lunedì 16 aprile 2012

l’Unità 16.4.12
«Da Monasterace passa il riscatto del Meridione...»
La convenienza della legalità
di Antonio Ingroia


Il 2012 è un anno simbolico e carico di aspettative. Simbolico perché denso di anniversari fatidici per la nostra storia. Perché si ricorda la morte, trent’anni fa, di un uomo politico come Pio La Torre che, fra i primi, aveva ben chiaro che la politica dovesse fare della lotta alla mafia la sua priorità.
E dovesse farlo non delegando alla magistratura impropri compiti di supplenza, ma nel contempo fornendole strumenti idonei per colpire della mafia la struttura militare e le risorse economiche. E si ricorda, dello stesso 1982, la lezione istituzionale e culturale di un uomo dello Stato rimasto troppo solo come il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ed è anno cruciale perché si deve ricordare il ventennale dello stragismo corleonese esploso a Palermo, momento tragico della nostra storia che diede luogo tuttavia a una stagione di impegno e di riscatto.
Da allora non c’è dubbio che la lotta alla mafia ha fatto molti passi avanti, sia sul piano dei risultati repressivi che su quello della sensibilizzazione di settori sempre più ampi dell’opinione pubblica. Ma perché, oggi, sebbene sia fortemente calato il tasso di impunità dei boss mafiosi, tanto che i latitanti più pericolosi si contano sulle punte delle dita di una sola mano, e nonostante l’imponenza dei patrimoni illeciti confiscati dallo Stato, le mafie non sono affatto sul viale del tramonto? Per una ragione molto semplice. Per aver dimostrato, ancora una volta, una straordinaria capacità di adattamento. L’esperienza della reazione repressiva post-stragista ha indotto il sistema criminale mafioso a mutare strategia, ed ecco come si spiega l’inabissamento che ha comportato la tregua armata, e nel contempo l’investimento di tutte le energie criminali nella finanziarizzazione del fenomeno e nell’espansione dell’economia mafiosa che ha avviato un processo di colonizzazione del Nord e di penetrazione e integrazione nell’economia delle regioni più ricche, che può definirsi come forma di mafiosizzazione del Paese. Mafiosizzazione, che ha trovato terreno fertile nella scarsa diffusione della cultura della legalità nei piani alti della società italiana, che si rivela nella capillarità di un sistema corruttivo, pubblico e privato, senza precedenti nella nostra storia.
E l’antimafia? L’antimafia non ha fatto tesoro di una delle lezioni fondamentali lasciata dai maestri il cui anniversario della morte si ricorda proprio in questi mesi: saper analizzare le evoluzioni del fenomeno ed elaborare nuove strategie. Contro una mafia che militarmente è in tregua non può più bastare l’antimafia della repressione. Contro una mafia che cerca convivenza occorre opporre una strategia della convenienza dell’antimafia. Che significa antimafia della convenienza? Significa voltare pagina. Significa stimolare gli operatori economici a prendere le distanze dalla tentazione di integrarsi con i processi illegali della mafia e della corruzione. Significa premiarli con meccanismi come il rating antimafia proposto da Antonello Montante. Significa essere consapevoli che il più importante fattore di crescita, di cui ha bisogno l’economia nazionale in questo grave momento di crisi, è la crescita del tasso di legalità del Paese.
Elevare il tasso di legalità nel mondo dell’economia premiando le imprese che agiscono dentro le regole significa, infatti, metterle nelle condizioni di non essere svantaggiate rispetto a quelle che dalle relazioni privilegiate col sistema criminale della mafia e della corruzione traggono benefici. Significa ristabilire sani principi di competitività e di correttezza, ripristinare le regole del libero mercato e consentire alle aziende davvero valide e sane ad affermarsi ed emarginare le imprese che finora occultano la loro debolezza aziendale sopravvivendo ed ingrassando solo per la carica di illegalità di cui si avvalgono, che costituisce la zavorra del nostro sistema economico e quindi ne impedisce la crescita. Crescita, peraltro, che è ostacolata anche dall’immagine negativa che l’Italia si è conquistata nel mondo. Certo è che un Paese con un tasso di illegalità così alto, con una presenza così diffusa sull’intero territorio nazionale di un’economia mafiosa e di un sistema di corruzione privata e pubblica così capillarmente diffuso, e con una giustizia così lenta e poco efficiente, non può che scoraggiare qualsiasi operatore economico straniero ad investire.
Se vogliamo riscattare la nostra immagine internazionale, che negli ultimi anni si è offuscata, non abbiamo altra strada che quella di dimostrare una seria volontà, con risultati effettivi, di liberarci del peso delle mafie e della corruzione. E per fare questo occorre una vera ed efficace riforma della giustizia, e della legislazione antimafia e anticorruzione, per rendere davvero conveniente la legalità. Proporsi nel mondo come modello di legalità. Nella storia più nobile del nostro Paese abbiamo uomini riconosciuti nel mondo proprio come modelli di riferimento. Un patrimonio ideale ed etico al quale abbiamo il dovere di attingere per progettare e costruire un Italia migliore, nel segno della convenienza della legalità.

l’Unità 16.4.12
Il leader Pd contro gli «apprendisti stregoni. La politica non si finanzia battendo cassa ai banchieri»
Sui rimborsi: dimezzati dal 2015, saranno meno che in Francia e Germania. Subito legge sulla trasparenza
«La demagogia uccide il Paese»
Bersani, allarme antipolitica
di Andrea Carugati


Bersani «controcorrente» sui soldi ai partiti. «Ricordo che dal 2015 saranno dimezzati. Si può fare di più, ma basta con la demagogia. Se non contrastiamo l’antipolitica ci spazzerà via tutti».

«Abbiamo in giro molti apprendisti stregoni che sollevano un vento cattivo. Se c’è qualcuno che pensa di stare al riparo dall’antipolitica si sbaglia alla grande. Se non la contrastiamo, spazza via tutti».
Pier Luigi Bersani insiste. «Controcorrente», come ammette lui stesso ai microfoni di Tgcom 24, nel difendere l’ossatura della democrazia rappresentativa dallo tsunami dell’antipolitica che, anche grazie ai recenti scandali Lusi e Lega Nord, ha portato la fiducia nei partiti al 2% e quella nel Parlamento all’11%.
Numeri da far impallidire. E il leader Pd ci prova a rovesciare questo senso comune. Come? Bersani ricorda che, con le norme vigenti, dal 2015 i rimborsi ai partiti passeranno dai 285 milioni del 2008 a 145. «È un dimezzamento, saranno meno che in Francia e Germania. Per me va bene fare ancora di più, ma se non mettiamo tutti un argine a questa ondata di antipolitica non basterà neanche questo». «Ad una politica che si finanzi andando a battere cassa a grandi manager e banchieri io dico no e poi no», ribadisce il leader Pd.
La strada è questa: subito una legge per la trasparenza e i controlli sui fondi e il rinvio della tranche da 100 milioni di cui si sta discutendo. E, nel giro di due mesi, nuove norme che ridisegnino il meccanismo dei finanziamenti. «Non accetto che il mio Paese muoia di demagogia», insiste Bersani. Perché l’Italia soffre più degli altri grandi europei, per il combinato disposto della crisi economica e della «crisi politica più grave dal 1992». «In Francia e Germania non c’è questo discredito della politica, nato con Tangentopoli e aggravato dagli anni di populismo di Berlusconi».
Anche Vendola batte sugli stessi tasti. «La politica non la possono fare soltanto i ricchi e i faccendieri.
Dopo il 1992 l’onda dell’antipolitica ha prodotto Berlusconi. Non si può fare a meno del finanziamento ai partiti, quello che è insopportabile è il suo carattere faraonico». Il leader di Sel chiede che «un tetto per legge alle spese per le campagne elettorali», e trasparenza sulle erogazioni dai privati «dai 5mila euro in su». E boccia la bozza di accordo tra Pd, Pdl e Udc: «Non affronta l’emergenza con radicalità».
NO AL VOTO IN OTTOBRE
«No alle elezioni anticipate ad ottobre», dice Bersani. «Non abbiamo bisogno di destabilizzazione». E quando ci si arriverà, nella primavera 2013, «noi non metteremo sul simbolo il nome del leader». Sì invece all’indicazione pubblica del candidato premier, fatta da un partito o da una coalizione. Lo schema per il 2013 non cambia: «Ho in testa sia un patto di legislatura con le forse di centrosinistra ma che guardi anche alle forze centriste. Un patto che ci porti fuori dal populismo», spiega il leader Pd. Un’alleanza che metta insieme «pezzi di diverse foto», quella di Vasto con Vendola e quella di palazzo Chigi con Casini.
Per il momento, bastano le amministrative e le presidenziali francesi. «Se ci sarà uno spostamento a sinistra, faremo sentire la nostra voce, magari con i francesi, perché non si aspettino le elezioni tedesche del 2013 per correggere la politica europea». «Miracoli non ne fa nessuno», insiste Bersani. «Se l'Europa non trova una politica che metta l’austerità in compagnia con gli investimenti, la crescita e l’alleggerimento di un po’ di debito a carico della finanza, non si va da nessuna parte».
Il bipolarismo non si tocca, quello c’è, come dimostrano anche i vertici di questa strana maggioranza dove «con Alfano non mi trovo d’accordo su molte cose». Domani, con Monti, Bersani insisterà sulla crescita. «Porteremo una qualche idea per dare un minimo di dinamismo all'attività economica».
Sulla riforma del lavoro, sì a qualche «aggiustamento», ma barra dritta sull’articolo 18, nonostante le proteste di Confindustria. «Non c’è nessun arroccamento sul passato. Io ho solo ribadito un principio: in ultima analisi il posto di lavoro non può essere solamente monetizzato. Non è una questione sindacale ma morale e civile».
Il Pd non molla la presa neppure sui cosiddetti esodati. «Non è possibile che un lavoratore perda l’occupazione, non abbia pensione e non goda di un ammortizzatore sociale», insiste Bersani. «In giro per l’Italia incontro pensionati, o gente che doveva andare in pensione, lavoratori, piccoli imprenditori: sono in ansia. C’è un bisogno estremo di riconciliare questo popolo con la politica. La gente capisce quello che stiamo facendo per fronteggiare l’emergenza, ma la cura è dura...».

l’Unità 16.4.12
Lezioni americane: vince chi spende di più (Con poca trasparenza)
di Marina Mastroluca


Con i Super Pac salta il tetto dei fondi privati ai candidati Tra i repubblicani Romney ha potuto usufruire di risorse nove volte superiori rispetto a Santorum, costretto a ritirarsi

Citizens United. Sotto questo nome si sta consumando negli Stati Uniti un crimine contro la democrazia, celato dietro la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che nel gennaio del 2010 ha sciolto le briglie ai finanziamenti elettorali decretando il diritto di imprese, individui e sindacati a sostenere un candidato. Di fatto senza limiti. Dal tetto di 2500 dollari imposto a chi versa fondi direttamente al candidato si è saltati nell’universo a zeri infiniti dei Super Pac, i comitati d’azione politica, che non hanno obblighi di trasparenza. Basta solo salvare la forma: ufficialmente questi collettori di denaro privato non possono coordinarsi con la campagna del singolo candidato, un vincolo facilmente aggirabile. È così che la campagna per le presidenziali Usa si annuncia come la più costosa della storia, da far impallidire quella del 2008, quando Obama arrivò alla Casa Bianca scortato da quasi un miliardo di dollari di spese elettorali. Tutti soldi privati, perché l’allora senatore dell’Illinois a differenza di McCain rinunciò ai finanziamenti pubblici, che impongono tetti di raccolta e controlli severissimi.
Molti piccoli versamenti, una campagna dal basso: era stata questa la ricetta di Obama allora e avrebbe voluto esserlo anche in questa tornata. In mezzo però c’è la sentenza della Corte Suprema che ha dato via libera ai grandi capitali. «Una grande vittoria per le compagnie petrolifere, le banche di Wall Street, le compagnie assicurative e altre potenti lobby che ogni giorno cercano di soffocare la voce degli americani comuni», così l’aveva definita Obama. E gli assaggi della campagna elettorale, anticipati dalla gara feroce per la nomination repubblicana lo confermano.
Mitt Romney sarà pure uno che non sa fare battute. Se è in pole position per sfidare Obama è per quel mucchio di denaro che si ritrova per le mani. Il suo superPac, Restore Our Future, ha raccolto 43,2 milioni di dollari, eclissando i suoi più diretti avversari. Gingrich si è fermato a 18,9, in larga parte donati dal boss dei casinò di Las Vegas, Sheldon Adelson e famiglia. L’ultra-conservatore Rick Santorum, appena uscito di scena, ha messo insieme 5,8 milioni di dollari, anche lui grazie ad un paio di sostenitori che hanno versato il grosso.
Una differenza abissale, che annunciava già la nomination per Romney, in base all’assunto sempre più vero che vince chi ha più da spendere. È successo per Obama nel 2008, si è ripetuto alle elezioni di mezzo termine nel 2010. Ma se la nomination repubblicana è andata avanti con l’andazzo di una fiction, i colpi di scena smentiti alla puntata successiva, è stato per quel fiume di denaro messo nelle tasche dei candidati.
Senza un superPac alle spalle, Winning our future, nemmeno una vecchia volpe come Gingrich, abile nei dibattiti tv, sarebbe riuscito a battere il favorito Mitt in South Carolina. Ce l’ha fatta grazie agli spot negativi per un conto da 1,6 milioni di dollari. Romney aveva speso di più, è vero 2,3 milioni ma anche collezionato una figura da imbranato davanti alle telecamere proprio a ridosso del voto. Tutto dimenticato al passaggio successivo in Florida, grazie a 5 milioni spesi in messaggi tv, venti volte più di quanto potessero permettersi i suoi avversari. Santorum ha provato a stargli dietro, ma sempre in affanno. In Tennessee ha speso 160.000 dollari di spot contro i 947.000 di Romney, in Alabama e Mississippi ogni voto gli è costato 1,93 dollari, contro i 9 abbondanti spesi dall’altro: ha vinto ma ha dovuto spartire la torta dei delegati.
La potenza di fuoco dei superPac è negli spot televisivi: più 1600% rispetto alle precedenti presidenziali. Messaggi denigratori o volutamente ambigui e insinuanti: è la tv a fare la differenza, prendendo il posto del porta a porta, della mobilitazione di quartiere. La differenza si vede nella partecipazione alle primarie: in netto calo, un po’ per il disamore di veder scorrere il sangue tra esponenti dello stesso partito. Un po’ anche perché ci si comincia a chiedere se alla fine della fiera, non sia la democrazia Usa a uscirne devastata.
Dietro ai superPac c’è una manciata di persone. Romney ha tirato su 10 milioni solo da 10 persone, la media delle donazioni al suo Restore Our Future viaggia sui 25.000 dollari. Piace a Wall Street, non è una sorpresa, per lui aprono il portafoglio finanzieri, assicurazioni, imprese immobiliari. Ma il discorso vale per tutti. Il 79,4 per cento dei fondi finiti nelle casse dei 426 superPac entrati nella gara elettorale, per un totale di oltre 170 milioni di dollari raccolti finora, arriva da 100 grandi donatori. Qualcosa che assomiglia molto all’1% di cui parlano quelli di Occupy Wall Street. La partita è diventata preoccupante anche per Obama, che pure risulta in testa alla raccolta fondi per la sua campagna, con oltre 157 milioni di dollari. Il superPac che lo sostiene, Priorities Usa Action, ha raccolto appena 6,5 milioni di dollari. E il gap, ora che il campo repubblicano si restringe a Romney, è destinato a crescere. L’idea di rafforzare il proprio superPac non piace ai democratici, più inclini all’azione dal basso, ma lo scenario intravisto degli strateghi della campagna è che Romney di qui a novembre possa spendere 1,6 miliardi di dollari, il doppio di quanto mai potrebbe avere a disposizione Obama. Forse un calcolo sbagliato, il Center for responsive politics fa un’altra previsione: repubblicani e democratici potrebbero arrivare a 6 miliardi di dollari per parte, contro un totale di 2,9 spesi nel 2008. E allora la domanda vera sarà: chi comprerà la Casa Bianca?

l’Unità 16.4.12
Il 50% non sa chi votare
Una cappa di incertezza sulle prossime elezioni
di Carlo Buttaroni


Nelle intenzioni di voto la Lega perde quota, il Pd resta il primo partito Parziale recupero del Pdl che sale insieme al movimento di Beppe Grillo Ma il vero tema è la crescente sfiducia, combinata a un disorientamento
Preferenze in calo. Mai così alto il non voto Però non è detto che saranno tutte astensioni

Le inchieste che vedono protagonista la Lega hanno avuto un inevitabile rimbalzo in termini di consenso elettorale. In complesso diminuisce, rispetto a marzo, la quota di chi dichiara il voto a un partito (dal 53,9% al 51,8%) e tra questi ultimi le variazioni più significative riguardano proprio la Lega (-3%). Sempre in termini relativi (sulle intenzione di voto) la rilevazione registra, rispetto a un mese fa, un recupero del Pdl (+1%) una crescita del Movimento 5 stelle (+1%), una tenuta del Pd che si conferma comunque primo partito e un calo di Sel (-1%), investito anch’esso da un’inchiesta giudiziaria che coinvolge il suo leader.
Complessivamente, i partiti che siedono alla Camera dei deputati fanno registrare il 30% in meno dei consensi ottenuti nel 2008 e l’attuale maggioranza che sostiene il governo Monti Pd, Pdl e Terzo polo oggi sarebbe votata soltanto da tre elettori su dieci (ovviamente tenendo conto dei cinque che non dichiarano preferenze).
Centrodestra e centrosinistra, che a livello locale rappresentano ancora due campi politici contrapposti e si confronteranno alle amministrative oggi raccolgono (almeno nei sondaggi) circa il 38% del corpo elettorale contro il 70% delle elezioni 2008. Alla crescita dell’area del non voto e di quella contigua dell’incertezza ormai vicine al 50%, si accompagna l’aumento dei consensi al Movimento 5 stelle. Il partito di Beppe Grillo, rispetto a un mese fa, incrementa in termini assoluti dello 0,4% e si attesta al 6% nelle stime di voto. Il Terzo polo (Udc, Fli e Api) aumenta i consensi ma non si afferma come alternativa autonoma e autosufficiente.
I flussi elettorali si dispongono prevalentemente verso l’area del non voto ed è impossibile prevedere cosa accadrà il giorno delle elezioni. Astensionisti e incerti rappresentano il principale contenitore e un ritorno nel perimetro della partecipazione elettorale da parte di coloro che oggi non scelgono alcuna forza politica anche limitato a chi aveva votato alle precedenti politiche cambierebbe la geografia politica che emerge, oggi, dai sondaggi.
Il quadro riflette una crisi profonda del sistema che sembra procedere con la crisi economica e sociale. Il problema non è solo quello di una democrazia senza consenso, come sembra prefigurarsi dallo scenario attuale, ma semmai di un sistema democratico senza partiti, come punto estremo di ricaduta della «tempesta perfetta» che ha investito il Paese.
Il rischio è che l’eccesso di tecnicismo si sposi con il deficit di politica, facendo perdere di vista la necessità di non limitarsi a riforme economiche. Incrociare la ripresa potrebbe non essere sufficiente se questa non è accompagnata da una crescita della capacità di governo dei processi e da un maggiore protagonismo politico dei cittadini. E occorre anche avviare una reale riforma del sistema dei partiti in grado di riavvicinarli ai contesti dove i processi economici maturano.
La risposta all’ingovernabilità, iniziata negli anni Novanta, è passata attraverso trasformazioni profonde: da attori principali della democrazia rappresentativa, i partiti si sono avvicinati alle istituzioni e allontanati dalla società civile, riducendo la loro capacità di funzionare come promotori d’identità collettive che portassero all’interno delle istituzioni le crescenti domande sociali. Risultato: i partiti ono, oggi, ormai privi delle reti organizzative indispensabili a trasformare la protesta in domande. E, conseguentemente, le domande in proposte.
Allo stesso tempo i partiti hanno visto sensibilmente ridotto il raggio d’azione mentre è cresciuto, contestualmente, il peso dei decisori tecnici. A tutto questo si è aggiunta la drammatica riduzione delle risorse pubbliche alle quali attingere per rispondere ai bisogni crescenti della società. Su questo si profila la sfida più difficile, perché il sistema si sta disponendo verso una democrazia senza crescita economica.
Questo non significa che la democrazia non ha più bisogno dei partiti. Semmai è vero il contrario: la democrazia, oggi, ha ancora più bisogno dei partiti perché la crisi impone di dare risposte forti alle domande che nascono da spinte inevitabilmente divergenti, proprio in forza della crisi. E una democrazia che sceglie e decide può farlo solo se i partiti sono in grado di articolare, convogliare e orientare le istanze della società intorno a un progetto.
Ma per dare forza ai partiti occorrono riforme strutturali, capaci anche di contrapporsi alla spinta anti-partitica che cresce nell’opinione pubblica. Per fare questo i partiti devono recuperare credibilità con scelte che evitino ogni fraintendimento rispetto alla conservazione di irritanti e anacronistici privilegi che li fanno apparire rinchiusi in un fortino assediato.
Devono avere il coraggio di rompere i cerchi magici e rinnovarsi al loro interno, aprendosi a processi democratici reali e avviando un vero ricambio di leadership, anziché un giro di poltrone e d’incarichi. Devono, infine, evitare quelle farsesche e ipocrite rappresentazioni dove, pur di assecondare un’opinione pubblica delusa e sfiduciata, si mettono a gridare sotto i balconi delle stanze che occupano.
Servono scelte coraggiose. A cominciare da quelle che stanno, proprio in questi giorni, sui tavoli istituzionali: la riforma elettorale e quella sul finanziamento pubblico dei partiti. La legge elettorale deve restituire ai cittadini il potere di scegliere la rappresentanza politica, facoltà sottratta con il «Porcellum» che ha assegnato, di fatto, alle leadership di partito il potere di decidere a tavolino chi sarebbe diventato parlamentare.
La riforma del finanziamento pubblico ai partiti è una sorta di preambolo, che deve andare nella direzione di favorire la partecipazione politica, evitando che si possa fare un uso improprio di risorse pubbliche. Ma nel fare questo è indispensabile recuperare il profilo che l’articolo 49 della Costituzione assegna ai partiti, stabilendo che devono essere associazioni aperte e democraticamente organizzate al loro interno, perché «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». E affinché sia realmente giustificato, il finanziamento deve essere accompagnato da una legge che garantisca una cornice entro cui i partiti possano operare con trasparenza.
Una legge che in 66 anni di storia repubblicana non si è mai riusciti a fare. Ma è il momento di scelte coraggiose. Forse anche impopolari, dopo le vicende che hanno riguardato la Lega e prima ancora l’ex tesoriere della Margherita. Aver trasformato il finanziamento della politica in rimborsi elettorali è stata un’ipocrisia, una presa in giro al buon senso, e la strada non può essere più quella. I partiti devono assumersi la responsabilità di dire che la democrazia e la politica hanno un costo. E che finanziarla assicura il funzionamento dei processi democratici, come avviene, direttamente o indirettamente, in tutti i Paesi democratici e civili.

