mercoledì 18 aprile 2012

l’Unità 18.4.12
Verso una manifestazione unitaria. Convergenze tra i segretari generali
Gli scioperi regionali. Oggi Milano, domani Torino, venerdì Roma e Bologna
Cgil, Cisl e Uil Mobilitazione su fisco e lavoro
di Massimo Franchi


Cgil, Cisl e Uil verso una manifestazione unitaria su crescita, fisco e lavoro. Sì anche dall’Ugl. I tre sindacati confederali chiedono poi a Fornero una «convocazione urgente» sugli esodati. La ministra: vedremo.

Tentativi sempre più convinti di unità sindacale. Ieri Cgil, Cisl e Uil hanno rilanciato l’idea di una manifestazione unitaria sul fisco e sul lavoro e hanno riaperto il capitolo esodati chiedendo alla ministra Elsa Fornero una convocazione urgente, ottenendo in risposta un laconico «vediamo».
Dopo che la Uil già da alcune settimane aveva lanciato l’idea di una mobilitazione unitaria a maggio, ieri è toccato a Cgil e Cisl rilanciarla. Come normale, ognuno rivendica la paternità dell’idea, ma la sostanza è che si va verso una grande manifestazione unitaria. Un’idea a cui si è subito accodata l’Ugl guidato da Centrella.
Camusso, Bonanni ed Angeletti (verrebbe da chiamarli CBA, vista la moda imperante di costruire acronimi con i cognomi, facendo il verso ai politici) ieri si sono scambiati messaggi. «Proporrò a Bonanni ha annunciato Camusso da Firenze dove si trovava anche il leader Cisl di mobilitarci unitariamente sui temi del fisco e del lavoro, con una manifestazione nazionale». Pronta e positiva la risposta di Bonanni: «Mi fa piacere che Camusso aderisca alla nostra proposta di arrivare a iniziative comuni, da studiare insieme su un piano di chiarezza. Bisogna trovare le parole e le rivendicazioni più giuste, prendendoci le nostre responsabilità». «Finalmente tutti abbiamo capito ha risposto Angeletti che il vero problema non è solo la salvaguardia dei diritti ma, soprattutto, dei posti di lavoro. La cosa più importante che possono fare i sindacati è chiedere che siano ridotte le tasse sul lavoro con proposte credibili e concrete». A sera Susanna Camusso ha poi attaccato l’atteggiamento del governo: «Io per il momento vedo tante parole, come quelle spese fin da novembre, e un continuo rinvio dei provvedimenti per la crescita. Continua ad esserci l'idea che si interviene su qualunque cosa ma non si danno mai risposte al lavoro e quindi non si danno risposte alla crescita».
SCIOPERI CGIL
La Cgil si conferma comunque la più decisa e domani il suo Direttivo dovrà decidere come dare seguito alle 16 ore di sciopero già decise. Ieri si è fermata Brescia con un corteo partito dal piazzale di fronte all’Iveco e che ha raggiunto il casello Brescia Ovest. Successivamente, i manifestanti hanno raggiunto piazza della Loggia per i ricordare i morti impuniti della strage del maggio 1974 a pochi giorni dalla sentenza. Oggi invece si ferma Milano con 4 ore di sciopero (8 per i lavoratori pubblici), previsti 4 presidi (Corso Sempione, Corso Venezia, Via Pantano davanti all’Assolombarda e Corso Monforte davanti la Prefettura) e un corteo di studenti con partenza dalle 9 a Largo Cairoli fino alla Prefettura. Domani invece tocca a Torino: sciopero di 4 ore (8 ore per il Pubblico impiego) con due concentramenti che si uniranno in piazza Castello. Venerdì invece si fermerà tutto il Lazio (8 ore di sciopero per tutti con manifestazione a Roma con corteo da Bocca della Verità a piazza Farnese e comizio finale di Susanna Camusso) e Bologna (8 ore di sciopero con corteo da piazza XX settembre a viale Masini, sede del ministero del Lavoro).

La Stampa 18.4.12
Pressione fiscale record Nel 2012 arriva al 45,1%
Votato il pareggio di bilancio nella Carta ma il deficit zero arriverà solo nel 2015
di Alessandro Barbera


ROMA Per chi crede ancora in John Maynard Keynes e nelle sue teorie si tratta di un errore capitale. Qualche settimana fa cinque premi Nobel hanno scritto un appello a Barack Obama per dire no a quella che in giro per l’indebitato Occidente è diventata una parola d’ordine. Ma l’Europa ha deciso così, e l’Italia, come tutti, ha fatto di necessità virtù. Così ieri il Senato ha detto sì in via definitiva all’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione. I 235 voti favorevoli, ovvero più dei due terzi dell’assemblea, eviteranno anche il referendum confermativo. Il «Def», il documento di finanza pubbliche che oggi sarà approvato dal governo dirà che il pareggio di bilancio almeno nei numeri lo vedremo solo nel 2014. E però il voto ha un forte significato simbolico. «Era un voto importante, bisognava esserci e io c’ero», farà sapere il senatore a vita Mario Monti. Di tutti i giorni possibili per dire il sì definitivo, ieri era quello che al governo serviva di più per sottolineare la volontà dell’Italia di proseguire sulla strada del rigore. Nonostante i numeri, le pressioni dei partiti, la recessione e una crescita ancora molto fiacca.
Il Tesoro stima per quest’anno una contrazione del Pil dell’1,2%, peggio dell’ultima previsione (-0,4%) ma comunque meglio del -1,5% di Bankitalia e del -1,9% previsto proprio ieri dal Fondo monetario internazionale. Il governo si mostra più ottimista anche per l’anno prossimo: se nel 2013 il Fondo vede un -0,3%, noi stimiamo +0,5%. La crescita stenta, e dunque è più difficile anche il raggiungimento del pareggio. Nel 2013, la scadenza promessa a Bruxelles, il deficit si fermerà a +0,5%, quattro decimali in più di quanto stimato in precedenza. Ma per la Commissione poco cambia: mezzo punto di Pil in deficit (circa sette miliardi di euro) è la soglia considerata «close to balance», vicina all’obiettivo. Anche in questo caso le nostre previsioni non sono allineate a quelle, più prudenti, del Fondo: noi prevediamo deficit zero in termini reali nel 2015, Washington lo stima possibile solo nel 2017.
Peggiorano anche le previsioni per il debito: quest’anno balzerà di ulteriori tre punti al 123,4%, il massimo di sempre. Il testo definitivo del governo imputerà l’aumento essenzialmente ai costi del salvataggio greco e della istituzione del Fondo salva-Stati: rispetto alle stime precedenti lo scostamento è di circa tre punti, 45 miliardi di euro. Il debito promette di scendere al 121,6% nel 2013 e al 118,3% nel 2014. Nonostante tutto, il calo degli spread fra i Btp e i Bund iniziato con l’insediamento del governo Monti ci farà spendere molto meno in interessi sul debito. Quest’anno pagheremo 6,3 miliardi in più rispetto al 2011 (79,9 miliardi nell’anno), ma 17 in meno rispetto a quanto previsto a dicembre, quando lo spread sull’Italia era attorno ai 550 punti base.
Ciò detto, ci siamo salvati dal baratro con una stangata fiscale senza precedenti: la pressione fiscale che nel 2011 era già salita al 42,5% quest’anno toccherà il nuovo record del 45,1%, più del 43,7% causato nel 1997 dall’Eurotassa di Prodi e Visco. Il peso fiscale salirà ancora nel 2013 (45,4%) e scenderà lievemente al 44,9% nel 2015. Se il «Def» è un compendio delle prossime scelte di politica economica, mettete l’anima in pace: questi numeri ci dicono che non c’è alcuna speranza in una riduzione delle tasse in tempi rapidi.

l’Unità 18.4.12
Austerità, nuovo nome dell’ideologia liberista che ha prodotto la crisi
La destra europea finge di ignorare che le sue idee sui mercati liberi e autoregolati hanno fallito e cerca di tenerle in vita sotto altre vesti
di Sigmar Gabriel, Leader SPD


L’Europa si trova dinanzi a un tornante storico in cui si deciderà il futuro comune. Riusciremo a dare una risposta comune alla crisi finanziaria e monetaria, dando regole ai mercati? Riusciremo, da questa crisi, ad avviare una dinamica che porti a una maggiore integrazione? O permetteremo invece che l’Europa si lasci smembrare dai mercati, col rischio che rinascano pericolosi nazionalismi e che l’Europa stessa rimanga sospesa in un limbo politico ed economico?
Siamo a un passaggio d’epoca. L’era del fondamentalismo del mercato e del neoliberismo è giunta al termine. I suoi paladini sono dinanzi alle rovine delle loro stesse teorie. Per quasi trent’anni hanno raccontato che solo la libertà dei mercati avrebbe reso possibile il progresso della società. Tutto ciò è crollato fragorosamente con la crisi finanziaria del 2009. I mercati liberalizzati e deregolati non si sono dimostrati efficienti, tutto il contrario. Coloro che hanno diffuso questo falso credo nel mercato non erano economisti, ma teologi. Hanno annunciato dogmi di fede e difeso interessi molto concreti, lontani dal bene comune.
Come risposta alle nuove sfide non servono più le ricette del passato. Come socialdemocratici e socialisti europei sappiamo che viviamo un tempo che esige risposte nuove e diverse.
Inutile attendere queste risposte dai conservatori e dai liberali europei. Nemmeno adesso vogliono darsi per intesi del fatto che le loro idee sui mercarti liberi e autosufficienti hanno fatto fallimento.
Quando Angela Merkel dice che quello di cui si discute oggi è di «democrazie adeguate al mercato» si smaschera da sola e mostra come lei, e i suoi colleghi conservatori, continuino a non cogliere la profondità del cambiamento. Come socialdemocratici e socialisti europei affermiamo: abbiamo bisogno di mercati adeguati alla democrazia, mercati che si adeguino a una politica democratica. Sappiamo che l’Europa è il luogo in cui dobbiamo condurre insieme questa battaglia politica. Su questo poggia oggi la grande unità dei socialdemocratici e socialisti europei: l’Europa può e deve essere il luogo in cui, insieme, addomestichiamo per la seconda volta il capitalismo... in particolare il capitalismo finanziario.
Ciò di cui abbiamo bisogno è una europeizzazione dell’economia sociale di mercato orientata al benessere a lungo termine di quante più persone possibile, non alla soddisfazione immediata di pochi.
I capi di Stato e di governo europei, in maggioranza conservatori, si sono lasciati manovrare dai mercati per troppo tempo. Con continui salvataggi pubblici hanno cercato di guadagnare tempo, senza aggredire la crisi alle sue radici e senza ridimensionare le pretese della finanza. Inoltre, in modo fazioso, hanno dato di questa crisi una definizione corretta soltanto in parte: per esempio, come crisi del debito di alcuni stati dell’Unione europea i cui bilanci sarebbero andati fuori controllo e la cui competitività sarebbe crollata. Nel caso della Grecia, una simile interpretazione potrebbe trovare una qualche giustificazione. In quelli di Irlanda e Spagna, tuttavia, elude il nucleo del problema. Questi Paesi esibivano, prima che scoppiasse la crisi finanziaria, conti pubblici esemplari. Qui è stata la crisi internazionale a obbligare entrambi gli Stati a indebitarsi massicciamente per evitare il collasso del loro sistema bancario.
I conservatori e i liberali europei cercano di nascondere il ruolo avuto dalla crisi finanziaria internazionale. Invece di sottoporre davvero a controllo i mercati, invece di affrontare i problemi strutturali dell’eurozona attraverso una politica economica, finanziaria e sociale effettivamente coordinata, l’Europa obbedisce all’unico imperativo del rigore, che non è né economicamente razionale né socialmente giusto.
Sotto un nuovo nome, conservatori e liberali europei mantengono in vita le idee e le categorie neoliberiste che sono fallite con la crisi. Lo fanno nella misura in cui i mercati possono continuare il loro gioco speculativo e nella misura in cui gli Stati si sottomettono a un imperativo unilaterale di rigore, il cui risultato è meno servizi pubblici, meno giustizia sociale, più privatizzazioni e più libertà ai mercati.
Come socialdemocratici e socialisti europei vogliamo una politica diversa per l’Europa. Vogliamo coniugare stabilità finanziaria e solidarietà europea, disciplina di bilancio con crescita e occupazione.
Il Fiscal compact è un passo importante per garantire bilanci pubblici solidi in Europa. Tuttavia, è orientato in modo troppo squilibrato al rigore e all’austerità. Per questo vogliamo che sia completato con uno stimolo comune europeo alla crescita e all’occupazione.
Vogliamo che i mercati finanziari siano sottoposti a regole più strette e che contribuiscano a pagare i costi della crisi atttraverso un’imposta sulle transazioni finanziarie. Il ricavato di questa imposta potrà essere usato per un programma economico e di innovazione, una sorta di Piano Marshall europeo del quale dovrebbe beneficiare soprattutto l’Europa meridionale.
Vogliamo dare all’Europa una forte caratterizzazione sociale: attraverso un’iniziativa comune contro la disoccupazione giovanile, che ha raggiunto in alcuni Paesi livelli preoccupanti, attraverso uno standard sociale minimo e salari dignitosi in tutta Europa. Vogliamo lottare perché le persone tornino a sapere questo: l’Europa è una comunità che tutela i suoi cittadini.
Sappiamo anche che l’Europa, nella crisi, deve continuare ad avanzare nel processo di integrazione e richiede fondamenta democratiche ancora più solide. Come contrappeso alla “politica del cenacolo” dei capi di Stato e di governo ai vertici dell’Ue, il Parlamento europeo deve trasformarsi nel centro della decisione politica e della democrazia europea.
Quando oggi si parla di Europa, lo si fa sempre meno a proposito di pace e riconciliazione, libertà ed emancipazione, e sempre più in relazione a concetti economico-finanziari: fondo di salvataggio, meccanismo di stabilità o indebitamento. Il dibattito sull’Europa, che un tempo era un dibattito sulle idee politiche, si svolge sempre di più con il vocabolario dei manager. Ma non possiamo lasciare l’Europa in mano ai manager! Perché l’Europa è molto di più. Più della moneta unica, più del mercato comune. Più persino dei trattati e delle istituzioni che oggi tengono unita l’Unione europea.
L’Europa è anche, e soprattutto, una grandiosa idea di convivenza tra popoli e persone. Rifondare questo contratto sociale tra cittadini, in dialogo e in alleanza con le forze sociali e i partner dell’Unione, è una delle grandi sfide a cui può e deve dedicarsi la socialdemocrazia in Europa. L’Europa come comunità che tutela e rappresenta gli interessi dei cittadini nel mondo di domani: questa è l’idea del futuro della nuova e diversa Europa del XXI secolo che abbiamo noi, socialdemocratici e socialisti.

l’Unità 18.4.12
«SilenziosaMente» Protesta in memoria delle vittime: 1000 solo nel 2011
Secondo l’Eures le persone più a rischio sono quelle tra i 46 e 65 anni
«Tre suicidi al giorno per la crisi» Oggi una fiaccolata per ricordare
di Mariagrazia Gerina


Aumentano i suicidi al tempo della crisi: 3048 solo nel 2010. In testa la Lombardia e il Veneto. Il picco maggiore, +44%, si raggiunge tra chi ha perso il lavoro e teme di non trovarne un altro.

Morti ammazzati dal lavoro che non c’è più. Spinti a togliersi la vita dalla disoccupazione che avanza. È una lunga scia di vittime quella che la crisi si sta lasciando alle spalle. Un suicidio al giorno, 362 in un anno, mietuti solo tra i disoccupati, 336 tra imprenditori e lavoratori autonomi. È una macabra sequenza quella scandita dall’Eures ne Il suicidio in Italia al tempo della crisi. E ancora non tiene conto delle ultime recrudescenze, visto che elabora dati relativi al 2010. Quelle che porteranno stasera in piazza a Roma imprenditori e lavoratori, raccolti al Pantheon (a partire dalle 20) per una protesta silenziosa, una fiaccolata in ricordo delle troppe vittime della crisi, lavoratori e imprenditori che si sono tolti la vita, con un ritmo impressionante dall’inizio dell’anno. Mentre già il 2011 scandiscono gli organizzatori si era chiuso con «più di mille suicidi». Quasi tre suicidi al giorno, per colpa della crisi.
La tendenza era già chiara a guardare i dati del 2010. Ci si ammazza di più in Italia al tempo della crisi: 3048 persone si sono tolte la vita solo nel 2010, il 2,1% in più dell’anno precedente, che registrava già il 5,6% in più rispetto al 2008. I suicidi sono in drammatico aumento. E il picco più preoccupante, + 44,9%, si registra proprio tra chi perde lavoro.
Ci si ammazza perché non si riesce a sostenere il peso di una malattia (74,8%), per amore (16,3%), ma, sempre più, anche per ragioni economiche (8,1%). E il momento di massima fragilità coincide proprio con la perdita del lavoro. Dei 362 disoccupati che si sono tolti la vita, 288 avevano perso il posto di lavoro, 88 in più del passato.
Guardando all’età la fascia più a rischio sembra quella che va tra i 46 ai 64 anni. La più vulnerabile di fronte alla perdita del posto di lavoro e alla disoccupazione che non a caso è cresciuta del 12,6%, e anche quella rileva lo studio dell’Eures in cui si concentra il fenomeno dei cosiddetti «esodati». In questa fascia si registra un aumento dei suicidi del 5,8% rispetto al 2009 e del 16,8 rispetto al 2008.
Gli uomini sono più a rischio: quattro volte più vulnerabili delle donne. E se tra i disoccupati, maschi soprattutto, si registrano 17,2 suicidi ogni centomila, anche tra imprenditori e i professionisti, colpiti dai ritardi nei pagamenti per beni e servizi venduti (sorpattutto da parte della Pubblica amministrazione) e dalla conseguente difficoltà di accesso al credito, il numero non scende sotto ai 10 ogni 100mila. Mentre in aumento sono i suicidi anche tra gli stranieri: 264 nel 2010 contro i 201 casi del 2006.
Da un punto di vista geografico, il maggior numero di suicidi si concentra al Nord, dove si sfiorano i sei casi (5,9) ogni centomila abitanti contro i 5,3 del Centro e i 3,8 del Sud. In Lombardia in particolare: 496 casi solo nel 2010, con un incremento del 2,9% rispetto al 2009. E a seguire, il Veneto (320), dove proprio ieri i familiari delle vittime della crisi hanno dato vita a una associazione, «Speranza Lavoro» e al governatore Zaia hanno consegnato una lenzuolata di 7 metri con i nomi delle imprese che hanno chiuso i battenti e degli ultimi nove suicidi.
Al Centro, però, i suicidi sono in più rapido aumento. Nel Lazio, in particolare, che con i 266 casi del 2010, raggiunge un preoccupante + 27,3%, da sommare al +11,2% dell’anno precedente.
«Dati drammatici» che segnalano «il clima di incertezza e scoraggiamento che c'è nel nostro Paese» e che chiamano in causa «tutta la classe dirigente», osserva il leader della Cisl Bonanni. Mentre il segretario della Cgil Susanna Camusso sottolinea che, al di là delle singole storie, «il tratto sempre più chiaro è l'assenza di prospettiva per troppe persone» e dunque la necessità di dare «una prospettiva di crescita al Paese». È quello che chiederanno oggi imprenditori e lavoratori con la loro fiaccolata, a cui aderiscono 20 sigle tra sindacati e associazioni. In cima alle ragioni della protesta i ritardi nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione. E le banche, che, nonostante gli aiuti ricevuti, non hanno allentato la stretta sul credito alle imprese. Tra le proposte anche quella di un fondo di solidarietà gestito dalle Prefetture.

