre vittime della tratta di persone, ma non i responsabili, «senza cui questi reati non sarebbero stati commessi». Secondo Bassiouni, inoltre, la stima di 2,4 milioni di vittime della tratta di persone non riflette la vera scala del problema. In tutto il mondo, ha proseguito, bisogna rivalutare «chi è una vittima e chi è un criminale». «Dobbiamo cambiare l’atteggiamento dominante nei dipartimenti della polizia controllati da maschi che considerano questi reati come la meno urgente delle loro priorità», ha aggiunto.
La tratta di persone può essere considerata come un crimine contro l’umanità, sia sulla base del diritto internazionale generale sia rifacendosi allo Statuto della Corte penale internazionale (StCPI), adottato a Roma nel 1998 ed entrato in vigore il primo luglio 2002. L’art. 5 dello Statuto, dopo aver sancito che la giurisdizione della Corte è limitata «ai più seri crimini che preoccupano la comunità internazionale nel suo insieme», afferma che la suddetta giurisdizione riguarda: «a) il crimine di genocidio; b) i crimini contro l’umanità; c) i crimini di guerra; d) il crimine di aggressione». Per quanto concerne la tratta di esseri umani, il delitto è inserito all’art. 7 StCPI nei crimini contro l’umanità. Infatti, tra le condotte illecite esplicitamente elencate, alla lettera c) è presente la «Riduzione in schiavitù». È al comma 2 di tale disposizione che vengono fornite le definizioni degli atti precedentemente indicati e, tra queste, la lettera c) recita: per «riduzione in schiavitù» s’intende l’esercizio su una persona di uno o dell’insieme dei poteri inerenti al diritto di proprietà, anche nel corso del traffico di persone, in particolare di donne e bambini a fini di sfruttamento sessuale».
L’ex presidente del Cile, Michelle Bachelet, direttrice dell’agenzia Un Women, prendendo la parola al Palazzo di Vetro, ha affermato che «è difficile pensare a un reato più orribile e scioccante della tratta di persone». «Ciononostante ha aggiunto è uno dei reati più lucrativi e in più rapido sviluppo». L’attrice Mira Sorvino, ambasciatrice di buona volontà dell’Onu contro il traffico di esseri umani, ha sostenuto nel suo intervento all’Assemblea che «la moderna schiavitù è superata per quanto riguarda i profitti soltanto dal traffico di stupefacenti» e ha notato che pochi soldi vengono spesi per combattere il fenomeno. Inoltre, ha affermato, manca la volontà politica e una forte normativa in materia. «Gruppi internazionali di criminalità organizzata ha spiegato la Sorvino aggiungono gli esseri umani alle loro liste di prodotti. Immagini satellitari hanno rivelato che per trasportare persone vengono usate le stesse rotte del traffico di droga e di armi». Il presidente dell’Assemblea generale, Nassir Abdulaziz Al-Nasser, e il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, hanno fatto appello ai donatori affinché contribuiscano a un nuovo fondo creato per aiutare le vittime del traffico di esseri umani. Alcuni Paesi, ha spiegato Fedotov, si sono impegnati a contribuire al Voluntary Trust Fund for Victims of Trafficking con una somma complessiva di quasi un milione di dollari (750mila euro), ma finora il fondo ha ricevuto soltanto 47mila dollari in contributi (35mila euro). Alla fine della sessione al-Nasser ha annunciato che ci sono state tre nuove offerte: 150mila euro dall’Australia, 23mila euro dalla Russia e 30mila euro dal Lussemburgo. Poco, troppo poco per contrastare un fenomeno in crescita.

l’Unità 5.4.12
Ionela e gli altri
Bambini venduti per pochi spiccioli
Pakistan o Bangladesh, ma anche Bulgaria, Moldova e Albania: comprati nei villaggi e rivenduti spesso anche In Italia
di U.D.G.


Madadgaar Helpline è un uomo coraggioso. Un coraggio speso ogni giorno nel contrastare la tratta di esseri umani nella provincia pachistana del Sindh. La sua è una storia esemplare. La Ong di cui è presidente si occupa di donne e bambini vittime di abusi e di traffico umano in una delle aree più esposte alla rapacità di organizzazioni senza scrupoli. Nei primi due mesi del 2012, racconta, sono stati registrati 190 casi. Nel 2011 i casi erano stati in tutto 288.
Le famiglie spiega ricevono denaro in cambio dei propri figli. I trafficanti prendono donne e bambini dai villaggi con la promessa di portarli a lavorare nelle città. Una volta pagata una certa cifra, questi malviventi sfruttano le vittime trattandole come schiavi. La maggior parte provengono dal Bangladesh e dall’Afghanistan, dove la povertà e i conflitti hanno reso difficile per la gente soddisfare le proprie necessità primarie. Secondo fonti del Ministero per i diritti umani del Sindh, la povertà obbliga le persone a dare via i propri figli. Nelle grandi città come Karachi, Hyderabad, Larkana ci sono bambini con meno di 5 anni sfruttati come servitù, nonostante la Costituzione del paese garantisca la tutela dei minori. Dopo le inondazioni del 2010 e 2011, nella provincia del Sindh la povertà è aumentata, e molte famiglie dipendenti dall’agricoltura non hanno avuto altra scelta che mandare i propri figli nelle grandi città. Secondo un rapporto del 2011 del Dipartimento degli Stati Uniti per la Tratta di esseri umani, il Pakistan è un Paese di transito oltre che una meta per le vittime della tratta. Il principale problema è legato al lavoro forzato, prevalentemente in Sindh e Punjab, molto diffuso nelle fabbriche di mattoni, tappeti, nell’agricoltura, e nella pesca, nelle miniere, nell’industria conciaria e nella produzione di braccialetti di vetro.
Dal Pakistan all’Europa. Racconta Jelena Bjelica, autrice del libro Sulle tracce della libertà traffico di esseri umani in Europa: si deve comunque porre una distinzione tra i cosiddetti Paesi di provenienza, quelli di transito e quelli di destinazione che svolgono la catena del traffico di esseri umani. È noto che l’Albania, la Bulgaria, la Romania e la Moldavia più di frequente sono Paesi di provenienza, mentre la Serbia e Montenegro, la Bosnia Erzegovina, la Croazia e la Repubblica Ceca sono Paesi di transito. I più frequenti Paesi di destinazione sono la Francia, l’Italia, la Svizzera e la Germania. Affinché il problema venga risolto si deve lavorare all’innalzamento del livello di coscienza in tutti i Paesi, ma attraverso le più ampie categorie di cittadini, perché questo è un problema globale».
Una storia tragicamente esemplare è quella di Ionela. Ionela ha quindici anni e lavora come schiava del sesso. La sua vicenda è narrata nel libro di I.Matei Minorenni in vendita (Corbaccio, 2011) scritto in collaborazione con Anne Berthod. «Ionela è adesso in pugno a una famiglia di zingari, composta dalla madre, due figli e una figlia. All’inizio, se non ho capito male, questa madre, una ruffiana piuttosto avanti con gli anni, ha proposto a Ionela di ospitarla a casa propria, dato che i suoi genitori litigavano di continuo, per poi prenderla a lavorare con sé al mercato. In capo a tre mesi la babuska le ha annunciato: «Vitto e alloggio non sono mica gratis. Mi sei già costata un sacco di soldi, è ora che mi ripaghi il tuo debito. I miei figli ti hanno trovato un lavoro in Turchia. Partirai domani». Una volta in Turchia, Ionela è stata picchiata e minacciata di morte, dopodiché si è piegata a fare ciò che le chiedevano: andare a letto con degli sconosciuti».