l’Unità 16.4.12
Salvini: era credibile il pentito della strage
di Jolanda Bufalini


Il gip che indagò sull’eversione nera in Lombardia:
«La confessione di Tramonte su Piazza della Loggia è veritiera. C’erano anche riscontri»

Il «Contesto», come lo chiama evocando Leonardo Sciascia, Manlio Milani, il presidente del comitato delle vittime della strage del 28 maggio 1974, è per Guido Salvini, chiaro: «Piazza della Loggia è un momento della strategia nera di Ordine Nuovo». Questa certezza, che «deve spingere a cercare ancora la verità» è «l’enorme risultato di conoscenza portato dalle indagini di Milano e di Brescia, al di là degli esiti giudiziari».
Esiti tuttavia deludenti, dottor Salvini? «Non si polemizza con le sentenze», però «sono stupefatto», dice il magistrato che, fra la fine degli anni Ottanta e i Novanta, riaprì le inchieste sulla eversione nera e su piazza Fontana. «Stupefatto» a proposito della decisione dei giudici della corte d’assise d’appello di Brescia, che ha mandato assolti il medico veneziano Carlo Maria Maggi, capo di Ordine Nuovo nel Veneto degli anni Sessanta e Settanta, dell'ex ordinovista Delfo Zorzi, dell'ex collaboratore del Sid, Maurizio Tramonte e del generale dei carabinieri Francesco Delfino, nei giorni dell'eccidio comandante del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Brescia. Allora la piazza della strage fu rapidamente pulita con le autopompe, e la sollecita pulizia riguardò anche i cestini, in un dei quali era stato nascosto l’ordigno.
«Hanno assolto è lo sconcerto del magistrato un reo confesso». La fonte «Tritone» «la conoscevamo da tempo», racconta Salvini, «c’erano circa 25 sue relazioni al Sid, ma non sapevamo chi fosse questo Tritone». Fra quelle informative c’era anche quella relativa alla riunione di Abano Terme del 25 maggio 1974, in cui si discusse di un «grande attentato». Racconta ora il presidente del comitato dei familiari delle vittime Manlio Milani, «nel documento si parla di un gruppo in costruzione, Ordine Nero, ma quel gruppo altro non era che il nuovo nome di Ordine nuovo, che il ministro Paolo Emilio Taviani aveva messo fuori legge. E Carlo Maggi era il capo indiscusso di Ordine Nuovo nel Veneto».
La fonte “Tritone”, ricorda Salvini, «sin dal 1974 aveva relazionato nei dettagli di aver partecipato con i capi ordinovisti alle riunioni in cui si preparò la strage di Brescia».
Poi, un bel giorno del 1992, Guido Salvini era andato in trasferta da Milano a Padova, agli uffici del Sismi, e ricorda ancora con emozione il momento della scoperta: «Eravamo andati per l’incartamento di Gianni Casalini». Casalini era un altro ordinovista e informatore del Sid con il nome di copertura «Turco», coinvolto nella inchiesta per le bombe alla banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano. «Ci furono consegnati questi enormi faldoni senza alcun problema, nel 1992 ormai non c’era più interesse a nascondere. Fui io a trovare in fondo al fascicolo il foglietto che rivelava il nome della fonte “Tritone”, Maurizio Tramonte». «Nell’istruttoria, nel corso di molti interrogatoti, Tramonte confessò». Quella prima confessione, ritiene Salvini, è «veritiera, e tanto più credibile in quanto non si trattava di accuse ad altri ma a se stesso». «Poi Tramonte ha cominciato ad allargarsi, potrebbe aver raccontato anche frottole. Alla fine, in aula si chiuse nel silenzio e ritrattò in modo meno che plausibile». Però alla confessione «c’era riscontro» e la principale conferma alle parole del neofascista informatore del Sid, venne, ribadisce Guido Salvini, «dal maresciallo del Sid Fulvio Felli, che riceveva le informative e che ha confermato tutto».
Ora si dovrà attendere la stesura della sentenza per la quale ci sono 90 giorni di tempo. E, strana coincidenza, anche il relatore e estensore della sentenza, il giudice Bocchiaro, viene da Cremona, dove è stato collega, fino al dicembre 2011, del giudice Salvini. L’uno al penale, l’altro alla sezione civile, ai fallimenti. I Pm di Brescia si sono riservati di valutare il ricorso in Cassazione. La lettura delle motivazioni ci farà capire perché sia stata ritenuta non attendibile la confessione della fonte «Tritone». È probabile che l’assoluzione dell’ex informatore abbia portato con sé anche l’assoluzione per Carlo Maria Maggi, sfuggente dominus della cellula veneta di Ordine Nuovo degli anni settanta.

Corriere della Sera 16.4.12
Brescia, radiografia di una strage la bomba, le bugie, le prove sparite
Come sono state sviate le indagini sui neofascisti e sui complici
di Giovanni Bianconi


BRESCIA — Rispetto alle altre stragi che hanno insanguinato l'Italia e seminato terrore secondo gli intenti degli «strateghi della tensione», quella di piazza della Loggia è un caso a parte. Secondo quel che è emerso da tutte le indagini su tutti gli attentati di quel disgraziato e politicamente incerto periodo (1969-1974), anche gli 8 morti e 102 feriti di Brescia rientrano nel disegno cominciato nella primavera-estate del 1969 con le bombe nelle città e sui treni, che fecero da preludio all'eccidio di piazza Fontana, e finito con l'esplosione sul treno Italicus nell'agosto 1974, tre mesi dopo piazza della Loggia. Ma all'interno dello stesso disegno, quella strage ha una caratteristica unica.
È un attentato più politico degli altri, perché ha un obiettivo politico evidente, esplicito, quasi dichiarato: la manifestazione antifascista indetta dai sindacati proprio per protestare contro le trame nere. Ha colpito un raduno politico e pubblico, tanto da essere rimasto inciso sui nastri di chi stava registrando il comizio interrotto dallo scoppio, che ancora oggi tutti possono sentire come fosse in diretta.
L'attentato più politico
Ha scritto il giudice istruttore Giampaolo Zorzi il 23 maggio 1993, a diciannove anni dai fatti e al termine della quarta istruttoria (conclusa con una serie di archiviazioni e la trasmissione degli atti alla Procura per dar vita alla quinta inchiesta, da cui sono derivate le assoluzioni pronunciate l'altro ieri dalla corte d'assise d'appello): «Quei sette chili di esplosivo furono lo strumento non di una strage indiscriminata, di un atto di terrorismo puro, di un proditorio "sparo nel mucchio" finalizzato a seminare il panico e un diffuso senso di insicurezza in relazione a qualunque situazione di vita quotidiana, ma un vero e proprio attacco diretto e frontale all'essenza stessa della democrazia; ossia al diritto dei membri della polis di ritrovarsi nell'agorà e di esprimere lì, direttamente, senza mediazioni di sorta, la propria soggettività politica, individuale e collettiva».
Le bombe sui treni, nelle stazioni, nelle banche o alle fiere campionarie erano destinate alla popolazione civile in generale, contro chiunque capitasse nei paraggi, senza distinzioni di sorta. A Brescia, invece, si è voluto colpire chi era sceso in piazza contro il clima di tensione e gli altri attentati: da ultimo quello che, proprio nella città lombarda, stava preparando dieci giorni prima il neofascista Silvio Ferrari, saltato sull'ordigno che trasportava. Non è un caso che siano morti cinque insegnanti attivisti del sindacato-scuola, due operai e un ex partigiano.
Le considerazioni finali del giudice Zorzi costituiscono l'atto giudiziario e d'accusa più limpido e indignato tra quelli accumulati finora, in trentotto anni di inchieste e dibattimenti (anche se non ha portato a richieste di rinvio a giudizio, ma ciò testimonia solo l'assenza di qualsivoglia accanimento giudiziario nei confronti degli inquisiti). Perché quell'ordinanza mette insieme gli indizi e gli elementi che non sono riusciti a diventare prove, e chiarisce bene lo sfondo politico in cui tutto è avvenuto. Individua quello che lo stesso Zorzi chiama il «marchio di fabbrica» della bomba nell'attività dei gruppi neofascisti più o meno mascherati, inquinati e inquinanti, che — a parte gli eccidi con morti e feriti — disseminarono il centro-nord del Paese di dinamite e tritolo, candelotti e petardi. Esplosi mentre, soprattutto dopo il referendum sul divorzio, l'avanzata delle sinistre «veniva a profilarsi in termini meno velleitari che in passato», e il Gran maestro della P2 Licio Gelli riuniva a casa sua, tra molte altre persone, il procuratore generale di Roma e il comandante della Divisione Pastrengo dei carabinieri per analizzare «l'incerta e preoccupante situazione politica di quel momento».
I servizi segreti
È in questo contesto, e a causa di questo contesto, che prima e dopo gli attentati si sono mosse persone e apparati al fine di ostacolare l'accertamento della verità. Anche e soprattutto sulla strage di piazza della Loggia. Perché è verosimile che le responsabilità dell'ideazione e dell'esecuzione siano frastagliate, e non è detto che i protagonisti di ciascun segmento preparatorio ed esecutivo siano a conoscenza di tutti gli altri. Dunque si tratta di indagini difficili e complesse di per sé. Tuttavia i depistaggi sapientemente disseminati quasi in ogni passaggio delle diverse istruttorie hanno impedito di mettere insieme i pezzi del mosaico che rischiavano di incastrarsi e mostrare il disegno, e di dare valenza probatoria alla ricostruzione che i magistrati hanno potuto solo ipotizzare.
Ci sono le bugie dei responsabili dei servizi segreti, che hanno nascosto e negato gli appunti con le informazioni della «fonte Tritone» (scoperti per caso dopo quasi vent'anni), nei quali si svelavano, nell'immediatezza dei fatti, i programmi bombaroli del gruppo veneto di Ordine nero, diretta discendenza del disciolto Ordine nuovo. C'è la distruzione dei reperti con il lavaggio della piazza due ore dopo l'esplosione, e dopo che i netturbini avevano passato le ramazze e gettato via i sacchi di rifiuti (e verosimilmente di reperti). C'è la costruzione della «pista Buzzi», probabilmente non falsa ma riduttiva, con successivo omicidio del condannato in primo grado alla vigilia del processo d'appello. E ci sono tante altre stranezze, di cui potrebbero dare conto le motivazioni delle assoluzioni dell'altro ieri.
Un «brivido di rabbia»
Ancora nell'istruttoria del giudice Zorzi è riportato un interessante compendio delle negligenze, a voler essere generosi, dei servizi di sicurezza. Si ricostruisce, ad esempio, la storia di un altro appunto prodotto nel 1989 dal Sismi guidato dall'ammiraglio Martini, il quale precisava che «non esistono ulteriori documenti dai quali si possano trarre utili elementi di valutazione» sulla bomba di piazza della Loggia. Dopo aver dato conto della totale inconsistenza e inutilità dell'informazione, Zorzi esprime con amaro sarcasmo al servizio segreto militare «il vivo ringraziamento del popolo italiano per aver saputo produrre, su questa epocale tragedia, una sola "velina" di cotanta utilità».
Lo stesso giudice ripercorre la vicenda della rogatoria che doveva svolgersi in Argentina, nel 1985, per interrogare il giovane fascista «massacratore del Circeo» Gianni Guido, evaso da un carcere italiano e riacciuffato in Sud America. La rogatoria saltò perché qualcuno comunicò alle autorità argentine che i magistrati italiani non erano in grado di presentarsi alla data prefissata. Peccato che i magistrati italiani non sapessero niente di quella data, e quando si riuscì a fissarne un'altra Gianni Guido era provvidenzialmente rievaso.
Una situazione, commenta il magistrato, «che fa letteralmente venire i brividi (soprattutto di rabbia) in quanto si propone quale riprova, se mai ve ne fosse bisogno, dell'esistenza e della costante operatività di una rete di protezione pronta a scattare in qualunque momento e in qualunque luogo». Sono gli stessi brividi che molti hanno provato sabato mattina, alla lettura dell'ultima sentenza sulla strage di Brescia rimasta impunita.

Repubblica 16.4.12
"Strategia della tensione" le parole di Moro sulla strage di Brescia
di Miguel Gotor


Nella primavera 1978 le Brigate rosse sottoposero Aldo Moro a un interrogatorio che riguardò anche la strage di piazza Fontana del 1969 e quella di piazza della Loggia del maggio 1974.
Come è noto, il memoriale del prigioniero è giunto a noi incompleto, ma su quegli anni egli formulò un giudizio chiaro utilizzando la categoria di "strategia della tensione". Quel tempo fu «un periodo di autentica ed alta pericolosità con il rischio di una deviazione costituzionale che la vigilanza delle masse popolari fortunatamente non permise». Moro espose i meccanismi e le finalità della strategia della tensione, impostata da servizi stranieri occidentali con propaggini operative in due paesi allora fascisti come la Grecia e la Spagna. Essa aveva potuto godere del contributo dei servizi italiani militari con «il ruolo (preminente) del Sid e quello (pure esistente) delle forze di Polizia», ossia dell'Ufficio Affari riservati diretto da Federico Umberto D'Amato.
Secondo il prigioniero lo scopo era stato quello di realizzare una serie di attentati attribuendoli alla sinistra per destabilizzare l'Italia e poi coprire i veri responsabili con appositi depistaggi: «La c. d. strategia della tensione ebbe la finalità, anche se fortunatamente non conseguì il suo obiettivo, di rimettere l'Italia nei binari della "normalità" dopo le vicende del '68 ed il cosiddetto autunno caldo», anche se Moro trascurava il varo nel giugno 1972 del governo centrista Andreotti-Malagodi, dopo l'attentato di Peteano per cui è reo confesso il neofascista Vincenzo Vinciguerra. Secondo l'ostaggio i servizi segreti italiani non diedero vita a deviazioni occasionali, ma a un'opera sistematica di inquinamento per «bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall'autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere». Egli fece riferimento all'azione di "strateghi della tensione", senza però offrirne un ritratto esplicito, e si espresse duramente nei riguardi della Democrazia cristiana: «Bisogna dire che, anche se con chiaroscuri non ben definiti, mancò alla D. C. di allora ed ai suoi uomini più responsabili sia sul piano politico sia sul piano amministrativo un atteggiamento talmente lontano da connivenze e tolleranze da mettere il Partito al di sopra di ogni sospetto». E ancora: «se vi furono settori del Partito immuni da ogni accusa (es. On. Salvi) vi furono però settori, ambienti, organi che non si collocarono di fronte a questo fenomeno con la necessaria limpidezza e fermezza».
L'attenzione di Moro si focalizzava su Giulio Andreotti, il quale aveva «mantenuto non pochi legami, militari e diplomatici, con gli Americani dal tempo in cui aveva lungamente gestito il Ministero della Difesa entro il 68». In particolare con la Cia, «tanto che poté essere informato di rapporti confidenziali fatti dagli organi italiani a quelli americani». Moro ripeteva, per ben undici volte, il nome del giornalista neofascista Guido Giannettini, incriminato nel 1973 per la strage di piazza Fontana da cui sarà assolto, sottolineando l'importanza di un'intervista che Andreotti aveva concesso a Il Mondo nel giugno 1974, all'indomani della strage di Brescia, in cui aveva rivelato che Giannettini era in realtà un agente del Sid infiltrato in Ordine nuovo. È come se Moro avesse voluto alludere a una pregressa consapevolezza di Andreotti ("uomo abile e spregiudicato") riguardo alle azioni messe in campo da quegli ambienti, da cui aveva deciso improvvisamente di prendere le distanze («un primo atto liberatorio fatto dall'On. Andreotti di ogni inquinamento del Sid, di una probabile risposta a qualche cosa di precedente, di un elemento di un intreccio certo più complicato»).
Tale ricostruzione sarà confermata nell'agosto 2000 da Gianadelio Maletti, il responsabile dell'ufficio D del Sid dal 1971 al 1975, condannato per avere agevolato la fuga di Giannettini all'estero, il quale, in un'intervista a Daniele Mastrogiacomo per questo giornale, dichiarò «La Cia voleva creare attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e con il contributo dell'estrema destra, Ordine nuovo in particolare, l'arresto del generale scivolamento verso sinistra. Questo è il presupposto di base della strategia della tensione».
In che modo? «Lasciando fare», e Andreotti «era molto interessato. Soprattutto del terrorismo di destra e dei tentativi di golpe in Italia».
È significativo notare che Pier Paolo Pasolini nel novembre 1974, ossia pochi mesi dopo la strage di Brescia e l'intervista dell'allora ministro della Difesa Andreotti che scaricava l'agente dei servizi militari Giannettini, scrisse sul Corriere della Sera l'articolo Cos'è questo golpe? Io so, in cui individuava l'esistenza di due diverse fasi della strategia della tensione: la prima, con la strage di piazza Fontana, anticomunista, funzionale a chiudere con l'esperienza dei governi di centro-sinistra e ad arginare l'ascesa del Pci; la seconda, con le bombe di Brescia, antifascista, ossia utilizzata per bruciare quanti ancora erano impegnati a creare le condizioni di un golpe nero e di una soluzione militare in Italia, esattamente come fatto da Andreotti con Giannettini: «Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista) ». Forse per sempre senza nome. Così scriveva un anno prima di essere ucciso il poeta che ebbe l'ardire di farsi storico del suo presente: l'ultima profezia, come ribadisce la sentenza dell'altro ieri sulla strage di Brescia.

La Stampa 16.4.12
Piazza della Loggia, sulle spese le preoccupazioni del Colle
Dopo la sentenza-beffa che assolve gli imputati e “condanna” i parenti delle vittime
di Grazia Longo


Per la strage di piazza della Loggia ci sono state dieci sentenze e cinque processi ma le prove raccolte non hanno portato a condanne
Il dolore per una ferita che non guarisce. Lo schiaffo di una sentenza che impone il pagamento delle spese processuali ai parenti delle vittime della strage in piazza della Loggia.
L’AVVOCATO MARAZZITA Il legale parte civile al processo Moro: «Stortura di un codice pensato male»

Manlio Milani, marito di una delle otto persone cancellate dalla bomba a Brescia il 28 maggio 1974, fondatore della Casa della memoria, ritiene sia «ridicolo che le vittime paghino le spese allo Stato quando lo Stato dovrebbe stare sul banco degli imputati». Il nodo cruciale, in realtà, si porrà solo nel terzo grado di giudizio, con la sentenza della Corte di Cassazione. Ma è già in atto una mobilitazione per «impedire - come ribadiscono Federico Orlando e Beppe Giulietti, Articolo 21 - l’ultima atroce beffa ai familiari delle vittime».
Anche per il Quirinale sono ben chiari il problema e la sofferenza che questo comporta. Tanto che, con molta probabilità, il tema sarà affrontato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante la giornata della Memoria, il 9 maggio, al Quirinale. Le linee guida, in attesa della sentenza della Suprema Corte, si poggiano sulla convinzione che lo Stato non possa non trattare la questione per affrontarla e risolverla come ha fatto il governo Berlusconi nel 2005 dopo la sentenza definitiva del processo sulla strage di Piazza Fontana.
E se l’avvocato Nino Marazzita, parte civile nel processo per l’omicidio di Aldo Moro, bolla la condanna al pagamento delle spese processuali ai familiari delle vittime come «una stortura di un codice pensato male», fa discutere anche il ruolo svolto dallo Stato nella ricerca della verità.
Manlio Milani, intervistato ieri dal nostro inviato Michele Brambilla, invoca l’intervento della «politica che può aiutare a ricostruire una verità che abbia l’autorità delle istituzioni». Preziose per lui «iniziative importanti, a partire dall’apertura degli archivi resa possibile dalla nuova legge sul segreto di Stato del 2007 e che aspetta ancora i decreti attuativi».
Esistono davvero realtà taciute in nome della ragion di Stato? In che modo è possibile riportarle a galla?
Per Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera e membro del Copasir (Comitato per la sicurezza della Repubblica), è «molto difficile districare una matassa assai complessa in cui è però evidente che qualcosa non ha funzionato nella fase delle indagini». Nutre però «forti dubbi sulla teorizzazione sottesa alle stragi di Stato che vede come registi eversori fascisti e pezzi di Stato». Cicchitto è, inoltre, perplesso anche sulle «polemiche contro certe sentenze rispetto ad altre: non è ammissibile che chi critica oggi certi meccanismi giudiziari non abbia sollevato obiezioni per altre decisioni della magistratura». Fondamentale è, comunque, garantire «ai parenti delle vittime la completa copertura delle spese com’è già avvenuto per Piazza Fontana». Anche il senatore Pd Giovanni Pellegrino, ex presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sulle stragi, è convinto che oggi sia «impossibile far luce sulle vicende giudiziarie che hanno sconvolto il nostro Paese». È tuttavia certo che «all’inizio delle inchieste sulle stragi il lavoro dei magistrati venne ostacolato dagli apparati, a partire dai Servizi segreti e l’Arma dei carabinieri passando per l’Ufficio affari riservati del Viminale, con l’avvallo dei politici per cui certe verità, in un clima di piena guerra fredda, non potevano essere rivelate».

