domenica 8 aprile 2012

l’Unità 8.4.12 Prima pagina
La radice cristiana
di Claudio Sardo


La Pasqua è per i cristiani l’evento fondativo, dunque la festa più importante: è la Resurrezione che cambia il senso dell’incontro con Cristo e della storia dell’uomo. Questo ovviamente secondo la fede dei credenti. Ma la forza del messaggio, che ha attraversato epoche e organizzazioni sociali ed è alle radici della nostra civiltà, non può lasciare indifferente chi dà alla fraternità una prospettiva solo umana.
Oppure chi si batte per la giustizia e per l’eguaglianza, chi immagina lo sviluppo in funzione della persona e della comunità. Il cristianesimo non è una cultura, né una morale. Già la lettera a Diogneto, uno dei primissimi manoscritti cristiani, sottolinea che i seguaci di Gesù non sono «da distinguere dagli altri uomini né per regione, né per voce, né per culture» e che «partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri». Il cristianesimo è un incontro che modifica un destino. Lo stesso orizzonte escatologico la vittoria della vita sulla morte non è motivo di separatezza, né alibi per chiusure fondamentaliste. È semmai una spinta a vivere le contraddizioni della città dell’uomo e partecipare con gli altri alle sue liberazioni. Da questa fedeltà scaturisce, prima che da una dottrina, l’impegno sociale dei credenti, il nodo inscindibile tra fede e carità, dunque anche il contributo a tanti movimenti progressisti. Del resto, come contenere la forza delle Beatitudini, oppure quella del Magnificat: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha mandato i ricchi a mani vuote».
Naturalmente nella storia la Chiesa si è trovata tante volte dalla parte della conservazione politica, o della reazione autoritaria contro la modernità e la scienza. Ma sarebbe un errore non cogliere, accanto ai limiti e agli errori, il contributo importante che la fede anche come forza rinnovatrice della stessa pratica religiosa porta alla comunità intera. Innanzitutto proprio perché non rinuncia a dare un valore e un traguardo alla storia dell’uomo: il mondo migliore non si potrà raggiungere del tutto, ma può essere avvicinato. E non per una imposizione divina, bensì perché la libertà e la capacità degli uomini sono in grado di modificare gli equilibri dei poteri.
La fede cristiana non comprime l’impegno sociale dell’uomo né la sua sfida politica: è anzi una spinta ad agire, guidata da una luce ottimistica sulla ragione. Per questo può portare speranza al pensiero progressista. E non è poco in un tempo come questo, dominato dal paradigma individualista il cittadino solo davanti al mercato e allo Stato e dalla prepotenza della globalizzazione finanziaria che sottomette le stesse istituzioni democratiche -. In fondo individualismo e strapotere della finanza sono due facce della stessa medaglia: non a caso qualcuno ha parlato di «fine della storia».
Tutte le idee di fraternità e uguaglianza, di solidarietà e di liberazione si fondano invece sulla convinzione che la storia non finirà finché ci sarà l’uomo. Che si può cambiare. Che si può cambiare insieme. Nessuna autorità sulla terra e neppure le crisi che colpiscono la Chiesa potranno impedire ai cristiani di impegnarsi per una società più giusta. E questa forza in campo continuerà ad alimentare la speranza e l’impegno di tutti gli uomini di buona volontà, che vogliono costruire un mondo migliore in nome di diverse visioni dell’uomo.
Certo, la Pasqua non è un appello all’irenismo. Non ci sono liberazioni facili. La vita è una battaglia. Dove l’uomo rischia se stesso e dove gli errori incombono. Ma ciò di cui non possiamo essere privati è il desiderio, la volontà di costruire con le nostre mani. La politica è uno strumento di questa costruzione. Non l’unico. Non c’è politica senza un umanesimo, senza un’idea dell’uomo. Non c’è giustizia se l’uomo non viene considerato nella sua interezza, titolare di sentimenti, vocazioni, carismi, socialità. Ma la politica è importante ed oggi è minacciata da un pensiero dominante che cerca di eliminarla, o marginalizzarla.
La nostra società, avvolta da una crisi non solo economica, ha bisogno di riconoscere il tremendo significato antropologico di questo furto di speranza nella storia futura. L’uomo è impoverito più delle sue tasche. È un furto perpetrato innanzitutto a danno dei giovani. La sinistra di cui abbiamo bisogno deve essere capace di raccogliere da tutte le fonti, da tutte le energie disponibili, la forza per cambiare. E le fedi religiose possono essere tra queste fonti molto propizie.

il Fatto 8.4.12
Caso Orlandi, il Vaticano non può cavarsela con un appello
A quasi 30 anni dalla scomparsa la verità fa ancora paura
di Roberto Faenza


“Non portate segreti nella tomba”. Con queste parole di padre Raniero Cantalamessa si riapre il caso Orlandi. É un mistero che seguo da anni perché da tempo vorrei farne un film. Sinora non sono riuscito nell’impresa: nessuno lo vuole finanziare per paura di dispiacere a “qualcuno molto in alto”. Facile immaginare chi, visto il terrore che in questo Paese si ha del Vaticano, quasi non meritasse la stessa trasparenza che invochiamo per tutte le istituzioni, Chiesa inclusa.
Come disse santa Caterina da Siena: “La corte del Padre Santo Nostro sembrami talora un nido d’angeli, tal altra un covo di vipere”. Ora le parole di padre Cantalamessa, conclusive dell’omelia del Venerdì Santo, davanti al Papa, suonano come un terribile atto d’accusa nei confronti dell’omertà che tinge di nero il mistero di Emanuela. A scoperchiare il caso è stato il fratello Pietro: lui e molti seguaci si sono recati in piazza San Pietro con striscioni e manifesti durante l’Angelus, per chiedere al Papa e a chi sa in Vaticano di parlare. Sono stati cacciati, vergognosa-mente, dalla nostra polizia. Walter Veltroni ha lodato la riapertura del caso: “Le dichiarazioni del procuratore aggiunto Capaldo sul caso Orlandi sono importanti e coraggiose”. E ha rivolto una interrogazione al ministro dell’Interno Cancellieri per chiarire una volta per tutte la sepoltura del boss della Magliana, “Renatino” De Pedis, nella basilica di Sant’Apollinare.
INTANTO sarebbe bello sapere cosa sta succedendo alla Procura di Roma. Giancarlo Capaldo ha detto o non ha detto che il Vaticano sa? É vero che il nuovo procuratore Giuseppe Pignatone ha avocato a sé il fascicolo, togliendolo all’aggiunto convinto del coinvolgimento del Vaticano?
Si parla di imminenti rogatorie in Vaticano per sentire alcuni religiosi “informati dei fatti”. Sin dai primi giorni della scomparsa di Emanuela, le piste si sono alternate senza tregua. A partire dai lupi grigi e dal feritore di Papa Wojtyla, quell’Alì Agca che aveva chiamato in causa il cardinale Giovanni Battista Re. Si parlò allora di un possibile scambio tra l’attentatore ed Emanuela, sotto la regia occulta del cardinal Marcinkus, capo dello Ior e responsabile della sicurezza del Papa. Da allora l’intrigo, altro che Codice Da Vinci, si è arricchito di continui colpi di scena.
Come l’auto con cui sarebbe stata rapita la ragazza, parcheggiata per anni a Villa Borghese, intestata al boss della Magliana e prima al faccendiere Flavio Carboni, l’eterno affarista coinvolto nei torbidumi di Calvi, P2 e P3. Sul ruolo della banda della Magliana, le rivelazioni han cominciato a fioccare quando Sabrina Minardi, l’amante di “Renatino”, ha spifferato la sua verità. Indicando persino il luogo dove sarebbe sepolta Emanuela, a suo dire assassinata su mandato di un alto prelato. Stando alle sue parole, per premio “Renatino” sarebbe stato sepolto nella basilica, grazie a uno speciale nullaosta del card. Ugo Po-letti. Per ambire a tanto privilegio occorre avere ucciso almeno una decina di persone? O essersi prestati a ripulire i bottini della banda attraverso la banca del Vaticano, foraggiata dalla stessa come emerge dalle carte? Né possiamo dimenticare la mattina del 14 maggio 2001, allorché il parroco di San Gregorio VII, nei pressi del Vaticano, scopre in un confessionale un piccolo teschio umano senza mandibola, proprio nel 20° anniversario dell’attentato al Papa.
LA SCOMPARSA della ragazza è stata più volte associata a quella di Mirella Gregori, sua coetanea, nello stesso periodo. La madre di Mirella, durante una visita del Papa in una parrocchia del Nomentano, pare abbia riconosciuto in un uomo della scorta pontificia la persona che andava a prendere ogni tanto la figlia a casa. Per portarla da chi? É lo stesso uomo visto al bar con Emanuela poco prima della scomparsa? Ora che il caso è riesploso, riaffiorano le piste che portano a prelati pedofili, pare invaghiti sia di Mirella sia di Emanuela. Il mistero continua. In attesa della prossima puntata.

La Stampa 8.4.12
Il maestro silenzioso che vede la Madonna
In provincia di Como il veggente è ormai un caso: e il parroco lo sostiene
di Michele Brambilla


Dall’altare in marmo della chiesa sgorga acqua: «Ma solo quando Gioacchino ha le visioni»
Era il 2000 quando per la prima volta sentì le «voci»: poco dopo le apparizioni di Maria
Le alte cariche danno un avallo e garantiscono che gli episodi non sono causati da autosuggestione

Questa è la strana storia di un maestro di musica che vede la Madonna ed entra in contatto con il più impenetrabile dei misteri del cristianesimo: la Trinità. Succede in provincia di Como. C’è da crederci? La Chiesa, che di solito frena - per dire: dopo oltre trent’anni, non si è ancora pronunciata su Medjugorje - ci crede. Il parroco dice che è tutto vero, e il vescovo anche, sia pure con linguaggio più cauto: «non c’è autosuggestione», ha scritto in un documento.
Maccio è la piccola frazione di un piccolo paese, Villa Guardia, che sta nel verde tra Como e Varese. È qui che c’è la parrocchia di Santa Maria Assunta, ovvero la chiesa dove il soprannaturale si sarebbe manifestato a Gioacchino Genovese, 53 anni, sposato e padre di due figlie, maestro di musica in una scuola della provincia e direttore del coro parrocchiale. Va detto subito che questo signor Genovese è persona più seria e discreta che si possa immaginare. Schivo e riservato, di quel che gli sta accadendo non parla con nessuno, salvo che con parroco e vescovo. A maggior suo merito si aggiunga che non parla soprattutto con i giornalisti e tantomeno va in televisione. Non si spaccia per guaritore e sta il più possibile lontano anche dal solo odore dei soldi. La gente del posto lo ha capito e lo lascia in pace: davanti alla sua abitazione, un modesto appartamento in affitto, non c’è la coda di un popolo in cerca di grazie. Insomma sarà anche perché siamo quasi al confine con la Svizzera, ma la storia è sobria.
Storia che comincia nell’anno 2000, quando il maestro Genovese «percepisce - si legge in un documento della parrocchia - una “Voce interiore” che lo guida nei momenti di preghiera personale (...) In particolare egli avverte, attraverso “visioni intellettuali”, una viva presenza del mistero della Santissima Trinità». Ma di tutto questo, per cinque anni nessuno sa niente.
Nel 2005 il presunto veggente chiede che la preghiera coinvolga altre persone. Cominciano così adorazioni, novene, suppliche. La chiesa inizia a riempirsi e resta aperta anche la sera. «In questo contesto - leggiamo sempre nel documento della parrocchia - nel periodo ottobre 2009-giugno 2010 si verificano anche particolari fenomeni legati all’altare della chiesa». Cioè succede che dal marmo dell’altare esca un liquido. Parroco e vescovo chiamano nientemeno che i celeberrimi Ris di Parma, i quali sentenziano: il liquido è acqua. Viene chiamata anche la ditta che vent’anni prima aveva costruito l’altare, la Bernasconi di Como, e le viene chiesto se sia possibile che dal marmo esca acqua: «Impossibile», è la risposta. Pare che vengano chiamati anche i più acerrimi nemici del miracoloso, quelli del Cicap («Non abbiamo nulla da nascondere», ha scritto il parroco don Luigi Savoldelli), i quali avrebbero ipotizzato una condensa dovuta alla molta gente in chiesa e al contrasto fra il caldo interno e il freddo esterno: l’altare, infatti, sarebbe risultato bagnato solo nei mesi invernali. «Ma anche solo durante le estasi del maestro Genovese», replica chi ci crede.
Nell’aprile del 2010 il vescovo di Como monsignor Diego Coletti istituisce una commissione diocesana di studio composta da sei sacerdoti. I quali cominciano a vagliare i quaderni sulla Trinità che Genovese ha scritto sotto ispirazione. Sono 311 pagine senza correzioni né cancellature. I sei sacerdoti ne rimangono esterrefatti. La Trinità è il più grande rompicapo della teologia: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrere la infinita via / che tiene una Sustanza in tre Persone», scrive Dante nel terzo capitolo del Purgatorio. Eppure le riflessioni del maestro Genovese sono tanto approfondite da sembrare opera di un san Tommaso d’Aquino.
Il 28 novembre 2010 il vescovo, con un atto ufficiale e solenne, attribuisce alla chiesetta parrocchiale di Maccio la qualifica di santuario diocesano intitolato alla Santissima Trinità Misericordia. Nel documento il vescovo scrive che la commissione «non ha riscontrato, in questa esperienza e negli scritti, elementi contrari alla dottrina cattolica e alla morale, né ha ravvisato fenomeni di autosuggestione».
È solo il primo riconoscimento. Il 27 marzo scorso la Diocesi di Como comunica che gli accertamenti sono terminati e «l’intero fascicolo è stato inviato alla competente autorità ecclesiastica presso la Santa Sede la quale, dopo attenta valutazione di quanto raccolto, sarà chiamata a esprimersi in merito». E la scorsa settimana, durante una messa, don Luigi ha dato l’ultima notizia bomba spiegando perché ha deciso di collocare, in un certo punto della chiesa, una statua della Madonna: «La Vergine Maria in questa chiesa non è stata solo una presenza spirituale, ma si è manifestata. È apparsa a lato dell’altare, rivolta verso l’altare, proprio come oggi è mostrata dalla statua che c’è da qualche tempo in chiesa. Non vi siete mai chiesti come mai quella statua è stata posizionata lì? »
Ora Roma, con i suoi tempi e la sua prudenza, dirà l’ultima parola. Ma intanto è facile prevedere che già dai prossimi giorni saranno in molti a scuotere la quiete di questo piccolo paese.

La Stampa 8.4.12
In tutta Italia
Altri «fenomeni» inspiegabili


In Puglia «mamma Lucia» si proclama erede di padre Pio. Vive a San Nicandro Garganico, in provincia di Foggia e racconta di avere avuto sin da piccola la visione della Madonna che le ha affidato una missione. A pochi passi da Roma invece sorge quella che, ormai a furor di popolo, è stata ribattezzata la «Medjugorje dei Castelli». A Velletri si registrano veri e propri pellegrinaggi alla Fonte della Donzella, la sorgente dove ogni primo del mese ad A. B. appare la Madonna. A Ghiaie di Bonate, in provincia di Bergamo, la Sacra Famiglia sarebbe apparsa ad Adealide Roncalli all’età di sette anni. Da allora, è un susseguirsi di pellegrinaggi sul posto dove si sarebbero verificati i fenomeni mistici. A Placanica, in provincia di Reggio Calabria a poca distanza dal paese di Natuzza, 40 anni fa la Vergine avrebbe affidato a fratel Cosimo Fragomeni una serie di messaggi rivolti all’umanità.

Corriere della Sera La Lettura 8.4.12
La sconfitta di Paolo VI e di Mark Rothko, sognatore multireligioso
di Marco Ventura


L a religione insegna all'uomo la potenza dell'immagine. Nelle pitture rupestri le forme riducono la distanza dalla divinità. Nel Libro dei morti egizio, colori e figure guidano il defunto nel suo viaggio. Dalle pareti delle chiese barocche, la storia sacra riempie il fedele di timore per il vero Dio. Chi possiede l'immagine, possiede il mondo; chi crea la figura, crea l'uomo. Gesù il Messia lo dice nel Corano: «In verità, vi reco un segno da parte del vostro Signore. Plasmo per voi un simulacro di uccello nella creta e poi vi soffio sopra e, con il permesso di Allah, diventa un uccello». Musawwir, colui che crea un'immagine, è uno dei 99 nomi di Allah. Perciò la religione proibisce all'uomo l'idolatria, il crimine di chi crea immagini per sostituirsi a Dio.
Il libro dell'Esodo scolpisce il comandamento: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra». Tacito riferisce che gli ebrei «non conoscono la divinità che in forma di pensiero» e ritengono empio chi raffigura Dio in sembianze umane. Il giorno della conquista della Mecca, si legge nella Sunna, il Profeta vi trova 360 idoli: uno ad uno li pugnala e li distrugge mentre recita: «È giunta la verità, la falsità è svanita».
Regolando la forma, dettando la norma dell'immagine, le religioni scorrono nella storia. Ebrei, musulmani e cristiani competono in purezza di linee e forme. Col vuoto gli uni, col pieno gli altri. Un equilibrio si stabilisce dove coesistono canone e trasgressione, principio ed eccezioni. La modernità lacera il quadro, aggrava il conflitto tra arte e fede. L'Impero ottomano è sedotto dalle linee razionali della tecnica colonizzatrice, ma difende l'antica armonia della calligrafia e degli arabeschi. Invano il prozio nega il saluto a Chagall quando sa della sua illecita passione per le figure: dall'ebraismo germogliano pionieri dell'arte moderna.
Dopo la Seconda guerra mondiale tocca al cattolicesimo gridare il dolore di una religione senza arte e di un'arte senza religione. In pieno Concilio, il 7 maggio 1964, Paolo VI parla agli artisti nella Cappella Sistina. «Noi abbiamo bisogno di voi», proclama. La Chiesa ha bisogno che gli uomini d'arte conservino al mondo dello spirito «la sua ineffabilità, il senso della sua trascendenza, il suo alone di mistero, questa necessità di raggiungerlo nella facilità e nello sforzo allo stesso tempo». Paolo VI si interroga sul perché «si è perduto il filo» del rapporto. Denuncia un'arte confusa che ha rinunciato a misurarsi con Dio: «Ci avete un po' abbandonato, siete andati lontani, a bere ad altre fontane, alla ricerca sia pure legittima di esprimere altre cose; ma non più le nostre». Ma il Papa denuncia anche una Chiesa che ha a sua volta abbandonato l'arte, imponendo «come canone primo l'imitazione», e mettendo agli artisti «una cappa di piombo addosso». Papa Montini fissa allora i suoi interlocutori e prorompe nel celebre «Perdonateci!». Il seme travalica il cattolicesimo, va in mille direzioni.
Pochi anni dopo, a Houston, Mark Rothko firma un luogo di culto che riconcili diversità di arte e di credo, una cappella ottagonale dove, egli immagina poco prima di suicidarsi, «Est e Ovest si fondano». Quando nel 2009 Benedetto XVI celebra i 45 anni dall'omelia di Paolo VI, la distanza tra artisti e credenti è ancora cresciuta. La speranza di Paolo VI pare sconfitta come è sconfitto il drammatico sogno multi-religioso di Rothko.
La distruzione dei Buddha di Bamiyan del 2001 non è un accidente, ma il simbolo di una versione dell'Islam in guerra con la bellezza e con la vita, con la creatività dell'uomo e di Dio; un Islam prigioniero della norma tirannica di giuristi ossessivi.
Le religioni orientali forniscono gadget per il sincretismo post-moderno. L'arte occidentale sembra saper dare forma a Cristo e a Maometto solo deformandoli. Credenti e artisti si vantano di essere liberi e controcorrente, ma precipitano nel conformismo; i tradizionalisti vanno fieri del loro rifiuto della modernità, ma sono i primi prodotti della civiltà dell'immagine. Non c'è alternativa alla strada additata nel 1964 da Paolo VI agli artisti. Istruirsi, perché «non è lecito inventare una religione». Sperimentare in laboratorio la ricchezza dell'espressione. Ma soprattutto, «sincerità»; Paolo VI coglie il tabù dell'ultimo mezzo secolo: occorre entrare in sé stessi e cercare «una personalità, una voce cavata proprio dal profondo dell'animo, una forma che si distingue da ogni travestimento di palcoscenico, di rappresentazione puramente esteriore».
Nel post-moderno virtuale, questa sfida riguarda ogni religione, ovunque. Senza quella che nel 1964 Paolo VI definisce «l'autenticità del fatto religioso», non c'è vera arte e non c'è vera fede.

