venerdì 13 aprile 2012

l’Unità 13.4.12
Pensioni, una piazza unitaria


Il dramma degli esodati e delle ricongiunzioni onerose per le pensioni è così forte da ricomporre qualsiasi distinguo sindacale. Oggi dalle 9,30 a piazza della Repubblica parte il corteo che si chiuderà a piazza Santi Apostoli. La prima grande manifestazione unitaria da anni. Cgil, Cisl e Uil, più l’Ugl con i loro leader, sullo stesso palco. Per chiedere conto al governo dei ritardi e dello scandalo. Si legge nel volantino unitario: «Basta promesse! Insieme per ottenere soluzioni immediate per chi è rimasto senza lavoro, senza reddito, senza pensione e per cancella-
re l’ingiustizia delle ricongiunzioni onerose. Il percorso del corteo passa da via delle Terme di Diocleziano, via Amendola, via Cavour, largo Corrado Ricci, via dei Fori Imperiali, piazza Venezia, via Battisti.
Alla manifestazione ieri hanno aderito anche le Acli. Le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani saranno presenti in piazza della Repubblica a Roma, con una delegazione guidata dal presidente Andrea Olivero. Le Acli informa una nota imputano al governo una «sottovalutazione del problema» e suggeriscono l’adozione di «soluzioni diversificate».

l’Unità 13.4.12
Finanziamenti pubblici
L’articolo 49 della Costituzione
I controlli di bilancio sono la prima tappa. Bisogna rendere effettiva la democrazia interna
di Vincenzo Cerulli Irelli


Le notizie che provengono in questi giorni da fatti di malfunzionamento della finanza dei partiti, sprechi, assenza di controlli, spesso distorsioni delle spese da quelle attinenti l’attività politica, hanno messo in allarme l’opinione pubblica e rendono necessario da parte delle forze politiche un rapido e incisivo intervento di riforma.
Si deve aver chiaro che la legge attualmente vigente, adottata nel 1999 e modificata nel 2006, è diretta a disciplinare il rimborso delle spese per consultazioni elettorali e referendarie, non a finanziare i partiti politici nel loro funzionamento. La precedente legge di finanziamento dei partiti (n. 195/74) fu abrogata, come è noto, dal referendum del 1993.
Il legislatore trovò attraverso il rimborso per le spese elettorali un modo per arrivare a un risultato simile a quello cui direttamente non si poteva più arrivare, cioè appunto il finanziamento dei partiti. A questo fine il meccanismo di rimborso delle spese elettorali è stato tenuto negli anni a livelli assai più alti di quelli che il suo oggetto, cioè le spese elettorali effettivamente sostenute, richiederebbe. L’ancoraggio del rimborso, nell’ultima versione, alla moltiplicazione di un euro per il numero dei cittadini iscritti nelle liste per le elezioni della Camera, da corrispondersi in rate annuali, ha prodotto negli anni un surplus di risorse finanziarie nelle mani dei partiti. Il dato emerso dall’ultima relazione della Corte dei conti, che i giornali hanno ampiamente diffuso, che in termini globali evidenzia un divario tra le spese effettivamente sostenute (circa 500 milioni di euro dal 1994 al 2008) e i contributi statali erogati (oltre 2 milioni e 200 mila euro), ha impressionato l’opinione pubblica. Ciò al di là del fatto che queste somme siano state spese correttamente, cioè per il funzionamento dell’attività politica come probabilmente è avvenuto nella gran parte dei casi, ovvero per scopi personali, addirittura per appropriazioni a carattere delittuoso, come è avvenuto in determinati casi.
È emerso anche il fatto, in gran parte non conosciuto dalla opinione pubblica, che la spendita dei finanziamenti erogati dallo Stato a titolo di rimborso per le spese elettorali ma in verità per il finanziamento dei partiti, avviene sostanzialmente in assenza di controlli, se non il controllo generico sui rendiconti, dietro ai quali tuttavia si celano molteplici atti di spesa non soggetti a controllo. E sul punto emerge prepotente il rilievo, che ha anche un evidente valore giuridico e costituzionale, che queste somme erogate ai partiti sono denaro pubblico, così come tutte le altre somme destinate al funzionamento della pubblica amministrazione. E il denaro pubblico, come patrimonio della collettività, non può essere per principio sperperato; e al controllo che questo sperpero non avvenga presiedono apposite istituzioni, come la Ragioneria dello Stato o la Corte di conti, che viceversa in questa materia sono assenti.
Però, dietro questi fatti e l’esigenza che indubbiamente essi suscitano di una rapida riforma, si nasconde un tema assai serio, la cui serietà rischia di venire stravolta dalle polemiche e dagli scandali. I partiti politici, anche sulla base della Costituzione, sono istituzioni alle quali tutti i cittadini hanno diritto di partecipare, che svolgono la funzione pubblica fondamentale di elaborare gli indirizzi dell’azione di governo, di partecipare attraverso le competizioni elettorali all’individuazione dei titolari delle cariche di governo; di determinare la politica nazionale, afferma incisivamente l’articolo 49. Sarebbe affermazione troppo ovvia, che senza partiti politici, plurimi e in lotta tra loro per la conquista del potere e per l’affermazione dei rispettivi programmi di governo, la democrazia non esisterebbe. E perciò ritenere che alla vita dei partiti, al loro corretto funzionamento, al fine di assicurarne gli obiettivi nell’interesse generale della società, la finanza pubblica non debba contribuire, è cosa non facilmente accettabile.
Lo Stato finanzia molteplici istituzioni, pubbliche e anche private, nell’economia, nel sociale, nella cultura, nello sport. Non si vede perché lo Stato non possa finanziare i partiti che ne costituiscono l’ossatura fondamentale. Ma a tal fine occorre che la legge dello Stato a sua volta garantisca l’assetto organizzativo dei partiti secondo i chiari principi posti dalla Costituzione. Una volta che la norma costituzionale venisse attuata, sarebbe del tutto agevole reintrodurre in forme corrette e ovviamente in termini contenuti, un finanziamento ai partiti chiaro e trasparente per il loro funzionamento, del quale ovviamente i partiti stessi sarebbero chiamati a rendere conto.
Mentre tutt’altra cosa è il rimborso delle spese elettorali, che in quanto tale non può che essere rapportato a fatti concreti e documentati, cioè alle spese effettivamente sostenute dai partiti (a parte quelle che i singoli candidati o i partiti stessi si procurino da fonti private) nelle singole consultazioni elettorali.
A fronte di questo quadro, occorre procedere per successivi passaggi. Il primo è quello che pare sia stato avviato nel vertice di ieri tra i partiti della maggioranza che sostiene il governo; cioè, nella sostanza, introdurre con efficacia immediata un sistema di controlli credibile circa tutti gli andamenti della spesa interna dei partiti, disciplinare le regole per il finanziamento da fonti esterne, e così via. Ma il secondo passaggio è quello più delicato perché riguarda la legge sui partiti, attuativa della Costituzione, quella che ne garantisca l’organizzazione interna e il funzionamento secondo regole democratiche e trasparenti, che potrebbe consentire la reintroduzione di forme palesi di finanziamento, senza incontrare le difficoltà poste dal vecchio referendum. Il terzo passaggio è quello della nuova disciplina dei rimborsi che non potrebbe che rispondere al criterio ovvio della corrispondenza tra spese effettuate e contributi erogati.
Io non credo nella propaganda circa la non fiducia dei cittadini nei partiti (o come anche si dice, nella politica). I cittadini sono arrabbiati proprio perché hanno bisogno dei partiti e ne vorrebbero di migliori al fine di partecipare alle scelte della politica nazionale. Ma occorre che i partiti facciano chiarezza su sé medesimi e assicurino che le loro scelte interne, particolarmente quelle che toccano la tasca dei cittadini, siano pubbliche e trasparenti.

il Fatto 13.4.12
Il pasticciaccio di ABC per tenersi i finanziamenti
Inammissibile l’emendamento, arriva un ddl: ma di tagli neanche l’ombra
di Wanda Marra


L’emendamento sulla trasparenza dei partiti che doveva inserire l’accordo raggiunto da Alfano, Bersani e Casini nel decreto fiscale? Dichiarato inammissibile. Il disegno di legge presentato subito dopo dai medesimi 3 e per la quale si richiede l’approvazione lampo in sede legislativa in Commissione Affari costituzionali, senza il passaggio in Aula? Appesa al filo di una maggioranza schiacciante, che appare quanto meno improbabile. E soprattutto, il rinvio dell’ultima rata dei rimborsi elettorali ai partiti, quei 100 milioni in arrivo il 31 luglio? Una promessa orale, di cui non si trova una traccia scritta.
NON È durato nemmeno 24 ore l’accordo trovato nel vertice dell’altro ieri tra i segretari dei tre partiti di maggioranza. L’emendamento a firma di Gianfranco Conte (Pdl) presentato nella Commissione Finanze di Montecitorio sulla cui ammissibilità persino lo stesso relatore aveva immediatamente espresso seri dubbi, viene dichiarato inammissibile dalla presidenza della Camera. Perché “estraneo” al decreto fiscale. Ammetterlo sarebbe stato una forzatura, che Gianfranco Fini non si è sentito di fare visto che Idv e Lega avevano espresso parere contrario. E avrebbe pesato la contrarietà del Quirinale, riespressa ieri, a trasformare i decreti in “leggi omnibus” Ma non era una questione prevedibile? “Si è fatto un ennesimo gran pasticcio”, ammette il centrista Roberto Rao, vero braccio destro di Casini a Montecitorio. Un’ennesima impasse. A un certo punto della giornata Pier Luigi Bersani ieri aveva cominciato a dichiarare che si farà “un decreto ” in materia. Non sarebbe stato male, evidentemente, dare la patata bollente nelle mani del governo. Quello che invece viene presentato, di nuovo dai tre partiti della maggioranza, è una proposta di legge che ricalca l’emendamento. E dunque affronta solo la questione trasparenza. Prevedendo tra l’altro che i partiti si affidino a società di revisione esterne per la valutazione dei bilanci; che venga istituita una Commissione composta dal presidente della Corte dei Conti, dal presidente del Consiglio di Stato e dal primo presidente di Corte di Cassazione per vigilare su eventuali irregolarità (ma se queste emergeranno starà ai Presidenti di Camera e Senato applicare le sanzioni) ; che i i partiti debbano rendere pubbliche le donazioni da parte di privati superiori a 5000 euro. Per il pdl si richiede l’approvazione “in legislativa” in Commissione Affari costituzionali. Un iter lampo, sulla carta. Un percorso più che a ostacoli nella realtà. Per dare il via in legislativa a una legge, infatti, serve o l’approvazione all’unanimità da parte dei capigruppo, o quella dei quattro quinti dei suoi componenti. La prima non c’è, visto che l’Idv ha già dichiarato che si tratta di “una riformicchia” e che la Lega nicchia. Anche perché a dover essere esaminati saranno anche i bilanci del 2011. Per il Carroccio le irregolarità evidentemente sono più di un rischio. E dunque, le sanzioni pure. A bloccare la norma, poi, bastano 9 deputati della Commissione: Idv e Lega ne contano 7, 8 col Radicale Maurizio Turco (il quale ha già dichiarato “voterò contro”). Ne basta solo un altro. E ieri, per esempio, il democratico Salvatore Vassallo ha criticato nel merito il fatto che venga prevista una “simil - Autorità” presieduta da tre personalità “che non avranno tempo per svolgere anche quel compito". Rao assicura che a questo punto, venuto meno l’”alibi” di inserire la norma nel decreto fiscale, si parlerà anche di tagli ai rimborsi e si correggeranno le norme non troppo convincenti. Ma siamo sempre al tempo futuro. Al tempo presente, di rinuncia a un euro neanche si parla. E nero su bianco non è scritto da nessuna parte quello che ABC avevano assicurato l’altroieri: ovvero che ci sarebbe stato il “rinvio” dell’ultima tranche del rimborso elettorale.
DI PIETRO torna a chiedere che l'ultima rata dei rimborsi 2008 sia restituita al governo e denuncia: “La proposta di questa pseudomaggioranza va in tutt'altra direzione”. E la Bindi dice che il re è nudo: “Senza l’ultima rata, a rischio campagna elettorale”.

Corriere della Sera 13.4.12
Draghi avverte: la disoccupazione salirà
Allarme Bce: la crescita delude, segnali negativi già nel primo trimestre
di Marika de Feo


FRANCOFORTE — La Banca centrale europea ha lanciato ieri un allarme per «l'ulteriore peggioramento» a breve, nel mercato del lavoro europeo, anche in vista di timori per le prospettive congiunturali della crescita «moderata» attesa per quest'anno.
Mentre sulla «graduale ripresa dell'economia dell'area euro» prevista dalla Bce per quest'anno, gravano «rischi al ribasso», riconducibili alle rinnovate tensioni per la crisi del debito europeo, al processo di risanamento dei bilanci, all'elevata disoccupazione, ma anche agli incrementi delle materie prime, l'inflazione rimarrà sopra il 2% nel 2012, per calare sotto il 2% nel 2013.
Nel nuovo bollettino di aprile, i banchieri centrali di Francoforte sembrano avere un tono leggermente più pessimista di quello usato dal presidente della Bce Mario Draghi all'inizio di aprile, soprattutto riguardo alle «condizioni nei mercati del lavoro», le quali «continuano a peggiorare». E hanno toccato un nuovo massimo a febbraio, con un tasso di disoccupazione medio pari al 10,8%, che è «andato aumentando fin dall'aprile del 2011», e risulta superiore dello 0,6%, rispetto al massimo raggiunto nel maggio del 2010. Recenti indagini segnalano, secondo la Bce, «una probabile ulteriore contrazione dell'occupazione nel primo trimestre del 2012». Uno sviluppo negativo, dopo un calo dell'occupazione dello 0,2% nel quarto trimestre del 2011, rispetto ai tre mesi precedenti. In franata anche gli indicatori della produttività del lavoro, dall'1,1% del terzo trimestre allo 0,9 nel quarto trimestre del 2011.
In conclusione le economie europee, ad eccezione della Germania, non sono sostenute dal consumo. E per questo, in un capitolo dell'ultimo bollettino mensile dedicato all'analisi della disoccupazione, i banchieri centrali di Francoforte concludono esortando i governi «che hanno subito perdite di competitività» — un'allusione all'Italia, pur senza nominarla — ad attuare riforme strutturali, volte a rafforzare le capacità di crescita dell'economia. La Bce aggiunge che occorre «assicurare un aggiustamento salariale sufficiente e promuovere la crescita della produttività».
Ieri le Borse hanno premiato il migliore andamento dell'economia americana, e gli spread fra i Btp e i Bund erano in calo, ma nei giorni scorsi erano emersi nuovi timori per la crisi del debito. Al punto che il membro francese del board della Bce Benoît Coeuré ha ventilato la possibilità di un ritorno agli acquisti di bond sovrani (avversati dalla Bundesbank) per allentare le tensioni. Nel frattempo, il bollettino torna a esortare i governi europei a «dar prova della massima responsabilità» e a «ripristinare posizioni di bilancio solide», rispettando il fiscal compact e il Patto di stabilità, per «promuovere la fiducia, la crescita sostenibile e l'occupazione».
Provvedimenti necessari, anche perché i Paesi con una quota rilevante di debito in scadenza nel breve termine, come l'Italia, la Francia e la Spagna e i rimanenti Paesi del Sud Europa, pari o superiore al 20% del Pil, sono particolarmente vulnerabili, per la liquidità a breve termine, a improvvise variazioni dei tassi di interesse e del clima di mercato. Come fatto positivo, nel frattempo, grazie ai maxi-prestiti da 1.000 miliardi della Bce, il bollettino conferma che sono migliorate le condizioni di finanziamento per le banche, scongiurando così una correzione brusca e disordinata dei bilanci.

Corriere della Sera 13.4.12
Pesano i veti della politica
Corruzione, nuovi reati ma a rischio prescrizione
di Giovanni Bianconi


Le proposte di riforma elaborate dal ministro della Giustizia Paola Severino in materia di contrasto alla corruzione sembrano un catalogo di buone intenzioni. I temi sui quali intervenire ci sono più o meno tutti: dalla riscrittura della concussione all'introduzione di nuovi reati come il traffico d'influenze illecite o la corruzione tra privati, passando per un aumento delle pene che dovrebbe tornare utile ad un allungamento della prescrizione.
Nel merito però, la bozza predisposta dal Guardasigilli per dare un senso alla repressione del malaffare economico mostra delle debolezze che sarebbe meglio correggere prima che sia trasformata in legge. Non sarà facile, visto il clima politico che s'è creato intorno all'argomento, ma provarci è indispensabile.
Il nodo principale resta quello della prescrizione nei processi per corruzione, più volte segnalato dagli organismi europei. Attualmente è di sette anni e mezzo, un periodo troppo breve per procedimenti complessi che molto spesso vengono avviati a diversi anni di distanza dai fatti, quando il conto alla rovescia dei tempi della giustizia è già un bel pezzo avanti. Con l'aumento del massimo della pena previsto dalla bozza Severino, portato da cinque a sette anni, il termine della prescrizione si sposta in avanti di un anno e poco più, arrivando a 8 anni e nove mesi. Troppo poco, sostengono gli addetti ai lavori che hanno a che fare con questo genere di processi.
La realtà è che per incidere davvero sulla prescrizione bisognerebbe intervenire sui meccanismi con cui se ne calcolano le scadenze, e non attraverso la scorciatoia dell'aumento della pena massima, che comunque non potrà mai arrivare oltre certi limiti. Quello è un escamotage col quale non si può pensare di raggiungere i risultati che servirebbero per non rendere inutili i giudizi sulla corruzione. Sarebbe necessario superare i veti che su questo punto arrivano soprattutto dal centrodestra, ma è probabile che si riveleranno insormontabili, depotenziando alla radice i tentativi di soluzione del problema.
Dal reato di concussione viene eliminata l'ipotesi dell'induzione, che è attualmente presente nel codice penale ed è stata contestata a Silvio Berlusconi nel processo milanese sul «caso Ruby»; al suo posto viene introdotta una nuova fattispecie, l'«indebita induzione a dare o promettere utilità», con pena massima (e conseguente prescrizione) un po' più bassa. Difficilmente, però, l'ex presidente del Consiglio può pensare di beneficiarne evitando di arrivare alla sentenza.
I nuovi reati per colpire i mediatori degli affari illeciti e la cosiddetta «corruzione privata» sono significativi, sebbene prevedano pene poco più che simboliche, e l'insieme della bozza dà l'idea della ricerca del compromesso tra le posizioni del centrodestra e del centrosinistra. È una necessità, e nei testi prodotti finora se ne sente il peso. Il tentativo auspicabile, di qui alla formalizzazione delle modifiche da proporre e poi in Parlamento durante l'iter di approvazione, sarebbe evitare che il compromesso partorisca una riforma solo di facciata, che non incida sulla possibilità di reprimere in maniera adeguata un fenomeno da tutti considerato al pari di una piaga nazionale.
Anche la nuove norme pensate dal ministro sulla responsabilità civile dei magistrati paiono frutto di un compromesso. Ma in quel caso l'esclusione dell'azione diretta contro i giudici da parte dei cittadini che si lamentano delle loro decisioni (introdotta dal famoso emendamento leghista approvato dalla Camera qualche mese fa), sembra un obiettivo raggiunto. E le contropartite concesse al centrodestra potrebbero risultare accettabili dagli stessi magistrati e dalle forze politiche che più ne sostengono le ragioni.
Sarebbe un passo avanti significativo se su questi temi che riguardano la materia incandescente della giustizia — foriera di divisioni e scontri dall'inizio della legislatura — non si riaccendessero le contrapposizioni del passato, e se i veti incrociati non bloccassero l'opportunità di intervenire per arrivare a soluzioni efficaci. Forse è un'illusione, anche perché c'è in agguato il terzo capitolo dell'ipotetico «pacchetto», quello delle intercettazioni, sul quale l'accordo non pare semplice; e qualora ci si arrivasse bisognerebbe sorvegliare che a rimetterci non fosse la libertà d'informazione e il diritto a essere informati. Tuttavia, a vent'anni da Mani Pulite, sarebbe importante non perdere l'occasione offerta dalla buona volontà mostrata dal ministro della Giustizia.