Corriere della Sera 16.4.12
La beffa delle spese, il ministero cerca una soluzione
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — Stragi che hanno segnato la storia d'Italia senza colpevoli e parenti delle vittime condannati a pagare le spese sostenute dallo Stato per fare il processo. Il caso della sentenza di Brescia (che essendo in appello rende immediatamente esecutivo il pagamento di queste spese) purtroppo non è il primo. Altrettanto clamoroso è stato quello della sentenza della Corte di Cassazione sulla strage di Piazza Fontana (3 maggio 2005). Anche allora si disse (il premier Silvio Berlusconi ad esempio) e si scrisse «che deve essere lo Stato a pagare quei soldi».
«Pronti a pagare le spese per i parenti delle vittime di piazza Fontana», annunciò, all'epoca, il Comune di Milano e il sindaco Albertini.
Sono passati sette anni, e nulla è cambiato nelle norme e nei codici. Per cui, la decisione di presentare il conto a chi ha subito le tragiche conseguenze di delitti atroci, pur presa in base alla astratta logica del diritto (le spese «anticipate» dallo Stato le deve pagare la cosiddetta «parte soccombente» cioè quella che ha «perso» in giudizio) ha il sapore di una beffa feroce.
Da oggi i tecnici del ministero della Giustizia studieranno il caso. Ma esso potrebbe essere «risolto» — secondo alcuni penalisti — proprio sfruttando il nuovo disegno di legge sulle intercettazioni (su cui il ministro della Giustizia Paola Severino deve raccogliere il parere dei partiti). Quella bozza contiene, oltre a quelle relative al problema delle intercettazione), tutta una serie di altre modifiche al codice di procedura penale.
Potrebbe essere allora quella la sede per «recepire» subito il principio stabilito da una recentissima sentenza della Cassazione del novembre 2011 (39600/2011), che sembra offrire una strada per riparare all'ingiustizia di Brescia.
La quinta sezione penale ha infatti stabilito che per analogia al giudice civile anche il giudice penale può «compensare» le spese di giudizio tra le parti «se ne ricorrono giusti motivi» «tanto che ha l'obbligo di motivare le ragioni per le quali esclude» questa possibilità. In ogni caso, quindi i giudici di Brescia dovranno essere molto attenti a come adesso scriveranno la sentenza d'appello per evitare la cancellazione di questa decisione da parte della Cassazione.
Un'altra strada potrebbe essere quella indicata da Silvia Guarneri, legale dei familiari della strage di piazza della Loggia, che propone di inserire nel codice di procedura penale, la previsione secca per cui «per le vittime del terrorismo queste spese siano a carico dello Stato».
Anche l'associazione Articolo 21 chiede al premier Monti di impedire che «i familiari delle vittime di Piazza della Loggia siano pure costretti al pagamento delle spese processuali. Sia lo Stato a sanare questa ferita».

Repubblica 16.4.12
Respinti alla frontiera italiana e rimandati in Svizzera. La polizia: "Usato il pennarello per scrivere sulle loro mani, era l'unico modo di identificarli"
 Clandestini marchiati con il numero, è polemica
di Franco Zantonelli


LUGANO - Un numero tatuato con il pennarello, sulla mano dei clandestini, per "sveltire" il loro rimpatrio in Svizzera. È successo, lo scorso 21 marzo, a Domodossola, ad una cinquantina di tunisini, entrati in Italia dalla Confederazione. «Erano le 3 di notte, gli avevamo ritirato il passaporto e dato, in cambio, un tagliando con un numero, però continuavano a perderlo, allora il numero glielo abbiamo scritto sulla mano», conferma serafico un funzionario della polizia di frontiera italiana. «Se non li avessimo rimandati in Svizzera entro le 8.30 della mattina, avremmo dovuto tenerli qui, in stazione, per tutto il giorno», aggiunge un po' stupito che, oltreconfine, tanto in Svizzera che in Francia, da dove i clandestini provenivano, quel numero tatuato abbia sollevato un polverone, contribuendo ad evocare vecchi fantasmi della storia europea.
Del caso si è occupato nei giorni scorsi anche il quotidiano francese "Liberation": quella procedura, ha sottolineato, «richiama momenti bui». In un primo tempo "Liberation" era convinto che, a utilizzare quel metodo maldestro, fosse stata la polizia transalpina. «Questi sistemi non ci appartengono, non intendiamo assolutamente passare per dei barbari», aveva nel frattempo respinto con sdegno l'accusa, il comandante delle guardie di frontiera francesi, Jean-Michel Comté. «Identificare delle persone con un numero è una pratica umiliante e vessatoria che viola l'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo», ha deplorato, dal canto suo, Jean-Pierre Banderia, il gip della città di Nîmes, cui è toccato occuparsi di alcuni dei clandestini, respinti a Domodossola. Fatto sta che, dopo la netta presa di distanza dei francesi, il settimanale elvetico "Matin Dimanche" è risalito fino a Domodossola, grazie anche alla testimonianza del tenente colonnello, Jean-Luc Boillat, delle guardie di confine elvetiche. «Abbiamo constatato dei numeri verdi e rossi, tatuati sulle mani dei tunisini, durante il loro tragitto in treno da Domodossola alla Svizzera», la testimonianza dell'ufficiale. «Sono stati i miei stessi uomini a segnalarmelo, però eravamo di fretta, i clandestini erano tanti e non abbiamo approfondito la questione», ha aggiunto Boillat. Secondo il quale i nordafricani si erano riversati in massa, in Italia, dalla Francia, dopo che si era sparsa la voce di un'imminente sanatoria. Alla fine, invece, niente visto, rimpatrio veloce con quel tatuaggio imbarazzante e la promessa che sarebbe bastato lavarsi le mani, per farlo sparire.

Repubblica 16.4.12
La Lega non è una storia finita
di Ilvo Diamanti


C'È TROPPA fretta di liquidare la Lega. Come si trattasse di una storia finita. Non tanto a causa delle promesse deluse dalla Lega stessa. Di certo non per merito degli avversari politici. Tanto meno per l'intolleranza sociale verso i messaggi intolleranti espressi dai suoi leader e dai suoi uomini. Ma per effetto delle inchieste giudiziarie. Una nemesi, visto che vent'anni prima proprio la Lega - insieme a Berlusconi - aveva beneficiato del vuoto politico prodotto da Tangentopoli.
Ma bisogna fare molta attenzione prima di dare la Lega per finita. I sondaggi, per primi, non accreditano questa idea.
L'Ispo di Renato Mannheimer, proprio ieri, sul Corriere della Sera, stimava i consensi leghisti poco sotto il 7%. Rispetto a una settimana prima: un punto percentuale in meno. Abbastanza, ma non tanto da profetizzare un declino - rapido e irreversibile. Meglio, dunque, attendere altre occasioni per verificare la tenuta della Lega, dopo questi scandali. Senza, però, affidarsi troppo alle prossime amministrative. Certamente significative. Ma condizionate dalla specificità delle consultazioni. Una sorta di presidenziali "locali", dove contano soprattutto i temi territoriali e, anzitutto, la personalità dei sindaci. Si pensi alla città, forse, più importante, fra quelle al voto: Verona. Dove Flavio Tosi si ripresenta, alla testa di una lista civica "personale". Contro la volontà di Bossi e dei "bossiani". Se Tosi ri-vincesse in modo largo, ipotesi non improbabile, si tratterebbe di una vittoria di Tosi (e del suo amico Maroni) contro Bossi oppure di un successo della Lega contro tutti gli altri partiti? Il risultato delle prossime amministrative assumerà, dunque, grande importanza. Ma non fornirà un verdetto definitivo e, soprattutto, chiaro sul futuro. Occorrerà attendere le elezioni politiche del 2013 per capire quanto contino davvero la Lega - e gli altri partiti.
Tornando ai sondaggi, anche l'Ipsos di Pagnoncelli, martedì scorso, a Ballarò, aveva mostrato una flessione della Lega: dal 9,5% al 6,5%. Ma nei giorni seguenti ha rilevato una ripresa sensibile.
Che ha riportato la Lega su livelli vicini al risultato delle politiche del 2008.
Questo rimbalzo può avere spiegazioni diverse e non alternative. In primo luogo, il "rituale di espiazione" celebrato a Bergamo martedì scorso. La messa in scena della "confessione" e della "penitenza". L'espulsione e le dimissioni dei colpevoli. (Solo alcuni, certo). L'ammissione di colpa del gruppo dirigente.
Bossi per primo. (Che pure ha rilanciato la famigerata "teoria del complotto").
Di fronte al "popolo padano". E, soprattutto, alle telecamere. Uno spettacolo di successo, che è servito ai leader della Lega per marcare la propria "diversità" - anche in mezzo alla crisi - rispetto agli altri partiti maggiori. Tutti coinvolti da scandali e inchieste: non hanno preso provvedimenti altrettanto eclatanti e visibili. Lo stesso discorso vale per i rimborsi elettorali. La Lega ha annunciato la volontà di rinunciare all'ultima tranche.
Mentre gli altri partiti discutono "se" congelarla. E su come regolamentare i finanziamenti pubblici (bocciati dai cittadini in un referendum di quasi vent'anni fa).
La Lega ha, dunque, reagito all'ondata di discredito provocata dalle inchieste giudiziarie con iniziative auto-assolutorie e promozionali, che potrebbero avere effetto. Anche perché può contare su alcune "buone ragioni" per resistere sulla scena politica ed elettorale ancora a lungo. Ne cito solamente alcune.
a) È radicata sul territorio, dove dispone di una base di militanti attivi molto ampia. Riprendo i dati offerti da un'accurata ricerca di Gianluca Passarelli e Dario Tuorto ( Lega e Padania, in uscita per "il Mulino"): 1.441 sezioni (995 tra Lombardia e Veneto) e 182mila iscritti. Oltre la metà di essi frequenta esponenti del partito con assiduità, almeno una volta a settimana. Il 40% partecipa regolarmente alle manifestazioni elettorali e alle feste di partito. Sono politicamente informati e coinvolti. La Lega, inoltre, è al governo in centinaia di comuni, 16 province e due regioni. Difficile "scomparire" quando si è così immersi nella società e nel territorio.
b) Dispone di una base elettorale fedele di notevole entità. Il 4-5% degli elettori, infatti, l'hanno sempre votata. Anche nei momenti più difficili. Disposti a negare la realtà pur di non contraddire la propria "fede". Proprio come in questa fase.
c) La Lega, oggi, costituisce il principale antagonista del governo Monti, in Parlamento. Inevitabile che sfrutti la propria rendita di (op) posizione. Tanto più se - come sta avvenendo in questo periodo - la fiducia nel governo, fra i cittadini, tende a calare.
d) Il clima d'opinione generale è intriso di sfiducia verso i partiti. Pervaso da un diffuso sentimento antipolitico. E la Lega ne è, paradossalmente, artefice e beneficiaria. Alimenta la sfiducia politica attraverso i suoi comportamenti e, al tempo stesso, rischia di avvantaggiarsene. e) D'altronde, nessuno tra i partiti maggiori ha beneficiato del calo della Lega. Gli elettori leghisti in "uscita" si sono parcheggiati nell'area grigia del "non voto" e dell'indecisione. L'unico vero attore politico che sta traendo profitto dall'onda antipolitica, in questo momento, pare il movimento 5 Stelle di Grillo, stimato ormai oltre il 6%.
Naturalmente, la Lega non sta bene. È scossa da molti problemi. Profondi.
Che, tuttavia, pre-esistono agli scandali delle ultime settimane.
In particolare e soprattutto: non ha mantenuto la promessa di "rappresentare il Nord". Di realizzare il federalismo, modernizzare le istituzioni, ridurre la burocrazia centrale e locale, ridimensionare la pressione fiscale, abbassare i costi della politica. In parte, è stata coinvolta in queste stesse logiche.
Inoltre, è, da tempo, teatro di una sanguinosa "guerra di successione". In vista di una leadership che le permetta di sopravvivere "dopo" e "oltre" Bossi.
Una questione momentaneamente congelata. Ma destinata a riaprirsi in fretta, con esiti incerti. Anche perché il "centralismo carismatico" è parte dell'identità e dell'organizzazione leghista (come chiarisce bene il saggio dell'antropologo Marco Aime, Verdi tribù del Nord, pubblicato da poco da Laterza).
In generale, il problema della Lega è che si è "normalizzata". Mentre i suoi successi scandiscono le crisi e le fratture della nostra storia recente. La Lega.
Ha contribuito a far crollare la Prima Repubblica e ha lanciato la sfida secessionista del 1996. Ha sfruttato le paure della crisi globale dopo il 2008 e l'onda antipolitica degli ultimi anni. La Lega. È cresciuta e si è consolidata nella stagione del berlusconismo. Ma oggi la Prima Repubblica è lontana, il berlusconismo si è chiuso. E la Lega appare un partito (fin troppo) "normale". Costretta, a simulare e a esibire la propria diversità per resistere, in questa Repubblica provvisoria. È in difficoltà. Ma chi pensa di affidare ai Magistrati il compito di "sconfiggerla" politicamente si illude.

Repubblica 16.4.12
Giovane, di destra, odia banche e gay ecco l'identikit della camicia verde
E dopo l'addio di Bossi il rischio di una scissione
di Vladimiro Polchi


ROMA - Il suo cuore batte a destra. A volte si scopre estremista.
Diffida delle coppie gay ed è contrario a concedere pari diritti agli immigrati. Odia banche, giudici e sindacati, ma si fida dei partiti. È un vero militante: almeno una volta negli ultimi cinque anni è stato a Pontida. È l'identikit della camicia verde: un popolo di 182mila iscritti e 1.441 sezioni (995 tra Lombardiae Veneto) che, pur squassato dai recenti scandali, conferma il suo attivismo nel partito. A fotografare i militanti della Lega è un'inchiesta di due giovani ricercatori dell'istituto Cattaneo di Bologna, Gianluca Passarelli e Dario Tuorto, che nel 2011 hanno intervistato circa 350 iscritti al Carroccio ("Legae Padania. Storie e luoghi delle camicie verdi", in libreria oggi per il Mulino). Il risultato? Per la prima volta la Lega viene raccontata dai leghisti.
TANTI EX MISSINI Le camicie verdi sono per lo più (75%) uomini, giovani (il 39% ha meno di 40 anni), diplomati (60%), ma anche laureati (20%), lavoratori autonomi (37%). Quasi la metà ha ricoperto incarichi da consigliere comunale o provinciale, assessoreo sindaco. Che orientamento avevano prima di aderire al Carroccio? Il loro voto si divide in modo equilibrato tra Dc, Psi, partiti "laici" (Pli, Psdi e Pri).
Ma quello che più balza agli occhi è l'alto numero di ex missini (9%) e il basso di ex elettori del Pci (3%).
Non per niente, tutti i dati della ricerca sono concordi: eletti, iscritti ed elettori della Lega posizionano se stessi e il partito all'estrema destra dell'arco politico.
MILITANTI ATTIVI La loro è una militanza attiva: oltre la metà incontra esponenti del partito almeno una voltaa settimanae un quinto più voltea settimana. Il 40% partecipa regolarmente alle manifestazioni elettorali e alle feste di partito. Non solo. Le camicie verdi sono attente alle evoluzioni della politica e il 77% legge un quotidiano tutti i giorni: «Non trova quindi riscontro - scrivono i due ricercatori - l'immagine di un partito strutturato solo attorno a una base grezza, priva di strumenti cognitivi adeguati». E ancora: si fidano dei partiti (gli sfiduciati sono il 55%, ben al di sotto della media nazionale), del parlamento e del presidente della Repubblica. Mostrano ostilità verso banche, magistrati e sindacati. Solo una minoranza (il 40%) è disponibile a concedere pieni diritti agli immigrati, una quota più ridotta (il 22%) è favorevole a estendere alle coppie gay i diritti degli eterosessuali. Gli iscritti dichiarano un'appartenenza locale, al comune (44%), alla regione (34%), alla provincia (10%) in cui vivono. Solo una minoranza segnala l'Italia come contesto principale di riferimento (3,5%) DAI "QUALUNQUISTI" AGLI "ESTREMISTI" La ricerca individua quattro tipologie di militanti. I "qualunquisti" (sono il 19%) partecipano poco alla vita del partito, sono interessati al federalismo e a pagare meno tasse. I "conformisti" (26%), caratterizzati da un'alta consapevolezza politica, si collocano a destra, temono l'immigrazione, ma sono radicali più per conformismo che per convinzione. I "conservatori" (26%), per lo più operai, hanno una collocazione politica meno a destra e meno estremista, attenti ai temi sociali e del lavoro. Infine gli "estremisti" (29%), politicamente consapevoli, con un forte tratto autoritario, si collocano sul versante della destra più estrema.
IL FUTURO SENZA BOSSI Con il leader i militanti hanno una relazione simbiotica: «Solo il carisma di Bossi ha indotto la base ad accettare alcuni riposizionamenti contraddittori della Lega» e solo la «sua leadership ha tenuto a bada le due anime, la fazione movimentista e quella riformista, che non si sono mai del tutto integrate nel partito».
Che ne sarebbe allora di una Lega senza Bossi? Per i due ricercatori «è plausibile ipotizzare una grave emorragia di consensi, ma è anche ragionevole ritenere che, visto l'insediamento diffuso capillarmente in tutto il Centro-Nord, la Lega potrebbe sopravvivere al suo capo istituzionalizzandosi».
In questo frangente non è però da escludere una scissione, con «l'uscita di una cospicua componente decisa a costruire il partito ortodosso e antagonista, richiamandosi esplicitamente alle origini del movimento».

La Stampa 16.4.12
Borse di studio arriva la tassa. Ricercatori in rivolta
di Flavia Amabile


ROMA Per gli ospedali italiani non saranno due giorni tranquilli: oggi e domani i venticinquemila specializzandi in medicina generale scioperano contro il governo. Non protestano per una norma ad hoc, in realtà sono i più colpiti da un provvedimento che riguarda tutti i dottorandi. Chiedono infatti la cancellazione della norma prevista dal decreto fiscale in discussione alla Camera che impone la tassazione Irpef su tutte le somme corrisposte a titolo di borsa di studio.
Un emendamento approvato al Senato ha solo lievemente addolcito la novità, stabilendo che si applicherà alle somme che formano il reddito per la parte eccedente gli 11.500 euro. Saranno infatti sottoposte a prelievo fiscale le borse di studio per la frequenza dei corsi di dottorato di ricerca, di perfezionamento e di specializzazione erogate dalle Università e i contratti di formazione medica specialistica a queste equiparate, nonché gli assegni erogati dalle Regioni. Insomma, una platea molto più ampia dei giovani medici.
Si dirà: pochi mesi fa il decreto Salva-Italia ha bloccato la indicizzazione di tutti gli assegni da pensione superiori ai 1400 euro.
Dunque, perché non chiedere un contributo anche ai giovani ricercatori? Ma è pur vero che in Italia la ricerca universitaria è in affanno, e la fuga dei cervelli all’estero è un tema all’ordine del giorno. Insomma, provvedimenti come questo non fanno che penalizzarla ulteriormente.
Finora i vincitori di borse di dottorato e assegnisti di ricerca avevano percepito redditi interamente esenti da Irpef grazie ad una legge del 1984. «Con questo emendamento – denuncia Alexander Schuster, componente del direttivo dell’Adi (l’associazione dei dottori e dottorandi italiani) di Trento – l’esenzione sarebbe implicitamente abrogata per la parte eccedente gli 11.500 euro con un’aliquota e una detrazione fiscale che dipenderà dall’importo del reddito complessivo. Ma questi redditi potrebbero persino non beneficiare della detrazione da lavoro dipendente.
Oltre al danno, la beffa, motivano i ricercatori trentini portando ad esempio l’importo lordo della borsa di dottorato (pari a 13.638,48 euro), tale che così gli oltre 2.138 euro di parte eccedente sarebbe tassata per un aggravio di circa 700 euro». Le associazioni dei giovani medici calcolano una riduzione delle borse di studio di circa 200-300 euro al mese rendendo l’assegno al netto delle spese di poco di superiore ai 1.000 euro.
I medici in formazione italiani sono quelli meno pagati in Europa - ricorda la Federspecializzandi - e devono pagarsi le spese professionali con la propria borsa di studio (iscrizione all’Ordine dei medici, quota previdenziale all’Enpam, assicurazione contro la colpa grave).
Per il segretario dell’Adi Francesco Vitucci il danno sarebbe molto superiore rispetto ai guadagni perché «gli introiti per lo stato sarebbero particolarmente esigui».
Non solo: la norma avrebbe effetti paradossali perché costringerebbe i dottorandi a fare la dichiarazione dei redditi per poi non versare nemmeno un euro di tasse perché il loro reddito calcolato sarebbe così basso da avere diritto comunque all’esenzione. «Diventerebbero quindi dei lavoratori, non più a carico del nucleo familiare, con la rinuncia a tutte le tutele per gli studenti pur essendo considerati da tutti come studenti».
Non è dunque un caso se alla Camera - dove ora è in discussione il decreto - sono molti gli emendamenti che chiedono la cancellazione della norma. Uno di questi è firmato dai deputati Pd Manuela Ghizzoni, Marco Meloni, Andrea Sarubbi e Salvatore Vassallo. «E’ certamente auspicabile che si proceda rapidamente a una revisione dei contratti dei ricercatori nella fase post-dottorato e pre-ruolo, ma la soluzione adottata dal Senato è sbagliata e va cassata», scrivono in una nota Ghizzoni e Meloni.