l’Unità 8.4.12
In Europa non c’è alternativa al Pse
di Leonardo Domenici


Il Pd deve aderire oppure no al Partito del socialismo europeo? Io sostengo da tempo di sì. Perciò sono d’accordo con Sergio Cofferati, che sulle colonne di questo giornale ha riaperto il dibattito proponendo di «organizzare l’adesione del Pd al Pse», e non con Lapo Pistelli, che non condivide l’obiettivo di compiere questa scelta in occasione del congresso che il Pse terrà in ottobre a Bucarest.
Dal mio punto di vista, lo stare a pieno titolo nel Pse non ha a che fare con ragioni ideologico-identitarie, ma con una esigenza che definirei di carattere politico-funzionale: riguarda, cioè, l’efficacia della presenza e dell’iniziativa del Pd a livello europeo. La mia esperienza di europarlamentare mi ha ulteriormente rafforzato in questa convinzione. Il rilancio dell’europeismo, di cui parla giustamente Pistelli, ha bisogno, fra l’altro, anche di partiti transnazionali, ossia strutturati e funzionanti in un modo che vada oltre i confini dei singoli Paesi. Penso che, in questo senso, il Pse sia ancora poco più di un’esperienza embrionale, ma rappresenti comunque uno spazio e una rete di relazioni importante dal punto di vista politico. L’alternativa, per il Pd, è il non stare da nessuna parte, ma questo rappresenta un indubbio svantaggio, perché intanto le cose si muovono e il rischio è di restare ai margini o di vedere sminuito il proprio peso politico sul piano europeo. Il Pse rappresenta oggi in Europa quanto di più vicino al Pd possa esistere, tenendo conto che a esso possono aderire anche partiti che non si definiscono socialisti (nell’articolo 1 dello Statuto si fa esplicito riferimento a «democratic progressive parties and organisations»). E comunque, per favorire l’ulteriore evoluzione di un’associazione politica, meglio starci in modo completo anziché con un piede dentro e uno fuori. Pistelli ha ragione a criticare l’esperienza del socialismo europeo dell’ultimo ventennio, soprattutto per quanto riguarda le chiusure nei limiti dei «riformismi nazionali» e la mancanza di spinta europeista dei governi a guida socialista. Tuttavia, sarebbe sbagliato non vedere le novità positive: oggi le forze politiche che si riconoscono nel Pse rappresentano il perno del rilancio del processo di integrazione europea, in contrapposizione ai governi conservatori che vogliono rinazionalizzare la politica e hanno dell’Europa una visione intergovernativa. Il manifesto «Per un’alternativa socialista e democratica in Europa», presentato lo scorso 28 marzo a Bruxelles da Jacques Delors (un socialista atipico) e di cui io, Sergio Cofferati e Gianni Pittella siamo fra i primi firmatari, rappresenta un esempio concreto di questo nuovo corso. Tutto ciò non si contrappone allo sforzo di costruire più ampie convergenze con altre forze di matrice liberaldemocratica, ambientalista, cristiano-sociale e altro ancora, ma si tratta di cose diverse: mi pare che Lapo Pistelli non distingua fra appartenenza a un campo di forze e costruzione di alleanze politiche. Così come mi sembra un po’ meccanicistica l’idea che prima vinciamo le elezioni in Italia, facciamo il congresso del Pd, e poi lanciamo la «lunga volata delle elezioni europee», perché anche questo modo di ragionare mi sembra anteporre il passaggio politico nazionale, sia pure di cruciale importanza, alle decisioni e alle iniziative da prendere in sede europea. Per quanto i partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti possano guardarci con simpatia (devo dire che trovo piuttosto inopportuno che Pistelli li paragoni ad agenzie di rating che valutano l’affidabilità del Pd), non credo che nel frattempo staranno fermi ad aspettare l’evoluzione della situazione italiana. E questo è un aspetto che il Pd deve considerare attentamente.

l’Unità 8.4.12
Hollande, appello all’Italia: «In nome della crescita, cambiamo il patto Ue»
Strategie per uscire dalla crisi: il candidato socialista all’Eliseo cerca nell’Italia l’alleato per le politiche europee, a cominciaredal Fiscal compact. E al Pd dice: «Per combattere l’antipolitica è necessario il linguaggio della verità».
di Emidio Russo


Guarda all’Italia, Francois Hollande, il candidato socialista alle presidenziali francesi, che proprio nel nostro Paese cerca una sponda per inserire la dimensione della crescita nel patto di bilancio Ue, nel caso di una sua vittoria all’Eliseo. A due settimane dal voto, Hollande, favorito nei sondaggi, in un’intervista all’Ansa dice che la situazione economica dell’Italia è «preoccupante» e proprio per questo Roma deve sostenerlo nella sua richiesta di cambiare il Fiscal compact, approvato a inizio marzo a Bruxelles. Ma Hollande rende anche omaggio al lavoro di Mario Draghi alla Bce che però deve rafforzare le sue competenze sul modello della Fed americana e insiste sulla necessità di non bloccare i lavori della Torino-Lione. Quanto all’antipolitica, la sua ricetta è semplice: serve un «linguaggio di verità» per recuperare la fiducia degli elettori.
In Italia, afferma il socialista, «la crisi politica della fine del 2011 sembra superata. Al contrario, le previsioni di crescita economica sono piuttosto preoccupanti». «Per questo prosegue se verrò eletto presidente,ho la speranza di trovare in Italia un sostegno per chiedere politiche di crescita». «L’Ue precisa Hollande soffre di un grave deficit di crescita, e senza crescita non riusciremo a controllare il nostro debito». E il Fiscal compact dell’Ue «è un trattato incompleto, che stabilisce solo rigore di bilancio» e che «ci porta in una spirale di austerità». Per questo, «dobbiamo includere un capitolo crescita che consenta di sviluppare l’industria europea, rafforzare la solidarietà e combattere la disoccupazione».
Da mesi il candidato socialista chiede di ritoccare il trattato nel senso della crescita. Una prospettiva che non piace a molti leader europei, a partire da Angela Merkel, che nel voto francese appoggia Sarkozy. Hollande plaude al lavoro di Mario Draghi, ma chiede un rafforzamento della capacità d’azione dell’Eurotower, in quanto i suoi interventi sono «decisivi per la Francia, l’Italia, ma anche Spagna Portogallo e altri». «Osservo che dall’arrivo di Mario Draghi, la Bce si è lanciata in operazioni di più grande portata, e ha proposto alle banche investimenti di tre anni, ciò che ha avuto un effetto molto netto sul costo del debito, soprattutto in Italia».
OLTRE VAL DI SUSA
Alla domanda su quale fosse la sua posizione rispetto alle proteste in Italia e in particolare in Piemonte contro la linea ad alta velocità ferroviaria, Torino-Lione, il candidato della gauche risponde: «Bisogna lavorare alla competitività dell’Europa come terra di produzione e tutto ciò passa attraverso la costruzione di infrastrutture come la Tav Torino-Lione». «La soluzione alla crisi dell’Europa continua non sarà mai nel ripiegamento su se stessi. Per rilanciare l’attività economica in Europa e bloccare l’aumento della disoccupazione, abbiamo bisogno di questo tipo di investimenti, che rendano il nostro continente più attrattivo e coeso». Più in generale, parlando del modo in cui attrarre maggiori investimenti nel Vecchio continente, Hollande suggerisce di trovare nuovi «finanziamenti con l’emissione di project-bonds per i grandi progetti nell’industria, nell’energia e nelle infrastrutture, ma anche ricercare nuove risorse, come la tassa sulle transazioni finanziarie e la carbon-tax».
Infine,la risposta a una domanda sul Pd e sul sentimento antipolitico in Italia: «Sarebbe inappropriato da parte mia pretendere di dare consigli alla sinistra italiana, che è padrona del proprio destino. Tuttavia, è vero che viviamo un periodo difficile e che i cittadini, ovunque in Europa, sono delusi della situazione in cui si trova la nostra unione». «In questo periodo conclude Hollande mi sembra indispensabile tenere un discorso di verità per ritrovare la fiducia degli elettori».

l’Unità 8.4.12
Dal 2008 al 2011 gli under 35 occupati sono passati da sette a sei milioni
Controtendenza: tra i 55 e i 64 anni si è registrato invece un aumento del 15 per cento
Un milione di giovani non ha più un lavoro
Un milione di giovani ha perso il lavoro tra il 2008 e il 2011. Dopo tre anni di crisi, ecco una parte del conto che pagano gli under 35. Crescono le pressioni sul governo perché stimoli la crescita
di Giuseppe Vespo


Un milione di giovani è sparito dal mercato del lavoro. È la parte del saldo che l’economia presenta agli under 34 alla fine del terzo anno di piena crisi.
Nel 2008, secondo le medie fornite dall’Istat, gli italiani occupati tra i 15 e i 34 anni erano 7,1 milioni, alla fine del 2011 sono sei milioni e cinquantasei mila. La differenza è del 14,8 per cento e sembra ma è un’illusione compensata dall’aumento del numero degli occupati nella fasciad’etàtrai55ei64anni:più15 per cento, per un totale di 376 mila persone (si passa dai quasi due milioni e mezzo nel 2008 a quasi due milioni e novecento mila nel 2011).
PARITÀ DEI SESSI
Ad accrescere il numero degli occupati over 55 sono soprattutto le donne, sulle quali si è fatto sentire maggiormente l’innalzamento dell’età pensionabile, il cui iter è stato accelerato dal provvedimento che ha seguito la sentenza della Corte di Giustizia Europea sulla parificazione dei criteri pensionistici tra uomini e donne.
Le lavoratrici sono salite in tre anni di circa il 23 per cento (202 mila donne), mentre gli uomini sono aumentati di quasi l’11 per cento (174 mila). Pochi giorni fa le statistiche avevano aggiornato l’allarmante livello della disoccupazione e dell’occupazione giovanile, la prima cresciuta di oltre quattro punti percentuali in un anno (31,9%), la seconda in flessione di un punto (al 19,4%). Di fronte a questi segnali aumentano le pressioni nei confronti del governo Monti, da un po’ di tempo sotto il fuoco di partiti e sindacati per quel che riguarda le misure a sostegno della crescita e delle nuove generazioni. Una parte dei commenti più critici al ddl di riforma del lavoro appena presentato fa leva proprio sull’assenza di misure a favore della mobilità in entrata (mentre quella in uscita è stata agevolata).
Non stupisce quindi sentire il segretario confederale Cgil, Vincenzo Scudiere, ribadire che «l’efficacia delle politiche economiche del governo si misura esattamente dalla politiche per la crescita, rispetto alle quali si registra un grave ritardo». Il sindacalista rincara la dose aggiungendo al carico di occupati persi i «tre miliardi di ore di cassa integrazione relative allo stesso periodo. Un combinato disposto che figura la pesantezza di una crisi che si abbatte principalmente sulle fasce più deboli, i giovani». Secondo Scudiere, quindi, «vanno riviste le norme del ddl per allargare e includere le parti più deboli».
Alla Cgil ieri si è aggiunta la Cei, con il responsabile della commissione lavoro della conferenza dei vescovi, monsignor Giancarlo Bregantini, che chiede alla stessa Chiesa e al mondo degli adulti maggiore sensibilità verso «le attese e le ansie dei nostri giovani e della gente che vive drammaticamente questa realtà» di difficoltà economica e sociale. Mentre l’Italia dei Valori con Maurizio Zipponi avverte che giovani, cassa integrazione e pensioni, sono un mix che potrebbe far deflagrare la tensione sociale. Un’analisi non lontana da quella del segretario della Uil, Luigi Angeletti, che stima per il 2012 «duecento mila posti di lavoro a rischio. E ancora non abbiamo conosciuto le tensioni sociali più serie che sono quelle che potrebbero essere provocate dai licenziamenti di massa delle persone adulte».
La risposta del governo arriva dal Libano, dove si trovava ieri Mario Monti: il lavoro per i giovani è «lo scopo principale» della riforma del lavoro, dice il premier, «così come lo è tutta la politica economica del governo: una volta che tutti avranno dismesso le lenti del corporativismo lo riconosceranno e parteciperanno allo sforzo collettivo».

il Fatto 8.4.12
Da precari a disoccupati
Secondo i dati dell’Istat gli occupati tra i giovani sotto i 35 anni sono diminuiti, dal 2008, di oltre un milione
di Salvatore Cannavò


I dati forniti ieri dall'Istat sulla disoccupazione giovanile fanno impressione. In particolare, se paragonati alle cronache politiche degli ultimi giorni e settimane. Di qua, tra Milano e Gemonio, fiumi di denaro sottratti alla cosa pubblica per ingrassare piccoli potentati politici, i loro familiari, amici, amanti. Di là, più di un milione di giovani a incrementare la disoccupazione giovanile tra il 2008 e il 2011, gli anni della crisi. Di qua, la Porsche come simbolo del successo e della rapina, di qua una disperazione sociale che attanaglia la vita dei giovani e delle loro famiglie.
QUEL MILIONE in più di giovani senza occupazione sono la faccia scoperta di una politica che si dedica a spolpare il Paese. Secondo i dati Istat diffusi ieri, i giovani occupati tra i 15 e i 34 anni sono infatti scesi a 6 milioni e 56 mila rispetto ai 7,1 milioni del 2008. Il confronto tra i due anni non è casuale, descrive l'arco della crisi. L'impatto sui giovani, come si vede, è stato micidiale anche perché, nello stesso tempo, è aumentata l'occupazione degli “over 50”, quella tra i 55 e i 64 anni. Si tratta di una crescita del 15 per cento e che riguarda 376 mila nuovo occupati. Per questa categoria di persone, però, fa notare la Cgil, vanno registrate, nello stesso arco di tempo, 3 miliardi di ore di Cassa integrazione, circa 500 mila dipendenti all'anno costretti a restare a casa con il salario ridotto e con l'ansia di non poter tornare al lavoro. Ma complessivamente i numeri Istat consegnano tutto intero il dramma di una condizione giovanile a cui nessuno, finora, ha saputo dare risposte. Se si guarda alla fascia di età compresa tra i 15 e i 24 anni l'impatto della crisi è ancora più forte perché la perdita di posti di lavoro supera le 300 mila unità con un calo di oltre il 20 per cento. I giovani subiscono sia il calo dei contratti a termine sia la drastica diminuzione del numero di quelli indeterminati: i dipendenti under 35 con il posto fisso si sono ridotti in tre anni di 747 mila unità (di cui 190 mila nel 2011).
IL PREMIER Monti ha gioco facile a segnalare che lo “scopo della riforma del mercato del lavoro è porre rimedio alla disoccupazione giovanile”. Ma la stretta correlazione tra i dati Istat e gli anni della crisi dimostra invece che c'è stata una gelata da parte delle imprese in cui non c'entra nulla la struttura del mercato del lavoro. Come ricorda la Cgil, ma anche gli altri sindacati, a mancare è la crescita economica e quindi politiche pubbliche intelligenti che la sostengano. Ma da questo versante da parte del governo non si vede nulla. Il ministro allo Sviluppo economico, Corrado Passera, fa interminabili interventi pubblici, ma sembra piuttosto impacciato di fronte al continuo calo della produzione industriale. Un manager come Marchionne può tranquillamente permettersi di dichiarare che la Fiat smetterà di costruire autobus in Italia e la politica guarda come se nulla fosse. Vale la pena di segnalare la provocazione di Giorgio Airaudo, segretario Fiom con delega all'Auto, che a Monti chiede di andare in Asia “per portare qui in Italia qualche costruttore automobilistico degno di questo nome”. Ma la filosofia di Monti delle politiche pubbliche è quella di favorire la libera iniziativa delle imprese. Anche se questa finora non fa che creare disoccupazione.
IL PROBLEMA è che la linea liberista sembra valere solo per quanto riguarda le politiche industriali mentre sul lato delle politiche fiscali l'interventismo pubblico c'è ed è a senso unico. La pressione fiscale italiana è altissima e ieri la Cgia di Mestre ha diffuso dei dati sulla pressione fiscale a livello locale. Nel 2011 per tasse comunale, regionali, addizionali, ogni contribuente ha pagato in media 1.230 euro. Ma nel 2012 entreranno in vigore gli aumenti decisi dal governo Monti: l'Imu, lo 0,33 per cento in più di Irpef regionale e altre imposte decise localmente (in Toscana aumenta l'accisa sulla benzina). I più spremuti sono gli abitanti della Lombardia, con ben 8 Comuni capoluogo nei primi 10 posti della classifica generale. Più disoccupati e più tassati.

il Fatto 8.4.12
Tutte le bugie della legge Fornero
di Mario Fezzi


Prima di affrontare il tema dei licenziamenti, non riesco a trattenermi dal fare un’osservazione sul merito dell’intera manovra di riforma del mercato del lavoro. Il governo ci ha raccontato in ogni sede che la manovra tendeva a ridurre drasticamente le tipologie contrattuali, a rendere più costoso il ricorso ai contratti cosiddetti atipici e temporanei e, solo in cambio di questa ritrovata rigidità in favore del contratto a tempo indeterminato, a introdurre qualche elemento di flessibilità in uscita. Leggendo l’articolato approvato dal Consiglio dei ministri, si scopre però che è stata introdotta la possibilità di stipulare il primo contratto a termine con un lavoratore senza la necessità di specificare la giustificazione dell’apposizione di un termine, per un periodo di addirittura sei mesi. Così facendo si spiana in realtà la strada a un utilizzo ancora più massiccio di contratti a termine, privi di causale.
MA VENIAMO ai licenziamenti. Il governo intende introdurre un sistema tripartito: i licenziamenti discriminatori; i licenziamenti per colpe del lavoratore; i licenziamenti economici. Per quanto riguarda i licenziamenti discriminatori è prevista la reintegrazione nel posto di lavoro; nessuna novità in proposito, perché era già così. Per i licenziamenti dovuti a motivi soggettivi, o disciplinari, è invece previsto che, in caso d’annullamento, sia il giudice a scegliere tra reintegrazione e risarcimento; se non applica la reintegrazione il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità tra 15 e 24 mensilità, tenuto conto di vari parametri, quali l’età, l’anzianità di servizio, e dimensioni aziendali, etc. Nei casi in cui il giudice deve scegliere tra reintegrazione e indennità risarcitoria, il ddl chiarisce che il giudice dispone la reintegrazione se accerta che il lavoratore non ha commesso il fatto contestato, o se il fatto contestato è riconducibile, alla luce del contratto collettivo, a una più tenue sanzione. Nelle altre ipotesi, e in particolare in caso di vizio formale che riguardi la procedura disciplinare, il giudice deve invece disporre il pagamento dell’indennità; in questo caso, l’indennità dovuta è ridotta da un minimo di 7 a un massimo di 14 mensilità. Adesso, dopo la presentazione del ddl, la possibilità di reintegrazione è prevista anche per la categoria dei licenziamenti economici; infatti, se il licenziamento viene annullato, il giudice può disporre il pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva tra 15 e 24 mensilità di retribuzione. Inoltre, il ddl prevede una procedura di conciliazione in sede amministrativa, davanti alla Direzione provinciale del lavoro, nell’ambito della quale il lavoratore potrà essere assistito anche da rappresentanti sindacali. La vera novità di questa riforma è il fatto di costringere gli operatori del diritto a ragionare in termini radicalmente nuovi e diversi dal passato. In un sistema in cui la reintegrazione può essere solo eventuale, ma in cui è previsto che possa essere applicata, se ne ricorrono i presupposti, la sanzione reintegratoria prevista per licenziamenti disciplinari e discriminatori, è indispensabile dare inizio a un’operazione culturale e giuridica che introduca nel nostro paese un concetto ampio di discriminazione, come esiste in molti paesi e segnatamente negli Stati Uniti. E non è necessario dare alcuna prova di tale intento nella decisione del datore di lavoro: è sufficiente che vi siano rilevanti elementi indiziari.
Questo è unque lo scenario su cui in futuro dovranno muoversi gli operatori del diritto: se un lavoratore licenziato per motivi economici vede annullare il proprio licenziamento per insussistenza della causale indicata, avrà davvero solo diritto all’indennità risarcitoria? Non potrà invece sostenere che la causale era falsa e il vero obiettivo era liberarsi di lui, in quanto persona sgradita al datore di lavoro? E come potrebbe essere definito un comportamento del genere, se non discriminatorio ?
E ANCORA, quel licenziamento economico illegittimo potrebbe anche essere valutato come una sanzione disciplinare simulata, venendo quindi disposta la reintegrazione. Una considerazione finale. Si è tanto parlato in questi mesi della deterrenza che l’art. 18 esercita a protezione dei diritti dei lavoratori nell’ambito giornaliero del rapporto. E questa deterrenza resterà perlomeno dove spetterà al giudice scegliere tra reintegra e indennità. Ma se in qualche sciagurato distretto giudiziario i giudici del lavoro non applicassero mai l’ordine di reintegrazione, limitandosi in ogni occasione a disporre il pagamento dell’indennità risarcitoria, la deterrenza scomparirebbe e le impugnative dei licenziamenti diventerebbero solo un suk nel quale stabilire il prezzo di una persona.