l’Unità 13.4.12
Carceri e Cie: «Così l’Italia non rispetta i diritti umani»
Nelle carceri e nei centri di identificazione dei migranti non si rispettano i diritti umani. L’Italia viola la legge. Lo denuncia il senatore Marcenaro che ha presentato il Rapporto sullo stato dei diritti umani nelle carceri e nei Cie
di Roberto Monteforte


Un Paese fuorilegge. Che non rispetta la legalità e che «viola i diritti umani». Lo denuncia il presidente della Commissione parlamentare per la tutela e la promozione dei diritti umani senatore Pietro Marcenaro che ieri, con il coordinatore dei Garanti dei diritti dei detenuti, senatore Salvo Fleres (Pdl), ha presentato il «Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia».
È drammatica la situazione fotografata dallo studio. «Nel 2011 su un totale di 186 persone decedute nei penitenziari italiani 63 sono stati suicidi. Un numero elevato dovuto anche al fatto che l'Italia è agli ulti-
mi posti in Europa nel rapporto fra detenuti e posti in carcere. A fine febbraio, su una capienza complessiva di 45.742 posti, nelle carceri italiane i detenuti erano 66.632, di cui solo 38.195 con condanna definitiva». Questo «sovraffollamento» per Marcenaro è la conseguenza «di una visione della pena, che ha dimenticato la priorità di recuperare le persone, di offrire alle persone una nuova possibilità, una visione nella quale la parola “pena” è ormai identificata con la parola “carcere”». Occorre, invece, pensare a forme alternative alla reclusione. Quello che è certo per il presidente la commissione è che «ogni violazione dei diritti umani non è solo un fatto eticamente riprovevole, ma una vera e propria violazione della legalità». Una «illegalità» denunciata a chiare lettere dal «Rapporto» che è stato approvato all’unanimità dai senatori della commissione.
L’altra emergenza eclatante è quella rappresentata dai migranti rinchiusi per 18 mesi, praticamente senza diritti, nei Cie dove osserva Marcenaro «le persone vengono private delle libertà personali, dove ragazzini spauriti vivono fianco a fianco con delinquenti incalliti, dove i migranti vengono tenuti in gabbie come animali, dove il tempo di totale inattività viene riempito solo dalla totale insicurezza». «Non è con i Cie conclude che si risolve il problema dell’immigrazione».
Nel corso dell’incontro tenutosi alla Fnsi è emersa un’altra emergenza. Mentre il presidente della Fnsi, Roberto Natale sottolineava positivamente la riapertura dei Cie alla stampa, si è riscontrato come nei fatti, questo accesso sia negato. Quasi tutti i «centri» sarebbero «in ristrutturazione» e quindi chiusi ai giornalisti. Marcenaro ha annunciato un’interrogazione al ministro degli Interni.

Corriere della Sera 13.4.12
Monasterace. Il sindaco resiste alla 'ndrangheta «Non mi dimetto»
«Ma ho paura». L'appoggio di Bersani
di Fabrizio Caccia


MONASTERACE (Reggio Calabria) — Sono tutti lì ad applaudirla, in sala consiliare, le due del pomeriggio di ieri: lei ha appena ritirato le dimissioni da sindaco. Maria Carmela Lanzetta, dopo due settimane di puro travaglio, ha così scelto di restare in trincea, a Monasterace, terra di 'ndrangheta, cosche pericolose, i Ruga, i Metastasio e i Gallace di Guardavalle. L'ha appena detto al segretario Pierluigi Bersani, il leader del Pd, arrivato apposta in Calabria per farle sentire il suo appoggio pieno e incondizionato. Si congratula da Roma pure il ministro dell'Interno, Annamaria Cancellieri: lo Stato c'è, lo Stato non si piega. La storia sembra avere un lieto fine. Sembra...
Perché poi basta avvicinarsi alla signora, che adesso vive con tre carabinieri di scorta 24 ore su 24 — dopo che le hanno incendiato la farmacia di famiglia e sparato tre pallettoni sulla Panda parcheggiata sotto casa — ed in quel momento t'accorgi del terrore che conserva negli occhi. Le chiedi: allora, sindaco, a quando il prossimo consiglio comunale? E lei: «Tra 5 giorni, parleremo di urbanistica». Poi fa una pausa. Lunga. Che chiude con un sospiro raggelante: «Speriamo di arrivarci, al prossimo consiglio». Maria Carmela in fondo non chiede la luna: pretende solo che in paese tutti paghino le bollette dell'acqua o che le operaie del polo florovivaistico vengano retribuite in modo regolare. E invece qui c'è chi neppure le bollette dell'acqua vuole pagare. Chi pensava che gli fosse sempre tutto dovuto. E allora adesso s'innervosisce e spara. La prima cosa che Maria Carmela Lanzetta ha fatto, ieri pomeriggio, salutato Bersani ripartito per Roma, è stato salire su fino a Mammola, al santuario di San Nicodemo, per chiedergli la grazia di proteggere la sua famiglia — marito e figli — e darle la forza di continuare. Una preghiera contro la 'ndrangheta.
In sala, comunque, c'è una bell'atmosfera: Bersani con gli occhi lucidi davanti a tanti uomini e donne coraggiose del centrosinistra, amministratori locali di Locri, Roccella, Ardore, Gerace, Caulonia, che sono venuti a fare il tifo per Maria Carmela. Le hanno anche regalato una maglietta con un proverbio: «Na nuci 'nto saccu non faci scrusciu». Una noce sola in un sacco non fa rumore. «Significa che da soli non si va da nessuna parte — chiosa la Lanzetta, commossa, a beneficio dei forestieri — E allora va bene, andiamo avanti insieme».
Applausi, evviva, ma il sindaco spiazza tutti di nuovo. «Ritiro le dimissioni», annuncia. E fa un'altra lunga pausa teatrale. Poi aggiunge: «Le ritiro ma con riserva. Vorrei che tra 3 mesi si facesse qui una verifica di quello che è stato detto e stato fatto. Non è un ricatto, ma una necessità per poter continuare a lavorare bene». Chiaro il messaggio: una volta spenti i riflettori — il municipio straborda di telecamere e giornalisti venuti da fuori — la mafia e la paura non dovranno riprendere il sopravvento.
Si ascoltano storie tragiche e bellissime. Quella di Carolina Girasole, sindaco di Isola Capo Rizzuto, a cui hanno incendiato il portone del municipio e al microfono ora grida «ma noi siamo mamme e non vogliamo fermarci». E quella di Maria Elisabetta Tripodi, sindaco di Rosarno, a cui un giorno appena insediata arrivò una lettera da un ergastolano del clan Pesce. La lettera era chiusa in un busta intestata del Comune. Come a dire: il sindaco qua sono io.
I sindaci della Locride hanno scritto a Napolitano, il 25 aprile listeranno a lutto il tricolore: «La Calabria ha bisogno di legalità e di lavoro - dice Bersani — La criminalità non deve vincere». Pasquale Miriello, ex assessore comunale all'Ambiente, socialista, applaude al discorso del segretario ma sembra molto scettico: «Voi cercate la 'ndrangheta qui. Attenti. Ormai siamo nel villaggio globale, non ha più molto senso distinguere tra Monasterace e il Cafè de Paris...».

Corriere della Sera 13.4.12
La lezione di chi sceglie i cittadini
di Goffredo Buccini


Si sa, talvolta la verità ha due facce. E sarà bene guardare molto da vicino la tormentata vicenda di Monasterace, il paesino calabrese dove il sindaco pd Maria Carmela Lanzetta aveva deciso di dare le dimissioni all'ennesima intimidazione della 'ndrangheta. Dopo anni di oblio, ieri politica e istituzioni hanno fatto sentire la loro presenza attorno alla mite farmacista che, solo giocando secondo le regole, ha rivoluzionato gli affari del paese a tal punto da attirarsi addosso due attentati mafiosi in nove mesi. La signora Lanzetta ha ricevuto la visita del segretario del suo partito, Pierluigi Bersani, ottenuto la solidarietà della Camusso (da Catanzaro) e l'attenzione della Commissione Antimafia; ha potuto dialogare col nuovo prefetto di Reggio Calabria, Vittorio Piscitelli, al quale ha annunciato il ritiro delle dimissioni, anche se con riserva: «Fra tre mesi dobbiamo fare una verifica, perché qui non si vive più», ha ammonito. Sano pragmatismo in una terra dove anche altri primi cittadini sono stati minacciati nell'indifferenza del resto d'Italia. «Mio figlio era molto contrario: "Mamma, non pensarci nemmeno a restare sindaco", m'ha detto. Io lo faccio per quelli che si sono mobilitati», ci ha spiegato Maria Carmela in una giornata piena di abbracci e riconoscimenti. Attendiamo, e presto, una risposta dello Stato non solo formale. Intanto, va dato a Bersani il merito di metterci la faccia, ripartendo da una sfida difficilissima in un momento di generale discredito dei partiti: «Non tutta la politica è sporca», ha detto il segretario del Pd. E ha ragione. Ma qui si svela l'altra mezza verità della storia: la politica, mobilitandosi, aiuta la Lanzetta, certo; ma la Lanzetta e i sindaci come lei — non importa di quale partito — aiutano e molto la politica, sgobbando sul territorio sotto gli occhi dei concittadini. Una nuova legittimazione può trovarsi solo fuori dai Palazzi e lontano dai privilegi, in mezzo al popolo italiano. La lezione di Monasterace serve davvero a tutti.

l’Unità 13.4.12
Nuova indagine su Vendola: «Favorì l’ospedale religioso»
di Ivan Cimarrusti


Una nuova inchiesta si abbatte sul presidente della giunta regionale pugliese Nichi Vendola. Questa volta il suo nome risulta nel registro degli indagati in concorso con gli ex assessori alla Salute Alberto Tedesco e Tommaso Fiore, accusati a vario titolo di falso, abuso d’ufficio e peculato.
L’indagine, dei sostituti procuratori Francesco Bretone, Marcello Quercia e Desirèe Digeronimo, riguarda la transazione da 45 milioni di euro che la Regione Puglia fece col nosocomio ecclesiastico Miulli di Acquaviva delle Fonti, in provincia di Bari, per il pagamento di differenze tariffarie dovute per le prestazioni. Un’operazione avviata da Tedesco nel 2008 per evitare il pagamento di 150 milioni di euro che erano stati chiesti dal Miulli, firmata poi dal successivo assessore Fiore l’11 marzo 2009 e infine revocata senza un plausibile motivo da Vendola il 5 luglio 2010. Tutta questa operazione è finita nel mirino degli investigatori che, indagando nel primo grande procedimento su Tedesco, divenuto intanto senatore del gruppo Misto, si sono imbattuti nelle operazioni finanziarie tra Regione e Miulli. La vicenda, però, non si conclude con la revoca di Vendola, ma va avanti, in quanto lo stesso nosocomio dopo aver presentato ricorso al Tribunale amministrativo regionale di Bari, ha ottenuto con sentenza la liquidazione di 175 milioni di euro. Secondo quanto avrebbero accertato gli investigatori dei carabinieri, il sospetto dietrofront della giunta regionale potrebbe essere stato calcolato, in quanto la stessa Regione era al corrente che la revoca avrebbe comunque portato il Tar a condannarlo.
Agli atti dell’indagine risultano carteggi regionali composti in due anni di attività della giunta, tra i quali ci sono la delibera con la transazione fatta in principio da Tedesco, il parere contrario dell’Agenzia regionale sanitaria (Ares) e dell’assessorato alla Salute, e il parere favorevole dell’avvocatura regionale, che ha permesso di superare i problemi. Nell’incartamento, inoltre, risulta esserci anche la delibera con la quale fu disposto l’annullamento della transazione e il provvedimento con il quale il Tar di Bari ha condannato la Regione a pagare al Miulli i 175 milioni, 45 dei quali (lo stesso valore della transazione iniziale) già pagati.
I FONDI PER L’EDILIZIA OSPEDALIERA
Secondo la ricostruzione dei fatti, l’ospedale ecclesiastico aveva lamentato indebitamenti per la realizzazione di nuove strutture, dovuti al fatto che la Regione ha aveva concesso i fondi per l’edilizia ospedaliera. Inoltre, il nosocomio aveva lamentato il mancato rimborso da parte della Regione di numerose prestazioni sanitarie, che invece erano state pagate ad altri ospedali. Fu Tedesco, così, ha cercare di trovare un accordo, riuscendo a stringere una transazione che non superasse i 45 milioni di euro spalmati in tre anni. Nel 2008, però, l’ex assessore fu iscritto nel registro degli indagati e diede le dimissioni. Così fu il successore Tommaso Fiore a portare in giunta la transazione e, successivamente, a revocarla su disposizione di altri uffici regionali.
Intanto la Procura di Bari ha notificato un nuovo avviso di conclusione delle indagini preliminari a Tedesco, stavolta sotto accusa nell’ambito di un’ampia inchiesta sugli accreditamenti delle cliniche private con la Regione Puglia. In sostanza, si tratta di permessi concessi per ricoverare, ricevendo in cambio rimborsi dalla Regione. In questo filone risultano indagati con Tedesco e Mario Morlacco, ex direttore dell’Ares, altre 45 persone tra le quali funzionari regionali e imprenditori della sanità. Nei loro confronti si ipotizzano i reati di corruzione, concussione, truffa, abuso d'ufficio, falso, peculato, estorsione e rivelazione del segreto d'ufficio. In serata il commento del governatore Vendola: «Qualche ora fa ho ricevuto la notifica di una richiesta di proroga di indagini da parte del Gip di Bari. Si tratta di un procedimento penale del quale non avevo mai avuto alcuna notizia. Ribadisco la mia totale assoluta estraneità a fatti che sono al di là di ogni mia immaginazione».

il Fatto 13.4.12
Malasanità. Indagato anche il vescovo di Altamura
Altra inchiesta su Vendola I pm: “Peculato, falso e abuso”
di Antonio Massari


Due avvisi di garanzia in due giorni: è la settimana più nera, per Vendola, governatore della Puglia, che ieri ha scoperto di essere indagato per abuso d’ufficio, falso e peculato, in un altro filone dell’inchiesta barese sulla Sanità.
Due avvisi di garanzia in due giorni: è la settimana più nera per Nichi Vendola, governatore della Puglia e leader di Sel, che ieri ha scoperto di essere indagato per abuso d'ufficio, falso e peculato, in un altro filone dell'inchiesta barese sulla Sanità. E tra gli indagati ci sono anche anche il vescovo della diocesi di Altamura, mons. Mario Paciello e don Mimmo Laddaga, direttore dell’ospedale ecclesiastico Miulli di Acquaviva. La Procura di Bari indaga su un maxi-risarcimento, pagato dalla Regione Puglia, all'ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti. Valore: 175 milioni di euro. In primo tempo, come vedremo, il Miulli - che si riteneva creditore per 145 milioni - aveva accettato una transazione per 45 milioni. La Regione revocò il provvedimento, il Miulli riattivò il contenzioso, e la Regione fu condannata a pagare ben 30 milioni in più, rispetto ai 145 richiesti inizialmente. A differenza di mercoledì, Vendola ieri non ha convocato una conferenza stampa per difendersi dalle accuse, anche perché non immaginava di ritirarsi indagato per ben due volte in meno di 48 ore. "Ribadisco la mia totale assoluta estraneità a fatti che sono al di là di ogni mia immaginazione”, ha commentato con un comunicato. Questa indagine rischia di essere ben più preoccupante della prima. Non soltanto sotto il profilo giudiziario, ma anche per le ripercussioni politiche, poiché Vendola è indagato in concorso sia con Alberto Tedesco, l'ex assessore regionale alla Sanità, sia con Tommaso Fiore, che quell'assessorato ha ereditato dopo i primi scandali.
E QUINDI anche Fiore, che Vendola aveva voluto al posto di Tedesco, proprio per le sue doti professionali e la trasparenza del suo operato, finisce impigliato nelle maglie dell'indagine. Parliamo dello stesso Fiore che, soltanto due mesi fa, s'è dimesso dall'assessorato più incriminato della giunta. Dall'ex assessore Tedesco, Fiore ereditò anche la transazione, già avviata, con l'ospedale Miulli. Era l'11 marzo 2009 quando Fiore firmò, per conto della Regione, la transazione da 45 milioni. L'ospedale ecclesiastic orivendicava undanno: per la realizzazione di un nuovo plesso ospedaliero, la Giunta non aveva offerto l'accesso ai fondi pubblici, spingendo il Miulli a indebitarsi. Per di più i rimborsi, ricevuti negli anni precedenti, secondo il Miulli erano inferiori a quelli concessi ad altri ospedali. Tedesco propose una transazione per 45 milioni, a fronte dei 145 richiesti, e nel 2009, con Fiore al suo posto, l'operazione andò in porto. Sedici mesi dopo, però, la Giunta cambia idea: il 5 luglio 2010, la delibera sulla transazione, viene annullata. Il Miulli riattiva il contenzioso e la pratica finisce nelle mani dei giudici amministrativi: nell'autunno dello stesso anno, il Tar, condanna la Regione Puglia a risarcire l'ospedale. Il danno, secondo il Tar, è addirittura superiore ai 145 milioni richiesti l'anno prima: viene quantificato in 175 milioni più 17 milioni di ulteriori danni. Ed è su questa operazione che indagano i pm Desirée Digeronimo e Francesco Bretone. Il dietrofront della Regione, che causò un esborso di oltre cento milioni in più, fu calcolato?
LA REGIONE sapeva che il Tar le avrebbe dato torto. Se così fosse, con i soldi pubblici, si sarebbe avvantaggiato l'ospedale ecclesiastico. Tra gli indagati, compare anche monsignor Mimmo Laddaga, il prete amministratore del Miulli. Vendola - anche in questo caso - respinge ogni addebito. Anzi, dopo aver ricevuto gli atti notificati, spiega di non aver neanche compreso la faccenda: “Dal tenore dell’atto non sono in grado di capire ciò che mi sarebbe addebitato. Non riesco a immaginare nulla che possa riguardarmi”. Tedesco invece, sentito dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulla Sanità, ha parlato di un decreto del 2009, firmato dalgoverno Prodi sugli "ausili protesici" e di una sorta di pressione - non andata in porto - su Vendola dalla presidenza Prodi. Il decreto prevedeva l'aumento del 9 per cento sulle tariffe delle protesi acquistate dalla Sanità pubblica. Tedesco non lo apllicò, perché non ancora in vigore ma aggiunge: “Dopo fui convocato da Vendola, mi disse che era stato chiamato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, e che gli era stato chiesto di applicare l'aumento. Vendola mi disse che gli avevano detto che c'era il rischio che il governo andasse sotto, se la Puglia non avesse approvato il decreto, e dubito che Vendola possa smentirlo. e non si può smentire che un senatore dell'Idv, Giuseppe Caforio, è imprenditore nel settore delle protesi. In quel periodo bastavano due soli voti per sfiduciare Prodi”. È la parola di Tedesco, che suona, più che un'allusione, come il preludio della roboante difesa che Tedesco condurrà nei prossimi mesi.