Corriere della Sera 16.4.12
Tassa sulle borse di studio La rivolta degli specializzandi
di Margherita De Bac


ROMA — Trentacinque anni, laurea in Igiene, master in Epidemiologia, un anno negli Usa. Poi la borsa di studio all'Università Cattolica di Roma, Economia e Gestione delle aziende sanitarie. «Vuole sapere quanto prendo al mese? Mille e 100 euro netti. E ora diventeranno circa 100 in meno grazie alle novità del decreto fiscale», non lesina la risposta Walter Mazzucco, presidente dell'Associazione dei giovani medici, da oggi in agitazione, domani in sit-in davanti a Montecitorio. Borsisti e specializzandi protestano per scongiurare la minaccia di una piccola grande stangata. Un emendamento al disegno di legge sulla Semplificazione fiscale, già passato in Senato, prevede l'Irpef su chi percepisce borse di studio: verrebbero tassate le somme eccedenti gli 11.500 euro all'anno. A rischio il mensile di giovani medici in formazione (circa 25 mila) e dottorandi di tutte le facoltà. In pratica «i profili con poche o zero garanzie e scarsi diritti», si risentono i possibili tartassati.
Il provvedimento colpirebbe in modo più sensibile i camici bianchi in formazione che frequentano i reparti dopo la laurea in Medicina e Chirurgia. In molti casi sono loro a costituire la linfa del reparto. Federspecializzandi, l'associazione più rappresentativa, ha inviato al governo la richiesta di abrogazione del comma sotto accusa: «L'applicazione della tassa non è accettabile. Il compenso economico del medico non strutturato subirebbe una botta insostenibile». Proclamata la sospensione dell'attività nei policlinici a partire da oggi pur «dispiaciuti dei disagi ai cittadini».
Per Francesco Vitucci, leader di Adi, Associazione dottorandi italiani, è una tassa senza ragione perché «per lo stato gli introiti sarebbero ridicoli». Ma al di là degli effetti economici, secondo Mazzucco l'aspetto peggiore è il «segnale negativo e contraddittorio. Vengono colpiti i giovani, l'opposto di quanto è stato promesso. Stiamo parlando dei futuri ricercatori italiani».
Appoggio alle associazioni è stato promesso da alcuni parlamentari. Per Annagrazia Calabria, coordinatore nazionale dei giovani del Pdl, un prelievo fiscale di questo genere «preoccupa e sorprende: non è possibile vivere in un Paese dove da una parte non si parla che di aiutare le nuove generazioni e dall'altra non si fa nulla per sollevarle dalle tassazioni».
Il Segretariato italiano giovani medici (Sigm) denuncia «l'ennesima ingiustizia ai danni della categoria. Questa situazione si aggiunge ad altre problematiche e criticità. È più vantaggioso andare all'estero per esercitare la professione». In media uno studente di medicina impiega 13 anni per terminare i corsi di specializzazione dall'ingresso in facoltà.

Corriere della Sera 16.4.12
Meritocrazia e appetito del fisco tasse anche sulle borse di studio
di Lorenzo Salvia


Ci sono poche parole che (a parole) mettono tutti d'accordo. Una di queste è meritocrazia, slogan sbandierato in ogni chiacchiera da bar come in ogni campagna elettorale, impegno sacrosanto per ogni partito, per ogni leader che prometta un cambiamento. E allora come dare torto ai giovani medici specializzandi che domani organizzeranno un sit-in di protesta davanti alla Camera? Quello che chiedono allo Stato non è la promessa di un lavoro sicuro, una sanatoria come in passato ce ne sono state, una corsia preferenziale per agguantare un posto fisso. Ma il semplice rispetto dei patti. Con il decreto sulle semplificazioni fiscali in discussione alla Camera è stata introdotta l'esenzione dalle tasse per le borse di studio fino a 11.500 euro.
Ma questa modifica lascia fuori i medici specializzandi che, dopo sei faticosi anni di università, si ritroveranno a pagare una tassa del 20 per cento su quello che lo Stato concede loro per finire gli studi. Dice l'articolo 34 della Costituzione che «i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Ed è proprio per questo che la «Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». Possibile che lo Stato chieda indietro una parte dei soldi assegnati per un motivo così nobile?
Sappiamo bene che la crisi internazionale chiede a tutti un sacrificio straordinario. E sappiamo anche che, visto il nostro debito pubblico, all'Italia è chiesto un impegno supplementare. Ma una delle promesse del governo Monti è stata proprio quella di rompere quel dualismo sul mercato del lavoro che ha finora caratterizzato il nostro Paese: padri protetti da un posto sicuro e figli tagliati fuori da un sistema che spesso li sfrutta con l'alibi della flessibilità che si trasforma in precarietà.
Non c'è solo la riforma del mercato del lavoro e dell'articolo 18 per riequilibrare questo rapporto così sbilanciato.

l’Unità 16.4.12
La partita di Parigi. L’Europa è al bivio
Ora si capisce la differenza tra destra e sinistra
L’alleanza progressista. Il manifesto firmato da Ps francese, Pd, Spd e socialisti belgi
di Paolo Soldini


Domenica prossima e il 6 maggio le elezioni francesi decideranno non poco degli equilibri europei Per la prima volta dall’inizio della crisi finanziaria sono in campo proposte politiche di segno diverso

Il voto in un grande Paese europeo è sempre un fatto che riguarda l’intero continente. Ma per quello che accadrà tra domenica prossima e il ballottaggio del 6 maggio alle presidenziali francesi questa verità, che può apparire scontata, acquista lo spessore e la drammaticità di un aut-aut davvero decisivo per tutti noi, cittadini europei
A dispetto di tanto diffuso pensiero post-politico, la destra e la sinistra non sono categorie obsolete che esprimono scelte intercambiabili. Se vince Nicolas Sarkozy, la Francia e l’Europa saranno una cosa, se vince François Hollande, saranno un’altra cosa. Noi tutti, anche noi italiani, saremo un’altra cosa.
Questa ci pare, per così dire, la lezione preventiva dell’imminente voto francese: la riscoperta del valore dirimente delle scelte politiche contro la diffusa ideologia del loro non valore, assoluto e relativo; contro l’affermazione di una pretesa «oggettività» della Storia e dell’Economia che governerebbe comunque imponendo i propri obblighi a prescindere dalle volontà e dal pensiero di chi ha l’onere del governo concreto delle nostre complicate e contraddittorie società: «Vinca chi vinca, sempre le stesse scelte dovrà compiere». Si tratta di un fatalismo colpevole, non solo sotto il profilo etico ma anche sotto quello concettuale. La possibilità tra scelte diverse esiste, eccome. Riguardiamo la storia recente dell’Europa; diciamo, per fissare un termine di comodo, dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008 ad oggi. Molti, moltissimi leggono quella storia come il dispiegamento di un percorso obbligato: l’«oggettività» della crisi dell’euro condizionava l’«oggettività» della crisi dei debiti sovrani, la quale a sua volta chiudeva «oggettivamente» ogni possibile altra scelta che non fosse quella della riduzione, fosse come fosse, dell’indebitamento dei singoli Paesi e della predisposizione di fondi, sempre più ricchi, sempre meno sostenibili, per evitare che possibili default dei Paesi più esposti sfociassero in un disastro generale innescato dal tracollo del sistema bancario.
Nessuna alternativa si dava per praticabile: non quella della sensibilità sociale verso i disgraziati chiamati a «sostenere» una insostenibile austerità, per cui l’Europa è andata perdendo il tratto principale della propria comune costituzione materiale, l’attenzione per i diritti sociali e il welfare diffuso. Ma neppure quella, pure suggerita da tantissimi economisti e prima ancora da tanti storici consapevoli delle dure lezioni del Novecento, di un diverso modo di affrontare il rapporto tra i mercati finanziari e l’economia reale, regolando con severità i primi e guardando come la vera priorità ai bisogni della seconda dispiegando, intanto, un certo realismo. La dimensione del debito pubblico di alcuni Paesi, e non solo quelli cosiddetti «periferici», è enorme e va ridotta, certo, ma i suoi effetti vanno anche governati.
Gli Stati Uniti e il Giappone hanno debiti ben maggiori di quelli europei, il primo cresce al ritmo di mille miliardi di dollari ogni sette mesi, il secondo è al 250% del Pil contro il 120% italiano. Ma Washington e Tokyo non stanno affondando. Non per quello, almeno. La Federal Reserve e la Bank of England stampano moneta, ma né negli Usa né nel Regno Unito si muore d’inflazione.
François Hollande ha presentato un programma di governo. Si può giudicarlo come si vuole, si può criticarlo e anche ritenere che sia debole, poco coerente, troppo astratto o ingenuamente velleitario. Neppure i critici-critici possono negare, però, che esso esprima una fondamentale diversità non solo rispetto a quello di Nicolas Sarkozy, ma anche a quello che, di fatto, è stato imposto a tutti i Paesi dell’Eurozona e che con il fiscal compact è diventato una specie di decalogo fissato ad aeternum con i crismi del dogma indiscutibile. Non si tratta invece di un testo indiscutibile se proprio Hollande (e ormai non solo lui) chiede che venga, almeno in parte, rinegoziato. E se perfino nel campo avverso, tra i politici e gli analisti conservatori, si riconosce ormai apertamente che la sola austerità di bilancio ha effetti talmente recessivi da diventare pregiudiziale, paradossalmente, allo stesso obiettivo del risanamento.
Comunque lo si giudichi, va dato atto al premier spagnolo conservatore Mariano Rajoy di aver capito questa scomoda verità, annunciando che Madrid non rispetterà il patto di bilancio perché fisserà il deficit al 5,8% contro il 4,4% imposto dal patto stesso: un dimezzamento dal livello attuale all’8,5% inaccettabile perché «avrebbe effetti depressivi tali da impedire ogni risanamento».
Il programma di Hollande è stato discusso e in qualche modo concordato nel marzo scorso a Parigi con altri partiti della sinistra e del centrosinistra europeo, tra cui la Spd, i socialisti belgi e i Democratici italiani. È una specie di embrione di programma comune. Il futuro ci darà la misura delle sue potenzialità, e non sarà ovviamente ininfluente l’esito del tentativo del candidato socialista di scalzare dal vertice francese uno dei campioni della destra europea. Un dato, però, è acquisito: la battaglia di Hollande ha già rotto il monopolio che il «pensiero unico economico» ha esercitato troppo a lungo in Europa. Anche, in qualche caso, per colpa delle debolezze della sinistra e del centrosinistra.

Corriere della Sera 16.4.12
Un socialista all'Eliseo Torna il panico fra i ricchi L'ultimo presidente della Gauche
Come nel 1981, quando Mitterrand mise in fuga Arnault
di S. Mon.


PARIGI — François Hollande si è costruito la personalità politica guardando a due figure, Jacques Delors e François Mitterrand. Ma non è certo al primo che può ispirarsi per conquistare l'Eliseo, visto che nel 1995 l'allora presidente della Commissione Europea rinunciò — in modo clamoroso — a candidarsi lasciando via libera all'uomo della destra Jacques Chirac.
È quindi François Mitterrand — l'unico presidente di sinistra della V Repubblica — il modello dichiarato, che Hollande cita di continuo e di cui imita persino i movimenti delle braccia, quando parla dietro al podio durante i comizi. E come Mitterrand nel 1981, Hollande oggi fa paura ai ricchi, o almeno a una loro parte non irrilevante. «Non possiamo lasciare che Hollande metta la Francia in ginocchio», ha ripetuto ancora ieri Sarkozy, calcando su un tema che da mesi accompagna la vita politica francese.
Il primo a evocare scenari di crollo economico e povertà diffusa per colpa di Hollande è stato con la consueta franchezza, nel febbraio scorso, Serge Dassault, padrone del Figaro e soprattutto del grande gruppo aereonautico che costruisce gli aerei da combattimento Rafale e Mirage. «Gli imprenditori che non sono già scappati dalla Francia per colpa della patrimoniale lo faranno per colpa di Hollande — disse Dassault a un dibattito del partito di maggioranza Ump —. Quelli che producono crescita e posti di lavoro non sono certo i poveri. Quindi i ricchi vanno bene, sono utili, meglio tenerseli».
Nella primavera del 1981, l'altro momento della storia recente francese in cui la presa del potere da parte della sinistra sembrava possibile, i compagni di partito di Valéry Giscard d'Estaing parlavano di «soviet nelle fabbriche e collettivizzazione forzata». Michel Poniatowski, ministro dell'Interno nel primo governo di Raymond Barre, annunciava i «carri russi in Place de la Concorde». I cosacchi non fecero abbeverare i loro cavalli sulla Senna, eppure alla vigilia della vittoria di Mitterrand si scatenò il panico. Il 13 e il 14 maggio, pochi giorni prima del secondo turno del 21 maggio, la Borsa di Parigi crollò del 13,9 e poi del 9,5 per cento.
Racconta l'avvocato svizzero Douglas Hornung, allora trentenne: «Attraversavano la frontiera presi dal terrore, tanti francesi sicuri che Mitterrand avrebbe vinto e confiscato le loro ricchezze. Arrivavano con valigie ma anche sacchi di spazzatura pieni di soldi, perché erano fuggiti di corsa». Per le banche svizzere, una manna insperata. L'istituto francese Paribas pensò di fondare una sede a Ginevra per mettere in salvo il grosso della sua fortuna, ma quando la notizia venne alla luce il presidente Pierre Moussa fu costretto alle dimissioni. Tra i tanti imprenditori impauriti c'era Bernard Arnault, che si rifugiò per tre anni in Florida. Oggi, a capo del colosso del lusso Lvmh, è l'uomo più ricco di Francia e d'Europa.
Certo, allora facevano paura Mitterrand e ancora di più il suo alleato comunista Georges Marchais, che ottenne quattro ministri nel governo. I tempi sono cambiati e Jean-Luc Mélenchon non è comunista, ma la ministra Nadine Morano, fedelissima sarkozysta, non esita a raccontare di quel dibattito in cui dal pubblico si è alzato un signore originario della Germania dell'Est: «Chi vuole votare Hollande o Mélenchon venga da me che gli spiego qualcosa, io che i disastri del socialismo li ho vissuti». Sembra uno scherzo, ma come la Mini e il Maggiolone torna di moda pure la Guerra fredda.

Repubblica 16.4.12
Il personaggio Il candidato socialista ancora in testa ai sondaggi a sei giorni dal voto
"Sono pronto, nessuno ci fermerà”. La sinistra sogna con Hollande
di Anais Ginori


PARIGI - Sulla linea della metropolitana, i militanti socialisti che vannoa vedere François Hollande fino al Château de Vincennes, nell'est della capitale, passano per la fermata Concorde, dove si tiene il comizio di Nicolas Sarkozy. Qualcuno fischia, altri intonano "François Président".
C'è anche chi non dice nulla, alza solo lo sguardo, come un gesto di preghiera a invocare la sospirata vittoria. «Sono pronto» ripete diverse volte il candidato socialista sul palco, davanti alle bandiere con la rosa nel pugno. Hollande vuole esprimere l'urgenza della sfida che si sta per compiere.
Mancano solo sei giorni al voto del primo turno ma è almeno da un decennio, ricorda il candidato socialista, che la gauche è condannata all'opposizione.
Le changement c'est maintenant, il cambiamento è adesso, martella lo slogan disseminato sui manifesti. «Nessuno ci fermerà» aggiunge Hollande che ha organizzato il raduno come una festa popolare, bancarelle con vino e salsiccia, orchestrine e teatro di marionette per i bambini.
Sullo sfondo il maestoso castello voluto da Carlo V. Il fraseggio del candidato socialista è sempre pacato, quasi monocorde, se non fosse per la voce rauca, che ogni tanto si abbassa. La sua compagna Valérie Trierweiler, ai piedi del palco, sta cercando di curarlo con tè caldo e miele. Insieme, fanno un lungo bagno di folla. Salutano, stringono mani.
Lei, ostinatamente riservata, scrive sul suo conto Twitter: "Giornata particolare. Emozioni. Giovani. Destino. Primavera". Hollande è sorridente, rilassato, non vuol far credere di dare l'elezione per scontata. Continua a lanciare messaggi ai moderati. «La nostra vittoria può spaventare i mercati? No, solo il presidente-uscente» commenta, fedele alla strategia di nominare mai Sarkozy per nome.
Durante quaranta minuti di un discorso sobrio, Hollande parla di «sogno francese», immagina una «nuova frontiera», citando implicitamente John Fitzgerald Kennedy. Più che scaldare le folle con citazioni storiche e toni lirici, argomenta, snocciola i motivi per non disperdere i voti della sinistra. «Sono il candidato dell'esclusionee della rabbia. Ma devo tradurre questi sentimenti in governo» spiega, lanciando un messaggio agli elettori di JeanLuc Mélenchon, leader del Front de la Gauche. Molti militanti sono venuti a Vincennes incollandosi addosso un adesivo. «Ricordatevi cos'è successo il 22 aprile».
La data evoca lo spauracchio del primo turno alle presidenziali del 2002, quando il socialista Lionel Jospin non arrivò al ballottaggio anchea causa delle rivalità interne alla gauche. Non a caso, dietro a Hollande, è schierato lo stato maggiore del Ps. Il segretario Martine Aubry, la candidata del 2007 Ségolène Royal, gli ex premier Laurent Fabius e Jospin. La fotografia d'insieme non dà l'idea di rinnovamento, se non fosse per le due giovani a cui tocca intrattenere i militanti in apertura del comizio: la deputata Aurélie Filipetti e la portavoce di Hollande, Najat Vallaud-Belkacem, astri nascenti del partito.
«Non fate vincere il fatalismo e la rassegnazione: andate a votare» è l'incitamento di Hollande.
L'altra minaccia che plana sul voto è l'astensionismo. Il 30% degli elettori potrebbe non recarsi alle urne, record degli ultimi anni.
«Oggi, non vi chiedo di aiutarmi, vi chiedo di aiutare la Francia» dice ancora il candidato socialista, capovolgendo l'appello lanciato da Sarkozy. I riferimenti al rivale sono sempre indiretti, anche se l'anti-sarkozysmo è uno straordinario collante per la sinistra.
Hollande attacca il governo, le promesse non mantenute, parla di una nazione «divisa» al suo interno e «sminuita» sul piano internazionale. Ma anche gli accenni polemici sfumano rapidamente. Conta, sopra ogni cosa, tagliare il nastro del traguardo.

l’Unità 16.4.12
Israele, pugno duro contro la «Flytilla». Arresti a Tel Aviv
Israele contro la «Flytilla». Seicento agenti schierati all’aeroporto di Tel Aviv, liste di «indesiderati» consegnate alle compagnie aeree a Roma, Bruxelles, Parigi. È la risposta dello Stato ebraico ai «filopalestinesi»
di Umberto De Giovannangeli


Liste «nere» di attivisti filopalestinesi consegnate a diverse compagnie aeree, tra cui Alitalia
Seicento agenti presidiano l’aeroporto Ben Gurion. Ma c’è chi è riuscito a raggiungere la meta

Bloccati a Roma, a Parigi, a Bruxelles...Fermati a Tel Aviv. Trattati come «Nemici» dello Stato ebraico. Israele dichiara «guerra» alla «Flytilla». Israele ha ieri messo in mostra i propri muscoli per scompaginare una manifestazione internazionale di solidarietà ai palestinesi (Benvenuti in Palestina, Flytilla) concepita per evidenziare le difficoltà negli spostamenti per chi da decenni vive sotto occupazione militare nei Territori. Vedendo negli attivisti «elementi visceralmente anti-israeliani, quasi antisemiti» (queste le parole del ministro Ghilad Erdan, Likud) il governo di Benyamin Netanyahu ha condotto una operazione «a due fasi». Innanzi tutto ha inoltrato alle compagnie aeree dirette a Tel Aviv «liste nere» di militanti sgraditi allo Stato ebraico: non solo è stato avvertito costoro non avrebbero avuto il permesso di ingresso ma le spese di rimpatrio sarebbero state addossate alle stesse società di volo. In seguito la polizia israeliana ha presidiato l'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv con oltre 600 agenti, per lo più in borghese. A Betlemme (Cisgiordania) gli organizzatori attendevano 1.500 dimostranti, per i quali hanno organizzato una settimana di attività sociali. Ma i filtri predisposti da Israele hanno subito preso a funzionare a tutto ritmo. Centinaia di attivisti si sono visti così bloccati durante le operazioni di check-in a Parigi, Londra, Roma, Bruxelles, Londra, Ginevra, Istanbul. All'aeroporto Ben Gurion sono arrivate in definitiva solo diverse decine di attivisti che sono stati scortati ed interrogati in un terminal separato. Gli ordini di espulsione, secondo valutazioni provvisorie, sono una sessantina. Almeno 20 attivisti sono stati subito rimandati a casa. Gli altri, a quanto pare, trascorreranno la notte nel centro di detenzione Givon. E a quanto si apprende, i funzionari dell'ambasciata italiana a Tel Aviv sono impegnati nel valutare la situazione dei nostri connazionali in loco. Fra quanti sono riusciti a superare tutti i filtri predisposti dai responsabili alla sicurezza di Israele alcune decine di attivisti di vari Paesi vi è stata anche la combattiva a ottantenne Rossana Platone, ex docente dell'Università di Napoli. Cosa l'ha spinta alla azione? «La mia motivazione generale ha spiegato Platone, appena arrivata a Betlemme è stata la sete di libertà. Avrei voluto atterrare direttamente in Palestina, ma un aeroporto non c'è. Sono stata obbligata a passare per Tel Aviv».
FALLE
Ma il pugno duro contro gli attivisti di «Flytilla» scatena polemiche anche nello Stato ebraico. In uno dei più duri editoriali degli ultimi tempi il quotidiano liberal Haaretz sostiene che in questa circostanza Israele si sta comportando in maniera non dissimile dall'Iran. «L'Iran nota l'articolista impedisce l'ingresso nelle proprie installazioni nucleari ai controllori dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica, che vorrebbero riferire quanto vi avviene». «Israele aggiunge ha deciso di impedire l'ingresso nei Territori occupati di attivisti dei diritti umani che vorrebbero riferire dello stato dei diritti umani nella Regione». Questo editoriale (titolato: «Accoglieteli con i fiori») ha scatenato la rabbiosa reazione in alcuni siti della destra nazionalistica israeliana. E non solo. Ad alimentare ulteriormente le polemiche è una lettera, messa a punto da un funzionario dell'ufficio del primo ministro Benyamin Netanyahu, che invita gli attivisti in arrivo in Israele a dimostrare piuttosto per il rispetto dei diritti civili in Siria, in Iran e a Gaza.
Ma «nonostante l'imponente schieramento militare e di intelligence israeliano, attivisti italiani e francesi sono entrati in Palestina, dichiarando apertamente le proprie intenzioni, e sono già stati accolti dalle associazioni partner della missione «Benvenuti in Palestina». Ad annunciarlo in serata sono gli attivisti italiani della «Flytilla». «Siamo orgogliosi spiegano di questi compagni e compagne, come di quelli che sono stati illegalmente bloccati negli aeroporti di partenza e di quelli che in questo momento si trovano in stato di detenzione».