l’Unità 5.4.12
Lo scrittore in una poesia contesta i piani d’attacco contro l’Iran e «l’ipocrisia dell’Occidente»
Bufera Durissime reazioni: «Antisemitismo», «Un aggressivo pamphlet da agit-prop»
«Lo Stato di Israele minaccia la pace» Tutti contro Grass
Ancora una volta il premio Nobel scatena il putiferio. Questa volta puntando il dito contro il potenziale «first strike» nucleare contro Teheran. Ed è lui stesso ad anticipare per lui l’accusa di antisemitismo.
di Paolo Soldini


Si può criticare lo stato di Israele senza cadere nell’antisemitismo? Vecchia questione, particolarmente controversa in Germania, ma certo non solo «tedesca». Qualsiasi persona equilibrata e ragionevole risponde che sì, certo che è possibile. Tant’è che non sono pochi gli ebrei che, anche in Israele, verso la politica di Israele hanno un atteggiamento critico. Al di là del grande bailamme di polemiche e di reazioni sdegnate suscitato nel suo Paese, è questa la Gretchenfrage (la questione fondamentale dalla risposta alla quale tutto dipende, come quella che Faust pone a Margarethe: credi in Dio?) che Günter Grass, con un pizzico di vis provocatoria di troppo, ha buttato sul tappeto scrivendo per la Süddeutsche Zeitung la poesia Was gesagt werden muss: «Che cosa deve essere detto». Di fronte al governo attuale di Israele che apertamente prospetta l’ipotesi di utilizzare in un attacco preventivo contro l’Iran di Ahmadinejad le armi nucleari che possiede e che l’ipocrisia dell’occidente passa sotto silenzio, anche gli amici di Israele in Germania debbono parlare e, vincendo tutte le remore, anche quelle che derivano dalle speciali responsabilità che la Storia ha gettato sulle spalle di ogni tedesco, condannare l’atteggiamento di chi minaccia. E, en passant, anche l’ipocrisia dei governi di Berlino che hanno fornito a Israele i sommergibili da cui potrebbe partire il micidiale first strike.
Le reazioni sono state violente. Una, in particolare, ha suscitato polemiche all’interno della polemica: quella dell’ambasciatore israeliano a Berlino Emmanuel Nahshon, il quale ha accomunato lo scrittore ottantacinquenne ai seminatori di odio antisemita che la storia ha disseminato per l’Europa dal Medio Evo in poi. «È una tradizione europea – ha detto quella di accusare gli ebrei, prima della festa di Pessach, di omicidi rituali. Un tempo erano i bambini cristiani che, così si diceva, venivano uccisi per mischiare il loro sangue nel pane azzimo. Oggi è il popolo iraniano, che, così si dice, lo stato ebreo vorrebbe annientare». Il curioso rovesciamento di una teoria del complotto che ha prodotto, per secoli, pogrom e tragiche persecuzioni non rende onore né a quanto Grass ha effettivamente scritto né alla manifesta realtà dei fatti: è l’attuale governo israeliano che evoca oggi il colpo preventivo, pur se lo fa in risposta alle sinistre, inaccettabili (e non accettate da tutto il resto del mondo) minacce di Ahmadinejad e con la consapevolezza, richiamata da Nahshon, di essere l’unico stato al mondo di cui è messo in discussione il diritto di esistere.
Anche il presidente della comunità ebraica Dieter Graumann non è stato leggero contro l’«aggressivo pamphlet da agit-prop» con cui Grass avrebbe «demonizzato» Israele: «Un grande scrittore non è necessariamente un grande analista della questione medio-orientale». Ancor più pesante il giudizio di Amos Luzzatto, ex presidente delle comunità italiane: «Un proclama, quello di Grass, da condannare e che può essere archiviato solo da una autosmentita». Scontate, e spesso ipocrite, le reazioni dei politici più conservatori che non hanno mai amato Grass fin da quando, alla fine degli anni ’50 pubblicò il suo «eversivo e diseducativo» Il tamburo di latta e poi si schierò con Willy Brandt. I vertici della Cdu e il governo, comunque, sono stati molto equilibrati. Il portavoce della cancelleria ha ricordato che in Germania c’è libertà di espressione artistica mentre il ministero degli Esteri ha tenuto a precisare che da Israele non è venuta finora alcuna reazione ufficiale che richiedesse una presa di posizione. D’altronde era stato proprio il più illustre predecessore di Graumann, Ignatz Bubis, a battersi, negli anni ’90, per stabilire la giusta distinzione tra i tedeschi ebrei e lo Stato di Israele.
Una tempesta in un bicchier d’acqua, allora? Non proprio. Grass ha toccato non solo un punto ancora delicatissimo della consapevolezza di sé e del proprio passato dell’opinione tedesca, ma anche – e questo spiega forse l’asprezza delle reazioni – un nodo che riguarda proprio lui, le sue convinzioni e la sua biografia. Non solo il passaggio, giovanissimo, nelle SS, reso pubblico con un ritardo di decenni, ma anche una certa, mai celata, prevenzione contro le «durezze bibliche» che, a suo parere, caratterizzerebbero la dottrina della religione di Abramo. Ma è antisemitismo?

