venerdì 6 aprile 2012

l’Unità 6.4.12
Intervista a Susanna Camusso
«Salvata la dignità dei lavoratori. Il governo ha perso»
Il segretario Cgil: «L’esecutivo costretto a cambiare sull’articolo 18. Ma non smobilitiamo: i dettagli in Parlamento saranno decisivi»
di Oreste Pivetta


Un passo indietro. Abbiamo costretto il governo ad un passo indietro. Non succedeva da tempo». Primo commento di Susanna Camusso, segretario Cgil, al testo ufficiale del disegno di legge sul mercato del lavoro. Contenta, evidentemente, per il risultato, che in fondo premia un sindacato che tante volte ministri passati e presenti pensavano d’aver costretto alle corde, che s’è visto spesso sostenere battaglie in solitudine e che invece s’è ritrovato accanto tanta parte di questo Paese. Commento favorevole perché si è ripristinato il reintegro nel caso di licenziamenti economici con giustificazioni “insussistenti”. Insieme compaiono le critiche, però, perché altro bisognerebbe fare sul precariato, altro per gli ammortizzatori sociali «perché l’universalità dichiarata proprio non esiste» e soprattutto perché la “crescita” sta solo, come annuncio, nel bel titolo speranzoso, «Riforma del lavoro in una prospettiva di crescita». Niente per le tasse, niente per i salari, niente per gli investimenti. Il comunicato della Cgil è ancora duro: «Le distanze tra il testo presentato rispetto agli annunci propagandistici del governo sono evidenti e rischiano di arretrare i risultati ottenuti nel confronto con le organizzazioni sindacali».
Segretario, se ne sono accorti anche all’estero della nostra “reticenza” di fronte a strumenti e obiettivi possibili di crescita. I giornali stranieri scrivono, autorevolmente, che siamo un paese in recessione che non s’attrezza per uscirne. L’Ocse ci comunica un ulteriore calo del Pil. È vero che si continua a far troppo poco?
«Sì, purtroppo è così, grazie a un governo che pensa di poter aggiustare i conti con i partner internazionali semplicemente lavorando sul debito e che in Italia progetta e vara riforme di contesto che dovrebbero riavviare di per sé la crescita. Non è così. Non si capisce come certe riforme dovrebbero rimetterci in corsa. Però altri provvedimenti non sembrano trovar spazio tra le priorità del governo. Con il risultato che la recessione s’aggrava, il Pil rallenta, il debito aumenta. Per questo la nostra mobilitazione non cessa, dopo il passo indietro del governo sull’articolo 18, anzi si presenta con nuovi temi, cercando di riprodurre quell’unità e quella mobilitazione che sono maturate in questi giorni. Pensiamo, e lo proporremo a Cisl e Uil, che bisognerà intanto presidiare il percorso parlamentare con la mobilitazione, perché su ammortizzatori sociali e precarietà ci siano altre risposte, perché l’azione per la crescita conquisti il primo piano». C’è in ballo uno sciopero generale. Verrà confermato?
«Si riunirà il direttivo e deciderà. Certo viene confermata una iniziativa costante. Non smobilitiamo di fronte a un primo successo. Non abbassiamo la guardia, intanto perché la riforma è attesa all’esame del Senato prima e della Camera poi, esame che potrebbe originare modifiche. Si dovrà stare bene attenti. Le leggi si controllano nei particolari, particolari che possono diventare decisivi. E si dovrà stare attenti perché si possa appunto cambiare qualcosa a proposito di ammortizzatori, che non vengono affatto estesi, malgrado si pretendano più soldi, mentre aumentano i contributi, e a proposito di norme sul precariato che lasciano intatte figure di lavoratori in condizioni inaccettabili. Faccio un esempio: l’associazione in partecipazione, forma di lavoro autonomo che maschera un lavoro subordinato, che esclude il lavoratore dagli utili e gli scarica addosso le perdite, attribuendogli una quota di partecipazione senza alcuna possibilità di controllo. Promettevano di ridurre il dualismo, ma non mi pare che abbiano mantenuto la promessa. Anche in questo caso c’è stato un passo indietro rispetto al testo uscito dal Consiglio dei ministri del 23 marzo, ma di segno completamente negativo: allora si diceva che l’associazione in partecipazione poteva riguardare soltanto i parenti di primo grado del titolare di una impresa, adesso si va oltre il terzo grado».
Invece con l’articolo 18 è andata bene...
«Sì, per il reintegro, ripristinando un principio di civiltà giuridica. E poi rendendo più rapido l’iter di giudizio, riconoscendo il ruolo del sindacato nella conciliazione, attribuendo l’onere della prova all’azienda. L’articolo 18 conserva così il suo valore deterrente, che scongiura la pratica dei licenziamenti facili, che governo e Confindustria avrebbero voluto introdurre. Questo grazie alla nostra mobilitazione e al consenso che si è costruito nel Paese. La difesa della dignità del lavoro è tornata ad essere argomento comune di impegno e di lotta, di fronte al quale si sono ritrovati i sindacati e le forze politiche progressiste».
Insomma, qualche merito andrebbe riconosciuto finalmente al Pd di Bersani...
«Diciamo che il Partito democratico ha prestato ascolto a un sentimento diffuso che si è manifestato nel corso di queste settimane...».
Forse la gente s’è resa conto che smantellare l’articolo 18 non avrebbe cambiato di una virgola il nostro orizzonte di crisi. La Confindustria pare se la sia presa a morte, invece... La Marcegaglia ha definito il testo addirittura “pessimo». «Evidentemente avevano dato per scontato un esito diverso. Credo che siano stati colti in contropiede, di sorpresa. La Confindustria si conferma purtroppo nell’idea che alla crisi si dia risposta comprimendo i diritti, riducendo i salari, risparmiando sul costo del lavoro. Non è così. Vecchie strategie...». E vecchia Confindustria. In attesa del nuovo presidente, Squinzi... «Presidente di Confindustria è ancora Emma Marcegaglia. Comunque la reazione degli industriali e quella di conseguenza di certa politica ci dimostrano che non è il momento di ritrarsi, che i pericoli sono ancora tanti, soprattutto perché tanti sono i problemi aperti e tanti sono gli obiettivi. Ripeto: tasse, provvedimenti anti recessione, pensioni. Resta ad esempio aperta la questione di quei lavoratori con più di cinquantacinque anni che hanno la pensione sempre più lontana. Resta aperta, malgrado le assicurazione, la questione degli esodati...».
Ecco, siamo ad un altro appuntamento. In piazza con Angeletti e Bonanni.
«Con la manifestazione del 13 aprile, con Cisl e Uil. Sarà una buona occasione per scrivere per l’ennesima volta il libro dei problemi e delle nostre proposte e per pretendere una soluzione al caso di migliaia di persone senza più stipendio e senza pensioni. È da troppo tempo che si aspetta...».

Corriere della Sera 6.4.12
Landini: smantellato l'articolo 18, Camusso troppo soft
di Enrico Marro


ROMA — Maurizio Landini boccia il governo. Ma anche la Cgil di Susanna Camusso, soddisfatta del ritorno della possibilità del reintegro sui licenziamenti economici. Il leader della Fiom conferma invece il giudizio negativo su tutta la riforma del mercato del lavoro e chiede alla Cgil di non far marcia indietro e di attuare gli scioperi previsti. L'analisi di Landini lascia poco spazio al dialogo. «Vedo la stessa logica nella riforma delle pensioni e in questa del mercato del lavoro. Ed è una logica sbagliata».
Secondo il governo tecnico si tratta di riforme necessarie.
«Non siamo di fronte a un governo tecnico, ma a un governo politico che sta facendo scelte che rispondono alla lettera inviata ad agosto dalla Banca centrale europea, che continua a dire che per uscire da questa crisi bisogna tagliare lo Stato sociale, rendere più facili i licenziamenti e ridurre la contrattazione. Siamo quindi in presenza di un disegno preciso, lucido da parte del governo Monti, di riforme strutturali sbagliate».
Il governo parla di soluzioni equilibrate.
«Monti e Fornero dicono con molta schiettezza quello che pensano. Spesso non condivido, ma riconosco loro una chiarezza e una coerenza tra quello che dicono e quello che fanno».
Perché è così negativo sulla riforma del mercato del lavoro?
«Innanzitutto perché non riduce la precarietà. Non è vero che darà un lavoro stabile ai giovani. Restano i 46 tipi di contratti che c'erano prima. Anzi, il governo ha appena recepito una direttiva europea sul lavoro interinale che peggiora le condizioni perché supera causali e tetti e prevede la possibilità di sottopagare i lavoratori svantaggiati».
C'è una stretta su partite Iva, contratti a progetto, associazioni in partecipazione. Questo non riduce la precarietà?
«No. Bisognava cancellare i contratti che generano precari».
Il governo ha messo circa due miliardi all'anno sugli ammortizzatori sociali. Nemmeno questo va bene?
«Non c'è l'universalità degli ammortizzatori, perché non c'è la cassa integrazione nelle aziende con meno di 15 dipendenti e perché la nuova indennità di disoccupazione, l'Aspi, che tra l'altro sostituisce l'indennità di mobilità peggiorandola, mantiene una soglia di accesso alta, con 52 settimane di lavoro in due anni. Questo significa che molti precari che perdono il lavoro resteranno senza tutele».
Per loro c'è la mini Aspi.
«Che appunto è mini. E anche qui, comunque, c'è una soglia di accesso mentre sarebbe stato necessario estendere a tutti i lavoratori l'indennità e prevedere un reddito di inserimento».
Veniamo all'articolo 18.
«È stato svuotato il senso e il contenuto dell'articolo 18. Oggi il licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo dà diritto al reintegro nel posto di lavoro. Con la proposta del governo, che spacchetta i motivi del licenziamento, il risultato è che in molti casi non c'è più il reintegro ma un risarcimento economico.
Dopo il pressing dei sindacati e del Pd la possibilità del reintegro è stata introdotta anche sui licenziamenti economici illegittimi, che nella prima proposta del governo venivano solo indennizzati.
«Si tratta di un miraggio. Basta leggere il disegno di legge e ascoltare quanto dice lo stesso presidente del Consiglio che ha appunto spiegato che il reintegro sui licenziamenti per motivi economici sarà l'eccezione — "in casi estremi ed improbabili", afferma — mentre la regola sarà l'indennizzo. Non lo dico io. Lo dice Monti e lo ha detto anche il ministro Fornero».
Nessun passo avanti allora?
«In queste settimane i lavoratori si sono mobilitati e hanno scioperato perché l'articolo 18 non venisse modificato. Invece è stato smantellato. Per questo bisogna continuare la lotta, per cambiare la legge in Parlamento».
Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, non ha fatto un buon lavoro?
«Ha fatto la sua parte. Io da sindacalista dico che è stato tolto un diritto ai lavoratori, peggiorando la loro condizione e rendendo più facili i licenziamenti. Questo è un arretramento inaccettabile».
Il mondo cambia e anche noi dobbiamo cambiare, dice Fornero. Non crede che ci sia bisogno di un mercato del lavoro più dinamico ed efficiente?
«Questi sono slogan vuoti. Non è vero che in Italia le imprese investono meno perché c'è l'articolo 18. Da questa riforma non verrà fuori un posto di lavoro che sia uno. Prima della crisi, quando l'occupazione aumentava, l'articolo 18 c'era. In ogni caso i posti di lavoro si creano con un piano di investimenti pubblici e privati e recuperando soldi sull'evasione fiscale, la corruzione e distribuendo meglio la ricchezza».
Come si spiega lei la nota della segreteria Cgil che invece dà un giudizio positivo sul ritorno del reintegro sui licenziamenti economici?
«Non me la spiego. Io sto alle decisioni del direttivo Cgil che ha proclamato 16 ore di sciopero. Non ho cambiato idea, perché sull'articolo 18 il diritto resta leso. Il licenziamento ingiusto che non preveda il reintegro ma solo l'indennizzo non è mai stata la linea della Cgil».
È vero che la Fiom ha invitato il ministro Fornero a un incontro? Quando si farà visto che ieri il ministro ha detto che accetta?
«Sono stati i lavoratori dell'Alenia di Torino a chiedere di poter discutere col ministro, che tra l'altro è torinese, perché vorrebbero raccontare il loro punto di vista. Dopo la disponibilità di Fornero immagino che nei prossimi giorni si organizzerà l'incontro».
Ci sarà anche lei?
«No, hanno invitato il ministro. Io all'Alenia ci sono già stato e ci tornerò in un'altra occasione».

Repubblica 6.4.12
I punti oscuri dell’articolo 18
di Gianluigi Pellegrino


Caro direttore, lavoro intenso quello che spetta al Parlamento. Il governo ha corretto il principio più inaccettabile sul fronte della tutela del lavoro: attribuire all´arbitrio dell´imprenditore il potere di stabilire l´intensità del diritto del lavoratore davanti al giudice. Non era scontato. C´era il rischio di impuntature orgogliose sul fronte tecnico e strumentali sul piano politico. Le une e le altre sono state risolte dalla ferma presa di posizione di Bersani, dalla risolutezza di Monti, dalla non opposizione di Alfano e Casini. E però la scelta di "spacchettare al quadrato" gli ambiti di tutela si espone al rischio di contraddizioni interne che devono essere evitate.
1. Licenziamenti economici. Nella scrittura della norma è rimasta una coda molto scivolosa. Una parolina velenosa. Mentre nel licenziamento disciplinare l´assoluta infondatezza dell´addebito comporta giustamente che il giudice "condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro", con riguardo all´analogo caso di "manifesta insussistenza" del motivo economico, si prevede soltanto che il giudice "può" disporre il reintegro. La disparità è evidente. Due licenziamenti fondati su inesistenti presupposti, strappato il velo del falso motivo, restano nudi nella loro identica illegittimità. Necessitano quindi di identica tutela. Inoltre resta da verificare il significato di "manifesta insussistenza", perché si tratta di profili complessi come la riorganizzazione dell´impresa. E sugli stessi il giudice non può sindacare. Peraltro un´illegittimità manifesta non è certo più grave di una illegittimità nascosta, camuffata e solo più difficile da svelare. Certo non aiuta a capire la relazione di accompagnamento che a pagina 8 ancora esclude categoricamente l´ipotesi di reintegro(!).
2. Licenziamenti disciplinari. La norma, per come è congegnata, rischia di dare più tutela al lavoratore che abbia commesso fatti gravi rispetto a quello che sia incorso in comportamenti meno rilevanti. È l´effetto paradossale del carattere decisivo assegnato alla eventuale tipizzazione dell´illecito nella legge o nei contratti collettivi. Tipizzazione che può esserci per ipotesi più gravi e non per altre più lievi. Peraltro, se si mantiene il macchinoso rinvio ai contenuti dei contratti collettivi, deve escludersi che le nuove norme possano trovare immediata applicazione, in quanto quei contratti furono scritti senza immaginare questa funzione. Sarebbe davvero odioso dargliela ora, retroattivamente. Più lineare stabilire che il giudice è onerato di modulare la tutela in base alla gravità del fatto effettivamente commesso e accertato. Poche parole, molta chiarezza.
3. L´onere della prova. La legge vigente stabilisce espressamente che "l´onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro". Il disegno di legge non dice nulla di specifico al riguardo. Una volta che si è optato per una nuova normativa di estremo dettaglio, un rinvio espresso al principio di civiltà esistente, non guasterebbe. A scanso di equivoci.
Tre punti critici accomunati da un problema di fondo. Si cerca la flessibilità in uscita, non già innovando con equilibrio la disciplina sostanziale, ma incidendo obliquamente sulla tutela del lavoratore dinanzi a licenziamenti illegittimi. Un´impostazione bocciata (lo ha ricordato bene Barbara Spinelli) anche da riformatori come Massimo D´Antona. Peraltro una volta che si è scelto di incidere sulla tutela lo si deve fare con clausole generali; non con la pretesa di dettare ai giudici i contenuti delle specifiche decisioni. La realtà di ogni giorno è complessa e multiforme. Pretendere di mettere nella legge ogni sua sfaccettatura è un illusione che le regole di buona legislazione hanno da tempo abbandonato. Se ti avventuri su questo terreno è tutto più difficile. Da qui il delicato compito del Parlamento. Per dare al nuovo articolo 18 una necessaria coerenza interna. Per evitare, quando andremo ad applicarlo, di trovarci con più di qualche pasticcio. Una cattiva sorpresa per tutti, imprese e lavoratori. E proprio sul fronte della "prevedibilità", che Monti ha indicato come il prioritario obiettivo "economico" della novella.