l’Unità 16.4.12
Riprende il negoziato con l’Iran
Ma Israele è atteso al tavolo
di Alberto Tetta


L’incontro di oggi è stato estremamente positivo perché si è svolto in un clima cooperativo» ha detto alla fine del vertice a Istanbul Saeed Jalili, presidente del Consiglio per la sicurezza nazionale iraniano e molto vicino alla Guida suprema Ali Khamenei. «Se continuiamo su questa strada i prossimi incontri saranno ancora più proficui». Alle sue spalle campeggiava un gigantesco poster, montato dalla delegazione iraniana in tutta fretta appena la Ashton ha lasciato la sala stampa. Sul manifesto lo slogan «Energia nucleare per tutti, armi nucleari per nessuno» e le foto dei «martiri uccisi dalle potenze straniere», come li ha definiti Jalili. Chiaro il riferimento a Israele accusato dal’Iran di aver architettato l’attentato contro Mostafa Ahmadi Roshan, ingeniere nucleare ucciso con un’autobomba l’11 gennaio a Teheran.
Niente intervento militare né il bombardamento “chirurgico” delle centrali chiesto a gran voce dal governo israeliano, per il momento. Sul nucleare iraniano la comunità internazionale ha puntato sulla trattativa e il vertice di sabato tra gli inviati di Usa, Russia, Cina, Francia, Inghilterra e Germania e autorità iraniane «è stato un successo». «Ci incontreremo di nuovo a Baghdad il 23 maggio» ha annunciato la capo-negoziatrice del sestetto Catherine Ashton al termine di un incontro fiume durato più di quattordici ore. «Il dialogo con l’Iran si sta svolgendo in maniera positiva e costruttiva» aveva dichiarato in mattinata la stessa Ashton. Ed è stata proprio la capo-negoziatrice europea a rompere il ghiaccio invitando a cena, venerdì sera, l’inviato di Teheran Saeed Jalili. «C'è ancora spazio per la diplomazia, ma è urgente che gli iraniani si siedano al tavolo per raggiungere risultati concreti attraverso un processo sostenibile», aveva del resto dichiarato Hillary Clinton mercoledì durante il G8. Dopo quindici mesi di impasse negoziale, insomma, l’obiettivo del vertice di Istanbul era verificare che Teheran era davvero pronta al dialogo, e così è stato. E se l’Iran si è mostrato disponibile al dialogo, anche la comunità internazionale ha assunto un atteggiamento meno intransigente. A Istanbul Catherine Ashton ha proposto a Jalili il ritiro parziale delle sanzioni in cambio dell’impegno da parte di Tehran a non produrre uranio arricchito più del 20%, in modo da renderne impossibile l’utilizzo a fini bellici. Una proposta pragmatica, di cui si continuerà a discutere a Baghdad, che gode anche del sostegno di Israele: «Potremo dire che le trattative hanno avuto successo solo se l’Iran ci assicurerà che non arricchirà il suo uranio più del 20%» ha detto il ministro della Difesa dello Stato ebraico Ehud Barak domenica scorsa in un’intervista alla Cnn.
Per scongiurare definitivamente la possibilità di una nuova guerra con l’entrata in vigore delle nuove sanzioni alle porte, l’inizio dell’embargo petrolifero contro l’Iran è previsto per inizio luglio, il 23 maggio a Baghdad, i buoni propositi dovranno trasformarsi in un accordo.

Corriere della Sera 16.4.12
Israele neutralizza la Flytilla, attivisti bloccati all'imbarco
di Francesco Battistini


TEL AVIV — Un sms: «Il suo volo per Tel Aviv è annullato...». Adi Belkassem, algerino parigino, l'ha saputo in aeroporto con un bip-bip del cellulare: «Ero già pronto a trovare la polizia, una volta in Israele, e a dire che a me di stare in Israele non importa nulla: io voglio andare in Palestina. Tutto m'aspettavo, meno questo: invece del check-in, un check-point degli occupanti!...». La sorpresa è riuscita. La Flytilla pacifista, allitterazione della Flotilla che da sempre tenta di rompere il blocco navale intorno a Gaza e due anni fa s'è scontrata nel sangue con le forze speciali israeliane, stavolta s'è sparigliata prima di decollare. I 1.500 giovani e forti sono rimasti negli aeroporti. Francesi, belgi, italiani, americani, australiani che dovevano partecipare alla 3a edizione della settimana «Benvenuti in Palestina», inaugurare una scuola e un museo a Betlemme, marciare solidali per i diritti dei Territori...
Tutti a terra, invece, da Roma a Parigi, da Ginevra a Vienna, da Istanbul a Bruxelles. Il governo Netanyahu aveva compilato mercoledì una lista nera di 1.200 persone «non gradite», minacciando le compagnie aeree di far pagare loro le spese di rimpatrio, e non è stato difficile trovare attenzione ai terminal d'Alitalia, Lufthansa, easyJet, Turkish, Jet2, Austrian: la maggior parte delle carte d'imbarco sono state strappate così, su due piedi, e ora molti minacciano azioni legali di risarcimento.
Chi è riuscito a volare, poche decine d'attivisti, al Ben Gurion di Tel Aviv ha trovato 600 poliziotti. E una sarcastica lettera del governo israeliano, «grazie per aver fatto d'Israele l'oggetto delle sue preoccupazioni umanitarie», con l'invito a marciare in Siria o in Iran. E una sfilza di domande. E in 43 casi, un decreto d'espulsione; in 31, un fermo nel carcere di Ramla: sono finiti agli arresti due fratelli italiani imbarcati a Kiev; due ragazze sono state respinte; altri non risultavano segnalati e hanno potuto raggiungere Betlemme senza problemi. Tra questi Rossana Platone, 80 anni, già docente universitaria a Napoli: «Volevo atterrare direttamente in Palestina, ma un aeroporto non ce l'hanno...». A Fiumicino, nell'elenco dei sette sbarcati c'era anche Vauro, il vignettista che già aveva partecipato a missioni della Flotilla. Non s'è presentato, però, e in una divertita telefonata ha fatto sapere d'essere «già a Gerusalemme, sono arrivato qui vestito da suora pellegrina, ho aggirato i controlli: si vede che il Mossad non è così efficiente...».
L'inedito asse compagnie aeree-governo israeliano suscita polemiche. «Una reazione isterica», la definisce Leehee Rotschild, israeliana che ha organizzato la Flytilla: «Hanno violato i diritti di gente che non ha commesso reati». «Non c'è molta differenza fra l'Iran che blocca gli ispettori nucleari e Israele che non vuole controlli nei Territori occupati», chiosa il giornale Haaretz.
«Questa gente voleva solo provocare», spiega invece il ministro della Sicurezza, Aharanovich. «Sono feroci anti-israeliani, quasi antisemiti», commenta la destra Likud. Niente d'illegale, almeno secondo la legge israeliana: ce n'è una del '52 che consente di respingere chiunque, a discrezione della polizia di frontiera. La legge che ha messo al bando Günter Grass. «Antisemita», anche lui.

Repubblica 16.4.12
Grass è antisemita ma se ne vergogna
di Mario Pirani

Oggi, una volta ancora, ci si trova confrontati col ricorrente ritorno dell'antisemitismo, veicolato dal "contributo lirico", come con sprezzo del ridicolo, Heribert Prantl, direttore della Sueddeutsche Zeitung, ha definito la cosiddetta poesia, Quello che deve essere detto, ultimo vanto di Günter Grass, da taluno classificato il più grande scrittore tedesco, non si capisce in base a quale valutazione. Numerosi commenti hanno chiosato lo scritto ma vi è spazio per qualche altra considerazione. Prima di tutto è invalsa l'abitudine, quasi un automatismo, in tutti coloro che si producono in attacchi più o meno velenosi all'ebraismo, allo Stato di Israele, paragonandolo perfino al nazismo, al capitalismo giudaico, alla negazione del Genocidio e quant'altro, di accompagnare i loro strali dalla premessa che i loro autori non debbono per questo venir giudicati come "colpevoli" di antisemitismo. Sarebbe ora che la piantassero e tornassero al buon tempo antico quando cristiani, protestanti, reazionari di destra, razzisti di ogni risma si vantavano delle loro maledizioni contro il popolo deicida, sanguinari esecutori di riti, rapaci usurai, avvelenatori dei popoli presso i quali si erano installati. Le premesse erano orrende ma chiare.
Una minoranza di spiriti illuminati si schierava contro ma contava poco. Lo stereotipo, quando il nazismo conquistò il potere aveva già permeato da secoli il popolo tedesco, coni perfidi giudei già ben definiti dall'invettiva di Lutero: «Essi sono cani assetati di sangue di tutta la cristianità e assassini di cristiani per volontà accanitae gli piace talmente farlo che sovente sono stati bruciati vivi sotto l'accusa di aver avvelenato le acque e i pozzi, rapito bambini e averli smembrati e fatti a pezzi, con lo scopo di raffreddare la loro rabbia con del sangue cristiano» (Lutero, Von den Judenund Jren Luegen -Gli ebrei e le loro menzogne, 1543).
Per alcuni secoli fu così, compreso l'antisemitismo ottocentesco di stampo pseudo scientifico. L'hitlerismo ne perfezionò la formula e ne mise in pratica gli assunti. Le dimensioni e il carattere del Genocidio, che svelarono gli abissi di crudeltà che comportava la distruzione sistematica del popolo ebreo misero fine all'antisemitismo come teoria e ancor più come pratica accettabile sia di destra che di sinistra - dove pure era allignato - esplodendo per motivi nazionali anche nel mondo arabo. A questo punto le varie componenti (destra, sinistra, islamici) misero da parte a parole ogni teoria antisemita e concentrarono il loro odio, su Israele, la Patria riconquistata contro un destino permanentemente diasporico.
La nuova vulgata si declina così: «Noi siamo amici degli ebrei. Critichiamo solo gli atti del suo governo. Perché non volete permettercelo senza bollarci come antisemiti? ». In realtà nessuno commette una simile confusione quando le critiche anche durissime portano la firma di tanti intellettuali europei o di Yehoshua, Grossman, Oz. La cui buona fede è fuori discussione. Ma da qualche anno vi è un altro personaggio in assoluta buona fede. Come lo era Hitler. È Ahmadinejad, capo del governo dell'Iran, l'unico leader politico che è tornato a proclamare pubblicamente e ripetutamente la volontà di distruggere Israele, mentre ha dato vita a un programma in atto per disporre di un apparato nucleare in grado di minacciare un secondo Genocidio. Nello stesso tempo le sue milizie schiacciano nel sangue ogni resistenza democratica della gioventù iraniana. Di fronte a questa nuova realtà Günter Grass lancia la sua velenosa bomba-carta: «Chi minaccia la pace è Israele, non il "fanfarone" Ahmadinejad, l'Iran è il popolo minacciato, non Israele». Sono inutili altre citazioni.
Non basta scrivere poesie per autoassolversi dall'antisemitismo di chi sogna la distruzione dell'"entità ebraica". Non basta per Günter Grass come non bastò per Cèline ed Ezra Pound.

Corriere della Sera 16.4.12
Il libello poetico di Grass, guerre della memoria tedesca
risponde Sergio Romano


Seguendo, sia sulla stampa che sul web, la recente vicenda di Günter Grass, ho avuto la netta sensazione di un «patto» dell'informazione finalizzato ad impedire il libero dibattito sull'argomento. Spero di essermi sbagliato, ma gradirei conoscere il suo parere sull'argomento.
Massimo Aneloni

Caro Aneloni,
Il dibattito c'è stato e continuerà probabilmente nelle prossime settimane. Ma i toni polemici hanno finito per oscurare alcuni aspetti della vicenda. Proverò a fare un elenco dei temi dibattuti e di quelli trascurati.
È stato detto che Grass ha peccato di parzialità, ha trascurato le responsabilità dell'Iran e sembra avere attribuito a Israele, addirittura, l'intenzione di un «first strike» (primo colpo) nucleare. È vero. Questo poema-pamphlet, come è stato definito, sarebbe stato più convincente se Grass non avesse ridotto le colpe dell'Iran agli esercizi oratori di un politico intemperante come Mahmud Ahmadinejad.
È stato detto che Grass, diciassettenne volontario nelle SS alla fine della Seconda guerra mondiale, non ha il diritto d'indirizzare critiche allo Stato israeliano. Non mi sembra convincente. Il mondo è pieno di persone che hanno cambiato idea nel corso della loro vita e di partiti che sono stati lieti di accoglierle nelle loro file. Per fare incetta di intellettuali Togliatti dimenticò che molti di essi erano stati fascisti, avevano accettato le cattedre del regime, avevano cantato le lodi di Mussolini e partecipato ai Littoriali della cultura.
Se le rivelazioni sul breve passato nazista di Grass non ci impediscono di pensare che Il tamburo di latta sia un buon romanzo, non vedo perché dovremmo cestinare la sua poesia ancora prima di averla letta e discussa. È stato detto che Grass soffre di narcisismo senile ed è antisemita. Ma questi sono processi alle intenzioni e ricordano le chiacchiere degli stadi e dei caffè piuttosto che le discussioni politiche e culturali.
Non è stata prestata sufficiente attenzione, invece, al fatto che la poesia di Grass potrebbe essere un altro segno del crescente disagio tedesco per il modo in cui il ricordo del genocidio ebraico continua a condizionare la vita pubblica del Paese. Il primo segno fu il «duello degli storici» (historikerstreit), iniziato nel giugno 1986 con un articolo di Ernst Nolte sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung intitolato «Il passato che non vuole passare». L'autore, molto conosciuto e discusso anche in Italia, vi sosteneva che i lager tedeschi erano stati per molti aspetti una risposta all'incombente minaccia bolscevica. Un altro filosofo e storico, Jürgen Habermas, replicò su Die Welt che il confronto tra lager e gulag avrebbe finito per assolvere la Germania dalle sue colpe antisemite. Al dibattito, che si protrasse per qualche settimana, parteciparono alcuni fra i maggiori intellettuali di quegli anni.
Un altro segno del disagio tedesco fu la conferenza che un romanziere, Martin Walser, pronunciò a Francoforte nel 1998 dopo avere ottenuto il «premio della pace», conferito dai librai tedeschi. Walser lamentò l'incessante atto d'accusa indirizzato all'intera nazione tedesca da una parte della sua intellighenzia.
Con quale scopo e intenzioni era stato costruito nel centro di Berlino un memoriale dell'olocausto grande quanto un campo di calcio? Perché creare l'impressione che l'intera storia tedesca dovesse culminare nell'ignominia di Auschwitz? Perché trasformare la Shoah in un processo permanente all'intera nazione? Anche la conferenza di Walser, come l'articolo di Nolte e, oggi, la poesia di Grass, hanno provocato reazioni ostili e, nelle dichiarazioni pubbliche, immediate prese di distanza.
Ma queste polemiche hanno già avuto l'effetto di aprire una discussione sui bombardamenti a tappeto delle città tedesche durante la guerra, sulle vittime civili e sulla sorte dei vertriebene, i profughi dei territori orientali e del Sudetenland cecoslovacco (12 milioni secondo alcuni, 15 secondo altri).
Lo stesso Grass ha dedicato un libro al naufragio della nave Wilhelm Gustloff, silurata da una sottomarino sovietico al largo di Danzica in cui sarebbero morte circa 9.000 persone (Il passo del gambero). Anche la Germania ha i suoi morti e il modo in cui li ricorda è spesso una risposta indiretta alla frequenza con cui le si chiede di espiare una colpa che i cittadini della Repubblica federale non hanno commesso.

La Stampa 16.4.12
Cina, la marcia dello yuan per diventare moneta mondiale
Reichlin: andiamo verso un ordine multipolare Ma con l’euro in crisi il dollaro resta dominante
di Tonia Mastrobuoni


Renminbi La«moneta del popolo» punta a internazionalizzarsi

Da oggi il renminbi sarà più flessibile. La Banca popolare cinese ha deciso che la sua valuta ufficiale potrà fluttuare dell’1% rispetto al dollaro contro lo 0,5 stabilito sinora. Un passo verso la libertà per una moneta che sta conquistando un’importanza crescente e che è sempre più difficile tenere imbrigliata, per le autorità di Pechino. Il renminbi o yuan è l’unica fra le sei maggiori monete al mondo che non è ancora diventata di riserva proprio per i numerosi limiti che le impone la politica cinese.
Tornano in mente le parole del governatore della banca centrale cinese del 2009. Pochi mesi dopo il crollo di Lehman Brothers, Zhou Xiaochuan predisse la fine del dollaro come principale valuta di riferimento e predisse un glorioso futuro alla «moneta del popolo». Quanto è credibile questa profezia? E soprattutto, che fine ha fatto l’unica moneta in ascesa vertiginosa fino a poco fa e che sembrava l’unica minaccia al dominio del «greenback» americano, ovvero l’euro?
La Cina ha un’economia che potrebbe diventare la prima al mondo entro il 2020 un elemento importante per candidarsi a moneta di riferimento. Ma a frenare l’internazionalizzazione dello yuan convergono il tasso di cambio imposto dall’alto, il blocco dei capitali e un mercato finanziario ancora poco liquido e sviluppato. Lucrezia Reichlin, economista della London Business School e tra le maggiori studiose di politica monetaria è dunque cauta: «il cammino mi sembra ancora lungo».
Pechino, oltretutto, ha un problema nell’offensiva contro il dollaro: detiene una quota enorme, 1.150 miliardi di dollari, di bond americani. Ogni indebolimento del biglietto verde - che si creerebbe anche se la Cina cominciasse a vendere i treasuries per riequilibrare il proprio paniere - inciderebbe negativamente sul valore delle sue riserve. Per Reichlin, però, «il processo verso un sistema finanziario in cui ci siano più valute di riserva e inevitabile ed auspicabile. Inevitabile per la maggiore apertura e liquidità dei mercati nei paesi emergenti. Auspicabile perché il quasi monopolio del dollaro come valuta di riserva ha creato asimmetrie che sono in parte all’originedella crisi finanziaria».
Ma ci vorrà del tempo, aggiunge l’economista, per vedere questo mondo monetario multipolare. Il figliol prodigo della fine del millennio, l’euro, ha interrotto la sua corsa, tanto per fare un esempio. Barry Eichengreen, che da anni parla del «dilemma del dollaro» ha ammesso di recente che si è spezzata l’ascesa della moneta unica europea e che quella statunitense «starà ancora un po’ con noi». Mettetevi nei panni di un banchiere centrale, osserva Eichengreen: che moneta comprereste per dormire tranquilli? E per tornare alla profezia di Zhou Xiaochuan, un saggio di tre economisti, Fahri, Gourinchas e Rey pubblicato su voxeu.org ci ricorda un fatto che la dice lunga sulla percezione che il mondo continua ad avere degli StatiUniti - e del dollaro. Quando fallì l’americana Lehman Brothers su cosa si buttarono gli investitori di tutto il mondo? Sugli Stati Uniti, sui suoi solidissimi treasuries. E non c’è alcun paradosso.