il Fatto 8.4.12
Svelato l’inganno: l’insicurezza è per tutti
di Marco Politi


Non è una svolta. Per milioni di giovani precari è un inganno. Perché i piccoli passi in avanti, i timidi correttivi – depurati dalle proclamazioni buoniste su apprendistato e lavoro a tempo indeterminato – non riducono la piaga dei contratti atipici e lasciano ampi spazi allo sfruttamento creativo delle aziende.
Partiamo dai fatti. Per un ventennio le aziende hanno stravolto la flessibilità disegnata dalla legge Biagi. Spremendo milioni di giovani (e ormai non più giovani) in ruoli di pari lavoro e impari retribuzione rispetto ai dipendenti a tempo indeterminato “della scrivania accanto”: con peggiori compensi, peggiori tutele previdenziali, orari peggiori, zero diritti e spesso ampliamento non retribuito di mansioni. Quattro milioni di precari (dati 2011, Associazione Artigiani e Piccole Medie Imprese del Veneto) attendevano un immediato salto di qualità per compensi e tutele.
Succede invece che i precari delle finte partite Iva, ingaggiati in modo chiaramente subordinato, con una postazione in azienda, non sono immessi in organico, ma dovranno attendere 12 mesi per vedersi riconosciuti co.co.co. : il tempo utile alle aziende per “buttarli fuori”, secondo lo spirito di Emma Marcegaglia che all’idea di uno stop agli abusi minaccia minore occupazione.
Autorizzare tre apprendisti per due dipendenti a tempo indeterminato è una presa in giro: un invito a fabbricare altro lavoro precario. E ancora, prevedere 36 mesi di contratti successivi a tempo determinato per un precario, che (dopo tre anni meno un giorno!) potrà essere tranquillamente sostituito da un altro precario, è una beffa. Dal progetto sembra sparito il tetto ai licenziamenti individuali per “motivi oggettivi”. Così verranno aggirate le norme sui licenziamenti collettivi.
In tutta la vicenda il governo si è comportato come se dovesse mediare equidistante tra sindacati e imprenditori, invece di agire perché la sorte dei giovani in ingresso lavoro venisse subito migliorata. Un esempio? Sancire che dopo 36 mesi ogni prestazione continuata (in quanto tale) sia necessariamente coperta da un contratto a tempo indeterminato.
Intanto Monti dichiara ai quattro venti che il reintegro per licenziamenti economici ingiusti resterà “improbabile”. Felice notizia per i cinquantenni che saranno rottamati con vista sull’(irraggiungibile) pensione a sessantasette anni.
Si era tanto parlato del triste divario tra protetti e non garantiti. Ora finalmente è ristabilita l’eguaglianza. Insicurezza spalmata per tutti.

il Fatto 8.4.12
Il venerdì santo delle donne al governo
di Lidia Ravera


SUPERMARIO bocciato dalle donne, è questa la notizia che prova a farsi strada, sommessamente, nel fracasso degli scandali, fra i consueti vortici di fango. Sta in un comunicato del comitato promotore di “Se non ora quando”: secco, sobrio, severo. Dove si legge che anche questo Nuovo Governo, così promettente e con una femmina al ministero del Lavoro e delle Pari opportunità, dopo averci fatte brevemente sognare, ci ha deluse: non ha investito nel welfare (condizione necessaria perché noi si possa lavorare). Eppure quali soldi prendere l’avevamo suggerito: quelli risparmiati alzandoci l’età della pensione. E poi: ai mascalzoni che ci provano con le dimissioni in bianco si contesta soltanto un reato amministrativo (rischio che può essere conveniente affrontare). I voucher per il “sostegno” alla storica missione della cura che ci taglia fuori dal mercato, sostiene soltanto le lavoratrici dipendenti. E i milioni di precarie? Rinunciano a procreare fino al completo arresto degli ormoni? La precarietà non è un corollario della gioventù, può durare. Il congedo di paternità è un’iniziativa simbolica: tre giorni e via, passa la paura. Insomma, dov’è il “gender mainstreaming” raccomandato dall’Europa? Le donne inchiodano il governo alle sue responsabilità il venerdì santo. Che risorga la domenica di Pasqua. Più femminista.

La Stampa 8.4.12
Cazzola: flessibilità addio, le imprese ora licenzieranno
intervista di Rosaria Talarico


ROMA Giuliano Cazzola, economista e parlamentare del Pdl. Sulla riforma del lavoro sono fioccati gli strali di Confindustria sulla stabilizzazione dei precari.
«La flessibilità in entrata è da sempre il nostro cavallo di battaglia e l'articolo 18 ha dominato la scena ben oltre quanto fosse utile. La verità è che questa manovra è squilibrata: si è aperto un piccolo pertugio in uscita (con modifiche che sono più emblematiche che un effettivo superamento della rigidità), ma è inaccettabile la presunzione di illeceità di tutti i contratti flessibili. L'approccio del governo è di rivedere uno per uno tutti i rapporti di lavoro flessibili perché presuppone che siano fasulli».
Non si può certo dire che gli imprenditori abbiano fatto un uso coscienzioso del lavoro flessibile.
«Sì, ma non si può ribaltare l'onere della prova sul datore di lavoro. Esiste una giurisprudenza consolidata. Rimettere in discussione tutto in un periodo di crisi come quello attuale vuol dire allarmare le imprese, che licenzieranno. Non si può assumere solo perché la legge lo prevede».
È questo quel che accadrà?
«Vedo scenari molto negativi: si perderanno molti più posti di lavoro per questo che non per l'articolo 18. È un discorso che faccio da tecnico. Cambiare così profondamente le regole su pensioni, ammortizzatori sociali e rapporti di lavoro in un periodo di crisi è un'azione che rasenta l'avventurismo».
Forse perché per anni ha dominato l'immobilismo.
«Più che tecnici mi sembrano degli apprendisti stregoni. Non ha senso destabilizzare le imprese con tutte queste novità. Chi deve manovrare questi nuovi strumenti non sa come regolarsi».
Ma la precarietà non è certo un'invenzione del governo tecnico.
«Questo è assolutamente vero. E io non difendo gli abusi. Però è come dire alle popolazioni di Campania o Sicilia, dove esistono organizzazioni malavitose, di dimostrare di essere onesti, invece di perseguire i criminali».
Ciò non toglie che i precari sono una realtà drammatica dell'Italia.
«Il fenomeno è diffuso più al cinema o in tv. Il nostro vero problema non è la precarietà ma disoccupazione giovanile o il lavoro sommerso che aumenteranno. Le aziende di call center, accusate di sfruttare i giovani, oggi hanno 76 mila dipendenti di cui 30 mila co.co.co. Con questa riforma si ritroveranno a dover stabilizzare 30 mila persone. Non sono cose che si fanno per legge e con una legge giacobina».
Cosa si dovrebbe fare allora?
«La via maestra è prendere atto che i rapporti flessibili sono una realtà dell'economia e bisogna dare a tutti gli ammortizzatori sociali. La risposta non è farli diventare lavoratori stabili dando calci alle imprese ma dare loro maggiori tutele».

l’Unità 8.4.12
«Riforma, l’articolo 18 è stato sfregiato dal governo»


Il leader di Sel: «Non si diventa competitivi mettendo la museruola ai sindacati. Legge elettorale, l’ipotesi messa in campo non ci piace»
Gvernatore Nichi Vendola, come valuta la partita della riforma del lavo-
ro?
«Io do un giudizio seccamente negativo su un complesso di norme che non chiamerei così. A una riforma corrispondono miglioramenti delle condizioni di vita delle classi subalterne, più diritti e tutele. Invece qui, con vocabolario orwelliano, si evoca uno scenario da brivido. È una controriforma».
Sull’articolo 18 c’è stata una mediazione faticosa. Inutile?
«L’articolo 18 è stato sfregiato. Il punto chiave è che davanti all’evidenza di icenziamento ingiusto oggi il reintegro del giudice è la regola, domani diventerà l’eccezione. Come dice Monti, con mix di onestà intellettuale e cinismo: un’ipotesi estrema assai improbabile. Quindi il mondo del lavoro, nel pieno di una crisi devastante, viene privato di un fondamentale strumento di difesa».
Confindustria però lamenta una retromarcia. E chiede più flessibilità in entrata.
«Confindustria e la destra vogliono stravinceree».
Le imprese dicono. Troppi vincoli per investire qui.
«L’indicatore più eclatante della debolezza italiana è l’essere fanalino di coda degli investimenti pubblici e privati u ricerca e innovazione. Pensare di diventare competitivi tagliando il costo del lavoro e mettendo la museruola ai sindacati non è solo socialmente iniquo ma anche economicamente demenziale. Ed è vergognoso chiamare in causa i giovani».
Il governo vuole ridurre il numero di contratti atipici, evitare abusi e creare una disciplina uniforme. Non la convince?
«Non mi sembra che la “progressista” Fornero abbia bonificato alcunché. E sugli ammortizzatori sociali c’è un’altra svolta regressiva. Prima con cig e mobilità si manteneva un filo rosso con l’azienda nel segno della solidarietà, parola chiave dell’intera architettura. Oggi si parla di assicurazione, brutta parola: il lavoratore esternalizzato dalla vicenda produttiva».
C’è stata un’accelerazione, almeno apparente, sulla legge elettorale. Che ne pensa dei punti di intesa finora raggiunti dalla maggioranza? «Le carte che circolano nei corridoi del Palazzo mostrano un modello di riforma elettorale fondato sulla salvaguardia del trasformismo e del gattopardismo. C’è chi disegna scenari non per affrontare la crisi della democrazia, ma per rendere politica e istituzioni luoghi sempre più sterilizzati rispetto al conflitto sociale».
In che modo e chi li vuole sterilizzare?
«Se saltano i due principi fondamentali difesa del pluralismo politico-culturale e del principio di coalizione spariscono i capisaldi che consentono di scegliere in base a valori forti e programmi, in base agli schieramenti. Togliere qualunque vincolo di coalizione vuol dire far vincere comunque la palude».
Non sono accuse leggere. Le fa indistintamente a Pdl, Pd e Udc?
«Io non accuso i partiti. Parlo delle bozze che girano. Spero che il Pd non abbia intenzioni così opache. Non si può archiviare la richiesta di oltre un milione di referendari. La nostra reazione sarà durissima». Secondo lei, è possibile rifondare i partiti e ridisegnare il sistema dei rimborsi elettorali?
«Siamo al festival dell’ipocrisia. Con leader che fanno i moralisti senza autocritica: quanti esponenti di partiti centristi hanno ombre di contiguità con la mafia? Senza polemiche, spero si cambi presto la normativa sui finanziamenti ai partiti e si vari un’efficace legge anti-corruzione. Ma la politica genuflessa alle lobby e distante dal bene comune non è la vera questione morale?».
Con il manifestarsi, come dice lei, sempre più chiaro del governo Monti, il filo che lega Sel al Pd è ancora in piedi?
«Sì. Esercitiamo il diritto alla nostra autonomia intellettuale».

Corriere della Sera 8.4.12
Il ritorno dell'impegno. L'ingresso nei movimenti dei giovani incerti
Uno su due ama la politica (non i partiti)
Secondo una ricerca Swg il 44 per cento degli under 34 sogna la rivoluzione
Il 15 per cento ha intenzione di organizzare proteste
«È la precarizzazione intellettuale che ha cambiato tutti gli equilibri»


La paura e l'incertezza sul futuro sono servite da motore. Una spinta ad «abbandonare una concezione individualistica e abbracciare battaglie che possano riguardare tutti». Il bene comune torna in primo piano, spiega Cristina Pasqualini, ricercatrice dell'Università Cattolica. Già perché questa generazione di ventenni che i sociologi chiamano «alfa» o «mobile» ha visto i fratelli maggiori scontrarsi con un mondo del lavoro esclusivo che li ha costretti a una migrazione continua da un posto all'altro. Con contratti che spesso li hanno sfruttati, sottopagati o lasciati a casa. Come quel milione di ragazzi che, secondo i dati di ieri dell'Istat, hanno perso il posto negli ultimi tre anni. Il premier Mario Monti ha ribadito che «lo scopo principale della riforma è porre rimedio alla disoccupazione giovanile». A loro rimane una consapevolezza: «Per la prima volta dal Dopoguerra a oggi non arriveremo mai ad avere lo stesso stile di vita dei nostri padri». Così vorrebbero cambiare, migliorare. Costruire una società più armonica, dove non ci siano diseguaglianze marcate.
Quindi ritrovano nell'impegno in prima persona una necessità. Un ritorno di protagonismo sulle scene, spiega Enzo Risso direttore scientifico di Swg, cominciato nel 2008, quando «la precarizzazione esistenziale è diventata una realtà che ha cambiato tutti gli equilibri. Così siamo di fronte a prodromi». E se il 44% degli under 34 vorrebbe ribellarsi o sogna la rivoluzione, il 15% vuole organizzare movimenti di protesta. Mentre uno su due vuole impegnarsi in una politica lontano dai partiti. Jacopo Lanza a vent'anni ci è riuscito. Milanese di nascita, si è trasferito a Roma per entrare nella segreteria nazionale dell'Uds, Unione degli studenti. Una sorta di sindacato che ne difende i diritti. «Viaggio in tutta Italia, incontro ragazzi, cerco di capire le problematiche e come affrontarle». Per lui la parola impegno, «significa responsabilità». E si rammarica, quando «non c'è costanza. In molti hanno cominciato una battaglia per abbandonarla e concentrarsi sul lavoro o sullo studio». Così ha fatto Iacopo Bissi. Al terzo anno di Giurisprudenza alla Statale di Milano, ha accantonato la politica per «disillusione». Cercare di cambiare il Paese «senza interlocutori seri nella classe dirigente, è davvero difficile». Il suo impegno, però, non è finito. «Non sono andato all'estero perché voglio fare il magistrato. Questo sarà il mio apporto alla società».
Per chi sceglie di rimanere, c'è chi decide di partire. Daniela Deserio, 29 anni, fa parte di quel 37% che si impegna nelle associazioni. Tre settimane e prenderà un aereo per Khartoum, Sudan, dove l'anno scorso ha lavorato sei mesi nell'ospedale di cardiochirurgia di Emergency, il Salam Centre. La definisce «un'esperienza vagamente eccezionale». E c'è da crederci. In Africa Daniela ha conosciuto giovani cooperanti britannici, neozelandesi, serbi, «persone con altri indirizzi mentali con le quali è scattata un'intesa istantanea». Ragazzi che sentono «la missione», certo, ma s'impegnano a dare un contributo concreto. Questo ritorno al protagonismo, dunque, non riguarda solo l'Italia. Perché nell'era della globalizzazione quello che accomuna sono anche le idee e la voglia di cambiare. Dagli indignati spagnoli al movimento Occupy presente negli Stati Uniti, in Russia e in Inghilterra. Passando per la Grecia. All'estero si sono riempite le piazze, sono state montate le tende. E in Italia? «In questi ultimi anni c'è stata una forte mobilitazione studentesca, così come una risposta sindacale alle problematiche del mondo del lavoro. Ci sono state manifestazioni molto partecipate, come quella di Roma il 15 ottobre con 200 mila persone. Peccato che poi né la polizia né il movimento sia riuscito a controllare la piazza». Lo spiega Donatella Della Porta, professoressa di Sociologia all'Istituto Universitario Europeo. Per lei ci sono diverse ragioni per cui non è nato un Occupy italiano. «Non è mai stato trovato un momento unitario in cui gli obiettivi di tutte le proteste riuscissero a diventare uno e comune a tutti. Poi non c'è stato un crollo drammatico nelle possibilità economiche, come non sono state applicate, politiche di austerity così minacciose. E infine l'arrivo del governo Monti ha trovato d'accordo tutte le forze politiche, lasciando i movimenti senza un vero interlocutore. E un esecutivo tecnico è più difficile da attaccare».
Qualcuno ci ha provato. A Milano, il 31 marzo, ha sfilato il primo corteo contro il governo Monti. Tra i diecimila partecipanti c'era anche lei: Alice Pennati, 25 anni, di Lecco. I lunghi capelli scuri le incorniciano il viso dalla carnagione chiara. Gli occhi azzurri hanno uno sguardo intelligente, vivo. Studentessa fuorisede all'Università Statale in Scienze Internazionali, si divide tra i libri, un lavoro in una libreria del centro di Milano («mi mantengo da sola») e la militanza: fa parte del collettivo Labout e del centro sociale Zam. Quel sabato di due settimane fa è scesa in piazza. «Ci hanno già rubato il futuro, ma non ci possono prendere per stupidi». La fa arrabbiare una riforma del Lavoro che «dicono essere per i giovani, ma non lo è». Snocciola dati, spiega le ragioni. «La militanza è anche questo: cercare di sensibilizzare le persone sui temi che riguardano la nostra società. E provare a mettersi in gioco». La grinta c'è. Anche la consapevolezza che i ragazzi italiani «si fanno scivolare le cose addosso, non hanno troppa voglia di reagire». Chi sicuramente non abbandonerà la strada che ha scelto è Stefano Facchini. Lui vive la fede come militanza attiva. Tanto da arruolarsi tra le fila di Comunione e Liberazione, il movimento fondato da Don Giussani, che ha registrato un aumento significativo degli aderenti. «Il piacere a poco prezzo non mi interessa, sono per la soddisfazione totale; per questo partecipo all'esperienza di CL, grazie alla quale Cristo è divenuto sempre più la risposta alle mie esigenze più profonde», spiega Stefano, 24 anni. Tra poco si metterà in tasca una laurea in Astrofisica e partirà per un Phd (dottorato) all'estero. «Il mio lavoro non può prescindere dalla partecipazione al movimento: da futuro scienziato voglio condividere il continuo stupore di fronte all'ordine inimmaginabile dell'universo».
Si riparte da qui. Dalla partecipazione di una generazione che vuole cambiare un futuro incerto e non garantito. Non si fidano della classe dirigente, tanto che il 41% crede che se avesse uno spazio governerebbe meglio. Intanto però, continua la ricercatrice Pasqualini, «si stanno inventando un modo nuovo di fare politica». E aggiunge Risso: «Credono nel rinnovamento del sistema, perché il capitalismo in questa forma non ha funzionato. Vogliono una società più armonica». Ecco la generazione «alfa».

il Fatto 8.4.12
Ronde, razzismo e Padania. Perché dovremmo rimpiangerli?
L’eclisse leghista non merita l’onore delle armi
Basta la parola dei suoi manifestanti: “Buffoni”
di Furio Colombo


Fa tristezza pensare alla Lega, come è finita. Ma non per il destino infelice di Bossi che cade dal trono. Fa tristezza pensare che questi della Lega, dopo l’immenso danno arrecato all’Italia e il cospicuo guadagno che alcuni di loro ne hanno ricavato, hanno dovuto dirsi da soli quello che sono. Buffoni, imbroglioni, traditori, gridava la folla degli ex elettori in strada. E dentro, dove vi descrivono abbracci e pianti fra guerrieri che si salutano, potete immaginare che cosa – in realtà – si sono detti, che carte hanno sventolato, quali riguardi hanno dedicato al vecchio capo che se ne andava. So benissimo che le urla di strada volevano essere di sostegno. Ma nella confusione le parole erano quelle.
NESSUNO può dire, con un minimo di faccia e di decoro che si tratta di una sorpresa e chi l’avrebbe mai detto, quei bravi ragazzi. Forse non si sapeva niente del Trota, dalla scuola al Consiglio regionale Lombardo al trofeo calcistico delle squadre dei popoli oppressi? Forse non ci avevano parlato loro stessi di Monica della Valcamonica che provvede a truccare le elezioni per aprire la strada al Figlio? Forse ci avevano ipocritamente nascosto il loro linguaggio da statisti? Borghezio, che è sempre rappresentante parlamentare della nostra Repubblica in Europa, ha mai negato, “cazzo” (sto citando suoi importanti discorsi politici) “se la vadano a prendere in culo e gli immigrati vanno buttati in mare” di esprimersi e com-portarsi come Lega comanda? Riconosciamo ciò che dobbiamo riconoscere. La Lega non ci ha mai mentito.
Durante la guerra contro Gheddafi i disperati fuggivano cercando soccorso in Italia e Bossi ha detto subito, a tutti i nostri microfoni “foera di ball”. Era ministro, quasi vice premier. Ed era ministro (dell’Interno) anche Maroni, quello che adesso invoca la pulizia. E volete che Marina militare e Forze dell’ordine della Repubblica nata dalla Resistenza non ne abbiano tenuto conto nei crudeli e ripetuti respingi-menti in mare, prima fatti insieme a un Paese dispotico e senza diritti umani, la Libia, poi con la complicità di tutti coloro che hanno fatto finta di non sapere, col risultato di lasciar morire in mare uomini, donne, bambini, giovani donne incinte cui spettava il diritto d’asilo secondo le leggi del mondo?
CONGRATULAZIONI agli uomini della Lega, d’accordo. Hanno compiuto, tra l’indifferenza di tanti, ciò che avevano promesso, e hanno incassato il dovuto e più del dovuto – il tutto girato alla famiglia – perché intanto consentivano a Berlusconi di governare e gli votavano leggi ad personam da avanspettacolo. Ma il più vergognoso discredito (e condanna dell’Alta Corte di Strasburgo per violazione dei diritti umani) a carico della Repubblica italiana, questo è il dono della Lega al Paese che l’ha accettata.
Ci sono due domande che tormenteranno chi ci seguirà nella storia. La prima è: ma c’era la Costituzione. Come hanno potuto i leghisti volere e ottenere la legge sulle ronde, le classi separate per i bambini non italiani (dunque in regime di apartheid) le impronte digitali per i bambini rom, il “pacchetto sicurezza” che assegna poteri del tutto arbitrari ai sindaci e sospende le garanzie fondamentali ai cittadini immigrati; centri di identificazione ed espulsione dove si può restare rinchiusi un anno e mezzo senza difesa e senza diritti nelle condizioni più disumane; il federalismo fiscale, penosa invenzione senza numeri e senza copertura di spese come mega manifesto elettorale da esibire, a spese di tutto il Parlamento in ogni manifestazione leghista; l’approvazione quasi unanime nelle due Camere di un Trattato di amicizia, collaborazione militare, scambi di basi e di segreti, respingimenti congiunti in mare di profughi e migranti, anche se titolari di diritto d’asilo? Come è potuto accadere senza una rivolta del Parlamento, prima di tutto della sua opposizione ?
La seconda è: ma come hanno potuto, stampa e televisione italiana, sottrarsi al dovere di denunciare all’opinione pubblica un partito che ha oscillato sempre fra il ridicolo (Calderoli con il lanciafiamme), il dileggio aperto alle istituzioni (“Signora, il tricolore lo può mettere al cesso”). E il gesto criminale di dare fuoco di notte ai giacigli di immigrati senza casa accampati a Torino sotto i ponti della Dora? O incendiare un campo rom per presunto stupro mai avvenuto? Per capire questo inspiegabile evento italiano mettete da parte due citazioni da editoriale di grandi quotidiani del 6 aprile. Prima citazione. “Bossi aveva tutti contro ma ha contribuito a scardinare la Prima Repubblica, portando istanze nuove dove prima il Nord era solo una espressione geografica”. (Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera). Avete letto bene, “istanze nuove”. E il Nord di Olivetti, Agnelli, Pirelli, Pasolini, Montale, Visconti, il Nobel Dario Fo, prima di Bossi, era “solo una espressione geografica”. Seconda citazione. “Non lasciano da vincitori ma da sconfitti (Berlusconi e Bossi, ndr). Eppure sono sconfitti a cui va riconosciuto l’onore delle armi”. (Michele Brambilla, La Stampa). La cronaca vuole che la richiesta di onore delle armi (una sorta di funerale di Stato a un vivo) arriva proprio mentre, sempre sincero e privo di imbarazzo, Bossi ha fatto sapere che “è tutto inventato da Roma ladrona e farabutta”, con il consueto linguaggio di statista che “porta nuove istanze”. Ecco perché oggi, nel ricordare furti e ricatti e menzogne e delitti (i morti in mare) della Lega e il suo scempio di diritti umani, è giusto ricordare il mondo giornalistico italiano che ha reso tutto ciò possibile.