La Stampa 18.4.12
I dati dell'Eures
Un suicidio al giorno tra i disoccupati
Con la crisi la percentuale è in continuo aumento. Lombardia al top

qui

l’Unità 18.4.12
Il suicidio non è di classe
di Michele Ciliberto


Ci sono molte cose che colpiscono nella crisi profonda, e tragica, che sta attraversando il Paese: allarma ad esempio vedere quanto si stia estendendo l’area della miseria e della povertà. Ma soprattutto colpisce sentire, con una frequenza angosciosa, che un lavoratore oppure un imprenditore hanno deciso di mettere fine alla loro vita, suicidandosi.
La crisi ha cancellato, in modo drammatico, le distinzioni di classe: in diversa misura, e in modi diversi ovviamente, tutti coloro che sono dentro l’universo del lavoro si trovano oggi in una situazione di precarietà, di debolezza che si trasforma in una progressiva perdita di sé, di identità sia sociale che individuale.
Alla base di gesti terribili come questi c’è un senso di totale solitudine, la perdita di qualsiasi fiducia nel futuro, il sentimento di un destino di sconfitta al quale appare impossibile resistere. E c’è la persuasione lucida e intransigente che non ci siano partiti ,sindacati, associazioni, chiese alle quali si possa far appello per avere un aiuto e cercare di ritrovare una strada.
C’è insomma la persuasione che non ci siano strumenti di «mediazione» di alcun tipo, e che ciascuno sia chiamato ad assumersi, da solo, tutte le proprie responsabilità, salendo per protesta su una gru, cercando di farsi giustizia con le proprie mani, fino a decidere di togliersi la vita. Si sono spezzati i tradizionali legami di solidarietà, senza che se ne siano creati altri. Si può dirlo senza retorica: oggi ciascuno è più solo, chiuso nel cerchio ristretto della propria esistenza. Capire perchè succeda questo e perchè un uomo si senta un’isola non è facile. Certo, si potrebbe dire che così accade perché, come diceva un grande filosofo, il lavoro è il predicato dell’uomo e con esso vengono meno i fili che tengono insieme una vita, una persona, qualunque sia il ruolo che ricopre nel processo lavorativo. Qui infatti vengono meno le differenze fra imprenditore e lavoratore, ed entrambi si trovano a misurarsi con una medesima perdita di sé, un medesimo vuoto, con la stessa insopportabile solitudine.
È questa una spiegazione necessaria, ma non sufficiente. Gli individui si disperdono perché, insieme al lavoro, viene progressivamente meno il senso del futuro, la possibilità di uno sguardo che consenta di guardare oltre la quotidianità, di legare il filo della propria esistenza a una visione, a una prospettiva in grado di generare fiducia in se stessi e nella vita. È quando si spalanca questo vuoto che si può aprire la via a decisioni ultime, irrevocabili.
Riaffermare il primato del lavoro è dunque necessario, ma non sufficiente; ed è precisamente qui che si situa il valore nel senso stretto del termine della politica, dell’agire politico. Oggi, a conferma della gravità della crisi, è diventato di moda vedere nella politica l’origine di tutti i mali fino a sostenere, come è stato fatto qualche giorno fa su un giornale che vuole essere di sinistra, che i partiti sono il cancro della democrazia. Ma è vero precisamente il contrario: senza la politica e per politica intendo la capacità di costituire legami che siano in grado di tenere insieme gli individui la società arretra, degrada, si corrompe senza distinzione di classe o di ceto.
Naturalmente c’è politica e politica: c’è la politica degli oligarchi e c’è la politica democratica; c’è la politica che, facendo l’apologia dell’antipolitica, si preoccupa solo dei suoi interessi e c’è la politica che si propone di costituire tra gli individui una nuova rete di legami, muovendo proprio dal lavoro.
Bisogna perciò saper guardare nei gesti estremi di chi si è tolto la vita e cercare di capire cosa esprimono: non sempre e necessariamente una resa, ma spesso la rivendicazione di un diritto a un destino individuale e collettivo differente. La vita è tale perché comprende in sé anche la morte. E da qui dovrebbe prendere le mosse una politica democratica che voglia fare i conti fino in fondo con la crisi attuale, in tutti i suoi aspetti, anche quelli esistenziali: da una seria riflessione su queste morti ristabilendo, proprio attraverso di esse, un nuovo legame con la vita. Oggi la politica si disgrega e perde credito perchè si è separata dalla vita chiudendosi in se stessa, in puro esercizio del potere. È l’eredità più dura e più pesante del berlusconismo, una delle epoche più cupe della recente storia italiana. Se la politica democratica vuole avere un peso, un ruolo, un significato, deve saper ritrovare i legami con la vita degli individui, in tutte le sue forme, riuscendo a proiettarsi verso il futuro. In una parola: deve darsi una visione. Senza un’idea del futuro si precipita nella disgregazione, nella perdita di sé. Senza una visione, non c’è politica, non c’è vita.

l’Unità 18.4.12
I partiti devono scuotersi
Bisogna rinnovare per difendere la politica
Contro la disaffezione e la perdita di fiducia dei cittadini serve uno scatto
Reichlin ha ragione: alla base della crisi c’è lo strapotere della finanza e ad esso occorre reagire
A Macaluso dico: il Pds non fu mai vicino all’antipolitica, ma tentò strade nuove
di Achille Occhetto


La situazione è sempre più caratterizzata dal riemergere di una profonda questione morale all’interno della politica e da una drammatica crisi economica e finanziaria. Di queste due crisi occorre comprendere gli intrecci e nello stesso tempo le peculiarità e le distinzioni. In buona sostanza ci troviamo di fronte ad una miscela esplosiva che per disinnescarla, come avviene per tutti gli ordigni, occorre sapere mettere le mani nei posti giusti, separando dove va separato e intrecciando là dove vanno colti gli intrecci.
Il primo intreccio da cogliere è quello tra la corruzione della società politica e quella della società civile. Una attenta radiografia delle vicende di tutti questi anni ci dimostra che non esistono corrotti senza corruttori e che in questo deplorevole intreccio la presenza non solo dei piccoli affaristi ma anche della grande finanza non è certo secondaria. I cosiddetti poteri forti sono stati più volte implicati in gesta tutt’altro che lodevoli. In questo contesto Reichlin su l’Unità ha posto correttamente il problema se sia giusto scaricare sui partiti su tutti i partiti la responsabilità di una crisi che ha alla sua base la potenza e la forza distruttiva della ricchezza finanziaria. Ha ragione: i comportamenti dell’alta finanza e dei grandi speculatori coperti di soldi non possono colpirci di meno dei piccoli e grandi faccendieri dei partiti, il più delle volte in combutta con i primi. Di qui la domanda: per risalire dal baratro è necessario fare tabula rasa e mettere in discussione alle radici la politica organizzata, di cui i partiti sono una delle espressioni più alte? A questa domanda io rispondo nettamente di no, e lo faccio nel modo più semplice: dicendo che non bisogna buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Ma colto questo intreccio bisogna sapere distinguere ciò che va distinto. Certo, non va buttato via il bambino, ma chiediamoci: possiamo cercare di pulire, di risanare quell’acqua sporca? Nella pulizia degli infanti certamente non è necessario, ma in politica sì. In politica, se si vuole riconquistare la fiducia dei cittadini non è sufficiente dire: «per carità, certo, la corruzione va condannata» e poi... giù botte contro tutti coloro che, in un modo o nell’altro, anche correndo grandi rischi, hanno cercato di mettersi di traverso per risanare quell’acqua che è la linfa del vivere sociale. Non lo si può fare senza ingenerare nelle persone oneste il sospetto che ci sia lì una sorta di antigiustizialismo peloso, che è poi l’altra faccia dell’altrettanto sgradevole giustizialismo da forcaioli. So di non dire nulla di nuovo, perché questo è quello che i dirigenti del Pds hanno sempre pensato a partire dal periodo terribile di «mani pulite», in cui sono stati costretti a difendersi per alcuni casi sia pur limitati, arrivando a chieder scusa agli italiani come feci io in una gremitissima e attonita Piazza Maggiore a Bologna. Le monetine ce le siamo tirate a noi stessi e non a Craxi; e lo abbiamo fatto difendendo sempre con tenacia il partito e la funzione dei partiti, senza però aderire alle forsennate e antipolitiche campagne contro la magistratura. Lo abbiamo fatto in un contesto in cui si poneva, e si pone, il tema della riforma della politica e dei partiti, delle linee di scorrimento tra partiti e movimenti.
Quindi, per rispondere al quesito di Reichlin, la ricetta è una sola: difendere i partiti e rinnovare, rinnovare per difendere. Certo che le rivolte anche sacrosante e le agitazioni possono operare in modo inconsulto, e che non basta destrutturare perché occorre ricostruire. Anche questa non è una grande scoperta, ma rimane una verità inoppugnabile. Tuttavia dinnanzi alla scompostezza delle agitazioni o delle rivolte non si tratta come insegnava Antonio Gramsci di mettere le brache al mondo. Operazione tipica di tutti i politicisti, primi e efficaci fomentatori dell’antipolitica. Sì, perché sono loro a fornire, con il loro distacco oligarchico, gli alibi alla pigrizia mentale delle mere ire estremiste. Questo lo aveva capito molto bene, non già un esponente dell’antipolitica, ma Aldo Moro, nel suo celebre discorso sui movimenti giovanili del ’68.
Per questo mi sento a disagio quando vedo la tendenza a considerare come antipolitica le politiche che non si condividono. Soprattutto se sono di sinistra. Infatti non sono considerate antipolitica le sparate inconsulte dei leghisti, gli inviti berlusconiani a non pagare le tasse, gli attacchi forsennati alla magistratura, gli insulti al Presidente della Repubblica e così via. Tutto questo è politica, magari politica sbagliata, ma politica. Con questo non intendo dire che non esiste una ventata irrazionale che sta investendo la società politica e che rischia di travolgere tutto e tutti. Non c’è dubbio che esiste e che sta infestando il Paese. Tuttavia è consigliabile cercare di capire che cosa si intende per antipolitica.
In genere si tratta di atteggiamenti estremi che tendono a coinvolgere nel furore della critica l’insieme dei luoghi istituzionali, che negano il valore della ricerca di comunicazione tra i diversi movimenti e il Parlamento o il governo, che sospettano di ogni forma di alleanza tra diversi, di ogni tipo di compromesso e tanto più di manovra politica. Si tratta per lo più di espressioni di disagio a forte tendenza iconoclasta. Per costoro il partito abita la dimora del Male assoluto. Per un gruppo dirigente come quello del Pds che ha dovuto affrontare assemblee dubbiose per convincere i militanti che bisognava far parte della Internazionale di quella, una volta odiata, socialdemocrazia, o assemblee di fabbrica per far capire che davanti alla crisi finanziaria e alla necessità dell’entrata nella zona dell’euro erano necessari sacrifici, per chi si è trovato a intessere complicate manovre politiche per arrivare all’elezione di Scalfaro a presidente della Repubblica o per fare accettare la designazione di Ciampi come presidente del Consiglio, o si è trovato ad intrecciare sottili rapporti diplomatici con i principali leaders della socialdemocrazia europea per co-fondare il Partito del socialismo europeo, è molto difficile, veramente molto difficile, sentirsi in qualche modo vicino all’antipolitica. Non solo, il gruppo dirigente del Pds era tutto formato da uomini e donne che erano cresciuti nel e con il partito, con quella forma della politica, della decisione e dell’azione. Certo anche chi ha piedi profondamente radicati nel partito e nella politica può, come fece quella quintessenza della lucida manovra politica che porta il nome di Togliatti, dialogare persino con l’Uomo Qualunque di Giannini. Oppure può, come fecero Gramsci e il liberale Gobetti, cercare di capire e di dialogare con gli Arditi del Popolo. È quindi naturale che negli anni che vanno dal ‘89 al ’94, che conobbero in un lasso di tempo brevissimo eventi che squassarono tutto il sistema politico, quello mondiale, con la fine dell’Urss, e quello nazionale, con la quasi scomparsa, prima del Psi, e poi della Dc e con il sorgere di una ventata di antipolitica cavalcata dalla grande stampa, dal movimento di Fini e da due forze nuove e, in gran parte, ignote, oscure erano diventate anche le strade della politica. Ho fatto questo cenno perché Macaluso nella sua risposta a Reichlin sempre su l’Unità, non solo ha individuato il «peccato originale» nell’antipolitica del Pds, ma ha ravvisato, come uno dei momenti della colpa, la vittoriosa stagione dei sindaci, che permise di aprire nelle città italiane una fase di stabilità e di risanamento senza precedenti.
La prova della colpa sarebbe l’alleanza con Orlando. Ora, a parte che Orlando, a differenza di Giannini, non era un qualunquista ma un esponente della Dc, non si può non riconoscere al di là della condivisione o meno delle sue idee politiche di allora e tanto più di adesso che la fase della primavera palermitana ha rappresentato una ventata di aria fresca e antimafiosa, che ha dato un volto nuovo a quella città.
Dico questo tra parentesi, solo per ricavarne un principio generale che è questo: chi fa parte dell’area della politica non passa necessariamente, se fa operazioni politiche anche rischiose, dalla parte dell’antipolitica, se naturalmente non ne viene contagiato nella propria cultura generale. Oggi la situazione è più compromessa, la politica è come fosse entrata in un pantano, ma le correnti dell’antipolitica non soffiano più con la stessa forza da tutte le parti. Per ora si fa sentire maggiormente il rischio di una desolante disaffezione, di una perdita di fiducia e di uno smarrimento. In momenti come questi occorre prendere saldamente nelle mani l’anello più forte della catena per tirarsi dietro tutte le altra cose. Occorre che siano proprio coloro che credono nella politica, e non Beppe Grillo, a scuotere gli animi, a trovare le vie dell’annuncio, della speranza e dell’azione. E, a proposito di ladri, il crimine più grave è stato compiuto da chi ha rubato il futuro ai giovani. Ma questo è l’inizio di un’altra storia. Anzi delle vere storie di cui dovremmo occuparci.

il Fatto 18.4.12
L’ex Pm di Tangentopoli
Colombo: “Partiti troppo ricchi. O tagliano o muoiono”
di Silvia Truzzi


Tangentopoli oggi sembra roba da scolaretti. Caramelline in confronto ai milioni di euro che quasi quotidianamente si scopre mancano dalle casse dei partiti. Dove tesorieri lombrosianamente inquietanti fanno sparire fiumi di denaro e nelle more del magna magna ci scappano pure spaghetti da 180 euro a piatto. Per non parlare delle inchieste per tangenti aperte in mezza Italia. C'era una volta la Procura di Milano, fulcro dell'indagine che secondo la vulgata avrebbe spazzato via un'intera classe dirigente. Invece – assolti, prescritti e riciclati – sono ancora tutti lì, comprese le mele marce del famoso cestino che, diceva Bettino Craxi, era sano. Come siamo arrivati a un'invasione di frutta avariata? Lo abbiamo chiesto a Gherardo Colombo, ex magistrato del pool di Mani pulite.
Dottor Colombo, c'è qualcuno che non ruba? I giornali sembrano un bollettino di guerra, con la Finanza che cerca nelle sedi dei partiti lingotti d'oro e diamanti, manco fossero il deposito di zio Paperone.
Mi sembra di capire ci sia una grandissima diffusione della trasgressività.
La classe politica si sente intoccabile?
Quando smisi la toga nel 2007, feci un'intervista al Corriere: dicevo già allora che a mio avviso si stava riaffacciando un senso d'impunità che caratterizzò anche la fase precedente a Mani pulite. Chiaramente scemato nel corso degli indagini di quegli anni. Ma che si è riaffermato con il susseguirsi di prescrizioni, norme che indebolivano le indagini e depenalizzavano i reati.
La responsabilità è del legislatore ?
Sicuramente. Ma la classe dirigente è in sintonia con il Paese. Abbiamo gli stessi politici da vent'anni.
Questo perché non ci sono mai state epurazioni, lo si ripete spesso.
Epurazione è una brutta parola. Ci sono molte persone oneste, ma la cultura generale vede le regole, a qualsiasi livello, come un impedimento. Siccome la legalità è un fastidio, tanti pensano di poter trasgredire.
All'epoca di Mani pulite ci furono molte polemiche sull'uso della custodia cautelare in carcere, perfino Bobbio sollevò dei dubbi. Oggi è molto meno utilizzata: questo cambia la percezione dell'opinione pubblica?
Vediamo i numeri: in oltre tre anni d'indagini abbiamo richiesto al gip circa un migliaio di custodie cautelari, più o meno trecento all'anno. Solo a Milano in 12 mesi venivano arrestate circa 7mila persone. Si disse che usavamo la misura in maniera abnorme, non era vero. Non credo che ci sia più o meno consapevolezza della gravità della situazione perché si fa meno ricorso al carcere. Io giro molto e mi sento spesso dire: “Non se ne può più”. Forse c'è più rassegnazione, mancano le manifestazioni pubbliche degli anni 90, che però io talvolta trovavo sopra le righe.
Va bene, le monetine sono sopra le righe. Ma almeno produssero un allarme, fecero pressing sulla classe politica. Il referendum sull'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti è figlio di quella stagione.
Secondo me anche ora i politici sono preoccupati. Però non sono in grado di prendere contromisure efficaci.
I tre leader della maggioranza extralarge sostengono che in caso di eliminazione dei rimborsi elettorali, i partiti finirebbero nelle mani delle lobby: d'accordo?
È difficile pensare che il finanziamento da parte di privati e imprese sia innocuo. Un contributo pubblico alla vita dei partiti è necessario per evitare discriminazioni. Il problema sta nell'entità: troppi, troppi soldi. E nell'utilizzo.
Per questo la gente è arrabbiata.
Sì certo, la rabbia deriva dalla constatazione di un eccesso. Però attenzione: i politici non vengono da Marte. In molti pensano: perché loro sì e io no? Gli italiani vivono ancora come se le regole della società fossero quelle antecedenti alla Costituzione: non hanno ancora capito che non sono più sudditi, ma cittadini.
Se politici e cittadini si assomigliano, come si spiega il 4 per cento di gradimento ai partiti?
Il basso gradimento dipende da quel che abbiamo appena detto. Dovessimo affidarci alla logica, la politica dovrebbe adottare misure necessarie. Ma non succede.
Come se ne esce, ammesso che si possa uscirne?
La soluzione auspicabile è sostanzialmente impraticabile: la politica dovrebbe avere il coraggio di applicare riduzioni consistenti direi formidabili alle spese dei partiti, oggi inaccettabili. Ma non solo la riduzione dei rimborsi elettorali, anche l'abolizione delle Province, il ridimensionamento del numero dei parlamentari, delle indennità. E un controllo, rigoroso ed efficace, della spesa pubblica. Detto questo, il problema resta educare a un diverso modo di intendere la relazione tra persone e collettività.

Corriere della Sera 18.4.12
A parole tutti, nei fatti non tanto
Finanziamento pubblico dei partiti. Insidie e lungaggini per la riforma
di Sergio Rizzo


«Cancellare del tutto i finanziamenti pubblici sarebbe un errore drammatico». Questa frase, infilata nella relazione alla proposta di legge della maggioranza che introduce controlli sui bilanci dei partiti, se la potevano francamente risparmiare.
Avrebbero forse evitato, chissà, il fuoco amico. Certamente, chi aveva interpretato la rinuncia alla prossima tranche di rimborsi elettorali come un implicito via libera della Lega Nord alla corsia preferenziale per quella legge si era sbagliato di brutto. Eppure Pierguido Vanalli, sindaco di Pontida e capogruppo romanista (nel senso che tifa per la Roma di Totti) del Carroccio in commissione era stato esplicito rivendicando l'assoluta contrarietà del suo partito. «Ci teniamo a che la discussione avvenga alla luce del sole», aveva detto. Chiosando: «Non abbiamo niente da nascondere».
Dichiarazione decisamente impegnativa, per l'aria che tira dalle parti delle casse leghiste. Che però non lasciava spazio a troppe illusioni per chi immaginava il varo della riformina già in un paio di settimane. Questione di coerenza, non c'è dubbio: quello di Umberto Bossi è l'unico partito che non ha mai presentato nemmeno una proposta di legge sul tema della trasparenza dei bilanci. Ma la coerenza, si sa, è merce rara.
Fin troppo facile prevedere quindi che qualcuno avrebbe offerto alla Lega i voti mancanti per far saltare la legislativa in Commissione e ripartire con l'iter normale. Non soltanto più lungo, ma soprattutto più insidioso. Quattro passaggi, di cui due in Aula, doppia razione di emendamenti... Una bella boccata d'ossigeno per chi si ostina a credere che anche questa volta tutto finirà in una bolla di sapone. E magari spera che ci si dimentichi del promesso congelamento della prossima tranche di rimborsi elettorali.
Proprio il contrario di ciò che serve mentre gli scandali sull'uso dei rimborsi elettorali maciullano quel che resta della credibilità dei nostri partiti. Su quella riformina abbiamo già detto come la pensiamo. La riteniamo insufficiente anche perché non incide sulla quantità dei soldi del finanziamento pubblico. Ma per la prima volta prevede dei controlli esterni sui bilanci ed è meglio che niente. Affossarla sarebbe da irresponsabili. E fa sorridere pensare che a fornire i voti decisivi per allungare il brodo siano stati anche alcuni parlamentari del gruppo che una volta si autodefiniva dei «Responsabili».

l’Unità 18.4.12
Risorse pubbliche per rinnovare
di Carlo Sini

L’urgenza di una rifondazione della politica è sotto gli occhi di tutti. Esibizioni come quelle di Grillo (che ricordano le focose arringhe del giovane Bossi, ritrasmesse in brevi frammenti alla televisione mentre si ascoltano notizie giudiziarie clamorose sulla Lega) suscitano in moltissimi di noi reazioni giustamente preoccupate. Al centro la discussione sul finanziamento pubblico dei partiti: argomento spinoso (per il precedente del referendum e per il pessimo uso dei rimborsi elettorali), ma a proposito del quale vorrei almeno osservare che se il costume pubblico degli attori e dei controllori non cambia radicalmente, ogni altra soluzione, privata, semiprivata
ecc., oltre a porre al pluralismo democratico più problemi di quanti non intenda risolvere, sarebbe comunque a rischio di comportamenti illeciti dei quali i cittadini resterebbero ignari. «Chi controlla i controllori?» diceva Kant. Se non si diffonde nelle pubbliche istituzioni un costume di accettabile responsabilità e decenza, ogni altro provvedimento è inefficace. Non sarà mai la piazza un giudice efficiente ed equilibrato e nemmeno lo sarà qualche privato di supposta buona volontà che si dichiarerebbe disposto a mettere in piazza i propri affari e i propri interessi. La corruzione pubblica deve potersi risanare con operazioni e trasformazioni degli attori e controllori pubblici: è su questo che bisogna interrogarsi e non sognare fughe populistiche in avanti o reazionarie all’indietro (che poi sono il medesimo). È interesse di tutti che la politica trovi un ragionevole e trasparente appoggio economico pubblico: a questa esigenza la dialettica democratica non può sfuggire senza compromettere la sua vitalità e la sua ragion d’essere. Una reale rifondazione della politica passa necessariamente anche di qui.
Ma passa poi, da sempre, per il problema della partecipazione: democrazia e partecipazione sono due cose in una. E qui ci imbattiamo con un’altra serie di difficoltà. La prima è nella natura stessa della qualità della nostra vita sociale. Nelle democrazie altamente industrializzate i ritmi sempre più frenetici del lavoro e del cosiddetto tempo libero, divenuto esso stesso un «affare economico» di massa e un obbligo consumistico per tutti, lasciano ben poco tempo per una partecipazione attiva alla vita dei partiti e per una conoscenza approfondita dei problemi politici. Un altro dato preoccupante, che va nella stessa direzione, è la disaffezione dei giovani alla lettura dei quotidiani (non si dice dei libri): ormai l’acquisto del giornale è una questione «generazionale»; più la popolazione invecchia, meno giornali, a quanto pare, si vendono. Si diffondono altri sistemi di informazione, assai più rapidi e gratuiti; bellissima cosa, se a essa non seguisse una riduzione e un appiattimento della notizia. Anche la notizia diviene un evento spettacolare, conformisticamente regolato (e in mano per lo più a quei “privati” i cui capitali dovrebbero salvare la democrazia). Si aggiunga un fatto ben noto: che il moltiplicarsi esponenziale delle notizie di ogni genere che riempiono i nuovi media (dallo sport, alla moda, al costume, agli svaghi di massa, agli scandali, alla pornografia ecc.) genera un rumore di fondo il cui effetto è sostanzialmente quello di elidere l’incidenza stessa della notizia. Una fame onnivora di notizie sempre fresche cancella ogni desiderio di approfondimento e di reale coinvolgimento. Trascinata in questo fiume, anche la politica affonda in una esistenza precaria, governata dagli umori e dai clamori del momento e dalla regola del pressappoco. Ogni programmazione, ogni strategia di lungo termine diviene irrealistica, dal momento che essa comunque non riuscirebbe a incidere sulla comprensione razionale degli elettori.
Se questi sono alcuni dei problemi, è evidente che una rifondazione della politica deve affrontare il tema delle modalità effettive della vita democratica nei partiti e nel Paese. Occorre trovare nuove forme di partecipazione e di dialogo, mettendo a frutto gli attuali mezzi di comunicazione e di informazione, ma senza farsene stravolgere. Anche per questo, pubbliche risorse sono indispensabili.