l’Unità 6.4.12
La fine di un’era
di Claudio Sardo


Le dimissioni di Umberto Bossi, travolto dallo scandalo sei mesi dopo la caduta del governo Berlusconi, segnano la fine ingloriosa del ciclo decennale dominato dalla destra populista. Speriamo sia anche la fine della Seconda Repubblica, che Berlusconi e Bossi hanno piegato verso esiti drammatici per il sistema-Paese e per i suoi equilibri istituzionali. Questo passaggio però è più nelle mani di chi oggi ha raccolto la sfida della ricostruzione che non in quelle di chi è stato costretto al ritiro dall’evidente fallimento.
Bossi ha gettato la spugna tra mille paradossi. È stato travolto da sospetti di appropriazioni indebite, persino dei propri familiari, dopo aver fatto fortuna con quel motto «Roma ladrona» che segnava l’alterità della Lega delle origini, oltre che il suo potenziale razzismo. In realtà il Carroccio ha sempre convissuto con scandali, inchieste imbarazzanti, operazioni al limite della legalità (e talvolta oltre): dai 200 milioni del primo amministratore Patelli al crac della banca Credileuronord, ad episodi di corruzione locale, agli spericolati investimenti esteri con i denari del finanziamento pubblico. Tuttavia ha sempre fatto premio l’identità carismatica del movimento, la fedeltà al capo, la disciplina organizzativa. Qualcuno ha detto che la Lega è stata il solo partito leninista sopravvissuto alla caduta del Muro. Di certo, è stato il solo partito italiano ad essere entrato nella Seconda Repubblica con il nome e il simbolo che tuttora compongono la sua ragione sociale.
Ma quel mastice ora non ha più tenuto. Almeno per due ragioni. La prima è che lo scandalo stavolta travolge direttamente il leader maximo, il Senatur. E siccome il sospetto sembra essere quasi una certezza per lo stato maggiore della Lega nel senso che tutti erano consapevoli di questa spericolata finanza di partito, gestita in modo anomalo e asfissiante dei familiari e/o dai famigli di Bossi è evidente che l’inchiesta della magistratura e i suoi primi risultati si sono abbattuti come una mannaia sul vertice politico. Il declino psico-fisico del leader è diventato di colpo insopportabile, insostenibile. Forse lo è diventato per lo stesso Bossi, che magari si è sentito tradito da chi gli sta più vicino. C’è però anche una ragione politica. Se il leader carismatico ha fondato il partito e ne ha garantito l’unità, nonostante le profonde divisioni interne, oggi il fallimento non può riguardare solo una persona. È la struttura del partito personale a mostrare ancora una volta la propria inadeguatezza a misurarsi con società evolute, per di più alle prese con una crisi di competività e di tenuta sociale. In questo senso il crac di Bossi somiglia a quello di Berlusconi e lo completa. Il populismo sembrava una scorciatoia vincente, benché pagata ad alto prezzo. Ora invece è chiaro a tutti che è stato il propellente del nostro declino, la ragione che ha portato l’Italia a precipitare in tutte le classifiche europee e mondiali.
La Lega aveva anche tentato un salto mortale, passando in poche settimane da difensore arcigno delle politiche del governo Berlusconi l’alleato più fidato, se si pensa che invece Casini e Fini sono stati espulsi dal centrodestra a scatenato contestatore. Incuranti del fatto che dieci anni fa hanno sostenuto un governo che voleva cancellare l’articolo 18, ora i leghisti si erano messi a difenderlo, così come avevano dichiarato guerra ai provvedimenti di Monti dopo aver sostenuto i più vergognosi del governo precedente. Ma la piroetta non poteva riuscire con la struttura del partito carismatico, mentre il leader perde il carisma.
La drammatica crisi della Lega non annulla certo le ragioni e gli umori che l’hanno generata. Anzi, il deficit di credibilità della politica rischia oggi di allargare ulteriormente le distanze tra il malessere dei cittadini e la rappresentanza nelle istituzioni. Ma c’è una chance per chi vuole ricostruire il tessuto democratico che è stato strappato e, al tempo stesso, far ripartire il Paese. Bisogna giocarsela con intelligenza, passione e rigore etico. La soluzione trovata sulla riforma del mercato del lavoro, dopo un primo, grave errore del governo Monti, è un incoraggiamento per i riformatori e i democratici. Non è vero che la politica è finita e che il teatrino offre passerelle solo a leader solitari. Non è vero neppure che il governo dei tecnici esprime la sola linea possibile per un Paese «osservato speciale» come l’Italia. È vero invece che si può coniugare innovazione e coesione sociale, come non ha mai fatto la destra populista e come stava rinunciando a fare il governo Monti.
La politica può tornare ad essere competizione tra alternative legittime e possibile. Le istituzioni possono tornare all’equilibrio della Costituzione, senza le torsioni presidenzialiste del partito personale e del maggioritario di coalizione. A condizione che si usi il tempo del governo tecnico e di questa «strana maggioranza» per cambiare davvero il Porcellum e tornare in Europa. Purtroppo non sono pochi i sostenitori dello status quo: bisogna affrontarli e batterli. Come occorre fare, subito, una legge affinché il necessario finanziamento pubblico ai partiti venga sottoposto a controlli severissimi e imparziali. Il rigore della politica è condizione del suo riscatto. Altrimenti al populismo rischia di seguire il primato degli oligarchi.

La Stampa 6.4.12
La resa che chiude un’era
di Michele Brambilla


Non è un caso che l’addio di Umberto Bossi sia arrivato appena cinque mesi dopo quello di Silvio Berlusconi. Per quanto diversi per censo e perfino per tratti antropologici, i due erano legati fra loro assai più di quanto non siano legati due semplici alleati politici. La loro avventura era evidentemente destinata ad avere un inizio e una fine comuni, e come certi vedovi inconsolabili, l’uno non poteva sopravvivere alla fine dell’altro.
Così in soli cinque mesi la loro uscita di scena cambia di colpo, e probabilmente per sempre, il profilo della destra italiana e l’intero scenario politico nazionale. Finisce un’era: quella dei «fondatori», dei partiti personali, del leaderismo e del culto del capo, dei finti congressi e delle acclamazioni. Finisce anche, si spera, la stagione delle forti contrapposizioni e delle chiamate alle armi.
Pure nell’addio i due vecchi capipopolo risultano così simili da apparire inseparabili. Per tutti e due, non s’è trattato di dimissioni: s’è trattato di una resa. Non lasciano perché ritengono sia giunta l’era del buen retiro, ma perché travolti dagli avvenimenti. Non lasciano da vincitori, ma da sconfitti. Eppure, sono sconfitti cui va riconosciuto l’onore delle armi. Se è vero infatti che sarà la storia a separare per entrambi il grano dal loglio, già oggi si può dire che sia Berlusconi sia Bossi sembrano migliori da vinti che da vincitori. Uomo destinato (e non solo per colpa sua) a dividere, Berlusconi ha lasciato unendo: se oggi l’Italia tenta faticosamente di uscire dalla crisi con un governo di solidarietà nazionale, è anche perché il Cavaliere ha saputo, all’ultimo, tenere a freno i suoi falchi. Magari l’avrà fatto anche per interesse personale, ma l’ha fatto.
Allo stesso modo, Bossi mostra più nobiltà nel lasciare di quanta ne abbia mostrata restando - non si sa quanto consapevolmente - attaccato a un trono che era diventato la vacca da mungere da parte di una losca compagnia di giro. La vicenda umana di Bossi è segnata, come molte, da quelle leggi implacabili che si chiamano del contrappasso e dell’eterogenesi dei fini. Lui che tante volte ha urlato di voler usare come carta igienica la bandiera italiana, è stato di fatto il porta vessillo della versione più meschina della bandiera italiana: quella che, come diceva Longanesi, al centro ha la scritta «ho famiglia». Lui che organizzò due finte feste di laurea, e che fece credere alla sua prima moglie di essere medico, cade per essersi scelto un tesoriere che comprava lauree e diplomi; e per dare un futuro a un figlio che qualcuno gli faceva credere già quasi laureato.
Miserie, fragilità, debolezze. Da guardare però con misericordia nel giorno in cui il misero, il fragile e il debole cade. Per quante responsabilità possa avere avuto, suscita pietà il vecchio capo che con orgoglio parla a un collega del figlio che - crede lui - ha fatto da interprete a Berlusconi e Hillary Clinton; e che poi apprende con sgomento che il libretto universitario del suo erede non ha dei trenta ma degli spazi bianchi. Proprio perché noi non ci vergogniamo a essere italiani nel bene e nel male, non ci accodiamo a chi infierisce su un padre che va in crisi per un figlio.
Così è strana la vita: il politico del «celodurismo» cade per essere stato troppo debole in famiglia; e l’uomo che dal niente aveva messo in piedi un impero, cade per mano di mediocri cortigiani. Bossi «muore» politicamente meglio di quanto abbia vissuto anche e soprattutto perché non fugge di fronte alle proprie responsabilità, anzi se ne fa carico e arriva a pronunciare parole inaudite nel mondo della politica: «Chi sbaglia paga, qualunque cognome porti».
Altre, e ben più gravi, sono le sue colpe. Prima ancora che per i colpi della malattia e del cosiddetto cerchio magico, Bossi deve lasciare la scena per un fallimento politico. È stato grande nel trasformare l’aria del Nord in un partito da dieci per cento. Ma altrettanto grande nello sfasciare tutto: prima mettendo in un angolo le intelligenze che avrebbe potuto arruolare (la migliore, Miglio, fu messa alla porta con la sprezzante etichetta di «una scoreggia nello spazio»), poi dissipando anni e anni di governo senza mai realizzare una sola delle riforme annunciate. Se la Lega non gli sopravviverà, non sarà perché non vi può essere un altro leader dopo di lui, ma per i vent’anni di promesse non mantenute.
Anche qui, sarà la storia a rispondere. Per ora possiamo leggere gli avvenimenti solo con lo sguardo della cronaca, che ci fa immaginare per le elezioni del 2013 una destra e un quadro politico generali completamente diversi - e speriamo migliori - rispetto agli ultimi vent’anni.