La Stampa 8.4.12
Le sospirate lauree
Quell’irresistibile attrazione padana per il pezzo di carta
Vichinghi sì, ma con pergamena al muro
di Marco Alfieri


MILANO Diplomi fuffa, corsi di studio in Svizzera, lauree esotiche comprate con soldi pubblici e magheggi da “tesoriere più pazzo del mondo”. Dalle carte della Procura che indaga sull’uso dei finanziamenti al Carroccio esce (anche) un Francesco Belsito impegnato a staccare assegni per pagare costosi esamifici privati all’estero e soddisfare la fame di status del “cerchio magico” di Gemonio.
Nel crepuscolo leghista sta emergendo il familismo da strapaese dove i figli so’ piezz’e core da sistemare a tutte le latitudini; la logica della fabbrichetta dove non c’è quasi differenza tra i soldi personali del Capo e quelli dell’azienda e tutto tende a confondersi; e poi l’ossessione piccolo-borghese del pezzo di carta da appendere al muro per sentirsi arrivati. E imparati.
Siamo alla sublimazione del modello Cepu. Il che fa specie in un partito che ha fatto della propaganda contro dottori (quasi sempre meridionali) e intellettuali (quasi sempre da salotto) un formidabile cavallo di battaglia. Indimenticabile il Bossi d’antan che liquida il vecchio ideologo alla sua maniera: «Miglio? Una scoreggia nello spazio…». O il leghista posticcio Tremonti che chiude un comizio di Cota lisciando il pelo all’ignoranza padana: «Siamo uomini semplici, non abbiamo tempo di leggere libri…».
In principio sono i trucchi del fondatore. Umberto Bossi, medico. Sulla tessera d’iscrizione al Pci di Samarate si qualifica proprio così, il futuro Senatur. Nelle interviste racconterà di studi alla scuola Radio Elettra, all’università, e di collaborazioni con luminari mai esistiti. Effettivamente a Medicina si era iscritto, a Pavia. Ha fatto anche tre feste di laurea, peccato non si sia mai laureato. Per alcuni mesi esce di casa con la borsa degli attrezzi facendo finta di andare a lavorare all’ospedale Del Ponte di Varese. Ma la prima moglie, la Gigliola Guidali, madre del primogenito Riccardo “il rallysta”, lo scopre e chiede il divorzio.
La Lega delle origini sarà pure una forza anti sistema ma assorbe il provincialissimo clichè dei parvenu che raggiungono potere e consensi ma non lo status sociale del pezzo di carta che in Italia, Paese stratificato su gradi e dottori, resta la convenzione per antonomasia. Lo sa bene la seconda moglie dell’Umberto, Manuela Marrone: ape regina del cerchio magico ma 30 anni fa semplicemente «la signorina Manuela», giovane maestra elementare al Collegio Sant’Ambrogio di Varese.
Va da sé che il figlio Renzo non può che calcare le orme fanfarone del padre. Alla maturità ci arriva al quarto tentativo, di cui tre sostenuti da privatista all’arcivescovile “Bentivoglio” di Tradate. «Sono un perfezionista, amo fare le cose per bene», ironizzerà il Trota. Così bene da volersi laureare all’estero. La cosa nel giro si sapeva. Ma diventa di dominio pubblico con le ultime indagini su Belsito. Dal 2010 Renzo è iscritto in un’università privata di Londra. Soggiorni e retta tutti a carico della Lega, per un costo di 130mila euro.
Eppure il Senatur dice di non saperne nulla. C’è solo l’orgoglio di un papà che come al bar s’imbroda di un figlio che studia economia nella city. In realtà il Trota fa il “vitellone” padano a spese del contribuente, ma fa nulla. «Renzo sta studiando – s’intenerisce».

il Fatto 8.4.12
Partiti, 100 milioni in più
Chiacchiere e quattrini
di Marco Lillo


Il 31 luglio i partiti italiani metteranno le mani sulla penultima delle cinque tranche dei 500 milioni di euro che hanno ottenuto come “rimborso” per le elezioni politiche del 2008. Poco più di cento milioni di euro saranno versati nelle loro casse già traboccanti di denaro con un tempismo scandaloso. Solo un mese e mezzo prima infatti, il 15 giugno, i contribuenti saranno costretti a pagare la stangata dell’acconto Imu. Nonostante lo scandalo della “family”, la Lega potrà mettersi in tasca un’altra decina di milioni di euro da spendere per una quarta laurea finta o per l’ennesima supercar di Riccardino e Renzino Bossi. Anche il Partito democratico incasserà decine di milioni di euro e chissà se qualcuno avrà il coraggio di reclamare la quota stabilita per la componente ex Margherita dall’ex tesoriere Luigi Lusi. Anche a via Due Macelli, nella sede dell’Udc, pioverà una manciata di milioni e a gestirli forse sarà quel Giuseppe Naro che – secondo il racconto dell’imprenditore Tommaso Di Lernia – proprio in quel palazzo a due passi da Piazza di Spagna incassava le mazzette. Ora il ministro della Giustizia Paola Severino ci dice che “il governo è pronto a intervenire anche con un decreto legge sul finanziamento ai partiti” ovviamente però solo “quando il Parlamento lo chiederà”. Ora anche Pier Ferdinando Casini scopre che serve una legge diversa da quelle che ha votato e applicato per decenni. Più di due mesi fa, il primo febbraio del 2012, il Fatto aveva lanciato, con un articolo di Marco Travaglio, una raccolta di firme per riformare il finanziamento ai partiti. La nostra proposta (ignorata allora da Casini e Severino) è ragionevole e non prevede l’abolizione del finanziamento pubblico. È basata su quattro punti, il primo dei quali è: “I rimborsi elettorali non possono superare un certo tetto e devono essere erogati solo a fronte di fatture e ricevute che documentino le spese effettivamente sostenute in ogni singola campagna elettorale”. Questa resta l’unica strada percorribile per evitare che il discredito travolga i partiti e per mantenere una forma di sovvenzione trasparente alla politica. Un Paese che ha un governo dominato dalla lobby delle banche e una maggioranza guidata da Silvio Berlusconi non può rinunciare a cuor leggero al contributo dello Stato alle forze più deboli. Serve però una legge subito, prima del 31 luglio. Altrimenti ben venga un referendum.

Corriere della Sera 8.4.12
Intervista a Pier Luigi Bersani
«Nuove regole in pochi mesi Nessuno si metta di traverso»
Ma il finanziamento serve per evitare populismi

di Maria Teresa Meli

ROMA — Onorevole Bersani, che cosa l'ha spinta ad appellarsi ad Alfano e Casini per promuovere una legge sui bilanci dei partiti?
«Io sono convinto che nei prossimi dodici mesi dovremo affrontare un passaggio drammatico: o saremo in grado di consegnare all'Italia un assetto costituzionale occidentale del nostro sistema politico, riformandolo, o ci arrenderemo a un'eccezione italiana, passando da un populismo all'altro. Siccome il nostro obiettivo è il primo, è chiaro che dobbiamo riuscire ad affermare una democrazia moderna in cui i partiti non rispondano solo ai loro elettori e iscritti. Per raggiungere questo traguardo dobbiamo riuscire a varare una legge seria perché le forze politiche abbiano bilanci certificati e controllati, codici etici, meccanismi trasparenti di partecipazione alla vita interna, regole per le candidature. In questo senso vanno previste anche delle sanzioni, come l'esclusione dai finanziamenti ed eventualmente anche il divieto di presentazione liste. Noi avevamo presentato per tempo una nostra proposta e ora diciamo "acceleriamo assolutamente", perché i fatti che stanno emergendo sono allucinanti».
Si riferisce alla Lega?
«Sì ma non solo, e in ogni caso c'è un punto da sottolineare: in questi anni siamo slittati verso una personalizzazione talmente accesa, con la costituzione di partiti quasi personali, che, com'era inevitabile, ha portato alla creazione di cerchie ristrette, familismi, corti, sistemi feudatari di vassalli valvassori e valvassini, con imperatori capaci di nominare anche i cavalli. Insomma, in queste condizioni non poteva non prendere piede un sistema opaco. Quando io tre anni fa dicevo che non metterò mai il mio nome sul simbolo non volevo fare demagogia, ma intendevo dire che i partiti devono essere un patrimonio collettivo, quasi istituzionale, non posso essere piegati a una logica personale, che tra l'altro ci ha consegnato una legge elettorale dove sono stati possibili casi come quelli di Calearo e Scilipoti che lasciano esterrefatti. Dobbiamo correggere queste derive e prendere esempio dalle normali democrazie occidentali che non hanno questi fenomeni perché lì i leader sono leader pro tempore, secondo regole che i partiti si danno».
Lei pensa che i partiti italiani abbiano gli anticorpi necessari?
«Assolutamente sì, guardi noi: per esempio, le primarie, che pure sono un meccanismo da migliorare, rispondono proprio all'esigenza di avere un partito, per così dire, all'aria aperta. Lo stesso dicasi per la decisione che abbiamo preso a suo tempo di far certificare i bilanci. Per lo stesso motivo affermo che dopo Bersani ci saranno le primarie, niente cooptazioni, ma meccanismi di partecipazione. La strada è questa e non riguarda solo noi che per primi abbiamo adottato questo meccanismo, dovrà riguardare tutti se vogliamo un sistema trasparente e democratico».
Sarete in grado di fare questa legge o ancora una volta toccherà al governo cavarvi d'impaccio?
«Un minimo comune denominatore tra i partiti per fare una legge sui finanziamenti c'è e ci può essere. C'è tutta la possibilità di lavorare su questo nelle prossime settimane».
Non le sembra di peccare d'ottimismo?
«Voglio dire la verità: io avevo scritto questa lettera dicendo di tenerla riservata e di lavorarci sopra, sono stati Alfano e Casini a dirmi "no, tiriamola fuori e impegniamoci a fare queste cose". Questo significa che la volontà c'è. Immagino perciò che nei prossimi giorni si avvierà una discussione approfondita non solo tra noi tre. Se ci mettiamo seriamente all'opera ce la possiamo fare in poco tempo. Faccio un esempio, nella mia proposta di legge si prevede di mettere a sistema un meccanismo di primarie, ma se gli altri non sono pronti, possiamo vedere questa questione più avanti; però sulla certificazione dei bilanci, sulla necessità di inserire una soglia molto bassa per cui bisogna dichiarare i soldi che un partito ha ricevuto, sull'obbligatorietà di pubblicazione su Internet dei nostri bilanci possiamo metterci d'accordo rapidamente».
E poi verrà varato un decreto per fare velocemente?
«Per quel che riguarda lo strumento, per me può anche essere un progetto di legge di pochi articoli, che abbia una corsia ultrapreferenziale. Non escludo nemmeno, una volta stabilito il contenuto, sentito il governo, e, naturalmente il presidente della Repubblica, che ci si possa avvalere di uno strumento straordinario come il decreto. A me interessa la sostanza: in pochi mesi dobbiamo arrivare a una soluzione».
Intanto continuerete a prendere rimborsi senza spenderli tutti per le attività elettorali.
«Vorrei chiarire subito una cosa. C'è già stata una drastica riduzione del finanziamento della politica perché nel 2010 erano stanziati 289 milioni di euro, che diminuendo di anno in anno arriveranno ai 143 del 2013. Inoltre non è più vero che se si interrompe la legislatura continua il finanziamento. Dal 2011 non è più così. Con questa tagliola significa che non sarà più nemmeno possibile che partiti ormai morti ricevano dei soldi. Con queste novità, il finanziamento della politica in Italia diventerà inferiore a quello che è in Germania, in Francia o in Spagna. Ciò detto, è vero che il meccanismo adesso lascia un margine d'ambiguità. Sotto il titolo rimborso elettorale c'è, come negli altri Paesi, un forfait che riguarda il finanziamento dell'attività politica e non solo quello della campagna elettorale. Si può riconsiderare questo aspetto, ma l'importante è essere d'accordo su due punti di fondo. Primo, il finanziamento alla politica da Clistene e Pericle in poi c'è sempre stato nelle democrazie per evitare plutocrazie, oligarchie e dominio. Secondo, è vero che bisogna adeguarsi ai parametri europei, laddove non ci fossimo ancora, ma è soprattutto necessario prevedere un sistema di controllo che ora non c'è. Bisogna dire quali sono le regole, scriverle in una legge e avere qualcuno che le certifichi. Su questo fronte l'Italia adesso non è a posto. Senza certificazione regolare non deve essere più possibile prendere i soldi: i partiti non sono associazioni private per cui possono anche mantenere le famiglie dei loro leader, sono l'ossatura della democrazia».
Che cosa risponde a chi dice che i partiti si sono svegliati solo ora che sono ricoperti dagli scandali? Lo sapete che gli elettori non hanno più fiducia nelle forze politiche.
«Veramente sono due o tre anni che noi del Pd abbiamo elaborato quattro-cinque progetti in materia che ora abbiamo unificato. E voglio essere chiaro: se non riusciamo a risolvere un problema di questo genere ci meritiamo come sistema politico la sfiducia degli italiani. Su questo sconti non se ne faranno. Adesso partiamo, troviamo una soluzione e chi si volesse mettere di traverso se ne prenderà la responsabilità. Facciamo quattro articoli e poi parliamo con la Lega, con l'Idv, con chi sta in Parlamento. Il resto lo vedremo più approfonditamente dopo».
La gente non ha più fiducia nei partiti: perché dovrebbe accettare che vengano finanziati pubblicamente?
«Se vogliamo somigliare alle democrazie europee dobbiamo prevedere che la politica venga finanziata. Altrimenti ci ribeccheremo un miliardario che suona il piffero con tutti che gli vanno appresso».

La Stampa 8.4.12
Il revisore del bilancio Pd: “I contanti da usare solo per caffè e francobolli”
«Le spese devono essere tracciabili e gli acquisti verificati come in azienda»
Fedele: “Così si evitano pasticci”
di P. Bar.


Diciamolo chiaramente: se i revisori dei conti di Margherita e Lega avessero fatto davvero il loro dovere i pasticci che poi sono usciti sarebbero stati scoperti prima». Aurelio Fedele è partners della PriceWatherhouseCoopers, una delle più importanti società di revisione contabile a livello mondiale. In Italia conta 3000 dipendenti e, tra l’altro, è incaricata di effettuare la revisione dei conti della Banca d’Italia. Ed è proprio alla «PwC» che si è rivolto il Partito democratico, unica forza politica in Italia che ha deciso autonomamente di certificare i propri bilanci.
Dottor Fedele, quali sono le condizioni per poter certificare il bilancio di un partito?
«Innanzitutto diciamo che i partiti sono tenuti a depositare i loro bilanci alla Camera per poter ottenere i contributi elettorali. Al deposito del bilancio si accompagna la relazione dei revisori, che al contrario di quello che si legge in questi giorni sui giornali, non è un passaggio formale ma sostanziale. Quello che è mancato nelle vicende che hanno coinvolto la Margherita ed ora la Lega è stato proprio il ruolo dei controllo che è stato pari a zero».
Come funziona la revisione dei conti di un partito politico?
«Come prima cosa il partito si deve dotare di procedure interne molto rigide innanzitutto sulla tracciabilità dei movimenti: tutti i flussi devono essere registrati, cioè devono obbligatoriamente passare dalla banca attraverso bonifici o assegni. Niente operazioni per cassa, perché con i contanti è impossibile capire chi è il beneficiario di un pagamento».
Ma le spese in contanti non possono essere azzerate, come ci si regola?
«Sono ammesse solo per le piccole spese, il caffè o i francobolli. Ma stiamo parlando di cifre minime».
E i 50 euro di donazione dell’iscritto?
«Devono passare anche quelli dalla banca».
Altri requisiti?
«Il secondo punto delicato riguarda gli acquisti e le spese. In questo caso le sole fatture e gli ordini di acquisto non bastano, ma deve essere evidente la documentazione di acquisto, ovvero bisogna dimostrare che una determinata merce è stata effettivamente ordinata e consegnata, che un determinato servizio è stato erogato sul serio. Così come avviene nelle migliori aziende private».
La due diligence sui conti della Margherita ha fatto emergere in dettaglio i primi 13 milioni sottratti dal tesoriere Lusi con questo forte squilibrio tra somme messe a bilancio e spese reali...
«Se i revisori avessero fatto il loro lavoro quelle distrazioni di fondi sarebbero emerse immediatamente. Anche perché, per quello che si è letto, le metodiche erano abbastanza banali».
Nel senso che anche la fattura falsa viene scoperta?
«Si, c’è buona possibilità di scoprirla. E comunque, se ci si imbatte su una spesa dubbia, o su un importo significativo, certamente la richiesta di chiarimenti viene posta non solo al tesoriere ma anche al comitato di tesoreria».
Come vengono fatti i controlli?
«I controlli sono fatti a campione, ma tutte le partite di maggiore importo sono passate al setaccio. Per i partiti parliamo solo di qualche decina di operazioni all’anno, al massimo un centinaio. Mentre nelle società commerciali o nelle banche si parla di parecchie centinaia di migliaia di operazioni di questa portata».
Costa tanto ad un partito fare revisionare il proprio bilancio da una società come la vostra?
«Dipende dalla struttura e dall’organizzazione del partito stesso. In linea di massima si può dire che è come l’Rcauto, si ha l’impressione che costi tanto ma poi quando si verifica il danno si capisce che conviene comunque stipularla. Costa certamente di più scoprire l’ammanco piuttosto che prevenirlo, anche perché al danno economico si associa sempre anche quello reputazionale».