Corriere della Sera 13.4.12
«Vendola ha favorito la clinica della Chiesa»
Puglia, nuove accuse per un accordo mai chiuso
di V. Pic.


BARI — Amaro bis per Nichi Vendola. In due giorni si ritrova indagato due volte. Mercoledì aveva scoperto, dall'avviso di chiusura indagini, di essere accusato di abuso d'ufficio per aver favorito la nomina del primario di chirurgia toracica del San Paolo riaprendo i termini del concorso. Ieri apprende che la retromarcia su una transazione da 45 milioni di euro concordata per chiudere un contenzioso tra la regione Puglia e l'ospedale Miulli di Acquaviva, di proprietà della Chiesa, gli è costata altre tre imputazioni: peculato, falso e abuso d'ufficio. Il sospetto dei magistrati è che Vendola abbia favorito l'istituto attraverso una transazione al rialzo e una retromarcia su quella stima gonfiata che peggiorò le cose con una condanna del Tar ancora più favorevole all'ospedale ecclesiastico. «Me lo avessero detto avrei fatto un'unica conferenza stampa», ironizza il governatore. Stemperando la preoccupazione per quell'indagine sulla Sanità che si moltiplica in filoni e fascicoli diversi.
Tutto era iniziato con le indagini su Alberto Tedesco, ex assessore pd alla Sanità, ora senatore, per il quale è stato chiesto dai pm baresi due volte l'arresto, con l'accusa di essere stato a capo di un'associazione che pilotava nomine e appalti. C'è anche lui tra gli indagati di questa vicenda. Assieme al suo successore Tommaso Fiore e ai vertici del Miulli, il vescovo di Acquaviva Mario Paciello e don Mario Laddaga, responsabile della struttura. È la storia di un accordo mai chiuso. L'ospedale sosteneva di essersi indebitato per 76 milioni per costruire la nuova sede con fondi propri invece di quelli per l'edilizia sanitaria cui non aveva potuto accedere. Più di quanto avesse ottenuto dalla Regione come rimborso: 42,6 milioni di euro aveva scritto in un ricorso presentato al Tar.
La Regione cercò una transazione da 45 milioni di euro. Ma secondo la pm Desirèe Digeronimo e il procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno l'accordo fu raggiunto su presupposti falsi, come segnalato dall'Ares e dagli uffici Regionali, da lì l'accusa di concorso in falso ideologico per Vendola e l'assessore Fiore. In più c'è l'accusa di aver preso i soldi destinati a quell'accordo da un capitolo di bilancio diverso, che aggiunge l'imputazione di concorso in peculato e abuso d'ufficio, contestate anche a Alberto Tedesco, il vescovo Mario Paciello, Mimmo Laddaga, e il dirigente Rocco Palmisano. La stessa Regione fece poi una retromarcia per autotutelarsi. Ma sulla vicenda è già intervenuto il Tar che ha condannato la Regione. Un pasticcio di cui ora Vendola è chiamato a rendere conto. Anche se la questione ha aperto dubbi e divergenze anche tra gli inquirenti. Per questo c'è stata una richiesta di proroga delle indagini.
Il governatore però respinge ogni accusa. E ribadisce la sua estraneità. «Se per il professor Sardelli mi si addebita di aver fatto vincere il migliore — dice — qui per davvero non riesco ad immaginare nulla che possa riguardarmi». Ma riconferma la sua assoluta fiducia nella magistratura.
Intanto si chiude anche il filone sugli accreditamenti delle cliniche private che coinvolge Alberto Tedesco e altre 46 persone. Nell'indagine vengono contestati a vario titolo i reati di corruzione, concussione, truffa ed estorsione ma per il senatore l'accusa è di abuso d'ufficio, falso e truffa.

l’Unità 13.4.12
Svolta nel caso di Trayvon, il giovane afro-americano freddato in Florida per il colore della sua pelle
In cella George Zimmerman accusato di omicidio di II grado. Il processo riprenderà il 29 maggio
Vince l’America antirazzista: arrestato il vigilante-killer
di Martino Mazzonis


George Zimmerman, accusato dell’omicidio di Trayvon Martin, si è presentato in un ufficio di polizia dichiarandosi «non colpevole». La sua linea difensiva sarà la legittima difesa versione estesa voluta dalle lobby delle armi.

NEW YORK Da qualche giorno era chiaro: in un modo o nell’altro George Zimmerman sarebbe finito sotto processo. La sola ipotesi che l’uomo che ha ucciso il 17enne Trayvon Martin rimanesse a piede libero avrebbe alimentato rischi di rivolte. Le preghiere e i canti di gioia nelle chiese battiste della Florida sono un segnale di una tensione che si allenta.
Dopo essersi presentato spontaneamente in carcere, ieri Zimmerman è apparso per la prima volta in tribunale per dichiararsi «non colpevole». Un’udienza breve, per espletare le formalità: il processo riprenderà il 29 maggio e Zimmerman per ora rimarrà in carcere. L’accusa è di omicidio di secondo grado, il più grave che non implichi la premeditazione. «Non è una decisione che abbiamo preso a cuor leggero e non siamo stati influenzati dalla pressione del pubblico» ha dichiarato Angela Corey, procuratore incaricato delle indagini. Zimmerman aveva un nuovo avvocato: i precedenti si erano dimessi due giorni fa. Il legale del 28enne vigilante-volontario ha spiegato che spera che il suo assistito venga rilasciato su cauzione per poter preparare la difesa. O’Mara, così si chiama, ha spiegato che Zimmerman è stanco, stressato e impaurito e che, se il tribunale lo rilasciasse, avrebbe bisogno di una scorta o di essere autorizzato a lasciare la Florida. Qualche polemica ha suscitato il commento della madre di Trayvon, Sabrina Fulton. Ha detto di ritenere che la morte di suo figlio sia stata un incidente. Dopo che la notizia ha preso ad essere rilanciata la donna ha spiegato: «Il fatto che si siano incontrati per caso è stato un incidente, ma ritengo che mio figlio sia stato assassinato».
LEGITTIMA DIFESA E ARMI
La difesa di Zimmerman utilizzerà come argomento la legittima difesa, sostenendo che Trayvon abbia aggredito chi lo ha ucciso. O meglio, ad essere usata sarà la legge Stand your ground (più o meno «Non cedere terreno») che implica che in caso di pericolo sia lecito l’estremo uso della forza. Una versione molto ampia della legittima difesa. Diversi esperti legali ritengono sarà difficile dimostrare che il colpo di pistola di Zimmerman non fosse legittima difesa. Un paradosso dovuto ad una legge approvata nel 2005 e diventata un modello della lobby delle armi, la National Rifle Association (Nra). Da quando è stata approvata in Florida, sebbene i morti ammazzati siano in diminuzione da anni, è aumentato il numero di omicidi senza colpevole. Se un tempo la legislazione prevedeva la possibilità di sparare a qualcuno solo se era entrato in casa, la Nra ha fatto in modo che si estendesse la possibilità di difendere il «proprio castello» (un altro modo di riferirsi alla legge) anche negli spazi pubblici circostanti.
La Nra è riuscita a far approvare leggi simili in 24 Stati in combutta con l’Alec, un gruppo in cui industriali ed eletti conservatori lavorano per produrre legislazione da far approvare a livello statale e nazionale. Proprio il giorno della morte di Trayvon, la Nra postava sul suo sito una lettera da spedire al governatore del Minnesota che aveva anticipato il veto su un testo approvato dall’assemblea del suo Stato. Tra le altre iniziative sponsorizzate dalla Nra ci sono quelle relative alla possibilità di occultare le armi che si portano. La persona minacciata non sa nemmeno di esserlo.
La morte di Trayvon Martin ha avuto l’effetto di riportare l’attenzione sul tema delle armi. E sul perché queste leggi vengano approvate. Come altre battaglie retoriche sulle libertà costituzionali quella sul «diritto» a girare armati è il frutto della contiguità tra politica e lobby delle armi. Più leggi permissive implicano più affari per i produttori e le nuove leggi hanno cominciato a essere approvate in anni di crisi del settore. Al momento è in discussione a Washington una legge che obbligherebbe gli Stati alla reciprocità sul porto d’armi: se ne hai uno nella permissiva Florida, vale anche nella restrittiva New York. Negli Stati dove le leggi sono più permissive si muore più facilmente per una pallottola, da qui vengono esportate più armi usate dalla criminalità negli Usa e in Messico e si organizzano più milizie estremiste di destra. Forse l’attenzione su questo processo – che si preannuncia enorme – aiuterà almeno a fermare nuove iniziative legislative pericolose.

il Fatto 13.4.12
Florida, bande neo naziste contro le pantere nere
Tensione nella città di Trayvon dopo l’arresto dell’assassino
di Angela Vitaliano


New York. Credo che si sia trattato di un incidente e che la situazione sia andata fuori controllo”. Sybrina Fulton, la madre di Trayvon Martin, il diciassettenne ucciso lo scorso 26 febbraio da George Zimmerman, lo dice con la sua solita compostezza, parlando al “The Today show” e aggiunge che, potendo, chiederebbe a Zimmerman se, quel giorno, era consapevole di avere di fronte un minorenne disarmato.
Sono passate meno di ventiquattro ore dall’arresto della guardia volontaria, avvenuto nella serata di mercoledì, dopo che Angela B. Corey, il procuratore di Stato per l’area di Jacksonville, ne ha annunciato l’incriminazione per omicidio di secondo grado, reato che prevede pene dai 25 anni all’ergastolo. “Una decisione difficile e valutata con la massima serietà, sulla quale non hanno pesato le pressioni esterne dell’opinione pubblica”.
CI TIENE a precisarlo il procuratore per cercare di placare la ridda di polemiche che da sei settimane sta dividendo il paese, per le possibili implicazioni razziali del caso. Per questo le dichiarazioni dei genitori di Trayvon risultano ancora più significative; loro, che a quel figlio non potranno più telefonare “mentre i genitori di Zimmerman, nonostante la grande pena che stanno vivendo, possono ancora parlargli”, volevano solo un atto di giustizia, rappresentato dall’arresto del giovane “che ora potrà raccontare la sua versione dei fatti”, precisa la signora Fulton, chiarendo che si aspetta un processo giusto e non necessariamente una condanna. Nella comunità di Sandford, però, non si respira la stessa sofferta serenità. Da giorni, almeno due dozzine di persone, abbigliate in stile militare con stivali di pelle, teste rasate e svastiche ben in vista, si aggirando per la cittadina per “proteggere l’incolumità dei bianchi”. Arrivati da diverse parti del Paese, sono tutti affiliati del Movimento Nazional Socialista, il più grande gruppo neo nazista americano guidato dal comandante Jeff Schoep. “Noi non siamo qui a cercare rogne – precisa Schoep – ma siamo pronti comunque a difenderci”. La maggior parte di loro gira armata, sebbene nessuno abbia chiarito che tipo di armi da fuoco siano in loro possesso, e rifiuta di farsi fotografare per non avere problemi nei luoghi di lavoro. “Il nostro scopo è quello di proteggere la comunità bianca in questo momento minacciata nella sua tranquillità“. Il movimento neo nazista è attivamente impegnato contro la droga, i gay, i matrimoni misti e l’immigrazione di persone non bianche. “Un sacco di gente pensa che il tizio che ha ucciso Trayvon fosse un bianco – ci tiene a precisare Schoep – ma lui è mezzo ispanico o cubano o qualcosa di simile. Non somiglia a me”. Molti nella comunità sono preoccupati che la presenza di queste “ronde” neo naziste, armate, possa inevitabilmente surriscaldare gli animi e scatenare guerriglie a sfondo razziale.
L’ARRIVO dei neo nazisti è, in parte, una reazione alla taglia di 10mila dollari messa sulla testa di Zimmerman dal gruppo delle New Black Panther; decisione criticata dalla maggioranza della comunità afro americana. “Ovunque ci sia un evento con un risvolto razziale – dice il neo nazista Schoep – questi arrivano a difendere la comunità nera. Ecco, noi facciamo lo stesso. Soprattutto, quando i bianchi sono messi in pericolo da due, Trayvon E Zimmerman, che di bianco non hanno un bel nulla”.

il Fatto 13.4.12
Libertà negata. Mister Satana morirà in carcere
di Andrea Scanzi


Mister Satana morirà in carcere. Charles Manson oggi ha 77 anni, una svastica scolorita sulla fronte (all’inizio era una “x” da esibire al processo) e quasi mezzo secolo trascorso in carcere. Sconta una condanna come mandante di almeno 7 omicidi. Pena di morte nel 1971, poi comminata in ergastolo perché la California abolì la pena capitale. I tribunali americani, due giorni fa, gli hanno negato la libertà condizionale per la dodicesima volta. La prossima udienza ci sarà, se ci sarà, tra quindici anni. Era presente anche Debra Tate, sorella di Sharon. Attrice e moglie di Roman Polanski. Il 9 agosto 1969, Sharon era incinta di otto mesi e mezzo. Fu massacrata, insieme a tre amici, all’interno di una villa a Cielo Drive. Il ricco quartiere di Los Angeles. Polanski non c’era, aveva appena terminato di girare Rosemary’s Baby. La villa era proprietà di Terry Melcher, figlio di Doris Day, artista e produttore musicale. Forse la “causa” fu lui. Aveva mostrato interesse per le canzoni di Manson, ma poi si rifiutò di scritturarlo per la Columbia Records.
Da qui la vendetta. Di Manson e dei suoi adepti, la “Family”, espressione peggiore di una assai fraintesa Summer of Love. Sesso, droga, violenza. Furti e omicidi – a coltellate, revolverate, forchettate – per sopravvivere. Helter Skelter, hit dei Beatles, presa come messaggio subliminale per scatenare il caos. Le scritte “Death to Pigs” (“Morte ai maiali”) e derivati per depistare gli inquirenti, facendo ricadere la colpa sui “negri”. Charles Manson, e i discepoli che vedevano in lui l’unione di Gesù Cristo e Sa-tana, ha incarnato la quintessenza del Male. Molto più di Mark David Chapman, omicida di John Lennon, un altro che da decenni chiede (senza ottenerli) sconti di pena. Figlio di una prostituta, padre mai conosciuto, all’anagrafe “No Name Maddox”. Cresciuto da zii che lo odiavano, umiliavano, picchiavano. La fuga da casa a 12 anni. Il primo carcere, ancora minorenne, dove fu violentato e seviziato. Sotto lo sguardo compiacente delle guardie. Prima delle mattanze del ’69 si era fatto dieci anni di carcere. Nel marzo ’67, quando tornò libero, si reinventò hippy. In prigione aveva imparato a suonare la chitarra. Si trasferì a San Francisco, dove aggregò la Famiglia, composta da uomini e donne non meno devastati di lui. Carismatico, efferato, razzista. Ne abbindolò molti, compresi i Beach Boys, che pubblicarono una sua canzone. Proprio nel ’69. Modificarono titolo, testo, arrangiamento. Manson lo prese come ulteriore affronto. Il processo fu lunghissimo, senza la delazione di Linda Kasabian (il “palo” durante il commando a Cielo Drive) non sarebbe stato condannato.
Ha ispirato film, canzoni. Ha avuto almeno un figlio, il deejay 45enne Matthew Roberts. Adottato. Quando lo ha appreso, è entrato in depressione: “È stato come scoprire di essere figlio di Adolf Hitler”. Roberts ha cominciato a scrivere al padre biologico: “Mi rispondeva con frasi folli. La sua firma? Una svastica”.