Corriere della Sera 5.4.12
Grass, l'indignazione a senso unico
Una poesia contro lo Stato d'Israele, accusato di minacciare la pace nel mondo
di Pierluigi Battista


Günter Grass è sempre stato un magnifico pierre di se stesso. Per decenni ha incarnato nella Germania occidentale la figura ieratica dell'antifascista intransigente e senza macchia, occultando tuttavia la sua giovanile adesione volontaria al corpo speciale delle Waffen SS. E in questi giorni, infiammato d'indignazione anti-israeliana, ha curato sin nei minimi dettagli la pubblicazione di una poesia contro Israele, scegliendo con fredda strategia di marketing le testate da cui lanciare la sua invettiva brechtiana per contrastare una grande Menzogna («Non taccio più»).
Grass ha così deciso di consegnare in contemporanea alla «Süddeutsche Zeitung» («Die Zeit» l'aveva rifiutato), a «El País», a «Repubblica» e a «Politiken» in Danimarca il suo furente j'accuse contro lo Stato ebraico, indicato come la principale minaccia mondiale per la pace a causa delle sue bombe atomiche, e contro la Germania in procinto di fornire di sottomarini lo Stato d'Israele. Sotto accusa è «l'affermato diritto al decisivo attacco preventivo che potrebbe cancellare il popolo iraniano», giacché «si presume», declama Grass, che Teheran stia per portare a termine la «costruzione di un'atomica». «Si presume»: vuol dire che la «presunzione» potrebbe non essere vera? Vuol dire che non è vero che l'Iran di Ahmadinejad stia costruendo l'atomica per annientare «l'entità sionista», come è stato più volte e sempre più minacciosamente proclamato?
Per Grass l'Iran non è una «minaccia», lo è solo Israele. A capo di Teheran c'è, scrive, «un fanfarone». E i «fanfaroni» sparano assurde stupidaggini, non atomiche sullo Stato degli ebrei da annientare. L'indignazione di Grass si ferma qui. Non s'indigna per chi raffigura gli ebrei come «maiali da sgozzare». Non s'indigna se alla corte di Ahmadinejad si riunisce con meticolosa puntualità l'internazionale dei negazionisti, che considerano Auschwitz un'invenzione dei sionisti per legittimare il loro Stato. Queste per lui sono mere «fanfaronate», non pericolose come la fornitura di armi della Germania a Israele.
Grass è molto scaltro e nei suoi versi ha l'accortezza di formulare, per prevenirle, le accuse che certo gli verranno rivolte. C'è il rischio che gli dicano che un tedesco, dopo l'enormità della Shoah, deve maneggiare con molta cura parole e argomenti sul sionismo e su Israele? Ecco allora Grass: «Poiché dal mio Paese, di volta in volta toccato da crimini esclusivi...». Gli potranno dire che non sta bene che un volontario delle Waffen SS possa pronunciare simili accuse contro lo Stato ebraico? Ed ecco ancora Grass: «Pensavo che la mia origine, gravata da una macchia incancellabile...». C'è forse la percezione che la veemenza polemica nei confronti dello Stato d'Israele e l'indulgenza minimizzatrice per l'antiebraismo violento di Ahmadinejad possano alimentare il sospetto di una vena antisemita camuffata da oltranzismo antisionista? Ecco ancora una volta Grass: «Il verdetto "antisemitismo" è d'uso corrente».
Il guaio è che le accuse che Grass si premura di smontare in anticipo sono tutte tremendamente fondate. Chi ha aderito alle Waffen SS dovrebbe essere più prudente nei suoi giudizi. Nel 2006 lo stesso Grass pronunciò su un quotidiano israeliano parole che sembravano dettate da un tormento autentico. «Io so quali ferite il simbolo delle SS, il termine SS, riapra nella memoria di molti degli abitanti d'Israele e devo accettare che la doppia S sarà per me il marchio di Caino fino alla fine dei miei giorni». Per Grass «il marchio di Caino» dev'essere diventato un segno sbiadito. Possibile che le minacce iraniane e il reiterato proposito di costruire la bomba atomica per annichilire lo Stato d'Israele non inducano Grass a ricordare l'odio antiebraico che dominava quella doppia S?
E anche l'accusa di antisemitismo «d'uso corrente». D'uso corrente, purtroppo, non è l'accusa, ma proprio l'antisemitismo. Nella propaganda antisionista dei Paesi musulmani moderati ed estremisti, che negano il diritto stesso dello Stato d'Israele ad esistere, la distinzione tra «ebreo» e «israeliano» è semplicemente scomparsa. L'obiettivo sono gli ebrei, nei Paesi islamici in cui le tv trasmettono sceneggiati ricavati dai Protocolli dei savi anziani di Sion. Possibile che tutta l'indignazione di Grass sia indirizzata sugli armamenti dello Stato d'Israele, mai sull'antisemitismo, «d'uso corrente», che in Europa inneggia alla strage di bambini ebrei a Tolosa? E infine sui «crimini esclusivi» della Germania. Certo, quel passato non può passare facilmente e Grass non si può permettere di fare ironie su un tema incandescente come l'appoggio che il popolo tedesco diede alla politica di annientamento degli ebrei in Europa. Non basta una poesia per nascondere tanta insensibilità.

Repubblica 5.4.12
Israele: "Le accuse di Grass sono antisemite"
Dopo la poesia sullo Stato ebraico. Berlino: "È uno scrittore, non un amico della Merkel"
di Andrea Tarquini


BERLINO - «Le accuse di Grass a Israele evocano l´antisemitismo, vecchia tradizione europea. Specie nel dettaglio di lanciare accuse agli ebrei prima del Pessach, la Pasqua ebraica». La reazione ufficiale dello Stato d´Israele alla provocazione del massimo scrittore tedesco vivente è venuta sul sito dell´ambasciata a Berlino. Per il governo tedesco, chiamato in causa da Grass per le forniture di sottomarini allo Stato ebraico, «c´è libertà di espressione per gli artisti e per fortuna anche libertà del governo di non commentare le loro esternazioni, Grass e la Cancelliera non sono amici e non lo saranno». E Ruprecht Polenz, portavoce di politica estera della Cdu, il partito di governo, aggiunge: «Grass è un grande autore, ma di solito in politica si sbaglia, il paese che preoccupa è l´Iran».
Ecco il day after. Il Nobel per la letteratura tedesco probabilmente se lo aspettava: con le sue accuse a Gerusalemme e il suo sdoganamento di fatto del programma atomico iraniano si attira accuse, condanne, denunce.
Ricordiamo brevemente i fatti: in una poesia pubblicata ieri su Repubblica, sulla Sueddeutsche Zeitung, su El Paìs, Grass definiva Israele con il suo deterrente atomico, e non già l´Iran con il suo programma atomico militare, come minaccia alla pace. E condannava la fornitura di sottomarini tedeschi a Gerusalemme.
«E´ un vero e proprio proclama antiebraico», ha denunciato l´ex presidente delle comunità ebraiche italiane, Amos Luzzatto. «L´attacco di Grass è oltraggioso», ci ha detto ieri Efraim Zuroff, cioè l´erede di Simon Wiesenthal, cacciatore degli ultimi criminali nazisti. «Riflette la trasformazione dell´antisemitismo tedesco negli ultimi anni». Per i tedeschi a cui nome Grass parla, continua Zuroff, «Israele è il bersaglio, il simbolo degli ebrei odiati. Il tamburo di latta che egli oggi suona non è quello della coscienza morale, compromessa dalla sua ammissione di aver militato nelle SS, bensì quello del profondo pregiudizio contro il popolo ebraico».
Durissime le reazioni della comunità ebraica tedesca. Dieter Graumann, suo presidente, parla di «pamphlet aggressivo che capovolge la realtà». «L´Iran è la minaccia alla pace mondiale», nota Charlotte Knobloch, una delle sue esponenti più autorevoli, «Israele è l´unica democrazia nella regione e l´unico paese al mondo la cui esistenza sia messa in forse». Per Deirdre Berger dello American Jewish Committee, «Grass rovescia la situazione e difende un regime brutale». Sul quotidiano liberalconservatore Die Welt, ritenuto vicinissimo al governo Merkel si leggeva: «Grass si rivela di nuovo come l´eterno antisemita, esempio dell´antisemitismo d´alto livello, un intellettuale che ha un problema con gli ebrei. Il cerchio della sua storia si chiude, ed era cominciato da adolescente nelle SS». Solo secondo la Linke, la sinistra radicale erede della dittatura chiamata Ddr, «Guenter Grass ha ragione indicando i pericoli di guerra».