Corriere della Sera 8.4.12
Ora l'astensione tenta un italiano su due
Effetto Lega, cala la fiducia nei politici. E il 40% apre a un partito dei tecnici
di Renato Mannheimer


L e dimissioni di Bossi segnano una svolta per la Lega, ma anche un momento di cesura per l'intero sistema politico del Paese. Secondo alcuni osservatori, siamo di fronte alla fine della Seconda Repubblica. Di certo, quanto sta avvenendo nel Carroccio contribuirà a rafforzare il fenomeno della disaffezione dell'opinione pubblica dai partiti oggi presenti sullo scenario politico e, di conseguenza, ad accentuare il processo di mutamento — anche radicale — dell'offerta politica.
L'esistenza di un trend di allontanamento progressivo dei cittadini dai partiti è mostrata, come si sa, dal continuo diminuire del livello di fiducia nei confronti di questi ultimi che oggi ha raggiunto il 6-8 per cento.
Ma è indicata anche dal crescere costante di quanti si dichiarano indecisi sulla scelta di voto o tentati dall'astensione. Erano il 42% la settimana scorsa e sono giunti oggi al 49%, vale a dire la metà degli italiani. Si tratta di persone di tutte le categorie, con una accentuazione tra gli strati relativamente meno centrali socialmente, come pensionati e, specialmente, casalinghe, tra le quali il tasso di non risposta alla domanda sul voto si avvicina al 70%. Sono persone che dal punto di vista dell'orientamento politico non esprimono una collocazione precisa e tendono a decidere la loro opzione negli ultimi giorni prima del voto.
Proprio questa circostanza apre un ampio mercato elettorale potenziale, simile, per certi versi, a quello che si formò negli anni 90 alla fine della Prima Repubblica, prima dell'avvento di Berlusconi (che, come egli stesso ha dichiarato, ne approfittò con le opportune tecniche di marketing). Infatti, buona parte di questo 50% di elettori oggi indecisi andrà comunque a votare.
Come ha di recente osservato anche D'Alimonte, pure ipotizzando una caduta verticale della partecipazione elettorale effettiva (poniamo che passi dall'80% circa al 70%), resta una quota ampia (nel nostro esempio il 20% dell'elettorato) di attuali indecisi che si recheranno comunque alle urne. Costoro potranno essere più facilmente conquistati da una forza politica che riesca ad attribuirsi un'immagine di «nuovo» e «diverso» dai partiti tradizionali. Che esprima una netta rottura rispetto al modo di fare politica che siamo abituati a conoscere e che gode di una così bassa reputazione tra i cittadini. Ne sono un esempio varie liste presentatesi in occasione delle prossime amministrative. Alcune sono ancora l'espressione di formazioni politiche tradizionali, ma altre costituiscono il tentativo di un rinnovamento nell'offerta politica.
Non c'è dubbio che questo processo di mutamento nella proposta all'elettorato si accentuerà fortemente di qui all'anno prossimo. In questo quadro, va considerata l'idea, sempre più presente, della formazione di «partiti dei tecnici» che godano della positiva esperienza nell'opinione pubblica del governo Monti. Si sa che quest'ultimo dispone, malgrado i provvedimenti per molti versi impopolari che ha varato, di un largo consenso nell'elettorato (attorno al 40-50%). C'è chi pensa, dunque, di proporre la stessa formula alle prossime elezioni (con leader lo stesso Monti o un altro esponente del governo), cercando di fruire dell'ampio mercato elettorale potenziale di cui si è detto.
Infatti, già oggi l'idea di una formazione siffatta risulta attrarre molti consensi. Alla domanda «considererebbe un partito di tecnici per il suo voto?» risponde affermativamente, con diverse gradazioni di intensità, più del 40%. Tra costoro il 14% appare già intenzionato a scegliere questo partito e un altro 30% dichiara comunque di «prenderlo in considerazione». I fautori più convinti sono in misura maggiore giovani (tra gli under 24 addirittura il 57%), laureati, residenti al Nord. Con una ulteriore accentuazione tra gli elettori di centro e di centrosinistra.
Questi dati non indicano naturalmente una intenzione di voto già certa. Si tratta solamente di orientamenti che mostrano però, ancora una volta, l'esistenza di una diffusa voglia di «nuovo» e di «diverso» che condizionerà in modo determinante le prossime elezioni.

l’Unità 8.4.12
Intervista a Federico Sinicato
«Piazza Fontana, nessuno vuole più cercare la verità e la giustizia»
L’avvocato delle famiglie delle vittime lancia un appello: «Dopo 42 anni chi sa i segreti deve parlare». I limiti delle inchieste, le colpe dello Stato
di Rinaldo Gianola


Martedì prossimo la Corte d’assise d’appello di Brescia entra in camera di consiglio per giudicare i fascisti imputati e impuniti della strage di piazza della Loggia, avvenuta il 28 maggio 1974. La storia dello stragismo non finisce mai. È passata una vita dal 12 dicembre 1969, il giorno di piazza Fontana. Siamo ancora qui a chiedere verità e giustizia per i morti, per i familiari delle vittime, per le città offese dalla violenza, per dare dignità alla nostra fragile democrazia. Ma non c’è verità, non c’è giustizia ed è per questo motivo che a quarant’anni di distanza ci dividiamo, litighiamo anche su un film. Perchè quella ferita è aperta e non ci sono memorie condivise, forse non ci saranno mai. Di questo dramma italiano parliamo con Federico Sinicato, 60 anni, uno “specialista” in questo triste campo, avvocato delle famiglie delle vittime di piazza Fontana e di piazza della Loggia. Proviamo a scrivere cosa sappiamo e cosa non sapremo mai dello stragismo che ha insanguinato l’Italia tra gli anni 60 e 70.
Avvocato Sinicato, il film “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana ha provocato divisioni e polemiche nell’opinione pubblica e soprattutto tra coloro che vissero quei fatti. Qual è il suo giudizio?
«Non condivido le polemiche e le accuse rivolte al regista. Dobbiamo prendere il film per quello che è, cioè un “romanzo” che non può essere esaustivo, non sostituisce la verità storico-giudiziaria. Il percorso del regista è romanzato, anche se forse mette troppa carne al fuoco e rischia di spiazzare lo spettatore. Sceglie personaggi simbolo come Pinelli e Calabresi, utilizza Moro e il direttore degli Affari Riservati Federico Umberto D’Amato come paradigmi di una situazione più ampia. Il racconto cinematografico sintetizza nel contrasto tra Moro e Saragat la doppia anima della politica, la fedeltà democratica e quella atlantica, e le “cose sporche” che essa produce».
Dove sta il dna del film?
«Il passaggio chiave è nel confronto, del tutto fantastico, tra il commissario Calabresi e Umberto D’Amato. Il colloquio rappresenta il pensiero del regista. Nella strage di Milano hanno avuto un ruolo i paesi della Nato, i servizi segreti non sono deviati ma sono servizi che “servono”, fanno il loro mestiere a favore di chi comanda in quel
momento, l’area più reazionaria della Dc».
Cosa possiamo scrivere nei libri di storia su piazza Fontana?
«Le sentenze definitive sono assolutorie. Franco Freda e Angelo Ventura se la sono cavata per insufficienza
di prove, Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi assolti. Però sappiamo che la strage di piazza Fontana è stata organizzata dal gruppo dei neonazisti veneti, è stata acclarata, ma troppo tardi, la responsabilità di Freda e Ventura, è stato scritto negli atti che aveva-
no ragione i giudici di Catanzaro che avevano condannato i due e che hanno sbagliato quelli di Bari. E c’erano altre prove, trovate dal giudice Salvini. I neonazisti veneti sono i responsabili della strage, è nata lì, in collegamento con il gruppo milanese La Fenice di Carlo Rognoni, un impiegato della Comit che si mise in malattia proprio alla vigilia della strage. Gli indizi su Rognoni vennero giudicati insufficienti, ma quando il fascista Amos Piazzi si fa esplodere una bomba tra le gambe sul treno, Rognoni entra in clandestinità». Avvocato, cosa manca?
«Mancano il livello della manovalanza, chi mise la bomba, e il livello più alto, i piani superiori all’organizzazione ordinovista. Nessuna indagine ha mai scoperchiato chi stava sopra. Vertici e apparati dello Stato non sono mai stati indagati per strage, qualche volta per depistaggio, ma mai per strage. Abbiamo assistito al contrasto tra Rumor e Andreotti al processo di Catanzaro sulle responsabilità, ma nessuno ha mai detto una parola in più».
Chi mise la bomba?
«Il gruppo di fuoco era formato probabilmente da alcuni nazifascisti veneti vicini a Freda e Ventura di Padova e Verona. Sono circolate molte ipotesi su chi portò la borsa. Oggi si può immaginare che qualcuno possa non esserci più, espatriato in Africa, un paio di sospetti sono rimasti all’oscuro. L’unico pentito è Carlo Digilio, armiere di Ordine Nuovo, è accertata la sua responsabilità, ma beneficia delle attenuanti di legge. Altri militanti della destra eversiva non ci sono più: Soffiati di Verona è morto, è morto anche Fachini un uomo molto pericioloso , Melioli un terrorista di Ferrara che promosse la campagna per la scarcerazione di Freda è morto».
E le coperture, i depistaggi di apparati e funzionari. Lo Stato ha impedito di arrivare alla verità?
«Non è mai stato sollevato il segreto di Stato che, tra l’altro, non può essere opposto nei processi di strage. Ma nei fatti un segreto c’è sempre stato. La magistratura dovrebbe essere messa nelle condizioni di cercare e di sapere cosa cercare. Ma non è stato possibile. Il coinvolgimento di apparati dello Stato si è fermato all’agente del Sid Giannettini Il capo della P2 Licio Gelli ha detto che Umberto D’Amato rispondeva al ministero degli Interni mentre il generale Gianadelio Maletti del Sid era l’uomo di Andreotti, D’Amato avrebbe infiltrato gli anarchici e Maletti usato Giannettini dentro Ordine Nuovo prima di farlo espatriare. Da qui nasce anche l’ipotesi della doppia bomba».
Processi chiusi, sentenze archiviate, chi può dire una parola chiarificatrice? «Chi aveva responsabilità politiche, istituzionali. Paolo Emilio Taviani, esponente prestigioso della dc, combattente della Resistenza, in punto di morte rivelò che il 12 dicembre 1969 l’avvocato Fusco venne spedito di corsa da Roma a Milano per fermare qualcosa di grosso. Non fece in tempo. Per 35 anni un personaggio come Taviani ha tenuto questo segreto. Il sistema politico aveva le antenne orientate su Milano in quei giorni»
Perché?
«Si è parlato di una guerra a bassa intensità combattuta per fermare l’avanzata dei comunisti. Il sistema atlantico nel suo complesso aveva questo disegno e ogni paese lo realizzava come voleva. Da noi sono state usate le stragi. Un fascista condannato per la strage di Peteano disse che l’obiettivo era destabilizzare per stabilizzare».
Non sapremo altro, dobbiamo arrenderci?
«Tre anni fa presentai a Milano una memoria per l’apertura di un nuovo fascicolo segnalando che le indagini del processo di Milano e lo sviluppo delle inchieste di Brescia avevano fatto emergere altre circostanze, indizi che potevano portare alla identificazione di nuove responsabilità del canale politico-terroristico. La Procura ha ritenuto che non fossero novità così rilevanti».
Deluso?
«No, realista. La vicenda di piazza Fontana ha bruciato tutti, nessuno la vuole più toccare a meno che non si presenti qualcuno con una confessione scritta e firmata. Il giudice Salvini ha avuto la carriera bloccata dalle polemiche, i pm sono rimasti con un pugno di mosche. Ci vorrebbe un sussulto da parte di uomini che erano ai vertici del paese, dicano la verità agli italiani».
Un sussulto, davvero lo spera?
«Non c’è più voglia di parlare di piazza Fontana e delle stragi. La spiegazione è semplice. Ci sono personaggi ancora in evidenza che avevano una vicinanza politica con ambienti destabilizzanti del nostro sistema, l’ex Democrazia cristiana è diffusa ovunque. Su piazza Fontana destra e sinistra hanno costruito modelli di interpretazione per semplificare la storia. La verità è faticosa, spesso spiacevole. Meglio la reticenza».
Chi sono gli imputati della strage di piazza della Loggia?
«I soliti. Maggi il regista, Zorzi che procurò l’esplosivo, Maurizio Tramonte di Ordine Nuovo e informatore del Sid, Francesco Delfino un ufficiale dei carabinieri degradato per il caso Soffiantini. L’accusa ha chiesto l’ergastolo per tutti».

l’Unità 8.4.12
L’ultima beffa italiana: gonfiate le cifre dell’aiuto ai Paesi poveri
Trucchetti di bilancio: a legger bene l’ultimo rapporto Ocse i fondi per lo sviluppo contengono voci «aliene». Come la lotta all’immigrazione e il taglio dei debiti
di Umberto De Giovannangeli


Un quadro desolante. Fatto di impegni mancati, di trucchetti di bilancio. Cifre gonfiate con acrobazie contabili per celare le promesse non mantenute ai Paesi più poveri. I dati sull’Aiuto pubblico allo sviluppo diffusi nei giorni scorsi dall’Ocse rivelano che l’Italia resta molto lontana dall’obiettivo di destinare lo 0,7% del Pil alla lotta contro la povertà. Se il nostro Paese registra uno 0,19% un incremento, seppur «sospetto» dall’anno scorso l’intera comunità internazionale compie un preoccupante passo indietro. Il primo dal 1997.
«La percentuale dichiarata dall’Italia non riflette il ritardo del nostro Paese, e fa pensare che il governo abbia conteggiato come Aiuti pubblici allo sviluppo spese che con gli aiuti non hanno molto a che fare, come, ad esempio, quelle per fronteggiare l’arrivo degli immigrati sulle nostre coste a seguito della Primavera araba. Lo 0,19% è una percentuale troppo alta rispetto alla realtà dell’impegno italiano nella lotta alla povertà, che nel 2010 e nel 2011 è stato inesistente. Basti pensare che l’Italia è l’unico Paese Ocse che non ha previsto finanziamenti alle iniziative di lotta alla povertà nel mondo della società civile italiana nel 2012», rimarca Elisa Bacciotti, portavoce di Oxfam Italia. «Ci auguriamo che questo governo inverta la rotta e la nomina di un ministro per la Cooperazione internazionale è un primo segnale positivo e benvenuto. È però necessario che siano presi impegni concreti, a cominciare da un piano di rientro per gli impegni internazionali dell’Italia».
«Questo dato di crescita non deve trarre in inganno», rilancia Luca De Fraia, presidente di ActionAid Italia e membro del gruppo di monitoraggio «AidWatch» della piattaforma delle Ong europee, Concord. «L’aumento è in gran parte dovuto ad aiuti inflazionati dalla cancellazione di debiti contratti da Paesi poveri nei confronti dell’Italia e dai fondi erogati per accogliere i rifugiati. Secondo i nostri calcoli, il volume totale degli Aps andrebbero ridotti del 18%». Il che al netto di queste dichiarazioni fa segnare un +15%
Anche lo scenario del resto dei Paesi Osce non è confortante. A causa dei tagli operati da diversi Paesi, centinaia di migliaia di poveri saranno privati di medicine salvavita e molti bambini non potranno più andare a scuola. Nel complesso, si tratta della prima diminuzione globale degli aiuti registrata dal 1997. Le cifre del’Ocse mostrano che gli aiuti dei Paesi industrializzati dal 2010 al 2011sono diminuiti in termini reali di 3,4 miliardi di dollari e, in percentuale, dallo 0,32 % allo 0,31% del Pil. L’analisi di Oxfam mostra che di questo passo i Paesi donatori nel loro insieme raggiungeranno l’obiettivo dello 0,7% solo tra 50 anni. Per spezzare una lancia a favore dell'Italia, va comunque ricordato che il nostro Paese copre il 14% degli aiuti erogati da Bruxelles nell'ambito della Cooperazione allo sviluppo.
I tagli più pesanti sono quelli di Grecia e Spagna, ma anche Austria e Belgio hanno diminuito i fondi per i Paesi in via di sviluppo. Lo scenario prossimo futuro è ancora più cupo: Spagna e Canada, infatti, hanno già annunciato ulteriori tagli, mentre l’Olanda, che ora supera lo 0,7% del Pil, li sta discutendo. Ci sono anche Paesi virtuosi: Norvegia, Danimarca e Lussemburgo mantengono il loro impegno di dare più dello 0,7% del reddito in aiuti; il Regno Unito è impegnato a centrare l’obiettivo entro il 2013; Germania, Australia e Svezia vedono numeri in crescita.
La capacità di alcuni Paesi di mantenere i loro impegni mostra che tagliare gli aiuti è una scelta politica piuttosto che una necessità economica. «I Paesi ricchi stanno utilizzando la crisi economica come una scusa per voltare le spalle ai più poveri del mondo proprio quando hanno bisogno di sostegno», dichiara Jeremy Hobbs, direttore di Oxfam International. «Con i tagli agli aiuti non si sistemano i bilanci e si perdono vite umane. Gli aiuti, infatti, sono una parte talmente piccola dei bilanci che tagliarli non ha un impatto percepibile sui deficit. È come tagliarsi i capelli per cercare di perdere peso». Si stima che 1.000 euro in aiuti siano sufficienti per salvare la vita di un bambino. Secondo Oxfam, i 3,4 miliardi di dollari che mancano all’appello basterebbero per pagare un intero anno di cure mediche per metà dei bambini che nel mondo sono colpiti dall’Hiv. La spesa globale in aiuti è nulla rispetto ai 1.000 miliardi di dollari destinati dai Paesi ricchi alle spese militari e meno di un terzo dei 400 miliardi di dollari che in tutto il mondo si spendono in cosmetici.L’incapacità dei governi di tener fede agli impegni presi nei confronti dei paesi più poveri è in netto contrasto con i 18 mila miliardi di dollari reperiti per salvare il mondo della finanza dalla crisi del 2008.
Oxfam chiede l’adozione di una Tassa sulle transazioni finanziarie (Ttf) per sostenere le popolazioni colpite dalla crisi: la Commissione Ue ha proposto una Tttf europea che consentirebbe di raccogliere 57 miliardi di euro l’anno. «È cruciale che l’Italia mostri chiaramente il proprio sostegno alla proposta della Commissione creando un consenso più ampio possibile per una tassa che può contrastare la speculazione e raccogliere risorse da destinare anche alla lotta alla povertà globale e ai cambiamenti climatici», conclude Bacciotti. Una tesi, oltre che un grido d’allarme, rilanciati da Save the Children: «Gli aiuti a livello globale – sottolinea Valerio Neri, direttore di Save the Children Italia vengono decurtati proprio nel momento in cui si stanno iniziando a compiere significativi passi avanti per salvare le vite di milioni di bambini. E la crisi che sta attraversando i Paesi donatori non può essere la giustificazione per abbandonare al proprio destino i Paesi poveri: i fondi destinati agli aiuti sono una percentuale irrisoria della spesa pubblica».

l’Unità 8.4.12
Gunter Grass
di Giuseppe Scuto


Fa veramente dispiacere ascoltare il coro di insulti a un vecchio, bravo, onesto scrittore che non si è mai risparmiato. Che dice in fondo, quello che tutti sappiamo: il mondo ha paura perché sa che lo Stato di Israele, che possiede decine e decine di ordigni nucleari, intende attaccare l’Iran che ne starebbe forse producendo uno. Il regime del demente Ahmadinejad scricchiola, ci vuole Israele a dargli una patente di difensore della patria. I palestinesi si distanziano sempre più dal terrorismo, ci vuole Israele che ve li risospinga, straziando, come fa, la striscia di Gaza. La favola di Israele stato moderno democratico, razionale, nasconde la follia religiosa: l’invenzione di un moderno stato confessionale-razziale. Solo gli israeliani possono cambiare questa situazione.

l’Unità 8.4.12
L’appello all’ayatollah Khamenei, tramite Erdogan. La Casa Bianca vuole evitare un’escalation
I negoziati Il 13 aprile prevista la ripresa dei colloqui con Teheran, sospesi dal gennaio del 2011
Obama, messaggio all’Iran: sì al nucleare se è di uso civile
Sì al nucleare iraniano solo se civile. Obama invia un messaggio all’ayatollah Khamenei, alla vigilia della possibile ripresa dei negoziati. La Casa Bianca vuole congelare il rischio di un conflitto in un anno elettorale.
di Marina Mastroluca