Corriere della Sera 13.4.12
La scalata della «principessa rossa»
Dopo il siluramento di Bo Xilai si riaprono i giochi per il Politburo Liu Yandong potrebbe essere la prima donna nei «magnifici nove»
di Marco Del Corona


PECHINO — La rovinosa caduta di Bo Xilai e il tinnire di manette che ha tolto di scena anche sua moglie Gu Kailai, sospettata per l'omicidio del britannico Neil Heywood, sono tra i pochi fatti certi che si stagliano al centro di un forsennato turbinio di ricostruzioni, voci e ipotesi. Della vittima si sa ora che poco prima di morire, probabilmente davvero ucciso, temesse per sé e avesse lasciato a un avvocato inglese le carte sugli investimenti all'estero di Bo: un'«assicurazione sulla vita».
Ma le speculazioni politiche guardano avanti, al congresso del Partito comunista che si svolgerà in autunno e che dovrà selezionare i nove membri del nuovo Comitato permanente del Politburo, la vera super-élite. Bo, «neomaoista» ambizioso, contava di entrare tra quei nove. La sua fine invece potrebbe aver liberato un posto. Una poltrona per la quale si aprono i giochi (magari con un nuovo scontro riformisti-sinistra) ma che potrebbe venir occupata da una donna. Qualcuno ha anche fatto il suo nome: Liu Yandong.
Già adesso Liu è forse la più vicina alle supreme sfere del potere cinese. È membro del Politburo allargato, ha ricoperto cariche diverse (come la presidenza dell'associazione delle donne) e ha una serie di legami rodati con i leader attuali. È legata a Jiang Zemin perché il padre adottivo del futuro numero uno era stato fatto entrare nella Gioventù comunista proprio dal padre della signora. E come Hu Jintao e il suo successore Xi Jinping ha studiato all'università Qinghua.
Iscritta al Partito da quand'aveva 19 anni, ha diverse competenze e la sua versatilità la porterà tra qualche giorno a Londra a inaugurare la fiera del libro, quest'anno dedicata alla Cina: il Daily Telegraph, che ne ha scrutato l'ascesa, riporta tra l'altro il giudizio dell'accademico Bo Zhiyue che parla delle sue connessioni come di «un grande vantaggio».
Liu, al pari del futuro segretario Xi Jinping e dello stesso Bo Xilai epurato, è una «principessa rossa», figlia di Liu Ruilong, viceministro dell'agricoltura agli inizi della Repubblica Popolare, e questo potrebbe contare a suo favore. Piacque invece meno, tre anni fa, che la figlia — che ha vissuto per anni negli Stati Uniti — avesse partorito a Hong Kong. Da qui al congresso può accadere di tutto, anche che Zhou Yongkang — l'unico alleato di Bo Xilai tra i nove — venga indotto alle dimissioni, come si vociferava ieri. Tuttavia se Liu entrasse nella leadership ristretta, benché a 66 anni sia forse un po' troppo vicina alla soglia del pensionamento (70), la sua cooptazione sarebbe una tappa storica per la Cina.
Mai una donna è salita così in alto. Wu Yi è stata vicepremier e ministro del Commercio (1993-1998), ma per trovare altre figure ai vertici bisogna scendere verso altre epoche. Deng Yingchao, moglie del premier Zhou Enlai e membro del Politburo allargato, tra i diversi incarichi ebbe quello di presidentessa della Conferenza consultiva. Song Qingling, vedova del leader nazionalista (e nel 1911 presidente della Repubblica di Cina) Sun Yat-sen, fu molte cose benché esponente del Kuomintang «di sinistra»: vicepresidente e, per una dozzina di giorni prima della morte nel 1981, presidente onorario della Repubblica Popolare. Altri tempi. Durante i quali non era necessario, come invece ha comunicato ieri la Xinhua, chiudere in un mese 42 siti web e cassare 210 mila messaggi online pur di smorzare la curiosità e le chiacchiere di una nazione di internauti.
Marco Del Corona

Repubblica 13.4.12
L'urlo di Mélenchon il Santerre di sinistra che sfida Sarkozy
di Bernardo Valli


A vent'anni, Jean-Luc Mélenchon scelse come pseudonimo "Santerre". I militanti trotskisti, e lui si era appena iscritto all'Oci (Organizzazione comunista internazionale), dovevano averne unoe lui prese il nome di Antoine Joseph Santerre, un ricco birraio del faubourg Saint-Antoine che il 14 luglio 1789 partecipò alla presa della Bastiglia; e che quattro anni dopo, il 21 gennaio 1793, nella veste di capo della guardia nazionale, accompagnò Luigi XVI alla ghigliottina. A sessant'anni lo stesso Mélenchon, capo del Fronte di Sinistra ( Front de Gauche) e candidato alla presidenza della Quinta Repubblica, si definisce «l'urlo e il furore», e ancora «il tumulto e il fracasso». Nonostante siano passati alcuni decenni, il personaggio continua a identificarsi in immagini forti. E non si limita ad evocarle. Le anima. Le rende viventi. Le interpreta nei lunghi, appassionati e spesso provocatori soliloqui che pronuncia, appunto con furore e fracasso, nei comizi: sulla piazza della Bastiglia a Parigi, sulla piazza del Capitol a Tolosa, sulla piazza del Prado a Marsiglia, dove raccoglie folle pari a quelle di Hollande e Sarkozy, i due principali candidati. A volte più folte. Senz'altro più entusiaste. Esaltate.
All'età in cui un uomo, politico o non politico, ha di solito imparato a dosare i giudizi, e in generale le parole, il più che maturo "Santerre" lascia esplodere la collera. Una collera rimasta imbrigliata a lungo, dopo l'inconcludente esperienza trotskista, negli stretti abiti socialisti, indossati si direbbe con rassegnazione, come militante, ministro, senatore ed eurodeputato. Spretatosi, Mélenchon ha creato nel 2008 la sua fronda, la sua eresia: il Parti de Gauche, ispirato dal Die Linke tedesco di Oskar Lafontaine, uscito dalla Spd come Mélenchon dal Partito socialista.
E adesso infine si sfoga, dicono gli psicologi specializzati in leader politici. Ha un temperamento che si incendia facile. E' nato in Marocco, a Tangeri, e ha ascendenze siciliane e spagnole. Si sfoga sul serio. Si pensi a come parla dei giornalisti della sinistra liberale, quelli del Nouvel Observateur: dice che «devono essere rimandati come i topi nella fogna a colpi di ramazza». E il direttore del settimanale, Laurent Joffrin, risponde ricordando che Mélenchon persevera in una lunga tradizione: i comunisti dicevano di Sartre che era «una iena dattilografa». Il capo del Front de Gauche ha riacceso la polemica tra le due sinistre, quella riformista e quella estrema, radicale. L'ha riesumata nel momento politico più propizio per attirare l'attenzione, definendo il candidato François Hollande un leader di sinistra inutile, come può esserlo un socialdemocratico. La campagna presidenziale è la principale consultazione nella Quinta Repubblica. Durante la gara per il primo turno (22 aprile), gli attuali dieci candidati alla massima carica dello Stato offrono agli elettori l'occasione di sbizzarrirsi, di scegliere liberamente, per le idee o la simpatia, il loro campione; la vera decisione sarà presa più tardi, dopo una pausa di due settimane, al ballottaggio (6 maggio), quando in campo saranno rimasti soltanto due dei dieci candidati iniziali. Stando alle quotidiane indagini d'opinione, Mélenchon non può arrivare al finale. Il pronosticato 15% non basta.
Ma il suo attuale successo si riverbererà sulle elezioni di giugno, quelle legislative, che seguiranno le presidenziali. Di solito le legislative premiano il capo dello Stato appena insediato. Ma nel caso quest'ultimo ottenesse una maggioranza risicata, destinata a lasciare metà del paese insoddisfatto, e con la voglia di negare al neoeletto l'appoggio del Parlamento, ci potrebbero essere delle sorprese. Il presidente, senza il sostegno dell'Assemblea nazionale, la camera bassa, potrebbe essere subito dimezzato nei suoi poteri.
Questa improbabile ipotesi va prospettata per sottolineare che la gara per il primo scrutinio può comunque lasciare delle tracce, oltre ad offrire la possibilità di apparire sulla ribalta nazionale. Mélenchon che ha sognato in gioventù di essere "Santerre", un personaggio simbolico della grande rivoluzione, e che adesso si sente «l'urlo e il furore» del popolo di Francia, occupa con grande successo quella ribalta. L'oscillante 15% dei consensi virtuali attribuitigli possono essere determinanti.
Possono essere positivi o negativi per la sinistra. Nonostante la polemica con i riformisti, i voti raccolti da Mélenchon al primo turno dovrebbero riversarsi al ballottaggio su François Hollande, leader della sinistra, e favorire, anzi consentire la sua vittoria su Nicolas Sarkozy. Questo il fattore positivo.
Quello negativo è che l'effetto «urlo e furore» di Mélenchon possa allontanare gli indispensabili elettori centristi o gollisti più sensibili. Già adesso Nicolas Sarkozy insiste sull'estremismo di Mélenchon. Il quale potrà influire, a suo avviso, sulla politica di François Hollande, e quindi spaventare i mercati finanziari, nel caso quest'ultimo venisse eletto presidente. Sarkozy non nasconde tuttavia un debole molto personale per il candidato dell'estrema sinistra. Si dichiara sensibile, sul piano umano, al fatto che sia un ammiratore di sua moglie Carla Bruni. Mélenchon dice infatti di amare le sue canzoni. Le ascolta spesso. Lo fanno sognare, sostengono con perfidia i suoi avversari.
Il successo della campagna elettorale di Mélenchon è senz'altro dovuto alla sua capacità di esaltare la folla, alle sue doti di tribuno. Ma ha contato e conta anche la dinamica propria del Front de Gauche, che ha creato una forza politica consistente, qualcosa di simile a un fronte popolare, alla sinistra del Partito socialista. La coalizione è nata nel 2009 da quel che era rimasto del Partito comunista (1,93 % alle elezioni del 2007), dal Partito di Sinistra di Mélenchon, da altre piccole formazioni e da trotskisti e verdi senza ancoraggio, in libera uscita. Su questa base, grazie alla sua abilità di tribuno, Jean-Luc Mélenchon ha «rimesso alla moda il rosso «.
Il suo discorso si basa sulla crisi del sistema capitalistico. Condanna il mondialismo. Gira le spalle all'Europa. Auspica la nascita di una Sesta Repubblica in cui il popolo conti sul serio. A fondarla dovrebbe essere una « révolution citoyenne », cioé una volontà espressa da un voto democratico. I richiami alla Cuba di Fidel Castro e al Venezuela di Hugo Chavez restano nel sottofondo, e non sono tanto l'espressione di un'affiliazione ideologica quanto un pretesto per manifestare l'ostilità nei confronti degli Stati Uniti.
Definito dai critici surrealista, il programma del Front de Gauche, disegna un orizzonte per ora irraggiungibile. Esige tra l'altro il salario minimo a 1.700 euro; il rimborso al 100% delle spese sanitarie; fissa il reddito massimo di un cittadino a 360 mila euro all'anno; chiede il riesame del codice del lavoro al fine di vietare la precarietà; si propone di creare uno statuto sociale per tutti i giovani al fine di garantire la loro autonomia economica. Per ritrovare un avvenire, dice Mélenchon, bisogna affrontaree sconfiggere il capitale finanziario. Il successo di Mélenchon non è dovuto a quel che promette, ma a quel che denuncia. E al modo diretto, brutale, con cui lo fa. Molti virtuali elettori socialisti accorrono ai suoi comizi per «ingelosire» e incitare François Hollande ad assumere posizioni più di sinistra.
Le provocazioni di Mélenchon, il suo linguaggio spesso crudo, attirano molti « bobo» parigini (i bourgeois-bohème ), discendenti dei «gauscisti» di un tempo, delusi dalla pallida sinistra di Hollande.
Seduce in Mélenchon la schietta denuncia della corruzione che regna nel mondo. E' il candidato prediletto dagli autori di romanzi polizieschi. Uno di loro, Jérome Leroy, scrive che al di là della sua abilità di tribuno, Mélenchon piace perché è il solo a denunciare, con parole che fanno male, una realtà francese trascurata da tutti.
In questo senso il suo comportamento è simile a quello di un autore di noirs. Come un romanzo poliziesco lui, Mélanchon, è urlo e furore, tumulto e fracasso.

Repubblica 13.4.12
La leader studentesca cilena: "Le sue riflessioni sono luce e speranza. Da noi più repressione che all'Avana"
La blogger cubana: "Curioso paradosso la ribelle che condivide parole e sorrisi con un regime oppressivo"
Camila e Yoani ragazze contro scoppia la lite su Fidel Castro
di Omero Ciai


Apriti cielo: le due cover girl della politica latinoamericana litigano. Su Twitter, in Tv, sui giornali. Unaè Yoani, la blogger, divenuta in pochi anni la dissidente per eccellenza, la voce più cercata e ascoltata dell'opposizione cubana (tanto che un giornale molto autorevole come El Paìs ha pensato perfino di nominarla "corrispondente" dall'isola) ; l'altra è Camila, cilena, laureanda in Geografia, leader delle proteste per l'istruzione pubblica, cui il New York Times Magazine ha appena dedicato uno sterminato reportage festeggiando quel suo volto hollywoodiano che più glamour non si può, e i lettori del britannico Guardian hanno eletto "personaggio dell'anno".
Due star ribelli, amatissime dai mass media internazionali, che avrebbero potuto perfino fraternizzare. Invece sulla loro strada hanno trovato il controverso mito di Fidel Castro. Tutto è cominciato quando Camila Vallejo è arrivata in visita ufficiale a L'Avana per un appuntamento di regime - il 50° della gioventù comunista - e Yoani Sanchez ha chiesto di incontrarla riassumendo poi i suoi tentativi falliti in un articolo per il quotidiano cileno La Tercera.
Mentre Yoani la cercava, Camila si lasciava andare a considerazioni del tipo «in Cile c'è più repressione che a Cuba» oppure «Fidel è un gran visionario, una luce, e le sue riflessioni sono indicazioni preziose per il nostro futuro». Veniva ricevuta dal líder máximo in pensione e partecipava ad una blindatissima assemblea universitaria nel corso della quale solo pochi fedelissimi avevano accesso ai microfoni per le domande.
Intanto la Sanchez incalzava: «A Cuba si afferma che l'Università è per i rivoluzionari. Ma i rivoluzionari di qui sarebbero reazionari in qualsiasi altra parte del mondo». E ancora «Come mi piacerebbe parlare con Camila ma la cerchia governativa che la circonda è inespugnabile. Se potessi parlare con lei, cercherei di raccontarle di quest'altra Cuba che la propaganda ufficiale nasconde». Ma Camila diventava anche un po' sprezzante. Interrogata dalla Cnn sul mancato incontro con Yoani, o con qualche altro rappresentante della dissidenza, rispondeva: «Non era necessario e con quale legittimità voleva impormi la sua situazione particolare.
Noi vogliamo conoscere la realtà del popolo cubano ma non attraverso la testimonianza di una solo persona, piuttosto attraverso quella di migliaia di persone e questo è quel che abbiamo fatto». Insomma il déjà vu era servito. «La vera sofferenza dei cubani - dice Camila - è l'embargo americano». E in suo soccorso chiama Oliver Stone e il documentario, "Comandante", che qualche anno fa ha dedicato a Fidel. «Se ancora c'è gente che pensa che io non abbia la capacità di vedere da sola la verità che si nasconde dietro l'ufficialità del protocollo (che per altro - sottolinea - è di un machismo impresentabile) spero non cadano nella paranoia di credere che un cineasta del livello di Oliver Stone sia disposto a prestarsi ad un balordo montaggio». Contestata anche in Cile (da destra: «non dovrebbe far politica ma concorsi di bellezza», e da sinistra: «i diritti umani vanno difesi ovunque, soprattutto a Cuba») la reginetta degli studenti latino americani ha salutato l'isola con un articolo per il sito web di regime dove spiegava: «Quella di Fidel Castro è una delle leadership più importanti del mondo. È un punto di riferimento universalee non solo i comunisti lo appoggiano. Di fatto anche grandi imprenditori capitalisti vogliono incontrarlo per sapere cosa accadrà nel mondo. Ha una capacità, una lucidità, una intelligenza, un livello di cultura e di uso delle informazioni impressionante». Sconsolata Yoani Sanchez: «Curioso paradosso. Dalle posizioni ribelli nel suo paese Camila è passata a condividere parole e sorrisi con il regime cubano». La giovane Camila, che in Cile milita nel partito comunista cileno (tre deputati in parlamento), non è nuova a prese di posizione particolarmente ortodosse. Mesi fa si oppose - ma poi in parte ritrattò - ad una eventuale nuova candidatura dell'ex presidente socialista Michelle Bachelet. Ma quel che è peggio sembra che - ad oltre quarant'anni dal giorno in cui Fidel Castro regalò il suo kalashnikov a Salvador Allende, il presidente cileno eletto che, più tardi, lo utilizzò per suicidarsi nel palazzo della Moneda bombardato dall'esercito golpista- la sinistra latino americana si dibatta ancora con i suoi vecchi demoni.

La Stampa 13.4.12
Il film che sana una ferita
Perché vedere “Diaz” è un dovere civile
Occasione non di polemica ma per far entrare i fatti di Genova nella memoria collettiva del Paese
di Antonio Scurati


Andare a vedere Diaz è un dovere civile. Il film di Daniele Vicari sulle violenze perpetrate da alcuni reparti della polizia durante il G8 di Genova del luglio 2001, non sarà una visione piacevole, non sarà una visione divertente, non sarà una visione conciliante. Sarà, in compenso, un’esperienza memorabile.
Il film di Daniele Vicari sulle violenze durante il G8 di Genova del 2001 non è una visione piacevole, non è una visione divertente, ma un’esperienza memorabile
Sì, perché di questo si tratta. Questo è il pregio etico ed estetico di questo film potente e commovente: ci investe con un flusso di immagini destinate a restare nella memoria e, ancor di più, ci consegna una storia per immagini che finalmente consente agli italiani della presente e delle future generazioni di far entrare nella propria memoria nazionale i fatti accaduti nei terribili giorni di quel luglio d’inizio secolo e millennio.
I fatti sono noti. Noti, arcinoti e, per l’appunto, dimenticati: sabato 21 luglio 2001, ultimo giorno di manifestazioni e scontri al G8 di Genova, poco prima di mezzanotte, centinaia di poliziotti fanno irruzione nel complesso scolastico «A. Diaz» – adibito dai manifestanti a media-center – picchiano selvaggiamente e arrestano immotivatamente centinaia di ragazze e ragazzi, italiani e stranieri, inermi e colti nel sonno. Poi falsificano le prove riguardo presunti reati di resistenza e porto d’armi cercando di depistare le indagini. Amnesty International definirà l’accaduto come «la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la fine della II guerra mondiale».
A questo proposito sarà bene chiarire subito una cosa: non deve essere questo film l’occasione per riaprire la ferita di una sterile e annosa polemica nei confronti della polizia. La condotta di quei reparti di polizia in quelle circostanze fu illegale, inaccettabile e vergognosa proprio perché polizia di uno Stato democratico in cui tutti ci riconosciamo, non certo di quel sinistro «stato di Polizia» che fu bersaglio polemico di legioni di antagonisti dei secoli precedenti. Lo Stato siamo noi, dunque la Polizia siamo noi, dunque pretendiamo che i suoi agenti si conducano nel rispetto della persona e della legalità. Punto. Fine delle polemiche.
No, la straordinaria occasione fornitaci da produttori, sceneggiatori, regista e attori di questo film è ben altra: è l’occasione di una testimonianza artistica indelebile grazie alla quale la ferita possa finalmente sanarsi come pelle lacerata attorno a un primo, piccolo coagulo di sangue rappreso. Ora, forse, finalmente, grazie a questo film coraggioso, i fatti di Genova, potranno uscire dal ricordo individuale ed entrare nella memoria collettiva. Potranno, insomma, smettere di sanguinare uscendo dalla necrotica zona di rimozione in cui rischiavano di piombare ed entrando, benignamente, nell’esperienza della Nazione. Sì, perché questo è il significato dell’esperienza, di quel vivere consapevole con cui è possibile riconciliarsi: la ferita più la memoria che ti ha lasciato.
E ferita, indubbiamente, vi fu. Ferita profonda. Diaz di Daniele Vicari esce nelle sale italiane a pochi giorni di distanza da Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana. Impossibile non accostarli. Impossibile ma equivoco. La contiguità temporale potrebbe indurre a collocare i fatti narrati da Vicari nello stesso solco storico degli antefatti e retroscena della strage di piazza fontana narrati da Giordana. Se lo si facesse, a mio modesto parere, si prenderebbe un grosso abbaglio. Non siamo di fronte al proseguimento della stessa eterna, identica storia di un medesimo volto tenebroso di un potere arcano che si esercita attraverso complotti, trame oscure, misteri inconfessabili e irrisolti. Quella raccontata da Diaz è un’altra storia, che riguarda una nuova e diversa generazione e che ci impone, se vogliamo renderle giustizia, di ribellarci al ricatto ideologico in forza del quale in tutti questi anni ci è stato quasi imposto di ricondurre ogni passaggio della storia italiana recente alla presunta matrice universale della strategia della tensione e delle violenze politiche degli anni ’70.
Ciò che rende la storia narrata da Diaz una storia diversa è soprattutto la natura del contropotere che vi si rappresenta, i volti, le identità e i destini delle ragazze e dei ragazzi catturati nella mattanza verso cui l’intero film precipita come verso un centro vorticoso, violento e vuoto. Nel secolo scorso, ogni volta che le forze del cambiamento s’infrangevano contro la violenza altrui, gli antagonisti si rassodavano nella convinzione di trovarsi dalla parte giusta, si rafforzavano nelle loro motivazioni di impegno nella lotta politica (talvolta scegliendo la violenza in proprio). Ciò che accadde a Genova fu tutt’altra storia: fu l’unico e ultimo, debole conato di partecipazione attiva alla vitapolitica da parte di una generazione cresciuta dopo la grande smobilitazione ideologica degli anni ’80. Quella generazione tentò allora di alzare la testa. Fu bastonata e la riabbassò per non alzarla mai più. Soltanto due mesi dopo quel luglio del 2001 venne l’Undici Settembre a seppellire lo slancio del movimento alter mondista. Adesso, dieci anni più tardi, la carne morsa dalla crisi, ci accorgiamo di quante ragioni ci fossero in quelle azzittite voci di dissenso.
Per tutti questi motivi, poter vedere Diaz di Daniele Vicari, non è solo un dovere civile, è,oserei dire, un diritto civile. Il diritto di una generazione – che non è affatto la stessa di Piazza Fontana – a riappropriarsi della propria storia, la storia di una generazione perduta alla politica. E le conseguenze di questa perdita sono sotto gli occhi di tutti."Una generazione perduta alla politica ha diritto di riappropriarsi della propria storia"