Corriere della Sera 16.4.12
Il Paese palude degli Imperi
Le valli impervie e orgogliose che nessun Impero ha domato
Dai britannici all'Armata Rossa, gli «stranieri» sempre respinti
di Roberto Tottoli


In vista del vertice Nato di Chicago del prossimo mese, l'Afghanistan torna a incendiarsi. Più che nei Corani bruciati, più che nell'ultimo massacro di civili afghani, la causa sta nell'essenza stessa di un Paese e di una regione che si è sempre dimostrata irriducibile alla presenza straniera e capace di fiaccare ogni occupante.
La presenza americana, dopo una decina di anni, ricorda in maniera sinistra il crepuscolo dell'occupazione sovietica, accelerato dai mujahiddin sugli altopiani e le montagne afghane. Ma la storia dell'irriducibilità afghana risale a ben oltre gli anni '80 e rimanda alla lunga storia di un territorio impervio, difficile, crocevia tra mediterraneo e mondo iranico da un lato, Asia Centrale, India e Asia orientale dall'altro.
Khorasan è il nome antico, fin dalle invasioni arabe e musulmane dal VII secolo, che venne dato all'ampia regione che occupa parte dell'Iran orientale e dell'attuale Afghanistan. Una regione che divenne nel Medioevo il centro culturale, economico e politico del mondo islamico, a metà strada tra le grandi città dell'Asia Centrale come Samarqanda e Bukhara, le capitali dell'Iran e le ricchezze dell'Islam indiano. Città di grande tradizione come Balkh e Herat rivaleggiavano con questi centri, essendo di gran lunga più grandi, più ricche e più importanti delle città arabe, e così fu almeno fino alle invasioni mongole del XIII secolo. Stretta tra le potenze centro-asiatiche e indiane ai confini, la regione afghana conquistò una sua prima indipendenza a partire dagli inizi del 1700 a prezzo di battaglie sanguinose.
Fu però dai primi anni del 1800 che l'Afghanistan si trovò all'incrocio di forze contrapposte che sostituirono Sikh indiani e persiani nelle loro mire sulla regione. L'avanzata verso sud della Russia zarista e verso nord degli inglesi dall'India diede il via a quello che divenne noto come il «Grande Gioco», un confronto di spionaggio e schermaglie tra Russia e Impero britannico. Le mire russe che giunsero a conquistare Caucaso e Asia Centrale da un lato e quelle inglesi che avevano come base l'India però si frantumarono entrambe contro un territorio che si mantenne sostanzialmente indipendente, giocando sullo scontro delle due superpotenze ma anche sulle peculiarità di un territorio unico. Montagne, orizzonti desertici e vallate impervie hanno fatto dell'Afghanistan una regione che eserciti di conquista hanno attraversato, anche conquistato, a volte, ma quasi mai controllato.
Nella corsa alla conquista coloniale delle potenze europee e nella conseguente divisione del mondo, due territori soli tra quelli musulmani rimasero sempre alieni a un controllo diretto: il centro della penisola araba e l'Afghanistan. Il quadro tribale, le capacità guerriere e l'adattabilità al territorio rendevano e rendono le pur divise tribù afghane una realtà difficilmente controllabile da chiunque, anche da parte degli stessi sovrani afghani. Difficile è valutare nel corso della storia la reale capacità di controllo della capitale Kabul in una realtà etnica, tribale e anche religiosa molto complessa, unita nel rigettare controlli esterni ma altrettanto riottosa ad accettare il controllo altrui. La storia afghana del XX secolo è in fondo ancora il prodotto di questo paradosso: un equilibrio sorretto da forze esterne e in nome di una autonomia interna di fatto: un'autonomia orgogliosa e difesa a tutti i costi sia contro i nemici esterni sia contro i tentativi di controllo dell'autorità centrale.
Non stupisce, quindi, che l'invasione sovietica del 1979, seguita a un colpo di stato, l'ennesimo, di matrice marxista, abbia risvegliato in parte l'orgoglio nazionale e seppellito contrasti tribali. Le forze di resistenza afghane, variegate per composizione e ispirazione politica, hanno costretto un impero sovietico certo fiaccato da altri problemi a ritirarsi nel 1989. Nel giro di pochi anni dopo la ritirata sovietica il regime di Najibullah è caduto aprendo la via alla nascita dello Stato islamico d'Afghanistan, precursore del regime talebano di fine millennio e vero e proprio campo di addestramento e di formazione del jihadismo contemporaneo.
L'attacco di al-Qaeda dell'11 settembre e la conseguente invasione americana ed alleata hanno riportato le tribù afghane sul piede di guerra. Il regime di Karzai ha controllato raramente oltre la capitale Kabul e le regioni circostanti. L'occupazione militare ha ottenuto l'immancabile effetto di coagulare opposizione e di raccogliere guerriglia e lotta armata sotto le bandiere talebane, in fondo ancora un'entità capace di organizzare la resistenza. La forza talebana di oggi altro non è che la secolare capacità di resistenza delle popolazioni afghane. Cancellata la presenza utile a suo tempo ma ingombrante di Bin Laden e degli arabi che parteciparono alla jihad anti-sovietica e poi alla prima costruzione del regime talebano prima del 2001, la resistenza di oggi ha una forza nuova e forse diversa. Ispirata dalla stessa fede religiosa che fu dei mujahiddin e che guarda alle scuole coraniche pakistane che hanno nel tempo accresciuto ulteriormente la loro forza nell'area, i talebani di oggi paiono impegnati esclusivamente nella liberazione nazionale, meno ostili alle altre forze di opposizione e hanno quindi maggiore capacità attrattiva.
I proclami mondiali di Bin Laden sono ormai lontani. La situazione mondiale è molto diversa ma la realtà afghana è per certi versi quella di sempre. Il prossimo vertice di Chicago dovrà tener conto non solo delle stanchezze americane e alleate ma anche della capacità di resistenza afghana. Con queste premesse potrà forse risvegliare il ricordo degli storici armistizi con gli inglesi, oppure, rievocare il ritiro sovietico di poco più di trent'anni fa, riportando l'Afghanistan in mano afghana, con un futuro ancora tutto da decifrare.

l’Unità 16.4.12
Donne in jazz, tutte le perle  di Ada Montellanico
Stasera si esibisce all’Auditorium di Roma con la sua brass band È un nuovo progetto, un omaggio alle grandi compositrici
di Daniela Amenta


Quando canta Ada Montellanico si trasfigura, sembra diventare più alta. Sembra rincorrere le note sulla punta dei piedi e inseguirle in qualche punto dello spazio. Note volanti, aeree. Quando canta, Ada Montellanico attraversa i timbri del pentagramma con guizzi caldi, swing, di velluto, entra ed esce dalle stanze del jazz con passi leggeri, suona la voce e ha il pregio di mostrarne sempre la parte più nascosta, quella più fragile e feroce: il cuore battente, il ritmo pulsante.
Autrice e cantante tra le più intense e coerenti della scena autoriale jazz, Montellanico ritorna stasera sul palco, all'Auditorium di Roma, per presentare il suo nuovo progetto. Si intitola Suono di donna, pubblicato da Incipit-Egea, un omaggio appassionato all'universo variegatissimo delle compositrici. Una collezione di perle: si va da Ups and Downs di Carla Bley, la signora dell'avanguardia, alle Parole di burro della cantantessa Carmel Consoli, passando per la raffinata e meravigliosa eleganza di Black Crow di Joni Mitchell fino alle marziane dissonanze contenute in Joga di Bjork. E poi Maria Schneider, Abbey Lincoln, Carol King e la dimenticata Ani DiFranco alternate ai pezzi scritti da Ada, così suggestivi e pastosi, originali e ottimamente arrangiati. In questa nuova avventura la accompagna una sorta di brass band con tromba, basso tuba, trombone, clarinetto basso, chitarra, contrabbasso e batteria, capitanata dal trombettista Giovanni Falzone, vincitore del Top Jazz 2011.
Quella di Montellanico è una carriera solida, priva di compromessi. Gavetta seria e militante, scelte sonore difficili nella melassa dei riff da supermercato, e collaborazioni di prestigio: Jimmy Cobb, Lee Konitz, Paul McCandless. Ma è con Enrico Rava che emerge dai piccoli club della scena romana e si impone rileggendo nel 1996 L'altro Tenco, un disco che racchiude i brani meno frequentati dell'artista piemontese. Opera struggente, necessariamente sofferta, di grande impatto. A Tenco Ada Montellanico ha dedicato anche un libro, Quasi sera per i tipi di Stampa Alternativa, ulteriore riconoscimento all'estro di un poeta lacerato, schiacciato dalla vita e dai meccanismi del business. E ancora, sempre Tenco, ma questa volta con Enrico Pieranunzi in Danza di una ninfa (Egea, 2005) che contiene quattro testi inediti del cantautore, concessi dalla famiglia, e musicati dalla cantante-autrice e dal pianista-compositore.
UN MONDO SEGRETO
Quest'attenzione per Tenco è un frammento importante della cifra immaginifica, stilistica, poetica di Ada, donna bella e solare, ma che quando canta riesce a dare voce anche a un mondo parallelo, molto intimo, quasi segreto. Una voce quasi antica per un mondo in bianco e nero dove trovano spazio le lacrime di Billie Holiday, i tormenti della grande musica d'autore e di quella afroamericana, i graffi nell'anima. Ne abbiamo poche di musiciste così sensibili. Sempre troppo poche le donne che non odiavano il jazz.

l’Unità 16.4.12
Gliese, Kepler e gli altri
Lassù nell’universo un’altra Terra è possibile
Aveva ragione Giordano Bruno: siamo circondati da infiniti mondi simili al nostro. È dal 1995 che gli astronomi scrutano oltre il sistema solare
Al 15 aprile 2012 ne sono stati scoperti 763. Compreso Gliese, a 23 anni luce da noi
di Pietro Greco


Il nome, Gliese 667C c, non è particolarmente evocativo. Ma è l’oggetto cosmico più simile alla Terra che l’uomo conosca. È grande quattro volte il nostro pianeta (ha una massa 4,54 volte quella terrestre, per la precisione), si trova a 23 anni luce da noi nella costellazione dello Scorpione e, come spiega un gruppo di ricercatori guidati da Guillem Anglada-Escud in un articolo pubblicato lo scorso mese di febbraio sull’Astrophysical Journal, è collocato al centro della «zona abitabile» di un sistema stellare multiplo (il Gliese 667), composto da ben tre stelle, due simili al nostro Sole.
Gliese 667C c, che ruota intorno a una delle tre stelle in appena 28 giorni, è la new entry e, nel medesimo tempo, la pietra (è il caso di dirlo) più preziosa dell’Habitable Exoplanets Catalog (HEC): il catalogo dei pianeti abitabili che il Planetary Habitability Laboratory (PHL) della University of Puerto Rico di Arecibo ha iniziato a stilare dallo scorso mese di dicembre.
Tutto nasce nel 1995, quando gli astronomi, grazie a nuove e sofisticate tecnologie, danno per buona la scoperta del primo pianeta extra-solare, un oggetto più grande del nostro Giove, che orbita intorno alla stella 51 Pegasi. È la prima conferma empirica che aveva ragione Giordano Bruno quando affermava, mettendo a rischio la sua incolumità, che la Terra non ha nulla di speciale e che l’universo è pieno di «infiniti mondi» della «stessa specie» del nostro pianeta.
Da quel 1995 la ricerca di pianeti extra-solari è andata avanti. Alla data di ieri, 15 aprile 2012, ne sono stati scoperti con certezza ben 763.
La domanda, fin dal 1995, era se il Nolano avesse ragione fino in fondo. E se almeno alcuni degli «infiniti mondi» fossero in grado di ospitare, come la Terra, una qualche forma, più o meno evoluta, di vita. Così gli astronomi si sono concentrati nella ricerca di pianeti che fossero letteralmente, come sosteneva Bruno, della «stessa specie della Terra».
Impresa niente affatto banale. Perché bisogna definire con esattezza cos’è un pianeta «simile alla Terra». È anche per questo che oggi e fino al 20 aprile ad Atlanta, in Georgia, Stati Uniti, l’Astrobiology Institute della NASA organizza la sua «Astrobiology Science Conference 2012», in cui discuterà della ricerca della vita nello spazio, dedicando un’apposita sessione alla «Habitability Metrics for Astrobiology», ovvero agli strumenti per misurare l’«abitabilità» degli oggetti cosmici.
Un criterio rozzo ma ritenuto, per il momento, efficace è che per essere abitabile e, dunque, per poter ospitare forme di vita così come noi le conosciamo, l’oggetto cosmico debba trovarsi in una zona dello spazio definita «zona di abitabilità», compatibile con la presenza di acqua allo stato liquido. Questo criterio è stato ulteriormente affinato prendendo in considerazione altri parametri in modo da stabilire un indice di «Earth likeness», ovvero di somiglianza alla Terra in una scala che va da 0 a 1.
Se in questa scala – che proponiamo, modestamente, di ribattezzare «scala Giordano Bruno» – l’indice raggiunge almeno il valore di 0,80, l’oggetto cosmico è ritenuto «simile alla Terra» e dunque potenzialmente in grado di ospitare forme evolute di vita. Se raggiunge il valore di 0,70 il pianeta (o il satellite naturale di un pianeta) è ritenuto in grado di ospitare forme di vita semplice, come i nostri microbi.
In questa scala, per fare un esempio, il pianeta Marte raggiunge un valore di 0,66. Marte è un pianeta simile, ma non troppo, alla Terra e comunque ai limiti dell’abitabilità.
È sulla base di questo indice che, ad Arecibo, hanno studiato tutti i 763 pianeti extra-solari finora scoperti e hanno elaborato l’Habitable Exoplanets Catalog (HEC), il catalogo dei pianeti abitabili. Si tratta di un catalogo piuttosto magro. Contiene solo quattro pianeti che superano il valore di 0,70 nella scala di somiglianza alla Terra e solo due pianeti che superano il valore di 0,80 e sono classificabili come «simili alla Terra». La new entry, Gliese 667C c, raggiunge il valore di 0,85 e, dunque, è l’oggetto cosmico più «simile alla Terra» conosciuto.
Segue a ruota il pianeta Kepler 22b, che in circa 280 giorni compie un’orbita completa intorno a Kepler 22, una nana gialla (una stella un po’più piccola del Sole) che si trova a 610 anni luce da noi. Kepler 22b è piuttosto grosso (ha una massa 6,36 volte quella della Terra), ma raggiunge un valore di 0,81 nell’indice di somiglianza al nostro pianeta è, dunque (ma su questo dunque occorre discutere), è potenzialmente in grado di ospitare forme evolute di vita.
Nel catalogo figurano altri due pianeti – Hd 85512 b e Gliese 581 d – con un indice di somiglianza alla Terra superiore a 0,70 ma inferiore a 0,80. Il catalogo, almeno momentaneamente, si ferma qui. Sono solo 4, dunque, i pianeti extra-solari potenzialmente abitabili che abbiamo scoperto: lo 0,7% di tutti i pianeti extra-solari conosciuti.
Nel sistema solare abbiamo un pianeta abitabile, la Terra, su 8: il 12,5%. Come mai questa differenza? L’indice dei pianeti abitabili nel nostro sistema solare è una fluttuazione statistica oppure l’efficienza con cui, scrutando il cielo, riusciamo a individuare pianeti abitabili non è ancora significativa?
La domanda non ha, per ora risposta. Tuttavia ci sono alcune indicazioni. La sonda Kepler, inviata nello spazio dalla NASA per «battere» il firmamento con lo specifico scopo di individuare pianeti simili alla Terra nella «zona di abitabilità» dei sistemi stellari ha finora individuato 2321 pianeti extra-solari (elenco aggiornato allo scorso mese di febbraio). Si tratta di «pianeti candidati», la cui esistenza deve essere confermata. Ebbene, su questo grosso numero di pianeti quelli simili alla Terra localizzati in una zona di abitabilità sono 45: il 2,5%. Una percentuale un po’ più vicina a quella del sistema solare.
È dunque probabile che i pianeti «della stessa specie della Terra» siano davvero molti nella nostra galassia. Secondo gli astronomi, sulla base delle attuali statistiche, potrebbero essere miliardi. Si tratta di pianeti potenzialmente abitabili. Siamo davvero in uno scenario bruniano.
Che, tuttavia, spalanca a due classi di domande. I pianeti potenzialmente abitabili lo sono poi davvero? E in che percentuale? E quando su un pianeta «della stessa specie della Terra» sboccia la vita?
La seconda classe di domande è concettualmente opposta: non è che, come il famoso ubriaco, stiamo cercando la chiave sotto il lampione perché solo qui c’è la luce? Chi ci dice che la nostra sia l’unica forma di vita possibile? Non è possibile che ci siano forme di vita diverse che preludono a «zone di abitabilità» affatto diverse?
Non abbiamo risposte a queste domande. Anche se ora, con lo sviluppo delle tecniche astronomiche, possiamo cercare le risposte. Ne vale la pena, non fosse altro per sapere se aveva ragione il grande biologo Jacques Monod quando sosteneva che «ora sappiamo di essere soli nell’immensità indifferente del cosmo», oppure ha ragione il medico che sa di matematica booleana, Stuart Kaufman, quando afferma che la vita è «a casa nell’universo».

Corriere della Sera 16.4.12
Nel tempio americano di Harvard l'Italia è ancora un sogno
Qui la nostra cultura non appare né vecchia né in crisi
di Dacia Maraini


Boston. Arrivo di sera e mi incanto a guardare le luci sfavillanti di una città ricca e sicura di sé, che si riflettono nelle acque scure del golfo. Eppure dall'ultima volta che ci sono stata, ovvero dall'anno scorso, le strade mi appaiono piu sporche e la gente che se ne sta accovacciata sui marciapiedi a chiedere l'elemosina, tanto più numerosa. Sono vecchi barboni con cani sporchi rannicchiati accanto, sono donne dalla pelle scura, l'aria malata e infelice. Ma ci sono anche dei ragazzi che porgono protervi un cappellaccio, guardandoti passare con aria scocciata e sprezzante. Un giovanotto mi colpisce: se ne sta accoccolato sul marciapiede, in jeans bucati e maglione militare, tiene sul petto un cartello che dice «Coming from Afghanistan. No food. Help!». Ovvero «Vengo dall'Afghanistan. Niente cibo. Aiuto!». Un soldato del glorioso esercito americano che chiede l'elemosina, come è possibile? Ma poi mi spiegano che molti reduci finiscono così, perché una volta rientrati in patria non trovano lavoro, a volte si ammalano — l'uranio impoverito procura leucemia e altre forme tumorali — oppure si mettono a bere perché non riescono a riadattarsi alla vita di tutti i giorni.
Harvard è una isola laboriosa. Una città di ragazzi indaffarati, scamiciati, dal passo veloce, lo sguardo fisso verso il futuro. Tengono sempre qualcosa da bere o da mangiare in mano: un gigantesco hot dog, un bicchiere di polistirolo da mezzo litro pieno di caffè o una spremuta verde di erbe organiche. La parola ORGANIC è diventata una promessa di salute. La trovi dappertutto, incollata alle etichette di qualsiasi cibo chiuso nella plastica o esposto al sole.
Il professore Francesco Erspamer, direttore degli Studi di Italianistica, si trova in America da quasi vent'anni, prima alla New York University, ora a Harvard. «Qui nella nostra università lo studio per eccellenza riguarda gli affari. Come fare soldi sembra sia la principale preoccupazione di una parte significativa dei giovani che frequentano il college. In sostanza, rispetto a dieci o vent'anni fa, una percentuale più alta di chi si laurea a Harvard finisce a Wall Street invece che a fare ricerca scientifica, politica, giornalismo, arte. Per carità, c'è sempre tanta gente che preme per venire ad Harvard per il prestigio che dà. Ma ciò che attira le menti migliori, la nuova élite, sembra essere: imparare in fretta a trattare gli affari e poi trasferirsi nei centri della finanza internazionale». La finanza che sostituisce la produzione, crede sia un processo irreversibile, vista da questa università fra le piu autorevoli del mondo? «Non credo ci sia nulla di irreversibile. Ma nel breve e forse medio termine, ho paura di sì. La produzione sembra essere diventata un processo di seconda mano, almeno negli Stati Uniti». Ed è quello che vuole la maggioranza degli americani secondo lei? «Non direi. In un momento di crisi in cui le industrie chiudono o comunque riducono la manodopera, molti vorrebbero rivalutare il lavoro produttivo. Ma questi sono i difetti della democrazia capitalistica — possiamo ancora chiamarla democrazia, o non si tratta di una nuova forma di assolutismo? —, quello che vuole la gente è diventato irrilevante rispetto alla volontà delle grandi lobby e alla capacità persuasiva del denaro. Si pensi a Mark Zuckerberg, il creatore di Facebook, da lui ideato proprio mentre studiava a Harvard. Zuckerberg era un genio della programmazione informatica ma non è per questo che è il modello di tanti studenti: bensì per il modo in cui ha saputo sfruttare economicamente una delle sue idee, neppure la più originale o complessa, diventando il più giovane miliardario del mondo».
Prendo al volo un taxi guidato da un nero col telefonino incollato all'orecchio. Gli chiedo di portarmi al Museo Isabella Stewart Gardner di Boston. Venti minuti di viaggio e mi trovo davanti un bellissimo palazzo rinascimentale veneziano, con le finestre alte a ogiva, gli scalini di marmo, le ampie sale affrescate, i piccoli e folti giardini interni. I signori Gardner hanno costruito questo palazzo veneziano ai primi del Novecento e lo hanno riempito di quadri, statue ed arazzi preziosi. Una impresa che esprime un amore ossessivo e commovente per l'Italia. Si cammina per sale immense col naso all'insù ammirando i magnifici quadri di Giotto, Simone Martini, Bellini, Tintoretto, Tiziano, Veronese, Botticelli, Raffaello. Ci sono anche dei Velasquez e dei Dürer ma l'ammirazione puntigliosa e appassionata per l'arte italiana colpisce per la sua costanza. Un amore che deve essere costato parecchio ai coniugi Gardner, ma certo il risultato è sorprendente. E oggi il museo è popolarissimo. Vengono da tutta l'America per visitare la straordinaria collezione privata.
Davanti a me scorrono tanti ritratti di Madonne col bambino. Mi chiedo se la scelta esprima un gusto particolare dei Gardner, oppure si tratti di un caso. È anche vero che non erano permesse molte altre visioni della donna ai tempi d'oro della grande pittura italiana. Eppure, viste così in serie, fanno una strana impressione. Prima di tutto i loro figli non sono neonati che si allattano, ma bimbi di due o tre anni, mentre le madri rimangono giovanissime ed eteree. Hanno un'aria stranamente assente queste mamme, che portano sulle ginocchia — quasi sempre sono sedute — un Gesù massiccio, pesante, capelluto, pensoso. Maria, più che una madre, sembra una sorella maggiore, una ragazzina dalla faccia infantile e gli occhi timidamente rivolti verso il basso. Si direbbe più interessata ad un discorso interiore mai interrotto che al santo bambino. Una sola fra le Madonne di questa vasta collezione esprime felicità materna: il pittore l'ha colta mentre si china sul figlio che, contrariamente alla tradizione, se ne sta seduto per terra e batte le manine paffute rivolgendo un delizioso sorriso alla madre. Un quadro fuori dalle regole e carico di grazia teatrale.
Ci sono moltissimi italiani fra Boston e Harvard. C'è anche un nucleo della Dante Alighieri che ha costruito una sede molto bella con un teatro appena rimodernato. Luisa Marino, abruzzese di passaporto americano, mi racconta le vicende dolorose che hanno trasformato la sua vita. Un fratello, Les Marino, che aveva fatto carriera come imprenditore, molto richiesto e stimato per la serietà del suo lavoro, è morto prematuramente di una emorragia celebrale. Il marito se n'è tornato in Germania. E lei ora vive sola con la nipote, nel ricordo dei fasti lontani. «Mio fratello ha fatto moltissimo per l'Italia da queste parti. Aveva preso dagli imprenditori americani il piacere di investire in cultura», dice commossa la Marino e si capisce che il suo è vero amore. «Ma dagli americani aveva preso anche la passione per una vita sana: si alzava alle cinque per fare ginnastica. Mangiava tutto organico. Era sempre in moto, si teneva asciutto e sano. Ma non è servito purtroppo. L'hanno trovato morto una mattina mentre camminava sul tappeto mobile».
«Si è mai chiesta perché la gente muore tanto di cancro in questo Paese ricco che consuma piu di tutti gli altri Paesi del mondo per la sua salute, che ha gli ospedali più moderni, i medici piu informati?», mi chiede un giovane bostoniano che ama l'Italia. Gli confesso che non lo so. E lui continua battagliero: «Ma perché vogliamo essere i più bravi, i più potenti, i più produttivi. Perché usiamo l'energia come se non dovesse finire mai, perché spargiamo pesticidi nelle nostre campagne come se dovessimo sterminare una volta per tutte ogni insetto che resiste sulla terra, ma con gli insetti avveleniamo le api, gli uccelli, le volpi, i topi. Solo l'uomo resiste. O crede di resistere. Ma intanto stiamo inquinando i fiumi, stiamo uccidendo i mari. Crediamo ciecamente nella tecnologia come se potesse risolvere le gravi questioni che riguardano l'uomo e la sua esistenza, senza renderci conto che intanto ne abbiamo fatto un feticcio e dietro l'adorazione del feticcio c'è il nulla. Siamo convinti che sia importante produrre i meloni piu grandi del mondo, i pomodori più rossi, perfetti e nutrienti dell'universo, li imbottiamo di vitamine e di ormoni, e poi ci stupiamo che le nostre bambine mettono su seni da adulte quando hanno appena nove anni. Dove sta la logica?», dice finendo in una risata disperata. «Guardi che anche noi stiamo facendo gli stessi errori», gli dico per consolarlo, «magari pensando di fare bene, imitando il vostro esempio». Lui mi osserva un momento pensoso ma non sembra ascoltarmi e continua con rabbia: «Mandiamo i nostri ragazzi a morire in guerre lontane e non siamo capaci di prevenire il terrorismo in casa nostra, le pare logico?». Mi sorprende questo americano dalla critica collerica. Mi chiedo se il suo amore per l'Italia non lo abbia portato a imitare il nostro sport nazionale: la critica malevola verso tutto e tutti senza distinzione. Di solito gli americani sono molto restii a criticare il proprio Paese.
Angela Boscolo Berto è una veneziana giovane e bella che insegna ad Harvard da un anno. «Sono stata fortunata: ho fatto la richiesta e sono stata ammessa. So di tanti che non ce la fanno», dice con la dolce cantilena dei veneziani. «Quello che mi piace di questo Paese è la meritocrazia. Sai che se lavori e fai bene, andrai avanti. Se invece ti impigrisci e non combini un granché, perdi tutto. Se vuoi che il tuo lavoro ti sia riconosciuto sia professionalmente che economicamente, devi sgobbare. Alle volte sono anche spietati. E ti spremono come un limone. Ma ti prendono sul serio, anche se sei una donna». I suoi occhi di ragazza moderna che non conosce i sogni proibiti delle Madonne cinquecentesche, si alzano sorridenti e fiduciosi. «Però ho tanta nostalgia dell'Italia», continua. È lei che ha organizzato la mia conferenza con gli studenti di Harvard e da come è andata, capisco la ragione per cui le hanno dato fiducia. Camminando fra le vecchie case di legno in stile coloniale di Boston non posso fare a meno di ripensare alle tante pagine di Henry James che hanno riempito di emozioni le mie giornate giovanili. La visione di una Europa molle e degradata, attraente e pericolosa sirena che adesca gli ingenui americani, esiste ancora? Se penso alle più famose letture americane, fra cui metto la Trilogia di New York di Paul Auster, direi di no. Nessuno ritiene più che l'Europa sia quel luogo affascinante e perverso in cui la bellezza prende la forma della fiacchezza morale, da cui l'America giovane e pura viene sedotta e traviata. Anzi direi che lo scrittore statunitense abbia perso ogni fede nella autenticità spartana del suo Paese e si veda sempre più isolato da una cultura che disprezza, preso da terribili sogni premonitori, infastidito dalla retorica della guerra, e ormai quasi incredulo perfino nella democrazia, per lo meno come viene vissuta e propagandata e nel nome della quale si compiono le piu grandi ingiustizie.
Pensavo che un dialogo pubblico, condotto in una aula magna, fra una anziana scrittrice e una giovane studiosa, tutte e due italiane e piene di domande da farsi, avrebbe interessato veramente pochissimi studenti. E invece la sala si riempie e come sempre mi stupisco per l'attenzione che il pubblico dimostra verso una cultura che noi tendiamo a vedere come vecchia, scontata, in crisi. Cosa ci può essere di interessante in un piccolo Paese litigioso e frammentato, indietro su tutti i fronti? E invece poi scopriamo che l'attenzione verso la nostra lingua e il nostro pensiero resiste e si rinnova. Solo merito di quella grande pittura, di quella grande musica, di quella grande architettura di cui ancora godiamo l'eredità? O c'è dell'altro? Siamo ancora capaci, vivendo in questo strano stivale che affonda le sue radici in un Mediterraneo sporco e inquinato, di farci ascoltare? La risposta sembra positiva e stupisce anche me. La domanda che segue è: non sarebbe il caso di puntare ostinatamente sulle nostre eccellenze anziché metterci in competizione con i jeans a poco prezzo di Pechino? Ricordo ancora la piccola studentessa vietnamita che l'anno scorso all'università di Hanoi mi ha detto: «Voi siete una grande potenza culturale e a noi piace ascoltarvi». Veramente sorprendente! Ma anche istruttivo. Proprio mentre ci accingiamo a tagliare le spese, a chiudere e accorpare tanti Istituti italiani di Cultura in giro per il mondo, perché non fermarci un momento a riflettere che solo investendo su ciò che abbiamo di unico e di migliore possiamo crescere, non certo piangendoci addosso e lasciando cadere a pezzi le nostre ricchezze, come è successo con quella meraviglia di Pompei?