Repubblica 6.4.12
La caduta degli idoli
di Ezio Mauro


CADONO ad uno ad uno gli idoli della destra italiana che fino a ieri guidavano il Paese, trasmettendo attraverso il loro potere alieno alle istituzioni l´immagine di un´Italia da comandare, più che da governare. Le dimissioni di Umberto Bossi, affondato dalla nemesi di uno scandalo per uso privato di denaro pubblico, azzerano la politica e persino il linguaggio della Lega, rovesciando sul Capo fondatore quelle accuse spedite per anni contro "Roma ladrona" e contro lo "Stato saccheggiatore". I ladroni la Lega li aveva in casa, anzi a casa Bossi. E il saccheggio lo aveva in sede, a danno del denaro dei contribuenti.
La Lega è il più vecchio partito italiano, nato nell´agonia pentapartitica della prima repubblica, sopravvissuto e cresciuto nella bufera di Tangentopoli che ha cambiato per sempre la geografia politica. Poi alleata con l´altro figlio legittimo della prima repubblica, quel Berlusconi protetto dal Caf, abile più di tutti a infilarsi nella breccia aperta da Mani Pulite nel muro del sistema, e a ereditarne il comando come presunto uomo nuovo, esterno ed estraneo. L´unione di convenienza dei due leader - al di là della rottura del ‘94, quando Bossi tuona contro "il mafioso Berlusconi" e la sua "porcilaia fascista" - via via si rinsalda su una prassi e un istinto ideologico, che dà vita all´esperimento italiano di una "destra reale", o realizzata. Qualcosa di inedito nelle culture di governo dell´Occidente, nel suo mix populista di potenza economico-finanziaria e paganesimo localista, di cesarismo carismatico e telematico e di fazzoletti verdi agitati nel perimetro padano, eccitato dal federalismo alla secessione, fino alla xenofobia.
Quella destra "reale" ed estrema che da oggi, dopo la caduta di Bossi e Berlusconi, non vedremo mai più nella forma con cui l´abbiamo conosciuta.
Bossi viveva se stesso come il Capo indiscusso e perenne di una potenza straniera, che aveva ricevuto dalla decadenza del sistema italiano di rappresentanza politica l´occasione di governare l´Italia come una colonia da spolpare. Parlava contro lo Stato viaggiando sulle sue auto blu, oltraggiava il tricolore rappresentandolo nelle istituzioni, attaccava la Costituzione dopo averle giurato, da ministro, fedeltà repubblicana. Tutto ciò in combutta con un leader a cui permetteva e perdonava tutto, scandali, vergogne, eccessi ed errori, in cambio di rendite di posizione parziali per sé e per il suo gruppo dirigente. Con il miraggio eterno della terra promessa, la Padania autonoma nello Stato federale e nemico, e la promessa finale (in cambio dei voti sulle leggi ad personam) della più prosaica e concreta Lombardia, per il dopo-Formigoni ormai alle porte.
Invece è arrivato il ciclone dei rimborsi elettorali usati a fini di famiglia. Si è finalmente capito di che pasta era fatto quel "cerchio magico" che proteggeva e ingabbiava il Capo, e quale cemento lo univa, lubrificandolo a spese del contribuente italiano. I soldi dello Stato, per Bossi e i suoi, erano come i beni di un Paese occupato, che bisogna spogliare. Il "cerchio" alimentava se stesso, tiranneggiando il tesoriere, e muniva così il suo potere. Dentro il cerchio, la famiglia lucrava per sé, piccoli e grandi vizi, la casa del Capo e l´auto del figlio, le spese minute per tutti, e soldi – dicono le carte – anche per quel Calderoli che oggi pretende di sopravvivere a se stesso e alla vergogna nel ruolo di reggente, insieme con Maroni e Manuela Dal Lago.
La verità è che la Lega non c´era più da tempo, e oggi ciò che ne resta affonda insieme con Bossi. Il capo barbaro degli inizi aveva un istinto politico fortissimo, un linguaggio basico dunque nuovo nella sua spregiudicatezza, un legame istintivo coi militanti, una pratica politica di estraneità al sistema politico declinante, dunque anche ai suoi vizi. La prima auto blu ha trasformato Bossi. La malattia ha fatto il resto, depotenziando il vigore di un leader in cui la fisicità (metaforizzata come virilità politica) era icona del comando, testimonianza di una ribellione perenne, conferma di una irriducibilità permanente. All´impedimento fisico si è accompagnato una sorta di ottundimento dell´istinto, quindi della manovra politica, alla fine dell´autonomia e della libertà. Da scelta negoziata, Berlusconi è diventato necessità, appoggio, rifugio. Nato come partner, libero e autonomo fino ad andarsene e tornare, il Bossi malato è finito nella tasca capiente e sapiente di Berlusconi, prigioniero volontario di un´alleanza come assicurazione senile di potere.
Il "cerchio magico" ha funzionato da coro greco, impedendo che l´autonomia perduta dal Capo venisse recuperata ed esercitata dal partito, tenuto in minorità permanente, costretto a ricevere e ad ascoltare dai sacerdoti del "cerchio" la traduzione delle parole d´ordine del Capo, elevato (in realtà ridotto) da leader a totem. Un Bossi totemico, simbolo indebolito di se stesso, che non governava ormai più, ma esercitava un potere mediato attraverso il "cerchio". Che in questo modo aveva in mano il controllo del partito ed impediva la crescita di ogni discussione, di qualsiasi articolazione di leadership ausiliaria, di tutte le ipotesi di delfinato. Il punto è che il "cerchio magico" si è impadronito della malattia del Segretario. E quindi, come in un brutto romanzo sudamericano tradotto in dialetto padano, ha cercato di perpetuare l´immobilismo totemico di un potere bloccato ma refrattario ad ogni soggetto esterno, per esercitare così un comando derivato.
Come in tutti i sistemi impaludati e stagnanti, anche nelle acque ferme del vertice leghista si è fatta strada la corruzione, probabilmente come strumento di arricchimento privato, dei singoli membri e della famiglia reale, ma anche come mezzo di potere e di controllo nei confronti degli altri, avversari o pretendenti. Per la Lega, e per Bossi stesso, è il cappio padano che cambia collo, e dalle odiate grisaglie di Stato e di regime passa indosso alle camicie verdi. Peggio di una tangente, dei soldi corruttori di qualche imprenditore in cambio di un appalto, se si può fare una scala in queste cose: perché si tratta di denaro pubblico, finanziamento dello Stato, soldi di Roma, che il "cerchio" e la famiglia (culmine sacro e pagano di tutto) intascavano a loro profitto, truffando tre soggetti in un colpo solo: lo Stato, i contribuenti, e il partito, derubato da chi lo comandava.
La stessa retorica leghista viene annichilita da questo scandalo, che si racconta al contrario delle leggende bossiane, perduta quella purezza che dava forza e credibilità alla denuncia contro gli sprechi "romani" e lo Stato burocrate, oppressore delle sane abitudini padane. Ecco perché Bossi si è dimesso, ed ecco perché - soprattutto - le dimissioni erano inevitabili, e molto probabilmente non basteranno. Passata da più di un anno dalla guerra di secessione a quella di successione (che Maroni non ha mai dichiarato formalmente, per non uccidere politicamente Bossi con le sue mani, ma sentendosi l´unico erede), adesso la Lega deve giocare una battaglia di sopravvivenza, che riguarda tutti. Non è credibile che gli altri capi e capetti (da Calderoli a Castelli allo stesso Maroni) non sapessero. I militanti ripeteranno l´ultima leggenda, quella della cospirazione esterna. Ma gli elettori, i simpatizzanti, si sentono definitivamente truffati da un gruppo dirigente confiscato da un piccolo cerchio di potere con pratiche umilianti, che comandava per rubare – come nella peggiore Tangentopoli – e rubava per continuare a comandare.
Resta il problema enorme della rappresentanza del Nord, storica, culturale, politica. Rappresentanza simbolica e di interessi concreti. Non è affatto detto che questi interessi debbano coniugarsi per forza alla xenofobia, alle paure per la globalizzazione, all´invettiva spaventata contro l´euro e l´Europa. Un´altra rappresentanza è possibile, se i partiti avranno la forza, la capacità e l´ambizione di concorrere per dare ascolto e soddisfazione alla parte più forte e moderna del Paese, liberandola dei falsi miti, unendola alle istituzioni e al destino repubblicano e nazionale. Facendole capire che la politica non è una cosa sporca, l´Europa è il nostro destino, e destra e sinistra – finalmente – non sono soltanto le due sponde del sacro Po: restituito ieri da falso nume a fiume, come accade nel Paese reale in cui vorremmo vivere.


l’Unità 6.4.12
Firenze, perquisita la casa del sacerdote accusato di pedofilia


È stata perquisita l'abitazione a Scandicci di don Daniele Rialti, il sacerdote accusato da un altro sacerdote e da alcuni fedeli di essere stato protagonista di casi di pedofilia. La polizia avrebbe anche perquisito la casa in cui viveva in precedenza don Rialti, a Empoli, e la casa della vittima, un giovane albanese, sempre nella cittadina della provincia. Il ragazzo (oggi maggiorenne, ma minorenne all’epoca dei fatti) è stato ascoltato in questura. Sarebbero stati acquisiti materiali informatici, dai quali gli investigatori pensano di poter risalire ai nomi di persone da ascoltare come testimoni. Analoghe acquisizioni anche all'Opera Madonnina del Grappa, alla quale è legato il sacerdote. Il presunto caso di pedofilia gli abusi si sarebbero verificati quando il sacerdote era ad Empoli,frai5ei3annifa-sarebbestatoscoperto dalla procura di Firenze mentre indagava sull'attentato subito, il 4 novembre 2011, dall'arcivescovo monsignor Giuseppe Betori nel quale il suo segretario, don Paolo Brogi, rimase ferito da un colpo di pistola. I due episodi non sarebbero collegati tra loro, ma gli accertamenti avrebbero fatto emergere il caso e diversi testimoni sentiti su una vicenda sono tornati utili anche all’altra. E proprio sulla rivelazione della storia la procura sta indagando verso due giornalisti di Panorama, per violazione di atti coperti da segreto

La Stampa 6.4.12
Dal ruggito al rantolo. Parabola di un capo che non ha più muscoli
La rock star padana diventata patrono da esporre
di Marco Belpoliti


Il declino fisico di un leader è sempre uno spettacolo avvilente, ma nel caso di Umberto Bossi si è trattato di una vera e propria via crucis che il capo leghista ha affrontato senza mai sottrarsi allo sguardo dei suoi fedeli, degli amici, ma anche dei nemici, cui ha riservato negli ultimi anni, in assenza della parola sferzante, il gesto provocatorio e sovente volgare.
Apparso ugualmente in pubblico, nonostante l’evidente menomazione prodotta dalla malattia, che l’ha trasformato in un’icona dello sfinimento e della santità presso i suoi fedeli, ha avuto un unico precedente, almeno in Italia: la lenta agonia di Papa Wojtyla.
Se si riavvolge il film della sua carriera, a partire da questo epilogo finale, ci si rende conto che la fisicità, lo sforzo corporale, è sempre stato lo stigma della sua personalità. Impensabile Bossi disgiunto dalle sue posture e dai travestimenti: l'impermeabile bianco degli inizi e la canottiera del 1994, sino alle giacche sportive degli ultimi anni. Travestimenti di un vitellone che è arrivato incredibilmente e fortunosamente ai vertici della politica del Paese. Uno del popolo, questo ha sempre voluto essere il leader di «Roma ladrona», il creatore di slogan e di parole d’ordine, che nei comizi impugnava il microfono alla stregua di un cantante e si concedeva ai suoi sostenitori - i fan - con gli atteggiamenti di una rock star.
Fisicità esibita nelle centinaia di chilometri percorsi ogni giorno per portare in giro per il Nord, da Ovest a Est, il verbo dell’autonomismo e del separatismo. Non è un caso che il giorno del suo abbandono, del ritiro, forse solo apparente, ma comunque assolutamente simbolico, si rivolge ai suoi colonnelli, alle truppe della sua armata Brancaleone, dicendo: «Adesso basta piangere, andiamo ad attaccare i manifesti alla faccia di quei coglioni che vogliono fare il funerale alla Lega».
Il ritorno alle origini, quando in compagnia di Roberto Maroni appiccicava in una notte centinaia di manifesti sotto i cavalcavia, vicino alle fabbriche, sui muri delle mense e dei bar di periferia. Una performance che è lontana anni luce - nel Nord di manifesti della Lega non se ne vedono più tanti in giro. Il tramonto della fisicità del Capo ha corrisposto alla fine della stessa fisicità dei suoi militanti e sostenitori: un legame indissolubile e misterioso, com’era già accaduto allo stesso Mussolini di Salò.
Trasformato dall’ictus in una sorta di Padre Pio del separatismo, santo patrono da esporre e far parlare, seppur brevemente, negli incontri e nei comizi, il Sénatur è diventato l’ombra di se stesso. Calando la sua forza, la sua stessa capacità di produrre segni e simboli, anche il movimento da lui fondato è rifluito nell’ambito di una fisicità assai stereotipata, una via di mezzo tra la truculenta corte craxiana, con tanto di cerimonieri e salvadanai del Capo, e il passo felpato dei dorotei, abituati a salire e scendere le scale del potere, a gestirlo in santa pace.
La sua voce cavernosa, profonda, strascicata, che tanti istinti animali suscitava negli ascoltatori del Nord, oggi è trasformata in un rantolo, un sussurro scomposto, che esce sempre più flebile dal corpo. Non eccita più e non rassicura neppure. La voce è stata in lui tutto, o quasi, più ancora delle cose che diceva, una voce attraverso cui ha parlato per vent’anni e più l’inconscio stesso di una larga parte del Paese, retrivo, xenofobo, conservatore, antiStato, che è oggi senza più guida, gregge senza pastore, cui non basta più neppure il santino del leader, e assiste impotente alla sua ultimissima stagione politica, quella del forzoso congedo.

il Fatto 6.4.12
Caso Lusi. Le domande che urtano Rutelli


Da qualche settimana, l'ex leader della Margherita, Francesco Rutelli, ha un rapporto difficile con i giornalisti che gli fanno domande sulla vicenda Lusi. Ieri anche il collaboratore del Fatto Quotidiano, Nello Trocchia, c'ha provato: gli ha chiesto conto della lettera datata 2 febbraio scorso, in cui il senatore Rutelli scriveva ai pm Caperna e Pesci per caldeggiare una “transazione” con l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi. In particolare, chiedeva spiegazioni in merito al rilascio di una fideiussione bancaria “ammontante a 5 milioni” che consentisse a Lusi di restituire parte della somma contestata, e all'invito rivolto ai pm ad astenersi dal sequestro dei beni. “Dal 2 febbraio ad oggi, ci sono state decine di azioni che attestano l'estrema determinazione che abbiamo assunto nei confronti della vicenda Lusi”, ha risposto, dopo diverse sollecitazioni, Rutelli a margine di una conferenza stampa dell'Api, che si è svolta ieri mattina. “Da quella lettera risulta una piccola parte di quello che noi e la magistratura abbiamo scoperto dopo. C'è scritto: vediamo cosa dite sulla fideiussione, noi intendiamo recuperare fino all'ultimo centesimo attraverso il procedimento civile”. Poi sbotta: “Da allora sono successe tante cose” e tira in ballo Marco Travaglio: “Come se io le chiedessi perché Travaglio è stato in vacanza con un mafioso”. “Ma guardi che era un investigatore”, ha puntualizzato Trocchia.
Nella missiva del 2 febbraio il senatore si diceva convinto che non fosse utile “opporsi pregiudizialmente all’immediato recupero di una parte significativa dell’appropriazione indebita, fermo restando che proporremo all’Assemblea federale di recuperare l’intera somma sottratta in sede di procedimento civile”. Alla domanda del nostro collaboratore, riguardo alla possibilità di convocare l'Assemblea federale, il senatore ha detto: “Noi possiamo convocare l'organismo quando abbiamo un vero bilancio, non i bilanci taroccati del vecchio tesoriere”.

il Fatto 6.4.12
Il Paese dove rubano i ricchi
di Piercamillo Davigo e Leo Sisti


Esce oggi per Laterza il libro del giudice Piercamillo Davigo e del giornalista Leo Sisti “Processo all’italiana” (pagg. 186, euro 15), con una serie di soluzioni a costo zero per la crisi della giustizia in Italia. Pubblichiamo uno stralcio dell’ introduzione.