Pronto ad accettare un programma nucleare civile se l’ayatollah Khamenei dimostrerà che davvero non vuole armi atomiche, come ha affermato pubblicamente. È il messaggio che il presidente americano Obama ha inoltrato alla Guida suprema iraniana, tramite il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, in visita in Iran la scorsa settimana in Iran. Due ore di colloquio, a margine del summit di Seoul: in questa circostanza che il capo della Casa Bianca avrebbe discusso con il primo ministro turco che cosa riferire ad Ali Khamenei, secondo quanto riferisce il Washington Post.
Obama ha fatto un esplicito riferimento al discorso pronunciato da Khamenei alla tv di Stato nel febbraio scorso. «La nazione iraniana aveva detto l’ayatollah in quella circostanza non ha mai cercato di possedere armi nucleari né mai lo farà... La Repubblica islamica considera il possesso di armi nucleari un grave peccato».
Teheran ha sempre sostenuto di volere un nucleare esclusivamente civile, ma non ha mai garantito la trasparenza necessaria a rassicurare il resto del mondo sulle sue reali intenzioni. Il messaggio di Obama è un invito a passare dalla consueta retorica ad un impegno concreto e verificabile sulle finalità del programma nucleare iraniano, mettendo in chiaro che il tempo stringe.
Il 13 aprile prossimo dovrebbero riprendere i colloqui, sospesi dal gennaio 2011, tra l’Iran e il cosiddetto «5+1» (i 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania). Non è ancora stato definito il luogo, inizialmente si pensava ad Istanbul, ma Teheran ha suggerito invece l’Iraq o la Cina: un’incertezza che gli Stati Uniti interpretano come il segnale che l’Iran non ha ancora definito la propria strategia negoziale e sta tergiversando.
Dalla sospensione dei colloqui lo scorso anno il clima internazionale intorno a Teheran si è inasprito e le tattiche dilatorie mostrano la corda. Israele è pronta ad intervenire militarmente per cancellare i siti nucleari iraniani, una determinazione che si è rafforzata dopo il rapporto Aiea del novembre scorso. Per la prima volta l’Agenzia Onu per l’energia atomica ha riconosciuto che «l’Iran ha condotto attività rilevanti per lo sviluppo di dispositivi esplosivi nucleari»: il Paese degli ayatollah sarebbe cioè molto prossimo alla realizzazione di bombe atomiche.
Obama, che affronta un anno elettorale, frena Israele. «Nessuna opzione è esclusa ha detto nel novembre scorso ma la via privilegiata sarà la diplomazia». La Casa Bianca si muove su più livelli. A metà marzo, in occasione della festività del Nowruz, il nuovo anno persiano, Obama ha detto chiaramente che l’«America cerca il dialogo». «Non c’è ragione per gli Stati Uniti e l’Iran di essere divisi». Un appello alla ragione e alla trattativa, accompagnato anche dall’impegno a rafforzare i contatti tra la popolazione iraniana e gli Stati Uniti con la creazione di un’ambasciata virtuale. Segnali di buona volontà accompagnati dall’annuncio di nuove sanzioni petrolifere, contrastate da Cina e Russia, che entreranno in vigore a fine giugno e che rischiano di mettere in seria difficoltà l’economia iraniana.
CARO-PETROLIO
Per Obama è un passaggio rischioso: la possibilità di un rialzo del prezzo del petrolio non è solo teorica ma lo sarebbe di più con un conflitto e già adesso il caro-benzina si ripercuote sulla sua campagna elettorale. Il vice-presidente Biden non ha nascosto che, più che dai candidati repubblicani, Obama potrebbe sconfitto eurozona a parte da «qualcosa che dovesse succedere in Medio Oriente».
La Casa Bianca punta a far scendere la tensione, per ragioni politiche e di portafoglio. Se Teheran accettasse un negoziato credibile, si allontanerebbe il rischio di un’escalation militare. Al contrario, di fronte ad un muro contro muro, l’amministrazione Usa avrebbe gioco a far valere le sanzioni, che implicano ritorsioni economiche sui Paesi che non dovessero adeguarsi. Ci sarà tempo per arrivare alle presidenziali Usa e poi si vedrà.
Nel suo messaggio, Obama non ha specificato se si aspetta che Teheran rinunci all’arricchimento diretto dell’uranio, ipotesi già respinta in passato e cruciale per il negoziato. Israele ha già detto di non essere disponibile ad accettare nulla di meno. Per il premier Netanyahu le condizioni all’Iran devono essere chiare: «Cessare ogni attività di arricchimento dell’uranio, portare il materiale arricchito fuori dall’Iran e ridimensionare il laboratorio sotterraneo di Qom».

Corriere della Sera 8.4.12
«Il premier in Palestina, questo è un buon segno»
Abu Mazen: vogliamo che l'Italia sia equa e leale
di Francesco Battistini


RAMALLAH (Cisgiordania) — I nuovi uffici non sono ancora pronti. «Peccato, volevo ricevere lì Mario Monti, è da molto tempo che un primo ministro italiano non viene alla Muqata: lo considero un buon segno…». Abu Mazen e il Professore s'incontrano oggi e il presidente dell'Autorità palestinese, di fianco alla stanza che fu d'Arafat («a proposito, ho visto che Suha, la vedova, vorrebbe tornare a Ramallah: può farlo quando vuole, è la benvenuta, le daremo protezione…»), si concede una sigaretta e un pò di curiosità. Berlusconi sulla stampa israeliana invita a non cambiare la politica italiana in Medioriente? Non c'è stupore: «Non vogliamo che l'Italia cambi la sua politica. Ma solo che sia equa e leale. Siete nostri amici e allo stesso tempo siete amici d'Israele? Berlusconi è stato un grande tifoso d'Israele, a volte ha avuto posizioni singolari? Non importa, ci va bene quest'abilità italiana d'essere amici d'entrambi, perché può fare molto. Ma ora si dovrebbe guardare dov'è la giustizia. Vi chiedo: siete d'accordo o no con quel che fanno i coloni nei Territori? Siete per il diritto dei palestinesi a costruire un loro Stato? Siete con Israele nel suo sforzo per mantenere la sicurezza? Vi siete sempre pronunciati per il ritorno ai confini del '67? Okay: come potete mettere in pratica questi slogan? A chi ha torto, ora bisogna dire che ha torto. Sarei stato felice se qualcuno, Berlusconi o qualcun altro, m'avesse detto: Mr Abu Mazen, stai sbagliando. Nessuno l'ha mai fatto. Obama non mi ha mai rimproverato un solo errore. E allora bisogna essere leali. Non nell'interesse mio, ma della pace, della regione e anche d'Israele. Perché se c'è pace, c'è salvezza anche per Israele».
Se si vuole la pace, però, ci si deve anche confrontare. Quando siederà di nuovo a un tavolo con Netanyahu?
«La correggo: noi non vogliamo alcun confronto con Israele. Vogliamo parlarci. Un incontro con Netanyahu è in agenda…».
Quando?
«In queste ore, ho mandato una lettera al primo ministro e ad altre due personalità israeliane, la prima dopo tanto tempo, per vedere se c'è almeno una reazione su quel che possiamo fare. Ma la mia è un'Autorità senza autorità, una sagoma vuota, perché non si vuole trovare alcuna soluzione. Tutto è in stallo. Nulla si muove. Noi vogliamo andare al negoziato, ma su basi autentiche e legali. Niente di più. Non vogliamo inventarci altre basi, rispetto a quelle fissate dalla legittimazione internazionale. Che sono il ritorno ai confini del '67 e uno scambio concordato. E' molto semplice. E se si negozia, gl'israeliani devono smettere di costruire sulla nostra terra. Loro la considerano terra contesa? Ok, stiamo fermi finché non troviamo una soluzione - dov'è la nostra terra, dov'è la vostra - e poi tracciamo una riga. Loro, invece, ogni giorno loro hanno progetti, costruzioni dappertutto. E non vogliono riconoscere la soluzione dei due Stati».
Israele dice che basterebbe riconosceste l'ebraicità del loro Stato…
«Dice questo e altro. Pone precondizioni. Dalla pace di Oslo, e fino a due anni fa, nessuno aveva mai fatto cenno a questa cosa dello Stato ebraico. Adesso non fanno che ripeterla. Dal '93, riconosciamo Israele e il suo diritto d'esistere. Ora loro cambiano il tavolo della trattativa. Se vogliono cambiare nome, natura, qualunque altra cosa, non è affar nostro. Che significa, poi, Stato ebraico? E chi è più israeliano? Un ebreo che vive all'estero da sempre, in un Paese lontano, o un arabo o un druso che vive da decenni in Israele?».
Non sembra che Netanyahu si preoccupi molto delle vostre posizioni. Il suo problema adesso è l'Iran. Per vicinanza geografica, è anche un problema vostro…
«Noi siamo contrari al nucleare di chiunque, in questa regione. Se poi America e Israele vogliono attaccare Teheran, non è affar nostro. Abbiamo altre cose cui pensare».
Quindi, continuerete con la vostra intifada diplomatica per il riconoscimento all'Onu?
«Ma perché parla d'intifada? Non abbiamo dichiarato guerra a nessuno e finché io sarò qui, non si parlerà più di un'intifada con le armi. La cooperazione per la sicurezza con gl'israeliani si manterrà. Il nostro è un tentativo diplomatico. Se devo lamentarmi, lo faccio con Dio o con la più grande istituzione del mondo, l'Onu. Vogliamo solo dire al mondo che siamo sotto occupazione, unico Paese al mondo, e vogliamo uscirne. Se all'America questo non piace, non è affar mio: ci hanno chiesto una pausa fino a fine anno, ma noi non possiamo stare paralizzati. Se continueremo su questa via, e spero che l'Italia all'Onu ci sostenga col suo voto, dipende solo dagl'israeliani. Prenda Gerusalemme: perché gli arabi e i musulmani non possono visitarla? Se si va avanti così, questa città diventerà solo un posto per ebrei e questo dovrebbe preoccupare sia i musulmani che i cristiani…».
I cristiani sono preoccupati dalla vostra decisione di dichiarare Betlemme «patrimonio culturale palestinese»: quello è un luogo che appartiene al mondo…
«La questione che abbiamo posto all'Unesco non riguarda la Basilica della Natività. Quella è dei cristiani. Ma tutto quello che c'è intorno, la città, è un patrimonio nostro».
Il vostro deficit statale è drammatico: che spazio di manovra avete, sulla scena internazionale?
«Il momento è molto critico. Finché restiamo sotto occupazione, abbiamo bisogno d'assistenza. Ogni mese, gl'israeliani minacciano di sequestrare le nostre entrate fiscali. Soldi nostri che si tengono loro. E' chiaro: se i donatori internazionali smettono d'aiutarci, rischiamo il collasso già dal prossimo mese. L'America, l'Europa. Ma anche i Paesi arabi: alcuni ci aiutano, altri sono riluttanti. Un esempio? Il nostro caro amico Gheddafi. Parlava sempre di solidarietà, ma non ci ha mai dato un penny. E anche i nuovi governanti libici hanno fatto promesse, ma finora nemmeno loro hanno dato un penny».
Le primavere arabe vi cambieranno la vita?
«Forse. Ma ci vorrà tempo per raggiungere la stabilità. Io ammiravo Mubarak, ci ha aiutato molto. Poi il popolo ha deciso di cambiarlo, ne aveva il diritto, e io non ho più chiamato l'ex presidente, anche se avevamo ottime relazioni, perché non voglio interferire negli affari interni egiziani. Però sono appena stato a Baghdad e al Cairo. E l'Egitto, penso, rischia di diventare ancora più instabile dell'Iraq. Anche per Hamas le cose forse cambieranno, ora che hanno tagliato il loro legame critico con la Siria: ho concluso un accordo con loro, un anno fa, e sto ancora aspettando che tolgano le restrizioni elettorali, aggiornino le liste degli elettori con 250mila palestinesi che non sono registrati, ci consentano d'organizzare nuove elezioni… Appena lo faranno, il giorno dopo sarò il primo ad andare a Gaza. Noi siamo qui, non possiamo far altro che vedere se Europa e America vogliono creare questo Stato palestinese. Ma adesso. Perché le cose in futuro possono cambiare dappertutto. Chi può dire che una primavera araba non arriverà anche qui?».
E lei ci sarà?
«Se e quando ci saranno le elezioni, io non correrò. Tornerò a casa mia. La stessa casa che avevo prima di diventare presidente. E' a meno d'un chilometro dalla Muqata: guardi, si vede da qui».
Chi erediterà la sua poltrona?
«L'eredità bisogna meritarsela».

l’Unità 8.4.12
Fang Lizhi, l’astrofisco che ispirò i ragazzi di piazza Tiananmen
È morto a 76 anni negli Usa uno degli uomini-simbolo della «rivoluzione mancata» dell’89. Lacrime dei dissidenti: «Furono anche le sue parole a spingere i ragazzi contro il regime»
di Gabriel Bertinetto


Di lui è rimasta famosa una frase, pronunciata in un luogo in cui simili affermazioni potevano costare molto care: «Il marxismo è come un abito usato che dovrebbe essere messo da parte». Fang Lizhi, scienziato e dissidente cinese morto ieri in esilio negli Stati Uniti, emise quel verdetto quando viveva ancora a Pechino, e stava entrando in rotta di collisione con la dirigenza del partito comunista, al quale era stato a lungo iscritto. Era il 1987, il Paese viveva l’era di effervescenza sociale e culturale che sarebbe sfociata due anni dopo nella straordinaria mobilitazione popolare sulla Tiananmen. Prima che i carri armati di Deng Xiaoping soffocassero nel sangue ogni o speranza di cambiamento.
Fang è spirato all’età di 76 anni nella città di Tucson, in Arizona, dove insegnava fisica. Negli Usa si era rifugiato assieme alla moglie Li Shuxian nel giugn\o del 1990, dopo avere vissuto un anno ospite dell’ambasciata americana a Pechino per sfuggire all’arresto. Informato della sua scomparsa, gli rende omaggio commosso un uomo che condivise con lui le speranze di cambiamento prima, e la fuga oltre oceano poi. Wang Dan, leader universitario e protagonista carismatico della Primavera del 1989, ne parla come del suo "maestro spirituale". «La sua morte è un colpo durissimo per me. Il mio dolore va oltre ogni parola». «Un giorno -continua Wang Danla Cina sarà orgogliosa di lui. Fu per la generazione dell’89 una guida ispiratrice. Svegliò nel popolo la voglia di diritti umani e democrazia».
In futuro, come auspica l’ex-capo della contestazione studentesca, i martiri della Tiananmen saranno onorati e i promotori della protesta avranno i loro riconoscimenti ufficiali. Oggi a Pechino gli eventi del 1989 sono ancora tabù, e nessuno di coloro che vi parteciparono dalla parte del popolo è stato riabilitato, anche se la necessità di riforme politiche viene prudentemente evocata sempre più spesso da leader politici di primo piano. Chi si oppone apertamente allo strapotere del partito comunista, chi denuncia abusi e violenze di regime, chi rivendica in maniera troppo esplicita la libertà di parola e di organizzazione politica, paga con il carcere.
Fang Lizhi negli anni ottanta era un luminare della ricerca nel campo dell’astrofisica. La fama professionale e i meriti accademici gli consentivano di esprimersi pubblicamente con notevole spregiudicatezza. Nel 1986, in odore di eresia, asserì senza mezzi termini che la scienza doveva svilupparsi indipendentemente, senza essere assoggettata ai dogmi della teoria marxista.
Nel gennaio del 1989 ebbe il coraggio di scrivere una lettera al numero uno Deng Xiaoping, reclamando la scarcerazione di Wei Jingsheng, che era stato arrestato dieci anni prima per l’attività svolta nel cosiddetto «muro della democrazia». Non ebbe risposta, e Wei rimase in prigione ancora molti anni, ma Fang aveva spezzato le catene della paura sollevando questioni che pochi avevano l’ardire di toccare.
Deng era allora il beniamino dell’Occidente, per le sue iniziative economiche fuori dagli schemi dell’assoluto statalismo dirigista. Il mondo doveva accorgersi pochi mesi dopo che le uniche aperture di Deng si limitavano al mercato, mentre sul terreno politico era ponto a difendere il monopolio di potere comunista con ogni mezzo.
Fu Deng ad accusare Fang di agire per conto di «forze straniere» e a coniare a suo danno l’epiteto di «mano nera» della rivolta giovanile. Se non fu il regista occulto della contestazione di piazza, Fang fu certamente con le sue prese di posizione a favore dei manifestanti, una fonte preziosa di incoraggiamento. Rivolgendosi a un uditorio studentesco, li ammonì un giorno a rendersi conto che la democrazia è un movimento che «nasce dal basso e va verso l’alto» e non viceversa. Un modo per metterli in guardia verso la possibilità che le loro proposte potessero trovare grandi appoggi ai piani superiori del partito.

La Stampa 8.4.12
Jerry, il boia diventato abolizionista
Ha eseguito 62 condanne in Virginia, poi si è pentito: “Sono un assassino, nessuno mi ha punito”
di Paolo Mastrolilli


Jerry Givens ora fa il camionista ed è impegnato nella campagna per l’abolizione della pena di morte Ha scritto un libro sulla sua esperienza «Another day is not a promise»

«Quando tiravo la leva ero fuori di me. Non dimenticherò mai l’odore di carne bruciata»"
«Ho tolto tante vite e non posso tornare indietro. Ma mi dico “Puoi salvarne altre, a milioni”»

Sono un assassino, dice Jerry Givens, e nessuno mi ha mai punito. Ho ammazzato 62 persone, e mi hanno pure pagato. Mi ha pagato lo Stato, i contribuenti, perché di mestiere facevo il boia. Nel momento di premere il bottone mi sentivo come un drogato quando si inietta la dose, ma poi mi vergognavo così tanto, che a mia moglie e ai miei figli non ho mai raccontato la verità. Ora sono pentito, ma non ho rimorsi, per una sola ragione: so che Dio mi aveva messo laggiù per un motivo, e per un motivo preciso mi ha fatto uscire. Devo fermare la pena di morte.
Storie così non se ne sentono spesso, perché in genere i boia preferiscono restare anonimi. Qualcuno non regge al peso del rimorso e si suicida, come hanno fatto a New York Dow Hover e John
Hulbert. «Sono stanco di ammazzare gente», disse Hulbert, prima di spararsi. Invece Jerry Givens, 59 anni, ne è venuto fuori, e ora vuole raccontarci la sua vita con un libro intitolato Another day is not a promise. Era nato in una famiglia povera della Virginia e aveva perso il padre. Da giovane vide l’omicidio della ragazza a cui aveva appena chiesto di ballare: una lite, qualcosa. Le spararono, e si ritrovò il suo sangue tra le mani. Andò a lavorare in una piantagione di tabacco, ma lo licenziarono. Così fece domanda per diventare secondino: il posto giusto - pensò - per un armadio nero come me. Così giusto che gli chiesero di entrare nella squadra delle esecuzioni, straordinario per arrotondare lo stipendio: «Allora credevo che la pena di morte fosse un deterrente: se sai che ti uccidono, non uccidi. E poi in Virginia la pena di morte era sospesa. Accettai».
Ma la pena di morte tornò in vigore, e il 10 agosto del 1982 si trovò davanti al suo primo condannato. Si chiamava Frank Coppola, un ex poliziotto che aveva violentato e ucciso. «C’era ancora la sedia elettrica. Faceva caldo, nel sotterraneo. Frank era l’unica persona tranquilla in quella stanza. Alzò i pollici per dire che era pronto, e io feci partire la scossa. Potevi vedere il fumo e sentire l’odore della carne bruciata. Quell’odore si era piantato nelle mie narici, anche quando ero tornato a casa. Pensavo fossero i vestiti. Li lavai: niente. Era ancora là. E poi, quando mia moglie cucinava qualcosa, tornava».
Jerry è rimasto per 17 anni a capo dell’execution team della Virginia. Ha ucciso in totale 62 condannati, fra cui casi celebri come quello di Joseph O’Dell, che si professava innocente e ricevette una richiesta di grazia anche dal Papa. È passato dalla sedia elettrica all’iniezione letale: «Mi mandarono in Texas a imparare, perché nessun medico voleva partecipare». Dall’istante in cui la condanna diventava esecutiva, i detenuti erano con lui: «Li accompagnavo a vedere per l’ultima volta la madre, la moglie, il figlio. Terribile. Li portavo a fare la doccia. Alcuni piangevano sotto l’acqua, altri scherzavano: meglio andare in Paradiso pulito. Poi pregavo per loro, anche se non volevano». Ogni volta provava la stessa sensazione: «La chiamavo “executioner high”, come uno stato adrenalizzato che mi consentiva di uscire dalla realtà, mentre abbassavo la leva o rilasciavo il cocktail letale di farmaci. Dovevo trasformarmi per riuscirci, dovevo eliminarmi. Quella trasformazione poi restava li, poteva durare per settimane. Credo che mia moglie la notasse, ma non potevo spiegarla».
Nel 2000 arrivò la liberazione. Jerry comprò un’auto per uno spacciatore di droga, che conosceva da quando erano bambini. Dice che era innocente, ma lo condannarono per riciclaggio e perse il posto di secondino. Da allora guida camion e si batte contro la pena di morte: «Dio mi ha detto: non ti preoccupare, vai fuori a salvare anime. Hai preso 62 vite, ma ne puoi salvare a milioni».

La Stampa 8.4.12
Nel 2011 almeno 676 esecuzioni


Cina, numero segreto
Secondo il rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel mondo nel 2011, la Cina «è il Paese che ha messo a morte più persone, più che il resto del mondo messo assieme». I dati però sono considerati segreto di Stato e non si possono avere cifre precise.

Iran, 360 giustiziati
L’Iran, a parte la Cina, è il Paese che ha eseguito più sentenze capitali nel mondo. Amnesty International ha anche denunciato un alto numero di esecuzioni segrete, nelle carceri, che farebbero raddoppiare la cifra pubblicata ufficialmente.

