giovedì 12 aprile 2012

l’Unità 12.4.12
L’Europa critica il sistema italiano: «Vanno introdotti controlli severi»
Presentata una proposta comune di Pd, Pdl e Terzo Polo. Rinviati a settembre i rimborsi
La certificazione sarà obbligatoria. Per i bilanci non in regola interventi dei presidenti della Camera
Nuove regole per i soldi ai partiti. Authority, sanzioni, trasparenza
Finanziamento ai partiti, messe nero su bianco le nuove norme su controlli, trasparenza e sanzioni. Il testo verrà presentato come emendamento al decreto fiscale. Entro aprile l’approvazione
di Simone Collini


La discussione è andata avanti per tre ore, poi gli sherpa di Pd, Pdl e Terzo polo sono andati a riferire ai vertici dei propri partiti. Si sono rivisti dopo un’ora e hanno continuato a limare il testo. E solo in tarda serata sono stati resi noti i termini dell’intesa, tradotta in un emendamento che verrà presentato al decreto legge di semplificazione fiscale, ora in discussione alla Camera, per arrivare entro una decina di giorni all’approvazione definitivia.
APPROVAZIONE ENTRO APRILE
Il testo per introdurre maggiori controlli e una reale trasparenza sull’utilizzo dei rimborsi elettorali ai partiti ora c’è. A metterlo nero su bianco, dopo che nei giorni scorsi ne avevano discusso i punti cardine Pier Luigi Bersani, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini, sono stati Antonio Misiani e Gianclaudio Bressa per il Pd, Massimo Corsaro, Rocco Crimi e Donato Bruno per il Pdl, Benedetto Della Vedova, Pino Pisicchio e Gianpiero D’Alia per il Terzo polo.
Ad allungare i tempi della discussione è stato soprattutto il punto riguardante l’organismo a cui affidare i controlli. Pd e Udc hanno proposto la Corte dei conti, ma si sono scontrati con il niet del Pdl. Alla fine l’accordo è stato trovato su un’Authority composta dai presidenti (o loro delegati) di Corte dei conti, Corte di cassazione e Consiglio di Stato e presieduta dal presidente della Corte dei conti. Sarà questo ente terzo (i cui componenti non percepiranno alcun compenso per questa nuova attività) a controllare che i bilanci dei partiti siano regolari.
CERTIFICAZIONE OBBLIGATORIA
È stata accolta la proposta del Pd di rendere obbligatoria la certificazione dei rendiconti da parte di società esterne iscritte nell’albo della
Consob (i Democratici da tempo si affidano alla Pricewaterhouse Coopers e ora Lega e Udc hanno annunciato analoga decisione) e anche quella (condivisa dall’Udc), di pubblicare sui siti internet dei partiti stessi e anche su quello della Camera i bilanci, nonché quella di abbassareda50milaa5milaeurolasoglia per le donazioni anonime.
Avanzata dai centristi, e accolta, è stata invece la proposta di prevedere la possibilità di investire i fondi a disposizione dei partiti soltanto in titoli di Stato italiani (una norma utile ad evitare speculazioni immobiliari o l’approdo dei rimborsi elettorali verso fondi finanziari stile Tanzania).
SANZIONI DA PRESIDENTI CAMERE
L’intesa è stata raggiunta anche sul sistema di sanzioni per i partiti che non rispettino le nuove norme. La nuova Authority, denominata «Commissione per la trasparenza ed il controllo dei bilanci dei partiti politici», dovrà accertare se i bilanci siano in regola o se presentino irregolarità penali o civili. In questo caso, secondo quel che prevede l’intesa tra i partiti di maggioranza, il materiale sarà trasmesso alla magistratura direttamente, altrimenti la sanzione verrà comminata dai presidenti delle Camere. Si legge nel testo diffuso in tarda serata che qualora la nuova Commissione rilevi «irregolarità, i Presidenti della Camera e del Senato provvederanno ad applicare, su proposta della Commissione, sanzioni amministrative pecuniarie pari a tre volte le irregolarità commesse». È inoltre previsto che le contribuzioni dei partiti politici a fondazioni, enti e istituzioni o società eccedenti i 50 mila euro annui comportino l’obbligo per questi ultimi di sottoporsi ai controlli della «Commissione per la trasparenza e il controllo dei bilanci dei partiti».
Durante gli incontri di ieri si è anche deciso di far slittare da luglio a settembre l’ultima rata di 100 milioni dei rimborsi elettorali, mentre il più ampio argomento di una riforma del sistema di finanziamento pubblico sarà affrontata nel corso dell’esame delle proposte sull’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione.
PRIMO PASSO
Le nuove regole vengono commentate con soddisfazione da Misiani: «Si tratta di un testo molto positivo, di una svolta vera sul terreno della trasparenza, dei controlli e delle sanzioni». Quello raggiunto ieri, per il tesoriere del Pd, è «un primo passo molto importante nella direzione di una più complessiva revisione del finanziamento pubblico». Il modello di controllo adottato, spiega Bressa, è «ispirato all’Europa»: «La Commissione per il controllo e la trasparenza è come quella che c’è in Francia e le sanzioni sono quelle della Germania, ma più severe». Il capogruppo del Pd in commissione Affari costituzionali della Camera ammette che «è stato un lavoro duro» ma quello raggiunto alla fine delle lunghe riunioni con i tecnici di Pdl e Terzo polo lo definisce «un punto di equilibrio giusto ed efficace».

L’Europa boccia senza appello l’Italia per le attuali regole sul sistema di finanziamento pubblico ai partiti, caratterizzato da controlli insufficienti, e punta il dito contro tempi per la prescrizione dei reati legati alla corruzione talmente brevi da rischiare di vanificare l’opera meritoria svolta dai giudici.
Il giudizio è contenuto in un rapporto reso noto ieri da Greco (Grupe d’Etats Contre la Corruptions), il braccio anti-corruzione del Consiglio d’Europa. Con un tempismo legato all’attualità politica nazionale davvero sorprendente, il documento di 68 pagine è diviso in due parti. In quella sul finanziamento pubblico della politica si sottolineano le carenze «importanti» e le sanzioni «inefficaci» del sistema. Ma soprattutto si evidenzia la mancanza di adeguati controlli e l’urgenza di intervenire per sanare una situazione insostenibile. Che, grazie al meccanismo attuale, avrebbe portato i partiti a incassare tra il ‘94 e il 2008 il triplo delle spese sostenute (2,25 miliardi di euro contro 570 milioni). Si esortano quindi i partiti a «sviluppare propri sistemi di controllo interno e sottoporre i conti a revisione contabile indipendente». Sette le «raccomandazioni» rivolte all’Italia da Greco su cui Roma dovrà riferire entro il 30 settembre del prossimo anno. Tra queste spiccano lo status legale dei partiti, l’introduzione di adeguati controlli pubblici, il divieto di donazioni anonime.
Ma anche per quanto riguarda la lotta alla corruzione il rapporto Greco lancia un allarme importante sulle «tante lacune» rilevate e l’inadeguatezza delle sanzioni previste. Nonostante ciò, «in Italia sono stati perseguiti un numero considerevole di casi di corruzione grazie al lavoro dei giudici che hanno sviluppato la giurisprudenza in questa area». Gli sforzi che rischiano però di essere vanificati da tempi di prescrizione «troppo brevi» per i reati legati alla corruzione.

l’Unità 12.4.12
Bersani: «Questa non è una riformina. E basta gettare fango su tutti»
Bersani respinge la campagna contro il finanziamento pubblico: «Non accetto che si getti fango su tutto, non tutti i partiti utilizzano i rimborsi per ristrutturare case». Si discute sull’ultima tranche di 100 milioni.
di S.C.


«Non accetto che venga gettato fango su tutti». Pier Luigi Bersani vede montare attorno ai partiti una campagna dai contenuti tutt’altro che inediti e dagli esiti ampiamente prevedibili. Grandi gruppi editoriali che mettono in discussione l’opportunità del finanziamento pubblico ai partiti, forze politiche (dall’Idv a Fli, dai grillini a pezzi del Pdl) che ne chiedono la cancellazione. «Non tutti i partiti utilizzano i fondi pubblici per ristrutturare case si sfoga il leader del Pd con chi lo avvicina mentre è in corso la riunione degli sherpa per disegnare le nuove regole serve qualsiasi forma la più stringente per controllare i bilanci ma non accetto che la Lega riesca a distruggere il sistema della democrazia, come era nella sua intenzione originaria. Dai tempi di Pericle, la democrazia ha sempre funzionato con il sostegno pubblico per evitare che il più ricco e il più forte facesse il burattinaio e governasse la città».
Il leader del Pd guarda con attenzione agli attacchi sferrati da più parti al sistema dei rimborsi elettorali, alle proposte di ridurli, abrogarli, alla richiesta di non erogare ai partiti l’ultima tranche di 100 milioni, prevista per luglio. E conversando con i cronisti alla Camera un po’ ricorda che i rimborsi già hanno subìto significativi tagli (erano 289 milioni di euro nel 2010, 189 nel 2011 e ora sono destinati a ridursi a 143), un po’ rivendica le scelte fatte dal suo partito prima che scoppiasse il caso Lusi e lo scandalo dei fondi leghisti («non dicano a noi che ci svegliamo ora, i conti del Pd sono certificati da una società esterna e abbiamo inventato le primarie e i codici etici») e un po’ difende il testo che in quegli stessi minuti stanno scrivendo gli sherpa di Pd, Pdl e Terzo polo per garantire maggior controllo e trasparenza sui bilanci dei partiti. «Non chiamatela riformina», dice a chi riporta le parole di qualche commentatore. E poi: «Non accetto che si butti fango su tutto, mica tutti i partiti ristrutturano le case con i soldi pubblici».
Una riforma del sistema dei finanziamenti pubblici si deve fare, per Bersani, che è primo firmatario di una proposta di legge su questo argomento depositata in commissione Affari costituzionali. Ma la discussione che va avanti da mesi sull’applicazione dell’articolo 49 della Costituzione dimostra (al di là del fatto che ieri il relatore del provvedimento, l’ex Pdl e oggi Popolo e territorio Andrea Orsini, non si è fatto vedere e ne è scoppiata una polemica) che bisogna estrapolare poche norme da approvare in tempi rapidi. «Per fare le cose per bene bisogna riflettere, bisogna ragionare. Ma da subito si possono aumentare i controlli su come vengono gestiti i soldi», è il ragionamento. Il Pd, dice Bersani, è pronto ad usare «qualsiasi strumento», anche il decreto, pur di intervenire rapidamente per rafforzare i controlli. E se qualcuno chiede di diminuire ancora il finanziamento pubblico, dice che il Pd è pronto a discutere, «purché sia chiaro che l'attività politica è stata finanziata fin dai tempi di Clistene, altrimenti si dica che diamo il bastone del comando al più ricco della città e abbiamo risolto».
L’ULTIMA TRANCHE DEI RIMBORSI
Ora entra nel dibattito pubblico la possibilità di non far entrare nelle casse dei partiti l’ultima tranche dei rimborsi. Non c’è solo chi, come Vannino Chiti, propone di sospenderne l’erogazione «fino a quando non verrà approvata la nuova legge» (che è un modo per sollecitare tutte le forze politiche a chiudere in fretta). Ci sono le Acli che chiedono di devolvere quei 100 milioni di euro per finanziare la partenza di 27mila ragazzi per il servizio civile nazionale e chi, come Antonio Di Pietro, propone di dare quei soldi «alla Fornero perché possa pensare alle parti sociali più deboli». Dice Bersani mentre gli sherpa concordano lo slittamento a dopo luglio: «Parliamo anche di quello. Ma occupiamoci anche di controllare come vengono spesi i soldi che sono stati già erogati».

l’Unità 12.4.12
Democrazia aziendalista
Niente fondi ai partiti. Così i conflitti d’interessi diventano la regola
La campagna contro i finanziamenti pubblici lascia intravedere un panorama desolante di banchieri, tecnici e imprenditori ciascuno col suo movimento
di Michele Prospero


L ‘obiettivo reale della furibonda campagna contro i costi della politica lo ha esplicitato candidamente Pierluigi Battista che, al Tg3, ha evocato una Repubblica senza partiti e addirittura senza politica. Sono del resto molti i commentatori del Corriere della Sera che cavalcano con spregiudicatezza la dolce ebbrezza di una deriva populistica.

La rimozione dei partiti è invocata per spianare la strada a una gestione del potere affidata a componenti tecniche e imprenditoriali che operano oltre i partiti. Il sogno antico è quello di una democrazia aziendalista capace di togliere il disturbo dei partiti per lasciare alle forze economiche dominanti il pieno potere di legiferare.
In discussione oggi, con il finanziamento pubblico, non è una spicciola questione monetaria, così urticante in tempi di risorse scarse, ma il fondamento stesso della democrazia moderna, vista come una forma storica di compromesso tra le immani potenze del mercato e le istanze residuali di eguaglianza dei cittadini.
È palese che la disparità eccessiva delle risorse economiche e mediatiche rende in sé distorta la competizione tra i partiti e affida al peso del denaro una sovranità reale rispetto alla evanescenza della singola espressione di consenso. Non esiste un voto eguale se non si garantiscono delle condizioni tendenzialmente equilibrate (nella disponibilità di risorse) tra gli attori. Nel ventennio berlusconiano, una gara elettorale regolare senza il finanziamento pubblico sarebbe stata del tutto disperata. Anche in tempi meno eccezionali, però, il nodo della castrazione dell’impatto che ha il possesso diseguale di beni (mediatici, economici) rimane aperto. Per questo bisogna guardare all’Europa, l’America è troppo lontana.
Negli Stati Uniti solo chi rinuncia ai finanziamenti pubblici (che sono previsti anche lì, ma sono molto limitati e quindi poco appetibili) può rifarsi con i generosi soldi messi a disposizione dai voraci gruppi privati di pressione. Dopo la sentenza del 2010, la Corte suprema non pone più limiti alle dorate elargizioni dei ricchi che esercitano la loro splendida libertà di annegare nell’oro il candidato di più stretta fiducia. La corruzione diventa così legge, nel senso che i gruppi, le lobby, gli interessi più forti determinano come vogliono il contenuto effettivo della legge. Il processo legislativo risponde terribilmente alla parabola del denaro, i marginali non contano proprio. Il condizionamento economico delle decisioni in America è organico a un sistema edificato sul continuum molto scivoloso denaro-politica.
Proprio in questo abbraccio mortale tra gli interessi privati ristretti e la legge risiede la fondazione teorica della necessità di un finanziamento pubblico della politica. Dove manca un sostegno pubblico, chi foraggia i candidati decide anche la norma giuridica e la politica è in gran parte l’autolegislazione degli interessi economici più aggressivi. Il tragitto europeo è per fortuna diverso. L’autonomia della politica è preservata anche grazie all’adozione del contributo pubblico. Persino nell’Inghilterra dagli anni Trenta vige un peculiare finanziamento che va però solo all’opposizione di sua Maestà, ritenuta svantaggiata rispetto al partito di governo che controlla l’amministrazione pubblica e opera quindi in condizioni di privilegio competitivo.
In un’Italia, dove i media agitano gli inquietanti spettri di una «partitopoli» per solleticare gli umori più regressivi, il proposito di togliere il finanziamento pubblico equivarrebbe di fatto a rendere strutturale il conflitto di interessi. Si avrebbe cioè un panorama pubblico desolante nel quale le fondazioni di imprenditori, tecnici, banchieri entrano nell’agone politico per ampliare l’influenza dell’azienda privata che ambisce a gestire direttamente gli affari generali.
Al posto dei partiti che mediano tra i diversi interessi, e danno voce ai ceti più deboli, sorgerebbe un seguito personale-patrimoniale garantito da fedeltà oblique che solo il denaro mantiene nel tempo. Quando al partito subentra il denaro si determina una completa opacità di ogni orizzonte statuale.
Per bloccare l’onda antipolitica, i partiti oggi giustamente scelgono la strada dell’autoriforma, non la delegano ai giudici (che scottanti problemi con escort, corruzioni, rapporti opachi con il denaro, inciampi con gli arbitrati, le consulenze, gli incarichi extragiudiziali, li hanno eccome in casa loro) o ai media vocianti che suonano il piffero per i grandi interessi economico-finanziari che vorrebbero una politica ancor più debole e sempre obbediente. Una filosofia della riforma del regime dei rimborsi elettorali dovrebbe muovere dall’idea di partito quale sede della rappresentanza sociale e costruttore di eguaglianza.
I partiti hanno il diritto a un finanziamento non in quanto gestiscono le pubbliche risorse e pertanto, coprendo un servizio, meritano l’elargizione di sostegni in denaro. Questa è la giustificazione debole dei costi della politica. I partiti diventano delle agenzie di rango semiamministrativo cui, per una prestazione fornita, è dovuto un compenso che viene monitorato.
I partiti però non sono delle strutture burocratiche che offrono un servizio alla società, ma sono la società stessa che organizza la propria differenza e impone confini, avanza pretese di identità. Bisogna perciò rovesciare l’ottica corrente: siamo agenzie iper-regolate e quindi copriteci d’oro. E imporre l’altra veduta: siamo la società che organizza la sua parzialità e quindi ci spettano i fondi pubblici, sulla cui destinazione controllateci pure con la severità che credete.

l’Unità 12.4.12
I giovani e l’alcol. Sbronza a digiuno per sentirsi del gruppo
Il report Istat su uso e abuso registra l’aumento del “Binge Drinking” ovvero dell’abitudine di bere fuori pasto con lo scopo di «sballare» Anziani e donne fra gli otto milioni di italiani con comportamenti a rischio
di Jolanda Bufalini


Solitudine-gruppo, malinconia-stare insieme, sono binomi da tenere presenti nel cercare una spiegazione del cambiamento di abitudini nel rapporto con l’alcol. L’indagine Istat su “uso e abuso dell’alcol” ci dice che otto milioni di italiani bevono in modo rischioso e, fra questi otto milioni, i gruppi più a rischio sono i giovani e giovanissimi e gli anziani. I parametri sono quelli dell’Oms e delle tabelle appese nei ristoranti e nei bar per evitare di incorrere nei rigori del codice della strada. Gli anziani bevono troppo anche semplicemente perché non sanno che dopo i 65 anni i 2-3 bicchieri al giorno, considerati la quantità moderata di consumo di vino, dovrebbero essere ridotti a uno. Quello che più colpisce è invece il gran numero di ragazzi e ragazzini che bevono fuori pasto, in discoteca o nei locali dove si fa l’happy hour, e bevono strane bevande dai colori fluorescenti, cocktail e amaro, superalcolici e birra a fiumi. Sono quasi il 19% i teenager (14-17 anni) che bevono fuori pasto (erano il 15,5 nel 2001). È una fascia di età particolarmente delicata, spiega l’indagine Istat, «perché non si è ancora in grado di metabolizzare adeguatamente l’alcol».
E ci sono «ragazze racconta Gustavo Pietropolli Charmet che mangiano lattuga dal lunedì al venerdì» poi ingollano una bomba caraibica e «vanno in coma etilico». È il fenomeno del Binge Drinking, più volgarmente detta la sbronza, una tantum «6 o più bicchieri di alcol in un’unica occasione». Anche fra le ragazze e i ragazzi dagli 11 ai 15 anni la percentuale dei comportamenti a rischio è alta (12%) e, dice il rapporto Istat, «è grave perché è un comportamento che pone le basi per possibili consumi non moderati nel corso della vita».
Gustavo Pietropolli Charmet ha appena pubblicato un libro, Cosa farò da grande? Il futuro come lo vedono i nostri figli (Laterza, 15 euro), è uno psicoterapeuta di formazione psicoanalitica e docente all’Università Milano-Bicocca. Tutti i suoi libri sono dedicati all’adolescenza. «C’è un motivo certo dice per spiegare l’uso e l’abuso dell’alcol non individuale come dello spinello o delle droghe leggere», lasciando da parte il disagio individuale che non ha a che fare con le statistiche. Questo motivo è un «nuovo soggetto antropologico, il gruppo». Nel gruppo si definiscono gli obiettivi: «ridere, facilitare la comunicazione, la confusione che fa stare assieme». Stare assieme, non necessariamente stare bene assieme. «Si abbassa il livello del pudore, si stabilisce una maggiore confidenza che sembra amicizia, si ha così l’impressione di avere passato una bella serata».
La domanda meno ovvia da porsi, invece, è perché il gruppo sia diventato così importante nella vita degli adolescenti. La spiegazione dello psichiatra è che i ragazzi sono già «immersi nella gruppalità da 0 a 15 anni, nella vita con i coetanei dal nido alla scuola superiore non hanno solo compagnia» formano anche le loro categorie di fondo, «cosa è giusto e cosa è ingiusto, cosa è bello e cosa no». È in questa dimensione che nasce la dipendenza, la disponibilità anche a «fare sacrifici». È il gruppo che beve troppo, senza distinzione di maschi e femmine, infatti la percentuale delle ragazze che beve è più alta di quella delle donne adulte. Magari al singolo non piace tanto o non è convinto, ma insieme «si supera la solitudine, la malinconia, la noia». In una periferia degradata, una banda di maschi può scegliere la violenza o la droga pesante, fra i ragazzi del centro, di buona famiglia si usa «l’alcol o la droga leggera per ottenere un effetto stupefacente blando che ti fa superare il rischio di sentirti solo». E infatti l’abitudine del Binge Drinking è più diffusa fra chi va in discoteca oppure in occasione di concerti e di spettacoli sportivi. Si sbronza di più chi va a ballare o alla partita (18%) di chi non ci va (6%) e in questo caso l’adolescenza si prolunga fino ai 44 anni (però forse quel 6% che beve troppo da solo sta peggio di chi si ubriaca in gruppo, è una percentuale che potrebbe denunciare disagio individuale).
Il cambiamento del modello di consumo tradizionale, basato sulla consuetudine di bere durante i pasti, è particolarmente evidente fra le donne. Diminuisce infatti il numero delle consumatrici giornaliere da 5 a 4 milioni (l’ossessione delle diete), ma aumenta da 3,3 a 4,5 milioni quello delle donne che bevono fuori pasto. Il 90% delle giovani fra i 16 e i 29 anni beve così mentre sulla sbronza più o meno a digiuno incide per il 65% la fascia degli adolescenti.
Il fenomeno del Binge Drinking che fa assomigliare il comportamento dei ragazzi italiani a quello dei loro coetanei del Nord Europa è in crescita ma non ha scalzato le consuetudini: in testa ai consumi di alcolici c’è sempre il Nord Est seguito a ruota dall’Italia Nord occidentale, e il vino è la bevanda preferita. Questo fa dire all’Osservatorio giovani che l’Italia resta un paese in cui c’è «maturità nel rapporto con le bevande alcoliche», mentre Cia e Confagricoltura ricordano che è importante l’educazione a bere bene.