È una brutta fotografia, quella che emerge dal rapporto annuale Doing business della Banca Mondiale, dedicato alla classifica dei paesi dove conviene investire. Nel 2011 l’Italia risulta al 158° posto su 183 per durata dei procedimenti e, più in generale, per l’inefficienza della giustizia. Un dato sconcertante, che ci vede preceduti persino da Togo, Isole Comore, Indonesia e Kosovo. (...) Da noi occorrono 1.210 giorni prima che un processo giunga in porto per il recupero di un credito commerciale; in Germania 394. Secondo Mario Draghi, “la perdita annua di pil attribuibile ai difetti della giustizia civile potrebbe giungere a un punto percentuale”.
AL 30 GIUGNO 2011 la massa dell’arretrato da assorbire era pari quasi a 9 milioni di processi (5,5 milioni nel civile e 3,4 nel penale), mentre sono cresciuti a dismisura i tempi medi necessari per la definizione di una causa: nel civile 7 anni e 3 mesi (2.645 giorni), nel penale 4 anni e 9 mesi (1.753 giorni).
(...) Il problema, contrariamente a quanto ha sostenuto anche l’Anm e a quel che molti pensano, non dipende da risorse insufficienti. (...) In Italia le risorse sono irrazionalmente distribuite. Circa un terzo dei nostri tribunali dovrebbe essere soppresso perché di dimensioni tali da non giustificarne l’esistenza. Con un enorme dispendio di mezzi e personale. (...)
L’Italia investe quanto la Gran Bretagna. Ma nel 2010 Oltremanica si sono celebrati 330 mila processi penali (...). In Italia, ogni anno se ne fanno 3 milioni e 400 mila. Un abisso. “Alleggerire” la domanda è importante, anche alla luce della necessità di intervenire sulla mannaia della prescrizione che cancella i processi e vanifica gli sforzi di magistrati e investigatori (...). In Italia ogni 12 mesi vengono iniziate più cause civili che in Francia, Spagna e Gran Bretagna messe insieme. Può essere mai che gli italiani abbiano nel Dna la “voglia di litigare” o la tendenza a trasgredire le norme penali? Non ci si può credere. Cosa non va da noi? Il sistema tutela molto i farabutti, cioè chi viola la legge, e poco le vittime. Il che provoca la “naturale” lievitazione delle liti. (...) Risolvere la crisi della giustizia non è poi così difficile: basta rendere poco conveniente il non osservare la legge! Perché se, invece, conveniente lo è, aumenta in modo esponenziale la quantità dei furbi. E le corti s’intasano. (...)
La differenza fra la Repubblica italiana e, ad esempio, Cosa Nostra, non sta nelle schiere di uomini in armi, ma nel fatto che la Repubblica riposa sulla giustizia. Infatti l’articolo 2 della Costituzione afferma che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (...) protetti dalla legge, alla quale deve sottostare anche chi detiene il potere. Sembra ovvio, ma non è così. Fino a due secoli fa il sovrano non era soggetto alla legge. La legge era espressione della sua volontà: lui faceva quello che gli pareva, non essendo tenuto a osservarla. Per questo lo si definiva, in latino, princeps legibus solutus, principe sciolto dalle leggi. Con l’Illuminismo cambia tutto. Anche il sovrano è uguale agli altri. Avrebbe dovuto, perlomeno (...). Oggi viviamo in un’epoca in cui alcuni principi fondamentali dello Stato occidentale (tutti sono soggetti alla legge) sono messi in discussione. Da noi, addirittura, la classe politica è riluttante ad accettarli. Una parte ha promosso anche una norma, poi dichiarata incostituzionale, che impediva di processare le principali cariche dello Stato finché fossero in servizio. Non solo. Un ruolo importante nel ribadire che anche chi ricopre incarichi pubblici di grande responsabilità non è legibus solutus, l’hanno giocato i reati di criminalità organizzata e contro la Pubblica amministrazione, cioè corruzione e concussione. (...) Membri della ruling class nostrana colludono con gruppi mafiosi e rubano. Nelle altre nazioni occidentali, rubano i poveri e non i ricchi, anche perché questi ultimi non hanno bisogno di farlo. In Italia talvolta rubano i ricchi più dei poveri, riuscendo quasi sempre a farla franca. Di più. In questa strana classe dirigente esistono tipi come Calisto Tanzi, patron di Parmalat che, condannato per un aggiotaggio ai danni di 40 mi-la risparmiatori, è entrato in prigione dichiarando: “Non me l’aspettavo”.
INSOMMA, l’Italia è un paese a illegalità diffusa. Secondo calcoli della Corte dei Conti la corruzione costa alle casse dell’Erario 60 miliardi di euro all’anno. L’evasione “vale”, in imposte non versate, addirittura il doppio, 120 miliardi di euro, sempre all’anno. Cifre stratosferiche che mutano profondamente la pressione fiscale ufficiale: oggi, in rapporto al Pil, è al 43,2%. In realtà, per chi paga regolarmente le tasse, pesa per il 51,2%, secondo stime Confindustria.
Montagne di denaro illegale che, se reintrodotto nel circuito legale, soddisferebbe le esigenze di qualunque manovra finanziaria. Tempo fa un magistrato italiano, in visita a un carcere federale del North Carolina, si è trovato di fronte a molti detenuti, condannati a pene tra i 5 e i 15 anni, metà per fatti di droga e metà per i “crimini dei colletti bianchi”, per lo più evasione fiscale. Il direttore, scorgendo un certo stupore negli occhi dell’ospite, durissimo, ha spiegato: “Hanno mentito al popolo americano”. Un nostro presidente del Consiglio ripeteva che era “normale” non pagare le tasse. La differenza tra un paese seriamente capitalista e un paese tardo feudale è tutta qui.
Processo all’italiana, di Piercamillo Davigo e Leo Sisti; editori Laterza

il Fatto 6.4.12
Evasori? Vietato disturbare
di Bruno Tinti


Secondo Attilio Befera, il capo dell’Agenzia delle Entrate, le cose non vanno male: si incassano più soldi, i controlli sono mirati, la loro qualità è migliorata. Speriamo che sia vero. Però. “Nel 2011 sono stati recuperati 12,7 miliardi dal contrasto all’evasione fiscale”. Ma si tratta dell’esito dell’attività svolta negli anni precedenti: accertamenti con adesione, contenzioso tributario finalmente definito (dopo anni di processo avanti alle Commissioni tributarie), pagamenti rateizzati di somme. Insomma, non si tratta di gettito fiscale accertato e recuperato nell’anno, ma del risultato dell’attività di routine; gettito proveniente dal passato. Superiore (15%) a quello del 2010, è vero. Ma è pura casualità: meno rateizzazioni, più pagamenti in unica soluzione, più sentenze definitive. La capacità di scovare gli evasori sempre quella è rimasta. “Abbiamo deciso di incrementare gli accertamenti sulle grandi imprese, quindi ne faremo di meno sulle medio-piccole imprese e sulle persone fisiche”. Non so quanto sia giusto. Le grandi imprese non evadono, eludono (sulla differenza tra evasione ed elusione scriverò, è una cosa complicata). La lotta all’elusione si fa sulla base di valutazioni giuridiche, diciamo in punta di fioretto: dovevi applicare questa norma, no ti sbagli, la norma giusta è quest’altra. I risultati arrivano dopo anni di processi tributari e sono incerti assai. Naturalmente, se si considera solo la contestazione mossa con l’accertamento, sembrano grandiosi; ma i conti si fanno alla fine. È sicuro Befera che 1000 ore di verifica alla Fiat o a Mediaset rendano quanto 1000 ore di verifica a panettieri, avvocati, idraulici e ristoratori? E, soprattutto, non sta trascurando l’effetto intimidatorio di controlli diffusi sulla piccola e media evasione, quella che è all’origine dei 160 miliardi di euro rubati al paese ogni anno? La lettura complessiva del suo discorso trasmette un senso di soddisfazione: stiamo lavorando bene. Il che può essere, io conosco tantissimi funzionari delle Entrate e sono quasi tutti straordinari. Ma il risultato finale del loro lavoro sono sempre 160 miliardi di euro di evasione all’anno che restano imprendibili. Non credo che sia una buona strategia quella di lodare l’efficienza del Fisco italiano. Credo che sarebbe meglio evidenziarne le carenze, proporre riforme e chiedere risorse. Infine. Non una parola sugli attacchi a Equitalia e sulla sua delegittimazione quotidiana. Eppure il lavoro dell’Agenzia delle Entrate, senza qualcuno che riscuota i soldi, sarebbe inutile. Non era male spiegare che questa Agenzia (i cui funzionari ricevono pacchi bomba) è quella che si incarica di prendere (certo, con la forza – giuridica –, altrimenti non glieli danno) i soldi agli evasori, quelli di cui parla Befera quando racconta dei 12,7 miliardi recuperati nel 2011. Spiegare ai cittadini che la riscossione è un capitolo fondamentale della lotta all’evasione e che, tra i poveretti che – “perseguitati” da Equitalia – si uccidono, si nascondono in grande quantità proprio gli evasori a cui Befera dà la caccia, era importante. Così come era importante non mettere l’accento sulla delicatezza degli interventi dell’Agenzia, sull’attenzione posta a non disturbare. E ricordare invece che pagare il tributo dovuto è imposto dall’art. 53 della Costituzione; e che in Italia la violazione di questo principio è diffusissima. Quindi (mi sarebbe piaciuto avesse detto) scusateci tanto, ma abbiamo molto da fare; lavoriamo per voi e un po’ vi disturberemo.

La Stampa 6.4.12
Gli scandali avvicinano Pd e Pdl
di Marcello Sorgi


Data per improbabile fino a qualche giorno fa, malgrado gli impegni presi da Alfano, Bersani e Casini, la riforma elettorale torna ad essere possibile per effetto degli ultimi avvenimenti. La crisi della Lega con le dimissioni di Bossi dopo lo scandalo dell'uso illecito dei fondi pubblici, l'escalation di Di Pietro dall'opposizione alle accuse immotivate a Monti di essere il responsabile dei suicidi legati alla crisi economica, la resistenza di Vendola e della sinistra radicale all' intesa sul mercato del lavoro e sull'articolo 18, hanno reso molto difficile, ai limiti dell'impraticabile, il ritorno dei due maggiori partiti alle vecchie coalizioni, in vista delle elezioni politiche del 2013. Alfano e Bersani insomma non hanno più un " secondo forno" da restaurare, in alternativa all'appoggio all'attuale governo, e devono mettere in conto la possibilità che la formula della larga coalizione, magari non necessariamente abbinata a ministri tecnici, prosegua anche nella prossima legislatura, con Monti alla guida, come tutti, tranne l'interessato danno per scontato.
Se questa è la prospettiva e se le prossime scadenze, di qui a un anno, dovessero consolidarla, non c'è dubbio che una legge elettorale proporzionale, come quella attorno a cui si sta lavorando, sia lo strumento più adatto per raggiungere l'obiettivo. Nessuno dei tre partiti maggiori infatti sarebbe in condizione di ottenere la maggioranza nelle urne da solo. E soltanto una coalizione dei primi due, Pdl e Pd, al momenti la più improbabile delle combinazioni, potrebbe puntare a superare il cinquanta per cento dei voti, scontando il rischio di una secessione dei rispettivi elettorati, fin qui aizzati anno dopo anno l'uno contro l'altro.
Problemi da risolvere ce ne sono, a cominciare dall'opportunità o meno di mantenere il premio di maggioranza, assegnandolo al partito vincitore o al primo e al secondo della classifica, dall'eventualità, per i partiti, di continuare a presentarsi con un candidato premier o no, dal momento che i governi tornerebbero ad essere formati in Parlamento, e non decisi nelle urne dagli elettori. E soprattutto dalla capacità, per gli stessi partiti, di abbinare al nuovo meccanismo elettorale un minimo di riforme istituzionali (riduzione del numero dei parlamentari, distinzione delle funzioni tra le Camere, rafforzamento dei poteri del premier), per cercare di recuperare ascolto presso i cittadini e di ricostruire una credibilità ormai quasi irrimediabilmente scossa dall' ultima serie di scandali.

il Fatto 6.4.12
Caccia F35, il Canada dice no: per l’Italia è l’ultima occasione
Oggi il ministro Di Paola decide sulla commessa miliardaria
di Daniele Martini


È il giorno della verità per gli F35 Joint Strike Fighter, i supersofisticati, supertecnologici e supercostosi cacciabombardieri prodotti dalla statunitense Lockheed Martin.
Oggi si saprà se il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, e il governo italiano intendono proseguire senza se e senza ma sulla strada dell’acquisto dei jet ignorando tutti i dubbi sull’utilità dell’operazione sollevati in questi mesi da più parti. E sfidando anche il movimento di protesta che si è sviluppato in tutta Italia e che tiene insieme movimenti eterogenei, dalle Acli alla Fiom-Cgil, e anche personaggi diversi, dall’ex segretario Cisl Savino Pezzotta all’attore Ascanio Celestini a padre Alex Zanotelli.
Oppure se alla fine all’interno dell’esecutivo prevarrà la linea della cautela e del ripensamento, sulla scia di quanto sta accadendo, del resto, in molte nazioni che con gli Usa avevano aderito al programma di costruzione di quello che viene indicato come il più costoso progetto d’arma della storia.
L’ULTIMO mutamento di indirizzo sugli F35 è in atto in Canada dove due giorni fa è scoppiato sull’argomento un putiferio a livello istituzionale. La Corte dei conti ha sostanzialmente accusato i vertici militari di aver deciso da soli l’acquisto dei jet e incolpato il Dipartimento della Difesa di aver mentito sui costi crescenti del programma F35 che all’inizio doveva essere di 9 miliardi di dollari per 65 velivoli e che invece, secondo il revisore federale dei conti, Michael Ferguson, è di quasi tre volte tanto, 25 miliardi circa. Di fronte a queste sgradevoli sorprese, il ministro Rona Ambrose ha dichiarato che “il Canada non acquisterà nuovi aerei fino a quando maggiore accuratezza, controllo e trasparenza non saranno applicati nel processo di sostituzione delle Forze armate canadesi”.
Anche l’Italia è di fronte alla scelta cruciale. In mattinata si riunisce il Consiglio dei ministri e il primo punto all’ordine del giorno è la discussione della legge delega sulla riforma dello strumento militare, una formulazione anodina che tradotta in chiaro significa soprattutto F35.
Un filo rosso lega, infatti, l’eventuale acquisto dei cacciabombardieri all’assetto futuro delle nostre forze armate e quindi alle strategie di difesa. L’acquisto dei jet Lockheed Martin, sommato all’avvio di quella che in gergo viene definita la Forza Nec (Network Enabled Capabilities, il soldato supertecnologico del futuro), implicherebbe una spesa elevatissima, circa 30 miliardi di euro in totale in un decennio, 15 per gli F35 e 15 per la Nec, un impegno finanziario enorme per il nostro paese, sproporzionato rispetto alle ristrettezze di bilancio, ma capace di condizionare ogni altra opzione in tema di difesa e perfino gli indirizzi futuri di politica estera.
L’eventuale conferma da parte del ministro Di Paola e del governo dell’acquisto dei 90 cacciabombardieri americani (in un primo tempo l’intenzione era di comprarne addirittura 131) avrebbe tre conseguenze immediate, collegate tra loro. La prima conseguenza sarebbe la cancellazione dell’Eurofighter, l’altro programma aeronautico di rilievo a cui l’Italia stava partecipando. A differenza del progetto F35, di stampo americano e atlantico, l’Eurofighter è prodotto da un consorzio europeo a cui l’Italia aderisce con una quota del 23 per cento.
Il nostro governo ha già scelto di annullare l’ordinazione di 25 jet europei mentre la decisione sull’eventuale acquisto di 21 ulteriori nuovi velivoli è stata rinviata al 2015.
SE ORA l’esecutivo decidesse di puntare tutto sugli F35, è chiaro che ciò comporterebbe il de profundis per il caccia europeo e questo equivarrebbe, ecco la seconda conseguenza, a un’implicita scelta di politica estera, marcatamente filoatlantica e assai poco europea. La terza conseguenza si avrebbe sulla composizione delle nostre forze armate che in base alla riforma di 11 anni fa non sono più composte da militari di leva a due euro di paga al giorno, ma da professionisti che allo Stato costano ognuno circa 1.100 euro al mese, uno dei costi più bassi d’Europa.
In questo decennio questi soldati non hanno affatto sfigurato nelle 32 missioni internazionali a cui hanno partecipato e nel 2015, in base ai programmi concordati, sarebbero dovuti essere 190 mila ripartiti nelle tre forze, Esercito, Marina, Aeronautica. Se l’Italia dovesse acquistare gli F35, il loro numero dovrebbe però essere sensibilmente ridotto, almeno 43 mila in meno, 33 mila militari e 10 mila impiegati civili.

l’Unità 6.4.12
Gli insulti di Grass
di Giuseppe Scuto


Fa veramente dispiacere ascoltare il coro di insulti ad un vecchio, bravo, onesto scrittore che non si è mai risparmiato. Che dice in fondo, quello che tutti sappiamo: il mondo ha paura perchè sa che lo Stato di Israele, che possiede decine e decine di ordigni nucleari, intende attaccare l'Iran che ne starebbe forse producendo uno. Il regime di Ahmadinejad scricchiola, ci vuole Israele a dargli una patente di difensore della patria. I palestinesi si distanziano sempre più dal terrorismo, ci vuole Israele che ve li risospinga, straziando, come fa, la striscia di Gaza. La favola di Israele stato moderno democratico, razionale, nasconde la follia religiosa: l'invenzione di un moderno stato confessionale-razziale. Solo gli israeliani possono cambiare questa situazione.