Repubblica 18.4.12
La perdita dell’olfatto
di Barbara Spinelli


QUANDO il fascismo stava per finire, nel novembre 1944, un giornalista americano che conosceva bene l'Italia, Herbert Matthews, scrisse un articolo molto scomodo, sul mensile Mercurio diretto da Alba De Céspedes. S'intitolava "Non lo avete ucciso", e ci ritraeva, noi italianiei nostri nuovi politici, incapaci di uccidere la bestia da cui in massa eravamo stati sedotti. Una vera epurazione era impossibile, soprattutto delle menti, dei costumi.
TROPPO vasti i consensi dati al tiranno, i trasformismi dell'ultima ora. Matthews racconta un episodio significativo di quegli anni. Quando il governo militare alleato volle epurare l'Università di Roma, una delegazione del Comitato di liberazione nazionale (Cln) chiese che la riorganizzazione fosse compiuta da due membri di ciascun partito: «In altre parole, una politica di partito doveva essere introdotta nel dominio dell'alta cultura: il che, mi sembra, è fascismo bello e buono». Il giornalista conclude che la lotta al fascismo doveva durare tutta la vita: «È un mostro col capo d'idra, dai molti aspetti, ma con un unico corpo. Non crediate di averlo ucciso».
L'idra è tra noi, anche oggi. Nasce allo stesso modo, è il frutto amaro e terribile di mali che tendono a ripetersi eguali a se stessi e non vengono curati: come se non si volesse curarli, come se si preferisse sempre di nuovo nasconderli, lasciarli imputridire, poi dimenticarli. È uno dei lati più scuri dell'Italia, questo barcollare imbambolato lungo un baratro, dentro il quale non si guarda perché guardarlo significa conoscere e capire quel che racchiude: la politica che non vuol rigenerarsi; i partiti che non apprendono dai propri errori e si trasformano in cerchie chiuse, a null'altro interessate se non alla perpetuazione del proprio potere; la carenza spaventosa di una classe dirigente meno irresponsabile, meno immemore di quel cheè accaduto in Italia in più di mezzo secolo. E tuttavia distinguere si può, si deve: altrimenti prepariamoci alle esequie della politica. Ci sono uominie partiti che si sono oppostie s'oppongono alla degenerazione, e ce ne sono che coscientemente hanno scommesso sul degrado. C'è la Costituzione, che protegge la politica e chi ne ha vocazione: compresi i partiti, che al caos oppongono l'organizzazione. Il molle non è equiparabile al colluso con la mafia, il mediocre non è un criminale. La politica è oggi invisa, ma a lei spetta ricominciare la Storia. I movimenti antipolitici denunciano una malattia che senz'altro corrode dal di dentro la democrazia, ma non hanno la forza e neanche il desiderio di governare.
Chi voglia governare non può che rinobilitarla, la politica.
Se questo non avviene, se i partiti si limitano a denunciare l'antipolitica, avranno mancato per indolenza e autoconservazione l'appuntamento con la verità. Non avranno compreso in tempo l'essenziale: sono le loro malattie a suscitare i pifferai-taumaturghi (l'ultimo è stato Berlusconi). Il paese rischia di morire di demagogia, dice Bersani, ma questa morte è un remake: vale la pena rifletterci sopra.
Guardiamola allora, questa politica sempre tentata dai remake. Non è solo questione di corruzione finanziaria, o del denaro pubblico dato perché i partiti non siano prede di lobby e che tuttavia è solo in piccola parte speso per opere indispensabili (il resto andrebbe restituito ai cittadini: questo è depurarsi). La corruzione è più antica, ha radici nelle menti e in memorie striminzite.
Matthews denuncia lottizzazioni partitiche già nel '44. Un'altra cosa che smaschera è il ruolo della mafia nella Liberazione. Anche quest'idra è tra noi.
È lunga, la lista dei mali via via occultati, e spesso scordati. L'AntiStato che presto cominciò a crearsi accanto a quello ufficiale, e divenne il marchio comunea tante eversioni: mafiose, brigatiste, della politica quando si fa sommersa. Un AntiStato raramente ammesso, combattuto debolmente. E le stragi, a Portella della Ginestra nel '47 e a partire dal '69: restate impunite, anonime.
L'ultima infamia risale alla sentenza sull'eccidio di Brescia del '74, sabato scorso: tutti assolti. È un conforto che Monti abbia deciso che spetta allo Statoe non alle vittime pagare 38 anni di inchieste e processi: l'ammissione di responsabilità gli fa onore. Poi la P2: una «trasversale sacca di resistenza alla democrazia», secondo Tina Anselmi. Berlusconi, tessera 1816 della Loggia, entrò in politica per attuare il controllo dell'informazione e della magistratura previsto nel Piano di Rinascita democratica di Gelli. Le mazzette a politici e giornalisti si chiamano, nel Piano, «sollecitazioni».
È corruzione anche la sordità a quel che i cittadini invocano da decenni, nei referendum. Nel '91 votarono contro una legge elettorale che consentiva ai partiti di piazzare nelle liste i propri preferiti. Nel '93 chiesero l'abbandono del sistema proporzionale, che in Italia aveva dilatato la partitocrazia. Il 90.3 per cento votò nel '93 contro il finanziamento pubblico dei partiti. I referendum sono stati sprezzati, con sfacciataggine. Il finanziamento è ripreso sostituendo il vocabolo: ora si dice rimborso. Da noi si cambia così: migliorando i sinonimi, non le leggi e i costumi.
Ma soprattutto, sono spesso svilite le battaglie dell'Italia migliore (antimafia, anticorruzione). Bisogna cadere ammazzati come Ambrosoli, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, per non finire nel niente. Le commemorazioni stesse sono subdole forme di oblio. Si celebra Ambrosoli, non la sua lotta contro Sindona, mafia, P2. Disse di lui Andreotti, legatoa Sindona: «È una persona che se l'andava cercando ». Fu ascoltato in silenzio, e non possiamo stupirci se l'ex democristiano Scajola, nel 2002, dirà parole quasi identiche su Marco Biagi, reo d'aver chiesto la scorta prima d'essere ucciso: «Era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza». Ci sono cose che, una volta dette, ti tolgono il diritto di rappresentare l'Italia.
Viene infine la dimenticanza pura, che dissolve come in un acido persone italiane eccelse. Tina Anselmi è un esempio. Gli italiani sanno qualcosa della straordinaria donna che guidò la commissione parlamentare sulla P2? È come fosse già morta, ed è commovente che alcuni amici la ricordino. Tra essi Anna Vinci, autrice di un libro di Chiarelettere sulla P2. Con Giuseppe Amari, la scrittrice ha appena pubblicato Le notti della democrazia, in cui la tenacia di Tinaè paragonataa quella di Aung San Suu Kyi. Altro esempio: Federico Caffè, fautore solitario di un' economia alternativa ai trionfi liberisti, di rado nominato. Un mattino, il 15-4-87, si tolse di mezzo, scomparve come il fisico Majorana nel '38. Anosognosia è la condizione di chi soffre un male ma ne nega l'esistenza: è la patologia delle nostre teste senza memoria.
La letteratura è spesso più precisa dei cronisti. Nel numero citato di Mercurio è evocato il racconto che Moravia scrisse nel '44: L'Epidemia.
Una malattia strana affligge il villaggio: gli abitanti comincianoa puzzare orribilmente, ma in assenza di cura l'odorato si corrompe e il puzzo vien presentato come profumo.
Quindici anni dopo, Ionesco proporrà lo stesso apologo nei Rinoceronti. La malattia svanisce non perché sanata, ma perché negata: «Possiamo additare una particolarità di quella nazione come un effetto indubbio della pandemia: gli individui di quella nazione, tutti senza distinzione, mancano di olfatto ». Non fanno più «differenza tra le immondizie e il resto».
Ecco cosa urge: ritrovare l'olfatto, anche se «è davvero un vantaggio» vivere senza. Altrimenti dovremo ammettere che preferiamo la melma e i pifferai che secerne, alla «bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità». Il profumo che Borsellino si augurò e ci augurò il 23 giugno '92, a Palermo, pochi giorni prima d'essere assassinato.

Repubblica 18.4.12
"I partiti sono essenziali ma adottino contromisure o vincerà la demagogia"
Zagrebelsky: la critica non è antipolitica
di Tiziana Testa


TORINO - «Un tempo, quando scoppiava uno scandalo in un partito, gli altri quasi si rallegravano. Oggi non è più così. Ora ogni scandalo, per l'opinione pubblica, riguarda l'intero sistema politico. Ciò che succede in un partito è imputato a tutti.
Una specie di responsabilità oggettiva di sistema». Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, accetta di rispondere a qualche domanda sul finanziamento pubblico. Lo fa a quasi due mesi da "Dipende da noi", il manifesto-appello di Libertà e Giustizia che lanciava un allarme in nome della politica e della democrazia. E lo fa partendo dall'antipolitica. Gli ultimi sondaggi danno in grande ascesa il movimento di Grillo. E dicono che è probabile un fortissimo astensionismo.
«Sono molto preoccupato. Sono due sintomi di declino in cui, alla ragionata indignazione, possono sommarsi pulsioni disprezzo, invidia, semplificazione: terreno ideale per la demagogia. Sa com'è nata l'idea del manifesto? Ero stato a tenere lezione in quattro licei e ai ragazzi avevo chiesto: dopo la maturità, chi è disposto a dedicare un po' di energia a qualcosa che abbia a che fare con la politica? Ogni volta avevo davanti 150200 studenti e in tutto solo due hanno alzato la mano. Le cause? Sempre le stesse: la corruzionee la mancanza di punti di riferimento ideale. Non si dovrebbe generalizzare. Ma un errore, quando è diffuso fino a trasformarsi in senso comune, diventa un fatto politico. E chi deve dare motivi per distinguere, se non i partiti? Il manifesto che lei ha citato è un invito ai partiti a prendere contromisure, prima che la situazione sfugga di mano».
Sull' Unità Alfredo Reichlin si è rivolto anche a lei dicendo: stiamo attenti a criticare i partiti come se fossero tutti uguali.
«Io non ho mai detto questo. L'esperienza del governo tecnico è temporanea. Ci sarà bisogno del ritorno a una normalità politica della qualei partiti sono condic i o s i n e qua non.
Non esiste democrazia senza strutture sociali che diano forma e sostanza alla partecipazione.
Le modalità cambiano, ma l'esigenza resta.
C'è chi pensa a una democrazia senza partiti, per esempio alla 'democrazia telematica', ma è un'illusione. Il web può accendere gli animi e convocare le piazze ma non costruire politiche (vedi le rivolte in Nord Africa). La critica ai partiti è antipolitica, se è indirizzata a farne a meno; è altamente politica se è rivolta a incalzarli, anche a farli arrabbiare, affinché si scuotano. Dovremmo dire, mentendo, che tutto va bene? Questa sì sarebbe una pretesa antipolitica». I partiti stanno affrontando, faticosamente, il problema del finanziamento. Cosa pensa della proposta di legge firmata da Alfano, Bersani e Casini? «Questo tema dovrebbe essere collocato in una riflessione generale sulla politica e sulle sue forme. Il finanziamento, così com'è, è funzionale all'organizzazione oligarchica, centralizzata e priva di controlli dei partiti; a sua volta il sistema elettorale è diventato uno strumento legale di cooptazione: finanziamento ed elezioni oggi producono lo svuotamento della democrazia in basso e la concentrazione del controllo politico in alto. Chi decide della gestione dei fondi e della distribuzione dei posti sta nel cuore del potere. Dunque deve essere messa in discussione la gestione centralizzata delle risorse e delle candidature».
Ma i soldi destinati ai partiti sono troppi? «La vera domanda è: cosa si deve finanziare? E cosa ci aspettiamo dai partiti? Le attività legate alle scadenze elettorali sono più facilmente controllabilie in parte sostenibili non con denaro pubblico ma con servizi pubblici gratuiti. Ma i partiti non sono solo macchine elettorali. Il loro compito è tenere insieme la società attraverso una presenza capillare, a contatto con problemi sociali che, affrontati in solitudine, diventano drammi e affrontati insieme possono trasformarsi in domande politiche. Una funzione fondamentale, soprattutto in tempi di crisi. Ma tutto questo costa». Torniamo ai soldi.
«Si fa un gran parlare dell'ultima tranche di finanziamento, 180 milioni di euro. Ci sono iniziative per congelarli, per devolverli. Ma se ci si limitasse a questo la reazione dei cittadini sarebbe: sono stati colti con le mani nel sacco e fanno un piccolo gesto. La semplice rinuncia ai fondi significa riconoscere d'essere stati degli approfittatori. Invece questa sarebbe l'occasione per fare pulizia, dissociandosi da chi ha usato denaro pubblico per fini privati. Non si dica che nessuno sapeva dei Lusi e dei Belsito. Chi li ha voluti lì e perché? Troppo facile chiamarsi fuori. I tagli sono certo necessari, se è vero che per attività istituzionali i partiti usano poco più di un quinto di quanto ricevuto. Ma il finanziamento è la coda, non la testa del problema». E le donazioni dei privati? «Vanno bene quelle micro, diffuse sul territorio. Sono forme di partecipazione disinteressata. Maè difficile che in questo momento possano essere abbondanti. I grandi finanziamenti, invece, che provengono da imprese e gruppi economici sono sempre dei do ut des.
Quindi devono avvenire nella massima trasparenza. La veridicità dei bilanci, non solo dei partiti ma anche delle imprese, è essenziale. Ma il reato di falso in bilancio è stato svuotato».
E' ottimista sul futuro? O è tardi per il rinnovamento dei partiti? «Il tempo stringe. Spero che ci sia una scossa, che non ci si illuda che basti glissare perché tutto passa. Vedo un futuro difficile, un impasto di crisi sociale, di insofferenza nei confronti della politica, di demagogia. Ma abbiamo il dovere di credere che non sia troppo tardi».

La Stampa 18.4.12
“Porta ingovernabilità” Prodi boccia la nuova legge elettorale
“Rischi con il proporzionale”. Gelo dal Pd
di Francesca Schianchi


ROMA Torna «la prospettiva dell’ingovernabilità della prima repubblica», resa «ancora più probabile dalla moltiplicazione e dall’ulteriore frammentazione dei partiti stessi». Additando come «vero nemico» il bipolarismo, si ignora la volontà popolare espressa delle firme per il referendum elettorale e si rischia di «pagare un prezzo ancora più grande di quello che si è pagato in passato». Le osservazioni sono «telegrafiche», ma chirurgiche: in poche righe, l’ex presidente del Consiglio, Romano Prodi, demolisce la proposta di riforma elettorale siglata ABC, Alfano, Bersani, Casini.
L’occasione per intervenire pubblicamente, come raramente il professore reggiano si spinge a fare, è l’anniversario del referendum che «determinò una svolta in senso maggioritario e antiproporzionale del sistema elettorale». Era il 18 aprile 1993, «si avviò una transizione politica rimasta incompleta» e «non è possibile accettare che dopo venti anni, invece di portare a conclusione quella ormai troppo lunga fase, la nostra democrazia torni al punto di partenza», sferza sul suo sito Internet.
Premessa generale per criticare severamente la bozza di riforma messa a punto dai partiti di maggioranza e già vivacemente attaccata dalla presidente del Pd Rosy Bindi: un accordo «abbastanza prevedibile» perché «in questo modo la loro forza viene protetta», graffia l’ex premier. Anche se «nelle bozze presentate la confusione regna ancora sovrana», pare segnato un «sostanziale ritorno al proporzionale, con alcune variazioni marginali sul tema», come una «indefinita soglia di sbarramento»: e non si dica che a mantenere in vita il bipolarismo contribuisce l’indicazione del premier sulla scheda (dettaglio voluto dal Pdl), «inserita nel sistema proporzionale non servirà a nulla». Inoltre, la scelta rinviata a dopo le elezioni permette di «tener conto il meno possibile della volontà degli elettori».
Il fatto è, ammonisce Prodi, che dalle «proposte» e dalle «mille sparse dichiarazioni della maggioranza degli esponenti politici, il vero nemico pare essere il bipolarismo, cioè proprio il metodo elettorale che meglio conferisce stabilità ai sistemi democratici». Come se «i problemi dell’Italia fossero dovuti al bipolarismo e non al mancato compimento del bipolarismo stesso». Proprio per completarlo, ricorda, «la proposta referendaria» che lui stesso ha sostenuto l’estate scorsa, “trascinando” dietro di sé il Pd (ma i quesiti sono stati bocciati a gennaio dalla Corte Costituzionale) era «stata sostenuta da una volontà popolare imponente e spontanea» (vennero raccolte più di un milione di firme). Ora, «di questo non sembra si voglia tener conto. In questo modo chiude minacciosamente il Professore si finirà con il pagare un prezzo ancora più grande di quello che si è pagato in passato».
Al suo giudizio plaudono gli «esclusi» dall’accordo, Di Pietro («ha ragione») e Vendola («parole di grande saggezza»). Lo accusa invece di voler «perseguire un’alleanza come quella dell’Ulivo» l’ex ministro Pdl Sandro Bondi, ma anche il Pd Giorgio Merlo: Prodi e la minoranza del Pd «sono rimasti orfani dell’Unione», una formula politica «che purtroppo a mio giudizio ha rappresentato uno dei periodi più grigi del nostro Paese».

Repubblica 18.4.12
L'intervista
Segni: la legge elettorale di Abc è un delitto contro l'Italia
 L'ex leader referendario contro l'accordo di maggioranza per cambiare il Porcellum: "Quella riforma porta a governi deboli senza legittimazione popolare"
di Silvia Buzzanca


ROMA - Professore Segni, il 19 aprile del 1993 gli italiani sancirono con un referendum il passaggio dal proporzionale al maggioritario. Oggi il Parlamento si apprestaa votare il ritorno al proporzionale. Si é chiuso un ciclo? «Se si dovesse chiudere il ciclo, perchéè ancora tutto da vedere, la tremenda responsabilità storica ricadrebbe su Pd, Pdl e sui centristi». Lei sembra nutrire dubbi sul varo della nuova legge elettorale... «Guardi, oggi ( ieri, ndr) sono accadute due cose importanti: la prima è la dichiarazione contraria alla nuova legge di Romano Prodi. L'altra è un manifesto sottoscritto in modo bipartisan da 20 deputati che ha avviato una raccolta di firme in Parlamento contro la nuova legge. Dunque c'è un gruppo di parlamentari pronti a battersi». Nelle proposte di Alfano, Bersani e Casini quale rischio vede? «Possiamo paragonare l'Italia ad una grande macchina un po' vecchiotta mandata dai migliori meccanici per modernizzarla.
L'aggiustano, la sistemano, ma pensano di metterci un motore di venti anni fa. È un delitto verso l'Italia. Si riporta il paese ad una situazione precedente al grande cambiamento del 1993 con un tipo di istituzioni che non esiste in alcuna parte del mondo occidentale. Il rischio serio è quello di fare precipitare il Paese nell'ingovernabilità». Cosa accadrebbe, secondo lei? «Avremmo un governo debole, dipendente dai partiti. Il contrario di quello forte, stabile, investito dalla legittimazione della fiducia popolare. Sarebbe impossibile fare una politica seria e rigorosa. Voglio ricordare a questi signori che negli Anni 80, l'ultimo periodo della Prima Repubblica il debito pubblico raddoppiò. E allora i partiti era forti mentre oggi sono inesistenti con un indice di gradimento ridottoa zero. Questa proposta ridà a questi partiti il potere di fare e disfare i governi».
Nello stesso giorno si votò, e passò a grande maggioranza anche il referendum radicale sull'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.
«Lo votai anche io. E i due temi sono legati. Lo strapotere dei partiti porta ad un finanziamento pubblico abnorme. Non sono contrario del tutto a forme di finanziamento, ma quello che accade oggi è vergognoso. Ed è scandaloso che i tre partiti maggiori non dicano nulla sul livello del finanziamento Ma la cosa peggiore è pensare l'Italia governata da governi di coalizione che saranno liberi da ogni decisione del cittadino e farebbero e distruggerebbero i governi a loro piacimento». Quali correttivi vede? «Oggi noi abbiamo, di fatto, un sistema presidenziale: la vita politica è diretta, in maniera chiara e netta, dal presidente della Repubblica. Questo ci dice che c'è bisogno di una guida e di una regia che sia staccata dal gioco dei partiti.
Impariamo da questo, la strada da seguire è questa, non il ritorno alla Prima Repubblica».
La vedremo ancora in campo con un referendum contro la legge elettorale di Abc? «Lasciamo spazio ai giovani, l'Italia non ha bisogno di me. Ma da semplice cittadino farò tutto il possibile per impedire questa scellerata marcia indietro».

l’Unità 18.4.12
Tita, Angelina e le altre
Condannate a morte per un amore sbagliato
La ‘ndrangheta non perdona chi tradisce la «famiglia» Dal caso Costantino a quello Pesce, trent’anni di omicidi E spesso la verità viene a galla solo dopo molti anni
di Francesca Barra