Corriere della Sera 13.4.12
Osservatore, il passato alle spalle
Internet, economia, bioetica: la svolta del quotidiano pontificio
di Francesco Margiotta Broglio


S ergio Romano, nel contributo al volume del 2010 per i 150 anni de «L'Osservatore Romano» (Singolarissimo giornale, a cura di A. Zanardi Landi e di G. M. Vian) ha ricordato che, quando nacque, il 1° luglio 1861, vi erano ancora in Europa tre imperatori (a Vienna, a Parigi e a San Pietroburgo), ai quali si aggiungeranno quello di Germania e la regina Vittoria diventata imperatrice delle Indie. Fra gli altri sovrani restò, fino al 1870, il Papa Pio IX che, aggiunge Romano,«poteva anch'egli, per certi aspetti, essere considerato imperatore».
Non so quanti «imperatori» vi siano oggi, dopo più di un secolo e mezzo, ma il quotidiano vaticano gode di una salute ben migliore, come conferma la raccolta di cento editoriali dal 2007 al 2011 (Uno sguardo cattolico, introduzione di G. M. Vian, Milano, Vita e Pensiero). In quella temperie, per iniziativa di due «rifugiati politici», legati all'intransigentismo, giunti a Roma dopo l'invasione italiana, con l'appoggio del nonno di Pio XII, Marcantonio Pacelli (allora sostituto ministro dell'Interno) e con finanziamenti privati, esce a Roma, con sede in piazza Santi Apostoli, il primo numero di un giornale destinato a restare la voce del papato romano. Nell'editoriale del primo numero si prendeva atto che l'Italia era «ormai divisa in due campi contrari», necessariamente «in opposizione irreconciliabile»: di fronte alla «falsa indipendenza» e alla «menzognera libertà» di coloro che combattevano il «dominio temporale della Santa Sede», non si poteva che battersi per la «giustizia» e per «la luce», sicuri che Non praevalebunt. Espressione che, col romanistico Unicuique suum, campeggia ancora, sotto il titolo, nella testata.
L'analisi delle oltre 150 annate compiuta dagli autori del volume sulla «singolarità» del giornale, mette in evidenza la particolare rilevanza delle sue pagine per una ricostruzione della visione che, in un secolo e mezzo, Papi e Curia ebbero delle vicende italiane e internazionali. Un'attenzione, questa per la politica internazionale, che la Santa Sede, prima della Società delle nazioni e dell'Onu, potè ad essa riservare grazie alla sua articolata e quasi unica funzione di «collettore» privilegiato di notizie e documenti: non solo della sua diplomazia ma anche della rete delle diocesi, congregazioni religiose, associazioni di azione cattolica nel mondo.
La prima svolta nella storia del giornale — mai diretto da ecclesiastici — è segnata dall'editoriale scritto dall'allora cardinale Montini, in occasione del centenario dell'«Osservatore», il quale, dopo averlo definito singolarissimo organo di stampa, ne sottolinea il ruolo di «giornale di idee» e ne ricorda la funzione «meravigliosa» negli anni della Seconda guerra mondiale, quando, di fronte ad una stampa italiana «imbavagliata da una spietata censura e imbevuta di materiale artefatto», «continuò impavido il suo ufficio di informatore libero e onesto». Seguiranno gli anni del Vaticano II e dei pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, che vedranno il rinnovamento conciliare e la rivoluzione «epocale» del dopo 1989.
La seconda svolta è quella testimoniata dai cento editoriali raccolti con il titolo Uno sguardo cattolico e dal radicale rinnovamento dell'«Osservatore» — voluto da Benedetto XVI e segnato dalla direzione Vian — che ha comportato un maggiore spazio per le firme femminili e la collaborazione di intellettuali prestigiosi, cattolici, cristiani di altre confessioni, laici e appartenenti all'ebraismo e all'Islam, oltre a un ulteriore sviluppo dell'interesse per i problemi del mondo. Il giornale ha affrontato, nell'ultimo quadriennio, questioni anche scomode per il Vaticano o, quanto meno, lontane dalla tradizionale impostazione che era stata oggetto di alcune ironie anche da parte del cardinale Montini, e da quei luoghi comuni che il direttore Vian sintetizza nella definizione di plumbea «Pravda vaticana», e che l'«editore», Benedetto XVI, vuole dissipare anche per fronteggiare l'invasione televisiva e telematica che sta rivoluzionando l'informazione religiosa.
Si è discusso, come rileva Vian, «di bellezza e di bioetica, della persona umana e di scienza, di santità e di storia, di religione e laicità» (ma anche di economia, di internet e dello scandalo della pedofilia), confrontandosi con la contemporaneità «nella fedeltà alla tradizione cattolica». Il merito della sua direzione è evidente, ma la sensibilità culturale dell'«editore» ne è premessa indispensabile.
Tra gli autori degli editoriali, politici come Gordon Brown, Tony Blair e Sergio Chiamparino; docenti appartenenti ad altre religioni come Fouad Allam che insegna a Trieste, Lossky dell'Istituto ortodosso di Parigi, il protestante Didier Sicard di Paris Descartes, il pastore luterano di Roma Kruse, il rabbino capo di Roma Di Segni, e Giorgio Israel della Sapienza; storici laici come Galli della Loggia, Aldo Schiavone, Alain Besançon e Tamburrano; firme femminili come le storiche Anna Foa e Lucetta Scaraffia, entrambe alla Sapienza, e il presidente della Bce, Mario Draghi. Oltre al direttore Vian, sono presenti, tra gli editorialisti, cardinali, arcivescovi, religiosi e sacerdoti, giornalisti del quotidiano e autorità della Santa Sede.
Dispiace, in questo contesto, che nell'articolo di Manuel de Prada sui martiri della guerra civile spagnola, beatificati nel 2007, non siano menzionate le moltissime vittime che furono dalla parte del governo legittimo e che vennero massacrate dalle truppe rivoltose di Franco, appoggiate dalla maggioranza dell'episcopato, ed esaltate dagli editoriali dell' «Osservatore Romano» dell'epoca. Ma si era, nell'ottobre 2007, solo all'inizio del «cambiamento»: del resto l'autore non esita ad attaccare la legge spagnola della memoria storica, dimenticando che la «battaglia fratricida» fu voluta dai franchisti.
Ben diverso il tono del contributo di Cancelli, del 3 agosto scorso, a proposito del vescovo tedesco von Galen, creato cardinale da Pacelli, e beatificato da Benedetto XVI: nel ricordare le coraggiose omelie del 1941, l'autore sottolinea la testimonianza del presule che con parole assai forti, che tengono «ancora con il fiato sospeso», si ribellò contro la pratica nazista volta ed eliminare i malati psichiatrici in quanto «membri improduttivi della comunità nazionale», e concludendo: «La via è aperta per l'uccisione di tutti noi quando saremo vecchi e infermi... nessun uomo sarà al sicuro».
Un porporato, commentando anni fa un non felice intervento del «giornale del Papa», alla mia domanda: «Ma quando cambieranno?», rispose: «Quando nella testata dovranno scrivere Prevaluerunt!». Forse non ci siamo ancora, ma molta strada è stata fatta.

Repubblica 13.4.12
Lo storico della medicina e il dibattito sulle terapie cliniche
Il dibattito fu aperto su “Repubblica” del 22 febbraio dagli psicoanalisti
Studi sul cervello e psicoanalisi
di Gilberto Corbellini

qui

Repubblica 13.4.12
Povera classe media senza più modelli
Il declino dell’uomo americano
di Maurizio Ricci


L'ultimo libro di Charles Murray spiega come è finito il mito della tradizionale "way of life" Le sue tesi hanno provocato reazioni polemiche di intellettuali "liberal" come Krugman

Vi ricordate l'America? L'America dei film di Frank Capra, ma anche di John Wayne e di decine di serie televisive: quell'insieme di ambizione, lavoro duro, certezze religiose, solidità familiare, scrupolo morale, spirito di solidarietà, attivismo comunitario che rendevano l'American way of life un impasto unico al mondo, condiviso in ogni angolo e in ogni strato sociale del paese.
Quell'America non c'è più. Si sta erodendo e disgregando, scrive Charles Murray nel suo ultimo libro, Coming apart, anche doveè nata, nel suo cuore storico: l'America bianca.
Murray è un uomo di destra. Il suo libro più famoso, The Bell Curve, è stato al centro di aspre polemiche, perché sembrava implicare una inferiorità genetica dell'intelligenza dei neri. Anche per questo, forse, nel nuovo libro, Murray si concentra sull'America bianca. Ma pure questa finisce per essere una scelta di destra, che individua nei soli bianchi i depositari di quegli ideali e di quei valori, in contrapposizione all'America multicolore di Obama. Come è di destra l'idea che l'erosione dell'American way of life non sia generalizzata, ma contrapponga una parte del paese, che le rimane fedele, ad una parte che se ne allontana e che questa spaccatura si sia aperta con la "rivoluzione culturale" degli anni '60: rock, marijuana, diritti civili e liberazione della donna. Sembra di sentire la retorica di Rick Santorum e di Newt Gingrich contro le élites liberal delle due coste, lontane dall'America profonda. Murray le distingue anche geograficamente, isolando le élites in una serie di enclaves, i superZip, cioè distretti postali (superCap, li chiameremmo noi), sparsi fra New York, San Francisco, Chicago e Philadelphia, rispetto all'America delle città ex operaie della Pennsylvania o del Michigan. A distinguerle sono le differenze di reddito, ma Murray, come tutta la destra americana, insiste che la divaricazione principale non è economica o politica. È culturale. La contrapposizione tra un'America delle classi alte, convertita al camembert e al Borgogna, allo yogurt e al muesli, e un'America delle classi inferiori, rimasta a birra e salsicce è, da molti anni, merce corrente su qualsiasi quotidiano. Murray ne riassume le caratteristiche, costruendo un virtuale superZip, Belmont, abitata da medici, avvocati, ingegneri e guru della finanza e una altrettanto virtuale città ex operaia, Fishtown, dove vive gente senza laurea, colletti blu, impiegati, commessi e misurandone aspirazioni e comportamenti. Ed è qui che Murray compie un'inattesae vistosa inversionea U, rispetto alla tradizionale propaganda della destra repubblicana. Perchéèa Belmont, fra le élites dei laureati e post-doc (il 20 per cento della popolazione bianca americana fra i 30 e i 50 anni), dicono i suoi dati, che l'American way of life continua a vivere e prosperare. Ed è nella Fishtown di una classe media che sprofonda verso il basso (30 per cento dei bianchi della stessa età) che quegli ideali e quei valori stanno svanendo.
L'immagine di due traiettorie divergenti è netta. Negli anni '60, a Belmont il 94 per cento dei bianchi era sposato. A Fishtown, l'84 per cento. Nel 2010, era l'83 per cento a Belmont, il 48 per cento a Fishtown. Le ragazze madri bianche, nel 1970, erano l'1 per cento a Belmont, il 6 per cento a Fishtown. Nel 2008, a Belmont siamo ancora all'1 per cento, a Fishtown al 44 per cento. Anche il rapporto con il lavoro è diverso, per un bianco di 30-40 anni, a seconda che viva a Belmont o a Fishtown. Nel primo caso, ad aver rinunciato a qualsiasi tipo di lavoro era il 3 per cento, sia nel 1968 che quarant'anni dopo. A Fishtown la percentuale di uomini giovani che si dichiarano fuori dalla forza lavoro è aumentata dal 3 al 12 per cento. Il tasso di criminalità è rimasto, più o meno lo stesso, durante mezzo secolo, a Belmont, ma è aumentato di cinque volte a Fishtown. Anche la religione, così importante nell'immaginario morale americano, mostra la stessa divaricazione. A Belmont, gli agnostici o indifferenti sono saliti in quarant'anni dal 29 al 40 per cento.A Fishtown dal 38 quasi al 60 per cento.
Il libro di Murray ha suscitato, anche questa volta, polemiche vivaci. Gli intellettuali liberal non ne contestano i numeri, ma la loro spiegazione. Ciò che caratterizza, in questi decenni, Fishtown, dicono, è la costante erosione dei redditi, la discesa dei salari, la chiusura delle fabbriche e la perdita delle occasioni di lavoro, mentre Belmont diventava sempre più ricca. Paul Krugman, ad esempio, si chiede se sia il caso di sorprendersi se i giovani, rendendosi conto che non guadagneranno mai come i loro padri, smettono di sposarsi e condurre le loro famiglie come i loro padri: «Abbiamo creato una società, in cui molti giovani non vedono alcuna possibilità di raggiungere uno status da classe media. A questo punto, guardiamo alla loro incapacità di aderire ai valori della classe media e dichiariamo che ci deve essere qualche forza misteriosa che corrode la nostra moralità». L'accumularsi delle polemiche non stupisce: impostare la campagna elettorale su uno scontro intorno ai valori morali, piuttosto che sulle diseguaglianze sociali e le misure per il rilancio dell'economia è l'asse intorno a cui ruota l'imminente battaglia delle presidenziali. L'analisi di Murray, però, illustra il singolare rovesciamento della politica americana di questi anni. Perché il messaggio di sviluppo di Obama dovrebbe trovare l'eco migliore fra gli impoveriti di Fishtown e quello moralista dei repubblicani fra i pii abitanti di Belmont. Invece, avviene il contrario. Proprio fra i colletti blu dei bianchi trovano più facile eco i proclami contro l'aborto, la contraccezione, gli aiuti di Stato, che Santorum, Gingrich, Romney ripetono ogni giorno e Obama, dicono le elezioni precedenti e tutti i sondaggi, parte con il maggiore svantaggio.
Mentre i laureati post-doc di Belmont sembrano i più infastiditi dall'estremismo dei candidati repubblicani e i più pronti a riportare l'attuale presidente alla Casa Bianca.
Fra le possibili spiegazioni, una ne fornisce l'inchiesta condotta, nelle scorse settimane, dal New York Times. Anche se, apparentemente, sembra complicare ulteriormente il quadro. Dall'inchiesta risulta che le aree del paese che ricevono la quota maggiore di aiuti e sussidi pubblici, in termini economici o di assistenza diretta (Fishtown, sostanzialmente), sono anche quelli dove più forte è la presa elettorale della destra estrema del Tea Party, che si batte all'insegna del meno Stato, meno aiuti, meno debito, meno tasse (sui ricchi). L'elemento cruciale che esce dalle interviste fra gli aderenti del Tea Party è l'aspro, lancinante senso di colpa di chi si rimprovera di non essere in grado di sopravvivere senza aiuti e sussidi. Non è vero che, a Fishtown, l'American way of life è morta. Anche dove non si vede, scava nel profondo della psiche americana. Purtroppo, dice Krugman.

il Venerdì di Repubblica 13.4.12
Maya Sansa. La mia doppia vita tra Camus e Eluana
Tratto dal libro dell’autore algerino, esce “Il primo uomo” di Gianni Amelio
«Sono la madre dello scrittore» dice l’attrice, «Una persona appassionata.
Lontana dalla cupezza che, invece, interpreto per Bellocchio, nel film sul caso Englaro»
di Monica Capuani

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il Venerdì di Repubblica 13.4.12
Perché la ricerca del piacereci ha fatto crescere ma ora può distruggerci
di Giuliano Aluffi

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giovedì 12 aprile 2012

l’Unità 12.4.12
L’Europa critica il sistema italiano: «Vanno introdotti controlli severi»
Presentata una proposta comune di Pd, Pdl e Terzo Polo. Rinviati a settembre i rimborsi
La certificazione sarà obbligatoria. Per i bilanci non in regola interventi dei presidenti della Camera
Nuove regole per i soldi ai partiti. Authority, sanzioni, trasparenza
Finanziamento ai partiti, messe nero su bianco le nuove norme su controlli, trasparenza e sanzioni. Il testo verrà presentato come emendamento al decreto fiscale. Entro aprile l’approvazione
di Simone Collini