Repubblica 6.4.12
Il genocidio degli ebrei è un crimine senza uguali
Impedire altre colpe. Il dovere di parlare
"Tacendo si rischia una guerra mondiale"
La difesa di Günter Grass: "Siamo una generazione segnata dal silenzio"
di Jan-Peter Gehrckens


Lo scrittore tedesco premio Nobel replica alle accuse. Nella sua poesia "Quello che deve essere detto" attaccava lo Stato di Israele
Dobbiamo parlare del presente per impedire altre colpe per non dire poi "Non lo sapevo"
Il genocidio degli ebrei è un crimine senza uguali. Un peso che dà agli scrittori il dovere di parlare

BERLINO - «Se Israele attacca gli impianti atomici iraniani, si potrebbe arrivare alla terza guerra mondiale». Così ha detto poche ore fa Günter Grass all´agenzia di stampa tedesca Dpa. Attaccato da quasi tutti i media e i politici tedeschi, difeso da pochissimi, glorificato dai media iraniani che lo elogiano come «intellettuale coraggioso», il Nobel si difende. Ecco cosa ci ha detto. Signor Grass, cosa ha voluto dire con questa poesia? «È una poesia nella grande tradizione della letteratura e della poesia tedesca, da Goethe a Heine a Brecht fino a poesie recenti contro la guerra nel Vietnam».
Ha voluto essere di nuovo "der Mahner" colui che ammonisce?
«L´ammonitore? No…, ma anche sì. Ammonire è un tratto distintivo della mia generazione. Una generazione segnata dal nazionalsocialismo, che si lasciò sedurre dal nazionalsocialismo, e dai silenzi del dopoguerra. Leggete tutti i miei libri, dal "Tamburo di latta" fino all´ultimo ho sempre trattato il tema del genocidio degli ebrei. Un genocidio che è senza uguali ma magari ci si dimentica il milione di Rom assassinati, o i due milioni e mezzo di prigionieri di guerra russi morti di fame. Tutto questo, l´insieme, è un crimine senza uguali. Sento tutto ciò come un peso che dà un dovere agli scrittori. E per questo c´è anche il dovere di parlare sul presente per impedire altre colpe, per non dire poi "non lo sapevo"».
Concretamente cosa l´ha spinta a scrivere la poesia?
«Due fatti. La visita del premier israeliano negli Usa e la dichiarazione di prontezza a ogni gesto di ultima difesa, anche un primo colpo. In Europa da centinaia di anni diciamo in diplomazia che finché si dialoga non si spara. Il secondo fatto: la fornitura a Israele, come risarcimento quasi, pagando con soldi dei contribuenti, di sottomarini tedeschi capaci di sparare missili, anche nucleari, a medio raggio. Il linguaggio del governo israeliano peggiora pericolosamente il clima in una regione - guardate alla Siria - carica di tensioni. E già con l´Iraq abbiamo visto la menzogna delle cosiddette e inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam. Ciò mi ha reso diffidente».
Khomeini parlava di distruzione di Israele. Oggi lo fa Ahmadinejad; chiamarlo "fanfarone" non è un po´ poco?
«Nella poesia parlo di cose di cui non si parla. Prima di tutto che da anni Israele è una potenza atomica con molte testate nucleari, il governo israeliano tace e noi tacciamo. Il capo dell´esecutivo iraniano da tempo parla in discorsi, verbalmente, di negazione del diritto all´esistenza di Israele, è noto, non devo per forza parlarne nel poema. Perciò lo chiamo un fanfarone, ha retorica demagogica. La realtà di cui parlo è l´esistenza di una bomba atomica iraniana che finora è stata solo presunta, non dimostrata, mentre la potenza atomica Israele si sottrae a ogni controllo. Ci vogliono negoziati".
Si aspettava tante reazioni negative?
«Sì, ma constato che in un paese democratico ove vige la libertà di stampa, il nostro, si è manifestata una certa Gleichschaltung (il concetto con cui Goebbels uniformò e imbavagliò i media per Hitler, ndr) delle opinioni. Mi ferisce. Mi chiamano "eterno antisemita", è il rovesciamento del concetto di "eterno ebreo". È indegno parlare sempre subito e solo di antisemitismo tedesco».

La Stampa 6.4.12
Il traffico delle partorienti bulgare. Figli in vendita a 20 mila euro l’uno
Caserta, coppie italiane sterili compravano neonati da ragazze dell’Est: tre arresti
di Antonio Salvati


Per aggirare l’adozione Le coppie italiane si affidavano a uno degli arrestati perché trovasse in Bulgaria una donna disposta a vendere il figlio Le indagini sono partite analizzando i dati anomali sui figli nati da bulgare nel Casertano

A che punto siamo? », incalza telefonicamente una donna. «Non ha ancora i dolori», replica dall’altra parte della cornetta un’altra voce femminile. Un gesto di stizza, appena percettibile via etere, e poi la domanda: «Ma non ce ne sta pure un’altra? ». Funzionava così il supermarket dei neonati che i carabinieri di Mondragone, coordinati dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere, hanno scoperto nel Casertano. Un’organizzazione che portava a partorire in Italia giovanissime donne reclutate in Bulgaria per poi vendere i neonati a coppie che non potevano avere figli. Ogni bambino costava ventimila euro, spese di trasporto e registrazione comprese. Perché alla fine il novello «papà» dichiarava all’anagrafe che il nascituro era effettivamente figlio suo, concepito durante una scappatella, subito perdonata dalla moglie, con una donna bulgara. Tre le persone arrestate: marito e moglie di nazionalità bulgara e un casertano. Due le coppie denunciate che avevano «acquistato» un bambino a testa. Le indagini sono partite nel 2009, quando i carabinieri hanno iniziato a spulciare una lista di una ventina di bambini nati, tutti in Campania, da un padre italiano e una madre bulgara. Da un primo esame dell’elenco, i militari hanno notato subito che in due casi era stato fornito, nella casella riservata ai recapiti dei familiari, lo stesso numero di cellulare. Era quello di Antonio Maione, 56 anni, ritenuto dagli inquirenti il «procacciatore» di coppie sterili pronte a tutte per avere un figlio. Sua la voce impressa sul nastro degli investigatori durante una telefonata fatta per avvertire un novello «papà»: «Vieni, è nato. Auguri papà».
Una strana storia la sua, fatta di tredici figli avuti da cinque compagne diverse. A chi gli chiedeva il perché di tanta prole, avrebbe risposto candidamente di essere figlio unico e di avere bisogno di compagnia. I casi passati al vaglio degli investigatori sono otto, ma solo in due è stata ricostruita per intero la «filiera» che portava poi il bambino tra le braccia degli acquirenti italiani. Stefan e Anna, la coppia bulgara, avevano il compito di individuare nel loro paese d’origine le donne incinte disposte a cedere il nascituro in cambio di denaro. Le ragazze scelte, all’ottavo mese di gravidanza, venivano fatte venire in Campania per partorire in una clinica del Casertano. Entravano in Italia attraverso la Grecia, per poi ripartire una volta perfezionata la cessione. Una ricerca facile quella della coppia bulgara, tanto che in più di un’occasione proprio Anna, intercettata al telefono, se la prende con Maione, reo, secondo lei, di lavorare poco. «Io le coppie le ho trovate – la difesa dell’italiano – il problema è che non hanno i soldi». In un solo caso è documentato il versamento della somma pattuita (ventimila euro), anche perché la coppia che aveva «acquistato» il neonato aveva chiesto la somma in prestito ad una finanziaria. Probabilmente i membri dell’organizzazione avevano capito che i carabinieri erano sulle loro tracce, perché nell’altro caso accertato di compravendita, la madre naturale del bambino era stata spedita a partorire all’ospedale di Giugliano, nel Napoletano. Nella clinica casertana, infatti, i carabinieri avevano infiltrato una militare che, nei panni di un’infermiera, aveva raccolto preziosi elementi. Come la storia della piccola nata con problemi respiratori: i «committenti», una coppia di cinquantenni, avevano poi rifiutato la nascitura che era stata rispedita in patria con i suoi genitori naturali. O come quell’uomo italiano che, una volta messo alle strette, non aveva nemmeno riconosciuto la foto della donna bulgara con cui aveva detto di aver concepito un figlio. In quella stessa clinica, lavorava come infermiera ancheuna delle donne denunciate per l’acquisto dei neonati. Per i genitori «acquirenti» (due coppie di Casal di Principe e di Santa Maria Capua Vetere) i magistrati non hanno richiesto l’arresto. «Non l’abbiamo fatto per motivi di opportunità, ricevendo anche il plauso del gip. – ha spiegato il procuratore aggiunto Raffaella Capasso che ha coordinato le indagini con il sostituto Andreana Ambrosino - La nostra prima preoccupazione sono stati i minori». Il futuro dei due bambini «acquistati», che oggi hanno tre anni, sarà deciso dal Tribunale dei Minori.

Corriere della Sera 6.4.12
Cristiani e pagani, miti paralleli
San Giorgio è come Ercole e Ulisse somiglia a san Brandano
di Lorenzo Cremonesi

All'inizio furono gli eroi greci e Omero, che ne narrò le gesta fissandoli nell'immortalità a modelli di gloria e di ispirazioni perpetue. «Héroes», la parola compare per la prima volta nel quarto verso dell'Iliade per indicare i guerrieri che si batterono sotto le mura di Troia. Esseri superiori, nobili, forti, spesso belli, dotati di un corpo perfetto, artefici di un fantastico tempo originario, fondatori di un sistema di valori e riferimenti culturali destinati a proiettarsi a lungo nel futuro. Esiodo ne era talmente affascinato da pensare che dopo di loro nessuno avrebbe potuto ripetere quelle gesta: poi ci sarebbero stati solo uomini mediocri, privi di grandezza, perennemente costretti a vivacchiare con lo sguardo rivolto al passato per cercare di cogliere gli ultimi barlumi di quell'abbagliante luce delle origini.
Ebbene, «Esiodo si sbagliava», notano Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e Giulio Guidorizzi nel loro Corpi Gloriosi. Eroi greci e santi cristiani, oggi in uscita da Laterza. «Si sbagliava Esiodo, come del resto anche Bertolt Brecht quando scriveva che sarebbe fortunata quella società che non abbia la necessità di cercare propri eroi», sostengono. In verità, durante ogni epoca gli uomini hanno sempre avuto bisogno di eroi e li hanno continuamente forgiati e ricreati a loro immagine e somiglianza, solo più potenti, puri, coraggiosi, eppure anche mortali, spesso sofferenti, assillati da dubbi, feriti e proprio per questo ancora più eroi. «Qualsiasi gruppo umano vuole proiettare se stesso in qualche figura esemplare. Che sia Achille, San Giorgio, Lenin, Che Guevara o Peter Pan, poco cambia. L'importante è invece che ogni eroe incarni la manifestazione di questa impellente necessità politica e culturale collettiva», spiega Guidorizzi. Il suo eroe perfetto? «Nella storia il Leonida greco». E per la nostra epoca? «Steve Jobs, che ha trasformato radicalmente il nostro modo di pensare, scrivere, leggere, lavorare. La sua Apple è la grande rivoluzione che apre al futuro. Inoltre ha avuto una vita relativamente breve, prima di morire con dignità, come tanti eroi classici».
Per Beonio Brocchieri un'eroina di riferimento del Medioevo è Giovanna d'Arco, che, penalizzata per le sue qualità anticonformiste, venne riconosciuta santa dalla Chiesa di Roma solo 500 anni dopo la morte. E oggi? «Quel Clark Kent dei fumetti che nella normalità ci appare come lo stereotipo dell'anonimo impiegato sperso nella grande città. Ma poi, trasformandosi in Superman, diventa il paladino della lotta al male. Lui, come del resto anche l'Uomo Ragno, molti dei personaggi tra i fumetti di successo e del resto tanti tra gli eroi greci (Edipo era zoppo), hanno in comune un malessere di partenza. Sono superuomini, ma hanno anche subito sofferenze in cui chiunque può riconoscersi».
Tesi centrale del libro è la sostanziale continuità tra eroi ellenici e santi cristiani. Non a caso è scritto a quattro mani da uno studioso dei miti greci e un'esperta di filosofia medioevale. Così riassumono: «Quando, nell'arco di poco più di un secolo, tra il IV e il V, la religione pagana collassò sommersa dal Cristianesimo trionfante, e i templi e le tombe eroiche furono distrutti, all'eroe tradizionale si sostituì la nuova figura di venerazione collettiva, a modo suo egualmente eroica: quella del santo, l'eroe cristiano per eccellenza, portatore di valori molto diversi, ma per alcuni aspetti erede dell'antico modo di percepire la presenza del divino nel mondo». I martiri perseguitati prendono il posto dei guerrieri, ma nella sostanza poco cambia. Entrambe le figure sono di morti eccezionali, spesso accompagnate da una nuvola di pazzia (ben descritta dalle cronache del loro tempo), che ne garantisce coraggio fuori dalla norma, eroismo o santità, la cui natura straordinaria resta comunque impressa nella memoria collettiva. Eracle, Cadmo e Perseo uccidono draghi, come del resto San Giorgio o Antonio. Gli uni fondano la polis, gli altri il monastero. Permane e addirittura si ingigantisce il culto delle reliquie. Altro elemento in comune è quello dell'esistenza percepita come «una lunga battaglia». C'è la lotta morale interiore per sconfiggere le paure e c'è la guerra contro i nemici esterni che minacciano le loro comunità. Il viaggio per mare di San Brandano volto alla cristianizzazione dell'Irlanda e del grande Nord («meraviglioso e avventuroso») sui minuscoli «curach», le barche a remi e vela costruite in legno e cuoio dai pescatori locali, ricorda da vicino le peregrinazioni di Ulisse. Brandano e i 13 monaci a bordo con lui incontrano stupefatti un iceberg, «altissima colonna di cristallo» emergente dal mare, narrano di un'isola dagli uccelli parlanti, di mostri enormi che soffiano vapori infuocati. Proprio come il navigatore di Itaca racconta di sirene, Polifemo e incanti di ogni tipo. L'avventura, la scoperta dell'ignoto, il viaggio fantastico, pur se raccontato come un pellegrinaggio o una missione evangelizzatrice, sono parte integrante di queste esistenze straordinarie. E con loro il mito del corpo dell'eroe-santo. Già da prima del parto segnali magici indicano che il nascituro sarà una persona eccezionale. Il suo sepolcro diventerà poi un polo di pellegrinaggi e attenzioni in cui si forgia l'identità della collettività. I corpi degli eroi o dei santi venerati e trafugati sono una costante per millenni. Nel 334 avanti Cristo, Alessandro il Macedone appena sbarcato dall'Asia visita la tomba di Achille e corre nudo attorno alla stele, come si usava fare in onore dei defunti, prima di deporvi una corona di fiori. I veneziani invece impazzirono di gioia nel 828 dopo Cristo quando due mercanti, Buono di Malamocco e Rustico di Torcello, riuscirono a trafugare i resti di San Marco da Alessandria. Sepolti i suoi resti nella basilica maggiore, il culto di San Marco rafforzò quindi la determinazione veneziana nella sfida ai musulmani per il controllo delle rotte del Mediterraneo.

l’Unità 6.4.12
Lenin e le vacanze capresi
L’esperienza in un saggio dal titolo «Scacco allo zar»
di Valerio Rosa


Lenin a Capri: sembrerebbe una bufala revisionista, o un titolo da fumetto, tipo Paperino astronauta, con cui introdurre narrazioni inverosimili. Invece è tutto vero: si tratta di uno di quegli ossimori, con cui la Storia ogni tanto si diverte a guastare le feste ai custodi dell’ortodossia e agli agiografi di tutte le chiese.
Una lunga villeggiatura a Capri è un privilegio per benestanti che il ricco Lenin, di famiglia nobiliare come tanti teorici della rivoluzione, non volle negarsi, dieci anni prima che nascesse lo Stato sovietico: del resto, «la gente del posto non distinse mai bene fra militanti rivoluzionari e famiglie di sangue blu, anche perché quasi tutti i futuri comunisti avevano origini aristocratiche e ne avevano mantenuto i vezzi e le abitudini». Sulle ragioni e le circostanze di questo soggiorno, che la storiografia ufficiale minimizza o trascura, indaga un godibile saggio di Gennaro Sangiuliano, Scacco allo zar (ed. Mondadori, pp. 154, €18,50).
Lenin si trovava a Ginevra, che gli sembrava un «minuscolo stagno piccolo-borghese», quando decise di accettare l’ospitalità dello scrittore Gor’kij, entusiasta e ingenuo sostenitore delle teorie rivoluzionarie. Lo preoccupava la deriva mistica dell’elaborazione che gli esuli russi di stanza a Capri, capeggiati dal suo rivale Bogdanov, andavano facendo del marxismo, ma ancora di più la gestione delle ingenti risorse guadagnate dal partito con espropri e rapine. Ne viene fuori il ritratto, decisamente lontano dalla mitologia del padre nobile e illuminato della rivoluzione sovietica, di un uomo amorale come un personaggio di Dostoevskij, non molto dissimile negli atteggiamenti e nelle intenzioni da quello Stalin, a cui si tende a contrapporlo.