Corriere della Sera 16.4.12
Liberali, quattro gatti senza collare
Non pretendono di sapere dove va la storia. Invece i loro nemici conoscono la «verità»
di Piero Ostellino


Dopo la pubblicazione di un fascicolo (curato da Dino Cofrancesco, Quelli che... la democrazia) da una prospettiva liberale — contro le tentazioni costruttiviste della sinistra e della stessa democrazia — la rivista «Paradoxa» ha pubblicato un fascicolo, curato da Gianfranco Pasquino, con l'obiettivo di fare le pulci (da una prospettiva che, nelle intenzioni dell'autore, sarebbe autenticamente liberale) ai quattro gatti liberali italiani che scrivono sui giornali o insegnano (liberali davvero!). Purtroppo, a inficiare l'efficacia culturale e dissacratoria dell'operazione, c'è l'assunto che ci possa essere una interpretazione autenticamente liberale del liberalismo. Che è, sì, la «dottrina della (delle) libertà e della limitazione del potere» enunciata dai suoi Padri — teoretica istituzionalizzazione della libertà individuale di scelta; tutela delle minoranze; divisione e separazione dei poteri, non solo istituzionali, grazie al costituzionalismo — e consolidatasi nella storia, ma è anche e, soprattutto, un processo esposto a verifica empirica nella realtà.
È dal rapporto, storicamente conflittuale, della volontà di potenza con la ragione — da Machiavelli, attraverso la «gloriosa rivoluzione» inglese del 1688, gli «Illuminismi» razionalista (francese) e scettico (scozzese), la Rivoluzione francese del 1789 e il XIX secolo — che è nato, e si è sviluppato, lo Stato moderno e il liberalismo si è, infine, conciliato con la democrazia, temperandone il radicalismo egualitaristico (giacobino) nello Stato contemporaneo e «sociale». Ciò non vuol dire che il liberalismo — ancorché aperto al «pluralismo dei valori» (Isaiah Berlin) — sconfini nel relativismo o, peggio, nel nichilismo, ma neppure, tanto meno, implica che tracimi in filosofia della storia, o rivendichi un «autenticismo» interpretato e garantito, come pare credere candidamente Pasquino, da qualche liberale più liberale degli altri. Il liberalismo non è una filosofia della storia, non pretende di sapere dove va la storia. Divisione e limitazione dei poteri liberale hanno le radici nella gnoseologia, in una metodologia della conoscenza che — tenendo separate le proposizioni descrittive da quelle prescrittive, l'«essere» dal «dover essere» (Hume) — impedisce persino a se stesso di (de)cadere in utopia e diventare totalitario, come accade a ogni utopia. E veniamo a ciò che divide i quattro gatti liberali dal severo critico.
Il liberalismo dei quattro gatti è (solo) la loro idea di liberalismo, autentica quanto quella di chiunque altro. Non aspira all'autenticità. I quattro gatti sanno di non sapere, convinti della ignoranza e fallibilità umane. Perciò, con Adam Smith, ritengono che lo Stato debba essere «completamente dispensato da un dovere nell'adempimento del quale nessuna saggezza o conoscenza umana può mai essere sufficiente: il dovere di sovrintendere all'attività dei privati e dirigerla verso le occupazioni più idonee all'interesse della società». Non vuol dire che il liberalismo voglia l'estinzione dello Stato, del potere pubblico, che sono, invece, insopprimibili perché impediscono a ognuno di esercitare una coercizione a danno di altri. La libertà è un fatto giuridico, come bene ha detto Kant. Rilevo, en passant, che Pasquino scrive «credo poco alla concezione minimale del liberal-costituzionalismo» e poche righe dopo che «il liberalismo è costituzionalismo». Voglio attribuire la contraddizione a un eccesso di vena polemica e non all'idea, questa sì anti-liberale, che a garantire le libertà, questa volta collettive, siano le Costituzioni «materiali» tanto care alla parte politica cui lui appartiene.
Anche la ragione ha i suoi limiti, come hanno illustrato Mandeville e l'Illuminismo empirico. Perciò, la realizzazione della società liberale non può essere perseguita attraverso una «gerarchia di fini», individuati e imposti da una mente centralizzatrice, ma può essere costruita da un ordine «inintenzionale». La cooperazione sociale — che Pasquino, con un artificio di comodo che Einaudi chiamava «fantocci polemici», nega possa realizzarsi nel liberalismo — avviene, in una società liberale, attraverso lo scambio di «mezzi» fra individui cui sarebbe impossibile realizzare le proprie finalità, delle quali gli Altri non sono comunque a conoscenza, senza la loro (con)presenza.
Pasquino invita — citando Croce e Einaudi — a non confondere il liberalismo col liberismo e se la prende con me perché ho scritto che il mercato «è la libertà dei cittadini, produttori e consumatori di ricchezza, di perseguire autonomamente i propri interessi». Poiché non voglio infierire sul vecchio amico — che, peraltro, mi pare assai cambiato, non solo dai tempi in cui frequentava il Centro Einaudi, ma anche come scienziato politico — sostenendo che, evidentemente, non ha letto la disputa fra Croce e Einaudi, o non ne ha capito il senso: per liberismo, da noi, si intende ciò che, per Einaudi e in ogni altro Paese, è la libertà economica, una delle libertà liberali, come quelle di coscienza e parola. Mi limito a supporre che non abbia mai messo piede nel supermercato di una economia liberale. Personalmente — io che sono vissuto nei Paesi di socialismo reale — non lo cambierei, e penso altrettanto farebbe lui, con quello di un Paese dove un'autorità centralizzata decida quali sono i desideri del consumatore...
Egli nega, inoltre, che il liberalismo sia un'«arida tecnica di organizzazione del potere al fine di promuovere, proteggere e garantire la libertà dei cittadini». Posso essere d'accordo che il liberalismo non sia (solo) una tecnica di organizzazione del potere; ma, ahimè, che non sia nato per promuovere, proteggere e garantire la (le) libertà dei cittadini dal potere assoluto dei sovrani dei secoli XVI e XVII mi pare difficile sostenerlo alla prova dei fatti; sempre che Pasquino non abbia voluto dire che non si sente, da noi, al sicuro dall'arbitrio del potere politico, il che sarei disposto a concedere, ma per la ragione opposta — che la nostra non è una democrazia liberale — cosa che, del resto, lui stesso sostiene più avanti: «è innegabile che dal 1946 al 1992 la Repubblica italiana non può essere accomunata ai regimi liberali: democratica sì (con elementi di socialismo reale...), liberale, certamente, no». Si dà il caso che gli elementi di socialismo reale stiano nella Costituzione che io critico e lui difende...
Pasquino dovrebbe aver appreso dal suo, e mio, maestro, Giovanni Sartori, che, in una democrazia rappresentativa, la sovranità appartiene al popolo, che ne delega l'«esercizio» ai propri rappresentanti, il che non legittima il neo-peronismo della presenza del nome del candidato premier sulla scheda elettorale, né il populismo unanimistico berlusconiano, ma spiega, almeno, l'anomalia di un governo, quello di centrodestra — figlio di un sistema elettorale pasticciato e discutibile quanto si vuole e di una interpretazione arbitraria della Costituzione formale usata come un elastico a seconda che convenga o no — che si dimette, avendo la maggioranza in Parlamento, per far posto a uno nominato dal presidente della Repubblica. Non capisco, cioè, perché, secondo lo stesso insegnamento di Sartori, i governi possano legittimamente cambiare, se mutano le maggioranze parlamentari che li sostengono, quando ciò accada a favore della parte di Pasquino e non cambino legittimamente quando favoriscono la parte avversa.
A conclusione del dibattito che «Paradoxa» ha opportunamente aperto fra liberali e democratici, mi pare si possa dire che, mentre noi quattro gatti liberali parliamo di principi storicamente e universalmente accettati del liberalismo, Pasquino sia rimasto ancorato alle cronache nazionali e a ciò che ne pensa la sua parte politica. Non è il terreno più congruo per discutere di liberalismo da parte di uno scienziato quale egli è o, spiace dirlo, finora, io avevo pensato fosse.


Corriere della Sera 16.4.12
Un modello europeo di prescrizione
di Stefano Passigli


Caro direttore, che la lentezza della giustizia sia uno dei più gravi problemi che affliggono il nostro Paese è oggetto di universale consenso. Ma non altrettanto consenso si registra se di tale lentezza si passa ad esaminare le cause, e in particolare se si affronta il problema di una riforma della prescrizione, responsabile in un anno del venir meno di ben 160.000 processi. Eppure proprio nella prescrizione, così come è venuta configurandosi in Italia, affonda le radici il problema della lentezza. Al di là della frustrazione delle vittime e della stessa magistratura giudicante, e della spinta ad una cultura dell'impunità che la prescrizione provoca, siamo in effetti in presenza di un inaudito spreco di risorse materiali ed umane che incide sullo stesso comportamento dell'avvocatura. È infatti inevitabile — e lo impone la stessa deontologia della professione — che gli avvocati della difesa si avvalgano di tutti gli strumenti che una procedura penale invecchiata e barocca offre loro per salvare clienti spesso colpevoli attraverso un proscioglimento per intervenuta prescrizione.
Al problema alcuni hanno proposto di portare risposta elevando le pene edittali dei reati, misura che però allungherebbe solo di poco i tempi di prescrizione. Altri propongono di incidere sul fenomeno modificando i meccanismi di calcolo dei tempi di prescrizione, anche se il recente caso Berlusconi-Mills, con l'incertezza che ha accompagnato fino alla sentenza l'individuazione della scadenza del processo, dimostra le difficoltà di una simile via. In ogni caso, qualsiasi tentativo di elevare i tempi della prescrizione — abbreviati dalla ex Cirielli, la più aborrita delle leggi ad personam — è destinato a scontrarsi con l'insormontabile opposizione del Pdl, mettendo a rischio più di qualsiasi altra misura la vita del governo.
Dobbiamo dunque rassegnarci a tempi di prescrizione che inducono la difesa a tattiche dilatorie, la magistratura giudicante alla rassegnazione, e i cittadini a una crescente sfiducia nella giustizia? No. Una soluzione c'è, e ci viene dall'esempio dei Paesi europei. Ovunque in Europa — ad eccezione di Italia e Grecia — l'istituto della prescrizione regola il tempo che intercorre tra il compimento di un reato e il suo perseguimento con il rinvio a giudizio. Ma una volta iniziato il processo esso non può arrestarsi e deve giungere a compimento. L'obbligo dell'azione penale trova un limite nel diritto dell'accusato di un reato di non essere portato a giudizio dopo anni e anni dallo svolgimento del fatto, ma l'interesse pubblico trova conforto nell'effettivo giungere a sentenza dei processi una volta iniziati. Se in Italia si seguisse l'esempio dell'Europa, l'accusa dovrebbe concentrare i tempi di indagine, ma la difesa perderebbe ogni incentivo a dilazionare strumentalmente i tempi del processo e i termini della prescrizione così intesa potrebbero essere ulteriormente ridotti rispetto alla stessa legge ex Cirielli senza provocare i danni che essa oggi provoca.
Una simile soluzione — che velocizzando i processi sanerebbe il più grave dei mali della giustizia penale — incontrerebbe però le stesse obiezioni sinora mosse dal Pdl all'allungamento dei tempi di prescrizione. Durante tutta la seconda repubblica la politica della giustizia è stata infatti profondamente influenzata dalle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi. Occorrerebbe dunque che questa radicale modifica della prescrizione non si applicasse ai processi in corso che continuerebbero ad essere regolati dall'attuale normativa, permettendo così di giungere più agevolmente a un nuovo regime della prescrizione. Finirebbe così lo scandalo di una giustizia penale ove chi si può permettere costosi collegi di difesa è quasi certo dell'impunità. Il discredito della politica e il diffondersi della corruzione trovano fondamento proprio nella crisi della giustizia penale, cui l'attuale regime della prescrizione favorendo l'impunità porta un forte contributo. Governo e partiti lavorino pure a modifiche in materia di intercettazioni, responsabilità civile dei magistrati, e nuova definizione dei reati di concussione e corruzione, ma non dimentichino che il cuore del problema della giustizia penale sta in una riforma della prescrizione. Non è troppo tardi per cambiare: in materia di prescrizione la giustizia ha bisogno di una rivoluzione copernicana.
Professore ordinario di Scienza politica all'Università di Firenze

Repubblica 16.4.12
Sul nuovo "Reset" lo studioso francese propone alcune idee per superare la prospettiva del "qui e ora" dei sistemi di governo
L democrazia dell’emergenza
Soluzioni contro la politica a “breve termine”
di Pierre Rosanvallon


I regimi democratici riescono con molta difficoltà a inserire considerazioni di lungo periodo nel loro funzionamento. E questa difficoltà diventa preoccupante quando le problematiche relative all'ambiente e al clima ci costringono a rivedere in termini nuovi i nostri obblighi nei confronti delle future generazioni.
Questo problema - uno storico deve sottolinearlo in prima battuta - non è nuovo. Sin dagli albori della Rivoluzione francese Condorcet poneva l'attenzione sui pericoli di quella che chiamava una «democrazia immediata». Il filosofo temeva in particolare che la gestione delle finanze pubbliche fosse dominata dagli ondeggiamenti di un'azione finalizzata alla pura quotidianità; invitava, di conseguenza, a sottrarre la gestione delle finanze pubbliche all'influenza del potere esecutivo. Una sorta di «preferenza per il presente» sembra effettivamente caratterizzare l'orizzonte politico delle democrazie. La spiegazione può essere individuata in motivi strutturali, che dipendono ovviamente da comportamenti determinati dai ritmi elettorali e dalle impellenze dei sondaggi. La corsa affannosa al breve termine è in primo luogo figlia delle condizioni in cui viene esercitata la lotta per il potere. Diventa quindi ovvio contrapporre gli ideali tipici del «politico», che si preoccuperebbe solo della prossima scadenza elettorale, a quelli dell'«uomo di Stato» che avrebbe lo sguardo teso verso un orizzonte più lontano.
Tuttavia le cose sono più complesse. La miopia delle democrazie ha cause strutturali. Ricordiamo in primo luogo che le stesse hanno potuto farsi strada solo dopo essersi affrancate dai vincoli della tradizione, aver lottato per la legittimazione dei «diritti del presente», ed essersi liberate dalla prigione di una temporalità predeterminata. «La terra appartiene ai vivi» diceva con fermezza Jefferson per contestare l'idea di una costrizione preventiva dell'espressione della volontà generale in funzione di una ragione più ampia. «È assurdo che la volontà assegni a se stessa dei vincoli per il futuro»: la celebre formula del Contratto sociale è stata fondante per le democrazie moderne. Nel mondo post-rivoluzionario di oggi nessuna religione secolare è capace di attribuire significato all'azione collettiva facendo prioritariamente riferimento a una speranza lontana. Lo specifico delle religioni, notava Tocqueville, sta nel fatto che «abituano a comportamenti orientati a una prospettiva futura». In passato, il lungo periodo era in effetti sempre associato all'idea di salvezza. Gli imperativi della secolarizzazione e quelli di un'espressione autonoma della volontà generale si sono così sovrapposti per delimitare l'orizzonte temporale delle democrazie. Per correggere le tendenze «naturali» al breve termine si potrebbero prendere in considerazione quattro tipi di provvedimenti o di istituzioni: introdurre principi ecologici nell'ordine costituzionale; rafforzare ed estendere la definizione patrimoniale dello Stato; costituire una grande «Accademia del futuro»; istituire dei forum pubblici che mobilitino l'attenzione e la partecipazione dei cittadini.
Questa pluralità di espressione delle problematiche sul lungo periodo potrebbero consentirne una difesa più efficace di quanto non possa fare un ipotetico bicameralismo. I limiti del principio rappresentativo potranno essere superati attraverso una sua decomposizione e una mise en abyme. La democrazia si evolve attraverso un processo di complessificazione e diventando più riflessiva.
In primo luogo è necessario inserire la dimensione ecologica nell'ordine costituzionale. È la cosa più ovvia. In effetti, le costituzioni custodiscono strutturalmente la memoria dei principi organizzatori della vita comune, e costringono le assemblee parlamentari e il potere esecutivo a rispettarli. Esse vigilano quindi sui diritti dell'uomo e sullo spirito delle istituzioni. Dal canto suo, l'esistenza di uno Stato forte ha sempre rappresentato una difesa contro l'approccio a breve termine. Già sotto la monarchia si distingueva tra la proprietà reale, ovvero i beni della corona, di cui lo stesso re non poteva liberamente disporre perché formavano lo zoccolo materiale di una potenza pubblica atemporale, e i beni personali del sovrano. La nozione di Stato ha solo modernizzato l'idea di un dato trans-storico nella vita politica. Nel XIX secolo, anche i liberali insistevano su questa dimensione.
Gli stessi che difendevano l'idea di un potere pubblico ai livelli minimi riconoscevano la centralità della sua dimensione istitutiva della società. «Lo Stato è il rappresentante della perpetuità sociale, diceva ad esempio Paul Leroy-Beaulieu.
Ha l'obbligo di operare affinché le condizioni generali di esistenza della nazione non si deteriorino; questoè il minimo; ancora meglio sarebbe che operasse nel senso del loro miglioramento». Oggi consideriamo soprattutto lo Stato nel suo ruolo regolatore.
È tuttavia di vitale importanza recuperare la sua funzione di mantenimento delle condizioni della vita in comune.
Non è possibile rafforzare la preoccupazione sul lungo termine senza una forte funzione pubblica che agisca in questa direzione. È necessario dare alla nozione di patrimonio un significato attivo, prospettico, ecologico. Pensiamo a ciò che Littré diceva della Repubblica: «Essa è il regime che consente al tempo di mantenere la sua giusta prevalenza». Anche la formazione di una «Accademia del futuro» potrebbe svolgere un ruolo essenziale. Formata da scienziati, filosofi, esperti riconosciuti e rappresentanti delle principali associazioni operanti nel settore ecologico, potrebbe essere sistematicamente consultata su tematiche di competenzae formulare riflessioni pubbliche sulle quali i governanti sarebbero chiamati a prendere posizione. Si ritroverebbe in questo modo l'idea originale di Accademia: quella di un corpo al servizio della società, che esercita la doppia funzione di vigilanza e di anticipazione.
Nel loro caso svolgere una funzione di rappresentanza non significa disporre di una delega, ma contribuire a rendere più intelligibile e più sensibile la complessità del mondo, in modo tale che la preoccupazione del lungo termine sia costantemente in evidenza. Un'Accademia di questa natura dovrebbe svolgere un ruolo centrale nel lancio di «forum del futuro» che consentano ai cittadini di appropriarsi di questi temi. La formalizzazione e la «drammatizzazione» di alcuni di questi forum potrebbe attivare il dibattito pubblico nel momento in cui si debba addivenire alla determinazione di grandi orientamenti su scelte politiche o nell'ambito di negoziati internazionali.
Un ampliamento di questo genere della coscienza di cittadinanza è di fondamentale importanza. Per uscire dalla miopia democratica è assolutamente necessario chei cittadini diventino essi stessi difensori di una coscienza allargata del mondo. Nel XIX secolo, i progressi dell'educazione hanno rappresentato una delle matrici essenziali del consolidamento democratico. Nel XXI secolo la presa di coscienza sociale della necessità di un nuovo orizzonte temporale della ragione pubblica costituirà il vettore di un approfondimento dell'idea democratica.
Quando i cittadini avranno modificato i loro pensieri nel senso di una capacità di anticipazione, la loro visione si troverà in sintonia con la piena consapevolezza di un'esistenza a misura dell'umanità.
(Traduzione di Silvana Mazzoni)