Donne giovani, madri, calabresi e con la voglia di collaborare, di liberare se stesse e la vita dei figli dalla morsa della ‘ndrangheta. Donne che si innamorano dell’uomo sbagliato e che per questo firmano la loro condanna a morte. Uccise dall’acido o vittime di lupara bianca. Alcune sono sparite nel nulla e la cronaca le ha dimenticate, forse rendendo un favore a chi le ha messe a tacere per sempre. Ma poi le bocche si aprono e la verità, pian piano, aiuta a ricostruire casi irrisolti.
Sono passati diciotto anni, da quando una donna di 25 anni, madre di quattro figli, Angela Costantino, sparì nel nulla. Le indagini della squadra mobile di Reggio Calabria hanno accertato che si trattò di omicidio e non di un suicidio, come molti indizi sparsi avevano voluto lasciar intendere. L’ordine di farla sparire sarebbe partito dalla stessa famiglia del marito per vendicarlo. Era sposata con Pietro Lo Giudice pregiudicato e figlio del boss dell’omonima cosca, Giuseppe. Era scomparsa il 16 marzo del 1994. Aveva intrapreso una relazione extraconiugale con un uomo conosciuto in parrocchia. E la ‘ndrangheta si sa, non è indulgente con chi tradisce la famiglia. L’ultima informazione su di lei era che stava raggiungendo suo marito detenuto in carcere a Palmi per fargli visita. Ma di lei non fu trovato nulla, se non l’auto, una Fiat Panda. La ricostruzione è avvenuta grazie a tre pentiti, fra cui Maurizio Lo Giudice.
La donna fu strangolata e Il suo cadavere fu poi occultato. Sono ritenuti responsabili in concorso fra loro, dell’omicidio della donna, Vincenzo Lo Giudice, il cognato Bruno Stilo e il nipote Fortunato Pennestrì. Il caso riporta alla mente una vicenda omologa. Annunziata Pesce sparì nel 1981. Era sposata con Antonio Zangari e figlia di Salvatore Pesce, fratello del boss Peppe. Dopo trentanni parla di lei, la pentita Giuseppina Pesce, sua parente. Annunziata non meritava indulgenze perché aveva minato l’onore della famiglia due volte: aveva tradito suo marito e si era innamorata di un giovane carabiniere, in servizio alla stazione di Rosarno con il quale era scappata. I due vennero ritrovati sul lungomare di Scilla e mentre il carabiniere verrà trasferito in un’altra città, della donna non si saprà più nulla. Con sentenza del Tribunale di Palmi del 16 novembre del 1999 venne dichiarata la morte presunta. A decidere di ucciderla nell’aprile del 1981, secondo la testimonianza di Giuseppina, sarebbe stato il boss Giuseppe Pesce e l’esecuzione sarebbe avvenuta sotto gli occhi di suo fratello: Antonio Pesce. Si poteva evitare che passassero trentanni senza sapere la verità? A nessuno importava davvero di Annunziata? Una donna dimenticata.
Errori che non devono ripetersi. Ed ecco perché si deve parlare di un altro caso. Santa Buccafusca, detta Tita, è morta ingerendo acido muriatico. Moglie di Pantaleone Mancuso, più grande di tredici anni, boss di Nicotera, detto Luni Scarpuni. Si sarebbe tolta la vita ingerendo acido muriatico il 16 aprile del 2011, in casa, in via Murat 1. Aveva deciso di collaborare e il 14 marzo 2011 si era presentata con suo figlio di pochi mesi, nella caserma dei carabinieri di Nicotera. L’avevano spostata negli uffici della Dda di Catanzaro. Alcuni dei suoi familiari, nel frattempo, si erano rivolti alla caserma del loro paese con una documentazione medica per dimostrare l’instabilità psichica di Tita e dunque la sua inattendibilità nel caso avesse deciso di «raccontare». Qualcosa o qualcuno è riuscito a indurla a tornare sui suoi passi, dopo pochi giorni. Perché decise di interrompere la sua collaborazione. Non solo. Per qualche strana ragione, ancora ignota agli inquirenti, si è suicidata ed è morta all’ospedale di Reggio Calabria dopo due giorni, il 18 aprile del 2011.
Le indagini per scongiurare che qualcuno possa averla indotta al suicidio, come nel caso di Maria Concetta Cacciola avvenuto qualche mese dopo, sono ancora aperte. Per evitare che parlasse ancora. Ciò che è urgente che si stabilisca, oltre ad accertare eventuali responsabilità, è che non restino storie isolate. Che si costruisca una rete di informazione, di sostegno, di assistenza psicologica anche, e non solo legale. Affinché nessuna donna pensi di non avere altra via di uscita dalle mafie, dal dolore, se non la morte.
E affinché si faccia luce su Barbara Corvi, cognata di Angela Costantino. Aveva 35 anni quando si persero le sue tracce. Era sposata con Roberto Lo Giudice, altro fratello di Pietro. La sparizione della donna è avvenuta il 27 ottobre 2009 ad Amelia in provincia di Terni. Anche se non c’è alcuna prova che sia stata uccisa e magari è scappata, impaurita da qualcosa. Magari avrebbe bisogno di sapere che se tornasse sarebbe al sicuro. O magari avrebbe bisogno che qualche altra bocca si aprisse e che mettesse fine a questa mattanza di donne.

il Fatto 18.4.12
La Tv resta cosa sua
B. continua a monopolizzare il mercato televisivo
Mediaset otterrà comunque un canale a costo zero
di Loris Mazzetti


Diciotto aprile 2002, con l’editto bulgaro si compì l’apoteosi del conflitto d’interessi. B. accusò Biagi, Santoro e Luttazzi di “aver fatto un uso criminoso della tv”. La risposta di Biagi fu immediata: “Quale sarebbe il reato? Stupro, assassinio, rapina, furto, incitamento alla delinquenza, falso e diffamazione? Denunci? ” Quel giorno di dieci anni fa cambiò radicalmente la televisione italiana nel suo valore più alto: il pluralismo, minando la stessa democrazia. Le truppe del Cavaliere conquistarono il ponte di comando della Rai. Da quel momento la subalternità a Mediaset ha portato la tv di Stato a un lento e inesorabile declino. Oggi l’indebitamento dell’azienda è di 250/300 milioni di euro. Il vero obiettivo del Cavaliere è sempre stato quello di avere il controllo industriale del mercato: frequenze, digitale terrestre, pay tv, neutralizzando di volta in volta l’avversario di turno: prima la Rai, poi La 7, infine Sky.
TUTTO CIÒ è potuto accadere grazie alla debolezza degli oppositori politici, a leggi ad personam e all’incapacità della concorrenza di comprendere che il digitale sarebbe stata la rivoluzione industriale del sistema delle telecomunicazioni. Il governo Monti, lunedì scorso, ha abolito definitivamente il beauty contest, ma B. avrà lo stesso quello che il fido Romani gli aveva promesso: un nuovo canale a costo zero. La sceneggiata napoletana di Confalonieri, urla, pianti, vesti strappate, è servita solo a metter fumo negli occhi a quei politici incompetenti o in malafede che per l’ennesima volta fanno finta di non capire cosa sta accadendo. Il ministro Passera, pur rispondendo ad una direttiva dell’EU, è stato costretto ad inserire nella riforma del Codice delle Comunicazioni elettroniche una norma che consentirà la conversione per decreto al digitale terrestre (senza costi per le società) dei tre canali già assegna-ti a suo tempo a Mediaset, Rai e H3G (la telefonica 3), cioè a quelle società che nel 2005 avevano tentato, inutilmente, il business della tv sul cellulare. Il canale designato per Mediaset è il 38, ovviamente il migliore, guadagno possibile: 300 milioni. Quello della Rai è l’11, il più scadente, pressoché inutilizzabile come canale televisivo.
Dov’è finita la Rai? Perché non fa sentire la sua voce? Ancora una volta l’esclusa è La7 se vorrà aumentare la propria capacità trasmissiva (indispensabile per coprire tutto il territorio), dovrà concorrere fra 120 giorni all’asta delle frequenze. Il condizionamento industriale di Mediaset su La7 parte da lontano. Nel 2001 quando B. tornò a Palazzo Chigi, come primo atto favorì il passaggio di proprietà della Telecom da Colaninno a Tronchetti Provera, questo gli consentì di bloccare sul nascere La 7 (l’ex Tmc acquistata da Cecchi Gori dalla Telecom di Colaninno), che si proponeva sul mercato come il terzo polo tv con un obiettivo d’ascolto in prima serata del 5%. La trasmissione d’inaugurazione (festa per la Roma campione d’Italia, condotta da Fabio Fazio), raggiunse il 15% di share.
IL RAPPORTO tra B. e Tronchetti Provera è proseguito negli anni, nel 2006, Telecom si unì alla Rai e alla H3G per costruire la tv via cellulare, invece di affittare la frequenza dalla controllata TimB (Telecom Italia Media Broadcasting), stipulò un contratto con Mediaset (utilizzando il canale 38) fino a dicembre 2010. Grazie a ciò Mediaset è riuscita a digitalizzare la frequenza a spese della Tele-com. Non c’è stato un politico che abbia fatto un’interrogazione parlamentare su questa “bizzarria”. Quanto è costata alla Telecom la vicenda Tavaroli? Solo B. e Tronchetti Provera conoscono la risposta. Una delle ragioni perché oggi, nonostante l’aumento d’ascolto, La7 vale solo il 2% del mercato è data dalla mancanza di indipendenza industriale negli anni in cui era importante investire sul digitale. Servono a poco i ricorsi al Tar e le lettere al presidente della Repubblica dell’amministratore delegato Stella, fino a quando il mercato rimarrà in mano a Mediaset. Un inizio di libertà e pluralismo potrebbe arrivare da un atto del ministro Passera, che segnerebbe la fine dell’anomalia italiana: vietare che l’operatore di rete, cioè il gestore delle frequenze, sia contemporaneamente anche il produttore dei contenuti. Cinque anni dopo l’editto bulgaro, aprile 2007, Enzo Biagi, pur molto malato tornò in onda con Rt Rotocalco televisivo e B. fu costretto, grazie ad una domanda di un radioascoltatore in diretta su Radio1, a fargli i complimenti. La volontà di Biagi fu più forte del conflitto di interessi. La lezione però non è servita alla politica.

il Fatto 18.4.12
Sanitopoli, da Tedesco a Vendola

Sanitopoli pugliese. Il senatore Pd Alberto Tedesco è plurindagato e c’è richiesta di arresto finora respinta dal parlamento. Sempre per la sanità è indagato il governatore Vendola: secondo l’accusa avrebbe favorito la nomina di un primario. È coinvolto anche nel contenzioso tra Regione e l’opedale ecclesiastico “Miulli”.

La Stampa 18.4.12
Anche Gesù
di Massimo Gramellini

Anche Gesù ha sbagliato un collaboratore, si difende il ponziopilato della Lombardia. Dopo ponderate riflessioni avrei ravvisato alcune differenze fra il Cristo e il Celeste (uno dei due soprannomi di Formigoni, l’altro è il Modesto, ma l’uomo è così modesto che preferisce non farlo circolare). Gesù fu battezzato dal Battista, Formigoni dal Berlusca. La carriera pubblica di Gesù si consumò in tre anni, quella di Formigoni in Regione prosegue imperterrita da diciassette. Gesù non faceva vacanze di gruppo sugli yacht dei farisei: preferiva i pescherecci, casomai una camminata sulle acque. Quanto al suo tesoriere, Giuda era più economo di Lusi (vabbé, ci vuol poco), più colto di Belsito (vabbé, idem) e a differenza dei formigonidi non venne mai raggiunto da avvisi di garanzia. Gesù sapeva bene chi era Giuda: non fu tradito a sua insaputa. In ogni caso avrebbe commesso un errore di valutazione isolato. Formigoni invece di collaboratori ne ha sbagliati parecchi, a cominciare dal sarto daltonico che gli sforna le camicie per proseguire col cugino depresso di Andy Warhol che ha ideato quegli spot sul Web in cui il Celeste fa lo spadaccino.
Sugli altri collaboratori sbagliati preferirei tacere, avendo già parlato la magistratura. Aggiungo solo che la cifra del tradimento di Giuda, trenta denari, anche al netto dell’inflazione risulta di gran lunga inferiore a quelle che danzano nel cielo sopra Milano per sfamare gli appetiti dei notabili e delle lobby che li sostengono. (Lobby? Ho detto lobby? Scusate, mi ero scordato che, grazie al finanziamento pubblico dei partiti, viaggiano lontane anni luce dal mondo della politica).

Corriere della Sera 18.4.12
I Lefebvriani verso l'accordo con il Vaticano
di G. G. V.


CITTA' DEL VATICANO — Un sì, con qualche modifica. In Vaticano è in arrivo la risposta dei lefebvriani e dalla Francia, dove la Fraternità è più presente, filtra che il superiore Bernard Fellay avrebbe firmato il «preambolo dottrinale» che la Santa Sede gli aveva sottoposto il 14 settembre: in sostanza, le condizioni per ricomporre lo scisma di Lefèbvre e rientrare nella Chiesa Cattolica. Da tempo si sa che la Santa Sede ha offerto ai lefebvriani la possibilità di divenire una «prelatura personale», come finora solo l'Opus Dei, che risponde direttamente al Papa. Una trattativa che dura da tre anni, da quando Benedetto XVI ritirò la scomunica ai quattro vescovi come «invito alla riconciliazione», e da allora è sempre rimasta appesa ad un filo. All'inizio di febbraio lo stesso Fellay aveva detto: «Siamo obbligati a dire no, non firmeremo». Il problema è sempre stato quello che ha provocato lo scisma: il riconoscimento del Concilio Vaticano II, contestato dagli ultratradizionalisti. Il testo del «preambolo» da firmare è rimasto segreto ma in sostanza chiede la fedeltà al magistero della Chiesa, Concilio compreso. Il 16 marzo, dopo due risposte «insufficienti», la Santa Sede aveva posto una sorta di ultimatum e dato un mese di tempo ai lefebvriani per decidere. La settimana scorsa il quotidiano francese le Figaro aveva rivelato trattative «ufficiose» per «arrivare a un accordo». Monsignor Fellay, a quanto si dice, ha approvato il testo proponendo modifiche «non sostanziali». Anche se la prudenza è d'obbligo, visto che i «dubbi» dei lefebvriani riguardano testi e aspetti-chiave del Concilio, dalla libertà religiosa all'ecumenismo e al dialogo interreligioso, per non parlare della «Nostra Aetate» e del rapporto con gli ebrei. In ogni caso l'ultima parola spetterà nelle prossime settimane alla Congregazione per la Dottrina della Fede e al Papa.

Repubblica 18.4.12
"Mai più pedofilia, dobbiamo prevenire" la Diocesi organizza un corso per i preti
di G. Fil.


SAVONA - Come combattere la pedofilia, un corso dedicato a sacerdoti ed educatori: istituito nella diocesi di SavonaNoli. In Liguria, dove il male oscuro ha violato sacrestie e canoniche. «Con le sembianze del demonio», come ha ricordato il cardinale Angelo Bagnasco quando nel maggio scorso gli è toccato celebrare messa nella chiesa dello Spirito Santo di Genova, decapitata del parroco, priva di don Riccardo Seppia, finito in galera, accusato di abusi sessuali su un minore. Il corso per prevenire la pedofilia inizia qui a Savona, nella città dove la Procura della Repubblica ha aperto una serie di inchieste che coinvolgono la Diocesi, mettendo sotto inchiesta sette sacerdoti. La città di Francesco Zanardi, presidente dell'Associazione Abuso, uno dei più agguerriti attivisti contro gli abusi sui minori (lui stesso vittima di pedofilia). L'iniziativa contro la pedofilia, ritenuta all'avanguardia per la Chiesa italiana, è studiata assieme agli esperti del Cismai di Milano (Coordinamento italiano contro gli abusi sull'infanzia). È una full immersion di cinque incontri, volta a formare persone sensibili al problema dell'abuso e capaci di sensibilizzare altri educatori. I corsi potranno essere organizzati anche in alcune parrocchie toccate dal problema o che vogliono affrontare l'argomento. Per promuovere gli incontri, il vescovo, monsignor Vittorio Lupi, ha inviato una lettera ai sacerdoti ed a tutti coloro che in Diocesi fanno attività di animatori di associazioni o catechisti. "Gli incontri - fa sapere la Curia - serviranno per studiare il fenomeno, per comprenderne i contorni e le implicazioni".
Tra i relatori anche don Fortunato Di Noto, il sacerdote da anni impegnato contro la pedofilia e la tutela dell'infanzia.

il Fatto 18.4.12
Breivik, la banalità della follia
“A Utoya marxisti, non innocenti”
Nessun pentimento per i 77 ragazzi uccisi: “Rifarei tutto”
di Giampiero Calapà


Il mio è stato il più spettacolare e sofisticato attacco politico mai commesso in Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale”. Anders Behring Breivik, 33 anni, colpevole di aver sterminato 77 persone a Oslo e all’isola di Utoya il 22 luglio scorso, è apparso per il secondo giorno consecutivo davanti alla Corte che dovrà condannarlo. Lo show della follia si è ripetuto. Lucido, spietato, capace di intendere e volere come di commuoversi solo pensando alla grandezza della propria “impresa”, non certo per le vittime: “Non erano ragazzi incolpevoli, proprio no”, ha detto spiegando che “non si trattava di civili, di bambini innocenti, ma di attivisti politici che lavoravano per il multiculturalismo, ho agito contro un campo di indottrinamento per attivisti politici, i comunisti più estremisti di tutta la Norvegia: uccidere settanta persone può impedire una guerra civile, sono stati attacchi preventivi in difesa dell’etnia norvegese”.
NELLA SUA visione del mondo distorta dal male più banale e quindi più pericoloso il campeggio dei giovani del partito laburista “era una versione marxista della gioventù hitleriana”. Fossero stati i ragazzi di Hitler, però, avrebbe banchettato con loro. Invece di piombargli addosso, mitra in pungo, inseguirli e massacrarli senza pietà per ore, ignorando qualsiasi implorazione. Due giorni di processo, rilanciati in diretta planetaria, hanno permesso a Breivik di salire sul palcoscenico mondiale e come un esperto di codici dell’informazione ha fatto tutto quello che doveva fare, recitando la sua parte senza una sbavatura, a partire dal pugno stretto, prima battuto sul petto e poi mostrato a braccio teso, saluto fascista della sua fantomatica organizzazione che si ispirerebbe ai templari. Perché dice Breivik sotto le luci dei riflettori di un’informazione affascinata fin quasi a un’orrenda mitizzazione del criminale “io sono collegato ad altri due in Norvegia che fanno parte dei cavalieri templari: anche loro come me sono indipendenti e agiscono come cellule, per cui, in totale, ci sono tre cellule”.
CREDE di esserci riuscito Breivik. Dopo due giorni di processo, crede che abbia vinto la sua folle lucidità, è convinto di aver terrorizzato ancora la Norvegia. Altri due come lui a piede libero? Per le strade di Oslo pronti a colpire di nuovo? Sorride Breivik in aula, davanti alla Corte, nessun timore per la condanna, lo ha detto il giorno prima di non riconoscere l’autorità che lo sottopone a processo. Questo non gli impedisce di avanzare una richiesta: “Chiedo la mia assoluzione”. Perché rifarebbe tutto: “Ho agito in una situazione di emergenza, in nome del mio popolo, della cultura del mio Paese. Lo rifarei”.
In questo assurdo show non poteva mancare l’indicazione di un ideale pantheon di padri ignobili. Così accanto a Hitler e ai cavalieri templari Breivik rimanda anche a Osama bin Laden: “Noi ci siamo fatti ispirare da al Qaeda e dai militanti islamisti. E si può ben considerare al Qaeda come il gruppo militante di maggiore successo esistente al mondo”. Ma nella sua contraddizione senza fine, punta il dito contro l’islamismo: “Il fiume di sangue provocato dai musulmani in Europa va fermato”. E ancora: “Il multi-culturalismo è un’ideologia autolesionistica”.
OSSESSIVO ai limiti della compulsività nei gesti, si aggiusta spesso il colletto della camicia Breivik, mentre espone e mentre ascolta, si sistema le maniche, più volte. Vuole apparire elegante, credibile come un capo di Stato che parla al suo Paese e al mondo: “Noi nazionalisti alla fine vinceremo e sarà la fine del dominio dell’estrema sinistra. Quando la via pacifica è impossibile la rivoluzione violenta è l’unica via. Morire per la causa non mi spaventerebbe, sarebbe un grande onore. Come non mi spaventa il carcere, io sono nato in una prigione in cui non è possibile esprimere liberamente le proprie opinioni”. Ed è proprio questo il punto in cui Breivik perde la sua partita, il punto in cui crolla miseramente il teatrino del suo spettacolo: sotto i colpi di civiltà dell’avanzata democrazia nordica di Norvegia, che non solo sostituisce un giudice non togato che si era espresso in passato a favore della pena di morte, ma permette anche, al mostro, di parlare ininterrottamente per un’ora.

il Fatto 18.4.12
Breivik l’europeo
risponde Furio Colombo


Caro Colombo, in che mondo stiamo vivendo? In Francia la signora Le Pen è candidata presidenziale senza scandalo di nessuno e Storace va a renderle omaggio, come a dire: siamo in tanti. Lo sono. L'Ungheria è completamente nelle mani di un governo apertamente razzista e di estrema destra. E al processo in Norvegia o stragista Breivik fa il saluto nazista e rivendica il suo delitto.
Alessia

IL SALUTO nazista di Breivik, l'uomo che ha ucciso da solo, per onorare un comandamento fascista (la lotta al multiculturalismo) 77 giovani connazionali, colpevoli di essere “di sinistra”, il saluto nell'aula del tribunale norvegese in cui riconosce e rivendica, come un patriota, il proprio delitto, quella scena ha fatto il giro del mondo. Il fatto evidente, che conta e che si verifica facilmente ascoltando le sue dichiarazioni, è che Breivik non è incapace di intendere e di volere. È un uomo intelligente, come lo era Goebbels, e criminale, come lo era Hitler. Si direbbe che solo per un disguido Breivik ha agito sulla scena sbagliata. Infatti quella parte di destra americana che si batte seriamente, con normali e potenti strumenti politici, per la espulsione di tutti gli stranieri, senza tener conto del crollo immediato che subirebbe l'economia americana, non è molto lontana, dal sentire dell'assassino norvegese, come non lo sono gli squadroni di volontari che percorrono il deserto tra Stati Uniti e Messico in cerca di migranti da eliminare. È terribile dirlo, ma i pattugliamenti congiunti (sgherri libici e militari italiani) nel Mediterraneo, che erano uno degli scopi principali del trattato tra Italia e Libia, hanno fatto la loro parte di morti, compresi bambini e donne incinte, abbandonando o respingendo le barche di naufraghi al loro destino, come testimoniano le Nazioni Unite, molte indipendenti fonti internazionali e l'Alta Corte per i diritti umani di Strasburgo. Sì, occorre riconoscere che quel saluto di Breivik all'inizio del suo processo non è di un pazzo e non è l'ossessione di un solitario. Nel dibattito senza fine sulla politica italiana, di questo bisognerà tenere conto: una destra oscura e potente è in movimento e si sta di nuovo avvicinando al potere. Breivik sembra saperlo.