La Stampa 6.4.12
“Anche la bulimia è colpa del totalitarismo” Intervista
Parla la scrittrice-rivelazione finlandese Sofi Oksanen che pubblica in Italia il romanzo Le vacche di Stalin
di Alessandra Iadicicco


Sofi Oksanen ha 35 anni, è nata in Finlandia da madre estone sfuggita all’inferno rosso negli Anni Settanta, ha imparato senza mai studiarla la lingua della mamma, che in Occidente la famiglia le proibì di parlare, e trasformato l’idioma finlandese del papà nella propria lingua d’arte. Ha rimpianto «il paese della felicità» al di là del Baltico «dove le donne portano le gonne», e sofferto per tutta l’adolescenza di bulimia. Oggi che è una scrittrice affermata, venerata in Scandinavia, Francia e Germania, insignita dopo il romanzo La purga (Guanda 2010) dello European Book Prize e consacrata come migliore scrittore europeo della sua generazione, si presenta come una star. A Milano è arrivata per presentare il suo primo romanzo, Le vacche di Stalin che, uscito nel 2003 per il suo esordio folgorante e ora tradotto da Nicola Rainò per Guanda, inaugurò una trilogia dedicata al dramma dell’identità femminile e post sovietica, all’urgenza della liberazione del Paese baltico dall’occupante e di un’adolescente malata dalle proprie dipendenze. Il terzo titolo di questa saga, Quando le colombe si perdono, è stato annunciato all’ultima a fiera del libro di Parigi e uscirà la prossima estate.
Sofi si fa aspettare. Sa farsi desiderare. Arriva al nostro appuntamento con notevole ritardo e appare, finalmente, in una mise da tutti i punti di vista eccessiva: per un’intervista, per l’ora mattutina, per la hall dell’hotel dove solo la sua spavalderia e la sua raggelante sicurezza di sé riescono a scoraggiare i commenti e a intimidire i curiosi. Tacchi, calze di seta, gonna nera attillata sulle forme generose di un’ex bulimica, trucco da regina della notte, una sovrabbondante cascata di trecce rasta striate di viola, una spilla appuntata come una coccarda sul decolleté con l’immagine di Marguerite Duras bambina: «È il mio idolo», informa. Il suo look è una provocazione. Come la domanda citata dall’ Helsingin Sanomat, il principale quotidiano finlandese, e messa in bocca ad Anna, alter ego di Sofi e protagonista della sua «autofiction». Gliela rigiro come prima delle questioni che sto per porle.
Perché le estoni sono tutte puttane? È un fatto genetico?
«È un pregiudizio ideologico. Chiaro che i geni non c’entrano nulla. Ho voluto però rilanciare il quesito, riprendendolo per giunta da un ottimo giornale, per sottolineare quanto sia radicato lo stereotipo. Nella Finlandia degli anni di cui scrivo, i 70-80, una donna in vesti femminili che veniva dall’Est era ipso facto “una di quelle”».
Chi sono le vacche di Stalin?
«L’espressione si riferisce all’epoca della propaganda stalinista in Estonia, paese rurale dove la gente viveva di agricoltura e dove - si sottolineava con orgoglio - le vacche erano le più grandi, floride, generose di latte di tutta l’Urss. In Siberia però, dove venivano deportati i dissidenti, bovini non ce n’erano: solo capre. Queste appunto furono ribattezzate “le vacche di Stalin”».
Nel romanzo però Katarina, la mamma estone di Anna, usa un’espressione analoga per riferirsi alle mogli degli amici di «papi», il suo marito finlandese: donne dall’espressione bovina, dice, le vacche che non voleva invitare in casa sua… «Quello finlandese, agli occhi della giovane donna che per fuggire in Occidente aveva rinunciato a una carriera da ingegnere, era un modello di femminilità estraneo e incomprensibile. L’ideale della donna emancipata era incarnato da quelle signore impegnate, indipendenti, sempre in pantaloni, concentrate sulla carriera e sull’equiparazione dei diritti. Era offensivo per Katarina che le europee dell’Est, tanto più belle e femminili delle finlandesi, fossero considerate sgualdrine e di fatto ricercate in Occidente come donne di piacere. A ciò si lega anche il disagio di sua figlia Anna, “bulimaressica” che si sente libera e fiera del proprio corpo perfetto solo perché capace di abbuffarsi e vomitare a piacimento: “La chiamavo libertà”, dice della malattia di cui di fatto è schiava».
Che relazione c’è tra disturbi alimentari e stalinismo?
«Ricerche recenti hanno dimostrato che le persone cui sfugge il controllo della propria vita - come le vittime dei regimi totalitari - giocano come ultima carta il controllo alimentare del proprio corpo. Lo dimostrano studi compiuti sulla seconda generazione dei sopravvissuti all’Olocausto e ai gulag. Questo mi ha incoraggiato a spiegarmi le origini di un disagio che ho conosciuto. Le riviste oggi tendono a semplificare il problema. Imputano i disagi alimentari ai modelli imposti dalla moda femminile. È una visione miope. Il male ha origini lontane e profonde. Perciò, nella mia saga familiare, attraverso tre generazioni, ho ripercorso le tappe di una storia che, dall’occupazione sovietica del mio paese di origine alla rivoluzione cantata degli Anni 80, alla conquista dell’indipendenza nel 1992, si è incisa nella carne delle donne».

Corriere della Sera 6.4.12
Se ritorna la mano dello Stato
È tempo di riformare i due modelli, liberista e socialdemocratico
di Philip Coggan


Il modello oggi forse più in voga è quello del «capitalismo di Stato» cinese: una forma d'intervento pubblico molto più invadente di qualsiasi altro sperimentato dai giapponesi. Lo Stato possiede, in tutto o in parte, molti dei settori chiave e incanala i prestiti bancari verso le imprese che vuole favorire. Il tasso di cambio è irreggimentato, al pari dei flussi di capitale: questo avrebbe reso possibile, secondo molti osservatori, la straordinaria trasformazione della Cina da uno dei Paesi più poveri del mondo a un Paese che nel prossimo decennio promette di essere tra i più ricchi.
Eppure, a uno sguardo più attento, si dovrebbe notare che le differenze vengono spesso esagerate. Il modello anglosassone non ha mai consentito la completa liberalizzazione dei mercati. Il settore finanziario era soggetto a numerose forme di regolamentazione. Molteplici erano anche le forme di intervento nell'economia.
E non si può nemmeno tracciare una rigida linea di demarcazione tra le economie anglosassoni degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dell'Australia e il resto dei Paesi sviluppati. La Spagna — che molti economisti classificherebbero fra i sistemi basati su un modello socialdemocratico — ha registrato un boom edilizio altrettanto esplosivo di quello degli Stati Uniti. Le banche tedesche sono state direttamente coinvolte nel finanziamento dei mutui subprime americani e anche quelle francesi, come Bnp Paribas, trattano esattamente gli stessi prodotti di Goldman Sachs e J.P. Morgan.
In generale, stiamo parlando perciò di economie miste in cui sia il governo che il settore privato svolgono la loro parte. La Cina, in linea col suo passato comunista, è certo la più vicina al modello dirigistico, ma al di là della loro retorica liberista, le economie occidentali, compresa quella americana, restano caratterizzate da settori pubblici più ampi (e aliquote fiscali più elevate) di quanto non lo fossero nel XIX secolo. Ciò nonostante, le denunce degli effetti a lungo termine del modello anglosassone si sono basate proprio sul tema della disuguaglianza. I militanti di Occupy Wall Street sembrano privi di un programma coerente di riforma, eppure la loro principale rimostranza è che il sistema attuale è sbilanciato a favore dei ricchi, ovvero dell'1% della popolazione a scapito del restante 99%. Una denuncia che non proviene solo dai manifestanti: sono in molti a ritenere che le banche abbiano goduto di una posizione privilegiata; normali imprese come negozi e ristoranti possono tranquillamente fallire, ma non i sommi sacerdoti della finanza. (...)
È facile dimenticare che, fino a poco tempo fa, i gestori di banche e fondi d'investimento venivano visti come grigi funzionari. I banchieri erano considerati cittadini rispettabili e sobri, non i padroni del mondo. Solo verso l'inizio degli anni Ottanta i loro stipendi hanno cominciato a salire vertiginosamente rispetto a quelli di altri professionisti come ingegneri ed esperti di tecnologia.
Perché si è verificato questo cambiamento? Una spiegazione può essere ricercata nel modello «anglosassone»: Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno liberalizzato, contemporaneamente, i mercati finanziari dei loro Paesi, allentando inoltre i controlli sui capitali. Ciò ha permesso al denaro di circolare più rapidamente nel mondo e ai banchieri di ritagliarsi un compenso su qualsiasi transazione, come i croupier di un casinò. (...)
I ricavi della gestione di fondi, che sono legati direttamente al valore delle attività, grazie alle provvigioni basate sulla dimensione dei depositi amministrati, hanno registrato un fortissimo incremento in seguito all'incessante progressione dell'indice Dow Jones, passato dai 1.000 punti del 1982 ai 10.000 punti degli anni Novanta. Dietro a tutto questo c'erano le banche centrali dei Paesi sviluppati, che sono intervenute più volte tagliando i tassi di interesse quando i mercati vacillavano: come nel 1987, dopo la caduta del 23% dei titoli azionari durante il famoso «lunedì nero», e nel 1998, dopo il crollo del fondo speculativo Long-Term Capital Management. (...) Tuttavia, sostenendo finanziariamente i mercati delle attività, le banche hanno incoraggiato soltanto una maggiore assunzione di rischi creando nuove bolle speculative. I tagli dei tassi d'interesse, che seguirono il crollo della New economy fra il 2000 e il 2002, hanno portato direttamente al boom del mercato immobiliare negli Usa.
Inoltre, la crescita del settore finanziario è stata accompagnata da un'espansione sempre maggiore delle banche in rapporto alle economie dei loro Paesi — resa necessaria, in alcuni casi, dal fabbisogno di capitali per far fronte ai grandi volumi di scambi che si svolgono sui mercati. Il problema è che il sistema stava diventando assai più rischioso: le banche erano ormai «troppo grandi per fallire». Così, il debito bancario si è trasformato rapidamente in debito pubblico quando si sono sentiti gli effetti della crisi.
Le autorità di regolamentazione si sono trovate di fronte a due possibili approcci. Il primo consiste nel cercare di separare le attività rischiose dalle normali attività bancarie, come previsto dalla norma stabilita dall'ex presidente della Federal Reserve, Paul Volcker, che vieta alle banche l'attività speculativa con mezzi propri. Il secondo approccio consiste nell'esigere che le banche dispongano di più capitale, in modo da proteggere i propri bilanci dalle future e inevitabili recessioni. Ma il problema è che i titoli bancari hanno ancora basse quotazioni e non è facile persuadere gli investitori a sottoscrivere nuove azioni.
Nel lungo periodo, tuttavia, la ricapitalizzazione delle banche potrebbe andare incontro in qualche misura alle richieste del movimento Occupy Wall Street, rendendo meno frequenti i loro salvataggi, anche se è difficile credere che un governo potrebbe mai permettere il fallimento di una banca d'importanza strategica. La ricapitalizzazione, inoltre, ridurrebbe i margini di profitto delle banche e così pure, col tempo, quei premi scandalosi distribuiti ai loro dirigenti.
In Gran Bretagna, il malumore verso i banchieri ha sollecitato l'imposizione di un'aliquota del 50% sui redditi più elevati, una tassa sui bilanci bancari e un pubblico dibattito sui bonus dei dirigenti di banche di proprietà statale. Chi ama investire nei fondi private equity forse non potrà più beneficiare della favorevole combinazione tra credito facile e rapido sviluppo dei mercati delle attività. Nei prossimi anni, i peggiori eccessi del modello anglosassone potrebbero così trovare un freno. Il pendolo è tornato a oscillare dalla liberalizzazione verso una maggiore regolamentazione.
I problemi più grandi non riguardano esclusivamente i Paesi anglosassoni, ma sono diffusi in tutte le economie sviluppate. I rapporti fra debito e Pil sono elevati, che questo derivi da un'espansione bancaria spericolata (come in Irlanda), da un boom dei consumi (come in America) o da governi incompetenti (come in Grecia). Ma, oltre a questi debiti pubblici, i governi hanno fatto altre promesse di carta ai loro cittadini sotto forma di prestazioni pensionistiche e sanitarie.
È ormai sempre più chiaro che non tutte queste promesse potranno essere mantenute. E ciò avrà conseguenze che domineranno la vita politica nei prossimi 10-20 anni mettendo i ricchi contro i poveri, i vecchi contro i giovani, i dipendenti del settore pubblico contro i contribuenti e un Paese contro l'altro. I problemi saranno aggravati dal peggioramento della situazione demografica, specialmente in Europa, con i lavoratori che dovranno sostenere i figli del baby boom quando andranno in pensione. Queste difficoltà sono ancor più acute all'interno del modello socialdemocratico che non di quello anglosassone, dove le tendenze demografiche sono migliori. Basta guardare la Grecia, dove la rete di protezione sociale costruita nel dopoguerra si sta sfilacciando a causa dei vincoli imposti dalle politiche di austerità fiscale. Forse queste generose prestazioni non sono più possibili in un mondo esposto alla minacciosa concorrenza dell'Asia. E va osservato che la democrazia è stata messa a dura prova da questa situazione: sia la Grecia che l'Italia hanno governi guidati da primi ministri non eletti. Se guardiamo avanti, vediamo che non è soltanto il modello anglosassone ad aver bisogno di riforme.