La discussione è andata avanti per tre ore, poi gli sherpa di Pd, Pdl e Terzo polo sono andati a riferire ai vertici dei propri partiti. Si sono rivisti dopo un’ora e hanno continuato a limare il testo. E solo in tarda serata sono stati resi noti i termini dell’intesa, tradotta in un emendamento che verrà presentato al decreto legge di semplificazione fiscale, ora in discussione alla Camera, per arrivare entro una decina di giorni all’approvazione definitivia.
APPROVAZIONE ENTRO APRILE
Il testo per introdurre maggiori controlli e una reale trasparenza sull’utilizzo dei rimborsi elettorali ai partiti ora c’è. A metterlo nero su bianco, dopo che nei giorni scorsi ne avevano discusso i punti cardine Pier Luigi Bersani, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini, sono stati Antonio Misiani e Gianclaudio Bressa per il Pd, Massimo Corsaro, Rocco Crimi e Donato Bruno per il Pdl, Benedetto Della Vedova, Pino Pisicchio e Gianpiero D’Alia per il Terzo polo.
Ad allungare i tempi della discussione è stato soprattutto il punto riguardante l’organismo a cui affidare i controlli. Pd e Udc hanno proposto la Corte dei conti, ma si sono scontrati con il niet del Pdl. Alla fine l’accordo è stato trovato su un’Authority composta dai presidenti (o loro delegati) di Corte dei conti, Corte di cassazione e Consiglio di Stato e presieduta dal presidente della Corte dei conti. Sarà questo ente terzo (i cui componenti non percepiranno alcun compenso per questa nuova attività) a controllare che i bilanci dei partiti siano regolari.
CERTIFICAZIONE OBBLIGATORIA
È stata accolta la proposta del Pd di rendere obbligatoria la certificazione dei rendiconti da parte di società esterne iscritte nell’albo della
Consob (i Democratici da tempo si affidano alla Pricewaterhouse Coopers e ora Lega e Udc hanno annunciato analoga decisione) e anche quella (condivisa dall’Udc), di pubblicare sui siti internet dei partiti stessi e anche su quello della Camera i bilanci, nonché quella di abbassareda50milaa5milaeurolasoglia per le donazioni anonime.
Avanzata dai centristi, e accolta, è stata invece la proposta di prevedere la possibilità di investire i fondi a disposizione dei partiti soltanto in titoli di Stato italiani (una norma utile ad evitare speculazioni immobiliari o l’approdo dei rimborsi elettorali verso fondi finanziari stile Tanzania).
SANZIONI DA PRESIDENTI CAMERE
L’intesa è stata raggiunta anche sul sistema di sanzioni per i partiti che non rispettino le nuove norme. La nuova Authority, denominata «Commissione per la trasparenza ed il controllo dei bilanci dei partiti politici», dovrà accertare se i bilanci siano in regola o se presentino irregolarità penali o civili. In questo caso, secondo quel che prevede l’intesa tra i partiti di maggioranza, il materiale sarà trasmesso alla magistratura direttamente, altrimenti la sanzione verrà comminata dai presidenti delle Camere. Si legge nel testo diffuso in tarda serata che qualora la nuova Commissione rilevi «irregolarità, i Presidenti della Camera e del Senato provvederanno ad applicare, su proposta della Commissione, sanzioni amministrative pecuniarie pari a tre volte le irregolarità commesse». È inoltre previsto che le contribuzioni dei partiti politici a fondazioni, enti e istituzioni o società eccedenti i 50 mila euro annui comportino l’obbligo per questi ultimi di sottoporsi ai controlli della «Commissione per la trasparenza e il controllo dei bilanci dei partiti».
Durante gli incontri di ieri si è anche deciso di far slittare da luglio a settembre l’ultima rata di 100 milioni dei rimborsi elettorali, mentre il più ampio argomento di una riforma del sistema di finanziamento pubblico sarà affrontata nel corso dell’esame delle proposte sull’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione.
PRIMO PASSO
Le nuove regole vengono commentate con soddisfazione da Misiani: «Si tratta di un testo molto positivo, di una svolta vera sul terreno della trasparenza, dei controlli e delle sanzioni». Quello raggiunto ieri, per il tesoriere del Pd, è «un primo passo molto importante nella direzione di una più complessiva revisione del finanziamento pubblico». Il modello di controllo adottato, spiega Bressa, è «ispirato all’Europa»: «La Commissione per il controllo e la trasparenza è come quella che c’è in Francia e le sanzioni sono quelle della Germania, ma più severe». Il capogruppo del Pd in commissione Affari costituzionali della Camera ammette che «è stato un lavoro duro» ma quello raggiunto alla fine delle lunghe riunioni con i tecnici di Pdl e Terzo polo lo definisce «un punto di equilibrio giusto ed efficace».

L’Europa boccia senza appello l’Italia per le attuali regole sul sistema di finanziamento pubblico ai partiti, caratterizzato da controlli insufficienti, e punta il dito contro tempi per la prescrizione dei reati legati alla corruzione talmente brevi da rischiare di vanificare l’opera meritoria svolta dai giudici.
Il giudizio è contenuto in un rapporto reso noto ieri da Greco (Grupe d’Etats Contre la Corruptions), il braccio anti-corruzione del Consiglio d’Europa. Con un tempismo legato all’attualità politica nazionale davvero sorprendente, il documento di 68 pagine è diviso in due parti. In quella sul finanziamento pubblico della politica si sottolineano le carenze «importanti» e le sanzioni «inefficaci» del sistema. Ma soprattutto si evidenzia la mancanza di adeguati controlli e l’urgenza di intervenire per sanare una situazione insostenibile. Che, grazie al meccanismo attuale, avrebbe portato i partiti a incassare tra il ‘94 e il 2008 il triplo delle spese sostenute (2,25 miliardi di euro contro 570 milioni). Si esortano quindi i partiti a «sviluppare propri sistemi di controllo interno e sottoporre i conti a revisione contabile indipendente». Sette le «raccomandazioni» rivolte all’Italia da Greco su cui Roma dovrà riferire entro il 30 settembre del prossimo anno. Tra queste spiccano lo status legale dei partiti, l’introduzione di adeguati controlli pubblici, il divieto di donazioni anonime.
Ma anche per quanto riguarda la lotta alla corruzione il rapporto Greco lancia un allarme importante sulle «tante lacune» rilevate e l’inadeguatezza delle sanzioni previste. Nonostante ciò, «in Italia sono stati perseguiti un numero considerevole di casi di corruzione grazie al lavoro dei giudici che hanno sviluppato la giurisprudenza in questa area». Gli sforzi che rischiano però di essere vanificati da tempi di prescrizione «troppo brevi» per i reati legati alla corruzione.

l’Unità 12.4.12
Bersani: «Questa non è una riformina. E basta gettare fango su tutti»
Bersani respinge la campagna contro il finanziamento pubblico: «Non accetto che si getti fango su tutto, non tutti i partiti utilizzano i rimborsi per ristrutturare case». Si discute sull’ultima tranche di 100 milioni.
di S.C.


«Non accetto che venga gettato fango su tutti». Pier Luigi Bersani vede montare attorno ai partiti una campagna dai contenuti tutt’altro che inediti e dagli esiti ampiamente prevedibili. Grandi gruppi editoriali che mettono in discussione l’opportunità del finanziamento pubblico ai partiti, forze politiche (dall’Idv a Fli, dai grillini a pezzi del Pdl) che ne chiedono la cancellazione. «Non tutti i partiti utilizzano i fondi pubblici per ristrutturare case si sfoga il leader del Pd con chi lo avvicina mentre è in corso la riunione degli sherpa per disegnare le nuove regole serve qualsiasi forma la più stringente per controllare i bilanci ma non accetto che la Lega riesca a distruggere il sistema della democrazia, come era nella sua intenzione originaria. Dai tempi di Pericle, la democrazia ha sempre funzionato con il sostegno pubblico per evitare che il più ricco e il più forte facesse il burattinaio e governasse la città».
Il leader del Pd guarda con attenzione agli attacchi sferrati da più parti al sistema dei rimborsi elettorali, alle proposte di ridurli, abrogarli, alla richiesta di non erogare ai partiti l’ultima tranche di 100 milioni, prevista per luglio. E conversando con i cronisti alla Camera un po’ ricorda che i rimborsi già hanno subìto significativi tagli (erano 289 milioni di euro nel 2010, 189 nel 2011 e ora sono destinati a ridursi a 143), un po’ rivendica le scelte fatte dal suo partito prima che scoppiasse il caso Lusi e lo scandalo dei fondi leghisti («non dicano a noi che ci svegliamo ora, i conti del Pd sono certificati da una società esterna e abbiamo inventato le primarie e i codici etici») e un po’ difende il testo che in quegli stessi minuti stanno scrivendo gli sherpa di Pd, Pdl e Terzo polo per garantire maggior controllo e trasparenza sui bilanci dei partiti. «Non chiamatela riformina», dice a chi riporta le parole di qualche commentatore. E poi: «Non accetto che si butti fango su tutto, mica tutti i partiti ristrutturano le case con i soldi pubblici».
Una riforma del sistema dei finanziamenti pubblici si deve fare, per Bersani, che è primo firmatario di una proposta di legge su questo argomento depositata in commissione Affari costituzionali. Ma la discussione che va avanti da mesi sull’applicazione dell’articolo 49 della Costituzione dimostra (al di là del fatto che ieri il relatore del provvedimento, l’ex Pdl e oggi Popolo e territorio Andrea Orsini, non si è fatto vedere e ne è scoppiata una polemica) che bisogna estrapolare poche norme da approvare in tempi rapidi. «Per fare le cose per bene bisogna riflettere, bisogna ragionare. Ma da subito si possono aumentare i controlli su come vengono gestiti i soldi», è il ragionamento. Il Pd, dice Bersani, è pronto ad usare «qualsiasi strumento», anche il decreto, pur di intervenire rapidamente per rafforzare i controlli. E se qualcuno chiede di diminuire ancora il finanziamento pubblico, dice che il Pd è pronto a discutere, «purché sia chiaro che l'attività politica è stata finanziata fin dai tempi di Clistene, altrimenti si dica che diamo il bastone del comando al più ricco della città e abbiamo risolto».
L’ULTIMA TRANCHE DEI RIMBORSI
Ora entra nel dibattito pubblico la possibilità di non far entrare nelle casse dei partiti l’ultima tranche dei rimborsi. Non c’è solo chi, come Vannino Chiti, propone di sospenderne l’erogazione «fino a quando non verrà approvata la nuova legge» (che è un modo per sollecitare tutte le forze politiche a chiudere in fretta). Ci sono le Acli che chiedono di devolvere quei 100 milioni di euro per finanziare la partenza di 27mila ragazzi per il servizio civile nazionale e chi, come Antonio Di Pietro, propone di dare quei soldi «alla Fornero perché possa pensare alle parti sociali più deboli». Dice Bersani mentre gli sherpa concordano lo slittamento a dopo luglio: «Parliamo anche di quello. Ma occupiamoci anche di controllare come vengono spesi i soldi che sono stati già erogati».

l’Unità 12.4.12
Democrazia aziendalista
Niente fondi ai partiti. Così i conflitti d’interessi diventano la regola
La campagna contro i finanziamenti pubblici lascia intravedere un panorama desolante di banchieri, tecnici e imprenditori ciascuno col suo movimento
di Michele Prospero


L ‘obiettivo reale della furibonda campagna contro i costi della politica lo ha esplicitato candidamente Pierluigi Battista che, al Tg3, ha evocato una Repubblica senza partiti e addirittura senza politica. Sono del resto molti i commentatori del Corriere della Sera che cavalcano con spregiudicatezza la dolce ebbrezza di una deriva populistica.

La rimozione dei partiti è invocata per spianare la strada a una gestione del potere affidata a componenti tecniche e imprenditoriali che operano oltre i partiti. Il sogno antico è quello di una democrazia aziendalista capace di togliere il disturbo dei partiti per lasciare alle forze economiche dominanti il pieno potere di legiferare.
In discussione oggi, con il finanziamento pubblico, non è una spicciola questione monetaria, così urticante in tempi di risorse scarse, ma il fondamento stesso della democrazia moderna, vista come una forma storica di compromesso tra le immani potenze del mercato e le istanze residuali di eguaglianza dei cittadini.
È palese che la disparità eccessiva delle risorse economiche e mediatiche rende in sé distorta la competizione tra i partiti e affida al peso del denaro una sovranità reale rispetto alla evanescenza della singola espressione di consenso. Non esiste un voto eguale se non si garantiscono delle condizioni tendenzialmente equilibrate (nella disponibilità di risorse) tra gli attori. Nel ventennio berlusconiano, una gara elettorale regolare senza il finanziamento pubblico sarebbe stata del tutto disperata. Anche in tempi meno eccezionali, però, il nodo della castrazione dell’impatto che ha il possesso diseguale di beni (mediatici, economici) rimane aperto. Per questo bisogna guardare all’Europa, l’America è troppo lontana.
Negli Stati Uniti solo chi rinuncia ai finanziamenti pubblici (che sono previsti anche lì, ma sono molto limitati e quindi poco appetibili) può rifarsi con i generosi soldi messi a disposizione dai voraci gruppi privati di pressione. Dopo la sentenza del 2010, la Corte suprema non pone più limiti alle dorate elargizioni dei ricchi che esercitano la loro splendida libertà di annegare nell’oro il candidato di più stretta fiducia. La corruzione diventa così legge, nel senso che i gruppi, le lobby, gli interessi più forti determinano come vogliono il contenuto effettivo della legge. Il processo legislativo risponde terribilmente alla parabola del denaro, i marginali non contano proprio. Il condizionamento economico delle decisioni in America è organico a un sistema edificato sul continuum molto scivoloso denaro-politica.
Proprio in questo abbraccio mortale tra gli interessi privati ristretti e la legge risiede la fondazione teorica della necessità di un finanziamento pubblico della politica. Dove manca un sostegno pubblico, chi foraggia i candidati decide anche la norma giuridica e la politica è in gran parte l’autolegislazione degli interessi economici più aggressivi. Il tragitto europeo è per fortuna diverso. L’autonomia della politica è preservata anche grazie all’adozione del contributo pubblico. Persino nell’Inghilterra dagli anni Trenta vige un peculiare finanziamento che va però solo all’opposizione di sua Maestà, ritenuta svantaggiata rispetto al partito di governo che controlla l’amministrazione pubblica e opera quindi in condizioni di privilegio competitivo.
In un’Italia, dove i media agitano gli inquietanti spettri di una «partitopoli» per solleticare gli umori più regressivi, il proposito di togliere il finanziamento pubblico equivarrebbe di fatto a rendere strutturale il conflitto di interessi. Si avrebbe cioè un panorama pubblico desolante nel quale le fondazioni di imprenditori, tecnici, banchieri entrano nell’agone politico per ampliare l’influenza dell’azienda privata che ambisce a gestire direttamente gli affari generali.
Al posto dei partiti che mediano tra i diversi interessi, e danno voce ai ceti più deboli, sorgerebbe un seguito personale-patrimoniale garantito da fedeltà oblique che solo il denaro mantiene nel tempo. Quando al partito subentra il denaro si determina una completa opacità di ogni orizzonte statuale.
Per bloccare l’onda antipolitica, i partiti oggi giustamente scelgono la strada dell’autoriforma, non la delegano ai giudici (che scottanti problemi con escort, corruzioni, rapporti opachi con il denaro, inciampi con gli arbitrati, le consulenze, gli incarichi extragiudiziali, li hanno eccome in casa loro) o ai media vocianti che suonano il piffero per i grandi interessi economico-finanziari che vorrebbero una politica ancor più debole e sempre obbediente. Una filosofia della riforma del regime dei rimborsi elettorali dovrebbe muovere dall’idea di partito quale sede della rappresentanza sociale e costruttore di eguaglianza.
I partiti hanno il diritto a un finanziamento non in quanto gestiscono le pubbliche risorse e pertanto, coprendo un servizio, meritano l’elargizione di sostegni in denaro. Questa è la giustificazione debole dei costi della politica. I partiti diventano delle agenzie di rango semiamministrativo cui, per una prestazione fornita, è dovuto un compenso che viene monitorato.
I partiti però non sono delle strutture burocratiche che offrono un servizio alla società, ma sono la società stessa che organizza la propria differenza e impone confini, avanza pretese di identità. Bisogna perciò rovesciare l’ottica corrente: siamo agenzie iper-regolate e quindi copriteci d’oro. E imporre l’altra veduta: siamo la società che organizza la sua parzialità e quindi ci spettano i fondi pubblici, sulla cui destinazione controllateci pure con la severità che credete.

l’Unità 12.4.12
I giovani e l’alcol. Sbronza a digiuno per sentirsi del gruppo
Il report Istat su uso e abuso registra l’aumento del “Binge Drinking” ovvero dell’abitudine di bere fuori pasto con lo scopo di «sballare» Anziani e donne fra gli otto milioni di italiani con comportamenti a rischio
di Jolanda Bufalini


Solitudine-gruppo, malinconia-stare insieme, sono binomi da tenere presenti nel cercare una spiegazione del cambiamento di abitudini nel rapporto con l’alcol. L’indagine Istat su “uso e abuso dell’alcol” ci dice che otto milioni di italiani bevono in modo rischioso e, fra questi otto milioni, i gruppi più a rischio sono i giovani e giovanissimi e gli anziani. I parametri sono quelli dell’Oms e delle tabelle appese nei ristoranti e nei bar per evitare di incorrere nei rigori del codice della strada. Gli anziani bevono troppo anche semplicemente perché non sanno che dopo i 65 anni i 2-3 bicchieri al giorno, considerati la quantità moderata di consumo di vino, dovrebbero essere ridotti a uno. Quello che più colpisce è invece il gran numero di ragazzi e ragazzini che bevono fuori pasto, in discoteca o nei locali dove si fa l’happy hour, e bevono strane bevande dai colori fluorescenti, cocktail e amaro, superalcolici e birra a fiumi. Sono quasi il 19% i teenager (14-17 anni) che bevono fuori pasto (erano il 15,5 nel 2001). È una fascia di età particolarmente delicata, spiega l’indagine Istat, «perché non si è ancora in grado di metabolizzare adeguatamente l’alcol».
E ci sono «ragazze racconta Gustavo Pietropolli Charmet che mangiano lattuga dal lunedì al venerdì» poi ingollano una bomba caraibica e «vanno in coma etilico». È il fenomeno del Binge Drinking, più volgarmente detta la sbronza, una tantum «6 o più bicchieri di alcol in un’unica occasione». Anche fra le ragazze e i ragazzi dagli 11 ai 15 anni la percentuale dei comportamenti a rischio è alta (12%) e, dice il rapporto Istat, «è grave perché è un comportamento che pone le basi per possibili consumi non moderati nel corso della vita».
Gustavo Pietropolli Charmet ha appena pubblicato un libro, Cosa farò da grande? Il futuro come lo vedono i nostri figli (Laterza, 15 euro), è uno psicoterapeuta di formazione psicoanalitica e docente all’Università Milano-Bicocca. Tutti i suoi libri sono dedicati all’adolescenza. «C’è un motivo certo dice per spiegare l’uso e l’abuso dell’alcol non individuale come dello spinello o delle droghe leggere», lasciando da parte il disagio individuale che non ha a che fare con le statistiche. Questo motivo è un «nuovo soggetto antropologico, il gruppo». Nel gruppo si definiscono gli obiettivi: «ridere, facilitare la comunicazione, la confusione che fa stare assieme». Stare assieme, non necessariamente stare bene assieme. «Si abbassa il livello del pudore, si stabilisce una maggiore confidenza che sembra amicizia, si ha così l’impressione di avere passato una bella serata».
La domanda meno ovvia da porsi, invece, è perché il gruppo sia diventato così importante nella vita degli adolescenti. La spiegazione dello psichiatra è che i ragazzi sono già «immersi nella gruppalità da 0 a 15 anni, nella vita con i coetanei dal nido alla scuola superiore non hanno solo compagnia» formano anche le loro categorie di fondo, «cosa è giusto e cosa è ingiusto, cosa è bello e cosa no». È in questa dimensione che nasce la dipendenza, la disponibilità anche a «fare sacrifici». È il gruppo che beve troppo, senza distinzione di maschi e femmine, infatti la percentuale delle ragazze che beve è più alta di quella delle donne adulte. Magari al singolo non piace tanto o non è convinto, ma insieme «si supera la solitudine, la malinconia, la noia». In una periferia degradata, una banda di maschi può scegliere la violenza o la droga pesante, fra i ragazzi del centro, di buona famiglia si usa «l’alcol o la droga leggera per ottenere un effetto stupefacente blando che ti fa superare il rischio di sentirti solo». E infatti l’abitudine del Binge Drinking è più diffusa fra chi va in discoteca oppure in occasione di concerti e di spettacoli sportivi. Si sbronza di più chi va a ballare o alla partita (18%) di chi non ci va (6%) e in questo caso l’adolescenza si prolunga fino ai 44 anni (però forse quel 6% che beve troppo da solo sta peggio di chi si ubriaca in gruppo, è una percentuale che potrebbe denunciare disagio individuale).
Il cambiamento del modello di consumo tradizionale, basato sulla consuetudine di bere durante i pasti, è particolarmente evidente fra le donne. Diminuisce infatti il numero delle consumatrici giornaliere da 5 a 4 milioni (l’ossessione delle diete), ma aumenta da 3,3 a 4,5 milioni quello delle donne che bevono fuori pasto. Il 90% delle giovani fra i 16 e i 29 anni beve così mentre sulla sbronza più o meno a digiuno incide per il 65% la fascia degli adolescenti.
Il fenomeno del Binge Drinking che fa assomigliare il comportamento dei ragazzi italiani a quello dei loro coetanei del Nord Europa è in crescita ma non ha scalzato le consuetudini: in testa ai consumi di alcolici c’è sempre il Nord Est seguito a ruota dall’Italia Nord occidentale, e il vino è la bevanda preferita. Questo fa dire all’Osservatorio giovani che l’Italia resta un paese in cui c’è «maturità nel rapporto con le bevande alcoliche», mentre Cia e Confagricoltura ricordano che è importante l’educazione a bere bene.