il Fatto 12.4.12
Il primario di Vendola
Il leader di Sel indagato per aver favorito una nomina al San Paolo di Bari. “Volevo il migliore”
di Antonio Massari


Quel concorso deve vincerlo Sardelli. Non ti preoccupare, ti copro io”: c’era chi, come Nichi Vendola, “istigava” a far vincere il migliore. E si ritrova indagato nello scandalo Sanità. E c’era chi, come Lea Cosentino, per far vincere il migliore doveva realizzare una “forzatura”. Il fatto più strano, poi, è che negli atti si legge: in quel concorso fu “omessa la nomina della commissione per la valutazione tecnica”. È davvero dura, in Puglia, la vita dei luminari della scienza. Prendiamo il caso del primario Paolo Sardelli. Dice Vendola che è “il migliore”, una “vera promessa della scienza medica”, che “l’'inchiesta non mette in dubbio le sue qualità”. Dice Lea Cosentino – ex direttore generale della Asl – che era il “più titolato” e per questo motivo vinse il concorso. Eppure, proprio per la nomina di Sardelli, Vendola è indagato per concorso in abuso d’ufficio con la Cosentino.
SEGNO che il caos, nella Sanità pugliese, è giunto al suo paradosso: un luminare della chirurgia, per diventare primario, dev’essere raccomandato dal Governatore. Non solo. Il punto è che, secondo l’accusa, è stata necessaria la “forzatura” di Vendola che, per Sardelli, chiese di riaprire un concorso ormai chiuso e rassicurò il direttore generale della Asl: “Ti copro io”. Il punto - stando all’accusa - è che a Sardelli fu “intenzionalmente provocato un ingiusto vantaggio patrimoniale”. E fu invece “arrecato una danno ingiusto a Luigi Cisternino, Achille Lococo e Gaetrano Napoli: forse non saranno più “titolati” di Sardelli, ma almeno, la domanda per diventare primario, l’avevano presentata nei tempi giusti. Riaperti i termini, invece, vinse il Sardelli “raccomandato” dal Governatore.
Ma in Puglia la “raccomandazione” - a voler sentire le giustificazioni di Vendola, ieri, in conferenza stampa - si trasforma in una sorta di atto dovuto: “L’unica mia raccomandazione era che vincesse il migliore. A questo concorso, come a tutti i concorsi, mi sono interessato perché fossero concorsi veri, che avessero una platea credibile di partecipanti, che potesse vincere il migliore. Chiunque, qualunque direttore generale sa che i miei unici interventi, rari, relativamente ai concorsi sono stati sempre mirati alla raccomandazione che potesse vincere il migliore. E l’indagine non mette in dubbio la qualità del professor Sardelli che non è coinvolto nell’indagine”. L’indagine mette a fuoco, però, il sistema che Lea Cosentino - nota anche come Lady Asl - ha descritto ai pm Desirée Di Geronimo e Francesco Bretone. E la Cosentino, che parla di una sorta di “manuale Cencelli” per lottizzare la Sanità, descrive la nomina di Sardelli come il frutto di una vera e propria “pressione”.
“Un’altra pressione - racconta Lady Asl - riguarda la nomina di un primario per l’unità operativa di chirurgia toracica del presidio ospedaliero San Paolo. Nel 2008 era andato in pensione il professor Carpagnano (…) Bandimmo il concorso, Vendola mi chiese di procedere velocemente e sponsorizzò la nomina di Sardelli al policlinico di Foggia, suo amico e secondo lui molto bravo”.
SARDELLI, però, non si candidò: “Espletai il concorso - continua la Cosentino - ma il dottor Sardelli non presentò la domanda, confidando di poter essere collocato presso il Di Venere (un altro ospedale, ndr) ”. Ma al Di Venere non fu bandito alcun concorso. Ed ecco come riprende il racconto della Cosentino: “Vendola mi chiese insistentemente di riaprire il concorso (all'ospedale San Paolo, ndr) per consentire al dottor Sardelli di parteciparvi. Io, a fronte di tali richieste, e nonostante fosse stata già composta la commissione, che non si era ancora riunita, riaprii i termini del concorso, anche se non ero d’accordo, con la scusa di consentire il massimo accesso a tutte le professionalità. Era chiaramente una forzatura ma Vendola mi disse di farlo perché mi avrebbe tutelata. Vinse il dottor Sardelli poiché era effettivamente il più titolato”. “L’ho licenziata – ribatte Vendola alle parole della Cosentino - ed è animata da risentimento nei miei confronti. Ci sono soltanto le sue parole: senza le sue frasi non si sarebbe potuto prefigurare un capo d’imputazione nei miei confronti”. Lady Asl raccontò alla procura anche il sistema della lottizzazione, a partire dal 2005, parlando di applicazione del “manuale Cencelli”: “Il manuale Cencelli si applicava in questo modo: quando una Asl andava in quota Ds con il direttore generale, poi il direttore amministrativo e il direttore sanitario dovevano essere di area o della Margherita, o socialista, o di Rifondazione e viceversa. Vendola e Tedesco ci chiamavano e ci dicevano chi nominare. Non conoscevamo le persone che nominavamo, né la loro professionalità, se non dai curricula”.

La Stampa 12.4.12
Vendola indagato “Favorito un primario”
Accusato da “Lady Asl”. L’ipotesi di reato: abuso di ufficio
di Carmine Festa


BARI Stavolta Nichi Vendola ha giocato d’anticipo. Ha convocato i giornalisti ieri pomeriggio per comunicare di aver ricevuto un avviso di conclusione delle indagini dalla Procura di Bari. L’ipotesi di reato per il governatore della Puglia è concorso in abuso d’ufficio. L’accusatrice è Lea Cosentino, indagata nello stesso procedimento. Vendola, secondo la Procura, avrebbe spinto per la nomina del professor Paolo Sardelli a primario di chirurgia toracica dell’ospedale San Paolo di Bari.
Vendola si difende. Prima di andare dai magistrati in Procura, il governatore della Puglia racconta la sua versione ai cronisti: «Mi dichiaro assolutamente sereno, come sempre in passato. Perché ogni mia azione è stata sempre improntata a garantire la trasparenza». E poi ha aggiunto: «L’accusa nasce solo e soltanto dalle dichiarazioni della dottoressa Lea Cosentino». Questo nome non è nuovo alle cronache giudiziarie baresi che riguardano gli scandali della sanità pugliese. Lea Cosentino, soprannominata «Lady Asl» è stata fino a poco tempo fa un potentissimo manager della sanità pugliese. Poi fu arrestata nell’ambito delle inchieste su Gianpi Tarantini e il suo «sistema» di corruzione dei medici in tutta la regione convinti - secondo l’accusa della Procura - ad acquistare protesi e apparecchiature mediche in cambio di regali e favori di ogni genere.
Lea Cosentino ora attacca Nichi Vendola. E nell’interrogatorio dell’8 aprile scorso ricostruisce i passaggi che poi ha tradotto in accuse: «Nel 2008 era andato in pensione il professor Carpagnano, molto bravo, e infatti quel presidio andava molto bene. Bandimmo il concorso e Vendola mi chiese di procedere velocemente e sponsorizzò la nomina del dottor Sardelli del Policlinico di Foggia, suo amico e, secondo lui, molto bravo». Poi Cosentino aggiunge: «Espletai il concorso ma il dottor Sardelli non presentò la domanda confidando di poter essere collocato presso il Di Venere (altro ospedale di Bari) in una istituenda unità complessa». E conclude: «Quando Sardelli appurò attraverso Francesco Manna (capo di gabinetto di Vendola) che l’unità non si sarebbe realizzata, Vendola mi chiese di insistentemente di riaprire il concorso per consentire al dottor Sardelli di parteciparvi». E quel concorso fu riaperto? Lea Cosentino ammette: «A fronte di tali richieste (...) lo riaprii».
Ed è proprio contro Lady Asl che Nichi Vendola si è scagliato ieri: «Cosentino asserisce che all’origine di questa mia veemente interferenza ci sarebbe la mia amicizia con il professor Paolo Sardelli, elemento questo che è già stato smentito nei mesi scorsi dal professor Sardelli che ho conosciuto per essere una vera promessa della scienza medica. Ma io a questo concorso, come a tutti i concorsi mi sono interessato nella misura di chiedere che fossero concorsi veri, che avessero una platea credibile di partecipanti e che potesse vincere il migliore».
I toni del presidente e leader di Sinistra Ecologia e Libertà tradiscono l’irritazione per essere finito ancora al centro di indagini giudiziarie sulla sanità pugliese. La prima volta fu nei primi mesi del 2009 quando - sempre per presunte pressioni per la nomina di un primario all’ospedale «Miulli» ad Acquaviva delle Fonti nel barese - Vendola fu iscritto nel registro degli indagati della procura di Bari. L’assessore in carica era il senatore Pd Alberto Tedesco, poi dimessosi dall’incarico in polemica con il Pd. Anche allora Vendola prese un’iniziativa che fece discutere. Prima dell’estate inviò una lettera aperta al magistrato Desirèe Digeronimo, accennando alla sua difesa, che poi sostenne durante l’interrogatorio in procura. La bufera giudiziaria sul governatore fu arricchita da intercettazioni telefoniche di colloqui tra lui e Tedesco nei quali - per l’accusa - proprio il presidente si sarebbe informato sulle nomine ospedaliere e avrebbe spinto qualche nome. L’inchiesta finì con l’archiviazione della posizione di Vendola.

Corriere della Sera 12.4.12
La chimera del rinnovamento Rai. I veti dei partiti vincono ancora
di Paolo Conti


Viale Mazzini, ovvero della Grande Rimozione Collettiva. Il Consiglio di amministrazione presieduto da Paolo Garimberti ha ormai girato la boa dei tre anni di incarico previsti dalla legge Gasparri, ha approvato il bilancio 2011 che l'assemblea degli azionisti (il ministero del Tesoro) licenzierà al più tardi l'8 maggio. Una storia finita, insomma. La massima azienda editoriale di questo Paese, lo strumento mediatico che continua a unire l'Italia avrebbe gran bisogno di vertici nuovi, motivati, intellettualmente preparati, doverosamente lontani da legami con la politica. E se li meriterebbe, poiché gran parte dei dipendenti è formata da professionisti appassionati e di ottimo livello.
E invece già si sopravvive nell'inevitabile morta gora di una proroga di fatto, con lo stanco rito di un Consiglio di amministrazione già convocato per giovedì 19 aprile: con la sicura prospettiva che nulla di editorialmente rilevante potrà essere varato. Perché è tutto fermo? Semplicemente perché nessuno parla più di Rai, nodo sul quale Pd e Pdl ancora confliggono. Mario Monti, l'8 gennaio, intervistato da Fabio Fazio in «Che tempo che fa», aveva promesso soluzioni «entro qualche settimana». Ma maggio è a un passo e i veti incrociati hanno per ora vinto. Il Pd è fermo sulla posizione del segretario Pier Luigi Bersani (non parteciperemo a un rinnovo dei vertici con la legge Gasparri). Il Pdl si è opposto fieramente a qualsiasi revisione dei criteri di nomina.
L'ultima voce di un ipotetico accordo risale al 20 marzo, quando si immaginò un Cda nominato con la Gasparri ma senza esponenti legati ai partiti. Poi, silenzio. La tv pubblica rischia di annegare nella melma creata dagli stessi partiti che, a colpi di facili slogan, per la Rai fantasticano un futuro solo manageriale. Ma così si rischia la paralisi. O si profila il ricorso a nomine dell'ultimo momento, in puro stile Primissima Repubblica, dettate dalla furia delle scadenze di legge e non da una doverosa strategia. Quanto di peggio per una Rai che avrebbe la massima urgenza di girare pagina, al passo con ciò che sta avvenendo nel Paese.

Corriere della Sera 12.4.12
Perché aumentano le diseguaglianze
di Francesco Saraceno


Caro direttore, i dati sui salari diffusi da Eurostat hanno suscitato un'accesa discussione sulla performance italiana rispetto agli altri Paesi europei. Il dibattito ha fatto ombra ad un altro aspetto dello studio, recentemente certificato anche dall'Ocse: la crisi ha esacerbato un trend decennale di aumento della diseguaglianza. L'allargamento della forbice ha preso forme diverse. In alcuni Paesi, ad impoverirsi sono state le classi medie, mentre in altri (la Cina) sono stati i poverissimi. Ma ovunque la redistribuzione ha avvantaggiato i ricchi e soprattutto i ricchissimi. Ci sono ovviamente molti motivi di ordine etico e sociale per preoccuparsi di una società dove le diseguaglianze crescono in maniera costante. Ma questo crea problemi anche dal punto di vista dell'economia. La tendenza verso una maggiore disparità è come un movimento carsico, che negli scorsi decenni ha reso più fragili le nostre economie, causando l'accumularsi di squilibri globali: eccesso di risparmio in alcuni Paesi (Germania, Est asiatico), ed eccesso di domanda in alcuni altri (Stati Uniti, periferia della zona euro). Il trasferimento di risorse da poveri e classi medie, che spendevano in consumi la quasi totalità del proprio reddito, a quelle più agiate, che invece ne risparmiano una parte consistente, ha avuto due effetti: da un lato la riduzione della propensione media al consumo, e conseguentemente una tendenza al ristagno della domanda aggregata; dall'altro, l'aumento del risparmio che ha alimentato bolle speculative in serie.
Come si spiega tuttavia che lo stesso fenomeno, un aumento della diseguaglianza e la conseguente compressione della domanda aggregata, abbia portato in alcune zone ad eccessi di risparmio, e in altre ad eccessi di domanda? La risposta va ricercata nell'interazione di questa tendenza, comune a tutti i Paesi, con le differenze istituzionali, e con le risposte di politica economica che hanno invece preso forme estremamente diverse. Negli Usa la diminuzione del reddito è stata compensata dal ricorso all'indebitamento privato, favorito da un sistema finanziario sempre meno regolamentato. Conseguentemente la domanda aggregata (consumi e investimenti) è rimasta elevata, ma ad alimentarla era il debito e non i redditi. In Europa, regole più restrittive e politiche monetarie meno accomodanti hanno reso più difficile il ricorso all'indebitamento per famiglie e imprese, mentre i consumi pubblici erano vincolati da Maastricht e dal Patto di Stabilità; il risultato è stato un lungo periodo di crescita inferiore al potenziale. Per due decenni, la scelta è quindi stata tra la Scilla di una crescita drogata dal debito, e la Cariddi di un'economia stagnante o quasi.
Per ritornare a una crescita più bilanciata occorre incidere sulle cause profonde della crisi e cominciare a ridurre le diseguaglianze, invertendo la tendenza degli ultimi tre decenni. Si dovrebbe agire su più fronti: innanzitutto tornando a sistemi di tassazione più progressivi. In secondo luogo, a livello europeo, con un reale coordinamento delle politiche di tassazione, volto ad evitare la concorrenza fiscale, che sovente prendono la forma di forti riduzioni d'imposta sui redditi elevati. Occorrerebbe poi tornare a sviluppare il ruolo assicurativo dello stato sociale, con particolare attenzione agli ammortizzatori sociali. Infine, sarebbe auspicabile una rinnovata attenzione all'offerta di beni pubblici, in particolare quelli immateriali, come l'istruzione e la sanità. Nel loro insieme, queste misure ridurrebbero le diseguaglianze di reddito e di consumo, stabilizzando il ciclo economico e consentendo una crescita forse meno elevata, ma certamente più sostenibile ed equa.
Senior economist Ofce, Centro
di ricerche in economia, Parigi

La Stampa 12.4.12
Grass: Israele usa con me i metodi della Ddr
Il Nobel tedesco replica alle autorità di Tel Aviv che l’hanno dichiarato “persona non gradita”
di Alessandro Alviani


Berlino. L’ ondata di critiche che si è abbattuta su quei suoi versi in cui definiva Israele «una minaccia per la pace nel mondo» non ha scalfito la vena polemica di Günter Grass. Anzi: lo scrittore premio Nobel per la Letteratura rilancia e lo fa con un paragone «politicamente scorretto» nell’odierna Repubblica federale. La reazione di Israele, che lo ha dichiarato persona non grata, ricorda i metodi tipici della Ddr, la defunta Germania dell’Est, e soprattutto della Stasi, l’onnipresente polizia segreta tedesco-orientale, ha scritto Grass sulla Süddeutsche Zeitung . Il ministro degli Interni israeliano Eli Yishai sullo stesso piano di Erich Mielke, il famigerato numero uno della Stasi? «Finora - argomenta Grass nel commento, intitolato “Allora come oggi” - mi è stato vietato per tre volte l’ingresso in un Paese. Ha cominciato la Ddr, su ordine di Mielke, che alcuni anni dopo annullò sì il divieto, ma ordinò di intensificare le misure di spionaggio nei miei confronti, classificandomi come un “elemento sovversivo” La seconda volta è stata nel 1986, quando la Birmania vietò l’ingresso a me e a mia moglie, ritenendo la nostra visita “indesiderata”». «In entrambi i casi è stata seguita la prassi tipica nelle dittature», nota Grass. «Adesso è il ministro degli Interni di una democrazia, lo Stato d’Israele, che mi punisce col divieto d’ingresso e la motivazione addotta per la misura coercitiva da lui ordinata ricorda - nei toni - il verdetto del ministro Mielke». «Tuttavia - continua - così non potrà di certo impedirmi di tener vivo il ricordo dei miei numerosi viaggi in Israele, un Paese a cui mi sento ancora inscindibilmente legato». La Ddr non c’è più, conclude Grass, ma il governo israeliano, in quanto potenza atomica di dimensioni incontrollate, si sente arbitrario e non ha recepito finora nessun richiamo. «Soltanto la Birmania lascia germogliare una piccola speranza», è la sua caustica chiusura.
Si tratta della prima reazione di Grass alla decisione di Israele di vietargli l’ingresso sul proprio territorio. Ed è una reazione destinata a riaccendere le polemiche che vanno avanti incessanti da mercoledì scorso, da quando, cioè, l’autore del Tamburo di latta ha pubblicato su alcuni quotidiani europei la poesia Quello che deve essere detto , in cui accusava Israele di rappresentare con la sua potenza nucleare un pericolo per la pace nel mondo, in quanto prepara un attacco preventivo contro l’Iran, e criticava la vendita a Gerusalemme, da parte della Germania, di sottomarini capaci di trasportare missili nucleari. Immediato lo scontro tra Grass, accusato di antisemitismo, e Israele che non solo ha chiesto di ritirargli il Nobel (pronto il no dell’Accademia svedese), ma gli ha anche chiuso la porta. Una mossa, quest’ultima, biasimata persino da quanti non condividono una virgola della poesia: Grass «non ha capito niente», tuttavia il bando deciso da Gerusalemme «non va bene, assolutamente no», ha detto a La Stampa lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua.
Intanto il neopresidente tedesco Joachim Gauck prepara la sua prima visita ufficiale in Israele, su invito di Shimon Peres. Il viaggio, che si terrà a breve, sarebbe stato concordato prima delle polemiche suscitate da Quello che deve essere detto . Sarà un’occasione per far posare il polverone sollevato «con l’ultimo inchiostro» dall’ottantaquattrenne Grass.