Corriere della Sera 6.4.12
Un nuovo modo per capire l’altro
di Stefano Jesurum


In tema di Medio Oriente, possono la ricerca e la storiografia «insegnare» qualcosa alla politica e alla comunicazione? L'interrogativo nasce leggendo il call for papers lanciato da «Quest-Issues in Contemporary Jewish History», rivista online della Fondazione Cdec (Centro di documentazione ebraica contemporanea). Si parla del conflitto, ormai paradigmatico, tra israeliani e palestinesi. La «rivoluzione» di «Quest» consiste nel cercare uno sguardo che non metta in luce solamente i fattori di divisione, ma che orienti il riflettore sulle criticità che i gruppi all'interno della società civile israeliana, palestinese e/o mista cercano e hanno cercato di superare.
Gli ambiti del peace-building sono i più diversi: accordi locali, cooperazione economica e obiezione di coscienza, educazione, ambientalismo, sanità, controllo ai checkpoint, femminismo, attivismo non violento attraverso una prospettiva di genere, per non parlare del terreno più classico di letteratura, cinematografia e arte.
Sia la politica istituzionale che quella antagonista militante, con la grancassa dei media, si occupano invece degli aspetti più tragici e bui, esasperandoli, «megafonandoli». È vero che parlare di pace diventa facilmente puro esercizio, più adatto — come ho sentito dire a un uomo di sicura fede non «bellicosa» come Shlomo Avineri — a un seminario universitario che alla realtà, dura, complicata, apparentemente insormontabile. Però la strada che intanto permette di sopravvivere è quella del quotidiano, del lavoro comune, spesso limitato ma realistico che una volta è sfociato nei cosiddetti accordi di Ginevra del 2002 e che A.B. Yehoshua definì «la pace dei pragmatici». Ed è la strada che gli storici da qualche anno studiano, senza che i militanti politico-ideologici — alcuni simili a ottuse tifoserie seminatrici di odio — facciano il benché minimo sforzo per tenerne conto.
Sarebbe scellerato nascondere i problemi oggettivi e vitali — sicurezza, assedio da un lato; occupazione e insediamenti dall'altro — eppure bisogna sforzarsi di non lasciare che siano questi problemi a impedire l'emergere di una realtà condivisa, a chiudere le bocche, a far serrare i ranghi. Da affrontare c'è il rapporto con l'Altro. I punti bui, come spiega Marcella Simoni dell'Università Ca' Foscari di Venezia, curatrice del numero di «Quest», sono i richiami alla persecuzione, il senso di assedio, il terrorismo, la Shoah, l'Iran, il nucleare, l'occupazione, la violenza, gli insediamenti. Fattori reali, non immaginazioni propagandistiche. Però esiste l'importanza di essere consapevoli della propria storia e di quella dell'Altro, il riconoscere come la propria identità si sia formata nel rapporto con l'Altro e che quindi i gruppi in conflitto non sono separabili facilmente, perché l'identità politica e nazionale di ciascuno si è formata nel rapporto (violento o meno) con l'altro.
E che cosa significa parlare di pacifismo (termine tanto abusato quanto vago) da un punto di vista «scientifico»? «Quest» raccoglierà analisi su chi ha cercato un'alternativa alla guerra come metodo di soluzione del conflitto sul piano personale e collettivo; su persone e associazioni che hanno lavorato per decostruire fattori che alimentavano odio, divisione, intolleranza come precondizione per costruire rapporti con «il nemico» su un piano paritario.
Una storia complessa: si pensi a quanto diverso può essere l'obiettore israeliano del '51 da quello del '91 o del 2001; o a Martin Buber che nel '57 fondò la rivista «New Outlook» per ergere ponti e smontare antagonismi senza appoggiare gli obiettori di quel periodo «perché un individuo ha il diritto a difendere la sua casa».
Il lavoro del Cdec di Milano pare volerci dire che è arrivato il momento di colmare il divario tra ciò che sta accadendo realmente e la rappresentazione che se ne dà; concentrarsi sulle passate esperienze di cooperazione, prestare attenzione al ruolo che la non violenza ha avuto nella storia delle relazioni tra israeliani e palestinesi. Marcella Simoni cita lavori sui diversi aspetti della costruzione della pace, monografie su «Peace now», ricerche sull'obiezione di coscienza, sull'aspetto internazionale della costruzione della pace, su agenda e influenza dei donatori esteri nel contesto post-Oslo, quando fu affidato alla società civile (leggi Ong) il compito di lottare contro il conflitto attraverso l'educazione, la salute, il rafforzamento della posizione delle donne, la costruzione della sostenibilità.
Sia dunque di stimolo alla nostra politica e ai nostri media lo sforzo di «Quest» verso una diversa percezione della storia israelo-palestinese. Soprattutto in questa Europa che pare averne più bisogno che mai. Cfr. http://www.quest-cdecjournal.it/.

Corriere della Sera 6.4.12
Picasso Vollard. Il sodalizio magico
Amicizia, diffidenza, affari: tra il «talent scout» e il genio una scintilla che produsse capolavori
di Giovanna Dal Bon


Fiuto - sfida - affari - diffidenza - collaborazione - amicizia. Attorno a questa molteplicità di impulsi potrebbe attorcigliarsi la vicenda che ha coinvolto Picasso e Vollard per ben quarant'anni, fino alla morte del mercante, in un tragico quanto assurdo incidente d'auto nel 1939, colpito alla nuca da una scultura di Maioll che stava trasportando.
Ambroise: leggendario mercante scopritore di avanguardie ha in scuderia Van Gogh, Cézanne, Gauguin, Matisse, Bonnard, tra gli altri, e spadroneggia nella Parigi di inizio secolo. Pablo: giovane pittore catalano non ancora ventenne arrivato a Parigi senza un soldo in attesa di venire scoperto.
Una mostra a palazzo Franchetti, a Venezia, «Picasso e Vollard. Il genio e il mercante», a cura di Claudia Beltramo Ceppi, ne indaga il sodalizio e le interposte vicende. Per la prima volta sono visibili le quattro serie incisorie che Picasso realizza con il mercante-editore, uno straordinario corpus grafico che culmina con la Suite Vollard.
Ma se di Pablo Ruiz qualcosa in più sappiamo, di Ambroise Vollard non si sa granché. Nasce nel 1866 nell'isola di Réunion dove trascorre l'infanzia, studia legge senza eccessiva motivazione a Montpellier, si trasferisce a Parigi frequentando librerie e bancarelle fino a crearsi una piccola collezione di stampe, volumi e disegni che acquista a poco prezzo entrando in contatto con la Parigi letteraria e artistica. Dallo scritto di Gary Tinterow apprendiamo che fu Vollard ad allestire la prima mostra di Picasso nella Galleria in Rue Lafitte nel 1901 «vendendo un gran numero di dipinti a prezzi bassissimi ma rifiutandosi, come avrebbe sempre fatto, di acquistare quelli restanti».
Infatti, solo cinque anni dopo, nel 1906 comprerà d'amblè ventisette opere tra dipinti ed acquerelli del periodo blu, pagandole 2000 franchi e dando al giovane pittore la possibilità di tornarsene in Spagna per qualche mese. Vollard organizzerà ancora una retrospettiva nel 1910, anno in cui Pablo ritrae il mercante in sintesi cubista (celeberrimo ritratto ora al Museo Puškin di Mosca), e continuerà a ritrarlo fino ad arrivare a dire: «la donna più bella mai esistita non avrà avuto il proprio ritratto dipinto, disegnato o intagliato con la stessa frequenza di Vollard».
Ma l'interscambio tra i due si fa fittissimo e guizzante quando Vollard inizia a commissionare ed editare l'opera grafica.
Recalcitrante, con poca voglia e nessun estro apparente Picasso si decide all'incisione costretto dalla penuria di denaro. Sono i primissimi del Novecento, assieme a Fernande Olivier vive a Montmartre, brulicante di umanità miserrima, in una specie di comune-atelier-congrega di artisti anarchici ribattezzato dall'amico poeta Max Jacob il Bateau-Lavoir. Qui realizza «Le repas frugal», scabre figure allungate che echeggiano le anatomie di El Greco, una comédie humaine di impressionante realismo. Nel 1913 Vollard se le accaparra insieme a quattordici lastre che editerà con il nome di «I saltimbanchi», le farà poi acciaiare per una tiratura di 250 esemplari, spropositata per l'epoca. In un gioco di continui rimbalzi tra i due, vent'anni dopo Picasso ricompra il torchio su cui erano state tirate le lastre. Il vero azzardo sarà l'incarico di illustrare «Le chef-d'oeuvre inconnu» di Balzac, testo cardine dell'arte moderna. Dichiarandosi affascinato dalla carte astronomiche, scardinata alla radice anche la più vaga idea di «illustrare», congegna una misteriosa costellazione di segni indecifrabili di suggestione onirico-surrealista che disorienta i bibliofili.
Vollard è costretto a parare il colpo: «(…) ogni opera di Picasso è destinata a fare scandalo fino al giorno in cui lo stupore cede il posto all'ammirazione». E non desiste, poco dopo gli commissiona l'illustrazione di un classico dell'enciclopedismo francese «L'histoire naturelle» di Buffon. Picasso si scatena in un bestiario fantastico che attiene ben poco alle matrici illuministe. Affiancato dal mitico Roger Lacourière, che lo inizia ad una tecnica rivoluzionaria: acquatinta allo zucchero aggiunta all'acquaforte, affiora una rapsodia di scimmie, galli, struzzi, pennuti di segno energico e quasi pittorico. Verrà pubblicata solo nel 1942, in piena occupazione nazista, dopo la morte di Vollard.
Ma il culmine del sodalizio, e dell'esplosione creativa, è la Suite Vollard: cento incisioni, realizzate tra il 1932 e il 1937 che il mercante «baratta» restituendo alcuni quadri a Picasso. In un vorticoso furor dionisiaco Pablo inscena le gesta erotiche del Minotauro, entità mitologica in cui si identifica pienamente tanto da considerare il corpus incisorio «la mia autobiografia».

Corriere della Sera 6.4.12
La nostra vita precaria nei clown di tutti i tempi
di Francesca Bonazzoli


Arlecchini, clown e saltimbanchi sono stati molto amati da Picasso, soprattutto nel periodo che va da quello cosiddetto blu al rosa, tanto che l'acquaforte «Le repas frugal», la prima delle altre quattordici che formeranno la serie nota come i «Saltimbanchi», realizzata tra il 1905 e il 1907 ed edita da Vollard nel 1913, è una delle sue immagini più conosciute nonché pietra miliare dell'incisione del XX secolo. Niente di strano perché, da spagnolo, Picasso ben conosceva il Goya pittore delle scene clownesche di feste popolari come «L'inumazione della sardina», «La marionetta» o «Il gioco dei giganti». E probabilmente aveva anche visto le incisioni con i pulcinella di Giandomenico Tiepolo che a Madrid aveva lavorato col padre Giambattista. Insomma, la tradizione esisteva (lui stesso aveva già dipinto, nel 1901, il celebre olio «Les deux saltimbanques» oggi al Puškin di Mosca), e coincideva con la narrazione di una vita povera, spesso disperata, ma anche poetica, che Picasso conduceva in quel periodo.
Erano gli anni dell'atelier in rue Ravignan 13, a Montmartre, battezzato Bateau-Lavoir dal poeta Max Jacob, gelido d'inverno e torrido d'estate. Picasso ci abitava con Fernande Olivier e per alcuni mesi non poté uscire di casa perché non possedeva nemmeno le scarpe. Erano giorni di pasti frugali anche per lui, tanto che alcuni vedono nella magra donna saltimbanco l'autoritratto del pittore che si e ci guarda come in uno specchio, riflettendo la vita misera e di emarginazione che brulicava tutt'intorno a lui nella Montmartre assediata da poveri artisti, reietti, prostitute, bambini abbandonati, cantanti di strada, gente che sopravviveva con espedienti e si stordiva con alcool, oppio e assenzio. I saltimbanchi, il circo, erano il bagliore colorato di quella vita grigia e senza regole, giocata sui doppi salti mortali per sopravvivere, in bilico sulla fune sottile della miseria, eppure sorretta da un sogno. Molti artisti ne furono affascinati: a volte, come per Seurat, esaltando maggiormente i balenii di quel gioiello farlocco; altre volte cogliendone i luccichii più opachi e melanconici, come per Chagall.
Ma più sorprendente è il fatto che un soggetto come quello del circo — un tipo di divertimento oggi ormai quasi solo destinato all'ingenuità dei bambini e soffocato da tutt'altra industria dell'entertainment basata su televisione, cinema, film in 3D, concerti spettacolari delle rock star — non è affatto morto e, anzi, sembra vivere un grande revival. L'americana Cindy Sherman, per esempio, gli ha dedicato un'intera serie fotografica dove l'artista, che basa l'intero suo lavoro sulla trasformazione dell'identità, si è ritratta nei panni di diversi clown rimandando l'immagine di un divertimento forzato, con i colori saturi e scintillanti della televisione, stucchevole come i trucchi e i travestimenti che ci impone la società. Un'inconciliabilità radicale fra il divertimento e la sua rappresentazione.
Ma molti altri sono i lavori di segno simile, come per esempio il «C'il Eam Habbim» di Tobias Rehberger, una sagoma di Bambi in alluminio serigrafato con la testa del piccolo Michael Jackson che corre su binari come gli obiettivi mobili delle giostre da centrare con la pistola. Ironico e crudele tiro al bersaglio che colpisce le icone fiabesche e popolari dei bambini.
È un filone, questo frequentato da Rehberger, artista tedesco classe 1966, leone d'oro alla Biennale di Venezia, molto preciso e individuabile dell'arte contemporanea: il suo carattere ludico si fonda sulla costruzione di oggetti simili a enormi giocattoli che trasformano le mostre in luna park.
Principe di questa tipologia di arte è senz'altro il belga Carsten Höller, classe 1961, eccentrico costruttore di lande popolate da giganteschi funghi velenosi come quelli dei cartoons di Biancaneve, di altalene, ufo e di giostre come «Double Carousel» di recente esposte al Macro di Roma. Miuccia Prada, sua grande estimatrice, possiede un suo scivolo a spirale (fu esposto alla Biennale di Berlino) che collega i piani del suo ufficio.
Ma è interessante notare che anche i pezzi da «giostraio» di Höller dietro l'apparenza gioiosa nascondono sempre un sottile pericolo o veleno, come quello celato nelle magnifiche apparenze dell'amanita muscaria.
Anche nel revival di oggi, quello della clownerie è dunque rimasto un modo per arrivare al tragico attraverso la catarsi del riso, il manifesto di un'allegria temporanea, che dura il tempo della spettacolo e poi passa. Una metafora della fragile precarietà degli uomini e in particolare dell'artista. E in questo senso Maurizio Cattelan ha forse creato la sintesi più efficace con il suo Charlie meccanico, il suo alter ego bambino seduto su un triciclo, a dimensioni reali, trasformato in giocattolo telecomandato che nei giorni dell'inaugurazione ufficiale girava per le sale della Biennale di Venezia del 2003 come un fastidioso guastatore, un corpo estraneo, riuscendo così a svelare il vero volto farsesco della kermesse d'arte nascosto sotto una sussiegosa maschera mondana.