il Fatto 12.4.12
Il primario di Vendola
Il leader di Sel indagato per aver favorito una nomina al San Paolo di Bari. “Volevo il migliore”
di Antonio Massari


Quel concorso deve vincerlo Sardelli. Non ti preoccupare, ti copro io”: c’era chi, come Nichi Vendola, “istigava” a far vincere il migliore. E si ritrova indagato nello scandalo Sanità. E c’era chi, come Lea Cosentino, per far vincere il migliore doveva realizzare una “forzatura”. Il fatto più strano, poi, è che negli atti si legge: in quel concorso fu “omessa la nomina della commissione per la valutazione tecnica”. È davvero dura, in Puglia, la vita dei luminari della scienza. Prendiamo il caso del primario Paolo Sardelli. Dice Vendola che è “il migliore”, una “vera promessa della scienza medica”, che “l’'inchiesta non mette in dubbio le sue qualità”. Dice Lea Cosentino – ex direttore generale della Asl – che era il “più titolato” e per questo motivo vinse il concorso. Eppure, proprio per la nomina di Sardelli, Vendola è indagato per concorso in abuso d’ufficio con la Cosentino.
SEGNO che il caos, nella Sanità pugliese, è giunto al suo paradosso: un luminare della chirurgia, per diventare primario, dev’essere raccomandato dal Governatore. Non solo. Il punto è che, secondo l’accusa, è stata necessaria la “forzatura” di Vendola che, per Sardelli, chiese di riaprire un concorso ormai chiuso e rassicurò il direttore generale della Asl: “Ti copro io”. Il punto - stando all’accusa - è che a Sardelli fu “intenzionalmente provocato un ingiusto vantaggio patrimoniale”. E fu invece “arrecato una danno ingiusto a Luigi Cisternino, Achille Lococo e Gaetrano Napoli: forse non saranno più “titolati” di Sardelli, ma almeno, la domanda per diventare primario, l’avevano presentata nei tempi giusti. Riaperti i termini, invece, vinse il Sardelli “raccomandato” dal Governatore.
Ma in Puglia la “raccomandazione” - a voler sentire le giustificazioni di Vendola, ieri, in conferenza stampa - si trasforma in una sorta di atto dovuto: “L’unica mia raccomandazione era che vincesse il migliore. A questo concorso, come a tutti i concorsi, mi sono interessato perché fossero concorsi veri, che avessero una platea credibile di partecipanti, che potesse vincere il migliore. Chiunque, qualunque direttore generale sa che i miei unici interventi, rari, relativamente ai concorsi sono stati sempre mirati alla raccomandazione che potesse vincere il migliore. E l’indagine non mette in dubbio la qualità del professor Sardelli che non è coinvolto nell’indagine”. L’indagine mette a fuoco, però, il sistema che Lea Cosentino - nota anche come Lady Asl - ha descritto ai pm Desirée Di Geronimo e Francesco Bretone. E la Cosentino, che parla di una sorta di “manuale Cencelli” per lottizzare la Sanità, descrive la nomina di Sardelli come il frutto di una vera e propria “pressione”.
“Un’altra pressione - racconta Lady Asl - riguarda la nomina di un primario per l’unità operativa di chirurgia toracica del presidio ospedaliero San Paolo. Nel 2008 era andato in pensione il professor Carpagnano (…) Bandimmo il concorso, Vendola mi chiese di procedere velocemente e sponsorizzò la nomina di Sardelli al policlinico di Foggia, suo amico e secondo lui molto bravo”.
SARDELLI, però, non si candidò: “Espletai il concorso - continua la Cosentino - ma il dottor Sardelli non presentò la domanda, confidando di poter essere collocato presso il Di Venere (un altro ospedale, ndr) ”. Ma al Di Venere non fu bandito alcun concorso. Ed ecco come riprende il racconto della Cosentino: “Vendola mi chiese insistentemente di riaprire il concorso (all'ospedale San Paolo, ndr) per consentire al dottor Sardelli di parteciparvi. Io, a fronte di tali richieste, e nonostante fosse stata già composta la commissione, che non si era ancora riunita, riaprii i termini del concorso, anche se non ero d’accordo, con la scusa di consentire il massimo accesso a tutte le professionalità. Era chiaramente una forzatura ma Vendola mi disse di farlo perché mi avrebbe tutelata. Vinse il dottor Sardelli poiché era effettivamente il più titolato”. “L’ho licenziata – ribatte Vendola alle parole della Cosentino - ed è animata da risentimento nei miei confronti. Ci sono soltanto le sue parole: senza le sue frasi non si sarebbe potuto prefigurare un capo d’imputazione nei miei confronti”. Lady Asl raccontò alla procura anche il sistema della lottizzazione, a partire dal 2005, parlando di applicazione del “manuale Cencelli”: “Il manuale Cencelli si applicava in questo modo: quando una Asl andava in quota Ds con il direttore generale, poi il direttore amministrativo e il direttore sanitario dovevano essere di area o della Margherita, o socialista, o di Rifondazione e viceversa. Vendola e Tedesco ci chiamavano e ci dicevano chi nominare. Non conoscevamo le persone che nominavamo, né la loro professionalità, se non dai curricula”.

La Stampa 12.4.12
Vendola indagato “Favorito un primario”
Accusato da “Lady Asl”. L’ipotesi di reato: abuso di ufficio
di Carmine Festa


BARI Stavolta Nichi Vendola ha giocato d’anticipo. Ha convocato i giornalisti ieri pomeriggio per comunicare di aver ricevuto un avviso di conclusione delle indagini dalla Procura di Bari. L’ipotesi di reato per il governatore della Puglia è concorso in abuso d’ufficio. L’accusatrice è Lea Cosentino, indagata nello stesso procedimento. Vendola, secondo la Procura, avrebbe spinto per la nomina del professor Paolo Sardelli a primario di chirurgia toracica dell’ospedale San Paolo di Bari.
Vendola si difende. Prima di andare dai magistrati in Procura, il governatore della Puglia racconta la sua versione ai cronisti: «Mi dichiaro assolutamente sereno, come sempre in passato. Perché ogni mia azione è stata sempre improntata a garantire la trasparenza». E poi ha aggiunto: «L’accusa nasce solo e soltanto dalle dichiarazioni della dottoressa Lea Cosentino». Questo nome non è nuovo alle cronache giudiziarie baresi che riguardano gli scandali della sanità pugliese. Lea Cosentino, soprannominata «Lady Asl» è stata fino a poco tempo fa un potentissimo manager della sanità pugliese. Poi fu arrestata nell’ambito delle inchieste su Gianpi Tarantini e il suo «sistema» di corruzione dei medici in tutta la regione convinti - secondo l’accusa della Procura - ad acquistare protesi e apparecchiature mediche in cambio di regali e favori di ogni genere.
Lea Cosentino ora attacca Nichi Vendola. E nell’interrogatorio dell’8 aprile scorso ricostruisce i passaggi che poi ha tradotto in accuse: «Nel 2008 era andato in pensione il professor Carpagnano, molto bravo, e infatti quel presidio andava molto bene. Bandimmo il concorso e Vendola mi chiese di procedere velocemente e sponsorizzò la nomina del dottor Sardelli del Policlinico di Foggia, suo amico e, secondo lui, molto bravo». Poi Cosentino aggiunge: «Espletai il concorso ma il dottor Sardelli non presentò la domanda confidando di poter essere collocato presso il Di Venere (altro ospedale di Bari) in una istituenda unità complessa». E conclude: «Quando Sardelli appurò attraverso Francesco Manna (capo di gabinetto di Vendola) che l’unità non si sarebbe realizzata, Vendola mi chiese di insistentemente di riaprire il concorso per consentire al dottor Sardelli di parteciparvi». E quel concorso fu riaperto? Lea Cosentino ammette: «A fronte di tali richieste (...) lo riaprii».
Ed è proprio contro Lady Asl che Nichi Vendola si è scagliato ieri: «Cosentino asserisce che all’origine di questa mia veemente interferenza ci sarebbe la mia amicizia con il professor Paolo Sardelli, elemento questo che è già stato smentito nei mesi scorsi dal professor Sardelli che ho conosciuto per essere una vera promessa della scienza medica. Ma io a questo concorso, come a tutti i concorsi mi sono interessato nella misura di chiedere che fossero concorsi veri, che avessero una platea credibile di partecipanti e che potesse vincere il migliore».
I toni del presidente e leader di Sinistra Ecologia e Libertà tradiscono l’irritazione per essere finito ancora al centro di indagini giudiziarie sulla sanità pugliese. La prima volta fu nei primi mesi del 2009 quando - sempre per presunte pressioni per la nomina di un primario all’ospedale «Miulli» ad Acquaviva delle Fonti nel barese - Vendola fu iscritto nel registro degli indagati della procura di Bari. L’assessore in carica era il senatore Pd Alberto Tedesco, poi dimessosi dall’incarico in polemica con il Pd. Anche allora Vendola prese un’iniziativa che fece discutere. Prima dell’estate inviò una lettera aperta al magistrato Desirèe Digeronimo, accennando alla sua difesa, che poi sostenne durante l’interrogatorio in procura. La bufera giudiziaria sul governatore fu arricchita da intercettazioni telefoniche di colloqui tra lui e Tedesco nei quali - per l’accusa - proprio il presidente si sarebbe informato sulle nomine ospedaliere e avrebbe spinto qualche nome. L’inchiesta finì con l’archiviazione della posizione di Vendola.

Corriere della Sera 12.4.12
La chimera del rinnovamento Rai. I veti dei partiti vincono ancora
di Paolo Conti


Viale Mazzini, ovvero della Grande Rimozione Collettiva. Il Consiglio di amministrazione presieduto da Paolo Garimberti ha ormai girato la boa dei tre anni di incarico previsti dalla legge Gasparri, ha approvato il bilancio 2011 che l'assemblea degli azionisti (il ministero del Tesoro) licenzierà al più tardi l'8 maggio. Una storia finita, insomma. La massima azienda editoriale di questo Paese, lo strumento mediatico che continua a unire l'Italia avrebbe gran bisogno di vertici nuovi, motivati, intellettualmente preparati, doverosamente lontani da legami con la politica. E se li meriterebbe, poiché gran parte dei dipendenti è formata da professionisti appassionati e di ottimo livello.
E invece già si sopravvive nell'inevitabile morta gora di una proroga di fatto, con lo stanco rito di un Consiglio di amministrazione già convocato per giovedì 19 aprile: con la sicura prospettiva che nulla di editorialmente rilevante potrà essere varato. Perché è tutto fermo? Semplicemente perché nessuno parla più di Rai, nodo sul quale Pd e Pdl ancora confliggono. Mario Monti, l'8 gennaio, intervistato da Fabio Fazio in «Che tempo che fa», aveva promesso soluzioni «entro qualche settimana». Ma maggio è a un passo e i veti incrociati hanno per ora vinto. Il Pd è fermo sulla posizione del segretario Pier Luigi Bersani (non parteciperemo a un rinnovo dei vertici con la legge Gasparri). Il Pdl si è opposto fieramente a qualsiasi revisione dei criteri di nomina.
L'ultima voce di un ipotetico accordo risale al 20 marzo, quando si immaginò un Cda nominato con la Gasparri ma senza esponenti legati ai partiti. Poi, silenzio. La tv pubblica rischia di annegare nella melma creata dagli stessi partiti che, a colpi di facili slogan, per la Rai fantasticano un futuro solo manageriale. Ma così si rischia la paralisi. O si profila il ricorso a nomine dell'ultimo momento, in puro stile Primissima Repubblica, dettate dalla furia delle scadenze di legge e non da una doverosa strategia. Quanto di peggio per una Rai che avrebbe la massima urgenza di girare pagina, al passo con ciò che sta avvenendo nel Paese.

Corriere della Sera 12.4.12
Perché aumentano le diseguaglianze
di Francesco Saraceno


Caro direttore, i dati sui salari diffusi da Eurostat hanno suscitato un'accesa discussione sulla performance italiana rispetto agli altri Paesi europei. Il dibattito ha fatto ombra ad un altro aspetto dello studio, recentemente certificato anche dall'Ocse: la crisi ha esacerbato un trend decennale di aumento della diseguaglianza. L'allargamento della forbice ha preso forme diverse. In alcuni Paesi, ad impoverirsi sono state le classi medie, mentre in altri (la Cina) sono stati i poverissimi. Ma ovunque la redistribuzione ha avvantaggiato i ricchi e soprattutto i ricchissimi. Ci sono ovviamente molti motivi di ordine etico e sociale per preoccuparsi di una società dove le diseguaglianze crescono in maniera costante. Ma questo crea problemi anche dal punto di vista dell'economia. La tendenza verso una maggiore disparità è come un movimento carsico, che negli scorsi decenni ha reso più fragili le nostre economie, causando l'accumularsi di squilibri globali: eccesso di risparmio in alcuni Paesi (Germania, Est asiatico), ed eccesso di domanda in alcuni altri (Stati Uniti, periferia della zona euro). Il trasferimento di risorse da poveri e classi medie, che spendevano in consumi la quasi totalità del proprio reddito, a quelle più agiate, che invece ne risparmiano una parte consistente, ha avuto due effetti: da un lato la riduzione della propensione media al consumo, e conseguentemente una tendenza al ristagno della domanda aggregata; dall'altro, l'aumento del risparmio che ha alimentato bolle speculative in serie.
Come si spiega tuttavia che lo stesso fenomeno, un aumento della diseguaglianza e la conseguente compressione della domanda aggregata, abbia portato in alcune zone ad eccessi di risparmio, e in altre ad eccessi di domanda? La risposta va ricercata nell'interazione di questa tendenza, comune a tutti i Paesi, con le differenze istituzionali, e con le risposte di politica economica che hanno invece preso forme estremamente diverse. Negli Usa la diminuzione del reddito è stata compensata dal ricorso all'indebitamento privato, favorito da un sistema finanziario sempre meno regolamentato. Conseguentemente la domanda aggregata (consumi e investimenti) è rimasta elevata, ma ad alimentarla era il debito e non i redditi. In Europa, regole più restrittive e politiche monetarie meno accomodanti hanno reso più difficile il ricorso all'indebitamento per famiglie e imprese, mentre i consumi pubblici erano vincolati da Maastricht e dal Patto di Stabilità; il risultato è stato un lungo periodo di crescita inferiore al potenziale. Per due decenni, la scelta è quindi stata tra la Scilla di una crescita drogata dal debito, e la Cariddi di un'economia stagnante o quasi.
Per ritornare a una crescita più bilanciata occorre incidere sulle cause profonde della crisi e cominciare a ridurre le diseguaglianze, invertendo la tendenza degli ultimi tre decenni. Si dovrebbe agire su più fronti: innanzitutto tornando a sistemi di tassazione più progressivi. In secondo luogo, a livello europeo, con un reale coordinamento delle politiche di tassazione, volto ad evitare la concorrenza fiscale, che sovente prendono la forma di forti riduzioni d'imposta sui redditi elevati. Occorrerebbe poi tornare a sviluppare il ruolo assicurativo dello stato sociale, con particolare attenzione agli ammortizzatori sociali. Infine, sarebbe auspicabile una rinnovata attenzione all'offerta di beni pubblici, in particolare quelli immateriali, come l'istruzione e la sanità. Nel loro insieme, queste misure ridurrebbero le diseguaglianze di reddito e di consumo, stabilizzando il ciclo economico e consentendo una crescita forse meno elevata, ma certamente più sostenibile ed equa.
Senior economist Ofce, Centro
di ricerche in economia, Parigi

La Stampa 12.4.12
Grass: Israele usa con me i metodi della Ddr
Il Nobel tedesco replica alle autorità di Tel Aviv che l’hanno dichiarato “persona non gradita”
di Alessandro Alviani


Berlino. L’ ondata di critiche che si è abbattuta su quei suoi versi in cui definiva Israele «una minaccia per la pace nel mondo» non ha scalfito la vena polemica di Günter Grass. Anzi: lo scrittore premio Nobel per la Letteratura rilancia e lo fa con un paragone «politicamente scorretto» nell’odierna Repubblica federale. La reazione di Israele, che lo ha dichiarato persona non grata, ricorda i metodi tipici della Ddr, la defunta Germania dell’Est, e soprattutto della Stasi, l’onnipresente polizia segreta tedesco-orientale, ha scritto Grass sulla Süddeutsche Zeitung . Il ministro degli Interni israeliano Eli Yishai sullo stesso piano di Erich Mielke, il famigerato numero uno della Stasi? «Finora - argomenta Grass nel commento, intitolato “Allora come oggi” - mi è stato vietato per tre volte l’ingresso in un Paese. Ha cominciato la Ddr, su ordine di Mielke, che alcuni anni dopo annullò sì il divieto, ma ordinò di intensificare le misure di spionaggio nei miei confronti, classificandomi come un “elemento sovversivo” La seconda volta è stata nel 1986, quando la Birmania vietò l’ingresso a me e a mia moglie, ritenendo la nostra visita “indesiderata”». «In entrambi i casi è stata seguita la prassi tipica nelle dittature», nota Grass. «Adesso è il ministro degli Interni di una democrazia, lo Stato d’Israele, che mi punisce col divieto d’ingresso e la motivazione addotta per la misura coercitiva da lui ordinata ricorda - nei toni - il verdetto del ministro Mielke». «Tuttavia - continua - così non potrà di certo impedirmi di tener vivo il ricordo dei miei numerosi viaggi in Israele, un Paese a cui mi sento ancora inscindibilmente legato». La Ddr non c’è più, conclude Grass, ma il governo israeliano, in quanto potenza atomica di dimensioni incontrollate, si sente arbitrario e non ha recepito finora nessun richiamo. «Soltanto la Birmania lascia germogliare una piccola speranza», è la sua caustica chiusura.
Si tratta della prima reazione di Grass alla decisione di Israele di vietargli l’ingresso sul proprio territorio. Ed è una reazione destinata a riaccendere le polemiche che vanno avanti incessanti da mercoledì scorso, da quando, cioè, l’autore del Tamburo di latta ha pubblicato su alcuni quotidiani europei la poesia Quello che deve essere detto , in cui accusava Israele di rappresentare con la sua potenza nucleare un pericolo per la pace nel mondo, in quanto prepara un attacco preventivo contro l’Iran, e criticava la vendita a Gerusalemme, da parte della Germania, di sottomarini capaci di trasportare missili nucleari. Immediato lo scontro tra Grass, accusato di antisemitismo, e Israele che non solo ha chiesto di ritirargli il Nobel (pronto il no dell’Accademia svedese), ma gli ha anche chiuso la porta. Una mossa, quest’ultima, biasimata persino da quanti non condividono una virgola della poesia: Grass «non ha capito niente», tuttavia il bando deciso da Gerusalemme «non va bene, assolutamente no», ha detto a La Stampa lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua.
Intanto il neopresidente tedesco Joachim Gauck prepara la sua prima visita ufficiale in Israele, su invito di Shimon Peres. Il viaggio, che si terrà a breve, sarebbe stato concordato prima delle polemiche suscitate da Quello che deve essere detto . Sarà un’occasione per far posare il polverone sollevato «con l’ultimo inchiostro» dall’ottantaquattrenne Grass.