Corriere della Sera 12.4.12
«I vostri privilegi? Eccessivi La Cina non investa in Italia»
L'economista Xie: gli aiuti non risolvono i problemi
di Andy Xie


La crisi del debito in Europa si protrarrà probabilmente per diversi anni a venire. Le possibili soluzioni richiedono un significativo ridimensionamento del tenore di vita per molti Paesi dell'Europa meridionale e radicali riforme del suo mercato del lavoro. Entrambi questi obiettivi hanno come presupposto il consenso e la collaborazione di cittadini, al momento assenti. L'aiuto esterno, attraverso salvataggi o investimenti, non farà che prolungare la crisi, dal momento che fornisce ai politici gli strumenti per mantenere lo status quo.
La Cina non deve cadere in questa trappola, specialmente nel caso dell'Italia. La crisi del debito nella zona euro riguarda fondamentalmente l'Italia, non la Grecia. L'attuale premier, che pure sta facendo un buon lavoro, difficilmente riuscirà a cambiare la società italiana, poiché non è stato eletto. Gli investimenti esteri in Italia rischiano di essere una forma di beneficenza. I lavoratori locali metterebbero probabilmente sul lastrico gli ignari investitori stranieri. L'economia italiana è organizzata in modo tale da massimizzare i salari e minimizzare l'attività lavorativa. Gli investimenti funzionano solo nel caso degli enti locali con agganci politici. Il diritto di proprietà, una volta passato in mani straniere, rischia di perdere sostanza.
La zona euro non abbandonerà il suo modello economico da un giorno all'altro. La crisi del debito si manifesterà attraverso un'espansione monetaria per mantenere i tassi d'interesse reali negativi. Probabilmente gli investimenti esteri nei titoli di Stato della zona-euro registreranno perdite a causa del deprezzamento della moneta unica.
Gli aiuti all'Italia potrebbero favorire gli scambi commerciali cinesi. Ma i benefici indiretti sono troppo ridotti. Inoltre, l'aiuto esterno serve solo a posticipare il giorno della resa dei conti. A prescindere dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio Mario Monti, Cina non dovrebbe investire in Italia.
Partecipando a una conferenza in una città dell'Italia del Nord, le difficoltà dell'economia del Paese appaiono evidenti.
È affascinante osservare come un dipendente di una società di traghetti riesca a rallentare sistematicamente la vendita di biglietti a una lunga fila di turisti in attesa che guardano sbigottiti le imbarcazioni semivuote che partono lasciandoli a terra. Nelle stazioni ferroviarie e nei treni ad alta velocità i lavoratori in esubero sono la normalità. I problemi del settore pubblico in Italia sono simili a quelli sperimentati dalla Cina con le aziende a proprietà statale negli anni Novanta, ma molto più gravi.
In Italia il settore privato funziona meglio di quello pubblico, ma non più di tanto. Numerose attività appaiono soggette a restrizioni da parte del governo e dei sindacati. La risposta all'offerta è praticamente inesistente. L'economia italiana privilegia il tempo libero più di quanto avvenga in molti altri Paesi, come dimostra il settore del commercio al dettaglio. L'orientamento al mercato, in ogni caso, è decisamente più scarso di quanto dicano il governo e i sindacati. L'economia italiana è in stagnazione da circa dieci anni. E le leggi che vanno contro il mercato costituiscono un grave problema.
Con una deregolamentazione tale da rendere possibile una rapida risposta all'offerta, l'economia italiana potrebbe conoscere una crescita vivace e pluriennale. L'economia potrebbe crescere del 20-30% rispetto alle sue dimensioni attuali. Il debito pubblico italiano oggi è pari al 120% del Pil. Un incremento dell'efficienza permetterebbe di ripagarlo interamente in meno di dieci anni. L'inefficienza autoinflitta è sicuramente il più importante fattore all'origine della crisi italiana. È per questo che l'aiuto esterno non rappresenta in alcun modo la soluzione. Quest'ultimo serve solo a dare a economie in difficoltà gli strumenti per evitare di affrontare i propri problemi.
Una problema che incontro spesso in Europa è il nesso tra condizioni di lavoro e diritti umani. Il messaggio implicito è che la Cina fa concorrenza sleale negando ai suoi lavoratori i diritti umani fondamentali. Credo fermamente nei diritti umani e nella necessità di condizioni di lavoro dignitose. Ma dov'è che finiscono le condizioni di lavoro eque e cominciano le forze di mercato?
Limitare il potere di azione di altri individui sembra il principio cardine dell'attuale modello di giustizia europeo.
Il fatto che gli europei non possono limitare le ore di lavoro in altri Paesi è fonte per gli stessi di frustrazione. Lamentarsi delle condizioni di lavoro in Cina, per esempio, è diventato il modo più comune per giustificare le difficoltà economiche del Vecchio Continente. Le politiche europee che limitano le ore di lavoro equiparano gli esseri umani a specie a rischio come i panda. A ben vedere, molti europei sembrano comportarsi come questi animali, dal momento che considerano i privilegi alla stregua di diritti. La sindrome del panda è la causa di fondo della crisi del debito in Europa. Se questa forma mentis non verrà superata, la crisi della zona euro non accennerà a scomparire.
Andy Xie, Economista indipendente

La Stampa 12.4.12
Nadine Gordimer
Sudafrica, non ci resta che resistere
Nel nuovo romanzo la scrittrice racconta la difficile normalità nel suo Paese, nonostante la fine dell’apartheid
di Paolo Mastrolilli


La grande delusione Abbiamo la costituzione, lo Stato di diritto e molta più libertà. Però sarebbe ipocrita nascondere il 25% di disoccupazione, il gap crescente tra ricchi e poveri, la criminalità C’è la corruzione, di Zuma e di molti altri. Non mi aspettavo che il lusso e le spese pazze diventassero così importanti da renderci tanto materialisti Premio Nobel nel 1991 Nadine Gordimer ha 88 anni, essendo nata a Johannesburg il 20 novembre 1923. Ha vinto il Nobel per la letteratura nel 1991 e il Booker Prize nel 1974. In Italia i suoi romanzi sono pubblicati da Feltrinelli; in Usa, Gran Bretagna e Sudafrica è appena uscito l’ultimo, No Time Like The Present
E quando hai vinto, quando hai realizzato il sogno della tua vita, ma non somiglia a quello che avevi immaginato, cosa resta da fare? «Resistere», risponde senza esitazione Nadine Gordimer. «Abbiamo resistito durante gli anni dell’apartheid, continueremo a farlo adesso».
Raggiungiamo la premio Nobel per la letteratura al telefono nella sua casa di Johannesburg, perché in libreria è appena arrivato No Time Like The Present, il romanzo che vale un’esistenza. Racconta la storia di Steven Reed, bianco di madre ebrea, e Jabulile Gumede, nera e figlia di un pastore metodista, che si erano sposati nella clandestinità mentre lottavano contro l’apartheid, ma adesso faticano a godersi la normalità del Sudafrica liberato. Al punto che pensano di emigrare, in Australia.
«È una storia d’amore. Racconta il viaggio di una coppia, attraverso le difficoltà che si incontrano quando si passa da una vita eccezionale alla normalità».
Non è anche una metafora del Sudafrica di oggi?
«Certo, anche se non l’avevo pensato come un romanzo politico».
Lei ha mai considerato di emigrare?
«No, mai. Ho resistito alle difficoltà dell’apartheid, resisterò alla disillusione di oggi, proprio per cambiare le cose».
È delusa?
«Lo siamo tutti, era logico sperare in qualcosa di meglio».
Il Sudafrica è tornato in uno stato d’emergenza?
«Non come all’epoca dell’apartheid, perché adesso abbiamo una costituzione, lo Stato di diritto e molta più libertà. Però sarebbe ipocrita nascondere problemi come il 25% di disoccupazione, il gap crescente tra ricchi e poveri, le tensioni per l’immigrazione, la criminalità».
Perché siete finiti così?
«Mentre lottavano per la libertà, Steven e Jabulile non avevano avuto il tempo di pensare a come sarebbero state le loro vite, una volta ottenuto l’obiettivo. Così il Sudafrica, mentre combatteva contro l’apartheid, non poteva prevedere anche la necessità di fronteggiare l’emergenza di tre milioni di immigrati da un paese fallito come lo Zimbabwe. Però ci potevamo preparare meglio, e non è stato fatto».
Cosa l’ha delusa di più?
«La corruzione, del presidente Zuma e di molti altri. Capisco che abbiamo sofferto durante gli anni della lotta, e quindi adesso vogliamo tutti una vita più agiata, ma non mi aspettavo che il lusso e le spese pazze diventassero così importanti da renderci tanto materialisti».
L’African National Congress rischia di perdere la leadership del Paese?
«Sarebbe una tragedia. Mi auguro di no, anche perché non credo che i partiti di opposizione siano pronti. Però a dicembre avremo un grande congresso per scegliere il successore di Zuma: spero che riusciremo a individuare la persona giusta, altrimenti rischiamo di giocarci tutto».
È solo un problema di leadership?
«Camminare nelle orme di Nelson Mandela non era facile, bisognava aspettarsi un calo della qualità nella nostra dirigenza. Il problema, però, è soprattutto avviare in fretta le riforme di cui il Paese ha bisogno».
Lei quali vorrebbe?
«Io credo che tutto sia riconducibile alla povertà, alla promessa mancata di offrire a ognuno pari opportunità. Quando non hai da mangiare, quando devi lottare per la sopravvivenza, tutto diventa più difficile e violento».
Come si combatte la povertà in Sudafrica?
«Cominciamo eliminando la corruzione, perché vedere vecchi leader rivoluzionari che navigano nel lusso non aiuta il Paese. Poi bisogna dare opportunità a tutti: sul piano legale l’eguaglianza esiste, ma se non c’è un sistema scolastico adeguato a far crescere ogni segmento della popolazione, il problema non si risolve. Del resto abbiamo bisogno proprio di lavoratori specializzati, per rilanciare la nostra economia, e quindi questo diventa un cane che si morde la coda».
Nel 2006 lei è stata assalita dai rapinatori in casa sua: da cosa dipende questa esplosione della criminalità?
«Dalla povertà, ancora una volta. È un problema che si risolve solo creando lavoro, non costruendo prigioni».
Anche i milioni di immigrati che arrivano dallo Zimbabwe e da altri Paesi africani sono un’emergenza, ma lei non vuole usare a parola «xenofobia» per descrivere la reazione dei sudafricani. Perché?
«È un errore parlare di fobia verso lo straniero, il diverso, perché non siamo diversi. Gli immigrati che provocano tanta tensione, portando via il lavoro ai sudafricani, vengono dal nostro continente, hanno lo stesso colore della pelle, e purtroppo hanno alle spalle lo stesso problema che ora minaccia anche noi: Stati falliti, incapaci di garantire la loro sopravvivenza. Paradossalmente, sono le nostre similitudini che ci allontano, non le diversità».
Nel romanzo Steven è ebreo e Jabulile cristiana: ora vi divide anche la religione, oltre al colore della pelle?
«Ma il loro credo comune era la libertà. Quello ha fallito. E non si riaggiusta il Paese, se non troviamo il modo di mantenere le promesse della rivoluzione».
Lei ha ottantotto anni e parla di resistere. Dove la trova la forza?
«Questa è la mia vita. Voi europei, però, andateci piano con i giudizi. Noi siamo liberi da 19 anni, nemmeno una generazione. Siamo partiti senza istituzioni democratiche, senza cultura, con una popolazione nera abbandonata e estremamente arretrata. Era irrealistico aspettarsi un pieno successo, con opportunità uguali per tutti, in così poco tempo. Ma anche voi europei, per quanto io ami l’Italia, siete affogati nella corruzione e nella crisi economica. Non cerco scuse, ma ho le mie ragioni per resistere».

Corriere della Sera 12.4.12
I segreti dei grandi maestri: gesti, sguardi, telepatia
Gergiev: meglio senza bacchetta. Maazel «psicologico»
di Matteo Persivale


Tecnicamente, i gesti della mano tramite i quali è possibile dirigere un'orchestra sono semplici, al punto che per impararli basta studiare una semplice brochure (o, in questi tempi tecnologici, guardare un corso apposito sui video di YouTube). Ma è come dire che basta passare l'esame della patente B per essere in grado di vincere un Gran Premio di Formula 1: per arrivare sul podio di una sala da concerto o di un teatro d'opera ci vogliono talento, sensibilità d'interprete, la determinazione di una vita di studio e un fattore misterioso, difficilmente definibile anche da parte degli stessi direttori. Per cercare di dare una risposta giocosa a questo quesito impossibile da risolvere — qual è il segreto dei grandi direttori? — il New York Times ha appena fatto un esperimento.
Con uno scanner speciale, ha provato a registrare i movimenti delle braccia di Alan Gilbert, direttore musicale della gloriosa filarmonica newyorchese, cercando di scomporre ogni gesto di una sua performance e carpirne i segreti. E il giornale ha intervistato un gruppo di direttori d'orchestra tra quelli che più spesso dirigono in città tra Metropolitan Opera e New York Philharmonic: Gilbert, Yannick Nézet-Séguin, Valery Gergiev, Xian Zhang, James Conlon.
Il russo Gergiev, che non usa quasi mai la bacchetta, ha spiegato che «la parte più difficile del dirigere un'orchestra è farla cantare: è qui che c'è bisogno di usare entrambe le mani. Per aiutare gli strumenti a cantare». Usare la bacchetta, secondo Gergiev, «non aiuta il suono». E secondo Nézet-Séguin, altrettanto importanti sono gli occhi del direttore: «È come se la mia faccia cantasse insieme con la musica».
D'accordo anche Zhang, direttore musicale dell'Orchestra Verdi di Milano, una delle pochissime donne in quello che rimane un «club» quasi esclusivamente maschile, quello dei direttori al top della professione: «Gli occhi sono la parte del corpo più importante in assoluto quando si dirige un'orchestra. Gli occhi dovrebbero essere quelli che rivelano nel modo più chiaro l'intento del direttore. Mostrano quello che noi direttori sentiamo dentro». Uno dei trucchi del mestiere, confermano Gergiev e Nézet-Séguin, è quello di non scambiare sguardi soltanto con le prime parti dell'orchestra ma anche con i professori nelle file più lontane dal podio: «Così li fai sentire parte del gioco», conferma Nézet-Séguin. E Gergiev: «Se guardo un musicista, vuol dire che mi interesso a lui. E questo lo fa interessare a me. In tutto quel che faccio, cerco di affidarmi all'espressione e al contatto visivo». Ma davvero l'essenza del mestiere — Riccardo Muti ama ripetere il paradosso per il quale «il direttore deve fare musica pur essendo l'unico a non suonare uno strumento» — resta impossibile da scansionare con un computer o spiegare a un cronista: una delle lezioni più importanti che Zhang ha imparato dal suo maestro, Lorin Maazel, è la telepatia. «Una proiezione mentale, un'immagine mentale del suono che si vuole produrre. È la mente a dirigere le mani».
Specialmente se si considera come i più grandi di sempre abbiano quasi costantemente infranto le regole classiche raccomandate dai libri di testo: Hans von Bülow, il primo direttore superstar della storia (e primo marito di Cosima Wagner) utilizzava il podio durante le prove per fare criptici commenti su letteratura e politica apparentemente privi di legami con la composizione che stava dirigendo. Herbert von Karajan dirigeva spessissimo a occhi chiusi (e addio contatto tra sguardi). I bizzarri movimenti sul podio del corpo di Wilhelm Furtwängler, un altro dei sommi, idolo di Claudio Abbado e primo maestro di Daniel Barenboim, vennero paragonati da un celebre violinista agli «spasmi di un burattino». Carlo Maria Giulini aveva l'abitudine di sillabare la melodia con le labbra, cosa sconsigliata da qualunque insegnante in Conservatorio.
Computer a parte, un dato curioso è che tra i direttori d'orchestra ci sono diverse abitudini (dirigono con o senza bacchetta; con o senza un forte coinvolgimento della mano che non tiene la bacchetta per articolare le dinamiche) ma un dato costante. Dirigono praticamente tutti con la mano destra (quella che, bacchetta o no, segna i tempi). Nella serie A globale del podio ce n'è uno soltanto, lo scozzese Donald Runnicles, che tiene la bacchetta nella sinistra. Perché anche i direttori mancini — a parte Runnicles — sanno che i professori d'orchestra sono abituati a guardare soprattutto quella mano, dominante. Così tanti direttori mancini tengono la bacchetta nella destra, per tradizione, per facilitare i professori e anche perché in Conservatorio gli è stato consigliato così. Runnicles invece rovescia in senso speculare lo schieramento di tutta l'orchestra. Per chiarire prima ancora del suo ingresso in sala chi comanda.

mercoledì 11 aprile 2012

l’Unità 11.4.12
Due tempi Subito le norme su controlli e trasparenza, poi l’attuazione dell’articolo 49
Bersani «La risposta alla cattiva politica non è l’antipolitica, ma la buona politica»
Fondi ai partiti. Oggi la proposta di Pd, Pdl e Terzo Polo
Oggi la proposta di legge sui rimborsi ai partiti di Pd, Pdl e Udc. Corte dei conti disponibile ai controlli. Cancellieri: «Alle forze politiche ogni espressione sul tema». L’ipotesi del via libera in commissione
di Simone Collini


Subito nuove norme per assicurare maggior controllo e trasparenza sull’utilizzo dei rimborsi elettorali, ma poi il confronto dovrà proseguire su un più complessivo riordino del sistema politico. Pd, Pdl e Terzo polo hanno concordato un percorso in due tempi, per la riforma dei partiti. Dopo l’intesa raggiunta da Pier Luigi Bersani, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini sulla necessità di accelerare sulle nuove regole riguardanti i bilanci delle forze politiche, gli sherpa delle tre froze politiche che sostengono il governo hanno iniziato a mettere nero su bianco un testo che entro stasera incasserà il via libera definitivo, per poi essere discusso da domani anche con gli altri partiti.
Ma il lavoro portato avanti in queste ore da Antonio Misiani e Gianclaudio Bressa (per il Pd), Rocco Crimi e Massimo Corsaro (per il Pdl), Bendetto della Vedova (per Fli) e Giampiero D'Alia (per l’Udc) non si chiuderà con la definizione della proposta di legge che avrà come punti cardine il controllo dei bilanci da parte della Corte dei conti (che si è detta favorevole a svolgere questo compito, senza affidarlo ad un’Authority ad hoc), l’obbligo della pubblicazione su internet dei rendiconti finanziari, l’abbassamento della soglia (da 50 a 5 mila euro) per le donazioni anonime e una serie di sanzioni (fino all’azzeramento) per chi non rispetti i criteri stabiliti dalla nuova legge.
Nel corso dei lavori, sono state messe sul tavolo anche proposte su cui non c’è stato il consenso di tutti i presenti, si è discusso di come rivedere il sistema dei finanziamenti e si è parlato anche della necessità di approvare nuove norme che garantiscano la democrazia interna ai partiti. E alla fine si è convenuto sull’opportunità di chiudere sulle poche norme riguardanti controllo e trasparenza per poi proseguire la discussione sulle altre questioni nel corso del confronto dell’applicazione dell’articolo 49 della Costituzione.
ITER RAPIDO
Su questo argomento torna a riunirsi oggi la commissione Affari costituzionali della Camera, ma nessuno si fa illusioni sul fatto che ci sia una svolta rispetto alle riunioni precedenti, chiuse con un nulla di fatto. Ma è proprio su questa commissione che ora sono puntati gli occhi. Tutti sono d’accordo che la via da seguire sia quella parlamentare e non il decreto governativo (dopo che nei giorni scorsi si era detto «pronto» ad intervenire il Guardasigilli Paola Severino, ieri il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri ha detto che è meglio lasciare alle forze politiche «ogni espressione sull’argomento»). E il modo migliore per arrivare a un’approvazione in tempi rapidi della proposta di legge è convocare la commissione in sede legislativa anziché referente. Si potrebbe cioè approvare il testo direttamente, senza passare per l’Aula. Ma per farlo, secondo il regolamento di Montecitorio, è necessario il consenso dei capigruppo in commissione o dei quattro quinti dei componenti di essa. L’Idv non è contraria e la Lega difficilmente si metterà di traverso.
Scrive Bersani in una lettera inviata agli elettori che vanno alle urne alle amministrative del 6 e 7 maggio: «Conosciamo la disillusione dei cittadini verso la politica. Crediamo che il rimedio alla cattiva politica non sia l’antipolitica, ma la buona politica». Il Pd punta ad approvare rapidamente con le altre forze le nuove norme sui bilanci, ma di proseguire poi la battaglia per applicare l’articolo 49 della Costituzione. «Abbiamo anche presentato», ricorda Bersani dicendo di non voler essere «messo nel mucchio» con tutti gli altri, una legge «per imporre trasparenza, democrazia interna, codici etici. Noi stiamo già facendo certificare i nostri bilanci da Agenzie esterne indipendenti e facciamo sottoscrivere, pena l'incandidabilità, stringenti codici etici da parte di chi compone le nostre liste». Punti su cui non è riuscito di trovare l’accordo con gli altri partiti.