Repubblica 5.4.12
Parla il professore sopravvissuto ad Auschwitz
Esplode l´ira di Elie Wiesel "Un premio Nobel come lui non può ignorare la storia"
Sono davvero sorpreso e addolorato di leggere simili dichiarazioni L’aspetto più terribile è quando cerca di minimizzare il ruolo dell´Iran


BERLINO - «C´è una regola non scritta: dice che un Nobel deve astenersi dal criticare un altro Nobel. Ma ci sono eccezioni, e questo caso è un´eccezione, eccome». Il professor Elie Wiesel, sopravvissuto ad Auschwitz, Nobel per la Pace, comincia così il colloquio sull´attacco di Guenter Grass a Israele.
Professor Wiesel, qual è stata la sua prima reazione leggendo la poesia di Grass pubblicata da Repubblica e da altri media internazionali?
«Tra vincitori di premi Nobel non ci si critica a vicenda. Ma ci sono volte che non si può tacere».
Perché?
«Perché da scrittore e poeta tedesco, Guenter Grass dovrebbe sapere che lo Stato ebraico non ha mai programmato di eliminare un altro popolo. Come invece la Germania ha fatto nel passato, e come il presidente iraniano minaccia di fare attualmente. Guenter Grass è uno scrittore di talento, ma non è uno scienziato. Se avesse studiato qualsiasi disciplina scientifica nucleare, potrebbe chiedersi come sia mai arrivato a un simile giudizio così orrendo su Israele. Israele ha imparato, come noi tutti nel mondo d´oggi, a prendere sul serio le minacce del nemico. Per questo è così sensibile a qualsiasi tema legato a minacce nucleari. Da persone come Guenter Grass i leader israeliani si aspettano una posizione più attenta e cauta».
Grass scrive "il pericolo per la pace è Israele". Che ne dice?
«Sono sorpreso e addolorato di leggere simili dichiarazioni con quella firma. Chiunque conosca la situazione in Medio Oriente sa che non è vero».
Grass accusa Israele di volontà di attacco preventivo, che risponde?
«Il problema principale è come lui guarda all´Iran. A parte che in tutta la sua Storia di Stato Israele ha sempre e solo condotto guerre difensive. Ma il problema è l´Iran, e l´aspetto più terribile è come Grass parla minimizzando dell´Iran».
Definisce Ahmadinejad "fanfarone", è d´accordo o no?
«Io non paragono Ahmadinejad a Hitler. Ma è terribilmente chiaro come Grass si sbagli su Ahmadinejad. Le cui ripetute dichiarazioni di voler distruggere Israele non sono solo propaganda. Vuole veramente dire quello che dice. Come si deduce dai rapporti dell´Agenzia internazionale per l´energia atomica, i programmi nucleari iraniani sono una minaccia seria per Israele. Non solo le centrifughe, tutti i programmi, i missili nordcoreani. È una questione seria».
Insisto, l´Iran non è una minaccia sopravvalutata?
«È una minaccia da prendere sul serio. È poi anche terribile non gridare contro le violazioni dei diritti umani in Iran, dalle torture alle esecuzioni. Ma il peggio Grass lo ha scritto con le accuse a Israele. Lo attacco per quanto ha scritto su Israele, non per quanto tace sull´Iran».
Grass definisce la fornitura di U-Boot tedeschi a Israele come "complicità in crimini". Secondo lei ha ragione o no?
«Dirlo, per un tedesco, è oltraggioso moralmente e intellettualmente. Dai tempi di Adenauer il passato pesa in modo positivo sulla politica tedesca verso Israele. Il primo incontro tra Adenauer e David Ben Gurion – io c´ero, come reporter – fu commovente. Insieme da soli si dissero tanto, alla conferenza stampa successiva dominava il silenzio imbarazzato. Adenauer ruppe il ghiaccio, disse a noi giornalisti "raus", via. La critica di Grass ad Angela Merkel la quale dice che "la sicurezza di Israele è priorità strategica" è un problema per Grass stesso e per chi la pensa come lui. Prendiamo nota di cosa Grass vuole, capendo chi è il vero Guenter Grass. Lui che in un´intervista a un giornale israeliano paragonò l´Olocausto alle sofferenze dei civili tedeschi nella seconda guerra mondiale scatenata da Hitler».
(a.t.)

La Stampa 5.4.12
L’intrigo cinese: killer, tangenti e spie
Uno 007 inglese ucciso, un miliardario in cella: così è crollato il sistema di potere del maoista di Bo Xilai
di Ilaria Maria Sala