Arabia Saudita, 82
È il terzo Paese per condanne eseguite nel 2011, quasi il doppio che negli Stati Uniti (43). Al terzo posto c’è l’Iraq, con 68 esecuzioni. Al quinto lo Yemen, con 41. La gran parte delle condanne alla pena capitale si concentra in Medio Oriente.

Corriere della Sera 8.4.12
Una femminista fuggita dal marito alla guida del Malawi

di Michele Farina

Con la morte di Bingu wa Mutharika la sua ex delfina (diventata scorfana agli occhi del capo) ha fatto bingo: Joyce Banda, combattiva attivista per i diritti delle donne in Malawi, ha giurato ieri sera davanti al Parlamento di una delle capitali più povere (e meno frequentate) del mondo: Lilongwe. Prima decisione: 12 giorni di lutto per il «padre» della nazione.
La salita al potere della sessantunenne Joyce — che ha sposato l'ex giudice supremo (nonché ex capitano della nazionale di calcio) del Malawi dopo aver avuto il coraggio di denunciare (e mollare) il primo marito per maltrattamenti — è una notizia: si tratta della seconda donna capo di Stato nella storia del continente (dopo la liberiana Ellen Johnson Sirleaf), la prima dell'Africa meridionale. Figlia di un poliziotto, ha cominciato facendo la segretaria prima di fondare la National Business Women Association, dando l'esempio in famiglia (la sorella Anjimile fu assunta e poi licenziata dalla popstar Madonna per dirigere le sue scuole femminili, progetto ora naufragato). Deputata dal '99, «amica» del governo cinese, paladina dell'educazione femminile, Banda è stata scelta come vice (e poi scaricata) dal suo boss, il presidente Bingu, che due anni fa la cacciò dal partito togliendole persino l'auto di rappresentanza senza però riuscire a strapparle la carica che le dava la Costituzione. Joyce è rimasta al suo posto, ha fondato un nuovo partito pur estromessa a favore del nuovo delfino, il ministro degli Esteri Peter Mutharika il cui merito consisteva nell'essere il fratello del presidente.
Il cuore del 78enne Bingu ha giocato un brutto scherzo ai famigli. Il presidente è morto di infarto giovedì. Notizia ufficializzata ieri: per 2 giorni la sua cerchia ha manovrato dietro le quinte per evitare l'ascesa di Joyce (come prevede la Costituzione). Giovedì mattina avevano portato Bingu all'ospedale di Lilongwe con un convoglio di parenti e poi su una sedia a rotelle tenendogli il volto coperto, probabilmente per nascondere che fosse già morto, prendere tempo e pilotare una successione «in casa». Piano fallito: prima gli Usa (e poi l'Europa) hanno fatto pressioni perché fosse rispettata la Costituzione. In Malawi (importanza geopolitica zero) l'Occidente conta ancora. Il presidente Bingu negli ultimi tempi aveva mostrato un volto autoritario (20 dimostranti uccisi dalle forze dell'ordine nel 2011, cooperazione ridotta dall'estero). Con Joyce al timone fino al 2014, si apre una stagione più umana. E aiuti assicurati: su 15 milioni di abitanti, il 75% vive con meno di un dollaro al giorno.

La Stampa 8.4.12
La metafisica dell’operaio negli oracoli di Jünger
di Luigi Forte


E’ una vera sorpresa questo libretto di riflessioni e aforismi di Ernst Jünger, Maxima-Minima, curato con gusto e competenza da Alessandra Iadicicco per l’editore Guanda (123 pagine, 12 euro), il cui sottotitolo recita: «Annotazioni su L’operaio », cioè quell’opera fondamentale che lo scrittore pubblicò nel 1932, pochi mesi prima che Hitler salisse al potere.
Era un testo visionario in cui questo anomalo letterato e teoreta, innamorato dell’anticapitalismo romantico, predicava la fine dell’individuo borghese e l’avvento di una nuova «forma», quella del lavoratore, «figlio della terra come Anteo», un «titano» destinato a imporre, con ebbrezza mitica, il dominio planetario della tecnica.
Le cose, come si sa, andarono in modo diverso e lo stesso Jünger dovette ammettere che quel clima di esplosione e anarchia degli anni weimariani che doveva preparare il «nuovo ordine universale» e la civiltà del lavoratore stava degenerando in una folle dittatura. Lui si salvò con il pathos della distanza, la capacità di non lasciarsi coinvolgere che emerge anche dagli spunti aforistici di Maxima-Minima, concepiti come «note a margine» dell’ Operaio, ma pubblicati solo nel 1964.
Qui la prosa del sommo stilista Jünger ha un tono oracolare e sibillino, trasporta in uno spazio di mitiche allusioni, dispensa misteri come la Pizia di Apollo, che la curatrice nella sua bella postfazione dipana e svela a grandi linee. Resta centrale il «tipo» della nuova umanità, l’operaio, con il valore simbolico che ha acquisito nel tempo. Ma, a ben vedere, quell’utopia non si è realizzata: la specializzazione ha tolto al lavoro un possibile carattere di redenzione, la macchina si è resa indipendente dall’uomo tanto che egli – lo ribadì lo stesso Jünger – è diventato «sempre più fungibile e indifferente».
Altro che titano poi, di questi tempi: piuttosto un disoccupato senza speranze. Ma la metafisica dell’operaio spinge a riflettere sulle grandi trasformazioni tecnologiche dell’era moderna, sul mondo come cantiere di frenetiche attività e sull’inabissarsi di ogni nostalgia umanistica.
Ma che fare «quando sta venendo giù una slavina»? Ci saremmo aspettati che Jünger s’aggrappasse con coerenza al suo nichilismo e invece eccolo rifugiarsi in un’accettazione quasi religiosa del destino. Non aveva soluzioni, dopo tanti disastri, solo diagnosi, lucide e spiazzanti.

Corriere della Sera 8.4.12
La formula della creatività: impazienza e niente abitudini
di Giulio Giorello


«Ben più di tutti i tomi di Aristotele» tre «piccole invenzioni» hanno cambiato il mondo, diceva all'inizio del Seicento Francesco Bacone: la stampa, la mussola e la polvere da sparo. Le ultime due venivano dalla Cina, nel caso di Gutenberg, l'inventore della stampa, gli era bastato guardare ben più vicino: l'idea del torchio gli era venuta dai congegni usati per spremere il vino. Semplice trovata, almeno col senno di poi. Come mai non era venuto in mente a nessuno prima?
È l'affascinante enigma di come lavori la nostra immaginazione creativa. Nella sua ultima fatica Jonah Lehrer, firma di Wired e di The New Yorker nonché autore di libri piuttosto fortunati anche da noi (come lo stimolante Proust era un neuroscienziato, Codice edizioni), raccoglie una serie di racconti meravigliosi circa scoperte e invenzioni proprio per capire «come funziona la nostra creatività» (Imagine. How Creativity Works, uscito sia negli Usa sia in Inghilterra). L'immaginazione sarà sì una sorta di lampadina che si accende nella testa, ma tutto ciò non avviene nel vuoto; la luce dell'intelligenza illumina un mondo, e quel che conta davvero è il punto particolare da cui ciò avviene. Lehrer cita David Hume: una innovazione è anzitutto «un modo nuovo di ricombinare» cose note. Tra gli esempi che l'autore elenca per questa sua formula della creatività, «mescolare in modo inedito ciò che ci era familiare», ce ne sono molti che riguardano la nostra pratica quotidiana. Prendiamo il post-it. È emerso grazie all'insofferenza provata da Arthur Fry, ingegnere della 3M, che si trovava sempre impacciato dal tradizionale segnalibro del suo libro di inni da cantare in chiesa: si sfilava via e cadeva per terra, proprio al momento in cui c'era bisogno della pagina appropriata! Fry si era però ricordato di una colla che un suo collega aveva appena sperimentato, così «delicata» che bastava un piccolo strappo per separare due fogli di carta appiccicati. In altri casi occhio attento e memoria pronta possono venire aiutati anche da una piccola dose di ignoranza. Lehrer racconta di come Ruth Handler, della Mattel, trovò la celebre Barbie: guardando in una vetrina di una tabaccheria di una città della Svizzera tedesca e restando colpita da una bambolona dai capelli biondo platino. Non sapendo la lingua, Ruth non si accorse che si trattava di un oggetto sexy per adulti, e ne fece, alle giuste proporzioni, un giocattolo per bambine destinato a rimpiazzare le bamboline di una volta.
Non capita solo con le cose di uso quotidiano. Galileo le sorprese più affascinanti doveva trovarle guardando in quel cannocchiale che un ignoto inventore aveva escogitato. Galileo fu innovatore soprattutto nell'utilizzo dello strumento, che puntò verso i cieli, invece di servirsene su questa Terra. La sua audacia doveva venir ricompensata dalla scoperta dei satelliti di Giove, che sorprese per primo lui stesso. È l'effetto noto come «serendipità» che però non sperimenteremmo mai se non vivessimo in società in grado di accogliere le novità portate da migranti e stranieri. Ogni «formula» della creatività deve includere curiosità e anticonformismo, insieme all'impazienza per ogni vecchia formula che pretenda di imbrigliare l'immaginazione.

Corriere della Sera 8.4.12
Per colpa di una cipolla il mondo è diviso in due
Dietro gli scontri di civiltà ci sono solo banali incomprensioni
di Paulo Coelho


La storia che segue è narrata dallo sceicco Qalandar Scià nel suo libro Asrar-i-Khilwatia (I segreti dei solitari).
Nell'Armenia orientale c'era un paesino attraversato da due strade parallele, chiamate rispettivamente la Via del Sud e la Via del Nord. Un viaggiatore che veniva da lontano un giorno imboccò la Via del Sud, comprò qualche cipolla per sfamarsi, e si diresse verso la Via del Nord. Ma fatti i primi passi, ecco che i bottegai si accorsero che aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Sarà morto qualcuno — disse il macellaio al mercante di stoffe —, hai visto quel povero forestiero che viene da laggiù? Piange!».
I loro discorsi erano giunti alle orecchie di una bambina, la quale, sapendo che la morte è una cosa molto triste, scoppiò in un pianto dirotto. In men che non si dica, tutti i bambini che abitavano lungo quella strada cominciarono a singhiozzare.
Il viaggiatore, spaventato, gettò via le cipolle che andava pelando e se la diede a gambe.
Le mamme, però, angosciate dal pianto inconsolabile dei bambini, vollero sapere che cosa era successo e scoprirono che il macellaio e il mercante di stoffe, e con loro — a quel punto — un gran numero di bottegai, erano tutti addolorati per la tragedia che sicuramente si era consumata lungo la Via del Sud.
Corsero le voci, e siccome il paesino non contava molti abitanti, ben presto tutti i residenti di entrambe le strade si spaventarono per qualcosa di terribile che doveva essere accaduto. I grandi cominciarono a temere il peggio e, preoccupati per la portata della tragedia, decisero di non fare domande per non aggravare la situazione.
Un cieco, che abitava lungo la Via del Sud, e non capiva quale fosse il motivo di tanto scompiglio, si fece forza e chiese a qualcuno che cosa stesse accadendo.
«Perché riecheggiano tanti lamenti in una cittadina che finora è stata un luogo così felice?».
«È successo qualcosa di terribile — gli rispose un uomo per la strada —, i bambini continuano a piangere, i grandi aggrottano la fronte, le mamme hanno richiamato in casa i figli e l'unico viaggiatore che abbia visitato la nostra città in tanti anni si è allontanato con gli occhi pieni di lacrime. Forse la peste ha contagiato l'altra strada».
Nel giro di brevissimo tempo, le voci di una pestilenza mortale si propagarono nei quartieri prospicienti a entrambe le strade. Ma siccome il viaggiatore veniva dalla Via del Sud, gli abitanti della Via del Nord compresero immediatamente che il morbo doveva essere scoppiato proprio lì. Prima ancora del calar della notte, gli abitanti di entrambe le strade avevano abbandonato le loro case per cercare rifugio nelle montagne a oriente.
Secoli dopo, l'antico villaggio che il viandante aveva attraversato mangiando le sue cipolle appare ancora oggi come una steppa desolata. Poco distante sorgono due paesini, chiamati Est e Ovest, popolati dai discendenti degli antichi abitanti del villaggio, che da quel giorno non si sono più parlati. Sono spuntati in seguito miti e leggende che hanno innalzato una grande barriera di paura tra di loro.
Dice lo sceicco Qalandar Scià: «Si può cercare di capire il motivo di un problema, oppure aggravarlo al punto che, da ultimo, non si sa più da dove era cominciato, quanto è grande, come ci ha cambiato la vita e in che modo ci ha allontanato dalle persone che un tempo ci erano care».
Traduzione di Rita Baldassarre © Santa Jordi Asociados,

Corriere della Sera 8.4.12
Émile Durkheim
L'individuo solo nella società estranea
di Giulio Sapelli


E sistono pensatori che definiamo classici perché ci parlano continuamente, ci indicano per secoli la via del discernimento dei fenomeni sociali, ci aiutano a ritrovare la speranza della conoscenza che sola può fondare la fede nella vita. È quello che fa il grande Émile Durkheim, il fondatore della sociologia moderna. A lui ho pensato e ripensato spesso in questi giorni drammatici, i giorni in cui si sono succeduti i suicidi di povere persone, di persone comuni, di persone che non sono sotto i fari della cronaca e vi giungono come mai avrebbero voluto giungervi, dopo una vita di lavoro, di passione, di abnegazione e di sacrifici. E di queste passioni e sacrifici non si parla mai... Solo la morte conferisce alle loro vite una presenza mediatica, che costituisce un rispecchiamento drammatico e desolato della fine delle loro speranze. Ma la tragedia delle loro anime altro non è che una sorta di rispecchiamento dei drammi sociali che circondano tutti noi. Per questo il loro tragico sottrarsi alla vita ci colpisce tanto profondamente.
Ho già scritto su questo giornale sul suicidio, soprattutto sul suicidio sul lavoro, in Francia e altrove. I suicidi sul lavoro e per il lavoro «che fa soffrire» continuano con una regolarità inesorabile che conferma la teoria di Durkheim sulle cosiddette «correnti suicidogene» che si innescano negli ambienti sociali, grandi o piccoli ch'essi siano... Nel caso di tali avvenimenti siamo dinanzi a suicidi che Durkheim avrebbe definito altruistici, ossia espressione non di disgregazione sociale, quanto invece di forte aggregazione della società o dell'ambiente sulla persona. In forma ansiogena, tuttavia, e distruttiva: la forte coesione sociale può essere oltremodo pericolosa se l'Io è completamente annullato, distrutto e piegato dinanzi all'irrevocabilità di scelte che altri hanno compiuto contro l'Io stesso, distruggendolo. L'individuo si offre — di qui la metafora altruistica — come un agnello sacrificale e si toglie la vita, soggiogato dai riti della società o dell'azienda che premono su di Lui sino a distruggerlo perché non condivide delle scelte esogene, sulle quali la persona non ha potuto influire in alcun modo.
Oggi, invece, siamo dinanzi ai suicidi che Durkheim avrebbe definito anomici. Non conta solo la miseria, non conta solo la sofferenza sociale, non è importante solo la mancanza di solidarietà. O meglio non sono essi gli elementi scatenanti. Nel caso del suicido anomico agisce sulla spiritualità della persona la mancanza di ogni valore che la ispiri nella condotta di ogni giorno. Non perché non si creda in Dio o nella bontà umana, ma perché è la stessa fede o credenza ad apparire inutile. E se è inutile, spesso è solo oppressiva. I suicidi anomici, disperato atto di sofferenza ultima, tendono sempre ad aumentare tanto in casi di profonda crisi economica e di sofferenza per il declassamento nello status sociale che ciò provoca, come accade oggi, quanto nei momenti di grande e improvvisa crescita degli standard di vita. Purtroppo non è oggi il nostro caso.
L'improvviso cambiamento, quale che sia, distrugge valori consolidati e frantuma credenze profonde. La più importante, per la persona, è la credenza e la speranza che la società non l'abbandoni mai nei momenti topici della vita. L'uomo senza società non esiste e la società e la persona parlano tra di loro se esiste il linguaggio dell'altruismo e del mutuo riconoscimento: questo è il segreto dell'incontro dell'altro e con l'altro di cui parla splendidamente a tutti noi Paul Ricoeur. Quando l'altro scompare, quando la freddezza della regola burocratica scardina il vivere quotidiano, quando non ho ascolto, quando grido nel deserto della povertà e non odo risposta, allora mi accascio dinanzi a questa sorta di autismo della società tutta. E allora mi posso dar fuoco, mi posso lanciare dai grattacieli, mi posso far così male da mutilarmi tutta la vita, non solo nella carne, ma anche nello spirito. Per questo la società e i suoi rappresentanti istituzionali, che sono molti più di coloro che hanno l'onore delle cronache e l'onere della responsabilità istituzionale — perché la società non si riduce al potere — per questo la società deve continuare a parlare alla persona con la riproduzione di valori di salvezza. Materiali e morali: soprattutto morali. Solo una filosofia della salvezza e della redenzione ci può infondere speranza nella vita. A ciò non possiamo non pensare in questi giorni, perché è questo il significato profondo della Santa Pasqua di Resurrezione.

Corriere della Sera La Lettura 8.4.12
Paolo Rossi, la storia contro i pregiudizi
di Alberto Melloni

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Corriere della Sera La Lettura 8.4.12
L’arte politica: cosa resta dopo Guernica
di Vincenzo Trione

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Repubblica 8.4.12
Così Facebook ci "vende" alle aziende
Gusti, orientamenti politici e sessuali: i nostri dati ceduti al miglior offerente
di Alberto Flores d’Arcais


NEW YORK - Che nell'era dei social network la privacy sia ad alto rischio è un dato di fatto. Se ne discute da tempo, su Internet, tra i blogger e sulla stampa specializzata, ma anche nei media tradizionali, nelle società di software e al Congresso Usa. Ieri in un lungo articoloinchiesta il Wall Street Journal ha puntato il dito contro le applicazioni usate dagli utenti di Facebook. Esaminando un centinaio tra le più popolari "app" del social network più frequentato al mondo, ha scoperto che tra i dati personali richiesti ci sono non solo l'indirizzo email o la località, ma anche gli orientamenti sessuali, politici e religiosi. E non solo degli utenti che scaricano l'applicazione, ma anche dei loro "amici" di Facebook. Tra i casi citati ci sono celebri società come Yahoo e Skype e altre meno conosciute, tutte con un obiettivo comune: saperne di più della nostra vita e dei nostri interessi.
Naturalmente l'utente deve dare il permesso con un "click" del mouse, ma il Wsj sottolinea come l'abitudine a rispondere "sì" (senza pensarci troppo) alle varie richieste che arrivano quando si scarica un'applicazione è ormai talmente diffusa che nella maggioranza dei casi diventa quasi automatica. La "app" che richiede maggiori informazioni personali è "MyPad for iPad", tra le più popolari quelle di giochi-quiz come "Between You and Me" o "Truths about you". Quest'ultima dopo aver ricevuto la telefonata dei reporter del Wsj ha diminuito le richieste di dati.
Una delle applicazioni più discusse degli ultimi tempi (Girls around Me), che si basa sull'utilizzo incrociato dei dati di Facebook e Foursquare per rintracciare le ragazze che vivono nelle vicinanze, è stata cancellata una settimana fa dall'Apple Store.
Un problema ulteriore - che l'inchiesta del Wsj non tratta, ma su cui ultimamente si è discusso molto nella stampa americana - riguarda la raccolta dei dati privati dei minorenni. Un paio di mesi fa la Federal Trade Commission ha invitato le società che sviluppano applicazioni per bambini e gli "app store" a dare maggiori informazioni sull'argomento, in modo da verificare se i software violino la legge sulla privacy. Che proibisce, ad esempio, di conservare numeri di telefono, Id dell'utentee altri dati considerati sensibili.
In una dettagliata relazione la Ftc ha sottolineato come i genitori (o almeno una grande maggioranza) non siano in grado di stabilire prima di scaricare un'applicazione «se questa comporta rischi per le informazioni personali dei propri figli». E ha citato (in negativo) diverse "app" fornite da Apple e Google con «centinaia di programmi» destinati ai bambini, alcuni addirittura per una fascia di età che va dai due ai cinque anni. Per capire il fenomeno basta guardare i risultati di una recente ricerca Nielsen («Le famiglie americane vedono i "tablet" come compagni di giochi, insegnante e babysitter») che ha preso in esame un campione di famiglie che hanno in casa almeno un tablet e figli sotto i 12 anni. Il 70 per cento di questi bambini li usa normalmente. Sono gli adolescenti e gli adulti del mondo di domani, in cui la privacy rischia di essere solo un ricordo.