La Stampa 11.4.12
Una norma cercata alla svelta come alibi
di Marcello Sorgi


Anche se è comprensibile l’urgenza di dare risposte a un’opinione pubblica sbigottita dagli scandali, la fretta con cui si sta procedendo a definire il nuovo sistema di finanziamento pubblico (o di rimborsi, tanto è lo stesso) dei partiti rischia di essere cattiva consigliera. Una nuova legge approvata precipitosamente, perfino più velocemente di un decreto, in materia, rischia innanzitutto di trasformarsi in un alibi per tutti i coinvolti in inchieste che devono ancora essere definite: vale per la Lega, in cui bisognerà capire fino a che punto Bossi era veramente ignaro degli illeciti dei suoi familiari e famigli, ma vale anche per la Margherita, in cui le difese, ma anche le accuse, del tesoriere Lusi, dovranno essere attentamente riscontrate.
Inoltre fare una legge di finanziamento dei partiti senza sapere per che tipo di partiti la si fa è quanto meno singolare. Stando a pubblici e recenti impegni infatti, siamo alle soglie di un cambiamento istituzionale e politico per cui i partiti leggeri, liquidi, all’americana della Seconda Repubblica, cioè queste specie di comitati elettorali permanenti costruiti attorno ai leadercandidati premier, stanno per essere riconvertiti, grazie a una nuova-vecchia legge elettorale proporzionale, in una forma più simile a quella della Prima: partiti strutturati, partitoni con correnti di maggioranza e minoranza, sedi dislocate sul territorio, congressi biennali e così via. Costeranno di più o di meno? Nessuno lo dice, ma è chiaro che costeranno di più. E tanto per fare un esempio: se torneranno le preferenze, i rimborsi dovranno andare sempre ai partiti, o ai candidati che ne raccolgono di più, o essere ripartiti tra i primi e i secondi?
Sono questioni non di poco conto, le prime che vengono in mente. D’altra parte, se davvero si vuol procedere, come si dice, e com’è ormai indispensabile agli occhi di tutti, a un ridisegno dell’assetto istituzionale del Paese e di una parte della sua Costituzione, farlo precedere da una questione come quella del finanziamento, che di logica verrebbe dopo, rischia di aggiungere confusione a confusione. Tutto ciò, non per parlar d’altro o rinviare un problema ormai maturo, ci mancherebbe. Semmai, al contrario, per dare il giusto peso a una questione, come quella dell’esistenza e del funzionamento trasparente dei partiti, che non va trascurata, proprio perché nella Costituzione i partiti non certo questi attuali, e neppure forse quelli che verranno, se continua di questo passo - sono descritti come architravi della democrazia italiana. E se crollano, c’è da temere, finisce che viene giù tutto.

La Stampa 11.4.12
Meno soldi ai partiti, non è tempo di meline
di Luigi La Spina


Forse non hanno capito. O fanno finta di non capire. Chiusi nei loro bunker d’isolamento, davanti a una marea montante d’indignazione e di rabbia popolare, molto pericolosa per il futuro della nostra democrazia, i partiti sembrano pensare di cavarsela con una nuova legge-soufflé sul finanziamento pubblico. Allora, proprio per cercar di evitare decisioni che darebbero il colpo definitivo alla credibilità del nostro sistema politico, è meglio mettere da parte ogni garbo diplomatico, parlare molto chiaro, cominciando, come ogni storia prevede, da un riassunto delle puntate precedenti.
Tutto è cominciato da una vera e propria truffa della volontà popolare. Un referendum, infatti, aveva bocciato la legge che stabiliva il finanziamento pubblico ai partiti. Le forze politiche, con un espediente tanto sfacciato da apparire davvero provocatorio nei confronti del rispetto che si dovrebbe avere per i cittadini in una democrazia, l’hanno, di fatto, ripristinato. Non solo attraverso il trucco di definirlo in altro modo, come “rimborso elettorale”, ma non prevedendo alcun controllo sull’uso dei soldi che gli italiani sono costretti a devolvere ai partiti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti e sarebbe davvero miope non vedere come lo scandalo dei milioni usati a piacimento, soprattutto suo, dal tesoriere Lusi e di quelli del collega Belsito si possa circoscrivere a quei partiti, senza toccare anche le altre forze politiche.
Già mesi di polemiche sui costi della nostra democrazia, con campagne di stampa documentate e incalzanti, hanno avuto, finora, esiti modestissimi. Persino qualche taglio a indennità pensionistiche, spropositate rispetto alle norme che regolano quelle dei comuni cittadini, hanno suscitato proteste furibonde da parte di parlamentari e di ex presidenti delle Camere che, peraltro, non saranno da annoverare fra i padri (e le madri) della nostra patria. Ora, se non ci saranno provvidenziali ripensamenti notturni, si annuncia un nuovo gioco di «melina» politica.
Di fronte a quanto emerso non solo dalle inchieste e dalle intercettazioni, ma soprattutto dalle confessioni di segretarie e autisti, non si pensa a un decreto-legge che metta fine, subito, a questo vergognoso andazzo, ma alla via parlamentare, seppur con la promessa di un iter più veloce, meglio sarebbe dire meno lento, del solito. Ma se si ricorre a un decreto-legge in casi di urgenza, quale mai provvedimento può essere più urgente di questo?
Non si rendono conto i partiti della situazione in cui si trovano moltissime famiglie italiane in queste settimane? Con una disoccupazione, soprattutto giovanile, già molto alta al Nord, ma veramente drammatica al Sud e con la prospettiva di dover pagare a giugno, ma soprattutto a fine d’anno, un pesante aggravio di tasse sulla casa, il bene che appartiene all’ottanta per cento dei nostri cittadini, si prepara una legge che, sostanzialmente, non diminuisce il contributo pubblico ai partiti.
E’ inutile affollare la testa dei lettori con molte cifre, perché ne basta una, fin troppo eloquente: per oltre due terzi, i partiti incassano soldi che non hanno una documentazione, verificata e credibile, valida a confermare lo scopo di effettivo rimborso elettorale. Anzi, per la stragrande maggioranza dei casi, non esiste alcuna documentazione. Insomma, prendono dai contribuenti italiani 100 e ne spendono correttamente solo circa 33. Il resto dove va?
Il rispetto per la volontà popolare imporrebbe, come si è detto, l’ossequio al risultato del referendum, cioè l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Ma pretenderlo, in Italia, sarebbe come pretendere l’impossibile. Si può chiedere, invece, come minimo risarcimento ai cittadini, almeno il dimezzamento di questa «imposta forzosa», con il controllo, da parte di una autorità estranea a qualsiasi influenza politica, di come questi soldi vengano usati. I partiti devono uscire da una condizione unica tra le associazioni italiane, quella dell’assoluta imperscrutabilità dei loro bilanci e dell’assoluta insindacabilità dei loro statuti e delle regole di democrazia interna. Prima di cambiare la Costituzione, sarebbe meglio applicarla, perché su questo tema la nostra Carta fondamentale è del tutto disattesa.
Se davvero i partiti, ancora una volta, facessero finta di non capire, toccherebbe al governo Monti intervenire. Il presidente del Consiglio dovrebbe preparare un opportuno decreto-legge e mettere il Parlamento davanti alla responsabilità di bocciarlo. E’ possibile che questo gesto costerebbe a Monti la poltrona, ma forse ne varrebbe la pena.

l’Unità 11.4.12
Lettera del leader Pd agli elettori: «Ecco la nostra sfida sui programmi»
Ricostruzione «Deve partire dagli enti locali, che sono vicini ai bisogni dei cittadini»
Mille Comuni al voto Bersani: da qui la riscossa
Sono quasi un milione gli elettori chiamati alle urne per le amministrative del 6 e 7 maggio. Con venti capoluoghi di Provincia finora governati dal centrodestra, in cui adesso si riapre la partita
di Alessandra Rubenni


Oltre mille Comuni al voto, di cui 177 con più di 15 mila abitanti e 843 inferiori, per un totale di 9.600.000 elettori chiamati alle urne in 11.299 sezioni. Sono i numeri della prossima tornata di elezioni amministrative, che si svolgerà tra il 6-7 e il 20-21 maggio e che comprende il rinnovo di giunte e consigli in 29 capoluoghi, di cui venti finora governati dal centrodestra.
Una sfida che certo non esaurisce il suo significato su scala locale ma che pure, nelle difficoltà che il Paese sta attraversando, non è neanche solo un test in vista delle prime elezioni politiche del dopo-Berlusconi. Con questa posta in gioco, Pierluigi Bersani ha deciso di rivolgersi direttamente agli elettori delle città al voto, inviandogli una lunga lettera. «Noi crediamo che l'Italia possa risollevarsi e che la ricostruzione del Paese debba partire dai Comuni, che sono vicini ai bisogni dei cittadini e che oggi sono messi di fronte a troppe difficoltà, che vogliamo rimuovere», scrive il leader del Pd auspicando una riscossa del Paese in nome della solidarietà e non dell’egoismo, «del privilegio, del parassitismo». «Conosciamo la disillusione dei cittadini verso la politica. Crediamo che il rimedio alla cattiva politica non sia l'antipolitica, ma la buona politica», scrive ancora Bersani, spiegando che già adesso chi si candida nelle liste del Pd deve aver sottoscritto «stringenti codici etici».
50% DEI CANDIDATI È DONNA
Rinviate le elezioni provinciali previste per il 2012, la partita è ormai definito. Con una nutrita carica di candidati e una proliferazione delle liste che li sostengono, nonostante i tagli disposti per legge sul numero dei consiglieri comunali e degli assessori in giunta. E soprattutto, con un quadro politico che vede Lega e Pdl andare in ordine sparso, con un centrodestra in frantumi e diverse città con più di un candidato piediellino, l’uno contro l’altro.
Insomma, la partita è aperta anche dove, come in Piemonte, poteva sembrare più difficile e questo anche per la solidità del centrosinistra, come sottolinea Davide Zoggia, responsabile Enti locali dei democratici: «Il Pd si è dimostrato una grande e affidabile forza attrattiva, in grado di coalizzare non solo forze politiche ma anche movimenti civici e sociali, dando prova della sua capacità riformista e di governo. Con una particolare attenzione ai temi etici e alla presenza delle donne nelle liste, in cui abbiamo chiesto la parità di genere».
Proprio oggi i candidati a sindaco sostenuti dal Pd nelle città capoluogo di cui 16 scelti con le primarie presenteranno i loro programmi nella sede di via Sant’Andrea delle Fratte, insieme a Bersani e Zoggia. Ricette improntate al risanamento e allo sviluppo, nonostante il freno agli investimenti posto dal patto di stabilità, che il Pd ha chiesto di rivisitare.
Ad Alessandria 16 candidati a sindaco, 34 le liste il Pd ha piazzato Maria Rita Rossa, attuale vicepresidente della Provincia, sostenuta anche da Idv, Sel e altre forze del centrosinistra, contro il sindaco uscente di centrodestra. A Como, dove il centrodestra è in scadenza, con Pdl e Lega divisi e un totale di 15 candidati, il centrosinistra punta su Mario Lucini, sperando nel ballottaggio. Scenario simile a Monza, dove il nome del Pd è Roberto Scanagatti. E il centrosinistra potrebbe mirare al secondo turno contro l’uscente pdl anche a Belluno, dove schiera Claudia Bettiol, ex vicepresidente della Provincia, sostenuta da tutto il centrosinistra tranne Sel.
A Verona la sfida al leghista Tosi, sindaco uscente che con le sue liste civiche mira a polverizzare il Pdl, la porta avanti il pd Michele Bertucco.
È invece una vera implosione quella vissuta dal centrodestra di Parma, con una miriade di candidati, dove è in corsa il democratico Vincenzo Bernazzoli.
A Genova il centrosinistra sostiene Marco Doria l’indipendente vincitore delle primarie contro i due nomi del Pd il vero duello è con il Pdl Enrico Musso, già candidato nel 2007, in una competizione tra 12 candidati, compreso Paolo Putti, del Movimento 5 stelle.
E ancora, tra le partite di maggior rilievo, quella di Palermo, ancora in tensione dopo il clima infuocato delle primarie del centrosinistra, concluse con la vittoria di Fabrizio Ferrandelli. Anche qui c’è un vero esercito di aspiranti amministratori: 10 candidati a sindaco, 1.300 a consiglieri comunali.
Calendario separato, infine, per la Sardegna, dove il Pd ha vinto tutte le primarie: a differenza delle altre regioni, in cui si vota il 6 e 7 maggio, le urne saranno aperte il 20 e 21 in 65 Comuni, tra cui i capoluoghi Oristano e Lanusei.

il Fatto 11.4.12
Lavoro: la truffa del reintegro
di Bruno Tinti


Non avrei mai pensato di rivolgere al presidente Monti e al ministro Fornero la stessa domanda (retorica) tante volte fatta a B&C: ma ci siete o ci fate? E invece… L’art. 14 comma 7 del ddl sulla riforma del lavoro (Tutele del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo) dice: “il giudice che accerta la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (sarebbe il licenziamento per motivi economici) applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del medesimo articolo” (il reintegro). E, poco più avanti: “nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”. Che consiste nel dichiarare “risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva” (l’indennizzo).
TUTTO RUOTA intorno a due paroline: “manifesta insussistenza”. Cosa vogliono dire? In linguaggio comune è semplice: il fatto posto alla base del licenziamento non esiste; perciò il lavoratore va reintegrato nel posto di lavoro, poche storie. Ma, per un giurista, l’insussistenza senza aggettivi è cosa diversa dall’insussistenza “manifesta”. Il giurista si chiede: ma perché questi hanno sentito il bisogno di scrivere che l’insussistenza deve essere “manifesta”? Un fatto o sussiste o non sussiste; quanto sia complicato accertare che esista non incide sulla sua esistenza, solo sulla difficoltà della prova. Per capirci meglio, un assassino va condannato sia che lo si becchi con il coltello sanguinante in mano, sia che la sua responsabilità emerga dopo un complicato lavoro di indagine (movente, alibi, testimonianze etc). Dunque, pensa il giurista, questi hanno scritto “manifesta insussistenza” proprio per differenziare questi casi da quelli in cui c’è l’insussistenza semplice; e per differenziare il trattamento conseguente, reintegro nel primo caso, solo indennizzo nel secondo.
Come tecnica legislativa non è una novità. Quando, in un processo, si solleva un’eccezione di illegittimità costituzionale, il giudice la accoglie solo quando la questione non è “manifestamente infondata”. Se è sicuro che la legge è conforme alla Costituzione, respinge l’eccezione. Insomma, solo quando il giudice ha qualche dubbio sulla costituzionalità della legge (o, naturalmente, quando è sicuro che sia incostituzionale), chiede alla Corte costituzionale di valutare. Ne deriva che la Corte non riceve tutte le questioni di illegittimità costituzionale ma solo quelle che i giudici ritengono “non manifestamente” infonda-te. Può darsi che tra le altre, quelle che il giudice ha respinto (sbagliando), ce ne fossero di fondate; ma la loro fondatezza non era “manifesta”; e quindi...
Tornando all’art. 18, siccome i criteri di interpretazione giuridica delle leggi questi sono (art. 12 del codice civile), ne deriva che il giudice potrà reintegrare il licenziato solo quando, da subito, senza indagini, senza prove, “manifestamente” appunto, è sicuro che il motivo economico non sussiste. Se invece dubita, se per decidere deve acquisire prove, allora niente reintegro. E cosa al suo posto? Ma è chiaro, l’indennizzo. E infatti Monti-Fornero lo dicono espressamente: “nelle altre ipotesi”, cioè quando l’insussistenza del motivo economico va accertata con una normale istruttoria dibattimentale (prove, testimonianze, perizie ), quando dunque non è “manifesta”, di reintegro non se ne parla. Magari alla fine salterà fuori che il motivo economico non c’è; ma, siccome è stato necessario un vero e proprio processo per rendersene conto, niente reintegro, solo un po’ di soldi. Da qui derivano tre conseguenze micidiali.
LA PRIMA: il reintegro per motivi economici non ci sarà mai. Davvero si può pensare che un’azienda licenzi con motivazioni che da subito, senza alcun dubbio, “manifestamente”, si capisce che sono una palla? Se anche la motivazione economica è infondata, sarà certamente motivata bene; e quindi sarà necessario un normale processo, come si fa sempre. Solo che, a questo punto, l’insussistenza del motivo economico, anche se accertata, non è “manifesta”; e il lavoratore non potrà essere reintegrato. La seconda: i giudici saranno in un mare di guano. Perché, in alcuni casi, l’insussistenza del motivo economico ci sarà; ma, per essere sicuri, un po’ di istruttoria va fatta. Un giudice non può dire: “È così’”. Deve motivare perché è così; e per questo è necessaria l’istruttoria. Ma, se la fa, addio reintegro. Mica male come dilemma. La terza: a seconda dell’interpretazione che il giudice darà del concetto “manifesta insussistenza” gli diranno che è uno sporco comunista o uno sporco capitalista. Della serie: “Se la mente del giudice funziona, la legge è sempre buona” (Snoopy sul tetto della sua cuccia). “Certo che con questi giudici... ; anche le leggi migliori, che il sindacato si è ammazzato per ottenerle (o che il governo si è dannato per scriverle), non funzioneranno mai. La responsabilità per gli errori dei magistrati, ecco quello che ci vuole”.
Ma, a questo punto: davvero Camusso & C, Bersani & C, a tutto questo non ci hanno pensato? O si sono accontentati di una (finta) dimostrazione di forza, del tipo: “Abbiamo costretto il governo etc etc; guardate come siamo bravi”?

l’Unità 11.4.12
Fede e impegno sociale
La storia non è finita, cambiare è possibile
di Pier Paolo Baretta


Due editoriali (Claudio Sardo, il direttore, sull'Unità e Bruno Forte, il vescovo, sul Sole 24 ore) ci hanno offerto, nel giorno di Pasqua, una riflessione non economicistica della crisi contemporanea. Il primo mettendo in luce la responsabilità storica dei credenti nella edificazione della città dell'uomo, in un progetto condiviso e non esclusivo; il secondo chiamando tutti (credenti e non) a un salto etico quale condizione necessaria per costruire il futuro.
Vi è un profondo legame tra i due messaggi: la fiducia (la fede!) nell’uomo e nel suo cammino. In un’epoca così travagliata, di fronte alle nostre quotidiane difficoltà e miserie, la speranza «risorge».
Impariamo, dunque, a leggere i «segni dei tempi», a scendere dal monte delle nostre sicurezze e a partecipare a «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce» dell'uomo contemporaneo.
Mescoliamoci tra la folla, non per essere riconosciuti (opportunamente Sardo ha citato la Lettera a Diogneto) ma per vivere pienamente, solidali, la nostra umanità sempre nuova.
Questo ci appare essere il primo atto di responsabilità «storica» a cui siamo individualmente chiamati, in quanto uomini sorretti ciascuno dalla fede: in un Dio e/o nella Storia. Ma non basterà questa «conversione» laica per far girare il mondonelversogiusto.È necessario un percorso collettivo che trascenda i singoli per inverarsi in un progetto per tutti di società, di ben essere, di salute, che «avvicini» cosi come suggerisce il direttore dell’Unità l’Epifania.
Il confronto si polarizza tra due approcci estremi: da una parte chi, facendo leva sulla evidente e innegabile emergenza, si attesta su una prospettiva... trimestrale. Dall’altra parte chi, individuando il limite dell’approccio congiunturalista, indica alternative radicali, di sistema o di pensiero, ma che rasentano appena la emergenza e teorizzano un mondo senza vincoli, lasciando ad altri il compito di spalare il fango della alluvione nella quale annaspiamo.
Quanto è sopportabile, senza commettere un grave errore di strategia, tenere separati il pronto soccorso e le terapie riabilitative? La politica è la prima ad essere interrogata e a dover tentare una risposta che, in questa congiuntura della Storia, consiste in una nuova «visione» della società, in una nuova prospettiva di futuro. Insomma: stiamo solo ripulendo il quartiere (e non è poco) o, anche, edificando la città nuova?
Dalla risposta che diamo sapremo decidere cosa abbattere e cosa conservare, con quella capacità di discernimento che è il fondamento dell’agire responsabile.
Siamo, infatti, al capolinea di un modello di sviluppo controverso, di benessere diffuso, ma di consumi esasperati e di disuguaglianze insostenibili. Mai siamo stati così tecnologicamente potenti e mai così ambientalmente fragili. Mai così in relazione con gli altri e mai così soli nei nostri strumenti. Davanti a noi c’è un muro da abbattere (non è la prima volta!) che non è, per l’appunto, la fine della Storia, ma la fine di una Storia, di un’epoca!
Dobbiamo rapidamente imboccare una nuova strada e il tempo della crisi è il momento giusto per osare. Se vogliamo un nuovo new deal dobbiamo offrire a tutti una opportunità. E, oltre quel muro, la nuova Storia sarà quella che scegliamo noi, adesso e qui...