Corriere della Sera 12.4.12
«I vostri privilegi? Eccessivi La Cina non investa in Italia»
L'economista Xie: gli aiuti non risolvono i problemi
di Andy Xie


La crisi del debito in Europa si protrarrà probabilmente per diversi anni a venire. Le possibili soluzioni richiedono un significativo ridimensionamento del tenore di vita per molti Paesi dell'Europa meridionale e radicali riforme del suo mercato del lavoro. Entrambi questi obiettivi hanno come presupposto il consenso e la collaborazione di cittadini, al momento assenti. L'aiuto esterno, attraverso salvataggi o investimenti, non farà che prolungare la crisi, dal momento che fornisce ai politici gli strumenti per mantenere lo status quo.
La Cina non deve cadere in questa trappola, specialmente nel caso dell'Italia. La crisi del debito nella zona euro riguarda fondamentalmente l'Italia, non la Grecia. L'attuale premier, che pure sta facendo un buon lavoro, difficilmente riuscirà a cambiare la società italiana, poiché non è stato eletto. Gli investimenti esteri in Italia rischiano di essere una forma di beneficenza. I lavoratori locali metterebbero probabilmente sul lastrico gli ignari investitori stranieri. L'economia italiana è organizzata in modo tale da massimizzare i salari e minimizzare l'attività lavorativa. Gli investimenti funzionano solo nel caso degli enti locali con agganci politici. Il diritto di proprietà, una volta passato in mani straniere, rischia di perdere sostanza.
La zona euro non abbandonerà il suo modello economico da un giorno all'altro. La crisi del debito si manifesterà attraverso un'espansione monetaria per mantenere i tassi d'interesse reali negativi. Probabilmente gli investimenti esteri nei titoli di Stato della zona-euro registreranno perdite a causa del deprezzamento della moneta unica.
Gli aiuti all'Italia potrebbero favorire gli scambi commerciali cinesi. Ma i benefici indiretti sono troppo ridotti. Inoltre, l'aiuto esterno serve solo a posticipare il giorno della resa dei conti. A prescindere dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio Mario Monti, Cina non dovrebbe investire in Italia.
Partecipando a una conferenza in una città dell'Italia del Nord, le difficoltà dell'economia del Paese appaiono evidenti.
È affascinante osservare come un dipendente di una società di traghetti riesca a rallentare sistematicamente la vendita di biglietti a una lunga fila di turisti in attesa che guardano sbigottiti le imbarcazioni semivuote che partono lasciandoli a terra. Nelle stazioni ferroviarie e nei treni ad alta velocità i lavoratori in esubero sono la normalità. I problemi del settore pubblico in Italia sono simili a quelli sperimentati dalla Cina con le aziende a proprietà statale negli anni Novanta, ma molto più gravi.
In Italia il settore privato funziona meglio di quello pubblico, ma non più di tanto. Numerose attività appaiono soggette a restrizioni da parte del governo e dei sindacati. La risposta all'offerta è praticamente inesistente. L'economia italiana privilegia il tempo libero più di quanto avvenga in molti altri Paesi, come dimostra il settore del commercio al dettaglio. L'orientamento al mercato, in ogni caso, è decisamente più scarso di quanto dicano il governo e i sindacati. L'economia italiana è in stagnazione da circa dieci anni. E le leggi che vanno contro il mercato costituiscono un grave problema.
Con una deregolamentazione tale da rendere possibile una rapida risposta all'offerta, l'economia italiana potrebbe conoscere una crescita vivace e pluriennale. L'economia potrebbe crescere del 20-30% rispetto alle sue dimensioni attuali. Il debito pubblico italiano oggi è pari al 120% del Pil. Un incremento dell'efficienza permetterebbe di ripagarlo interamente in meno di dieci anni. L'inefficienza autoinflitta è sicuramente il più importante fattore all'origine della crisi italiana. È per questo che l'aiuto esterno non rappresenta in alcun modo la soluzione. Quest'ultimo serve solo a dare a economie in difficoltà gli strumenti per evitare di affrontare i propri problemi.
Una problema che incontro spesso in Europa è il nesso tra condizioni di lavoro e diritti umani. Il messaggio implicito è che la Cina fa concorrenza sleale negando ai suoi lavoratori i diritti umani fondamentali. Credo fermamente nei diritti umani e nella necessità di condizioni di lavoro dignitose. Ma dov'è che finiscono le condizioni di lavoro eque e cominciano le forze di mercato?
Limitare il potere di azione di altri individui sembra il principio cardine dell'attuale modello di giustizia europeo.
Il fatto che gli europei non possono limitare le ore di lavoro in altri Paesi è fonte per gli stessi di frustrazione. Lamentarsi delle condizioni di lavoro in Cina, per esempio, è diventato il modo più comune per giustificare le difficoltà economiche del Vecchio Continente. Le politiche europee che limitano le ore di lavoro equiparano gli esseri umani a specie a rischio come i panda. A ben vedere, molti europei sembrano comportarsi come questi animali, dal momento che considerano i privilegi alla stregua di diritti. La sindrome del panda è la causa di fondo della crisi del debito in Europa. Se questa forma mentis non verrà superata, la crisi della zona euro non accennerà a scomparire.
Andy Xie, Economista indipendente

La Stampa 12.4.12
Nadine Gordimer
Sudafrica, non ci resta che resistere
Nel nuovo romanzo la scrittrice racconta la difficile normalità nel suo Paese, nonostante la fine dell’apartheid
di Paolo Mastrolilli


La grande delusione Abbiamo la costituzione, lo Stato di diritto e molta più libertà. Però sarebbe ipocrita nascondere il 25% di disoccupazione, il gap crescente tra ricchi e poveri, la criminalità C’è la corruzione, di Zuma e di molti altri. Non mi aspettavo che il lusso e le spese pazze diventassero così importanti da renderci tanto materialisti Premio Nobel nel 1991 Nadine Gordimer ha 88 anni, essendo nata a Johannesburg il 20 novembre 1923. Ha vinto il Nobel per la letteratura nel 1991 e il Booker Prize nel 1974. In Italia i suoi romanzi sono pubblicati da Feltrinelli; in Usa, Gran Bretagna e Sudafrica è appena uscito l’ultimo, No Time Like The Present
E quando hai vinto, quando hai realizzato il sogno della tua vita, ma non somiglia a quello che avevi immaginato, cosa resta da fare? «Resistere», risponde senza esitazione Nadine Gordimer. «Abbiamo resistito durante gli anni dell’apartheid, continueremo a farlo adesso».
Raggiungiamo la premio Nobel per la letteratura al telefono nella sua casa di Johannesburg, perché in libreria è appena arrivato No Time Like The Present, il romanzo che vale un’esistenza. Racconta la storia di Steven Reed, bianco di madre ebrea, e Jabulile Gumede, nera e figlia di un pastore metodista, che si erano sposati nella clandestinità mentre lottavano contro l’apartheid, ma adesso faticano a godersi la normalità del Sudafrica liberato. Al punto che pensano di emigrare, in Australia.
«È una storia d’amore. Racconta il viaggio di una coppia, attraverso le difficoltà che si incontrano quando si passa da una vita eccezionale alla normalità».
Non è anche una metafora del Sudafrica di oggi?
«Certo, anche se non l’avevo pensato come un romanzo politico».
Lei ha mai considerato di emigrare?
«No, mai. Ho resistito alle difficoltà dell’apartheid, resisterò alla disillusione di oggi, proprio per cambiare le cose».
È delusa?
«Lo siamo tutti, era logico sperare in qualcosa di meglio».
Il Sudafrica è tornato in uno stato d’emergenza?
«Non come all’epoca dell’apartheid, perché adesso abbiamo una costituzione, lo Stato di diritto e molta più libertà. Però sarebbe ipocrita nascondere problemi come il 25% di disoccupazione, il gap crescente tra ricchi e poveri, le tensioni per l’immigrazione, la criminalità».
Perché siete finiti così?
«Mentre lottavano per la libertà, Steven e Jabulile non avevano avuto il tempo di pensare a come sarebbero state le loro vite, una volta ottenuto l’obiettivo. Così il Sudafrica, mentre combatteva contro l’apartheid, non poteva prevedere anche la necessità di fronteggiare l’emergenza di tre milioni di immigrati da un paese fallito come lo Zimbabwe. Però ci potevamo preparare meglio, e non è stato fatto».
Cosa l’ha delusa di più?
«La corruzione, del presidente Zuma e di molti altri. Capisco che abbiamo sofferto durante gli anni della lotta, e quindi adesso vogliamo tutti una vita più agiata, ma non mi aspettavo che il lusso e le spese pazze diventassero così importanti da renderci tanto materialisti».
L’African National Congress rischia di perdere la leadership del Paese?
«Sarebbe una tragedia. Mi auguro di no, anche perché non credo che i partiti di opposizione siano pronti. Però a dicembre avremo un grande congresso per scegliere il successore di Zuma: spero che riusciremo a individuare la persona giusta, altrimenti rischiamo di giocarci tutto».
È solo un problema di leadership?
«Camminare nelle orme di Nelson Mandela non era facile, bisognava aspettarsi un calo della qualità nella nostra dirigenza. Il problema, però, è soprattutto avviare in fretta le riforme di cui il Paese ha bisogno».
Lei quali vorrebbe?
«Io credo che tutto sia riconducibile alla povertà, alla promessa mancata di offrire a ognuno pari opportunità. Quando non hai da mangiare, quando devi lottare per la sopravvivenza, tutto diventa più difficile e violento».
Come si combatte la povertà in Sudafrica?
«Cominciamo eliminando la corruzione, perché vedere vecchi leader rivoluzionari che navigano nel lusso non aiuta il Paese. Poi bisogna dare opportunità a tutti: sul piano legale l’eguaglianza esiste, ma se non c’è un sistema scolastico adeguato a far crescere ogni segmento della popolazione, il problema non si risolve. Del resto abbiamo bisogno proprio di lavoratori specializzati, per rilanciare la nostra economia, e quindi questo diventa un cane che si morde la coda».
Nel 2006 lei è stata assalita dai rapinatori in casa sua: da cosa dipende questa esplosione della criminalità?
«Dalla povertà, ancora una volta. È un problema che si risolve solo creando lavoro, non costruendo prigioni».
Anche i milioni di immigrati che arrivano dallo Zimbabwe e da altri Paesi africani sono un’emergenza, ma lei non vuole usare a parola «xenofobia» per descrivere la reazione dei sudafricani. Perché?
«È un errore parlare di fobia verso lo straniero, il diverso, perché non siamo diversi. Gli immigrati che provocano tanta tensione, portando via il lavoro ai sudafricani, vengono dal nostro continente, hanno lo stesso colore della pelle, e purtroppo hanno alle spalle lo stesso problema che ora minaccia anche noi: Stati falliti, incapaci di garantire la loro sopravvivenza. Paradossalmente, sono le nostre similitudini che ci allontano, non le diversità».
Nel romanzo Steven è ebreo e Jabulile cristiana: ora vi divide anche la religione, oltre al colore della pelle?
«Ma il loro credo comune era la libertà. Quello ha fallito. E non si riaggiusta il Paese, se non troviamo il modo di mantenere le promesse della rivoluzione».
Lei ha ottantotto anni e parla di resistere. Dove la trova la forza?
«Questa è la mia vita. Voi europei, però, andateci piano con i giudizi. Noi siamo liberi da 19 anni, nemmeno una generazione. Siamo partiti senza istituzioni democratiche, senza cultura, con una popolazione nera abbandonata e estremamente arretrata. Era irrealistico aspettarsi un pieno successo, con opportunità uguali per tutti, in così poco tempo. Ma anche voi europei, per quanto io ami l’Italia, siete affogati nella corruzione e nella crisi economica. Non cerco scuse, ma ho le mie ragioni per resistere».

Corriere della Sera 12.4.12
I segreti dei grandi maestri: gesti, sguardi, telepatia
Gergiev: meglio senza bacchetta. Maazel «psicologico»
di Matteo Persivale


Tecnicamente, i gesti della mano tramite i quali è possibile dirigere un'orchestra sono semplici, al punto che per impararli basta studiare una semplice brochure (o, in questi tempi tecnologici, guardare un corso apposito sui video di YouTube). Ma è come dire che basta passare l'esame della patente B per essere in grado di vincere un Gran Premio di Formula 1: per arrivare sul podio di una sala da concerto o di un teatro d'opera ci vogliono talento, sensibilità d'interprete, la determinazione di una vita di studio e un fattore misterioso, difficilmente definibile anche da parte degli stessi direttori. Per cercare di dare una risposta giocosa a questo quesito impossibile da risolvere — qual è il segreto dei grandi direttori? — il New York Times ha appena fatto un esperimento.
Con uno scanner speciale, ha provato a registrare i movimenti delle braccia di Alan Gilbert, direttore musicale della gloriosa filarmonica newyorchese, cercando di scomporre ogni gesto di una sua performance e carpirne i segreti. E il giornale ha intervistato un gruppo di direttori d'orchestra tra quelli che più spesso dirigono in città tra Metropolitan Opera e New York Philharmonic: Gilbert, Yannick Nézet-Séguin, Valery Gergiev, Xian Zhang, James Conlon.
Il russo Gergiev, che non usa quasi mai la bacchetta, ha spiegato che «la parte più difficile del dirigere un'orchestra è farla cantare: è qui che c'è bisogno di usare entrambe le mani. Per aiutare gli strumenti a cantare». Usare la bacchetta, secondo Gergiev, «non aiuta il suono». E secondo Nézet-Séguin, altrettanto importanti sono gli occhi del direttore: «È come se la mia faccia cantasse insieme con la musica».
D'accordo anche Zhang, direttore musicale dell'Orchestra Verdi di Milano, una delle pochissime donne in quello che rimane un «club» quasi esclusivamente maschile, quello dei direttori al top della professione: «Gli occhi sono la parte del corpo più importante in assoluto quando si dirige un'orchestra. Gli occhi dovrebbero essere quelli che rivelano nel modo più chiaro l'intento del direttore. Mostrano quello che noi direttori sentiamo dentro». Uno dei trucchi del mestiere, confermano Gergiev e Nézet-Séguin, è quello di non scambiare sguardi soltanto con le prime parti dell'orchestra ma anche con i professori nelle file più lontane dal podio: «Così li fai sentire parte del gioco», conferma Nézet-Séguin. E Gergiev: «Se guardo un musicista, vuol dire che mi interesso a lui. E questo lo fa interessare a me. In tutto quel che faccio, cerco di affidarmi all'espressione e al contatto visivo». Ma davvero l'essenza del mestiere — Riccardo Muti ama ripetere il paradosso per il quale «il direttore deve fare musica pur essendo l'unico a non suonare uno strumento» — resta impossibile da scansionare con un computer o spiegare a un cronista: una delle lezioni più importanti che Zhang ha imparato dal suo maestro, Lorin Maazel, è la telepatia. «Una proiezione mentale, un'immagine mentale del suono che si vuole produrre. È la mente a dirigere le mani».
Specialmente se si considera come i più grandi di sempre abbiano quasi costantemente infranto le regole classiche raccomandate dai libri di testo: Hans von Bülow, il primo direttore superstar della storia (e primo marito di Cosima Wagner) utilizzava il podio durante le prove per fare criptici commenti su letteratura e politica apparentemente privi di legami con la composizione che stava dirigendo. Herbert von Karajan dirigeva spessissimo a occhi chiusi (e addio contatto tra sguardi). I bizzarri movimenti sul podio del corpo di Wilhelm Furtwängler, un altro dei sommi, idolo di Claudio Abbado e primo maestro di Daniel Barenboim, vennero paragonati da un celebre violinista agli «spasmi di un burattino». Carlo Maria Giulini aveva l'abitudine di sillabare la melodia con le labbra, cosa sconsigliata da qualunque insegnante in Conservatorio.
Computer a parte, un dato curioso è che tra i direttori d'orchestra ci sono diverse abitudini (dirigono con o senza bacchetta; con o senza un forte coinvolgimento della mano che non tiene la bacchetta per articolare le dinamiche) ma un dato costante. Dirigono praticamente tutti con la mano destra (quella che, bacchetta o no, segna i tempi). Nella serie A globale del podio ce n'è uno soltanto, lo scozzese Donald Runnicles, che tiene la bacchetta nella sinistra. Perché anche i direttori mancini — a parte Runnicles — sanno che i professori d'orchestra sono abituati a guardare soprattutto quella mano, dominante. Così tanti direttori mancini tengono la bacchetta nella destra, per tradizione, per facilitare i professori e anche perché in Conservatorio gli è stato consigliato così. Runnicles invece rovescia in senso speculare lo schieramento di tutta l'orchestra. Per chiarire prima ancora del suo ingresso in sala chi comanda.