La Stampa 18.4.12
Secondo giorno del processo per le stragi di Oslo e dell’isola di Utoya
Breivik, altro show in aula “Lo rifarei, sono un eroe”
Il killer attacca i medici: “Narcisista? Pronto a morire per la Norvegia”
di Andrea Malaguti


Ha una voce nasale, sottile, l’assassino di Oslo e di Utoya. Il fiato corto di chi non ha energie neppure per schiacciare una formica. Il faccione largo incorniciato da una barbetta un po’ ridicola, la giacca che cade male sulle spalle. È goffo, impacciato, apparentemente incapace di tutto, ma oggi, nell’aula 205, è chiamato a spiegare perché ha sterminato 77 persone. Otto con una bomba nella capitale, 69, una dopol’altra, premendo il grilletto del suo fucile automatico sull’isola dei giovani laburisti. Chi è davvero Anders Behring Breivik? Un’anomalia del sistema, un pazzo isolato, o la spia di un’organizzazione sociale che comincia a non reggere più, trascinata nel pozzo nero dello scontro di civiltà da ideologie sempre più estreme? E se crolla il modello scandinavo come si salva l’Occidente?
Sono troppi i fantasmi che si agitano su questo processo nel giorno in cui il Mostro prende la parola. È un uomo scivoloso, viscido, che fa paura. I parenti delle vittime lo fissano con disgusto. Lui li ignora come se fossero solo stupidi pesci dentro un acquario. «Sono un rivoluzionario, il mio è stato il più sofisticato e spettacolare attacco portato da un nazionalista dalla fine della seconda guerra mondiale. Rifarei tutto», dice leggendo un documento di tredici pagine preparato nella sua cella extralusso.
Il giudice Elizabeth Arntzen fa spegnere le telecamere. È impossibile non ascoltarlo, sarebbe assurdo consentirgli di impancarsi e di fare propaganda omicida. «Non mi muovono forze del male, ma del bene. Un giorno lo capirà chiunque». Ha ripreso colore. Forza. Non soffia più parole incomprensibili da una bocca impastata. Ha un’aria da gangster di Chicago che volteggia freddo sulle sedie da barbiere riempite con il sangue del boss della banda rivale. «C’erano ragazze fidanzate con giovani musulmani, ho agito per difendere l’etnia norvegese». Un padre si alza di scatto. La moglie lo prende per un braccio. Lo stringe. Lui piange. La Arntzen interrompe l’udienza, nel pomeriggio tocca all’accusa interrogare il Mostro. «Sono come la bomba atomica americana su Hiroshima. Ha fatto 300mila morti. Ma ha fermato la guerra. Mi sono ispirato ad Al Qaeda. Combatto come loro. Il mio è un richiamo alle armi, al martirio». Paragona i ragazzi di Utoya alla gioventù hitleriana, irride gli psichiatri che gli hanno dato del pazzo. «Hanno scritto che sono un narcisista. Fesserie. Non ho mai pensato a me. Solo alla Norvegia. Era un attacco suicida. Non pensavo di uscirne vivo. Altro che narcisismo». Dov’è infilata l’anima in questo grassoccio serpente dal volto umano?

Repubblica 18.4.12
Breivik, arringa shock per 75 minuti
"Non erano innocenti, lo rifarei"
di Alberto Flore d'Arcais


OSLO - Sul Rosenkrantz Gate una piccola folla è già pronta fin dalle prime luci del mattino. I fari delle telecamere illuminano chi fa la fila, in una fredda primavera con sprazzi di sole, per trovare un posto nell'aula del tribunale. Nessuno sorride, non i genitori che hanno persoi propri figli, non i sopravvissuti che hanno trovato la forza per venire a guardare negli occhi l'uomo che gli ha cambiato l'esistenza.
Processo Breivik, giorno secondo. Mentre entrano alla spicciolata superando le rigide misure di sicurezza c'è chi si lascia andare a qualche rapido commento con i giornalisti venuti da ogni parte del mondo: «Non è facile, ma è giusto essere presenti», «non riesco a immaginare come potrà giustificarsi», «spero di non piangere».
Oggi parla il pluriomicida e l'avvocato difensore avverte che sarà un discorso «duro». Nell'aula ci sono circa duecento persone, avvocati, psichiatri, familiari delle vittime, ragazzi sopravvissuti alla strage dell'isola, giornalisti. Il «rito» norvegese viene rispettato, il procuratore e gli avvocati stringono la mano all'imputato, i giudici hanno concordato con la difesa trenta minuti per le dichiarazioni di Breivik.
Saranno molti di più.
Non ha nessun pentimento, solo velate minacce, farneticazioni ideologiche miste al sushi, a Toro Seduto e agli schermi piatti. Perfino un plauso per Al Qaeda, lui che è un nemico giurato di ogni possibile Islam.
Un'arringa in tredici pagine, che solo un tribunale norvegese poteva permettere a chi è stato l'autore del più sanguinario atto di terrorismo nella storia del paese.
E lui che beffardo precisa: ha addolcito la retorica «per rispetto delle vittime».
Una lunga requisitoria sui «mali» della Norvegia e dell'Europa, su quegli adolescenti freddati come animali e che lui paragona senza ritegno alla «gioventù hitleriana». Settantacinque minuti interrotti più volte («ha finito Breivik? ») dal presidente del tribunale e lui che quasi si risente, «mi mancano sei pagine», «cinque», «tre». «Non erano innocenti, lo rifarei di nuovo», lo inorgoglisce la soddisfazione per quella terribile doppia strage: «Ho messo in atto il più sofisticatoe spettacolare attacco politico fatto in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale».
Ha uno strano concetto di benee male il "soldato" Breivik, che pensa di combattere una guerra che nessuno riconosce. Ha ucciso decine di ragazzi, ma dice di averlo fatto «per bontà, non per malvagità». Il saluto è lo stesso del primo giorno, quel braccio teso e il pugno chiuso che ostenta davanti a tutti. Non sono rimasti in silenzio ad ascoltare le sue parole di lucida follia. C'è stata qualche risata, di nervi non certo di gioia, ci sono stati mormorii di disapprovazione. Da spiegare in questa terribile storia c'è tanto, oppure ben poco. I fatti li conoscono tutti, gli omicidi a sangue freddo li ha confessati lui stesso. Nessuno in Norvegia sembra voler accettare che sia successo proprio qui, nel paradiso della tolleranza e del welfare. Vorrebbero avere risposte che non ci sono e forse non ci saranno mai. Si trattasse solo di un pazzo forse potrebbero capire, ma sanno che non è così, del resto le perizie lo confermano.
La squadra di psichiatri presente in aula prende freneticamente appunti ma ad essere definito pazzo lui non ci sta: «Definirmi insano di mente sarebbe peggio della morte». Breivik le risposte sembra averle. Farneticanti, assurde come quando giustifica settantasette morti tirando in ballo Toro Seduto e Cavallo Pazzo. Lui ha ucciso per difendere «i veri norvegesi dall'invasione musulmana», i capi pellerossa «erano terroristi o eroi? ». Gli attacchi del 22 luglio 2011 erano «preventivi», per difendere i norvegesi e «l'etnia norvegese» dai mali del multiculturalismo che ci ha lasciato solo «il sushi e gli schermi piatti».
Un avvocato di parte civile ha tentato di azzittirlo. «Ho ricevuto ora tantissimi messaggi dai parenti delle vittime, dai sopravvissuti, sono sconvolti dal fatto che Breivik possa parlare in questo modo. Chiedo che li tenga in considerazione e che smetta di parlare». Una richiesta che sarebbe legittima in qualsiasi tribunale del mondo, ma la diversità norvegese è anche questa, Breivik può continuare.
Oslo vive il processo con la stessa compostezza del luglio passato, ma questa volta c'è anche molto imbarazzo. Quasi nessuno ne vuole parlare, il sito online di un popolare quotidiano ha un clic per vedere la pagina iniziale «senza il processo Breivik». La strage di Utoya è una ferita profonda, che resterà aperta ancora a lungo. E non basterà una sentenza a cicatrizzarla.

il Fatto 18.4.12
A chi non piace Hollande presidente
Merkel, Cameron, ma anche Monti e Obama, sperano ancora in Sarkozy
di Giampiero Gramaglia


A denunciare il complotto “anti-Hollande” dei leader europei, è stato per primo il settimanale tedesco Der Spiegel: i capi di Stato o di governo conservatori dei Paesi dell’Ue avrebbero convenuto di non ricevere, durante la campagna elettorale, il candidato socialista. Imbarazzati dalle polemiche suscitate dall’ipotesi dell’esistenza di un fronte europeo per le elezioni presidenziali in Francia, i leader chiamati in causa avevano tutti smentito di essersi coalizza-ti, seppur tacitamente, per boicottare colui che potrebbe divenire il 6 maggio il loro interlocutore nei Consigli europei. E le fonti di Palazzo Chigi avevano bollato come “una fantasia totale” l’articolo tedesco.
DI FATTO, però, Hollande, ieri sommerso da un bagno di folla al maxi-comizio con concerto di Lille, non l’ha ricevuto nessuno. Ma nessuno dei presunti carbonari ha negato le proprie affinità con il presidente francese in esercizio Nicolas Sarkozy, a caccia di un rinnovo del mandato. Il premier britannico David Cameron ha augurato “buona fortuna” all’inquilino dell’Eliseo, già dimentico dello screzio al Vertice europeo del 30 gennaio, quando i due s’erano incrociati a riunione conclusa e il francese non aveva stretto la mano tesagli dall’inglese. Cameron ha pure spiegato che “non è consuetudine vedere i candidati durante la campagna” (ma il suo predecessore Tony Blair, un laburista, per quanto anomalo, ricevette Sarkozy prima delle elezioni del 2007). I portavoce della cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha pubblicamente appoggiato Sarkozy e s’è rifiutata d’incontrare Hollande, hanno ricordato che il candidato socialista era stato in Germania nel 2011 ed aveva dato il proprio sostegno all’opposizione social-democratica, auspicando “un nuovo governo” dopo il voto tedesco del 2013: insomma, occhio per occhio, dente per dente.
QUANTO al premier spagnolo Mariano Rajoy, una sua dichiarazione è stata d’un candore disarmante: “Tutti sanno chi io voglia che vinca le elezioni in Francia, perché militiamo nello stesso partito”, quel Partito popolare europeo dove, con Sarkozy e Rajoy, c’è pure la Merkel. Monti no, anche perché lui, finora, in un partito non ci sta; ma ha già dimostrato, con la sua lettera sul completamento del mercato unico, di sapere andare d’accordo con conservatori e liberali di tutta Europa, in due parole con i liberisti e i mercantilisti. A scandalizzare, o almeno a preoccupare, i Grandi europei, sarebbe stata l’intenzione manifesta di Hollande di rinegoziare, se eletto, il Patto di Bilancio appena concluso e in corso di ratifica, per integrarlo con misure che favoriscano la crescita: il Patto è considerato una pietra angolare del salvataggio della zona euro e ridiscuterne potrebbe equivalere a riaprire il vaso di Pandora. Ma come – debbono essersi detti la Merkel e Monti –, abbiamo fatto tanta fatica per arrivarci e quello vuole subito smontarcelo? Se la molla fosse solo questa, però, Rajoy, che ha già detto che quel Patto la sua Spagna non potrà rispettarlo, e Cameron, che se n’è addirittura tenuto fuori, non sarebbero della combine anti-Hollande. Negata, del resto, e non poteva essere diversamente, dallo stesso Sarkozy: “Mai parlato del mio avversario con i leader europei”, il complotto non esiste. C’è pure il fattore continuità, per cui – come ha spiegato all’Afp il ricercatore britannico Maurice Fraser, dell’istituto Chatam House – “il presidente in carica beneficia sempre, nell’opinione generale, di un vantaggio di credibilità, perché ha dalla sua l’esperienza” e, forse, soprattutto il fatto di essere ormai noto ai partner: “Meglio il diavolo che già conosci”, recita un detto anglosassone. Un fattore, questo, che può giustificare un’inclinazione pro Sarkozy dell’Amministrazione americana di Barack Obama, che in quanto democratico dovrebbe non essere ostile a Hollande. Il socialista, dal canto suo, fa spallucce: il presidente lo scelgono i cittadini francesi, mica i leader stranieri; e, una volta che un presidente è eletto, i suoi nuovi pari s’affrettano a mandare messaggi di congratulazioni e a organizzare la collaborazione.
DA QUESTO punto di vista, conta di più, rispetto alle dichiarazioni di voto di Angela e Mario, David e Mariano, quella di Jacques, soprattutto se si tratta dell’ex presidente francese Chirac: lui e la sua famiglia voteranno Hollande, afferma il quotidiano Le Parisien. “Voterò Hollande”, avrebbe detto e ripetuto Chirac, davanti alle telecamere nella Correze, il dipartimento di cui è originario, nel centro della Francia. Claude, la figlia, avrebbe persino pranzato con la giornalista Vale-rie Trierweiler, la compagna del candidato socialista. E diversi collaboratori dell’ex presidente erano al comizio di Hollande domenica a Vincennes.
Del clan Chirac, solo la moglie, Bernadette, continuerebbe a preferire Sarkozy. Se la freddezza verso Hollande di popolari e conservatori non può stupire, ci si potrebbe piuttosto interrogare sul sostegno relativamente tiepido dei socialisti europei all’anti-Sarkozy. Come si può osservare che la Merkel, profittando dell’eclissi elettorale dell’amico francese, s’è portata avanti con proposte d’avanzamento istituzionale dell’integrazione europea, come l’elezione a suffragio universale del presidente della Commissione. In attesa di sapere se dovrà discuterne con Nicolas o con François.

La Stampa 18.4.12
Oltre 40 economisti si schierano con il candidato del Ps:
Solo con lui ci sarà la crescita
Hollande, tassa sul lusso per conquistare la sinistra
Ilsocialista rilancia l’Iva al 33,3% e l’aumento del salario minimo
di Alberto Mattioli


Meno quattro. Domenica c’è il primo tempo delle Presidenziali e i sondaggi continuano a dare Nicolas Sarkozy e François Hollande testa a testa al primo turno e il socialista largamente vincente al secondo. Ieri Hollande è andato a fare un comizio a Lilla, feudo della sua più cara nemica di partito, Martine Aubry, e il gesto è stato interpretato come un’indicazione, anzi un’incoronazione: quella di Aubry primo ministro a vittoria ottenuta.
Prima, però, bisogna vincere. Il problema, per Hollande, è a sinistra. Il tribuno del «Front de gauche», Jean-Luc Mélenchon, l’unico personaggio a colori (soprattutto il rosso) uscito da questa grigia campagna elettorale, è in grande ascesa. Forse per questo Hollande si è deciso a fare finalmente una proposta di sinistra, anzi due. La prima è quella di riportare l’Iva sui prodotti di lusso alle astronomiche percentuali cui era fino al 1982: 33,3%. Però Hollande l’ha fatta con tutte le cautele del caso, perché sa bene che le norme europee in materia non ammettono deroghe. E in effetti da Bruxelles hanno già fatto sapere che, vista dall’Europa, la super-Iva francese è impraticabile.
Seconda proposta, un «colpetto» allo Smic, il salario minimo, «fermo da tre anni» a quota 1.398,37 euro mensili. L’idea è quella di non indicizzarlo solo sull’inflazione com’è adesso, ma sulla crescita. Per esempio, con un tasso di crescita dell’1% del Pil, aumentare lo Smic dello 0,5%. L’idea è popolare ma non populista, e in ogni caso meno di quella dell’ex compagna di Hollande, Ségolène Royal, alle presidenziali perse del 2007 (1.500 euro mensili per tutti) e molto meno di quella di Mélenchon per le Presidenziali attuali, 1.700 euro così motivati: «Quando si è di sinistra e si arriva al potere, lo Smic lo si aumenta», e pazienza se i soldi non ci sono.
Ma, insomma, se continua a non entusiasmare, Hollande comincia almeno a piacere. Infatti incassa sostegni pubblici, talvolta anche insperati. Ieri «Le Monde» ha pubblicato la lettera aperta di 42 economisti di fama che spiegavano perché bisogna votare per lui e soprattutto contro Sarkozy e la sua «sottotassazione del capitale e delle rendite che porta ad aggravare le diseguaglianze e agli eccessi speculativi».
Poi ci sono i cento sportivi che, a cento giorni dalle Olimpiadi, annunciano di correre per Hollande. Aggiungete l’outing prosocialista di Corinne Lepage, l’ecologista centrista già ministro con la destra, e soprattutto quello della famiglia Chirac, che di destra è sempre stata. Bernadette, la popolarissima moglie di Jacques, è l’unica a sostenere Sarkozy; tutti gli altri, a partire dall’ex Presidente, da sua figlia, dal marito della figlia e dal resto del clan, fanno sapere o almeno non smentiscono che voteranno Hollande.
Insomma, Sarkozy si agita freneticamente in giro per la Francia assicurando i suoi che nulla è perduto e che in caso di vittoria di Hollande sarebbe perduta la Francia, ma stavolta la partita sembra decisa. Gli unici che possono perderla sono i socialisti e non è detto che non lo facciano. La storia insegna: autolesionisti come loro, non c’è nessuno.

Repubblica 18.4.12
La pace di Lille tra Hollande e Aubry
La segretaria del Ps lo aveva definito "smidollato". Ora lo incorona: "Sarai presidente"
di Anais Ginori


LILLE - Lo aveva definito «smidollato», un politico senza spina dorsale. "Couille molle", immagine non proprio lusinghiera per gli attributi di François Hollande.
«La Francia ha bisogno della tua forza e della tua determinazione» dice adesso Martine Aubry, padrona di casa impeccabile. La segretaria del Ps ha organizzato nella sua città, Lille, una grande festa in onore di Hollande, l'avversario che in ottobre l'aveva battuta nella corsa interna per la candidatura all'Eliseo. Qualche mese dopo i veleni delle primarie, è il momento dell'unità e dei complimenti, almeno di facciata. Lo stato maggiore del partito è schierato come non mai. Gli ex ministri, gli ex premier, alcuni presidenti di regioni, molti deputati e, dal vicino Belgio, è arrivato anche il premier socialista Elio Di Rupo, uno dei pochi leader progressisti rimasti in un'Europa conservatrice. La sinistra di lotta e di governo, pronta a prendere il potere. «Ti sosteniamo con tutte le nostre energie - continua Aubry - Il popolo francese ha bisogno di te».
Fa una certa impressione vederla, lei sempre così intransigente, poco incline al compromesso, mettersi al servizio del suo ex rivale. Lo fa con classe e passione. «Sei la nostra bandiera e la nostra speranza» ripete, elencando le tante misure del programma di Hollande. Passa all'attacco, critica il «presidente dei ricchi», il capo di Stato che cavalca le paure anziché rassicurare. I militanti fischiano appena pronuncia il nome "Sarkò", poi ricominciano a sventolare le bandiere in segno di vittoria. «François - dice ancora la segretaria del Ps, rivolgendosi a Hollande - siamo fieri della tua dignità, della tua forza tranquilla». Insulti e ironie appartengono al passato, se non fosse per la destra che ogni tanto rispolvera a suo uso e consumo le vecchie cattiverie. Resta che il partito si mostra compatto come non era da anni, sicuramente non durante le presidenziali del 2007, quando Hollande era al posto di Aubry alla guida del Ps.
Quando sale sul palco, il candidato socialista ricambia i complimenti, anche se si percepisce una certa distanza. «Ringrazio Martine Aubry per aver garantito l'unità all'indomani di primarie molto dure». E' l'unico accenno ai vecchi rancori. Il comizio di Lille suggella la riconciliazione con l'apparato, è speculare a quello di Rennes con l'ex candidata e compagna Ségolène Royal. Chiudere ogni possibile conto aperto: Hollande non è per niente «smidollato» ma anzi molto abile. Lille lo accoglie con entusiasmo, i militanti pensano di vivere un momento storico quando vedono scorrere le immagini del 1981, un altro François, Mitterrand, varca la porta dell'Eliseo. E che l'aria sia favorevole lo confermano alcune voci, per la verità non confermate, secondo cui Hollande avrebbe incassato il possibile appoggio dell'ex presidente gollista Chirac.
La città del Nord Pas de Calais, la regione degli Ch'tis, è amministrata da Aubry da oltre dieci anni.
Dopo il declino industriale, il sindaco ha lanciato un rinnovamento urbano, economico e culturale riuscito. Nel Grand Palais è accolta come una Madonna, con la sua giacca rossa, gli orecchini di perle, un filo di rossetto. Sembra aver dimenticato che sui manifesti per la presidenza della République avrebbe potuto esserci lei.
Con Hollande, le ostilità sono antiche. Eppure oggi Aubry è tra i nomi che si fanno per la poltrona di primo ministro. Numero due del governo Jospin tra il 1997 e il 2001, è stata l'autrice di importanti riforme simbolo della gauche, come quella sulla Sanità e quella sulle 35 ore. Troppo marcata a sinistra? Non è detto, l'ipotesi serve comunque a sedurre gli elettori di Jean-Luc Mélenchon a cui il Ps chiederà i voti nel secondo turno.
E' la figlia di Jacques Delors, esponente della socialdemocrazia alla francese a cui Hollande s'ispira.
Lei per ora non dice nulla delle sue ambizioni. «Voglio solo arrivare ad avere un presidente della gauche il 6 maggio» ripete, citando la data del voto per il ballottaggio.
Dopo l'altro appuntamento, le elezioni parlamentari in giugno, ha annunciato di voler lasciare la guida del partito. Un modo elegante per dire che è disponibile.
Aubry chiama, bisognerà vedere se Hollande risponde. Il primo appuntamento della nuova stagione promette bene.