il Fatto 11.4.12
Fede e fucili
Monsignor-mitra, la passione del cardinale per le armi
di Ferruccio Sansa


Una Smith&Wesson 357 Magnum per il cardinale. Al diavolo l’ispettore Callaghan. “Quella per le armi è una vecchia passione. Andavo al tiro a segno. Purtroppo da quando sono qui in Vaticano ho dovuto smettere”. Vaticano? Sì, chi parla è un cardinale: Domenico Calcagno, già vescovo di Savona. Nel 2007 è stato “promosso” con l’appoggio di Tarcisio Bertone, suo grande sostenitore: è diventato presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Insomma, uno dei pochi cardinali che hanno accesso all’appartamento del Pontefice. Una bella soddisfazione, ma anche un piccolo dolore: addio alle armi per il porporato. La notizia, riportata ieri da Mario Molinari sul sito www.sa  vonanews.com , è stata confermata dal cardinale al Fatto. Calcagno, però, non dimentica il dovere cristiano all’umiltà e minimizza: “Ma guardi… sono vecchi pezzi, armi di poco pregio”. Savonanews e il Fatto, però, sono entrati in possesso della dichiarazione che Calcagno, allora monsignore, presentò nel 2006 alla Questura di Savona.
A LEGGERE le parole del porporato alle forze dell’ordine pare di trovarsi di fronte a un piccolo arsenale: armi d’epoca, certo, ma anche Nagant russi che ti fanno paura solo a guardarli e che centrerebbero l'obiettivo a un chilometro di distanza. Ecco l’elenco delle armi del cardinale: fucile marca Breda modello Argus, moschetto mod 31 marca Schmidt, fucile Faet Carcano (simile a quello che avrebbe ammazzato Kennedy, per capirci), fucile Nagant di fabbricazione russa, fucile turco Hatsan. Tutte armi acquistate in armeria. Ma non basta. Il cardinale Calcagno dichiarò di “detenere anche, con le relative munizioni”: carabina Beretta calibro 22 per uso sportivo, fucile sovrapposto calibro 12 marca Gamba, doppietta da caccia calibro 12, fucile sovrapposto a due canne calibro 12 marca Franchi, fucile calibro 12 marca Beretta, Revolver Smith&Wesson calibro 357 Magnum. Quella dell’ispettore Callaghan e di Stursky&Hutch, per capirci. Poi altre armi, tra cui una carabina di precisione Remington 7400, un bestione che non sembra proprio da caccia e se beccasse una quaglia la ridurrebbe in briciole.
Non basta: il porporato dichiara di aver venduto armi ad altri appassionati. Un nome salta all’occhio: don Luigi Grosso, parroco di Bergeggi (paese alle porte di Savona). “Ho ereditato la passione dai miei fratelli cacciatori. Ormai è acqua passata, al massimo vado qualche volta a sparare”, è l’amarcord di don Grosso. Insomma, par di capire che nella curia di Savona le armi raccolgano parecchi appassionati. E in città c’è chi ironizza sul cardinale “che, oltre alla mitra, ha fucili e pistole”.
EMINENZA, fa un certo effetto scoprire che anche alle porte di San Pietro ci sono appassionati di armi… “Per carità, è una cosa innocente. A me le armi piace soprattutto, come dire, restaurarle. Sono oggetti di antiquariato”. Veramente ci sono fucili come l’Hatsan turco che hanno un aspetto piuttosto minaccioso non le pare? “Vabbè, ma io li tengo così, mica voglio fare del male”. E quel Nagant russo? “Carissimo… per cortesia, non vorrà scrivere cose antipatiche… sono cose da collezionisti”. Lei ha dichiarato di farne un uso sportivo: “Sì, andavo al poligono”. Ma il porporato ci tiene a precisare: “Guardi che sono tutte armi perfettamente regolari e denunciate. Ed erano conservate in un armadio chiuso a chiave”. Certo che quella Smith&Wesson 357 Magnum con relative munizioni uno la immaginerebbe più in pugno a Clint Eastwood che a un cardinale… Nella voce di Calcagno sembra di sentire un pizzico di rammarico: “Non la uso più da tempo. Da quando sono a Roma ho dovuto rinunciare”.

La Stampa 11,4,12
L’Italia razzista
Accoltellati perché stranieri dai neonazi della porta accanto
Cattolica, tre giovani in manette: “Odio razziale dietro il tentato omicidio”
di Franco Giubilei


Sono stati arrestati i tre giovani naziskin che hanno festeggiato la Pasquetta a modo loro, accoltellando un marocchino e un nigeriano che avevano reagito davanti all’insulto «negro di m... ». Hanno fra i 23 e i 26 anni, sono di estrema destra e appartengono a una frangia della tifoseria della Vis Pesaro, la squadra della città dove vivono. Non è la prima volta che il 26enne, a quanto pare il capo della banda, se la prende con le persone di colore: lo dimostrano i precedenti a suo carico per violazione della legge sulla discriminazione e incitamento all’odio razziale, oggetto di una sentenza di condanna quattro anni fa, e un’aggressione ai danni di uno straniero avvenuta lo scorso luglio davanti a un pub di Rimini.
Stavolta però l’accusa è ben più grave, perché i tre dovranno rispondere di tentato omicidio in concorso, delitto caratterizzato in questo caso da connotazioni dichiaratamente xenofobe. Sono stati i carabinieri di Cattolica a mettere le manette a due studenti di 23 e 25 anni, entrambi di Pesaro, e all’operaio di 26 anni, originaio di Carbonia, nel Cagliaritano, ma residente a Colbordolo, nel Pesarese. A metterli sulle tracce dei tre giovani, le riprese della telecamera del distributore automatico di sigarette in via Curiel, nel centro di Cattolica, teatro dell’aggressione, ma anche il racconto dei due immigrati feriti e di due camerieri di un pub.
Gli inquirenti, oltre a rintracciare gli aggressori, hanno così potuto ricostruire anche la dinamica dell’accoltellamento: i due stranieri, entrambi in possesso di regolare permesso di soggiorno, sono arrivati in scooter davanti al distributore intorno alle 5 del mattino di lunedì. Il ragazzo nigeriano, 22 anni, è sceso per comprare un pacchetto mentre l’altro lo aspettava in sella al motorino, ma per sua sfortuna le banconote non sono state accettate dalla macchina. Ha visto arrivare un gruppo di persone e si è avvicinato chiedendo loro una sigaretta, ma per tutta risposta è stato apostrofato con l’insulto «negro di m... » e circondato dai tre italiani. L’immigrato ha reagito, ha risposto «queste parole a me non le dici», e il gruppo si è scatenato sia contro di lui che contro l’amico, subito accorso in suo aiuto. A questo punto sarebbe stato il più anziano dei malintenzionati a estrarre il coltello, per poi colpire il giovane nigeriano al polmone e il marocchino alla gola. Non contenti, i tre individui si sono accaniti sugli stranieri con le cinghie dei pantaloni usate a mo’ di fruste, mentre uno di loro li ha picchiati con la sedia raccolta in un bar vicino. Gli immigrati sono riusciti a fuggire grazie anche all’intervento di un passante che ha chiamato i soccorsi dopo aver assistito alla scena. I carabinieri in breve tempo hanno identificato l’accoltellatore e i suoi complici in base al riconoscimento da parte delle vittime, che hanno ritrovato nelle foto segnaletiche i volti dei loro aggressori.
La perquisizione compiuta in casa del 26enne ha completato il quadro: sono state ritrovate pubblicazioni inneggianti a politiche razzistiche, immagini di Hitler e Mussolini, e volantini assemblati con lo stemma di Forza Nuova, formazione di estrema destra, spillette con svastiche e vario materiale di matrice estremistica. Il giovane, che vive da solo, si sarebbe anche sbarazzato del coltello e dei vestiti sporchi di sangue. I carabinieri però hanno messo le mani su un paio di pantaloni ancora umidi, appena lavati, sui quali saranno fatte indagini alla ricerca di tracce ematiche. Gli altri due amici sono studenti, entrambi di buona famiglia. Ad accomunare i tre violenti l’appartenenza agli ultras di Pesaro.
Le indagini continuano alla ricerca di altri due componenti della banda, che non sono ancora stati identificati. Il sindaco di Cattolica ha espresso solidarietà agli aggrediti.

Repubblica 11.4.12
Il matrimonio è in crisi? Lo salverà il Comune
di Caterina Pasolini


Arrivano i corsi salva-matrimoni. In Comune. E così sesso, suocere e soldi, tre argomenti una volta innominabili anche nelle segrete stanze familiari, ora sono oggetto di lezione pubblica nelle sale del municipio. Sempre più spesso se ne parla: da Padova a Roma, da Venezia a Tolmezzo e Rovereto passando per Lecce dove si tengono corsi laici e gratuiti pre, ma soprattutto post-matrimoniali.
I corsi laici salva-matrimoni, annunciati anche a Milano e Napoli, sono organizzati dalle pubbliche amministrazioni non solo per chi si sposa civilmente, ma soprattutto per dare una mano all´esercito di coppie in crisi che ha ormai raggiunto cifre da record. Uomini e donne incapaci di parlarsi, analfabeti di ritorno nel linguaggio delle emozioni o del corpo, estranei tra loro nelle case dove vivono troppo spesso in silenzio, ignorandosi per non litigare, distanti chilometri nello stesso letto. Specchio di un paese dove si sposano 86mila coppie, divorziano oltre 54mila e un matrimonio dura in media 15 anni.
I motivi? Lo raccontano gli esperti che hanno lavorato in questi corsi sentendo le storie dei loro concittadini. Poca preparazione alla vita di coppia, idealizzazione del compagno, routine, e ignoranza economica e sessuale. Senza dimenticare le famiglie di origine la cui invadenza e presenza sono tra le prime cause di rottura.
Così proprio l´analisi della famiglia, la sua influenza e anche come arginarla, sono tra i temi delle otto lezioni che partono a Padova il 19 aprile. Tra le "materie" la gestione del conflitto, l´aggressività e un´analisi della comunicazione verbale e del corpo. Non dimenticando gli appuntamenti col sessuoloho, visto il crescente numero di matrimoni bianchi, di mariti e mogli che vivono come fratello e sorella, «per ribadire a chi l´ha dimenticato nella quotidianità, i tempi e ritmi del comunicare con il sesso». Anche Venezia ha alle spalle un paio di esperienze (costate 12mila euro) «per superare i dissidi e divorziare meno visto che l´aumento delle separazioni ha pesanti ricadute sociali», ma quest´anno nonostante tre unioni su dieci saltino, ha dovuto rinunciare per mancanza di fondi.
Carpi, come Rovereto e Bologna, è tra i comuni pionieri dei corsi salva-matrimoni legali e psicologici chiamati speranzosamente "d´amore e d´accordo". L´amministrazione ha messo in piedi anche un servizio di consulenza con incontri per singoli partner che «stanno vivendo un periodo di crisi, incomprensione». Perché prima di arrivare alla separazione, dicono le statistiche, passano anni tra litigi e discussioni che questi corsi, rigorosamente laici, sperano di sanare. I dati Istat raccontano infatti che dal ‘95 le separazioni dopo dieci anni di matrimonio sono raddoppiate, quelle dopo 25 anni triplicate.
E per evitare padri separati senza casa, mamme senza assegno, figli sballottati, ma soprattutto sperando di tenere assieme famiglie per amore e non per soldi o per bisogno, anche Roma si mette in pista. Per aiutare i suoi cittadini nei corsi ha previsto anche lezioni sulla prevenzione all´indebitamento visto che la «gestione dei soldi è uno dei problemi che portano le coppie alla rottura». A febbraio è stato pubblicato un bando per ben 85mila euro, destinato ai corsi che partiranno in autunno. Sede del primo esperimento: la città di Ostia. Dieci anni fa ci aveva pensato anche Veltroni e 100 coppie li seguirono, ora ci riprova l´assessore alla famiglia di Roma Capitale, Gianluigi Di Palo, formazione Acli. «I corsi sono aperti a chi è sposato anche da dieci anni. Ma non vogliamo lavorare solo sull´emergenza, sulla crisi del settimo anno. Vogliamo fare prevenzione, aiutare la gente a parlare, a comunicare, a gestire rapporti e finanze, perché se si aiuta la famiglia, si aiuta la società».

l’Unità 11.4.12
Kerala La stampa indiana anticipa i risultati del laboratorio: «I proiettili sono compatibili»
Marò, ecco la perizia «Sono stati i loro fucili a uccidere i pescatori»
di Umberto De Giovannangeli


Doveva essere la «madre di tutte le prove» della difesa. Si è rivelata l’esatto contrario. Vi sarebbe una compatibilità fra due fucili sequestrati a bordo della «Enrica Lexie» e i proiettili recuperati nei cadaveri dei pescatori indiani uccisi il 15 febbraio sul peschereccio St. Antony al largo delle coste del Kerala. Lo scrive il quotidiano The Times of India. Un alto responsabile del Laboratorio scientifico della polizia (Fsl) di Trivandrum ha detto al riguardo al giornale che «coincidono il tipo di scanalature sui proiettili che erano nei corpi dei pescatori e su quelli sparati nei test di due fucili Beretta ARX 160». «Dopo aver condotto accurati test sui sei fucili Beretta sequestrati ha precisato il responsabile il Laboratorio ha identificato i due usati per uccidere i pescatori». Al riguardo, conclude il giornale, il Fsl «ha consegnato ai responsabili dell'inchiesta un dettagliato rapporto riguardante i test di tiro, la balistica e le impronte digitali».
La notizia viene riferita ieri anche dal quotidiano The Hindu, secondo cui il rapporto del Laboratorio scientifico è stato consegnato mercoledì scorso al magistrato di Kollam che sta istruendo la causa contro i marò in carcere a Trivandrum. I due fucili Beretta sono stati «identificati» come quelli che sarebbero stati utilizzati dai due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, contro i pescatori  indiani, si legge sul First Post India. «Possiamo dare conferma dei fucili dopo avere esaminato i proiettili trovati nei corpi dei deceduti. Non sono state utilizzate armi da cecchini per uccidere i pescatori. Non siamo in grado di individuare alcuna manomissione nel materiale sequestrato», sarebbe scritto sul rapporto, girato alla Corte di Kollam e al Team speciale di investigazione, guidato dal commissario M. R. Ajith Kumar. Il rapporto del laboratorio forense sulle armi sequestrate ai marò italiani, «è una prova inconfutabile». Così Vincent Panikulangara, avvocato dell'Alta Corte del Kerala, ha commentato ad Asianews i risultati della perizia balistica presentata ieri mattina al magistrato di Kollam.
Secondo l'avvocato, il rapporto «non cambia lo scenario attuale, ma anzi conferma l'ipotesi sostenuta fino a oggi». Tuttavia, aggiunge Panikulangara, «dobbiamo ancora aspettare la sentenza sulla giurisdizione. I dettagli su quest'altro aspetto della vicenda devono ancora essere stabiliti con certezza». Commentando le notizie pubblicate ieri da quotidiani ed agenzie indiane secondo cui la perizia realizzata a Trivandrum ha trovato le due armi che hanno ucciso i pescatori il 15 febbraio al largo del Kerala, il sottosegretario agli Esteri, Staffan de De Mistura ha osservato che «aspettiamo di vedere i risultati dei test balistici in termini ufficiali, e non ufficiosi attraverso i giornali, per poter fare ulteriori commenti». Comunque sia, aggiunge de Mistura, «manteniamo fermamente la nostra posizione che la giurisdizione che dovrebbe giudicare tutto questo è italiana».
Il sottosegretario ha poi aggiunto che «anche qualora, cosa non ancora confermata, si provasse che le pallottole che hanno ucciso i due pescatori fossero italiane, e uguali a quelle usate dalle forze armate italiane, rimane il fatto che, secondo noi, per quello che riguarda i nostri militari italiani, la giustizia deve essere amministrata in Italia». «Lunedì prossimo Massimiliano Latorre e Salvatore Girone saranno presentati davanti al magistrato di Kollam alla scadenza del periodo di due settimane di custodia, ma è molto probabile che la polizia chiederà di poter proseguire le indagini per almeno altre due o tre settimane», si è appreso da fonti che seguono l'inchiesta sull'incidente in cui sono morti due pescatori indiani.
SILENZIO SU PAOLO
L’altro fronte caldo è quello legato alla sorte di Paolo Bosusco. Nel giorno in cui scadeva l’ultimatum posto dai rapitori, il leader dei maoisti Sabyasachi Panda ha inviato un nuovo audiomessaggio in cui non fa alcun riferimento al rilascio del nostro connazionale. Lo riferisce l'emittente Cnn-Ibn. A quanto si è appreso, Panda tace completamente sulla liberazione dell' ostaggio, soffermandosi a criticare la posizione dell'Associazione della polizia dell'Orissa che ha rivolto minacce al governo in caso di liberazione di responsabili maoisti. Inoltre il leader maoista sostiene di non aver ricevuto il documento firmato congiuntamente dai mediatori, ma di averlo letto dai media, confermando però le perplessità e la necessità di chiarimenti. «Il quadro è ancora incerto», ammette l’ambasciatore italiano a New Delhi, Giacomo Sanfelice. Un’incertezza carica di angoscia.