Chongqing è una città di salite e discese: è tagliata in due dallo Yangtze, il grande fiume cinese ora bloccato dalla diga delle Tre Gole. Ai due lati del fiume la città si innalza, avvolta da una strana nebbia umida e fuligginosa. Fino a ieri, questa metropoli di trenta milioni di abitanti era conosciuta per il rosso dei suoi peperoncini, e il rosso della Campagna Rossa voluta dal suo ex segretario del partito comunista, Bo Xilai. Carismatico, dicevano, affascinante, perfino.
Da quando è caduto in disgrazia, dopo la chiusura del plenum dell’Assemblea Nazionale del Popolo e un discorso del premier Wen Jiabao che lo attaccava in modo nemmeno troppo velato, il mese scorso, vengono a galla misteri inimmaginabili.
Come il cadavere eccellente di Neil Heywood, 007 britannico trovato morto già nel novembre dell’anno scorso, proprio a Chongqing, che faceva l’investigatore privato per verificare le credenziali delle aziende cinesi interessate a fare affari con l’estero. Ma forse faceva anche dell’altro, non sempre del tutto pulito, e forse si era scontrato con Gu Kailai, la moglie di Bo, che avrebbe potuto essere coinvolta in un affare di corruzione. Londra ha chiesto di partecipare all’inchiesta sulla morte del suo ex agente, ma sembra che Pechino per il momento accia orecchie da mercante.
Nel frattempo, viene ripetuto che l’uomo sarebbe stato avvelenato, e che proprio la scoperta della sua morte avrebbe portato alla rottura fra Bo e il suo super-poliziotto, Wang Lijun. A quest’ultimo Bo aveva affidato l’incarico di portare avanti la campagna contro la criminalità, e lui l’aveva fatto con tanto zelo da rinchiudere nelle prigioni mafiosi e avvocati, nemici pubblici e nemici del capo, uomini d’affari corrotti e uomini d’affari che non erano disposti a corrompere. Un braccio destro duro e scaltro, che scoperto il cadavere dell’inglese, temendo che ad ucciderlo fosse stato qualcuno vicino alla moglie di Bo, avrebbe cercato asilo prima al Consolato britannico, poi a quello USA. Che sia possibile, un intreccio così sorprendente?
Ora, dal passato dell’uomo più potente di Chongqing salta fuori anche Xu Ming, uno dei più giovani miliardari cinesi, industriale del gruppo Shide di Dalian, dove Bo era sindaco prima di diventare il segretario di partito comunista di Chongqing. Xu, numero otto fra i quattrocento uomini più ricchi della Cina secondo la classifica Forbes, da ieri si rivela essere agli arresti: avrebbe corrotto lo stesso Bo, prima che cambiando città questi s’incarnasse nel paladino della lotta alla corruzione. Le porte del carcere lo avrebbero accolto già dal mese scorso, ma anche questo arresto era stato tenuto segreto per diversi giorni.
A macchia d’olio si espande dunque l’inchiesta contro Bo e contro chi gli era vicino (mostrando, una volta di più, che tutto o quasi è possibile per i potenti della Cina, fino al giorno in cui non cadono in disgrazia: vuoi per eccessiva ambizione politica, vuoi perché hanno offeso chi è ancora più importante di loro…), e si dice che chi può stia abbandonando il Paese prima che sia troppo tardi. Ma la segretezza che avvolge tutto fa sì che le voci più improbabili si inseguano, confermandosi e smentendosi l’un l’altra senza sapere dove cercare riscontro. Per alcuni giorni, perfino, c’era chi voleva che Pechino fosse preda di un colpo di Stato, e sul web c’era chi giurava di aver sentito spari nella capitale, chi perfino disse di aver visto dei carri armati per le strade e chi vaneggiava di «inusuali movimenti di polizia». Nulla di vero, e le autorità cinesi, dopo aver tergiversato alcune settimane, nei giorni scorsi hanno effettuato nuovi arresti, e disabilitato per 72 ore la funzione di «commenti» solitamente disponibile nelle versioni cinesi di Twitter.
Ricapitoliamo: Neil Heywood è morto. Xu Ming è in prigione, così come lo sono sei incauti commentatori web. Ma lo è anche il carismatico Bo, probabilmente agli arresti domiciliari insieme alla bella ed ambiziosa Gu Kailai, sua moglie, e parrebbe anche al figlio, Bo Guagua – studente ad Oxford e a Harvard, spericolato conducente di una Ferrari rossa, secondo le dicerie, rampollo cresciuto nei privilegi e nella corruzione. Nessuna notizia di Wang Lijun.
Salite e discese della politica cinese, di solito invisibili dietro pesanti drappeggi, e che ora rivelano alcuni dei loro più impensabili misteri, che senza stampa libera resteranno tali a lungo.

Corriere della Sera 5.4.12
Il Pci nella storia italiana. Le ragioni del suo successo
risponde Sergio Rmano


La sua risposta intitolata «La socialdemocrazia italiana, una storia sfortunata» mi spinge a chiederle una analisi sul perché l'Italia ha avuto il partito comunista più forte del mondo occidentale.
Cesare Scotti

Caro Scotti,
S arebbe meglio definire il Pci «uno dei due più forti partiti comunisti del mondo occidentale». Nelle elezioni del 21 ottobre 1945 il Partito comunista francese e i piccoli partiti apparentati superarono i socialisti (Sfio) ed ebbero il 26,2% dei voti. Nelle elezioni del 2 giugno 1946 per il rinnovo dell'Assemblea Costituente, la stessa formazione arrivò seconda dietro il Mrp (la Democrazia cristiana francese) con il 25,9%. È vero tuttavia che la parabola del comunismo francese fu più breve e contrastata di quella del comunismo italiano. Dopo la sua alleanza con i socialisti e l'elezione di François Mitterrand alla presidenza della Repubblica, il Pcf andò progressivamente declinando proprio mentre il Pci, grazie anche all'emozione suscitata dalla morte di Enrico Berlinguer, superò la Democrazia cristiana nelle elezioni europee del 17 giugno 1984.
Dovremmo chiederci, quindi, perché il Pci abbia avuto complessivamente maggiore fortuna del Pcf. Alla fine della Seconda guerra mondiale i due partiti avevano, agli occhi delle loro rispettive società nazionali, gli stessi meriti: un ruolo di primo piano nell'organizzazione della Resistenza contro le forze d'occupazione e la promessa di un mutamento rivoluzionario. A differenza del Pcf, tuttavia, il Pci poté contare su un più vasto elettorato che credeva nella necessità di cambiamenti radicali e aspettava impazientemente la rivoluzione. Fu questa la ragione per cui Togliatti riuscì così facilmente a reclutare molti intellettuali italiani. Non tutti erano opportunisti e voltagabbana. Molti provenivano dal fascismo di sinistra e rappresentavano la corrente filosovietica del partito di Mussolini. Avevano cominciato a dubitare del fascismo quando il regime aveva sostenuto il generale Franco nella guerra civile spagnola, ma la loro conversione fu facilitata soprattutto dai disastri di una guerra in cui il regime aveva rivelato tutti i suoi vizi e difetti. Trasmigrarono dal Pnf (Partito nazionale fascista) al Pci con grande naturalezza e senza crisi di coscienza perché credettero di restare fedeli a se stessi.
Più tardi, dopo il miracolo economico e la straordinaria promozione sociale dei ceti più umili nei primi decenni del dopoguerra, il Pci poté continuare a rappresentare un terzo dell'elettorato grazie a due fattori. In primo luogo seppe trasformarsi da partito della rivoluzione a partito del progresso. In secondo luogo recitò bene la parte dell'opposizione in un sistema politico in cui tutti gli altri partiti ruotavano come satelliti intorno alla Democrazia cristiana ed erano, anche se in modi diversi, partiti di governo. Non è sorprendente che il Pci abbia cessato di esistere quando crollarono contemporaneamente le due principali ragioni della sua fortuna: il regime comunista in Unione Sovietica e il regime democristiano in Italia.