La Stampa 6.4.12
Monti: “Ecco il piano salva Pompei”
Il duplice impegno del governo: mettere in sicurezza il sito senza che la camorra tocchi pietra
di Francesco Grignetti


Il governo farà la sua parte per il rilancio del Mezzogiorno. Si comincia con il Grande Progetto Pompei, ovvero 105 milioni di euro (63 milioni nazionali, 42 europei) investiti nei prossimi tre anni in uno sforzo straordinario di manutenzione del sito archeologico più famoso al mondo. Un intervento poderoso che necessita, però, anche di un eccezionale controllo da parte dello Stato per evitare infiltrazioni camorristiche. «Gli obiettivi - annuncia il presidente del Consiglio, Mario Monti - sono due: la messa in sicurezza di tutto il sito e che ciò avvenga attraverso lavoratori capaci e onesti, tenendo fuori la criminalità organizzata che è forte nel territorio». Di qui uno slogan che ripetono Monti, il ministro Cancellieri e il prefetto De Martino: «Non un soldo finirà alla camorra».
Eppure tutto ciò non servirà a nulla se il Sud che «soffre strutturalmente di divari gravi» non darà prova d’orgoglio. Se non troverà in sé nuove energie. Tutto sarà vano - dice il premier con piglio severo «senza un subbuglio innovativo che spinga la gran parte della classe dirigente locale a cambiare e i cittadini a domandare allo Stato non soluzioni privilegiate ma la soddisfazione di diritti collettivi».
A Napoli, a presentare il Grande Progetto Pompei, ieri s’è presentato mezzo governo: con Monti ci sono il ministro Fabrizio Barca (Coesione territoriale), Annamaria Cancellieri (Interno), Lorenzo Ornaghi (Beni culturali), Francesco Profumo (Istruzione). Il progetto non è solo un intervento in extremis per salvare la città antica. È anche una boccata di ossigeno per un’area particolarmente depressa. È una ventata di speranze.
«Pompei ragiona Monti - attira in media sei mila visitatori al giorno, con punte di venti mila. Potrebbero essere di più e soprattutto potrebbero trattenersi sul territorio anziché fuggire subito. Potrebbero spendere assai di più per prodotti di qualità. Potrebbero innescare processi virtuosi con una gioventù che soffre di una gravissima disoccupazione».
A Pompei si sperimenterà anche per altri interventi simili. È infatti al Mezzogiorno comatoso che oggi parla il premier. «Il Sud patisce la crisi in maniera più accentuata che altrove. I ritardi sono da imputare ad un minor peso dell’industria dell’export, e di divari gravi nelle infrastrutture, nella scuola, nella formazione». Esistono però delle eccezioni. «Frutto della voce dei cittadini, della capacità e determinazione di politici locali che a quella voce sanno rispondere, di azioni pubbliche di lunga lena, soprattutto di quelle promosse dall’Unione Europea». Ma le eccezioni non bastano. «Manca la massa critica». E la massa a cui pensa è quella dell’opinione pubblica meridionale.
Il Grande Progetto sostanzialmente restituisce alla Soprintendenza archeologica il suo ruolo progettuale e tecnico. Gli dà i fondi per operare. Alle sue spalle vigilerà una task force della prefettura, con una squadra speciale della Guardia di Finanza, e rappresentanti di diversi ministeri, perché la camorra non banchetti con i preziosi fondi destinati al restauro dei monumenti.
«Fare in modo che nemmeno un euro finisca nelle mani della camorra», è l’impegno solenne del prefetto di Napoli, Andrea De Martino. «I nostri uffici, grazie anche alla collaborazione della Guardia di Finanza, devono tenere forte sul fronte dell’antimafia». Tutti gli appalti, anche quelli minuti, fino alla soglia dei tremila euro, saranno passati al setaccio. Occorreranno certificazioni antimafia pure per i subappalti minori. La prefettura avrà un potere di accesso ai cantieri perché non un solo operaio o un solo mezzo acceda senza permesso. Ci sarà totale tracciabilità dei pagamenti. E per i lavori ci saranno esclusivamente bandi europei pubblicati sul sito internet www.pompeiisites.org. «L’Europa ci guarda», ammette il ministro Cancellieri.

Repubblica 6.4.12
Quando il Rinascimento scoprì la la divina proporzione
La luminosa "Flagellazione" realizzata da Piero della Francesca è l’aureo sigillo
di Antonio Pinelli


Concepita attorno a un confronto, che è anche un temporaneo ricongiungimento, tra due delle tre celebri e un po´ misteriose tavole con rappresentazioni prospettiche di città ideali che provengono quasi certamente proprio dal palazzo che ospita l´esposizione – un edificio che Baldassarre Castiglione definì con memorabile metafora «una città in forma di palazzo» –, la mostra La Città Ideale. L´utopia del Rinascimento a Urbino tra Piero della Francesca e Raffaello esibisce nel suo stesso allestimento, con sette sezioni che si diramano come a formare le punte di una stella al centro della quale rifulge il confronto-ricongiungimento, la nitida e un po´ metafisica perfezione geometrica delle vedute prospettiche che ne costituiscono il fulcro concettuale. Un fulcro o, se si preferisce, un fuoco prospettico, che intende costituire anche il logo, l´eloquente ed efficace emblema, di quella civiltà rinascimentale che fiorì a Urbino tra Quattro e Cinquecento, inducendo il compianto André Chastel, uno dei grandi storici dell´arte del nostro tempo di cui proprio quest´anno si celebra il centenario della nascita, a parlare di «Rinascimento matematico urbinate».
Lascio volentieri alla competenza di Cesare De Seta il compito di parlare delle tre vedute di città, di cui mi occupai anch´io, in anni ormai lontani, forse sopravvalutando, sulla scia di Richard Krautheimer, la loro connessione con la scenografia della prima rappresentazione nel Palazzo urbinate della Calandria di Bibiena, messa in scena nel 1513 da Girolamo Genga con la regia di Baldassarre Castiglione, avanzando l´ipotesi non del tutto peregrina che avessero un qualche rapporto con l´attività del fiorentino Baccio Pontelli, autore di mirabili tarsie prospettiche eseguite in loco per il Palazzo ducale urbinate.
Mi occuperò, invece, delle altre diramazioni del percorso espositivo stellare di questa rassegna stimolante e ambiziosa, che mostra le radici matematico-prospettiche del Rinascimento promosso da Federico da Montefeltro, scaltro e temibile capitano di ventura senza troppi scrupoli, ma uomo colto e soprattutto ben deciso a mostrarsi tale. Chiamò infatti attorno a sé il fior fiore degli artisti e degli scienziati del suo tempo, riuscendo a dar corpo e forma visibile alla rappresentazione del proprio modo di concepire il potere: un autoritratto ideologico, avvolto di abbaglianti panni utopici, persuasiva incarnazione di un governo che aspirava a mostrarsi saldo, equilibrato e saggiamente illuminato. Le sezioni in cui la mostra è articolata passano in rassegna alcuni degli snodi più affascinanti del Rinascimento italiano, illustrandoli una cinquantina tra dipinti, sculture, tarsie lignee, disegni, medaglie e codici miniati, che spaziano da Domenico Veneziano a Sassetta, da Piero della Francesca a Fra´ Carnevale, ormai definitivamente smascherato come l´autore delle enigmatiche "Tavole Barberini". E ancora: da Francesco di Giorgio a Luca Signorelli, da Mantegna a Perugino, da Bramante, il grande urbinate di cui nulla è rimasto in patria, a Raffaello e a Jacopo de´ Barbari, autore del sibillino Ritratto di Luca Pacioli, il conterraneo di Piero della Francesca, che in trattati come la Summa de Aritmetica (1494) e il De divina proporzione (1509) ne divulgò le sublimi speculazioni matematico-prospettiche.
La Terza sezione, ad esempio, nell´approfondire il tema quattrocentesco della città dipinta ci fa compiere una folgorante escursione in quella che Luciano Bellosi, il grande storico dell´arte da poco scomparso, felicemente definì la «pittura di luce». Si passa così dalle pionieristiche opere di Domenico Veneziano, che contribuì in modo decisivo alla formazione pittorica di Piero, a Filippo Lippi e a Beato Angelico, per poi immergersi in un intrigante confronto tra le Tavole Barberini e le deliziose Tavole perugine di San Bernardino, arricchito da un dialogo con le scenografie cittadine presenti nei dipinti di Francesco di Giorgio.
Ma se le vedute prospettiche di città sono il logo dell´ideologica utopia politica forgiata da Federico da Montefeltro, la luminosa tavoletta con la Flagellazione di Piero ne è l´aureo, divino sigillo. La sua composizione si basa infatti sul rapporto matematico-geometrico della sezione aurea, che era definita la "divina proporzione" perché si credeva riflettesse l´armonia impressa da Dio al creato. Com´è arcinoto, questo dipinto ha scatenato – e c´è da scommettere continuerà a farlo – l´irrefrenabile vena dietrologica di plotoni di storici e storici dell´arte, veri o improvvisati, che hanno formulato le ipotesi più diverse e fantasiose, quasi sempre imperniate sul presupposto che esso veicolasse chissà quale messaggio politico. È pertanto un vero sollievo poter constatare che le due curatrici della mostra hanno messo da parte dietrologia e fantapolitica, aderendo di fatto alla tesi che fu formulata da Charles Hope e Paul Taylor nel 1993. Tesi che in buona sostanza inserisce il quadro di Piero all´interno di una serie di opere (ad esempio alcuni disegni prospettici di Jacopo Bellini) che utilizzano il tema sacro come pretesto per mostrare le novità introdotte dalla "scoperta" brunelleschiana della perspectiva artificilialis. I tre misteriosi personaggi sulla destra in primo piano, sui quali si sono scatenate le ipotesi della fantapolitica, appartengono infatti alla tradizione della Flagellazione. Sono i capi Ebrei rimasti fuori dal Pretorio di Pilato. La loro singolarità, sta tutta nella loro preminenza visiva, rispetto alla scena in cui Cristo subisce le torture. Ma tale preminenza è un vistoso effetto della prospettiva. Non si tratta dunque di un quadro-sciarada, ma di un quadro dimostrativo, un pezzo di bravura: la folgorante dimostrazione di una maestria prospettica e luministica in cui Piero non aveva rivali. Quelle tre figure in primo piano, quell´estremizzata inversione tra il soggetto principale – che appare sorprendentemente diminuito alla vista, rimpicciolito dalla distanza – e il soggetto secondario, che invece giganteggia in primo piano per virtù di prospettiva, sono innanzi tutto la clamorosa, radicale dimostrazione visiva della rivoluzione con cui la scienza prospettica rinascimentale veniva a sconvolgere le consuetudini iconografiche e percettive della pittura narrativa. Una rivoluzione ottica e mentale che aboliva, fino a rovesciarle, le tradizionali gerarchie dell´immagine medievale, allontanando in un passato remoto ormai irrecuperabile gli stereotipi compositivi basati sulla prospettiva gerarchica, la cosiddetta "prospettiva invertita". Non un quadro politico, dunque, ma una sorta di credenziale, presentata da Piero a Federico da Montefeltro per mostragli il proprio valore.

Repubblica 6.4.12
Quelle misteriose tavole testimoni dell’Umanesimo
di Cesare De Seta


II caso più celebre per darsi conto di come s´imponga la metafora della Città ideale è costituito della tempera su tavola della Galleria Nazionale delle Marche in Urbino: opera di pittore fiorentino, è databile a prima del 1482, ad essa si associa la tavola di ambiente urbano del Walter Art Gallery di Baltimora. La tavola di Urbino presenta, al centro di una piazza quadrangolare, un edificio a pianta centrale a doppio ordine, con copertura conica: un portico segna la fabbrica che è il fuoco visivo del dipinto. Ai lati si levano residenze di pari altezza ma di diversa tipologia: esse sono porticate, ma il palazzo sulla sinistra è concluso da una loggia. La tavola di Baltimora è del tutto in linea con i principi della renovatio: ai lati due palazzi di uguale altezza (quello sulla destra con portico) si levano su di un alto zoccolo e formano una piazza, scandita da quattro colonne. Al fondo della scena un arco trionfale a tre fornici, sulla sinistra un anfiteatro che ricorda il Colosseo, sulla destra un edificio ottagono, a doppio ordine con copertura a punta di diamante, concluso da una lanterna. L´arco centrale ricorda inequivocabilmente quei passi del De re aedificatoria di Leon Battista Alberti nei quali si afferma che le prospettive delle grandi strade vanno degnamente concluse da un tale monumento.
Le intenzioni dell´artista sono complesse, ché implicano da un lato la rinascita dell´Antico – secondo i modelli vitruviani – dall´altro un dialogo serrato col mondo medievale, simboleggiato dall´edificio sulla sinistra, il quale, per la stereometria della fabbrica, ricorda il Bel San Giovanni e per la decorazione bicroma rigorosamente geometrica allude anche al fronte di San Miniato: non certo dunque agli edifici rinascimentali. A queste due tavole si possono associare due prospettive urbane: la prima, allo Staatliche Museum, la seconda al Kunstgewerbemuseum, entrambe a Berlino. Sulle tavole, volte a rappresentare ambiti, più o meno ampi, della Città ideale, intervenne Richard Krautheimer, che attinse alla letteratura più recente: per la tavola di Urbino la lettura di Gabriele Morolli e l´analisi diagnostica di Maurizio Seraceni, e condusse un´analisi ad hoc per la tavola di Baltimora. La seconda questione riguarda la datazione delle tavole e la loro unicità: esse sono infatti una rara eccezione nella pittura del XV secolo in quanto rappresentazione per exempla del nuovo linguaggio umanistico. Per precisione e contenuto propriamente architettonico devono considerarsi modello stilistico di riferimento delle tarsie realizzate negli appartamenti del Palazzo Ducale di Urbino, certamente databili tra il 1474 e il 1482, e in quanto tali successive ai dipinti. Furono messe in mostra a Palazzo Grassi nel 1994 accanto alla coeva Tavola Strozzi di Napoli e quella di Roma, entrambe di Francesco Rosselli. Un confronto diretto tra città ideale e città reale. Rimane la questione dell´attribuzione (la ballata è sempre in corso) a una o più mani per ciascuna tavola. Il gioco qui si fa serrato e labile nella sua articolazione. Ma l´idea che dietro queste tavole possa esserci non la mano, ma l´intelligenza ordinatrice del trattatista Leon Battista Alberti è convincente: suggerita in prima istanza da Kimball (1927-28), fu ripresa con nuove argomentazioni dallo stesso Morolli (1992), fu confermata da Krautheimer e su di essa chi scrive ritiene di aver portato ulteriori e non irrilevanti argomenti a favore.