La Stampa 11.4.12
India, svolta nell’inchiesta
“Pescatori uccisi dai due marò” La perizia inchioda gli italiani
I giudici indiani: “I colpi sono stati esplosi dai fucili Beretta sequestrati sulla nave” Processo vicino, ma l’accusa potrebbe passare da omicidio volontario a colposo
di Massimo Numa


I media indiani, già dai primi giorni dopo l’incidente di Kochi, 15 febbraio, erano sicuri: erano stati i marò del San Marco, imbarcati come guardia armata (in base a un accordo dell’ottobre 2011 tra governo e Confitarma) sulla nave «Enrica Lexie», il pomeriggio del 15 febbraio, ore 16, a 22 miglia dalla costa, dunque in acque internazionali, a sparare ai pescatori Valentine Jalestine, 42 anni, padre di tre figli, di Kollam e Adeeph Binki, 26, originario dello stato del Tamil Nadu, che ha lasciato sole e in miseria due sorelle adolescenti.
Zero dubbi e movente certo. Il peschereccio St. Anthony, con 11 marinai a bordo, compreso l’armatore, partito dal porto di Neendakara (Kollam) il 9 febbraio per una partita di pesca di tre settimane in mare aperto, era stato scambiato per un’imbarcazione pirata. In quel tratto di Oceano Arabico, in pochi mesi erano avvenuti 12 episodi di pirateria e di agguati contro il naviglio mercantile, a cura di gruppi di criminali armati di Ak47 e altre armi.
Secondo una ricostruzione non ufficiale, il St. Anthony, pilotato da Jalestine (gli altri, ad eccezione di Binki che era a prua, stavano tutti dormendo in attesa della battuta notturna) si sarebbe troppo avvicinato alla rotta della «Lexie». Da bordo le vedette avevano lanciato l’allarme. Quattro dei sei fucilieri del San Marco (due erano rimasti in cabina) avevano raggiunto il ponte, mentre da bordo venivano attivate le procedure d’emergenza e di segnalazione, in base alle norme d’ingaggio internazionali, del pericolo di un abbordaggio. Prima una serie di lampi colorati, poi tre colpi di sirena, quindi l’aumento della velocità della nave, infine furono mostrate le armi dalle murate. Come da manuale. Ma il peschereccio non avrebbe mutato rotta. A questo punto - quando la distanza era ormai inferiore a duecento metri - partirono le raffiche a scopo intimidatorio: 22colpiintutto, esplosidaifucili d’assalto Arx160rx. Due ogive calibro Nato 5,56 colpirono mortalmente i pescatori. È chiaro ormai, forse anche agli inquirenti indiani, che non c’era nessuna intenzione di uccidere, s’è trattato di un tragico incidente. Il capitano della Lexie, Umberto Vitelli, aveva avviato le procedure di allarme generale, mentre le vedette dotate di binocoli, sistemate in due posti di osservazione, avevano segnalato (per errore o no) la presenza di armi sul peschereccio. Per i giudici di Kollam che hanno esaminato la perizia balistica effettuata dal Forensic Team di Trivandrum, «le prove contro i marines italiani sono inconfutabili, hanno sparato e ucciso i due fucili Beretta sequestrati sulla “Lexie”». A bordo c’erano 15 armi e 10 mila proiettili, la polizia aveva sequestrato sei Arx160 e due mitragliatrici Minimi di fabbricazione belga, che non avrebbero mai sparato. Sui media indiani viene registrato un commento di un inquirente: le armi usate dai marò sono fucili d’assalto e non strumenti destinate ai cecchini, come se cominciasse a farsi strada, anche nei tribunali del Kerala, l’ipotesi di un duplice omicidio colposo e non volontario.
I marò sono tuttora detenuti nel carcere statale di Trivandrum, nei locali dell’ex infermeria. Quasi due mesi in stato di detenzione, prima nei police club di Kochi e Kollam, adesso in carcere. Il processo penale, nel tribunale di Kollam, è ormai inevitabile e imminente. E resta «prigioniera», a dieci miglia dalla costa di Kochi, con nove italiani (compresi quattro marò) e diciannove marinai indiani, anche la petroliera «Enrica Lexie», sebbene sia stato ammesso il ricorso presentato dall’armatore. Avrebbe dovuto ripartire per l’Italia una settimana fa. Tutti i permessi in regola. Eccetto uno.

l’Unità 11.4.12
Da Tel Aviv a Berlino il coro anti-Grass comincia a stonare
Oz e Grossman non firmano l’ennesimo appello che bolla come immorale la poesia su «Israele che minaccia la pace»,
i pacifisti sfilano per lui. E la Svezia si rifiuta di ritirargli il Nobel
di Roberto Brunelli


Solo una poesia», aveva detto l’altro giorno con un sottofondo lievemente dispregiativo lo storico israeliano Tom Segev: e lui, in quel momento, lo stava difendendo, Günter Grass, dopo che il ministro agli Interni di Tel Aviv, Eli Yeshai, aveva dichiarato «persona non grata» in Israele lo scrittore tedesco. «Solo una poesia», certo, quella dell’autore del Tamburo di latta, una manciata di versi che hanno scatenato un putiferio perché vi si afferma che lo Stato israeliano con annessa la teorizzazione di un «first strike» nei confronti dell’Iran rappresentino una minaccia più seria alla pace mondiale di quella incarnata dall’Iran. Tesi certamente discutibile, ma l’ondata di sdegno è stata una specie di tsunami dal crescendo sfrenato, che ha toccato ieri l’altro l’apice con il divieto d’ingresso nello Stato ebraico, nonché con la richiesta da parte del governo di Tel Aviv di ritiragli il Nobel per la letteratura. Richiesta prontamente respinta dall’Accademia di Svezia, per fortuna.
Fatto sta che dopo l’ordalia della riprovazione verso lo scrittore oggi ottantaquattrenne («è un antisemita», «ha nascosto il suo passato nelle Ss», fino al più prosaico «non sa di cosa parla»), nel caso Grass cominciano a mostrarsi le prime crepe. A Pasqua, i manifestanti dei cortei pacifisti che hanno percorso un centinaio di città tedesche, esibivano orgogliosi dei manifesti con il volto dello scrittore. Lunedì, tra gli intellettuali israeliani si è scatenato un forte dibattito: contro il boicotaggio si sono schierati per esempio scrittori come Ronit Matalon e Yoram Kaniuk («il prossimo passo è bruciare i libri»), ma anche il Nobel per la chimica Aaron Ciechanover e il pittore Yair Garbuz. In patria un ministro del governo Merkel ha definito la reazione israeliana «profondamente esagerata».
Oggi il fronte degli indignati registra un’ulteriore defezione: quella di due giganti della letteratura israeliano come Amos Oz e David Grossman. Dall’altra parte, un altro peso massimo assoluto, come Abraham Yehoshua. Tutto nasce da un appello «ai letterati di tutti i Paesi del mondo» affinché denuncino come «vergognoso e immorale» il poemetto di Grass: l’iniziativa è dell’associazione degli scrittori israeliani in lingua ebraica. Ebbene, Grossman e Oz finora hanno ignorato l’appello, Yehoshua ha firmato.
Ma il punto vero è un altro. Forse è quello che Grass, difendendosi, ha definito «l’omologazione delle opinioni», ossia il fatto che quasi nessuno è entrato nel merito delle argomentazioni dello scrittore schiacciandolo sulla tardiva confessione, alcuni anni fa, di aver brevemente militato, diciassettenne, nelle Waffen-Ss. Così come nessuno ritenuto utile ricordare cosa fosse tutta l’opera di Grass negli ultimi sessant’anni: ossia di scrivere «contro l’oblio». L’oblio del dopo-Auschwitz, di una Germania vogliosa di dimenticare o banalizzare gli orrori nazisti, e che aveva quasi solo in Grass il proprio controcanto. Questo è stato Grass, in decenni e decenni: tacciato quasi sempre come anti-patriottico, accusato, dopo la caduta del Muro, di essere un menagramo, perché osava, in assoluta solitudine, scrivere che «l’unità della Germania deve essere messa di fronte al catenaccio di Auschwitz».
Ps. La Spd non lo gradisce più ai propri comizi. Ingrati, come minimo.

il Fatto 11.4.12
Gideon Levy: “Ha diritto di cronaca”
di Roberta Zunini


“Ciò che deve esser detto”, la poesia di Grass, ha innescato una reazione a catena che sembra ormai impossibile bloccare. In Israele, il ministro degli interni Eli Yishai, leader del partito religioso Shas ha dichiarato ufficialmente lo scrittore tedesco persona non gradita. Ciò significa che se Grass volesse visitare il Paese non otterrebbe il visto d'ingresso. Herzl Hakak, presidente dell'unione degli scrittori ha contemporaneamente invitato gli intellettuali di tutto il mondo a condannare l'autore di “ Il tamburo di latta”, sottolineando che il comitato del Nobel dovrebbe intervenire perché essere stati insigniti del premio non dà diritto all'immunità.
“Immunità da cosa”? Dice al Fatto Gideon Levy, una delle voci israeliane più note e indipendenti, columnist del quotidiano progressista Haaretz. “Grass non ha mai preteso di avere alcuna immunità visto che non deve chiedere il permesso a nessuno quando esprime una propria opinione. È un suo diritto come è diritto di chiunque. A meno che Israele voglia mettere in discussione la libertà di parola”. Levy ritiene che il problema sia un altro: “Israele, soprattutto da quando è guidato dal governo Netanyahu, non sopporta d’esser criticato. Mai e in nessun caso. Chiunque lo faccia, israeliano o straniero, viene tacciato di antisemitismo. E non ci sono prove che Grass sia antisemita”. Anche se militò nelle Ss? “Non possiamo definirlo antisemita perché da ragazzo, a 17 anni, vivendo nella Germania nazista, ne era diventato parte. Dobbiamo immaginarci l'atmosfera in cui era immerso, la forza di persuasione della propaganda nazista sui giovani”. Se Grass non è un antisemita e nemmeno un amico del regime iraniano, nella sua poesia ha scritto delle falsità. “Fermo restando che non ha commesso alcun reato di apologia e che non è un sostenitore del regime di Teheran solo perché ammette che anche l'Iran possa avere il nucleare, Grass ha commesso un grave errore scrivendo che gli israeliani vogliono attaccare il popolo iraniano e lo vogliano annientare. Nessuno qui lo odia o lo vuole annichilire. Ribadisco che l'attacco si tradurrebbe nel bombardamento delle centrali, dei luoghi dove verrebbe nascosto il nucleare. Il governo israeliano non vuole certo tirare le bombe sui civili”. Levy non assolve dunque lo scrittore “che si è spinto troppo oltre”, però ritiene “violento e aggressivo impedirgli di entrare in Israele”. Ammesso che sia sua intenzione.

il Fatto 11.4.12
Il Nobel tedesco sotto accusa
Günter Grass, Israele e il giovane Ratzinger
di Marco Dolcetta


In queste ore si è scatenata una campagna internazionale contro lo scrittore Nobel Günter Grass che ha di recente, in una poesia, criticato Israele e difeso l’Iran per le sue scelte nucleari. Israele lo ha definito persona non grata e il “suo” partito l’Spd lo ha severamente criticato. In tale circostanza vengono riproposte le accuse alla sua partecipazione giovanile alle SS. Vogliamo ricordare alcune sue righe tratte dal romanzo autobiografico “Sbucciando le cipolle” pubblicato nel-l’anno in cui lui stesso rivelò di aver militato durante la guerra nelle SS. Bisogna ricordare a proposito della sua partecipazione alle SS che a partire dal 1° dicembre 1936, sotto lo Jugenddienstpflicht tutti gli altri gruppi giovanili vennero banditi e i loro membri vennero assorbiti nella Gioventù hitleriana. L'appartenenza all'HJ venne resa obbligatoria per i giovani di età superiore a 14 anni nel 1939. La coscrizione diventerà poi obbligatoria per tutti quelli di età superiore ai 10 anni nel 1941.
Con il procedere della guerra, il gruppo assunse funzioni militari, gestendo le difese antiaeree e fornendo all'esercito molti soldati, specialmente per le Waffen-SS. Vennero arruolati nell'esercito membri della Gioventù hitleriana sempre più giovani che, durante la battaglia di Berlino nel 1945, costituivano grossa parte delle difese tedesche. Tra i giovanissimi iscritti per legge alla Hitlerjugend figurarono l'artista Joseph Beuys, l'attivista antinazista Sophie Scholl e Joseph Alois Ratzinger, allora 14enne, divenuto in seguito papa col nome di Benedetto XVI.
COSÌ RACCONTA GRASS e scrive: “Una volta - ancora nel campo di Bad Aibling - 3 sigarette Camel mi fruttarono un cartoccetto di cumino, che masticai in ricordo del maiale con cavoli al cumino: una ricetta del maestro perso di vista. E un po’ di cumino barattato lo passai al mio compagno, insieme al quale stavo accovacciato al riparo di un telone sotto la pioggia insistente e lanciavo 3 dadi forse giocandoci il nostro futuro. Eccolo li, si chiama Joseph, mi sommerge di parole - a voce bassa, anzi sommessa - e non riesce a uscirmi di mente.
Io volevo diventare questo, lui quello. Io dicevo che esistono più verità. Lui diceva che ne esiste una sola. Io dicevo di non credere più a niente. Lui insellava un dogma dopo l'altro. Io esclamavo: ma Joseph, non avrai in mente di fare il grande inquisitore o magari qualcosa di più? Lui faceva sempre qualche punto in più e giocando citava Sant’Agostino, comeseavesse davanti le sue confessioni nella versione latina.
Così passavamo il tempo parlando, e giocando a dadi, finché un giorno lui venne rilasciato, visto che nella regione bavarese era di casa, mentre io, privo di indirizzo e quindi apolide, finii prima alla disinfestazione e poi in un campo di lavoro”. Grass cosi racconta del suo incontro con Joseph Ratzinger, che diventerà Papa. “Sostanzialmente, mia sorella non crede ai miei racconti. Inclinò la testa con aria diffidente quando dissi che quel compagno si chiamava Joseph, aveva parlato con accento piuttosto bavarese ed era un cattolico di ferro. Nessuno come il mio compagno Joseph era riuscito a parlare a favore dell’unica verità rivelata con tanta fanatica profondità e tanta amabile delicatezza al tempo stesso. Se non ricordo male, veniva dalla zona di Altotting. La diffidenza di mia sorella aumentò: ‘Puzza di esagerazione, proprio come una delle tue storie! ’... Per rendermi più credibile ammisi una certa insicurezza: con lui avevo masticato cumino da un cartoccio, e la sua fede era così saldamente fortificata come un tempo il vallo atlantico; potrebbe essersi trattato davvero di tal Ratzinger che oggi in vesti papali vuol essere infallibile, anche se in quella maniera timida a me già nota che, in quanto fatta di affermazioni pacate, era particolarmente efficace. Qui mia sorella rise come sanno ridere solo le levatrici a riposo: ‘Ecco un’altra delle tue storie di fantasia con cui da bambino incantavi nostra madre’. E va bene, - ammisi, - che il tipo magrolino con il quale ai primi di giugno del ‘45 stavo seduto sotto un telone nel campo di Bad Aibling si chiamasse davvero Ratzinger non posso giurarlo, ma che pensasse di diventare prete, di ragazze non volesse saperne e subito dopo la liberazione della prigionia intendesse studiare il dannato ciarpame dogmatico, è sicuro. Così come che questo Ratzinger, che prima era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e adesso dice la sua da pontefice, fosse realmente uno dei 10mila nel campo”.
Scrive Grass: “Per provocare, avevo apertamente affermato che, come dimostrava la storia della chiesa, persino un miscredente poteva senz’altro diventare papa”. Sarebbe bello che i due vecchi amici, già SS, già denazificati, e poi chi Papa chi premio Nobel, si incontrassero a prescindere da rimozioni o smemoratezze.

il Fatto 11.4.12
Norvegia “Il killer Breivik non è matto”


L'autore degli attacchi del 22 luglio 2011 in Norvegia, Anders Behring Breivik, non soffre di psicosi ed è quindi penalmente responsabile. Lo ha concluso una controperizia psichiatrica. La nuova valutazione contraddice i risultati di una prima perizia che nel 2011 aveva stimato che Breivik soffrisse di “schizofrenia paranoica”, ipotesi che gli avrebbe evitato il carcere mandandolo in un ospedale psichiatrico.

il Fatto 11.4.12
Dal “Trota” al “Zucchina”, vite parallele di figli di papà
In Cina eccessi e impunità dei giovani rampolli dei leader del Partito comunista: studi all’estero, donne e auto di lusso
di Simone Pieranni


Pechino Viste le recenti cronache italiane, potremmo parlare di affinità e divergenze tra il compagno “Zucchina” e il leghista Trota. “Zucchina” è Bo Guagua, figlio dell'ex leader del Partito comunista di Chongqing recentemente epurato, Bo Xilai. Anche Bo Guagua, il cui nome significa appunto “zucchina”, secondo alcuni rumors che girano in Cina sarebbe all'origine dalla clamorosa caduta politica del padre, dato come astro nascente della scena cinese, come un dei più probabili nuovi membri della futura commissione centrale del Pcc.
E INVECE: epurato, secondo la Reuters espulso anche dal Comitato Centrale, forse anche per colpa degli studi all'estero del figlio in prestigiose università straniere. Iscrizioni che sarebbero state pagate con fondi statali. C'è di mezzo anche una spia, o probabile tale, Neil Heywood - per la cui morte è ieri stata indagata di omicidio proprio la moglie di Bo Xilai - trovato morto a Chongqing a novembre e considerato arruolato da una società di intelligence creata da ex agenti segreti di sua maestà britannica. Pare che Heywood avesse aiutato l'azienda di Xu Ming, il cassiere dei neomaoisti fedeli a Bo Xilai, a pagare gli studi del “Zucchina” all'estero. E nel vortice delle accuse è entrata ufficialmente anche la moglie
Bo Guagua, come Renzo Bossi, è stato anche al centro delle cronache mondane. Quando è stata annunciata la rottura del suo fidanzamento con la figlia di Chen Yun, uno degli 8 “immortali” che controlla tutto il mondo bancario cinese, la vulgata ha chiaramente inteso il messaggio come un segnale negativo per la carriera del padre, più che per la vita sentimentale del giovane Guagua: 24 anni, spesso ripreso in foto con donne straniere, pare sia andato a prendere la figlia dell'ex ambasciatore Usa a Pechino, con una Ferrari rossa fiammante.
IL “ZUCCHINA” non è l'unico “Trota” cinese. Anche i figli di Hu Jintao, il presidente, e di Wen Jiabao, il premier, si sono distinti a loro modo. Hu Haifeng, figlio di Hu Jintao, era infatti a capo della della Nuclear Tecnology Company, azienda statale, leader nel campo delle macchine a raggi x per i controlli di sicurezza negli aeroporti. La compagnia è stata accusata nel 2009 di corruzione e concorrenza sleale in tre paesi: Regno Unito, Namibia e Filippine. La società fu creata nel 1997 come ramo della Tsinghua University di Pechino, dove sia Hu Jintao sia suo figlio Hu Haifeng si sono laureati in ingegneria. La ditta ebbe subito un rapido sviluppo, arrivando a coprire il 90% del mercato interno esportando i propri prodotti in più di 50 paesi. In Namibia avvenne il caso più grave: 3 uomini furono arrestati con l’accusa di aver accettato mazzette per assicurare una fornitura alla Nuclear Tecnology Company negli aeroporti della Namibia: un affare da 55,3 milioni di dollari.
Il figlio del premier Wen Jiabao, invece, non è finito nei guai, ma ha percorso successi sospetti: è stato nominato recentemente presidente della China Satellite Communications. Winston Wen Yunsong presiede una società che ha appena annunciato 15 satelliti operativi entro il 2015, per un fatturato di 16 miliardi di yuan. E chi è che ha aiutato Winston a distinguersi nel mondo del business? Le iniezioni di capitale di tale Zhang Pei: sua madre.

La Stampa 11.4.12
La crescita della Cina nasconde la frenata di importazioni ed export
di Wayne Arnold


C’è della sofferenza dietro le ultime notizie economiche positive della Cina. Sebbene il tasso mensile d’inflazione al consumo sia stato sorprendentemente elevato, i prezzi alla produzione stanno scendendo. Un’eccedenza commerciale mensile di 5,35 miliardi di dollari nasconde una flessione dei tassi di crescita delle esportazioni. Se le autorità in Cina considerassero la rapida crescita del Pil come il maggiore bene economico, tali segnali di relativa debolezza economica potrebbero indurle a introdurre stimoli valutari e fiscali. Ma i riformatori che stanno prendendo il comando a Pechino potrebbero essere contenti di lasciare l’economia a soffrire per un breve periodo a fronte di guadagni a più lungo termine. Il tasso d’inflazione annuale a marzo, pari al 3,6%, continua a salire sebbene sotto l’obiettivo del 4%. L’accelerazione è stata influenzata da fattori stagionali, soprattutto dall’aumento dei prezzi della verdura fresca. I prezzi alla produzione meno stagionali sono diminuiti dello 0,3%. Questo è in linea con l’indice Hsbc dei direttori degli acquisti, che ha mostrato un calo del fatturato delle fabbriche a marzo per il quinto mese consecutivo.
Gli ultimi dati commerciali confermano la debolezza delle esportazioni viste nello stesso indice manifatturiero Pmi (l’indice dei direttori degli acquisti). I risultati trimestrali indicano un rallentamento della crescita delle esportazioni. Il forte aumento della domanda mensile Usa è stato incoraggiante, anche se gli ultimi dati sull’occupazione statunitense segnalano che la crescita futura potrebbe essere più lenta, ma le esportazioni del primo trimestre verso l’Europa sono scese sotto i livelli del dopo Lehman. La crescita dei prestiti è rallentata, nonostante due riduzioni dei requisiti dei rapporti di riserva delle banche. I leader della Cina non sembrano preoccupati. Potrebbero ostacolare le previsioni di un rinvio delle riforme durante una transizione di leadership. Forse sia la nuova sia la vecchia leadership ritiene che il modello di crescita basato sugli investimenti abbia reso l’economia disorganizzata e insostenibile, come afferma il premier uscente Wen Jiabao.