Repubblica 8.4.12
Google e Facebook il Grande Fratello non previsto da Orwell
Sorvegliati e contenti
di Hans Magnus Enzensberger


Un uomo lungimirante, questo Eric Blair, meglio noto con lo pseudonimo di George Orwell. Uno che di regimi totalitari se ne intendeva, assai prima che il termine entrasse a far parte del lessico degli storici. Uno che nel 1943, quando Stalin, Churchill e Roosevelt si incontravano a Teheran, già vedeva profilarsi l'antagonismo tra le superpotenze e la guerra fredda.
Qualche anno dopo la Seconda guerra mondiale Orwell pubblicò il suo più celebre romanzo, 1984. Il futuro che vedeva all'orizzonte non gli piaceva. Dipinse il panorama infernale di un regno del terrore nel bel mezzo dell'Europa, che in un futuro non lontano avrebbe perfezionato i metodi di Stalin e di Hitler: un partito unico ai comandi di un "Grande Fratello"; una "neolingua" ideata per capovolgere il significato delle parole; l'abolizione della sfera privata; un regime di sorveglianza a 360 gradi, rieducazione e lavaggio del cervello dell'intera popolazione, e infine un'onnipotente polizia segreta per soffocare sul nascere qualunque tentativo di opposizione, con la tortura, i campi di concentramento e l'assassinio.
Fortunatamente quella profezia non si è avverata, almeno per quanto attiene alla nostra parte del globo: con essa George Orwell ha ingannato sia noi che se stesso.
Ma non avrebbe immaginato neppure in sogno che per ottenere almeno in parte quel risultato - e in particolare un sistema di sorveglianza a tutto campo - non c'era bisogno di una dittatura. Si poteva raggiungerlo anche all'interno di un sistema democratico, senza l'uso della violenza, con metodi civili, se non addirittura pacifisti. Più di quattro secoli fa un giovane francese, Etienne de la Boétie, aveva già incominciato a riflettere su questo tema: nel suo Discorso sulla servitù volontaria, non pago di mettere alla berlina i despoti assoluti del suo tempo, l'autore si rivolgeva soprattutto alle coscienze di chi si adattava alla tirannide: «Sono gli stessi popoli - scriveva - a subire questa piaga, o anzi a farsi male da sé; se solo cessassero di sottomettersi alla servitù, sarebbero liberi. Il popolo si assoggetta, accondiscende alla sua miseria, o addirittura la insegue... Non crediate che un uccello si lasci impaniare, né che un pesce abbocchi all'amo con più facilità di un popolo pronto a farsi allettare dalla servitù, per poco che gli si spalmi un po' di miele in bocca».
Di fatto però, già da tempo non abbiamo più a che fare con la figura del monarca unico, personalmente identificabile e attaccabile, contro cui insorgeva Etienne de la Boétie. E neppure subiamo, come nel libro di Orwell, la tirannia di un Grande Fratello, ma piuttosto il dominio di un sistema simile a quello descritto da Max Weber negli anni Venti del secolo scorso.
«L'organizzazione burocratica, con le sue professionalità e specializzazioni, la separazione delle competenze, i regolamenti e i rapporti d'obbedienza in base a una scala gerarchica, sta portando avanti, di concerto con la morta macchina, l'edificazione della struttura, di quel futuro assoggettamento, nel quale forse un giorno gli uomini saranno costretti a inserirsi nella più totale impotenza, come i fellah dell'antico Stato egizio, se per essi l'unico e ultimo valore in base al quale si decida la natura e l'amministrazione dei loro affari sarà un buon sistema - buono e razionale in senso puramente burocratico - di tutela, rifornimento e gestione. Perché in questo la burocrazia è incomparabilmente più efficiente di qualsiasi altra struttura di dominio».
Nelle sue previsioni, quella struttura di assoggettamento sarebbe stata «dura come l'acciaio»: ma per quanto chiaroveggente, in questo almeno Max Weber si era sbagliato, dato che nel frattempo la gattabuia si è trasformata in un abitacolo relativamente confortevole, qualcosa come una cella spaziosa ed elastica, dalle pareti di gomma. I nostri sorveglianti arrivano a passi felpati, cercando, per quanto possibile, di conseguire i loro principali obiettivi strategici - sorveglianza a tutto campo e abolizione della sfera privata - senza far rumore. Ricorrono al manganello solo quando proprio non c'è altro da fare. Preferiscono rimanere anonimi; non portano uniformi ma abiti civili; si fanno chiamare manager o commissari, e non operano più in caserme, bensì in uffici con l'aria condizionata. Nell'espletamento dei loro compiti hanno modi amabili e cordiali. Ai residenti garantiscono la sicurezza, l'assistenza, il comfort e i consumi. Perciò possono contare sulla tacita approvazione degli abitanti, e non dubitano che i loro protetti premeranno con zelo un pulsante invisibile con la scritta «mi piace».
Anche su un altro punto l'analisi di Weber appare oggi anacronistica: la sua disarmante fiducia nella forza e capacità d'azione dello Stato. Se a noi questa fiducia viene meno, non è solo perché gli Stati sono incalzati, braccati dai mercati finanziari globali, ma anche perché oggi né Berlino, né Bruxelles e neppure Washington sarebbero in grado di garantire da soli il controllo totale della popolazione; e ciò semplicemente perché i loro funzionari sono troppo sprovveduti e maldestri.
Oltre tutto, non riescono neppure a stare al passo con i progressi della tecnologia. Perciò le autorità dipendono dal "mondo economico", cioè dalle corporation dell'informatica. Solo se le due parti procedono fianco a fianco - i governi da un lato, e dall'altro imprese come Google, Microsoft, Apple, Amazon o Facebook - la presa a tenaglia sulle libertà dei cittadini raggiunge il massimo dell'efficacia. È comunque chiaro che in questa fragile alleanza, il ruolo delle istanze politiche è quello del partner più debole, dato che solo le corporation dispongono delle competenze indispensabili, del capitale e della necessaria manovalanza: informatici, ingegneri, programmatori di software, hacker, matematici e crittografi.
Nel Ventesimo secolo, né la Gestapo, né il Kgb o la Stasi avrebbero neppure lontanamente immaginato i mezzi tecnologici oggi a disposizione: le onnipresenti telecamere di sorveglianza, il controllo automatizzato dei telefoni e della posta elettronica, le immagini satellitari ad alta definizione, i profili di movimento superdettagliati, i sistemi di riconoscimento biometrico del volto; programmi gestiti grazie a stupefacenti algoritmi, memorizzati in banche dati di sconfinata capienza.
L'ultimo accenno di reazione, ormai quasi dimenticato, contro lo zelo delle autorità tedesche e delle megaimprese risale al lontano 1983 - un anno prima della data che ha fornito il titolo al romanzo di Orwell. Un censimento relativamente innocuo suscitò allora un certo allarme, e le denunce di molti cittadini furono accolte dalla Corte costituzionale. Non solo i giudici di Karlsruhe condannarono l'iniziativa del governo, ma istituirono una nuova legge costituzionale sull'"autodeterminazione informatica", a tutela della personalità. Una sentenza che oggi appare ingenua: di fatto, nessuno ne ha mai tenuto conto. Nella cyberguerra contro la popolazione i sostenitori della riservatezza dei dati sono impotenti, e da tempo hanno gettato la spugna.
Su un punto invece - quello dell'evoluzione linguistica - George Orwell ha colto nel segno: la "neolingua" da lui descritta è assurta ormai al rango di gergo ufficiale della sociologia. La Costituzione non piace ai cosiddetti servizi. Distinguerli dai criminali informatici è tutt'altro che facile. Le nuove tessere sanitarie di fatto altro non sono che una card elettronica di censimento delle malattie, facilmente decriptabile da un qualsiasi hacker. E quanto ai social network, fanno leva sull'esibizionismo dei loro utenti per sfruttarli senza pietà.
Un ultimo, molesto residuo di sfera privata è il contante. È dunque logico che lo Stato, di concerto con le corporation, metta in campo un impegno coerente per abolirlo, mediante la proliferazione di carte di credito, client card e altri sistemi di pagamento (tramite telefonia e chip) di prossima introduzione. L'obiettivo non potrebbe essere più chiaro: esercitare una sorveglianza capillare sulla totalità delle transazioni. A ciò sono interessati, oltre al fisco, i network asociali, il commercio online, gli istituti di credito, la pubblicità e la polizia. Un altro effetto sarà quello di cancellare persino il ricordo della materialità del denaro, ridotto a una serie di dati manipolabili a piacimento.
Al solo scopo di completare il quadro daremo infine uno sguardo a un settore collaterale, segnalando i tentativi in atto di abolire i diritti d'autore.
Il copyright è una conquista recente, che risale al Diciannovesimo secolo. Fino a quel momento, la lettura di libri era un privilegio riservato a una piccola minoranza.
All'improvviso, il romanzo divenne un prodotto di massa. Gli scrittori si resero conto che grazie ai diritti sulle tiraturee sulle traduzioni, la letteratura poteva essere fonte di guadagni sostanziosi. Purtroppo non hanno avuto molto tempo per stare allegri. Il libro stampato, oggi denominato print, è diventato un modello di fine serie per le maggiori case editrici. Le quali considerano ormai il copyright come un ostacolo, con grande giubilo delle avanguardie digitali. Per questi allegri pirati, l'obbligo di pagare un prezzo per ciò che l'industria informatica definisce content è comunque assurdo. D'ora in poi gli autori, come venivano chiamati, dovranno rassegnarsi a lavorare gratis; in compenso potranno twittare, chattare e bloggare a piacimento.
Nessuno sembra preoccuparsi del fatto che ormai il tempo di decadimento delle tecniche a nostra disposizione varia da tre a cinque anni - lo stesso ritmo dei cicli economici dei grandi gruppi informatici. Mentre un testo su pergamena o carta deacidificata rimane perfettamente leggibile a distanza di cinque secoli o anche di un millennio, i media elettronici devono essere riversati con una certa frequenza per non diventare inservibili dopo soli dieci o vent'anni: un dato che ovviamente collima con lo spirito dei loro inventori.
L'abolizione del libro stampato non è peraltro un'idea nuova. Fu preannunciata nel lontano 1953 da Ray Bradbury, nel suo bestseller (!) Fahrenheit 451, che ne descrive gli sviluppi fino alle estreme conseguenze. In quel racconto utopistico, il possesso di un libro è considerato un crimine e punito con la pena di morte. Nelle loro visioni del futuro i grandi pessimisti tendono a esagerare; ma il fatto di essere confutabili depone in loro favore, e non contro di loro. Ciò è vero sia nel caso di Bradbury e Orwell che in quello di Max Weber. Ovviamente, per saperne di più col senno di poi non c'è bisogno di essere un genio.
A fronte dei pronostici più tetri sorge una domanda, inevitabile come l'amen in chiesa: possibile che non ci sia qualche elemento positivo? La risposta è facile, visto e di grande soddisfazione: tutto ciò che è sopravvenuto grazie alla nostra volontaria servitù non ha richiesto spargimenti di sangue. I «residui del passato» non sono stati liquidati, come Lenin cercò di fare in Russia, ma continuano a esistere. E ciò per un motivo evidente: la tolleranza dei nostri sorveglianti si basa su un semplice calcolo costibenefici. Sarebbe troppo dispendioso tentare di stanare gli ultimi refrattari, di sopprimere una piccola minoranza caparbia, che per puro e semplice puntiglio si oppone al fato digitale. Ecco perché ci si accontenta di una sorveglianza al 95 per cento. Dunque, non è il caso di farci prendere dal panico: anche perché il restante 5 per cento equivale pur sempre a quattro milioni di persone. E così anche in futuro, chi proprio non potrà farne a meno, potrà continuare a mangiare e bere, amare e odiare, dormire e leggere analogicamente senza preoccuparsi più di tanto, e restare relativamente inosservato.

Repubblica 8.4.12
Così Woody Allen ci può aiutare a vincere la nevrosi
di Irene Bignardi


Ci aveva già provato Alain de Botton con Proust, a dirci che poteva cambiare la nostra vita. Più convincente arriva adesso, edito da Archinto, un piccolo manuale di lettura psicoanalitica di Woody Allen, autore Eric Vartzbed, titolo Come Woody Allen può cambiare la vostra vita (pagg. 133, euro 12).
La risposta non è difficile, anche espressa dal comune lettore: può cambiare la nostra vita rileggendo i grandi problemi dell'esistenza attraverso il suo humour, con il suo Witz, e aiutandoci a superare con il modello della sua ironia i frangenti spiacevoli o dolorosi della vita.
Vartzbed, psicoanalista, francese, ci dice che l'incontro con Woody Allen, e in particolare con il suo film Un'altra donna, ha cambiato la sua vita. E ci conduce attraverso le molte presenze della psicoanalisi nel cinema del grande nevrotico allo scopo di cambiare la nostra. Come? Sdrammatizzando.
Da Un'altra donna, appunto, a Zelig. Da Stardust Memories a Harry a pezzi, da Provaci ancora Sam, dove Allen si interroga sul fallimento del suo matrimonio ( «Come potevamo avere un problema sessuale? Non avevamo neanche rapporti») alla sua vera vita, di Woody Allen persona, che lo ha visto per trentasei anni sul fatidico lettino (con relativa celebre battuta sulla necessità di ricorrere a Lourdes, ma anche con la considerazione che la psicoanalisi «elargisce doni») e protagonista di vicende familiari ad alto livello di tensione, Woody Allen ci invita a fare i conti con i nostri fantasmi, a «disarmare il nostro Super-Io», a prendere i massimi sistemi con humour (« Dove andiamo? Da dove veniamo? Cosa c'è da mangiare stasera? »). Humour che lui considera lo strumento più importante, «come un acido che corrode i tabù e le convenzioni».
Specialista di nevrosi urbana, esemplare supremo di uomo moderno ( e cioè di «qualsiasi persona nata dopo "Dio è morto", ma prima del clamoroso successo di I Want to Hold Your Hand »), l'antideologico Woody Allen non crede nelle soluzioni collettive, rifiuta l'azione politica, «si schiera in favore del dubbio e si impegna nel disimpegno». Ironizza sul suo status di ebreo («Dio non esiste ma noi siamo il popolo eletto»), crede nel caso (vedi la pallina da tennis e la monetina di Match Point ), ironizza sull'arte («Solo l'arte puoi controllare. L'arte e la masturbazione: due campi in cui sono un'indiscussa autorità»...), esorcizza allegramente il pensiero onnipresente della morte («Di qui a cent'anni cosa vorrebbe che si dicesse di lei? Vorrei che dicessero: È in gamba per la sua età»).
Ma le battute alleniane nel libro di Vartzbed sono solo gli iceberg di un discorso psicoanalitico più serio (e di qualche avventurosa escursione nel mondo della tecnica cinematografica). Con una piccola miniera di sapienza nelle note, che val la pena di leggere: per esempio, lo sapevate che Annie Hall doveva intitolarsi Anedonia, e cioè l'incapacità di provare piacere? COME WOODY ALLEN PUÒ CAMBIARE LA NOSTRA VITA di Éric Vartzbed Archinto, trad. di Lucilla Congiu, pagg. 133, euro 12

Repubblica 8.4.12
Così gli Etruschi fecero da ponte tra la civiltà omerica e l'Italia
di Giuseppe M. Della Fina


Gli Etruschi esercitarono un controllo diretto su buona parte della penisola italiana ed ebbero un'influenza notevole su un'area ancora più ampia. La constatazione - ben presente nelle fonti letterarie latine - è alla base dell'interessante mostra Etruschi. L'ideale eroico e il vino lucente allestita negli spazi di Palazzo Mazzetti ad Asti (sino al 15 luglio 2012).
I curatori - Alessandro Mandolesi e Maurizio Sannibale - hanno voluto dare conto del ruolo storico svolto dagli Etruschi che di fatto costituirono - durante diversi secoli del I millennio a. C. - una sorta di ponte tra il mondo greco, i popoli italici e le genti celtiche.
Certo non a caso il percorso espositivo si apre con elmo in lamina di bronzo realizzato in un centro dell'Etruria meridionale agli inizi dell'VIII secolo a. C. e scoperto nel 1875 nel letto del fiume Tanaro, non lontano dalla stessa Asti, dove - in antico - era stato gettato ritualmente da un capo locale dopo averlo ricevuto in dono da un suo pari etrusco.
Gli Etruschi veicolarono nell'area italica e celtica non solo merci, ma soprattutto valori e uno stile di vita incentrato su ideali aristocratici ripresi - in maniera non acritica - dal mondo omerico come, ad esempio, il banchetto inteso come un'occasione privilegiata d'incontro tra personaggi di rango.
Proprio un convivio aristocratico è raffigurato negli affreschi della tomba tarquiniese della Scrofa Nera presentati eccezionalmente in mostra dopo un attento restauro.
Il primato degli Etruschi nella penisola italiana è proposto - a conclusione del percorso - anche da un'angolazione speciale e legata alle vicende del Risorgimento italiano, quando gli Etruschi vennero interpretati come il precedente storico a cui guardare per arrivare ad una unificazione della penisola. L'uso ideologico che ne venne fatto emerge, ad esempio, dalla decorazione e dagli arredi del Gabinetto Etrusco del Castello di Racconigi fatto realizzare dal re Carlo Alberto negli anni Trenta dell'Ottocento con una chiara intenzione politica: cercando gli Etruschi, trovando gli Italiani secondo una felice intuizione del grande etruscologo francese Jacques Heurgon.

Repubblica 8.4.12
Il principe di Homburg
Nel dramma di Kleist non c'è nulla di vero
di Anna Bandettini


Un testo così enigmatico si offre a tante letture: nel '97 nel suo film Marco Bellocchio ne fece un caso di conflitto generazionale; prima, nel '72, alla Schaubühne di Berlino, Peter Stein, che aveva affidato il ruolo a un meraviglioso Bruno Ganz, l'aveva messo in scena come una storia onirica, introspettiva. Ora a rileggere il Principe di Homburg, il misterioso e molto anticonvenzionale dramma di Heinrich von Kleist, ultimo suo capolavoro prima del suo suicidio a 34 anni nel 1811, è Cesare Lievi. Conoscitore e cultore della Germania dove ha anche lavorato, frequentatore dei classici letterari tedeschi, ha firmato uno spettacolo elegante, lineare, asciutto, ben recitato, co-prodotto dal Teatro Nuovo Giovanni da Udinee dal CSS, che spinge nella prospettiva dell'indefinitezzae della lacerazione della condizione umana.
Effettivamente, tutto risulta ambivalente in questo dramma di Kleist: l'amore per una donna convive con l'amicizia maschile, il sogno si intreccia alla realtà, la legge comporta la disobbedienza. Homburg stesso è un militare e un ingenuo sognatore. Proprio per un sogno disattende gli ordini del Principe elettore e lancia la sua cavalleria in battaglia. Vincerà gli svedesi (il riferimento è alla battaglia di Fehrbellin del 1674), ma l'ordine è ordine e perciò Homburg, benchè vittorioso, viene condannato a morte. A questo punto, il valoroso generale, il giovane sognatore diventa un ragazzino lamentoso e piagnucoloso, impaurito per la propria sopravvivenza che diventa la cosa più importante. Ma siccome nulla è chiaro in questo racconto, quando il Principe elettore concede la grazia, Homburg la rifiuta in nome della propria dignità. Si salverà lo stesso, con uno stratagemma narrativo geniale: per la sua natura sognante, Homburg non ha colpa. Come dire la legge è una cosa falsa, sviante di fronte al sogno...
Un testo bellissimo, pieno di intelligenza, di tracce, non sentimentale, perfino un po' provocatorio: per Kleist, Homburg è la figura della riflessione sulla perdita di contorno della natura umana, sulla sua doppiezza, sul valore del conflitto interiore, sull'ambiguità dell'etica e del sogno. Lievi ne ha fatto uno spettacolo volutamente non rivelativo, tutto sospeso in un clima incantato di irrealtà, con la bella scena nuda, neoclassica di Josef Frommwieser, le luci "acquarellose" di Gigi Saccomandi. Edè interessante la prospettiva psicologica e lirica che dà ai personaggi, statici, quasi inattivi nei loro costumi d'epoca, a cominciare dal "suo" Principe, un giovane efebico che si incupisce per effetto della realtà, della morale, della legge, dell'amore.... affidato a Lorenzo Gleijeses, acerbo, appassionato, volutamente smarrito.
Carismatico il Principe elettore di Stefano Santospago, e poi bravi tutti gli altri perché ci vuole verità della recitazione per la splendida scrittura di Kleist: Ludovica Modugno (la principessa) Natalia (Maria Alberta Navello), Emanuele Carucci Viterbi, Fabiano Fantini, Sergio Mascherpa, Andrea Collavino, Paolo Fagiolo e soprattutto Graziano Piazza, l'affascinante Kottwitz amico di Homburg, la cui battuta finale (tutto questo "certo, è un sogno") riaprei giochi: è il sogno a diventare la realtàoè la realtàa essere un bel sogno? E chi lo sa: il mondo non è facile da decifrare.
IL PRINCIPE DI HOMBURG In tournèe (Sassari, Cagliari, Genova, Milano dal 24) SEGUE A PAGINA 55