l’Unità 5.4.12
L’autismo è una costellazione
«Nature»: è molto più complesso di quanto si pensasse
di Cristiana Pulcinelli


Il 2 aprile si è celebrata in tutto il mondo la giornata dell’autismo. Oggi sulla rivista Nature escono tre articoli sull’architettura genetica di questa malattia. Benché nel corso degli ultimi anni siano state identificate variazioni in specifiche parti del Dna associate con l’autismo, il loro ruolo non è ancora chiaro. E le cause della malattia sono ancora sconosciute. Quello che è emerso chiaramente, invece, è che l’autismo è qualcosa di più complesso di quanto si pensasse anche dal punto di vista dei sintomatologia. Tant’è che è recentemente invalso l’uso di parlare di «disturbi dello spettro autistico».
Ora i nuovi studi pubblicati da Nature mostrano che anche la genetica di questi disturbi è più complessa del previsto. Ad esempio è emerso che in alcuni casi le mutazioni aumentano il rischio di avere la malattia ma non la determinano e che le mutazioni sono spesso distribuite su molti geni. Da una delle ricerche è emerso anche che c’è una relazione tra alcune di queste mutazioni e l’età avanzata del padre. Intanto, si scopre che le persone affette da disturbi dello spettro autistico sono in aumento. Secondo un nuovo rapporto, negli Stati Uniti ne sarebbe affetto un bambino su 88. Un aumento che potrebbe essere dovuto, dicono alcuni, all’aumento delle diagnosi. La complessità della materia fa sì che «al momento non esista una cura specifica per l’autismo», come spiega Enrico Cherubini, che alla Sissa di Trieste coordina un progetto incentrato sullo studio dei meccanismi molecolari e cellulari responsabili di una particolare forma monogenica di autismo. È importante però che il trattamento cominci presto per ottenere qualche miglioramento. A questo proposito a Roma ha preso il via proprio il 2 aprile l’attività del nuovo Centro per il trattamento precoce della sindrome autistica, rivolto a bambini da 6 a 12 anni, nell’ambito del progetto «Facciamo Breccia» (Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Associazione di volontariato «Una breccia nel muro» e Opera don Calabria).

Corriere della Sera 5.4.12
In tv su La 7
«Il mio Galileo al Gran Sasso è uno spot per la scienza»
Paolini: emozionante recitare in quei laboratori sotterranei
di Renato Franco


MILANO — Una delle arti più antiche — il teatro — associata al luogo che è il massimo della modernità, l'Istituto nazionale di fisica nucleare. Sono i più grandi laboratori sotterranei del mondo — coperti da 1.400 metri di roccia del massiccio del Gran Sasso — l'inusuale quinta scelta da Marco Paolini per ambientare il suo nuovo spettacolo, Itis Galileo, che dopo oltre 150 rappresentazioni arriva in tv, su La7 (in diretta e senza spot), il 25 aprile. Data e luogo simbolici.
Mentre sulla prima non c'è bisogno di molte spiegazioni, sul secondo ecco Paolini: «Il teatro dentro a una sala non è paragonabile al teatro che si può vedere a casa sul divano, c'è una differenza abissale. Per questo quando porto in tv un mio spettacolo cerco di associarlo a dei luoghi, di creare un set che dialoghi con la rappresentazione. Ho pensato di andare in un luogo che è nell'immaginario ben prima del "tunnel della Gelmini". Questi laboratori sono un luogo singolare e unico sul pianeta, ci lavorano un sacco di persone: ricercatori che sembrano operai o tecnici che sembrano professori. C'è insomma una fauna che in qualche maniera rappresenta un'Italia che noi conosciamo solo quando sale sui tetti, che si rende visibile solo per — legittime — questioni sindacali». Di qui l'idea di dedicare a quest'Italia sotterranea lo spettacolo: «Ho pensato di dedicare a queste persone e al loro lavoro — non ai loro problemi — un racconto che gli faccia drizzare la schiena, in cui si riconoscano, che faccia venire voglia a un ragazzo di iscriversi a Fisica. Abbiamo bisogno di colmare la distanza che c'è tra noi e la scienza, perché se no la superstizione rischia di rientrare dalla finestra dopo essere uscita dalla porta più di un secolo e mezzo fa».
Autore e attore, protagonista del teatro civile e di narrazione, dunque per paradosso scrittore orale, il 56enne Paolini spiega che il progetto è nato nel 2009. «Nell'anno delle celebrazioni galileiane, il sindaco di Padova mi sfidò a mettere in scena Il dialogo sopra i massimi sistemi, io ovviamente mica l'avevo letto, quindi ho provato a leggerlo e ho detto "no grazie", ma la sfida è rimasta lì». Con il tempo è nato il suo Galileo, così diverso da quello di Brecht: «Ho cercato, uno, di non essere troppo arbitrario e, due, di non strumentalizzarlo troppo: questi erano i punti di partenza, cioè dimenticarmi il Galileo di Brecht. Dimenticarmi il campione della libertà di pensiero contro l'oscurantismo, dimenticarmi il fenomeno e il simbolo che è diventato per noi. Per esempio è intrigante il fatto che Galileo per campare deve fare oroscopi, perché all'epoca rappresentavano una delle entrate più facili e remunerative per un matematico-astronomo. Per capirsi, Tommaso Campanella — che te lo fanno odiare a scuola, ma è l'unico intellettuale che si schiera a favore di Galileo al momento dell'abiura — viene portato a Roma a fare l'oroscopo al Papa». Galileo uomo del suo tempo, ma anche straordinario innovatore. «La sua forza — spiega Paolini — non è quella di avere avuto ragione, ma quella di aver dimostrato che si deve cercare in un altro modo e quando da un dubbio nascono tanti di quegli elementi per cui quello in cui si credeva prima non sta più in piedi, bisogna cominciare ad abbandonare quel pensiero. La straordinaria forza di Galileo è individuare l'importanza dell'errore, del dubbio». Il teatro di Paolini è impegno civile, ma anche ironia: «La cosa affascinante è che in fondo è un'occasione per mettersi a studiare, sapendo che alla fine ti pagheranno anche».