Corriere della Sera 11.4.12
Resa dei conti in Cina La moglie dell'epurato Bo indagata per omicidio
Le indagini sulla morte di un manager inglese
di Marco Del Corona


PECHINO — Chongqing è lontana. Il Politburo anche di più. Bo Xilai, l'ex segretario del Partito comunista della megalopoli da 30 e passa milioni d'abitanti, è stato sospeso dai due organismi dei quali faceva ancora parte, il Politburo — appunto — e il Comitato centrale. È «sospettato di serie violazioni della disciplina». Più grave ancora la posizione della moglie Gu Kailai: arrestata perché indiziata dell'omicidio dell'uomo d'affari britannico Neil Heywood, trovato morto e frettolosamente cremato a Chongqing l'anno scorso. Il businessman aveva intrattenuto cordiali rapporti con il clan Bo ma aveva confidato di temere per sé dopo un contrasto con la signora. Le indagini sono state riaperte e il segretario agli Esteri britannico William Hague ha apprezzato.
Le canzoni rosse, gli slogan para-maoisti, le serie tv rivoluzionarie: tutte finite. Le ambizioni politiche: cancellate. Il futuro: fosco. A Bo resta, per ora, solo l'appartenenza al Partito del quale contava di diventare uno dei nove leader supremi, ovvero un membro del comitato permanente del Politburo. Invece quella che si è consumata ieri sera, riassunta in poche righe dalla Xinhua, è una specie di definitiva caduta degli dei, un categorico tratto di penna su un nome che aveva regalato alla Cina scene da una politica quasi occidentale. Con una municipalità trasformata in un virtuale bacino elettorale e cittadini conquistati a colpi di spettacolari campagne anticrimine e di scelte populiste.
Era dalla rimozione per corruzione di Chen Liangyu, segretario di Shanghai (2006), che ai vertici non si assisteva a passaggi così traumatici, stavolta con l'aggravante del congresso che in autunno incoronerà la nuova leadership. Il destino di Gu Kailai carica però il caso Bo di un dramma che rimanda ad altre ere. Già avvocatessa di successo, dedicatasi agli affari di famiglia dopo le nozze con Bo Xilai, aveva incassato l'epiteto ammirato di «Jackie Kennedy della Cina», ma l'arresto di ieri — condiviso con un famiglio di nome Zhang Xiaojun, sospettato con lei di omicidio — fa di Gu Kailai una sorta di Jiang Qing minore. Se la vedova di Mao Zedong venne arrestata e processata poche settimane dopo la morte del marito su ordine dell'erede designato Hua Guofeng, la consorte di Bo Xilai paga già, oltre alle proprie responsabilità, anche le ambizioni dell'ex sindaco di Dalian ed ex ministro del Commercio.
Bo Xilai aveva lanciato il suo modello di potere e di governance come un ariete contro Zhongnanhai, la cittadella dei leader. Ma né il numero uno Hu Jintao né il premier Wen Jiabao avevano gradito. Anzi, si erano astenuti dal dare la loro benedizione alle conquiste di Chongqing, che pure ha saputo attrarre capitali stranieri. Quando però Wen ha intimato di non evocare la Rivoluzione culturale, il tempo di Bo stava terminando.
I fatti di ieri non chiariscono i punti oscuri della vicenda, cominciata due mesi fa con la fuga al consolato americano di Chengdu di Wang Lijun, già capo della polizia di Chongqing e braccio destro di Bo in disgrazia. È più facile, ora, spargere sospetti, andare a ripescare vecchi misteri, vedi l'incidente aereo del 2002 a Dalian, dove su un velivolo morì una donna i cui destini avevano incrociato quelli di Bo, come insinua da Hong Kong il giornale Xin Wei Yue Kan. O suggerire che l'attacco dei gangster ai poliziotti che nel 2009 fornì l'occasione per avviare la feroce campagna anti-mafia fu in realtà una finta (i racconti dei «sospetti» di allora, torturati per mesi, sono invece tristemente veri).
Persino l'unico alleato di Bo tra i 9 del Politburo, l'uomo della sicurezza Zhou Yongkang, si è allineato ai leader. Altro potrà succedere. A Bo forse non resta ormai che parafrasare Marx. Groucho Marx. Cioè: non farei mai parte di un Politburo che avesse tra i suoi membri uno come me.

l’Unità 11.4.12
Rossellini-Allende, intervista con la storia
Esce «La forza e la ragione», il video dell’incontro tra il regista e il presidente cileno realizzato nel 1971
di Giancarlo Mancini


Quando decise di incontrare Salvador Allende era soprattutto la curiosità per le grandi promesse di emancipazione che il suo programma portava con sé ad attrarre Roberto Rossellini. Fu così che nacque La forza e la ragione, l’intervista realizzata nel ‘71 per la Rai che ora arriva in dvd (distribuita da Flamingo), a quasi 40 anni di distanza dalla sua messa in onda, il 15 settembre 1973, pochi giorni dopo il colpo di stato militare che aveva rovesciato il governo e l’assedio alla Moneda che costò la vita allo stesso Allende. Nell’intervista ad Enzo Biagi prima della messa in onda Rossellini spiega le ragioni del suo viaggio, alla ricerca di un personaggio, Allende, e del suo progetto: realizzare democraticamente il socialismo. Erano state le sue parole ad attrarlo, Allende parlava come un evangelizzatore laico, eletto presidente del Cile per cambiare non solo l’azione politica ma la vita di tutto un popolo.
L’ESPERIENZA DI UNIDAD POPULAR
Quando Rossellini e Allende si incontrano, nel maggio ’71, sono passati pochi mesi dalla vittoria elettorale, coronamento di un percorso politico iniziato 20 anni prima con la creazione di Unidad popular, l’incontro tra un gruppo di socialisti dissidenti e i comunisti, allora in clandestinità. «Nel ’51racconta Allendepercorsi tutto il Cile per dire al popolo che la grande possibilità consisteva nell’unità dei partiti della classe operaia con i partiti della piccola borghesia».
Più di dieci anni dopo il Viaggio in India, Rossellini torna a raccontare di un popolo in marcia verso la libertà e di un leader politico dai lineamenti diversi. Se in Nehru, il primo presidente indiano dopo la liberazione dagli inglesi, Rossellini aveva visto un «uomo dalla vastità eccezionale», di Allende lo colpì «l’acutezza», la forza con cui porta avanti la sua idea di socialismo, «l’idea che non ci può essere una morale per i politici e una per i cittadini». Come ogni processo di decolonizzazione, di liberazione, occorre iniziare da un modo nuovo di affrontare il lavoro, il vivere insieme. Allende parla di una rivoluzione dei comportamenti non solo di radicali mutamenti economici e strutturali. Il governo partecipato degli operai alla fabbrica deve essere diretto verso il bene di tutti, ciò che eccede la produzione deve essere redistribuito. I rapporti con il clero sono difficili ma lui ha fede nella Chiesa «del figlio di un falegname».
Lo sguardo nomade, instancabile dal regista di Paisà e Viaggio in Italia ancora una volta si sofferma, dopo l’India, su un Paese orgogliosamente in lotta per difendere il proprio diritto a costruirsi il futuro ed uscire dallo sfruttamento del colonialismo. «Compriamo a caro prezzo e vendiamo a poco prezzo», dice Allende, per questo aveva deciso di nazionalizzare le miniere di rame. « Popoli come il nostro lottano per la pace e non per la guerra. Per la cooperazione economica e non per lo sfruttamento». Dopo aver raccontato Gli atti degli apostoli e Socrate Rossellini trovò in questo ex chirurgo lo strenuo difensore di un umanesimo coerente e libertario. «Dopo l’impresa sulla luna i grandi devono mettere i piedi sulla terra», sono le sue ultime parole.

La Stampa 11.4.12
Primo Levi
L’uomo che guardava i giocatori di carte
Alla ricerca degli aspetti meno noti dello scrittore che moriva 25 anni fa Non solo testimone del Lager: il curioso, l’enigmista, il linguista, l’etologo
di Marco Belpoliti


L’11 aprile 1987, era un sabato Primo Levi si congedò dal mondo a 67 anni, l’11 aprile 1987, un sabato. Quel giorno il suo corpo venne trovato in fondo alla tromba delle scale della sua casa a Torino. Anche se è stata contestata da molti, perché pare che lo scrittore non avesse mai manifestato l’intenzione di uccidersi e anzi facesse progetti per il futuro, l’ipotesi del suicidio resta la più probabile, avvalorata dalla difficile situazione psicologica di Levi, su cui continuava a pesare il ricordo tormentoso del Lager e al quale incombeva, per di più, il compito di accudire la madre e la suocera malate. A lato lo scrittore, che era nato a Torino il 31 luglio 1919, in una celebre foto del 1986 di Mario Monge, con due delle sue creazioni, realizzate con fili di rame ricoperti di vernice
Tutti, o quasi, conoscono il Levi testimone, l’autore di Se questo è un uomo, e lo apprezzano anche come scrittore, anche se, almeno fino alla fine degli Anni Ottanta, non era considerato tale; in molti sanno che Levi era un chimico e si occupava di scienza nei suoi libri; in pochi, tuttavia, conoscono l’altro Levi: il giocatore, l’enigmista, il curioso, il linguista dilettante, l’umorista, l’etologo, l’uomo degli «altrui mestieri» ( L’altrui mestiere s’intitola il libro del 1985, uno dei suoi meno letti, eppure uno dei più belli). Per ricordare questo Primo Levi a venticinque anni dalla scomparsa ho approntato questo breve dizionarietto tascabile.
UMORISTA. Pochi giorni dopo l’11 aprile 1987, l’amico musicologo Massimo Mila scrive sulla Stampa: se mi chiedessero di definire in una sola parola lo scrittore, direi: un umorista. Levi ha la capacità di cogliere sempre l’aspetto ridicolo, o comico, delle cose; anche nel Lager non gli viene mai a meno. Il Caronte tedesco, che chiede gli orologi sul camion ai deportati, strappa una sonora risata; e Alberto, che ruba manici di scopa, gli fa scappare un: non è ben fatto? ; e ancora, Cesare nella Tregua è visto in chiave comica; poi c’è Argon, nel Sistema periodico, con l’albero genealogico di ebrei eccentrici e buffi. In cosa consiste l’umorismo di Levi? Nella profonda e indulgente simpatia umana, nell’arguzia, nella capacità di assumere il punto di vista dell’altro, di sorprendersi; è la curiosità verso le persone diverse da lui, in particolare lo attirano gli eccentrici e i borderline. Una pietas che, senza essere religiosa, come quella del suo maestro Manzoni, è pur sempre profondamente umana.
KIBITZER. Levi si è sempre definito un osservatore. Una volta ha affermato: sono un kibitzer; in yiddish significa: uno che si diverte a guardare i giocatori durante le partite di carte. Qualcuno che sta alle loro spalle. Giocatore e insieme osservatore.
ETOLOGO. Non solo Se questo è un uomo, ma tutti i libri di Levi sono fondati sulla osservazione acutissima dei comportamenti umani; coglie gli aspetti minimi e riesce a decifrare, con rara perspicacia, le singole personalità; segue gesti, parole, comportamenti, li definisce e classifica, enuncia regole generali partendo sempre da dettagli. Si tratta senza dubbio di qualità innate, affinate dal mestiere di chimico, dal necessario «colpo d’occhio» che occorre in questo mestiere, fatto di sguardo, olfatto e ragionamento. Ma questo non basterebbe a renderlo un etologo. Gli occorre la convinzione che l’intera umanità appartiene a una specie animale: l’animale-uomo, che gli è capitato di osservare da vicino, all’interno di quella «gigantesca esperienza biologica e sociale» che è stata il Lager. Quasi ogni personaggio descritto da Levi, sia dentro quello zoo che è il Campo, sia fuori, nella vita normale, somiglia a un animale: gatto, topo, scimmia, cane, ragno ecc. Gli animali sono dappertutto nelle sue pagine; gli ha dedicato diverse poesie e anche delle interviste immaginarie.
ARTE. Non sono molte le citazioni di opere d’arte nelle opere di Levi, né lo scrittore sembra troppo attratto dal mondo artistico; tuttavia a un certo punto, per passatempo – Levi ha sempre lavorato con le mani, aggiustando ad esempio i giocattoli dei figli – cominciò a costruire con i fili di rame ricoperti di vernice, provenienti dalla Siva, l’azienda chimica per cui lavorava, degli animali – una farfalla, un gufo, un coccodrillo – che poi regalava agli amici o teneva in casa. Nel 1986 Mario Monge l’ha fotografato mentre «indossa» una di questi animali di fronte all’obiettivo.
INVENZIONI. Una delle prime macchine inventate da Levi nei suoi racconti «fantabiologici» è una fabbricatrice di versi; un poeta l’ha acquistata per comporre più rapidamente poesie su commissione ( Il versificatore) ; in La bella addormentata nel frigo appare una macchina per ibernare le persone, creata da uno scienziato tedesco, al fine di conservare il tesoro di famiglia: una bella ragazza. Nel ciclo di racconti presenti in Storie naturali compare il signor Simpson, rappresentante della Natca, che piazza il Mimete (un duplicatore in 3D, che anticipa di decenni le fotocopiatrici a tre dimensioni), il Calometro (apparecchio per misurare la bellezza), il Minibrain (che costringe gli insetti a lavorare), il Vip Scan (una sonda per i Vip) e il Torec. Quest’ultimo è una delle prime descrizioni della futura «realtà virtuale»: anno di pubblicazione 1966; poi ci sono le corazze di Protezione, la manipolazione genetica di Lumini rossi in Vizio di forma, secondo libro di racconti. E ancora il Knall, un misterioso aggeggio del racconto omonimo, che impartisce la morte a distanza, utilizzato per vivacizzare un’annoiata società; lo Psicofante, marchingegno che decifra il carattere, o almeno l’immagine interiore di chi vi appoggia la mano, materializzando oggetti: le apparizioni rinviano a sorta di rebus psicoanalitici di società.
RETE. In A fin di bene, scritto intorno al 1968, e incluso in Vizio di forma (1971), si scopre che il sistema telefonico funziona come una realtà a sé, come «un centro nervoso», che esclude gli umani e si concepisce come una Rete, in cui cavi e cavetti e selettori si trasformano progressivamente in un organismo cosciente: la quantità che diventa qualità. Se si pensa che Arpanet, il sistema finanziato dal ministero alla Difesa americano, antenato di Internet, è dell’anno seguente, si capisce come la fantasia scientifica di Levi abbia lavorato d’anticipo anche in questo campo.
GIOCHI. La passione per il gioco, come ha mostrato Stefano Bartezzaghi in un ampio catalogo, è fondamentale per lo scrittore torinese; giochi come gli scacchi, ma anche giochi letterari (le rime) e linguistici come palindromi: parole e frasi che si possono leggere da sinistra a destra e viceversa. In Calore vorticoso, un racconto, ne presenta numerosi, e tutti di propria invenzione, tra cui un raro esempio di palindromo in inglese e in italiano («in arts it is repose to life: è filo teso per siti strani») ; poi gli anagrammi e i rebus, che componeva, come ha raccontato Giampaolo Dossena, il quale ne ha pubblicato uno col disegno realizzato da Levi stesso con il computer.
COMPUTER. Lo acquista nel settembre del 1984, un Apple Macintosh; lo racconta sulla Stampa in «Personal Golem». Curiosissimo della macchina, se ne serve non solo per scrivere, ma anche, e soprattutto, per giocare, a scacchi in particolare; ci compone poesie, e disegna con il suo Golem casalingo il triplice gufo per la copertina del libro L’altrui mestiere (1985). Nel Dialogo con Tullio Regge parla ampiamente della sua iniziazione al computer; e spiega che la possibilità di correggere in continuazione i testi a video darà, crede, molte difficoltà ai futuri filologi, agli studiosi delle sue opere.

La Stampa 11.4.12
Coi suoi scritti ha dato voce a tutti i sopravvissuti che non osavano raccontare
di Umberto Gentiloni


Venticinque anni ci separano dall’11 aprile 1987, quando con un gesto estremo Primo Levi si tolse la vita nella sua abitazione torinese. Il tempo non ha sbiadito il ricordo di quella giornata né cancellato gli interrogativi su un epilogo così drammatico. Un peso talvolta insopportabile ha accompagnato le vite dei sopravvissuti, di chi era tornato dal sistema concentrazionario nazista. Molti hanno raccontato le principali ossessioni, i tormenti del dopo, la condizione di «salvati» spesso incomunicabile e indicibile. Temevano di non essere creduti e, quando le prime parole a fatica uscivano dalle loro bocche, i gesti di chi li circondava non incoraggiavano; venivano derisi, presi per matti, considerati come usciti di senno, segnati dalla durezza della guerra. Non creduti, non capiti, si sono lasciati tutto dentro per anni, per decenni nel buio della coscienza.
Alcuni hanno evitato di raccontare alle proprie mogli, i figli ne sono venuti a conoscenza solo alcuni decenni più avanti nelle forme di una scoperta dolorosa difficile da metabolizzare. Primo Levi era presente a tutti, con le sue parole, le sue riflessioni, i suoi scritti. Lo ha ricordato di recente Piero Terracina - ebreo romano, arrestato il 7 aprile 1944 e liberato ad Auschwitz il 27 gennaio dell’anno successivo nel corso di un viaggio della memoria promosso dalla Provincia di Roma, che ha portato oltre 500 studenti tra Cracovia e i campi di Auschwitz e Birkenau una settimana fa. Una studentessa ha chiesto quando e perché avesse cominciato a raccontare della sua vita. Terracina ha risposto con coraggio dicendo che Primo Levi li aveva rappresentati tutti, era una voce nella quale chi poteva riusciva a riconoscersi; con la sua improvvisa scomparsa si sono nuovamente sentiti soli, in un clima difficile e talvolta ostile.
E così le parole hanno trovato le forme per comunicare, con sofferenza e ostinazione. Con il passare degli anni il racconto è diventato corale, Primo Levi ha tracciato un sentiero arricchito progressivamente di voci e dettagli. Alla paura di non essere compresi si accompagna il peso di un senso di colpa inestirpabile, quella domanda - prosegue Sami Modiano, catturato a Rodi nel 1944 e condotto a Birkenau all’età di tredici anni - su come è stato possibile uscire da quell’inferno, sul perché proprio noi e non altri, quasi che tornare vivi fosse una macchia perenne sul cammino di una ritrovata esistenza.
Ognuno di loro ha cercato risposte, continua a farlo nel dialogo con chi allora non c’era e nella trasmissione di memorie che aiutano la preziosa tessitura della storia di vicende individuali e collettive. Un filo che non si è interrotto, nelle diversità di biografie e situazioni ha consentito passi avanti nella conoscenza consapevole. Ancora il ruolo di Primo Levi nella sua funzione di voce che si oppone al carattere universale dell’omissione, alla cancellazione di luoghi, comportamenti, responsabilità soprattutto nel suo indagare sull’uomo vittima e potenziale carnefice. Anche lui inizialmente inascoltato, quando Se questo è un uomo non trova (nel 1946) un’adeguata collocazione editoriale: ci vorrà tempo per trovare i giusti canali e le coscienze pronte ad accoglierlo e valorizzarlo.
Levi continuerà a scrivere i suoi libri, gli articoli per La Stampa (dal 1960) attingendo alla sua esperienza di scienziato alla sua poliedrica cultura. In un dialogo del 1984 affermò: «Da quando ebbi l’impressione di aver esaurito i serbatoi ho ripreso a lavorare a una raccolta di saggi sul Lager “rivisitato” dopo 40 anni». Sarebbe uscita nel 1986, con il titolo I sommersi e i salvati, a pochi mesi dalla fine.

Corriere della Sera 11.4.12
Platone: spetta ai saggi il compito di governare
Una concezione perfezionista e autoritaria
di Corrado Ocone


È un Platone che genera molti problemi da un punto di vista contemporaneo, diciamo pure liberale, quello del V libro della Repubblica. La stessa «rivoluzionaria» apertura ai diritti delle donne si inserisce in un discorso teso a «regolare» e «normalizzare», secondo un astratto ideale di bene e perfezione, i rapporti umani, la famiglia, la procreazione, l'allevamento e l'educazione dei figli, il governo della comunità.
Non c'è dubbio che sulle donne Platone rompa con la tradizione misogina della società greca. Ed è particolarmente rilevante che lo faccia contestando ogni forma di naturalismo o biologismo: le donne non vanno considerate come un insieme unico, predeterminato, immodificabile. Anche in una concezione funzionalistica, come è quella prospettataci nella Repubblica, in cui cioè ognuno deve svolgere nella società il ruolo che gli riesce meglio, i compiti vanno stabiliti in base alle capacità individuali, non per genere. A tutti, uomini e donne, va data la stessa educazione, vanno offerte le stesse possibilità. Tanto che anche i lavori più pesanti o tradizionalmente maschili possono essere in linea di principio appannaggio di donne, se mostrano di esserne all'altezza. È vero che Platone scrive che le donne sono più deboli degli uomini, ma si tratta chiaramente di una affermazione empirica e non teorica.
Tuttavia, per quanto audace sia la presa di posizione «femminista» di Platone, un primo centro del suo discorso è più avanti: allorquando cioè, sempre in questo libro, egli afferma che nello Stato ideale non deve esistere la famiglia, deve anzi esserci comunione di donne e figli, e l'educazione deve essere affidata alla collettività. Ad essa va anche affidata la regolamentazione dell'attività riproduttiva, attraverso un programma biopolitico o eugenetico che porti all'accoppiamento dei migliori. Ancora una volta il bios è sottomesso a superiori ed esclusive esigenze spirituali. Compito della società è infatti selezionare e coltivare l'eccellenza spirituale. L'abolizione della famiglia è motivata in virtù del suo essere portatrice di interessi particolari e, quindi, tendenzialmente conflittuali con quelli della polis. Fra l'individuo singolo e la comunità non deve esserci mediazione alcuna: i genitori non devono sapere chi fra i pargoli allevati discende da loro geneticamente, né viceversa ai figli deve interessare il nome dei loro genitori. L'antinaturalismo porta così a enfatizzare il ruolo dell'educazione nella creazione di un'aristocrazia spirituale che governi la città. Tutte le parti di essa, così come gli organi di un corpo sano e funzionante, devono muoversi armonicamente in vista del vero bene, che per Platone è conoscenza o «amore del sapere» (filosofia). Il razionalismo etico (virtù è conoscenza) è l'ideale che sottende tutta la sua costruzione.
Si arriva così al vero centro dell'argomentazione: il potere deve essere affidato ai filosofi, o i governanti devono farsi tali, perché solo chi esercita questa disciplina sottomette gli istinti e le passioni — ciò che è legato alla corporeità — alla ragione. Solo il filosofo ha poi una visione del tutto, non possiede cioè un sapere solo specialistico o settoriale che tende per sua natura a farsi unilaterale. Solo il filosofo sa qual è il vero bene. Ed egli, fattosi governante, può anche mentire e ingannare per il bene o l'utilità di tutti. Sono qui presenti, sembrerebbe in modo paradigmatico, i due elementi politici più antiliberali che sia dato concepire: il perfezionismo e il paternalismo. Non stupisce perciò che Popper abbia dedicato il primo corposo tomo della sua opera La società aperta e i suoi nemici (1945) alla giustificazione della tesi che fa di Platone il progenitore dello Stato totalitario. Bisogna tuttavia non tanto invitare, come si è fatto, a storicizzare le tesi esposte dall'autore, quanto piuttosto a tener presente che la Repubblica è concepita come una sorta di esperimento mentale. Platone afferma esplicitamente, ad un certo punto del V libro, di non essere ben sicuro di quanto sta dicendo in quanto procede per tentativi (con un metodo, potremmo azzardare, non dissimile da quello del trial and error dell'epistemologia popperiana). C'è poi sotteso a tutto il suo discorso un filo di ironia che, come ha sottolineato Gadamer, non sempre il lettore moderno coglie. E che, mostrando l'ampia gamma dei mondi possibili, svolge comunque una funzione critica rispetto all'esistente.