il Fatto 18.4.12
Interrogazione del Partito democratico
Quaranta attivisti internazionali arrestati a Tel Aviv
La Flytillia: “Alitalia ha consegnato a Israele l’elenco dei nostri nomi”
di Roberta Zunini


Tra le migliaia di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane per reati legati alla lotta contro l’occupazione della Cisgiordania, in agitazione per protestare contro le durissime condizioni di detenzione, 1200 sono entrati ieri in sciopero della fame. Tra loro ci sono anche una quarantina di attivisti internazionali della Flytilla, tra cui una diciottenne canadese, Charlotte Gaudreau, e un giovane cittadino italiano dell’International Solidarity Movement, Marco Abdel Al Mohammed (padre egiziano), che vogliono richiamare l’attenzione sull’ingiustizia a cui sono sottoposti. “Marco è in carcere dall’11 aprile, dopo essere stato aggredito assieme al signor Giorgio Catalan da alcuni soldati israeliani mentre con altre decine di partecipanti cercavano di rientrare nel centro di Hebron dove si teneva una conferenza dei comitati popolari palestinesi”, dice Simone Colombo un attivista dell’Ism (l’ong di cui faceva parte Vittorio Arrigoni).
“Io ero con loro, avevamo appena finito di mangiare e mentre stavamo camminando siamo stati bloccati con la forza dai soldati che ci hanno accusato di fare una manifestazione non autorizzata. Abbiamo cercato di spiegare loro che stavamo solo camminando in gruppo per tornare a seguire assieme la conferenza ma non ci hanno creduto e dopo aver chiamato la polizia hanno portato via Marco e Giorgio”.
I DUE italiani dopo essere stati sottoposti a fermo, sono stati arrestati e portati in carcere a Givot. Mentre il signor Catalan due giorni fa ha firmato il foglio di espulsione (è appena rientrato a Trieste), Al Mohammed ha deciso di rimanere perché sostiene di non aver commesso né il reato di partecipazione a manifestazione non autorizzata né di aver oltraggiato alcun pubblico ufficiale e dunque di non meritare l’espulsione, cosa che compromette per dieci anni un eventuale rientro in Israele e di conseguenza in Cisgiordania. Omer Shatz e Iftah Cohen, i suoi avvocati israeliani hanno detto al Fatto che verrà sottoposto a un’audizione alla corte distrettuale lunedì.
Le vicende degli attivisti della Flytilla e dell’Ism si incrociano dunque nel carcere di Givot, nella cittadina di Ramla a sud di Tel Aviv. “La Flytilla, che è composta da vari gruppi formati da europei, canadesi e statunitensi, aveva come scopo l’ingresso dichiarato in Palestina per ricordare l’assedio che Israele ha messo in atto nei Territori – dice Patrizia Cecconi, coordinatrice della Flytilla Italia – e per portare avanti un progetto di costruzione di scuole. La missione si chiamava ‘benvenuti in Palestina’ e avrebbe dovuto portare in Cisgiordania circa 1500 attivisti”. Ma sono riusciti a entrare solo una cinquantina tra cui due italiani. Non è andata così, invece, per Marco Varasio, un ragazzo di 23 anni che è stato subito bloccato all’aeroporto di Tel Aviv e portato anche lui nel carcere di Givot, visto che non voleva essere espulso. Dopo due giorni di carcere però ha ceduto e ha firmato il foglio di espulsione. “Domenica all’imbarco di Fiumicino, l’Alitalia ha tirato fuori una lista nera consegnata da Israele, con i nostri nomi. Ciò significa che Alitalia ha fornito all’intelligence israeliana i nominativi di privati cittadini, violando la privacy. Due giorni fa però non ha fatto altrettanto con la Farnesina che aveva chiesto la lista dei passeggeri per verificare che sull’aereo ci fosse anche Varasio di cui non avevamo più notizie. Stiamo preparando un’azione legale”, conclude Cecconi. Il deputato Vincenzo Vita ha presentato un’interrogazione al ministro Terzi per questa violazione della privacy, ricordando che la legge israeliana del 1952 con cui l’Alitalia ha legittimato il mancato imbarco dei passeggeri vale solo una volta giunti in Israele.

Corriere della Sera 18.4.12
«Il primo colpo» nucleare e le scelte del giovane Grass
Sergio Romano risponde a Liliana Segre e a Fabio Della Pergola


Non è esatto che sia stato sostenuto che Günter Grass, in quanto fu da giovane volontario nelle SS, non avrebbe diritto di criticare lo Stato di Israele. È stato invece osservato che nella sua «poesia» si opera una trasformazione di Israele da aggredito (dalle reiterate minacce iraniane di cancellarlo dalla carta geografica) ad aggressore, ponendosi in impressionante continuità con la propaganda nazista che dipingeva gli Ebrei come un pericolo mortale per il popolo tedesco, così gettando le basi per il genocidio. Il «passato che non passa», insomma, vive nelle falsità affermate da Günter Grass, non nelle parole di coloro che gliele rinfacciano.
Liliana Segre, Milano

Credo che chiunque abbia un passato da fascista, da nazista o da stalinista abbia tutto il diritto di cambiare idea e di elaborare una propria personale separazione da quel suo passato. Lo stesso vale per gli Stati sempreché il ripensamento sia reale e approfondito (non ad esempio, girando «l'armadio della vergogna» verso il muro). Detto questo resta il fatto che chi, come Grass, si è arruolato volontario in una unità combattente delle SS, partecipando agli ultimi tre anni di guerra e rimanendo ferito, farebbe bene a non dare lezioni di etica agli ebrei; se non altro per un minimo di rispetto verso quel popolo che da quelle stesse SS ha subìto violenze, torture e persecuzione fino allo sterminio. Lasci ai molti altri che già lo fanno le critiche ad Israele e lui pensi ad altro. Non mancano le ingiustizie di cui occuparsi in questo mondo.
Fabio Della Pergola

Cari lettori,
Le vostre lettere dimostrano che sul diritto di Günter Grass a criticare Israele esistono inevitabilmente, anche nel mondo ebraico, posizioni diverse.
Liliana Segre ha certamente ragione quando osserva che nelle due strofe iniziali della poesia vi è un pericoloso errore. Per descrivere un eventuale attacco israeliano contro le installazioni nucleari iraniane Grass ha usato un'espressione (Erstschlag) che corrisponde all'inglese first strike e all'italiano primo colpo: parole con cui tradizionalmente viene definito l'attacco nucleare di un Paese che colpisce prima di essere colpito. Shimon Peres, presidente di Israele, ha sempre indirettamente ammesso l'esistenza di un arsenale nucleare israeliano dichiarando che il suo Paese non sarà mai il primo a farne uso. Anche chi è contrario a un'operazione preventiva contro i reattori iraniani (io sono fra questi) non ha ragione di pensare che il governo israeliano abbia preso in considerazione una tale eventualità.
Sul passato nazista di Grass, caro Della Pergola, ho opinioni diverse. Quando fu volontario nella Wehrmacht aveva quindici anni. Quando chiese di passare alle SS e fu inquadrato nella SS Panzer Division Frundsberg (era il 10 novembre 1944) ne aveva 17 e di lì a sei mesi, dopo essere stato ferito, sarebbe caduto nelle mani degli Alleati. Non mi è difficile immaginare i sentimenti confusi ma sinceri di un giovane che assiste alla distruzione del suo Paese e decide di combattere.
Ho conosciuto in quegli anni molti casi in cui il patriottismo, anche se male inteso, ha avuto il sopravvento su ogni altra riflessione e considerazione.
Dodici anni fa gli italiani hanno appreso da un breve libro di memorie (La fine di una stagione, il Mulino) che uno storico, Roberto Vivarelli, aveva reagito alla morte del padre, ucciso in Jugoslavia dai partigiani di Tito, arruolandosi, tredicenne, nelle Brigate nere. Negli anni seguenti sarebbe diventato uno dei più amati discepoli di Gaetano Salvemini e uno dei migliori storici dell'Italia liberale.

La Stampa 18.4.12
Partiti i primi C130 verso Beirut
Siria, l’Italia invia i suoi osservatori
La missione Onu conterà 250 uomini Appoggio logistico dai nostri in Libano
di Francesco Grignetti


L’Italia farà (e sta facendo) la sua parte nel sostenere la missione degli osservatori delle Nazioni Unite in Siria. Il governo, nella persona del sottosegretario alla Difesa Gianluigi Magri, ha spiegato ieri in Parlamento che è intenzionato a trasferire un’aliquota delle forze già presenti in Libano nella vicina Siria. A regime, dovrebbero essere 250 osservatori di più nazionalità (oltre l’Italia, sono disponibili Olanda, Norvegia, Serbia, Cina, Russia, Croazia Giordania, Pakistan, Egitto e Yemen). Intanto le nostre forze armate stanno sostenendo lo sforzo logistico per portare in Siria i primi Caschi Blu. Anche ieri un aereo C130 dell’Aeronautica militare ha portato mezzi e materiali da Brindisi, dove c’è la base logistica delle Nazioni Unite, a Beirut.
La missione stessa dei Caschi Blu, però, è in bilico. La tregua in Siria non regge. Nuovi bombardamenti si sono registrati anche ieri. E gli archeologi hanno le mani nei capelli: il Crac des Chevaliers dei crociati, l’oasi di Palmira, la città greca Apamea e la romana Emesa, un tempio assiro, il museo di Hama e persino una chiesa ortodossa aHomssarebberostatidanneggiati e saccheggiati. Secondo quanto riferiscono i Comitati di coordinamento dell’opposizione siriana, sarebbero almeno 47 i civili uccisi ieri dalle forze di sicurezza del regime a Idlib, nel nord ovest del paese. E ciò nonostante l’arrivo domenica scorsa dei primi sei osservatori internazionali inviati per controllare la tregua.
Di qui il pessimismo del colonnello Ahmed Himmiche, capo del gruppo di osservatori Onu, che definisce la missione «difficile». Non è mancato l’ennesimo monito del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, il quale ha esortato il governo siriano a garantire una libertà totale di movimento alla missione di osservatori sul cessate il fuoco. «È responsabilità del governo siriano garantire la libertà di accesso e di movimento. Gli osservatori Onu dovrebbero essere autorizzati a muoversi liberamente in qualsiasi posto per essere in grado di osservare la fine delle violenze».
E intanto tutti criticano tutti. Il Qatar invoca una forza d’interposizione araba. Il ministro russo degli Esteri, Sergei Lavrov lamenta che «la tregua è ancora fragile evi sono interessi a far fallire il piano di Kofi Annan». Secondo la Russia ci sarebbe chi «sta lavorando molto (per questo fallimento, ndr), fornendo armi alle forze dell’opposizione». All’opposto, una cinquantina di Paesi e organizzazioni, riuniti a Parigi, hanno denunciato la vendita di armi a Damasco, alludendo alla Russia anche se mai citata.

La Stampa 18.4.12
Elezioni Usa, la First Lady
“Con Barack l’America sarà più giusta”
Al telefono con Michelle Obama assieme ai volontari del partito democratico: “Non possiamo fermarci ora”
di Paolo Mastrolilli


«A novembre si deciderà che mondo vogliamo lasciare ai nostri nipoti»"
«L’ho conosciuto quando era un volontario senza un soldo L’ho sposato per la sua passione»

Ogni sera, quando torna a casa dall’Ufficio Ovale, Barack mi racconta delle persone con cui ha parlato. Quando le bambine vanno a letto, lui resta in piedi a leggere le lettere che riceve, emiripete sempre: “Michelle, non hai idea di cosa stanno passando gli americani, per pagare le bollette, le cure mediche, la scuola dei figli. Dobbiamo aggiustare le cose”. È l’obiettivo che lo motiva: ristabilire equità e giustizia, per dare a tutti la speranza e l’opportunità di realizzare i loro progetti».
Sono le quattro del pomeriggio, e la voce che arriva dal telefono è quella della First Lady degli Stati Uniti. Michelle Obama ha convocato una «conference call» con i volontari che lavorano per la rielezione del marito in tutto il paese, e siamo stati invitati a partecipare. L’obiettivo è motivarli, organizzarli, suggerire le strategie e i talking points da usare nella campagna elettorale.
«Io comincia Michelle con voce decisa credo in mio marito, ma sono impegnata nella rielezione perché penso che a novembre faremo una scelta epocale. Segnerà il mondo che lasceremo ai nostri nipoti. Gli americani stanno lavorando disperatamente per farcela, e non possiamo perdere i progressi realizzati finora».
Nessun accenno a Romney o ai repubblicani, ma il messaggio è chiaro: con loro si tornerebbe alle politiche discriminatorie che hanno provocato la crisi. Subito dopo, infatti, Michelle elenca ai volontari i successi da sottolineare in campagna, e sono tutti sul versante dell’aiuto ai poveri, ai deboli, alle famiglie e alla classe media: «Abbiamo tagliato le tasse, lasciando più soldi nelle tasche dei genitori e aiutando le piccole imprese a restare aperte; la riforma della sanità ha vietato alle assicurazioni di negare la copertura per malattie preesistenti come l’asma, o per il cancro, salvando molte famiglie dalla bancarotta; gli investimenti compiuti nella scuola e per facilitare il pagamento dell’università stanno consentendo a molti ragazzi di realizzare i loro sogni; cancellando la pratica del “Don’t ask, don’t tell”, abbiamo permesso ai nostri militari di servire senza mentire sulla loro vita privata; il “Fair Pay Act” ha garantito che le donne ricevano gli stessi compensi degli uomini; infine, non dimenticate i due meravigliosi giudici che Barack ha nominato per la Corte Suprema, per la prima volta nella storia abbiamo tre donne nel massimo tribunale». Se Obama non ha realizzato tutte le promesse del 2008, c’è una ragione: «Il cambiamento vero è sempre duro, in questo paese. Perciò abbiamo bisogno del vostro aiuto, perché il viaggio sarà lungo, e completarlo sarà difficile».
Ann Howard, da New York, le chiede: gli americani sembrano disinformati sulla riforma sanitaria, come la difendiamo? «Usate i fatti. Barack sa che una sanità di qualità è la base per la sicurezza della classe media, perciò ha voluto la riforma. Grazie a quella legge, 34 milioni di americani in più oggi hanno l’assicurazione. I figli possono restare a carico dei genitori fino a 26 anni, e così 2,5 milioni di giovani hanno la loro assistenza. Gli anziani risparmiano 600 dollari all’anno sulle medicine. Le donne non devono pagare più degli uomini per gli stessi servizi, e ricevono le mammografie senza ticket. Fermando l’aumento indiscriminato dei premi delle assicurazioni, stiamo facendo risparmiare migliaia di dollari alle famiglie, e così riusciremo anche a ridurre il debito. È un elemento critico, non possiamo perdere questi progressi». Nessun accenno alla causa davanti alla Corte Suprema, che potrebbe annullare la riforma.
Dal Maryland, Kathleen Miller chiede di economia: come facciamo capire che le politiche di Obama stanno funzionando? «Barack sta ricostruendo la sicurezza della classe media. Ha tagliato le tasse alle piccole imprese per 18 volte. Gli altri volevano abbandonare l’industria automobilistica, lui l’ha aiutata. Così ha salvato un milione di posti di lavoro, e ora queste aziende sono vive e hanno fatto 200.000 assunzioni. Abbiamo esteso i tagli alle tasse sui salari, lasciando mille dollari in più nelle tasche delle famiglie. Da 25 mesi consecutivi il settore privato crea occupazione, e così abbiamo aggiunto 4 milioni di posti. Molto resta da fare, ma abbiamo iniziato a svoltare l’angolo. Dobbiamo garantire un valore americano fondamentale: chi lavora duro e rispetta le regole, ce la fa. Questo è in gioco».
La californiana Christine Bailey chiede di scendere sul piano privato: ci racconta qualcosa del presidente che non sappiamo? «Grazie Christine, è il mio soggetto preferito. Quando ci siamo conosciuti, lavorava dalla mattina alla sera come attivista nel quartiere South Side di Chicago, e non faceva un soldo. L’ho sposato per la sua passione. È un fatto personale, per lui. Non ha dimenticato la fatica di sua madre per dargli le opportunità che ha avuto, e ora vuole restituirle a tutti gli americani».
La telefonata è finita, e premendo il tasto 1 i volontari vengono trasferiti agli operativi della campagna, che li istruiscono su come creare team nei loro quartieri. Prima, però, arriva l’ultimo consiglio di Michelle: «Chiamate tutti i vostri parenti e amici. Dovete convincerne almeno dieci a testa, e spingerli a convincerne altri dieci. Così abbiamo vinto quattro anni fa, così vinceremo a novembre».

Repubblica 18.4.12
Se l'America licenzia il boia
La pena di morte costa troppo
di Federico Rampini


Sono già diciassette gli Stati che hanno abolito la pena di morte. Dietro generiche motivazioni morali si nasconde spesso una scelta solo economica
Il governatore Dannel Malloy del Connecticut è il 17esimo della lista: la sua firma è l'ultimo atto, dopo il voto dell'assemblea legislativa locale, per abrogare la pena di morte. La condanna capitale si sta ritirando lentamente, uno Stato alla volta. Nel Nordest degli Stati Unitiè praticamente scomparsa. Il ritmo dell'abbandono accelera: cinque Stati negli ultimi cinque anni, con dei "pezzi grossi" come New York, New Jersey, Illinois, New Mexico. Quei 17 Stati dove la massima pena ormai è l'ergastolo sono ancora in minoranza, certo. E lo squilibrio territoriale disegna "due Americhe", divise esattamente come ai tempi della guerra civile. Nel profondo Sud la condanna a morte resiste, e non solo sulla carta, ma con un ritmo di esecuzioni sostenuto. Tuttavia questa spaccatura - politica, etica, religiosa - potrebbe esaurirsi.
La novità è segnalata dal referendum che si terrà in California.
Dalla West Coast emerge una "destra abolizionista". Insensibile ai tradizionali argomenti umanitari, quest'ala conservatrice vuole liberarsi della pena capitale per un'altra ragione, molto pragmatica: costa troppo. In un'era di austerity, con il Tea Party che incalza dal basso e la base repubblicana che vuole tagli spietati alla spesa pubblica, il "braccio della morte" è diventato un lusso che l'America non può più permettersi.
Sembra incredibile, ma l'ergastolo fa risparmiare.
La storia della pena capitale negli Stati Uniti è già ricca di colpi di scena, avanzatee ritirate. L'ultimo ciclo storico, favorevole alle esecuzioni, fu aperto dalla Corte suprema quando nel 1976 autorizzò gli Stati a ripristinare una condanna che era stata di fatto accantonata. Nei 35 anni successivia quella sentenza ci sono state 1.278 esecuzioni. Però dal 1999 in poi il declino è netto: il Death Penalty Information Center indica in quell'anno il picco storico (98 esecuzioni), dieci anni dopo si erano quasi dimezzate (52) e nel 2011 erano scese a 43. «Il declino indica un trend- dice Richard Dieter che dirige quel centro - è evidente che il sostegno dell'opinione pubblica alla condannaa morte sta arretrando». La pena capitale resta comunque in vigore nelle legislazioni di 33 Stati Usa, oltre che a livello federale: dove può essere applicata ad esempio nei casi di terrorismo.
E' un conteggio da aggiornare continuamente, perché la frontiera continuaa spostarsi in favore degli abolizionisti. Tra gli Stati che hanno in discussione l'abrogazione della condanna capitale figurano Maryland, Montana, Kansas, Kentucky, Washington, Ohio, Oregon, Pennsylvania. Ci proveranno, almeno a discuterne, perfino due grandi Stati del Sud: Floridae Georgia. Quello del Sud è il fronte più ostico. Lo riconosce una esponente dell'abolizionismo umanitario, Denny LeBoeuf che dirige il Capital Punishment Project presso la più grande ong schierata in difesa dei diritti civili, l'American Civil Liberties Union (Aclu). «Negli Stati che appartennero alla vecchia Confederazione sudista- dice- la fine della pena di morte non è dietro l'angolo, questo purtroppo non lo può credere neppure un ottimista patologico».
La storica discriminante NordSud si sovrappone alla dimensione razziale di questa pena. I numeri sono eloquenti. Da una parte dicono che dal 1976 ad oggi si sono eseguite solo 4 condanne nel Nordest (dove domina la cultura progressista del New England), 75 negli Stati "liberal" della West Coast inclusa la California, contro le 1.060 esecuzioni avvenute nel Sud. In quanto allo squilibrio razziale: il 35% dei condannati al patibolo che hanno ricevuto la scarica elettrica o l'iniezione letale, sono neri; e questo mentre la componente afroamericana rappresenta solo il 12,6% della popolazione americana. La massima probabilità di subire l'esecuzione, statisticamente si verifica nei casi in cui l'imputato è nero per un crimine la cui vittima era bianca.
Un'altra serie statistica sconvolgente riguarda gli errori giudiziari, identificati da quando è invalso l'uso sistematico degli esami del Dna per il riesame delle esecuzioni: trai condannatia morte che sono finiti al patibolo negli ultimi 40 anni, ci sono 123 casi comprovati di innocenti. Postumi.
Errori giudiziari a ripetizione, razzismo e squilibrio etnico: questi sono gli argomenti forti di una campagna umanitaria, portata avanti da un ampio schieramento nel mondo intero (spicca il ruolo della Comunità di Sant'Egidio).
Finora però questi temi faticavano a fare breccia nell'opinione pubblica conservatrice. La novità, ancora una volta, può arrivare dalla California. Quello che viene considerato lo Stato "liberal" per eccellenza, in passato ha riservato delle sorprese clamorose anche di segno opposto. Sul finire degli anni Settanta proprio la California fu un laboratorio sperimentale di due trionfali operazioni conservatrici: la rivolta anti-tasse reaganiana; e la riscossa della pena di morte. Nel 1978 vinceva il più celebre referendum californiano detto Proposition 13: stabilì un tetto alla pressione fiscale, dando il via ad un vasto movimento di rivolta del contribuente cavalcato dalla destra, di cui gli epigoni si vedono oggi nel Tea Party. Sempre nel 1978 in California vinse anche la Proposition 7, che ripristinò la pena di morte autorizzandone un'applicazione fra le più vaste e severe di tutti gli Stati Uniti. I promotori della Proposition 7 furono i due esponenti del partito repubblicano John e Ron Briggs, padre e figlio, con l'assistenza del giurista Donald Heller. Da allora sono passati 34 anni, e nel prossimo mese di novembre gli stessi Briggs junior e Heller sottoporranno all'elettore californiano un nuovo referendum. Stavolta per abolire la pena di morte. Un clamoroso capovolgimento di posizione da parte di due leader locali della destra storica. Heller ha spiegato il suo "pentimento" con franchezza: «L'aver reintrodotto la pena di morte in California si è rivelato un fallimento colossale. Non funziona». La vera ragione della delusione per i due conservatori ha poco a che vedere con errori giudiziario il tormento etico sul valore della vita, almeno in prima istanza. «E' una questione di costi - ha detto Briggs - perché cominciammo con 300 detenuti nel braccio della morte e oggi siamo a quota 720.
Nel frattempo tutto questo ci è costato 4 miliardi di dollari... ».
Briggs e Heller hanno un approccio pragmatico che mette in crisi la base conservatrice del Tea Party: questo movimento populista è composto al 99% di bianchi, ha una cultura implicitamente razzista (come nella campagna su "Obama il Kenyano"), ma il suo appeal è legato alla protesta contro il deficit pubblico e le tasse.
Briggs e Heller hanno scoperto che il costo di un condannato a morte in California, paradossalmente, supera di gran lunga quello di un ergastolano. Sembra impossibile? Il fatto è che la pena capitale si trascina dietro una serie di ricorsi e contro-ricorsi, per i quali lo Stato spende una fortuna in avvocati. Più il costo dei super-penitenziari. Nella campagna abolizionista della California si distingue anche una ex guardiana della famigerata prigione di San Quintino, Jeanne Woodford, insieme con l'ex procuratore generale di Los Angeles Gil Garcetti che dice: «Per le ristrettezze di bilancio stiamo licenziando insegnanti e vigili del fuoco, non possiamo permetterci 185 milioni l'anno per questa follia». C'è perfino una perversa crudeltà nei confronti delle vittime: fa orrore il caso di una donna stuprata da un presunto serial killer nel 1981, che da allora continua a dover periodicamente testimoniare nei diversi gradi di ricorso del condannato a morte. Una tortura che la costringe a rivivere il suo stupro da 30 anni. «Sulla legittimità morale della pena di morte l'America si divide da decenni - osserva la giurista Paula Mitchell della Loyola Law School - ma l'argomento dei costi è politicamente neutro, e può catturare un consenso molto ampio».