Repubblica 5.4.12
Da Chicago a Roma tutti i musei su Google


CHICAGO - Anche l´Art Institute di Chicago entra da oggi nel museo virtuale del Google Art Project. L´istituzione culturale della città americana metterà a disposizione 150 opere da esplorare in Rete. Tra queste, però, non ci sono i pezzi degli artisti più noti della collezione: come le pitture di Matisse e di Picasso, coperte dal copyright fino a 70 anni dopo la morte degli autori. L´Art Project di Google consente di accedere a più di 30 mila immagini ad alta risoluzione di dipinti, sculture, manoscritti e fotografie custodite in 151 musei di oltre 40 paesi. Il progetto è stato lanciato nel febbraio 2011 con circa 1000 opere provenienti da musei come la Tate Gallery di Londra, il Metropolitan di New York, la Galleria degli Uffizi di Firenze e il Van Gogh Museum di Amsterdam. Anche i Musei Capitolini di Roma e il Museo Nazionale d´Israele hanno da poco aderito all´iniziativa consentendo una visita virtuale dei loro spazi. «D´ora in poi – ha detto la direttrice operativa di Google, Margo Georgiadis – chiunque può visitare queste grandi istituzioni con un semplice clic. Il progetto rompe tutte le barriere e permette alle persone di studiare l´arte con continuità». I musei sono resi fruibili su Internet grazie all´utilizzo della tecnologia di Google Street che consente agli spettatori di notare persino le crepe delle pergamene o altri dettagli non visibili a occhio nudo.

Repubblica 5.4.12
Riprendiamoci la storia dell’arte
Quel decalogo per evitare il marketing culturale
Un manifesto-appello dei "TQ" fissa i punti per la tutela del paesaggio e del patrimonio
di Salvatore Settis


La demeritocrazia che da decenni governa il destino, e il declino, di un´Italia assai distratta ha regole di ferro. Fra queste: avanti i mediocri, quelli bravi si arrangeranno all´estero; meglio rifriggere banalità condivise, pensare è noioso; largo ai vecchi, i giovani possono aspettare. Perciò leggendo il manifesto TQ "sul patrimonio storico-artistico della nazione italiana" (da oggi disponibile integralmente sul loro sito, n.d.r.) c´è di che stupirsi. Giovani di trenta-quarant´anni che hanno scelto per parlare d´Italia la prospettiva della loro generazione; anzi, i «non pochi storici dell´arte che hanno deciso di aderire a TQ» che convincono gli altri a firmare un manifesto come questo; addirittura, un testo che non ricicla sciocchezze sui "beni culturali" come "petrolio d´Italia", da "sfruttare" fino ad esaurirlo come fosse un combustibile, ma proclama che «il fine del nostro patrimonio non è di produrre reddito», ma di esercitare un´alta funzione civile, di «rappresentare e strutturare, non meno della lingua», la comunità nazionale.
Si sente vibrare molta indignazione e non poca speranza, nelle parole dei TQ. Indignazione (altra singolarità) rivolta in primo luogo verso la corporazione stessa degli storici dell´arte, corresponsabili dell´«inesorabile degrado del ruolo della storia dell´arte nel discorso pubblico italiano», di aver trasformato la loro disciplina in «un fiorente settore dell´industria dell´intrattenimento» prestandosi alla «mutazione mediatica del dibattito culturale in marketing occulto» di mostre ed eventi, anzi dei loro sponsor. Speranza, invece, nella nascosta forza di una disciplina ancora capace di trovare in se stessa le ragioni di un forte ruolo civile, la dignità di una disciplina umanistica, lo status di «sapere critico, strumento di riscatto morale, di liberazione culturale e di crescita umana».
Quello degli storici dell´arte, suggerisce il "manifesto TQ", non è il silenzio degli innocenti. Infatti essi non tacciono, anzi sono impegnati in un vano chiacchiericcio intorno a mostre spesso inutili o dannose, ad attribuzioni implausibili, a "scoperte" mediatiche che rallegrano sindaci e assessori, ma reggono lo spazio di un mattino. Stanno alla larga invece (con pochissime eccezioni) da temi scottanti come il degrado della tutela, la prevaricazione dell´effimero (le mostre) sul permanente (musei e monumenti), la morte annunciata del Ministero dei Beni culturali per mancanza di fondi e di turn over, ma anche per l´espediente, già troppe volte ripetuto, di una sede vacante non di nome, ma di fatto.
Il decalogo che conclude il "manifesto TQ" parte da affermazioni di principio, ma contiene anche importanti proposte. Sua stella polare è l´art. 9 della Costituzione, che congiunge la promozione della cultura e della ricerca con la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. Ma dobbiamo constatare, scrive amaramente il manifesto, che oggi «la Repubblica né promuove né tutela». Per invertire la rotta, occorre che gli storici dell´arte si impegnino a rilanciare il ruolo della disciplina nella società. Occorre che «la funzione civile e costituzionale del patrimonio» diventi, come in passato, cardine della cultura e della vita della polis: poiché il patrimonio italiano, «coesteso e fuso all´ambiente» e al paesaggio, ne costituisce la più alta cifra simbolica, deposito di memorie e laboratorio del futuro.
Occorre rafforzare e non smantellare il sistema pubblico della tutela, mantenendolo in capo allo Stato per assicurare, secondo Costituzione, identità di criteri in tutto il territorio nazionale. Occorre agire sulla scuola, «ampliando l´asfittico spazio concesso a quella storia dell´arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva, se vuole avere coscienza intera della propria nazione», come scrisse Roberto Longhi. Occorre «mettere radicalmente in discussione i corsi di Beni Culturali», che hanno provocato un pericoloso divorzio della storia dell´arte da altre discipline umanistiche. Occorre, insomma, porre rimedio all´«analfabetismo figurativo che ha afflitto le generazioni precedenti e ha sempre reso cieca la classe dirigente della Repubblica».
E´ importante che siano i giovani di TQ a rimettere con determinazione sul tavolo temi come questi. Per chi ha orecchi da intendere, essi dovrebbero servire da contraltare al banale economicismo che considera sinonimi "valorizzazione" e "sfruttamento", e nel patrimonio vede non una risorsa etica e civile, ma un salvadanaio da svuotare. Discorso contrario non solo alla Costituzione e a una secolare tradizione civile e giuridica, ma anche a una concezione meno stantia dei meccanismi socio-economici. Dalle elaborate misurazioni di due economisti americani, David Throsby e Arjo Klamer, risulta che il patrimonio culturale ha due componenti: una è il valore monetario, ma assai più importante è la componente immateriale o valoriale, per definizione fuori mercato.
Dalla conservazione del patrimonio e dalla sua conoscenza derivano benefici stabili per la società nel suo complesso, che accrescendo la coscienza civica e il senso di coesione dei cittadini finiscono col tradursi anche in sviluppo economico. In senso analogo ha argomentato Amartya Sen, pensando alla sua India dove il recupero di storia e arte è andato di pari passo con l´eccezionale rilancio economico. Ma queste idee di innovativi economisti del sec. XXI mostrano, come meglio non si potrebbe, quanto fosse lungimirante la nostra Costituzione del 1948: l´art. 9, infatti, sancisce «la primarietà del valore estetico-culturale», che non può essere «subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici», e pertanto dev´essere «capace di influire profondamente sull´ordine economico-sociale», come ha ripetutamente affermato la Corte Costituzionale. Toccherà ai trenta-quarantenni, ma anche a quelli ancor più giovani, mostrare che i Costituenti avevano ragione.