Corriere della Sera 11.4.12
Il capostipite degli utopisti


Testo fondamentale in cui si trattano problemi centrali sull'ordinamento politico ideale, sulla libertà dell'uomo, sulla condizione femminile, sulla pedagogia e sull'organizzazione dello Stato, La Repubblica di Platone (libro V) è in edicola il 12 aprile con la prefazione inedita di Pierluigi Battista. «Non avremmo Thomas More, Campanella, Morelly, Fourier senza la lezione di Platone», spiega appunto Battista, mettendo in risalto uno degli aspetti più interessanti del testo platonico, che fonda sostanzialmente «il fascino dell'utopia politica» per tutti i pensatori successivi. Ma «la radicalità con cui viene proposto un modello di Stato ideale storicamente inaudito prima della stesura della Repubblica», continua Battista, ne fa un testo interpretato di volta in volta nei secoli fino ai nostri giorni come ispiratore filosofico di una quantità di ideologie diverse, dai totalitarismi di destra al collettivismo burocratico. Anche applicando, come ricorda il prefatore, «al mondo greco classico categorie che invece sono figlie della nostra epoca». (i.b.)

Corriere della Sera 11.4.12
La vendetta di Medea nei versi di Euripide
Sopprime i figli per rivalsa contro il marito
di Paola Casella


A lla fine resta in piedi solo Medea: accanto ai cadaveri dei figli, accanto a Giasone, il marito che l'ha abbandonata per sposare la figlia del re di Corinto, e che Medea mette in ginocchio. Altrove giacciono i corpi di re Creonte e di sua figlia, che Medea ha ucciso con uno dei veleni dei quali, da maga, conosce ogni segreto. La statura tragica di Medea svetta su tutte le altre protagoniste della drammaturgia greca: è incancellabile l'immagine della figlia di Eeta, re della Colchide, che per vendicare l'ingiustizia subìta compie l'atto più innaturale e imperdonabile di tutti, l'infanticidio. Non a caso la sua figura è spesso rievocata dalla cultura popolare, a cominciare dal cinema, che ha raccontato più volte la sua storia, dalla Medea pasoliniana a quella di Lars Von Trier, passando attraverso esempi minori come Así es la vida di Arturo Ripstein o Médée miracle di Tonino De Bernardi. Anche Maternity blues di Fabrizio Cattani, di imminente uscita, è basato su una pièce teatrale dal titolo From Medea.
Medea non è un'innocente, fin da prima di aver commesso l'infanticidio: per aiutare Giasone, giunto in Colchide in cerca del vello d'oro, la principessa tradisce il suo popolo e suo padre, rubando loro il vello per donarlo al suo amore straniero, insieme a se stessa. E per agevolare la fuga degli Argonauti, Medea fa a pezzi suo fratello, gettandone i brandelli dietro di sé uno alla volta in modo che il padre debba rallentare per raccoglierli, e ricomporre le sembianze del figlio perduto. La sua vicenda, dunque, è perfettamente circolare: inizia e finisce con un delitto contro il proprio sangue, perché Medea fa ciò che ritiene necessario a raggiungere il proprio obiettivo, costi quel che costi.
Ma l'antefatto in Colchide viene escluso dalla tragedia euripidea, che inizia con Medea davanti alla sua casa coniugale di Corinto, già per lei diventata insopportabile, e intenta a confidare alla nutrice la sua sofferenza, così come farà più avanti con il coro delle donne greche. È questo l'altro punto di forza della tragedia di Euripide: la capacità di suscitare identificazione e solidarietà verso una protagonista che, prima di passare dalla parte del Male, ascrive la propria situazione all'iniquità della condizione femminile, non limitandosi alla propria autobiografia, ma coinvolgendo nel suo j'accuse tutte le donne, cui dà simultaneamente voce, davanti al pubblico della «progredita» Atene (e poi di tutto il mondo «civilizzato»).
A distinguere Medea dalle eroine della tragedia greca classica, oltre alla discendenza barbara e alla mancanza di un candore innocente, sono il suo rifiuto di accettare il ruolo della vittima e la sua volontà di condividere con le altre la sua indignazione. «Noi donne siamo la specie più sventurata», esordisce Medea nel suo monologo sulle disparità di genere. Ciò che le regala una statura eroica, pur negativa, è la coerenza e lucidità nell'agire, la capacità di oltrepassare il punto di non ritorno pur di porre riparo fino in fondo al torto patito: Medea ama i suoi figli, e il genio di Euripide testimonia ripetutamente la profondità di questo amore, ma dal punto di vista dell'efficacia del piano di vendetta contro Giasone (e dell'impatto narrativo sul pubblico) il suo efferato delitto è insuperabile: «È soprattutto in questo modo che mio marito sarà morso». «Piangerò domani», avrebbe detto Medea, se fosse vissuta, cinematograficamente parlando, qualche secolo dopo. Ma a fine tragedia è Giasone a piangere, e a capire come ci si sente, davanti alla privazione violenta di un affetto.
Alla fine Medea se ne va, lasciando il marito, privo della nuova consorte e dei figli, al suo tormento. Il rimorso, per lei, arriverà dopo, e con esso quel senso di colpa che, il pubblico intuisce, non la abbandonerà, dopo che il sipario si sarà abbassato. Invece di un climax risolutivo, Euripide inventa un finale aperto che lascia intravedere un futuro abisso di disperazione, per entrambi i protagonisti della tragedia. Tutti gli altri personaggi sono comparse in mezzo alle quali giganteggia Medea, il cui antagonista non è Giasone ma la sua coscienza, che lei mette a tacere per conservare la determinazione ad agire, ma che continuamente riaffiora, e continuerà a riaffiorare, insieme all'amore per i figli perduti. E in Medea è questo conflitto tutto interiore il più potente elemento tragico.

Corriere della Sera 11.4.12
Dall'umiliazione al crimine


In edicola il 14 aprile, la tragedia Medea di Euripide è presentata nel quattordicesimo volume della collana con l'inedita prefazione di Ranieri Polese. È il celebre testo in cui la protagonista Medea, che è stata a fianco di Giasone nella conquista del vello d'oro, ormai ripudiata dall'eroe per la giovane figlia del re Creonte, compie per vendicarsi il più atroce dei delitti, assassinando i figli avuti dall'ex consorte. Come rileva Polese nella prefazione, va notata la sconvolgente attualità della figura della «madre infanticida» di oltre 2.400 anni fa, confrontandola con quelle portate alla ribalta dalla cronaca contemporanea. Ma va anche notata l'inaudita modernità del testo, perché il personaggio euripideo, spiega il critico, «denuncia lo stato di sottomissione e disuguaglianza che la società dei maschi impone a tutte le donne». Una vittima che Euripide non condanna, rileva Polese, mettendone anzi in luce la figura terribile e tragica, di donna umiliata e impotente la cui violenza vendicatrice è la conseguenza di un'ingiustizia irrimediabile e impunita. (i.b.)

Repubblica 11.4.12
Il fisico spiega che cosa ci insegna l’errore sulla velocità della particella
La piccola lezione del neutrino "lento"
Va di moda cercare rivoluzioni a tutti i costi, e ci dimentichiamo il più delle volte che quello che abbiamo imparato fin qui è vero e non ha bisogno di essere cambiato
di Carlo Rovelli


a saga dei neutrini più veloci della luce sembra volgere al termine: in autunno Einstein si era sbagliato e la fisica era tutta da rifare; ora non è più vero nulla. Il pubblico può sentirsi disorientato, se non addirittura un po´ preso in giro. Cosa è successo?
Riassumo i fatti. In una galleria sotto il Gran Sasso viene condotto un esperimento, chiamato con la sigla OPERA, che consiste nel rivelare un fascio di neutrini prodotto nei laboratori del Cern a Ginevra. I neutrini viaggiano da Ginevra al Gran Sasso sottoterra: attraversano la roccia come la luce attraversa il vetro, senza bisogno di tunnel. Nel marzo 2011 viene misurata la velocità di volo di questi neutrini, che risulta essere di un soffio superiore alla velocità della luce.
Il risultato è stupefacente perché nessun oggetto mai osservato fino ad oggi (compresi neutrini arrivati dall´esplosione di una stella) viaggia più veloce della luce. E anche perché la nostra comprensione dello spazio e del tempo, chiarita da Einstein, non è compatibile con l´esistenza di oggetti più veloci della luce. Se tali oggetti esistessero, dovremmo ripensare tutta la teoria fisica, che pure fin qui ha funzionato egregiamente. La reazione dei fisici di OPERA, quindi, è cauta. L´ipotesi ragionevole è un errore di misura, che poteva nascondersi ovunque: nell´analisi teorica, in qualche effetto trascurato, nella misura della distanza, nella misura dei tempi, in qualche baco nel software, in qualche cavo difettoso, eccetera.
Per mesi OPERA ha tenuto la notizia riservata, cercando l´errore, ma senza trovarlo. Il 22 settembre scorso, OPERA decide di rendere pubblico un documento, che conclude con le parole «L´importanza potenziale del risultato richiede la continuazione della ricerca per investigare i possibili effetti non compresi che possano giustificare l´anomalia osservata». Il portavoce dell´esperimento «invita la comunità dei fisici ad uno scrutinio attento e a ripetere la misura indipendentemente».
Il giorno prima di questo cautissimo annuncio, il professor Zichichi telefona ad un giornalista del Giornale e fa trapelare in anteprima la notizia di una scoperta clamorosa. Due giorni dopo, alcuni giornali italiani titolano «Cern conferma la scoperta. Neutrini più veloci della luce». La stampa internazionale è su un altro registro e la Bbc titola: «Misure sulla velocità della luce rendono perplessi gli scienziati».
Nei dipartimenti di fisica la reazione è incredula ma aperta: l´opinione prevalente è che il risultato sia implausibile, ma non si debba scartarlo a priori e si debba ripetere la misura. Diversi gruppi di ricerca nel mondo iniziano esperimenti con questo obiettivo. Diversi fisici teorici si gettano comunque sul problema e propongono nuove ipotetiche teorie, anche strampalate, per rifare la fisica da capo.
In febbraio, finalmente, un comunicato molto tecnico di OPERA annuncia che nelle apparecchiature di misura è stato trovato un problema che potrebbe essere fatale. Qualcosa di una banalità sconcertante: un cavo difettoso rallentava il passaggio di un segnale, dando origine ad un errore di misura. In altre parole, diventa molto plausibile che non sia vero niente: come fosse uno spinotto male infilato. Tanto rumore per nulla …
C´è un aspetto positivo di questa buffa storia: sottolinea l´antidogmatismo della scienza. L´attenzione prestata a OPERA testimonia la cifra caratteristica del pensiero scientifico: l´apertura a cambiare idea. Neutrini più veloci della luce non sono plausibili, ma nessuno, né OPERA né la comunità scientifica, si è permesso di respingerne con sufficienza la possibilità, con l´arroganza di «sapere già tutto». Questa apertura è la scienza al suo meglio.
Una verità può averla enunciata Einstein, può essere stata verificata migliaia di volte, ma la scienza prende in considerazione la possibilità che possa essere lo stesso da rivedere. Idee nuove, misure nuove, conclusioni nuove, vengono prese sul serio anche se cozzano contro tutto quello che sappiamo. La forza della scienza è proprio questo non sedersi su certezze acquisite: non avere dogmi. Questo antidogmatismo viscerale è la ragione per il suo grande successo storico: essere pronti a cambiare idea è l´atteggiamento che ci ha permesso di non restare impigliati nelle nostre illusioni e comprendere meglio il mondo.
Per questo il comportamento degli sperimentatori del Gran Sasso non deve essere stigmatizzato. E´ stato sobrio e coraggioso. Certo, se avessero controllato meglio i cavi sarebbe stato meglio, e non vorrei essere nei loro panni oggi, quando tutti si gettano su chi ha rischiato. Ma la sofferta decisione di rendere pubblica l´anomalia non è stata insensata. In scienza si deve fare così. Più imbarazzati, secondo me, dovrebbe essere altri.
Primo, chi si è affrettato a telefonare all´amico giornalista per annunciare la grande rivoluzione. Secondo, i troppi fisici teorici che si sono tuffati a scrivere articoli per «spiegare» la misura.
Non hanno mostrato lungimiranza. La scienza deve essere aperta alle rivoluzioni, ma neanche prendere per oro colato ogni annuncio di anomalie. Va di moda cercare rivoluzioni a tutti i costi, e ci dimentichiamo il più delle volte che quello che abbiamo imparato fin qui è vero, e non ha bisogno di essere cambiato.
E, mi sembra, ci sia una lezione da trarre, da parte dei media. E´ molto bene che stampa e televisione si occupino di scienza. E´ bello che questo piccolo dramma che ha agitato una comunità scientifica sia stato vissuto un po´ anche dal pubblico.
Ma l´incertezza e le mezze tinte sono difficili da digerire per la comunicazione giornalistica. Spesso sono addirittura solo i titoli a gridare cose che non sono neppure negli articoli o nei servizi. Queste esagerazioni, comuni, ahimè, soprattutto in Italia, non rendono servizio al lettore.
Io pregherei chi si occupa di queste cose di rispettare i lettori e non cancellare i «forse». Ne va della credibilità dell´informazione. E della credibilità della scienza, bene prezioso e sotto attacco, la cui perdita farebbe molto male all´intera società.

Repubblica 11.4.12
Se Debussy ci svela quello che unisce pittura e musica
A Parigi una mostra con documenti e dipinti celebra l’immaginario del compositore
di Benedetta Craveri


«Voglio vedere del Manet! e sentire dell´Offenbach», gemeva Claude Debussy da Roma dove era giunto nel 1886 come borsista dell´Accademia di Francia. Il musicista allora ventiquattrenne aveva trovato il soggiorno a Villa Medici estremamente deprimente e non vedeva l´ora di tornare a Parigi. Per potere realizzare la sua vocazione non cercava ispirazione nelle bellezze del passato, aveva bisogno di vivere nel presente e confrontare le proprie idee con quelle degli artisti a lui contemporanei. Di qui l´impazienza di ritrovarsi quanto prima nella città di Baudelaire, Verlaine, Mallarmé, dove l´Impressionismo stava cedendo il passo al Simbolismo e giapponesismo e Art Nouveau rinnovavano il gusto dell´arredamento con stampe, vetri, mobili raffinati e inusuali. Nei suoi scritti critici Debussy ritornerà incessantemente sul nesso fra suono e immagine e sull´interdipendenza delle arti, orientando spesso, come osserva Jean-Michel Nectoux, "l´immaginazione auditiva e visiva dei suoi ascoltatori con i titoli delle sue composizioni: Jardins sous la pluie, Reflets dans l´eau, Voiles, Poissons d´or, La Mer …».
E la bella mostra parigina che l´Orangerie (fino all´11 giugno, catalogo Skira/Flammarion) consacra al grande compositore per i 150 anni della sua nascita, annuncia fin dal titolo – Debussy. La musique et les arts – l´ambizione «di mettere in prospettiva gli sviluppi tematici della sua musica con l´immaginario che ne è all´origine». È una ambizione che, sotto l´egida di Guy Corgeval, presidente dei musei d´Orsay e dell´Orangerie, i curatori dell´esposizione hanno realizzato in modo esemplare, ricostruendo l´itinerario biografico e artistico di Debussy alla luce delle molte suggestioni intellettuali ed estetiche da lui incontrate lungo il suo percorso. Il musicista stesso – scrive infatti Gérard Pesson – non concepisce forse la sua arte come una forma di trasmutazione, di "transcodificazione" delle sue percezioni sonore o visive?
Il primo grande quadro in cui ci imbattiamo nella mostra è quello di The Blessed Damozel (La fanciulla eletta), che Dante Gabriele Rossetti aveva dipinto nel 1877-78 a illustrazione di un poema dallo stesso titolo. Manifesto dell´estetica preraffaellita, doveva ispirare a Debussy, al ritorno da Villa Medici, La Daimoiselle élue, «la prima composizione che rivela il suo vero temperamento e annuncia l´originalità della sua opera». Se l´onirismo di Rossetti è destinato a lasciare in lui una traccia duratura, i critici sottolineano tuttavia, fin dai suoi esordi, le analogie tra la sua musica e la pittura impressionista. Debussy stesso evoca la profondità e la varietà delle sensazioni che suscitano in lui «il rumore del mare, la curva dell´orizzonte, il rumore nelle foglie, il grido di un uccello» e le marine di Degas, di Turner, di Manet, come le ninfee di Monet esposte nella mostra sembrano fargli eco. Ma il musicista rifugge dalle etichette, frequenta gli artisti simbolisti che fanno capo alla Librairie de l´Art indépendant di Edmond Bailly e si schiera decisamente "dal lato dell´ombra". Determinante è l´incontro con Maeterlinck. Quando nel 1893, in compagnia di Stéphane Mallarmé, egli assiste alle prima e unica rappresentazione teatrale parigina di Peléas et Mélisande ne rimane letteralmente folgorato. Facendo sua questa crudele storia d´amore il compositore crea infatti, nel 1902, il suo capolavoro. La ricca scelta di bozzetti di scene e costumi dei diversi allestimenti dell´opera che si sono succeduti nel tempo hanno anche il compito di ricordarci quanto problematica ne sia l´interpretazione.
Curioso, sperimentale, aperto al nuovo, Debussy è sempre pronto a rimettersi in gioco: nel 1911 scrive le musiche per il Martirio di San Sebastiano di D´Annunzio, andato in scena a Parigi, e l´anno successivo collabora a un altro spettacolo scandaloso, il Prélude à l´Après-midi d´un faune, il leggendario balletto ispirato a Mallarmé. Una serie di straordinarie fotografie ci restituiscono alcuni momenti salienti di questa prima coreografia di Nijiginski, improntata, su consiglio di Léon Bakst, alla gestualità ieratica delle figure dei vasi greci. Il ballerino, che si esibiva in scena indossando soltanto – novità assoluta – una calzamaglia a macchie di leopardo, concludeva il balletto stendendosi sul velo della sacerdotessa delle ninfe e mimando il sussulto finale di un orgasmo. L´itinerario dell´esposizione mostra bene come fino alla morte, sopraggiunta nel 1918, il grande musicista abbia perseguito il "suo sogno musicale" senza mai distogliere lo sguardo dalle rivoluzioni artistiche della sua epoca, coniugando liberamente modernità e mistero.

l’Unità Lettere 11.4.12
Sarebbe stato interessante
di Paolo Izzo


Mentre l'Italia buona e cattolica macellava un milione di agnelli per festeggiare la resurrezione di Cristo e una fila indiana di Radicali si snodava lungo le pareti del carcere di Regina Coeli per raggiungere piazza san Pietro in tempo per manifestare, ancora una volta, per i diritti di carcerati e “carcerieri”. “Sarebbe stato” almeno bizzarro vedere il Papa affacciato al suo balcone e là sotto, mischiati alla sterminata folla di fedeli, quei pochi eretici che invocano diritti civili per tutti, portando in spalla la croce di altri poveri Cristi che nessuno vuole addossarsi. “Sarebbe stato”, appunto. Perché l'arrivo dei Radicali in piazza san Pietro è stato impedito, vietato. E non come si potrebbe pensare dallo Stato vaticano, bensì dallo stesso Stato italiano in una, non altrimenti spiegabile, genuflessione preventiva.