Repubblica 18.4.12
Ma la vendetta di Stato continua a piacere all'America profonda
di Vittorio Zucconi


Dio ama il boia - ti risponderanno - è scritto nel grande libro della Verità rivelata, nella Sacra Scrittura, parola del Signore. E chi siamo noi peccatori, noi Americani che ci consideriamo la «luminosa città di Dio sulla collina» (dal Vangelo secondo Ronald Reagan, 11/01/1989), per disobbedire alla Sua parola?
Sta qui, nel cocktail inebriante di religiosità letterale e fondamentalista e di istinti violenti di una civiltà costruita sull'associazione fra la Bibbia e la Colt, il nocciolo tossico che spiega perché gli Stati Uniti d'America siano rimasti ormai l'unica nazione occidentale, e la sola democrazia politica insieme con il Giappone, a praticare e a difendere la pena capitale. Anche quando la speranza di un ravvedimento americano sembra farsi più forte e nuovi Stati si aggiungono alla lista delle moratorie, il nocciolo si rimpicciolisce.
Ma si fa ancora più duro. Il 64% degli interpellati dai demografi della Gallup crede ancora fermamente nella pena di morte e il 50% pensa che non sia inflitta abbastanza spesso. Nessuno dei candidati alla Casa Bianca per il 2013, non il presidente in carica Barack Obama, non il suo avversario Mitt Romney, osa mettere in discussione il dogma del patibolo. Quando uno degli speranzosi alfieri del partito repubblicano, il deplorevole governatore del Texas Rick Perry difese e addirittura esaltò durante un dibattito teletrasmesso l'esecuzione di Cameron Todd Willingham al quale aveva negato la commutazione, la platea esplose in un'ovazione. Eppure Willingham era innocente o almeno meritevole di nuove indagini: tutte le indagini successive alla condanna a morte, e le petizioni sul tavolo di Perry quando diede l'ok allo stantuffo nelle siringhe letali, avevano indicato che le tesi della pubblica accusa erano senza fondamento.
Per quattro decenni, da quando la Corte Suprema aveva temporaneamente sospeso il supplizio capitale, la speranza degli abolizionisti come lo scrittore di thriller legali e avvocato lui stesso, Scott Turow divenuto accanito critico della forca, era stata che la certezza di avere mandato a morire persone non colpevoli avrebbe finalmente toccato il nocciolo duro di fondamentalismo vendicativo dentro il cuore dell'America. Non è stato, almeno non fino a ora, così. Duecento settanta condannati a morte negli ultimi 30 anni sono stati completamente esonerati grazie ai nuovi test del Dna condotti sui reperti forensi.
È impossibile stabilire quanti innocenti abbiano salito i gradini del patibolo, quanti degli uomini (soltanto tre femmine sono state messe a morte per legge) che sono stati gassati con il cianuro, rosolati sulla sedia elettrica, freddati dal plotone di esecuzione, impiccati, paralizzati con curaro e poi sepolti vivi dentro il proprio corpo e soffocati in apparente riposo dal sodio pentotal, fra i circa 16mila uccisi dopo l'impiccagione del capitano George Kendall nella Virginia del 1608 per alto tradimento. Un'estrapolazione basata sulle nuove scoperte scientifiche dal "Progetto Innocenza" indica nel 3% i casi di errore letale, dunque potrebbero essere cinquecento gli innocenti ammazzati nel nome della legge.
Ma la risposta di quei due americani su tre che restano aggrappati all'illusione della giustizia perfetta, quella che chiede una vita come «retribuzione» contro chi una vita ha rubata, oltre alle citazioni delle occasioni nelle quali numerose volte il temibile Dio dell'Antico Testamento chiede «l'occhio per occhio» o invoca (Levitico, 20:10) la morte per adulterio, è ancora più agghiacciante del puro fanatismo biblico. «Il rischio di errore naturalmente esiste - razionalizza Steven Stewart, pubblico ministero dell'Indiana - ma il fatto che possano raramente essere stati giustiziati innocenti non deve impedire l'applicazione della legge, non più di quanto incidenti d'auto mortali debbano portare alla eliminazione delle automobili». «Effetti collaterali», dunque, morti accidentali e malaugurate, sul fronte di una guerra che appare giusta e addirittura santa. Ancora più fanaticamente, il docente di filosofia morale all'Università del Texas ad Austin, J. Budziszewski, taglia corto sentenziando che «la pena capitale riporta ordine morale nel disordine morale prodotto dal crimine».
Non è irragionevole pensare che in futuro, soprattutto se i cristiani che si riconoscono nella Chiesa Cattolica riprenderanno il memorabile appello fatto a St. Louis dove Giovanni Paolo II chiese di abolire la forca, anche gli Stati Uniti riconosceranno la inutile barbarie dell'omicidio di Stato, quella barbarie che neppure i metodi di morte come l'iniezione letale - studiata per risparmiare al pubblico l'orrore di sedie elettriche o camere a gas, non per «umanità» verso la vittima - riescono a rendere tollerabile. Ma non subito, non nella viltà di una classe politica che liscia il pelo dell'elettorato e non nel periodico riattizzarsi di ondate di terrore collettivo. E asseconda il peggio che dorme nel grande corpo dell'America: la confusione fra la giustizia divina e la vendetta umana.

Corriere della Sera 18.4.12
L'Argentina mostra i muscoli ai nuovi conquistadores
Dalle Falklands agli espropri, il risveglio nazionalista
di Andrea Nicastro


MADRID — «Ributtiamo a mare i nuovi Conquistadores». «L'Argentina agli argentini». La nazionalizzazione della petrolifera Ypf, filiale della spagnola Repsol, ha scatenato l'Argentina più nazionalista e risvegliato rancori post coloniali. Da finanziario-politica la sfida è tracimata tra la gente.
A Buenos Aires, gli argomenti della presidente Cristina Kirchner hanno fatto breccia. Il Paese sembra seguirla nel pericoloso sentiero dell'Argentina-contro-tutti. La Repsol è accusata di usare la Ypf come un bancomat per mantenere alti i profitti in un momento in cui dall'Europa non viene nulla di buono. «Così facendo la proprietà spagnola danneggia l'interesse nazionale e il futuro stesso dell'Argentina», ha detto la «presidenta», già alla sua seconda, trionfale, rielezione. La Repsol, secondo Kirchner, non investe in ricerca, ha chiuso 3 mila distributori e la produzione di greggio è costantemente calata da quando, 14 anni fa, la compagnia spagnola ne ha acquistato il controllo per 13 miliardi di euro. Ma, soprattutto, dicono analisti indipendenti, ha scoperto un giacimento di petrolio e gas che potrebbe rendere l'Argentina un grosso esportatore. La Ypf è già oggi la prima azienda del Paese, principale contribuente del fisco, con circa 5 miliardi di euro, e 46 mila dipendenti diretti e indiretti. Con il nuovo giacimento garantirebbe gli stipendi argentini per qualche generazione.
«I neo Conquistadores», si legge in centinaia di blog latino americani da Rio de Janeiro a Bogotà, sono piombati sul sub continente americano nel momento della crisi, si sono comprati le imprese più redditizie e ora mungono utili (più che i principali, gli unici, visto la crisi europea) proprio dal Sud America.
L'orgoglio argentino condito dal populismo, si incarna periodicamente in una politica muscolare che a volte costa cara, a volte, invece, rende molto bene. Trent'anni fa vi fu la guerra con Londra sul controllo delle isole Malvinas (Falklands per la Gran Bretagna). Guerra vera, con bombardieri e mezzi da sbarco. L'Argentina perse e cadde la dittatura militare. Undici anni fa, però, un'altra prova di forza andò molto meglio per gli argentini e male per il resto del mondo. Era il bidone dei «Tango Bond». L'Argentina dichiarò fallimento, evitò le cure d'austerità che sta sperimentando il Sud Europa e fece cadere il costo del proprio debito sui risparmiatori stranieri, migliaia di italiani inclusi.
Nel 2009, la nazionalizzazione delle Aerolineas Argentinas. Al timone del Paese c'era già la vedova Kirchner. Vista con gli occhi di oggi è stata una prova generale del maxi esproprio di oggi. La compagnia spagnola Iberia aveva investito 2,1 miliardi nella flotta aerea argentina. Tutti svaniti nei meandri di processi non ancora terminati. Sia nel caso degli aerei sia nel caso dei pozzi petroliferi se il gioco privatizzo-nazionalizzo andasse in porto sarebbe un affare colossale. Prima l'Argentina ha messo le sue aziende statali in Borsa incassando i miliardi della privatizzazione e poi (meno di 15 anni dopo) le ha nazionalizzate senza restituire un centesimo. La rivincita della Politica sui Mercati? Pare più un comportamento da rivoluzionari, ce lo si aspetta dal Venezuela di Chavez, non dalla compassata e borghese Argentina.
La Spagna, questa volta, non intende subire in silenzio. Il governo di Madrid dice che «l'amicizia è rotta» e assicura che la reazione arriverà presto e sarà durissima. Nel pieno della peggior crisi economica dal dopo guerra, un tale colpo ad una delle poche multinazionali spagnole fa male. La Ypf era il gioiello più prezioso della corona Repsol. Garantiva due terzi della produzione di greggio e un quinto degli utili. Margini di trattativa ci sono. Ma il percorso è a rischio.
Il commento più spiritoso, è arrivato dalla Rete. «Loro nazionalizzano la Ypf? E noi nazionalizziamo Leo Messi», il Pallone d'oro del Barcellona che in Spagna fa meraviglie e quando gioca con la maglietta bianca e azzurra della nazionale argentina pare uno qualunque.
L'Unione Europea è mobilitata. Ha rimandato a data indefinita due riunioni con la diplomazia argentina per firmare un trattato economico. Il Parlamento europeo ha deciso di includere la sfida della Kirchner nell'ordine del giorno della riunione plenaria di oggi. La «ministro degli Esteri» dell'Ue, Catherine Ashton, ha dato «pieno sostegno alla Spagna» e ha assicurato che «tutte le opzioni sono possibili» contro il «grave segnale arrivato dal governo di Buenos Aires che porta incertezza per tutti gli investimenti stranieri» in Argentina. Buenos Aires «deve assicurare di ottemperare gli impegni internazionali a protezione degli investimenti esteri» ha detto la rappresentante europea per la politica estera. Al contrario la Kirchner nel suo proclama sulla bontà della nazionalizzazione, ha parlato anche degli «investimenti nelle telecomunicazioni e nelle banche».
In Argentina hanno forti interessi anche altre multinazionali spagnole, da Telefonica alle banche Santander e Bbva. Esattamente quei «Conquistadores finanziari» che la Kirchner vuole ributtare a mare.

Repubblica 18.4.12
La Cina impara dall'Irlanda ad allevare cavalli
di Enrico Franceschini


LONDRA - Il secondo maggiore prodotto d'esportazione irlandese (dopo la birra Guinness) entra sul mercato cinese: i cavalli da corsa. L'Irlanda ha firmato un accordo per aiutare la Cina a creare un centro di allevamento da 2 miliardi di dollari a Tianjin, la quarta più grande città nazionale. L'intesa include l'invio in Cina di stalloni e fattrici da Coolmore Stud, nella contea di Tipperary, in Irlanda, uno dei più famosi allevamenti al mondo di cavalli da corsa. Addestratori, studenti di zoologia e stallieri cinesi verranno ospitati per lunghi periodi alla Coolmore Stud per insegnare loro il mestiere. Oltre a una fattoria, scuderie e centri di allenamento, il centro di Tianjin avrà anche due nuovi ippodromi. L'obiettivo delle autorità cinesi è farne entro qualche anno una delle capitali dei cavalli da corsa, in grado di competere con Deauville in Francia, Newmarket in Inghilterra e Lexington in Kentucky.
Per l'Irlanda, che ha stretto i rapporti economici con Pechino nel tentativo di rilanciare la propria economia dopo la severa recessione degli anni scorsi, si tratta di un affare che frutterà 50 milioni di euro entro tre anni, che potrebbe aprire la strada, afferma il ministro dell'Agricoltura Simon Coveney, a iniziative di joint-venture tra i due paesi anche in altri campi.
Le corse dei cavalli furono proibite in Cina nel 1949 dopo l'avvento al potere di Mao, che le giudicava una forma di sport di massa immorale, soprattutto per le scommesse che generavano. Ma nella nuova Cina delle liberalizzazioni economiche sono diventate un popolare passatempo per le nuove classi dei ricchi e per chi sogna di esserlo. Nella piccola Irlanda l'industria dei cavalli da corsa genera un business da 1 miliardo e 100 milioni di euro l'anno. Nella superpotenza globale cinese potrebbe diventare un business ancora più grosso.

La Stampa 18.4.12
Diritti Umani
La riforma Ue è fondamentale
di Kenneth Clarke
, ministro della Giustizia britannico

Intervento del ministro della Giustizia della Gran Bretagna che domani a Brighton aprirà formalmente la conferenza cui partecipano i ministri e gli alti rappresentanti dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. Scopo del vertice è trovare un accordo su un pacchetto di misure per garantire futuro ed efficacia alla Corte e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

In Europa, così come nel resto del mondo, la difesa dei diritti umani è tuttora una priorità. Da oggi a venerdì ai governi dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa, baluardo internazionale delle libertà fondamentali, si chiederà di raggiungere un accordo su riforme di importanza fondamentale, che potrebbero risolvere problemi che interessano 800 milioni di persone.
In qualità di attuale presidente del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, nonché Paese tra i primi fondatori della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, il Regno Unito crede fermamente nei valori espressi dalla Convenzione stessa: siamo stati testimoni diretti di come, attraverso la Corte europea dei diritti dell’uomo, essa abbia favorito il rispetto della legge in Europa e trasformato la vita di molti cittadini europei. Per coloro che ancora dubitano dell’importanza della Convenzione, sarà sufficiente volgere lo sguardo ai recenti eventi in Libia e Siria per capire che brutalità ed oppressione non appartengono solo al passato e che le libertà fondamentali dell’uomo restano una questione aperta a livello mondiale.
Tuttavia la difesa dei diritti umani è ancora ostacolata da problemi relativi alle modalità in cui questi stessi diritti vengono rispettati. Il Regno Unito intende dare un nuovo slancio agli sforzi compiuti per affrontare la grande sfida rappresentata dall’enorme cumulo di casi presentati alla Corte di Strasburgo: si parla di oltre 150.000 casi, con un ritardo medio di 5 anni, chiaro riflesso di un sistema in cui l’equilibrio delle responsabilità è in pessime condizioni. Alla Corte si chiede di mettere troppa carne al fuoco e gli Stati membri non fanno la propria parte.
La Corte stessa ha ammesso il ritardo e sta compiendo notevoli progressi nella risoluzione di una parte dei casi. Tuttavia, anche in caso di successo delle attuali riforme, si stima che circa 1000 casi l’anno resterebbero insoluti.
Un tale accumulo non rappresenta un problema da nulla: esso implica, infatti, il continuo rinvio di casi urgenti e di fondamentale importanza quali, per esempio, quelli che interessano individui sottoposti a sentenze inique o ai quali sia negata la libertà di parola. Il problema rischia di trasformarsi in una crisi esistenziale per il sistema della Convenzione che ha, ora, giurisdizione su oltre 800 milioni di persone.
Il miglior modo per risolvere il problema è assicurare che le varie componenti del sistema si assumano le proprie responsabilità. Un reale sostegno alla Convenzione da parte dei singoli stati membri a livello nazionale ridurrà la pressione sulla Corte. Proponiamo, dunque, un più attivo intervento da parte dei governi sull’attuazione delle norme previste dalla Convenzione, per esempio, tramite l’introduzione a livello nazionale di istituzioni per la difesa dei diritti dell’uomo, di una legislazione a difesa della Convenzione e di una formazione più approfondita sui diritti umani per i dipendenti dell’amministrazione pubblica e per i giudici.
Ad un maggiore intervento dei singoli Stati, però, deve corrispondere una maggiore capacità della Corte di rifiutare quei casi per i quali non si ritenga necessario un intervento a livello internazionale. Proponiamo, pertanto, di preservare, all’interno della Convenzione, la possibilità che la Corte rifiuti casi che siano già stati adeguatamente giudicati a livello nazionale secondo i criteri stabiliti dalla Convenzione. Tutto ciò non ridurrebbe il diritto dei singoli a sottoporre il proprio caso alla Corte di Strasburgo: essa continuerebbe a decidere quali casi sono ammissibili e le responsabilità resterebbero comunque a carico di tutti gli Stati membri, ma la Corte sarebbe in possesso di un importante strumento in più che le permetterebbe di concentrare l’attenzione sugli abusi più seri.
Le riforme proposte si basano sui programmi approvati dai 47 Stati membri ad Izmir ed Interlaken nonché sul lavoro avviato dalla Corte stessa e comprendono proposte lanciate da altri Stati membri. In veste di presidente, il Regno Unito si impegna ad assicurare il consenso sulle riforme che, nel loro insieme, rafforzeranno la capacità della Corte di assicurare una più rapida giustizia a tutte le vittime di abusi seri contro i diritti dell’uomo, permetteranno di difendere i diritti fondamentali nelle istanze individuali e faranno sì che la Corte continui a coinvolgere tutti gli Stati membri. L’obiettivo finale è una Corte in grado di incentrare la propria attenzione sui casi più gravi di violazione dei diritti umani, libera dal pesante carico che deve sopportare attualmente.
Non sottovalutiamo la difficile sfida che il raggiungimento del consenso sulle suddette proposte rappresenta per i 47 Stati membri. Tali riforme assicureranno tuttavia la modernità, l’efficacia e le giuste priorità alle istituzioni create per controllare l’operato di governi eccessivamente tolleranti e prevenire abusi contro i diritti umani. Esortiamo tutti i governi a sostenerle al fine di ottenere diritti più forti, applicati con maggiore facilità e più ampiamente rispettati.