«Ratzinger ha fatto la sua tesi di dottorato su Sant’Agostino. E Agostino ci ha lasciato anche posizioni molto pericolose: dalle tesi sul peccato originale al sessismo ("l´uomo ma non la donna è a immagine e somiglianza di Dio"), fino al dualismo ("lo spirito è ovunque non sia la materia")... Tommaso resiste al platonismo e preferisce Aristotele a Platone perché Aristotele non disprezza la materia. Tommaso studiò la scienza. Era un vero mistico della creazione»
Repubblica 5.4.12
Il nuovo saggio di Matthew Fox, ex domenicano, è una sfida a Ratzinger
Il teologo che sogna la Chiesa del Concilio
di Francesco Pacifico


Matthew Fox, americano, teologo ed ex domenicano, si era fatto conoscere in Italia con In principio era la gioia, un libro felice tutto improntato alla riscoperta della tradizione cristiana dell´amore per la natura – da Tommaso a San Francesco a Meister Eckhart, contro l´ossessione del peccato originale. La guerra del papa – perché la crociata segreta di Ratzinger ha compromesso la Chiesa (e come questa può essere salvata) (Fazi) è invece teso e oscuro. Qui Fox smonta pezzo a pezzo la vita e l´operato di Ratzinger, l´uomo che dopo una disputa durata tutti gli anni Ottanta ha allontanato Fox dall´insegnamento e dall´ordine domenicano nel 1993.
Lei scrive che nella Chiesa è in corso uno scisma da quarant´anni.
«Il rifiuto del Concilio Vaticano II mette Roma in una condizione scismatica. Sono stati rifiutati alcuni insegnamenti del Concilio: la decentralizzazione della Chiesa con l´affidamento di poteri decisionali alle conferenze nazionali; l´aumento del contributo dei laici soprattutto nella liturgia; la libertà di coscienza e di discussione per i teologi. La Chiesa ha represso il "sensus fidei" su questioni come il controllo delle nascite; ha eliminato la teologia della liberazione; ha rimpiazzato la teologia del "popolo di Dio" con un´ecclesiologia centrata sulla curia; ha chiuso all´ecumenismo religioso. Tutto ciò soffoca completamente lo spirito e la lettera del Vaticano II. Perciò Roma è in stato di scisma».
Partiamo dall´aneddoto più suggestivo del suo libro. Un suo amico, di fronte a papa Giovanni XXIII e al giovane Ratzinger, dice che secondo alcuni studi Gesù non avrebbe mai detto a Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia Chiesa».
«Il papa rise e disse: "Be´, meglio se scendo da questo trono, allora". Gran parte degli studi biblici concorda che Gesù non disse quelle parole, essendo esse un gioco di parole in greco e Gesù non sapeva il greco. Furono quasi certamente aggiunte quando la questione dell´autorità della Chiesa si fece più urgente».
Lei sembra pensare che non si possa basare il cristianesimo solo sull´Europa. Può esserci unità, se ogni continente porta elementi così diversi?
«L´unità non è uniformità. Sulla terra vediamo ovunque unità nella diversità. Le piante e gli animali e gli uccelli sono diversi di regione in regione ma sono pur sempre piante e animali e uccelli. C´è unità nel riconoscimento che la persona e gli insegnamenti di Gesù ruotano attorno alla compassione e alla giustizia; e che il Cristo Cosmico rappresenta la presenza del Divino in noi e in tutti gli esseri».
Lei sostiene che Ratzinger stia cercando di ridimensionare la Chiesa, nel tentativo di renderla compatta e militante.
«L´ossessione di controllare e di considerare l´obbedienza come prima virtù è pericolosissima. Pensi a come 101 pensatori della chiesa sono stati ridotti al silenzio (li elenco tutti nel mio libro); consideri la copertura dei preti pedofili in molti paesi in nome della difesa dell´istituzione».
Uno dei punti chiave del suo libro è il rapporto fra Ratzinger e il ´68.
«Ratzinger fu scioccato dalle rivolte giovanili del ´68: prima come teologo aveva espresso pensieri progressisti al Vaticano II, dopo diventò molto rigido e si concentrò sulla propria ascesa. Dovrebbe domandarsi come mai era così a disagio di fronte al caos».
Secondo lei molti martiri cattolici recenti sono stati lasciati soli dalla Chiesa. La teologia della liberazione ne è un esempio.
«Il vescovo Camera, Romero, Casigalida, Arns, Leonardo Boff: furono tutti campioni dei diritti della gente, e la gente lo sapeva. Non sarebbe stato meraviglioso se Roma si fosse incontrata con queste persone e avesse detto semplicemente: State prendendo i valori del Vaticano II, come la giustizia, e li state applicando a situazioni pericolose nei vostri paesi. Come possiamo aiutarvi?».
Il suo libro rivela un grande dolore.
«Nel mio libro scrivo della necessità di vivere un lutto. Ogni cattolico e ogni cristiano deve vivere il lutto per ciò che è andato perso quando le speranze e le promesse del Vaticano II sono state indebolite. E con il lutto viene una nuova nascita e una nuova creatività per far rinascere la Chiesa».
La sua posizione pare molto leggera sui dogmi. È un bene per gente che ha anche bisogno di struttura e obbedienza?
«Se la storia europea del ventesimo secolo ci insegna qualcosa è che dovremmo mettere in discussione un bisogno troppo profondo di struttura e obbedienza».
Ratzinger offre ai cattolici una disciplina.
«La disciplina richiede discernimento, non è un valore in sé. Quando la disciplina serve a creare bellezza e giustizia e amore, è buona e importante».
La sua teologia, così, non diventa un po´ soft?
«Forse chiamando la mia teologia "soft" la gente tradisce un pregiudizio contro il femminile, visto che riconoscere l´aspetto femminile della Divinità è importante per la mia teologia. Credo, piuttosto, che denunciare chi la pensa diversamente sia un modo finto di essere duri che rivela una mollezza di fondo, una mancanza di autentica forza spirituale e intellettuale».
Ratzinger sarebbe agostiniano mentre lei invece preferisce San Tommaso.
«Ratzinger ha fatto la sua tesi di dottorato su Sant’Agostino. E Agostino ci ha lasciato anche posizioni molto pericolose: dalle tesi sul peccato originale al sessismo ("l´uomo ma non la donna è a immagine e somiglianza di Dio"), fino al dualismo ("lo spirito è ovunque non sia la materia")... Tommaso resiste al platonismo e preferisce Aristotele a Platone perché Aristotele non disprezza la materia. Tommaso studiò la scienza. Era un vero mistico della creazione».