Repubblica 16.4.12
La prima versione “hard” del “Dottor Jekill”
di E.F.


LONDRA - Nel segreto del suo laboratorio, il dottor Jekyll non solo si trasformava in Mister Hyde ma diventava anche "lo schiavo di certi appetiti sessuali" perversi. Così lo descriveva Robert Louis Stevenson nella prima versione del suo famoso romanzo, rivelata al pubblico per la prima volta dalla British Library. Una bozza piena di correzioni e appunti da cui appare chiaro che l'autore decise successivamente di presentare al pubblico un libro un po' meno scioccante, perlomeno dal punto di vista delle attitudini sessuali del protagonista. In realtà la versione di "Lo strano caso del dr. Jekylle di Mr. Hyde" ora pubblicata dalla British Librarì è la seconda: la prima, mostrata dall'autore alla moglie, la sconvolse al punto che lei lo indusse a dare il manoscritto alle fiamme. Ma Stevenson poi lo riscrisse.

Corriere della Sera 16.4.12
L'invasione dei morti rinati
Né vampiri né zombie, ma insonni e sempre affamati
di Ranieri Polese


A volte ritornano. Anzi, rinascono. Succede così nel romanzo I primi tornarono a nuoto di Giacomo Papi (Einaudi Stile libero), con un morto che ricompare, nudo, in un supermercato. Adriano, un medico che si trova lì per caso, lo porta all'ospedale e lo sottopone a degli esami. Presto si conosce la sua identità, e si scopre che Serafino Currò è morto molti anni prima. L'uomo che il medico osserva ha la stessa età di quando morì. Non ha più denti, ma come i bambini piccoli sta mettendo una dentatura di latte; ha sempre fame e non dorme mai. (Più tardi si saprà anche che questi morti ritornati alla vita sono sessualmente attivi, ma sterili, non possono procreare).
Serafino è il primo di una legione di rinati che a intervalli regolari — circa quaranta giorni — ricompaiono in numero esponenziale. In tutto il mondo, da ogni epoca: c'è la ragazza vissuta nella tarda latinità, ci sono quelli che abitavano nella casa che ora è affittata da nuovi inquilini, c'è un ragazzino romano morto accoltellato nell'Ottocento. In Cina, addirittura, rinasce un giovane maschio vissuto 18 mila anni fa. All'inizio non fanno paura, i rinati sono sorpresi e spaesati, spesso non ritrovano più le loro case o i posti dove lavoravano, e quando c'è ancora qualcuno della loro famiglia, succede che figli o nipoti non li vogliono più. Poi però, quando crescono di numero e non trovano più cibo a sufficienza, cominciano a diventare aggressivi. Temono che i vivi sottraggano loro le risorse alimentari e allora cercano di impedire che nascano nuovi esseri umani: Maria, la compagna di Adriano, che aspetta un figlio ed è vicina al parto, si accorge presto di questa minaccia che monta. Intanto i rinati si coalizzano contro quanti vanno predicando la necessità di sterminare quelle strane creature, né morte né vive.
Insomma, l'apocalisse è cominciata, l'antico divieto che impediva ai morti di tornare fra i vivi è caduto, il mondo si troverà progressivamente invaso da una sterminata quantità di defunti (110 miliardi da quando l'Homo sapiens cominciò dall'Africa la sua migrazione: sono queste le stime di studiosi riconfermate recentemente da un gruppo di ricercatori di Washington). Solo che non si tratta di zombie carnivori o di vampiri, sono persone come noi, magari con lo sguardo più acquoso e un colorito meno vivace, che mangiano in continuazione e non dormono mai.
«Questo romanzo nasce dall'insonnia» racconta Giacomo Papi, 45 anni, scrittore, già direttore editoriale di Isbn, ora consulente per Einaudi Stile libero nonché collaboratore di Fabio Fazio per Che tempo che fa. «Era una notte d'inverno, a Milano, quattro anni fa. Ero uscito sul terrazzo a fumare (allora fumavo ancora), guardavo la nebbia e cominciai a pensare. L'insonnia è una maledizione, ma è anche un grande aiuto per chi fa un lavoro creativo. È in quelle ore che si affacciano le idee e prendono forma. Così, quella notte, pensai a un viaggio all'incontrario di quello fatto da Dante: lui, vivo, andava nel regno dei morti, io immaginai invece che i morti tornassero fra i vivi. Andai a letto e in mezz'ora avevo già in mente la storia completa. Nei giorni successivi cominciai a scrivere, e la prima stesura fu pronta in breve tempo. Era il doppio di quella che esce ora in libro, ho tolto il superfluo, ma il finale era lo stesso e la trama uguale».
Esce ora, il romanzo, in questo 2012 abitato da cupe inquietudini dettate dalla spaventosa crisi economica, dal recente disastro di Fukushima, dalle guerre striscianti. E, come se non bastasse, c'è anche la profezia dei Maya, quella che prevede che il mondo finirà il 21 dicembre. C'è ormai un florido filone apocalittico che va da Cormac McCarthy, La strada, a Glenn Cooper, La biblioteca dei morti, a Tullio Avoledo e Davide Boosta Dileo, Un buon posto per morire, senza contare i film in stile Armageddon. Insomma, un buon momento per andare in libreria.
«Anche, perché no? Ma il libro era nato molto prima. Certo, nello scriverlo, ho giocato con certi stilemi del cinema americano, ho tenuto presenti i romanzi di genere che trattano temi come la fine del mondo, i morti viventi. M'interessava molto la sintassi del racconto, i cambi di scena, un montaggio quasi cinematografico. Volevo costruire un racconto che trattenesse l'attenzione del lettore, e intanto desse spazio a dei temi di riflessione. Per esempio al fatto che, se il ritorno dei morti appare giustamente inspiegabile, anche la vita lo è: perché si nasce, che senso ha l'esistenza che ci è toccata e che inevitabilmente ci conduce alla morte? Insomma, volevo mostrare che la linea di separazione tra vita e morte non è poi così sicura, che il confine tra nascere e marcire, tra bene e male, è molto labile. Del resto, è il rapporto con i morti che pone le basi della civiltà, Foscolo lo aveva capito bene».
Ha seguito dei modelli per I primi tornarono a nuoto? «Non credo di aver tenuto presenti dei modelli nello scrivere il romanzo. Certo, un film mi ha segnato molto: è Blade Runner di Ridley Scott, che unisce un meccanismo narrativo perfetto a un contenuto quasi filosofico».
Nella rubrica «Cose che non vanno più di moda», che tiene su «D» di «Repubblica», lei denuncia l'invadente narcisismo degli autori italiani di oggi: «Non c'è praticamente nuovo scrittore italiano che non parli di sé». E, in un'altra puntata, dando la parola ai personaggi dei romanzi che vedono minacciato il loro ruolo e il loro lavoro, fa dire a Lucia Mondella: «Fino a pochi anni fa, il mestiere dello scrittore era inventare storie e personaggi. Oggi parlano solo di se stessi».
«Sono realmente stufo della letteratura italiana di oggi, senza fantasia, dove non si inventa più niente, né storie né personaggi. In Italia, i libri che escono vengono catalogati così: ci sono quelli che raccontano storie e perciò vengono definiti di intrattenimento, quindi di genere; dall'altro lato ci sono quelli che si propongono come testimonianza, portano in primo piano l'io dell'autore che parla solo di sé. E nessuno sembra accorgersi che così la letteratura diventa una sorta di gossip generalizzato. Credo invece che la letteratura debba inventare storie, miti, attraverso i quali i lettori arrivano a confrontarsi con temi, domande: perché viviamo, perché amiamo?».

Corriere della Sera 16.4.12
Il cardinale e la messa per la poetessa suicida
Ravasi: Antonia Pozzi cercò Dio con tormento
di Armando Torno


MILANO — Il cardinale Gianfranco Ravasi domani, alle 18, celebrerà una messa per la poetessa Antonia Pozzi nella chiesa parrocchiale di Pasturo, in provincia di Lecco, ai piedi delle Grigne. Questa donna, che si laureò (tesi su Flaubert) con Antonio Banfi a Milano, morì suicida il 3 dicembre 1938, a 26 anni. Ha lasciato riflessioni struggenti. Il responsabile della cultura del Vaticano ci ha confidato: «Celebro questa messa perché l'atteggiamento che la Chiesa ha attualmente nei confronti dei suicidi presta molta attenzione alle dimensioni interiori della tragedia. Se l'evento drammatico nasce da una superficialità o è causato dal disprezzo dei valori della vita, allora evidentemente non può essere oggetto di una celebrazione esplicita. Ma — e qui Ravasi apre uno spiraglio di luce — la Pozzi rappresenta il caso di una persona dotata di forte spiritualità e di intensa ricerca interiore, travolta da una sensibilità estrema». La Chiesa non accetta il suicidio razionale; tuttavia, per altre situazioni, si fa interprete misericordiosa.
Pasturo è un paese ricordato da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi, perché è il luogo di origine di Agnese, la madre di Lucia. Qui Antonia Pozzi trascorse non pochi giorni nella settecentesca casa di villeggiatura della sua famiglia, dove c'era una buona biblioteca; qui, nel piccolo cimitero, è sepolta. Alle 17 sua eminenza visiterà anche la mostra fotografica dedicata alla poetessa. Ravasi ricorda l'inizio di Funerale senza tristezza, una delle poesie più emozionanti che l'allieva di Banfi ha lasciato: «Questo non è esser morti,/ questo è tornare/ al paese, alla culla...». E poi, dopo aver precisato che sta parlando della morte, evoca la parte conclusiva: «...questo tornare degli umani,/ per aerei ponti/di cielo,/ per candide creste di monti/ sognati,/ all'altra riva, ai prati/ del sole». La fine si trasforma in un «ritorno in Dio, nella luce». Il cardinale la considera una mistica laica, stimata da lettori importanti (Montale ne patrocinò l'ingresso nella collezione di poesia «Lo specchio» di Mondadori); soprattutto evidenzia l'incessante anelito spirituale, sorta di febbre interiore che colpisce chi cerca la fede. Cita ancora dei versi: «Ma tutta l'acqua mi fu bevuta, o Dio, /ed ora dentro il cuore /ho una caverna vuota /cieca di te. /Signore, per tutto il mio pianto /ridammi una stilla di Te, /ch'io riviva». Infine precisa: «Celebrerò la messa anche per essere vicino a tutte quelle persone sensibili che sentono dentro di sé un vuoto e una domanda». Non a caso la Pozzi scrisse: «Io non devo scordare mai che il cielo fu in me». Per Ravasi questa poetessa «è il canto dell'assenza, che è attesa».
Alle 21 di domani, infine, al Teatro della Società di Lecco (con collegamenti esterni) sua eminenza ricorderà anche David Maria Turoldo, spentosi nel 1992. Erano molto vicini, insieme lavorarono. Sceglie una frase del comune amico Carlo Bo per tratteggiarne il profilo: «Padre David ha avuto da Dio due doni: la fede e la poesia. Dandogli la fede, gli ha imposto di cantarla tutti i giorni». Insomma — e queste sono parole di Ravasi — «furono testimonianze poetiche obbligate, frutto di una fede esistenziale». Non dimentica che Turoldo è stato sovente chiamato «profeta» (lo fece anche il cardinale Carlo Maria Martini, consegnandogli il Premio Lazzati). «Questa definizione — precisa — è da cogliere in senso corretto e non nell'accezione popolare di uomo che prevede il futuro. Il profeta, anche quello biblico, è colui che si interessa del presente cercando di scoprire in esso un senso trascendente, ovvero l'agire segreto di Dio. Per questo si impolvera nelle vicende della storia». E per il medesimo motivo può essere discusso. E discutibile.
Sua eminenza avrà una giornata densa. O meglio, le sue saranno ore in cui vivrà, tra un'emozione e un ricordo, una confidenza che gli fece Julien Green. L'allora monsignore rivolse al drammaturgo e scrittore una domanda particolare, di quel genere che ogni tanto si tenta con le grandi personalità. Quei quesiti che si possono così formulare: «Cos'è per lei il nucleo del Cristianesimo?». Green rispose al futuro cardinale: «Finché si è inquieti, si può stare tranquilli».

Repubblica 16.4.12
Il regalo di padre Georg al Papa "Un libro per dire chi è davvero"
di Marco Ansaldo


I cardini del pensiero. Nel giorno dell'85esimo compleanno, esce in Germania il volume che raccoglie venti pareri sul Pontefice A curarlo è stato il segretario di Benedetto XVI. Che racconta a Repubblica com'è nata l'idea

UN PONTEFICE che ha «coraggio». Che non ha paura di affrontare «questioni delicate». E la cui immagine invece, già da cardinale, come quella di un «poliziotto», ma anche dopo, è stata presentata spesso «in modo deformato e distorto». Perché Joseph Ratzinger è, piuttosto, un «Papa delle parole».
Più un «teologo che un uomo di grandi gesti».
Forse non c'è persona, oggi, che conosce meglio il Pontefice tedesco del suo segretario personale.
Non solo per motivi di ufficio, quanto di vicinanza spirituale e conoscenza della figura e del magistero di Benedetto XVI. E monsignor Georg Gaenswein, tedesco del sud, amante dei Pink Floyd e dello sci, ma dottore in teologia e docente di diritto canonico, rimarca la propria devozione al vescovo di Roma con un regalo speciale.
Oggi Joseph Ratzinger compie 85 anni. E don Georg ha voluto festeggiare il tondo anniversario con una sorpresa: un libro pubblicato in Germania che raccoglie gli scritti di 20 vip di lingua tedesca, 20 personaggi prominenti (da qui il titolo "Benedikt XVI.
Prominente ueber den Papst"), sul Papa. Ha lavorato in silenzio per mesi, tirando le fila di questo lavoro di 191 pagine, riunendo contributi diversi: dall'ex calciatore Franz Beckenbauer, ai politici Schaueble e Stoiber, al cardinale svizzero Koch, scrivendo infine un suo ritratto personale del Pontefice e l'introduzione all'intero testo.
Visto da vicino Gaenswein, 56 anni portati gagliardamente, un ciuffo brizzolato che fatica a uscire in maniera composta dall'elegante abito talare, non smentisce l'allure che lo circonda. Eppure l'aspetto sportivo non è disgiunto da un afflato spirituale solido e da un'intelligenza pragmatica.
Non sempre l'assistente del Papa - lo si vede costantemente al suo fianco, un inchino e un passo indietro - ha goduto della considerazione degli osservatori vaticani che all'inizio lo giudicavano con cautela. Ma ora, alla vigilia il 19 aprile prossimo dei sette anni del pontificato di Benedetto, l'immagine di don Georg si è rafforzata. La sua perseveranza, l'operare discreto dentro l'Appartamento, l'intesa consolidata con il Papa, hanno fatto sì che l'assistente tedesco oggi non solo sia il custode fidatissimo di tanti segreti della Casa. Ma un sostegno concreto, con un apporto apprezzato da Ratzinger che vede nel proprio segretario particolare ben più che un'ombra attenta: un consigliere influente e ascoltato. Monsignor Gaenswein, com'è nata l'idea di questo omaggio? «E' molto semplice: sono stato invitato dalla casa editrice, la Media Maria Verlag, a scrivere un contributo per un libro che sarebbe diventato un regalo per l'85° compleanno del Santo Padre. Ci ho pensato su».
E che cosa ne è venuto fuori? «Dato che si sarebbe trattato di un regalo per il compleanno del Papa ho detto di sì, lo scriverò! E comunicata la risposta positiva, mi hanno immediatamente invitato a occuparmi anche dell'aspetto editoriale dell'opera. Ho riflettuto pure su questo e alla fine ho accettato».
Venti grandi personaggi di lingua tedesca: come sono stati scelti? «Lo scopo era di dare voce a personalità provenienti da ambiti diversi della società tedesca - chiesa, politica, cultura, economia, sport - che conoscono personalmente il Santo Padre. Abbiamo presentato loro l'idea, e poi invitati a collaborare. Ecco il risultato! ». E qual è l'idea che emerge dai loro scritti? «E' importante sottolineare che non sono state poste condizioni di scrivere "pro Papa". Cioè il libro non è per niente, per così dire, "un lavoro ricevuto dall'alto da svolgere per pura cortesia". Non c'era un diktat sul politically correct. Ciascuno di loro, uomo o donna, poteva, anzi doveva scrivere come avrebbe "dettato" il cuore e il cervello. L'idea di fondo era di offrire una visione personale e sincera sulla persona e sull'operare di Papa Benedetto, scritta da persone note in Germania». Dall'immagine di "poliziotto del Papa", come lei scrive nel testo, quando sotto il precedente pontificato Ratzinger era a capo della Congregazione della Dottrina della Fede (l'ex Sant'Uffizio), a "Papa delle parole". Più un "teologo che un uomo di grandi gesti". Lei oggi è forse la persona che lo conosce più da vicino. Ma chi è davvero quest'uomo? «Ho cercato di dare una rispostaa questa domanda proprio nel mio contributo. L'immagine del Santo Padre, già l'immagine del Cardinale Ratzinger, spesso è stata presentata in modo deformato e distorto. Mi dovrei dilungare troppo se dovessi esporne ora i motivi. Propongo di prendere in mano il libro e di leggerlo.
Qui si troveranno le risposte».
Sono comunque passati sette anni dall'ascesa di Ratzinger al Soglio petrino. Non un tempo troppo lungo per un pontificato, però sufficiente per trarne un bilancio. Quale, dal suo punto di vista? «Un fatto che segna chiaramente il pontificato di Benedetto XVI è il coraggio. Il Papa tedesco non teme questioni delicate e neanche confronti ad bonum fidei et Ecclesiae! ».
Dunque che cosa davvero gli sta a cuore? «La questione del rapporto tra fede e ragione, tra religione e rinuncia alla violenza. Dalla sua prospettiva, la ri-cristianizzazione innanzitutto dell'Europa sarà possibile quando gli uomini comprenderanno che fede e ragione non sono in contrasto ma in relazione tra loro».
Ma c'è un segno programmatico? «Il Papa, in fondo, vuole riaffermare, con forza e chiarezza, il nocciolo della fede cattolica: l'amore di Dio per l'uomo, che trova nella morte in croce di Gesù e nella sua resurrezione l'espressione insuperabile. Questo amore è l'immutabile centro sul quale si fonda la fiducia cristiana nel mondo, ma anche l'impegno alla carità, alla misericordia, alla rinuncia alla violenza. Non per caso la prima Enciclica del Papa è intitolata "Deus caritas est - Dio è amore". È un segno programmatico del suo pontificato. Benedetto XVI vuol far risplendere la gioia e la bellezza del messaggio evangelico».