La Stampa 18.4.12
La nuova Terza via: siate realisti chiedete il possibile
Tramontato il blairismo, in anni di crisi si ridefinisce il pensiero liberal, per andare oltre il mero “Occupy”
di Massimiliano Panarari


E se fosse una sorta di «neoTerza via»? L’espressione evoca immediatamente l’invenzione politica di Anthony Giddens e Tony Blair (e alcuni altri): una formula oltre (o forse in condominio tra) laburismo e neoliberalismo, all’insegna di una vision cosmopolitica (che diede vita a una novella «Internazionale riformista»), e con l’aggiunta di una spruzzata di Cool Britannia. Si shakeri il tutto e si otterrà una delle esperienze di centrosinistra più vincenti (e maggiormente criticate) del Secolo breve.
Ma quelli erano i ruggenti Anni Novanta della new economy (campione della sua versione a stelle e strisce fu, infatti, Bill Clinton) ; in seguito, a incrinare l’eredità del blairismo ci hanno pensato la guerra irachena e anche la crisi finanziaria (e poi produttiva), che, anziché rilanciare le chance delle forze politiche di ispirazione socialdemocratica, sembra tenerle sotto scacco (o sotto choc).
Proprio dalla crisi prende però ora le mosse un arcipelago di pensieri e idee progressiste che, forzando un po’, potremmo provare a etichettare come «neo-Terza via» (o, se si preferisce, «post-Terza via»). Elaborazioni che ci arrivano da noti intellettuali della sinistra democratica e liberal oppure da economisti che conoscono bene dall’interno gli ingranaggi della finanza e indicano le vie di uscita per ripulirla, tornando a far crescere (e a ridistribuire) la ricchezza.
Facendo un salto in libreria si possono trovare, ordinatamente disposti sugli scaffali, diversi titoli riconducibili sotto il capiente cappello di questa rinnovata Terza via. Come Lo Stato minimo (Raffaello Cortina) di Antoine Garapon (direttore del parigino Institut des Hautes Études sur la Justice e membro del comitato editoriale di Esprit, larivistaperantonomasiadella gauche social-liberale francese), che analizza il diffondersi dei modelli della «negoziazione» e dell’«efficientizzazione» nell’amministrazione della giustizia (dagli indicatori di costo alla valutazione dell’operato dei magistrati, sino al trattamento telematico dei procedimenti). O Insieme (Feltrinelli) del sociologo statunitense Richard Sennett e Questa Europa è in crisi (Laterza) di Jürgen Habermas. E, ancora, libri di economia come Zombie economics (appena pubblicato da Università Bocconi editore) dell’australiano John Quiggin un autentico successo negli Usa che invita a buttare le «idee morte» ultraliberiste responsabili della catastrofe, come la deregolamentazione a tutti i costi e il fondamentalismo di mercato, senza tuttavia indulgere in quella che considera la «nostalgia keynesiana». O come Terremoti finanziari (Einaudi) di Raghuram G. Rajan, il teorico di un «mondo post-finanziario» acclamato dall’ Economist, già capo economista del Fondo monetario internazionale e attualmente professore alla Booth School of Business dell’Università di Chicago (che neppure la sfrenata fantasia dei seguaci di Rick Santorum potrebbe qualificare come un «simpatizzante socialista») ; uno dei pochissimi, assieme a Nouriel Roubini, ad avere lanciato una serie di Sos a proposito del disastro imminente.
Tratto condiviso da tutti gli studiosi e pensatori citati è la diagnosi senza infingimenti sulle responsabilità del neoliberismo e dell’individualismo selvaggio – cui Sennett aggiunge, tra i guasti contemporanei, il tribalismo di ritorno. Ma prestando attenzione al fatto che la condanna della degenerazione «tossica» della finanza non si traduca in un suo rigetto sic et simpliciter. E senza che la critica politica di quella che Foucault definiva la governamentalità neoliberale debba necessariamente portare a rifiutare gli aspetti positivi della tipologia di modernità che a essa si accompagna, come sottolinea Garapon, facendo finta che l’efficienza non sia un’opportunità positiva per utenti e cittadini.
Anche perché altro denominatore comune occorre riconoscere con chiarezza come una delle cause essenziali del caos e dei pericoli cui siamo esposti consista nell’eccessiva complessità delle «macchine»all’interno delle quali conduciamo le nostre esistenze, dalla burocrazia europea (Habermas) all’ordinamento giudiziario (Garapon). Di qui, l’esigenza di semplificare e regolare attentamente i meccanismi che governano i sistemi complessi, per evitare truffe, prevaricazioni e la solitudine del cittadino globale. Ed ecco, allora, che Rajan e Quiggin perorano la causa di nuove regole per i mercati finanziari e la riduzione degli incentivi per chi sceglie investimenti troppo rischiosi (come, per fare un esempio tristemente ben noto, la cartolarizzazione dei mutui subprime ).
Occorre, poi, procedere alla rivitalizzazione della democrazia attraverso le «politiche della collaborazione» (Sennett), evitando l’effetto-silo nei luoghi di lavoro (con tempi e luoghi per socializzare e scambiarsi idee ed esperienze e una rinnovata autorevolezza e capacità d’ascolto da parte dei capi) ; e serve un approccio post-ideologico, che sappia generare e selezionare programmi e soluzioni funzionanti, liberandosene senza rimpianti non appena si trasformano in «idee zombie». Insomma, meno avventatezza e più senso di responsabilità. E una specie di rovesciamento del famoso slogan di sessantottina memoria (liberamente tratto dal Caligola di Albert Camus) «siate realisti, chiedete l’impossibile». Perché le riflessioni di questa intellighenzia plurale non domandano l’impossibile, ma propongono, più realisticamente, una reinvenzione dei valori del liberalismo progressista in un’epoca che non può non dirsi neoliberale. E ci presentano un paradigma di «neo-Terza via», giustappunto, in grado di fornire ai progressisti una piattaforma differente dal mero Occupy Wall Street…

l’Unità 18.4.12
Il Gramsci sdoganato in Vaticano
di Bruno Gravagnuolo


Dunque vi abbiamo raccontato sabato di Pasqua dello svarione di Dario Biocca. Che pompato da Repubblica si vantava il 25 febbraio di aver scoperto che il detenuto Gramsci s’era «ravveduto». Una bufala scandalistica, falsificata due volte. Una prima quando l’Unità ha chiarito che l’art. 176 del Codice Rocco non prevedeva ravvedimento, ma solo buona condotta. Una seconda volta, quando sempre l’Unità spiegò che neanche il decreto attuativo dell’art. 176 prevedeva ravvedimento. Fine della storia. Anche perché il numero di Nuova Storia Contemporanea, da cui Repubblica annunciava di aver tratto il pezzo di Biocca, è uscito «orbo» della parte sul ravvedimento di Gramsci. Colpito e affondato! Provaci ancora Biocca. Ma non c’è solo scandalismo sgangherato su Gramsci. Pensatore rubricato in passato Oltretevere come «nichilista umanista». E che ora attira l’attenzione dell’Osservatore Romano, con lungo articolo di Roberto Pertici (14/4). Con ben altro tono e argomenti rispetto a Biocca, e al passato. E non senza qualche equivoco. Uno è nel titolo: «Il compagno Gramsci? Che resti in carcere». Ripetizione della leggenda che vede in Togliatti il persecutore che fa scrivere a Gramsci in carcere, da Grieco, una lettera «compromettente» che aiutò la sua condanna. Di vero nella leggenda c’è solo il fatto che Gramsci si convinse che la lettera del 1928 aveva fatto saltare le trattative con l’Urss per la sua liberazione (e cfr G. Vacca nel vol. Bibliopolis 2010 in onore di G. Francioni). Visto che in essa Grieco rivelava un certo attivismo dei compagni italiani nella vicenda. Cosa che per Gramsci non poteva che spiacere a Mussolini. In realtà la trattativa «saltò» perché frattanto c’era stato l’attentato cruento alla Fiera di Milano contro il Re. E il regime scelse la mano dura, a partire dal prigioniero Gramsci. Ma se ne riparlerà.

Corriere della Sera 18.4.12
Tacito, estimatore latino della stirpe germanica
Un resoconto degli antichi costumi tribali
di Dino Cofrancesco


Cornelio Tacito, l'autore degli Annali e delle Storie, uno dei massimi storici del mondo antico, non riscuoteva le simpatie di Napoleone, che lo riteneva un aristocratico rancoroso, del vecchio partito di Bruto e Cassio, incapace di comprendere «la grande unità dell'Impero, che anche con prìncipi mediocri e mezzo folli, manteneva tanti popoli nell'obbedienza all'Italia romana». In realtà, Tacito apparteneva alla razza di Cicerone: non gli stava a cuore un partito, ma lo Stato e il diritto, anche se, a differenza dell'Arpinate, non credeva nel governo misto e nella possibilità di reggere l'impero con le istituzioni repubblicane.
Ciò non gli impedì di denunciare il sordido servilismo degli anni tra Tiberio e Domiziano. «Si dice che Tiberio ogni qualvolta usciva dalla Curia soleva dire in greco: "O uomini pronti soltanto a servire!". Anche lui, che pure era nemico della libertà, sentiva il disgusto e lo spregio verso una così vergognosa sottomissione di servi». Non meraviglia che Tacito abbia ispirato poeti e tragediografi — il Britannicus di Racine, l'Othon di Corneille, il Tibère di M.J. Chenier, l'Ottavia di Alfieri — e che Hayek ne abbia inserito il pensiero tra gli incunaboli dell'individualismo liberale. Per l'illuminista Léon Thomas, che lo aveva definito il «Michelangelo degli scrittori», «Filippo II, Enrico VIII e Luigi XI non avrebbero mai visto Tacito in una biblioteca senza sentire un brivido».
È singolare il destino di questo «odiator de tiranni» che, per il suo studio del 98 d. C., La Germania, sarebbe diventato la fonte preferita dei teorici del Volk e del nazionalsocialismo. «Il ritorno alle radici germaniche — ricorda lo storico George L. Mosse — richiedeva la concentrazione dello sguardo, degli interessi sull'antica Germania tribale, in cui le virtù tradizionali erano intatte». Nella descrizione di Tacito, assieme alle ombre — l'ubriachezza criminogena, la passione dei dadi, il disprezzo del lavoro — emergono non poche (presunte) «luci» — la purezza razziale, la fedeltà coniugale, il coraggio, la lealtà — che diventavano i simboli della Kultur tedesca contrapposta alla Zivilisation romana e occidentale. I germani assurgevano ad antitesi del materialismo contemporaneo. «Ritengono delitto limitare le nascite dei figli o sopprimere qualcuno dei figli nati dopo il primo (…) i buoni costumi hanno un valore maggiore di quello che hanno altrove le buone leggi». Sennonché accanto a queste, v'erano altre «virtù», che sembravano, poi, contraddire l'immagine del tedesco, che «ara e semina», esaltato da Walter Darré, il Führer degli agricoltori ariani. «Non sarebbe tanto facile persuadere i germani a lavorare la terra e ad aspettare il raccolto, quanto a sfidare il nemico e a conquistarsi l'onore delle ferite. Anzi, v'è di più: essi ritengono prova di ignavia e di viltà acquistare col sudore ciò che è possibile procurarsi col sangue».
Va rilevato, tuttavia, che nel saggio c'erano anche altre questioni sulle quali non si soffermavano gli sguardi della tedesca «rivoluzione conservatrice» e dell'ideologia nazista e che riguardavano, soprattutto, la ripartizione del potere e dell'autorità. In pagine di non facile interpretazione, Tacito non parla soltanto del comitatus, ossia del vincolo personale di fedeltà che unisce i guerrieri — «i giovani si pongono al seguito dei più forti di loro, il cui valore è già stato messo alla prova» — un tema caro ai teorici ariani, ma descrive, altresì, istituti assai più vicini alla nostra sensibilità liberaldemocratica: la limitazione del potere regale, le deliberazioni prese in comune, lo status di libertà e di eguaglianza di cui godevano gli uomini, le carriere militari aperte al merito, una nobiltà riverita ma priva di poteri. Insomma un misto di democrazia militare e di liberalismo «selvaggio» che, come mette in luce una grande studiosa, Anna Maria Battista, è la chiave per comprendere Lo spirito delle leggi di Montesquieu. È soprattutto da Tacito che deriverebbe la tesi che la libertà dei moderni «ha le sue radici nelle istituzioni di quei germani che invasero gran parte d'Europa, trapiantandovi le loro usanze politiche e civili». Indubbiamente Montesquieu forzava il testo tacitiano. Più saggiamente Guizot avrebbe scritto che «i germani portarono sul suolo romano la loro libertà, ma nessuna di quelle istituzioni che ne regolano l'uso e ne garantiscono la durata: gli individui erano liberi, una società libera non s'era costituita. Anzi non c'era società».

Corriere della Sera 18.4.12
Popoli selvaggi e indomabili


Esce domani, nella collana «I classici del pensiero libero. Greci e Latini», il trattato La Germania di Tacito, con una prefazione nuova e inedita dello storico Giuseppe Galasso, che illustra i contenuti di questo straordinario documento storico e l'atmosfera in cui venne scritto, quella della nuova stagione traianea che parve aprire per l'Impero romano prospettive di conquista proprio sul fronte germanico. Indagando le intenzioni del grande storico latino, che raccolse tutti i dati disponibili all'epoca sugli usi del temibile, potenziale nemico, Galasso fa notare che «per Roma era da sperare per il futuro che le discordie intestine dei germani valessero a distrarli dal mirare all'Impero». Tanto poderose e forti appaiono infatti le popolazioni germaniche: tradizioni e culti, organizzazione politica e territoriale, carattere e inclinazioni delle popolazioni, attentamente vagliati da Tacito, «sono elementi usati — continua Galasso — con sapienza critica anche per rilevare la differenza di qualità civile tra il popolo «arcaico» e la «potenza imperiale». (i.b.)

Corriere della Sera 18.4.12
E Virgilio cercò rifugio nell'atmosfera agreste
Il carattere innovativo delle «Bucoliche»
di Franco Manzoni


Una prova ulteriore che si debba cercare nelle pagine della letteratura greca il punto di partenza della cultura europea occidentale viene offerta dall'analisi delle Bucoliche. Non a caso la principale fonte di Virgilio, ossia la poesia teocritea, rimase sempre nell'ombra. Autori come Dante, Tasso, Marino, Mallarmé composero versi idilliaci seguendo Virgilio. Mentre invece Teocrito, che visse tra la fine del IV e la prima parte del III secolo a. C., risulta un modello impalpabile. Il motivo? Il merito va ascritto all'abilità di Virgilio nel rendere originale la propria opera e, in misura non secondaria, alla forza internazionale della lingua latina. Anche se Teocrito fu probabilmente il maggiore poeta dell'età ellenistica.
D'altro canto, fino alla decisione del giovane Virgilio di cimentarsi in una poetica agreste, Teocrito non veniva considerato fonte di aemulatio dagli altri autori latini. La cultura romana decisamente cosmopolita, raffinata, metropolitana, aveva trovato altri modelli, non così apparentemente semplici, nostalgici, statici come i canti dei mandriani. Nella scelta di questo genere sta la grandezza di Virgilio, che innovò gli schemi della poesia rurale greca sino ad appropriarsi di Teocrito, identificandosi nei suoi Idilli. Non fu un processo solo di carattere imitativo, ma s'instaurò un rapporto simbiotico d'inconsueto risultato poetico. Appena varcati i trent'anni Virgilio terminò il libro pastorale, scritto tra il 42 e il 39 a. C., reso pubblico col titolo di Bucolica, in greco Boukolikà, ossia «Canti dei bovari», il primo frutto dell'arte poetica di Virgilio.
Le Bucoliche, dette anche Ecloghe, in greco Eklogai ovvero «poesie scelte», sono costituite da una raccolta di dieci componimenti esametrici, proposti non in ordine cronologico di scrittura, che vanno da un minimo di 63 a un massimo di 111 versi, per un totale di 829 esametri. Il contenuto è variegato e dissimile, spesso abbonda di riferimenti autobiografici. La prima e la nona ecloga parlano delle confische delle terre, con richiami alla campagna mantovana cara all'autore. La seconda del lamento d'amore del pastore Coridone per il giovine e leggiadro Alessi. L'ottava è una gara di canto divisa in due storie d'amore infelice. La decima narra il canto consolatorio della Natura per il poeta elegiaco Cornelio Gallo, che soffre abbandonato dall'adorata Licoride: una disperazione amorosa anticipatrice della tragedia di Didone. La terza e la settima sono gare poetiche tra mandriani. La quinta piange la triste morte del mitico pastore siciliano Dafni, che ottiene l'apoteosi, assunto in cielo con le altre divinità. Nella sesta Sileno racconta la nascita del mondo.
La quarta ha un tono profetico ed è l'unica a non trattare argomenti pastorali. Rivolgendosi al console Asinio Pollione, l'autore annuncia l'avvento di un nuovo ciclo cosmico. L'inizio della nuova era coincide con la nascita di un fanciullo prodigioso, che realizzerà una rinnovata età di pace e felicità. Di chi si tratta? Forse il figlio dello stesso Pollione, il quale aveva propiziato nel 40 a. C. la pace di Brindisi tra Ottaviano e Antonio? O forse il possibile erede del matrimonio di Antonio con Ottavia? Di certo non l'interpretazione medievale di un Virgilio mago e profeta del cristianesimo, una leggenda giustificata solo da uno spirito quasi religioso che corre lungo l'intera ecloga.
Di fronte alla vita frenetica dell'Urbe e alle tragedie di conflitti intestini, Virgilio scelse d'immergersi nella meditazione e nell'attività contemplativa, senza per questo disinteressarsi totalmente degli eventi politici. Aderì all'epicureismo, che offriva la possibilità di placare l'animo travagliato attraverso una serenità interiore. Luogo ove trovare rifugio per gli animi nauseati dalle temperie della realtà coeva.
Tale straordinaria originalità svincola le Bucoliche dai testi pastorali greci e le rende opera autonoma, a loro volta un insuperato modello per la poesia italiana ed europea, un classico capace di influenzare autori di tutti i tempi, passando da Sannazzaro a Boiardo, all'Aminta del Tasso, Shakespeare, l'Arcadia, Alexander Pope, Salomon Gessner, Leopardi, Zygmunt Krasinski, le Myricae del Pascoli con il riferimento esplicito del titolo al secondo verso della quarta bucolica nell'invito a conservare toni dimessi, bassi come le tamerici. E ancora George Sand, Mallarmé, d'Annunzio, senza dimenticare la lirica «Egloga» presente negli Ossi di seppia di Montale.

Corriere della Sera 18.4.12
Tra idillio e attualità politica


Le Bucoliche di Virgilio, in edicola sabato con la prefazione inedita di Paolo Di Stefano, sembrano concepite «per esaltare il canto — spiega lo stesso prefatore — attraverso la musica della poesia, il suo movimento armonico». In un «non-luogo utopico e sereno», debitore peraltro di una tradizione poetica ampiamente illustrata da Di Stefano nella prefazione, Virgilio ambienta le sue ecloghe tra canti di pastori, dialoghi agresti e scene arcadiche, in cui però l'umore idilliaco appare «intaccato dai segni dell'attualità politica». È infatti il momento della grave crisi della guerra civile, della vittoria a Filippi di Ottaviano e Antonio contro Bruto e Cassio, i congiurati che avevano ucciso Cesare. Un'epoca di cambiamenti cui allude anche la famosa profezia del puer, nella quarta ecloga, il bambino di cui il poeta dice che occorre attendere la venuta: forse il figlio di Marco Antonio, oppure il Messia. In ogni caso è la traccia di una «atmosfera di ritrovata serenità in seguito alla pace di Brindisi siglata da Ottaviano e Antonio nell'autunno dell'anno 40». (i.b.)

Repubblica 18.4.12
Tabù di Stato
Cornaglia Ferraris spiega perché solo una nuova cultura medica può portare l'esperienza italiana al livello dei paesi più avanzati
“Così la nostra civiltà ha cancellato l’idea di morte naturale”
di Simonetta Fiori


È l'ultimo tabù sopravvissuto, in Italia ma anche altrove nel mondo occidentale. Un tema sempre rimosso, perché intimamente scandaloso. Però da noi le conseguenze di questa liquidazione rischiano di essere paradossali. Un oncologo pediatrico non sospettabile di ossequio per i signori della sanità ha voluto sintetizzarle in un saggio dall'espressivo sottotitolo: Perché in Italia oggi è difficile anche morire. È difficile perché sono ancora insufficienti le strutture che si prendono carico dei pazienti nell'ultimo tratto di vita. È difficile perché a Medicina ti insegnano a "guarire" ma non a "curare" chi non può essere salvato. È difficile perché è intollerabile l'idea che una vita si spenga, e dunque si ricorre all'impossibile pur di evitarlo. Ed è difficile perché la legge sul testamento biologico approvata alla Camera - non ancora al Senato - non rispetta la volontà del malato, e ancora meno la sua dignità.
L'autore di Accanimenti di Stato (Piemme, pagg 180, euro 14,50), Paolo Cornaglia Ferraris, non è nuovo a libri di denuncia. Sulle colpe dei medici nel disastro della sanità italiana era incentrato Camici e pigiami, titolo che ha ispirato una rubrica tenuta dallo studioso sull'inserto Salute di Repubblica. A un'indagine su un terreno difficilissimo è dedicato questo nuovo saggio, che mette insieme storie vere, dati statistici e riflessioni di protagonisti della vita pubblica, da Eugenio Scalfaria Umberto Veronesie Ignazio Marino. Per vent'anni dirigente al Gaslini di Genova, Cornaglia ne fu cacciato in conseguenza di un'intervista che non aveva entusiasmato il direttore sanitario («La Cassazione ha deciso poi il reintegro, ma dopo alcune minacce ho accettato vigliaccamente di non tornare. Ero stanco e angosciato»). Oggi dirige un ambulatorio gratuito per bambini clandestini nei vicoli della vecchia Genova. «Questo è un libro che non avrei voluto scrivere», dice il dottor Cornaglia. «Però esperienze personalie la grande rabbia per l'ipocrisia dilagante mi hanno indotto a farlo».
Un primo ostacolo è l'assenza di dati. Noi non sappiamo come e dove muoiono gli italiani.
«Sì, una vergogna. Abbiamo i dati Istat, però sono estrapolati dalle schede di morte - e di dismissione ospedaliera - che non suggeriscono mai la reale diagnosi che ha condotto al decesso. Spesso prevale la formula di comodo - arresto cardio-circolatorio - che difficilmente può essere smentita. E non sappiamo nulla sulla qualità dell'assistenza nella fase terminale». Sappiamo però che circa 25.000 sono ogni anno le morti "evitabili".
«Sì, pazienti che potevano essere curati e muoiono per complicanze attribuibili con sufficiente chiarezza a interventi intraospedalieri. Prendiamo le infezioni: pazienti che entrano con il femore fratturato e muoiono di polmonite. Ogni anno settecentomila pazienti ricoverati in ospedale contraggono infezione, che ne uccide trai 1.350ei 2.100. Sono cifre da talebani, che ricaviamo da indagini parziali. Il problema è che da noi, a differenza di Inghilterra o Germania, non esiste un sistema di sorveglianza nazionale». La maggior parte degli italiani muore in ospedale. «Nel Sud il rapporto si rovescia: la cultura patriarcale favorisce l'assistenza a casa. Colpisce che solo una percentuale minima muoia nelle strutture che sono predisposte per accogliere i malati terminali». Ci sono pochi hospice? «No, il problema non è questo. In tredici anni sono nati circa 150 hospice, molti realizzati con capitale pubblico e privato. Alcuni rappresentano l'eccellenza come la Fondazione Seragnoli a Bentivoglio, alle porte di Bologna, che garantisce ai malati un'assistenza di prim'ordine.
Ma il fatto è che generalmente manca un personale medico e infermieristico formato per un lavoro tra i più usuranti».
I rudimenti della medicina non sono sufficienti? «No, occorre una sorta di salto culturale. A noi insegnano una medicina che identifica la morte con la sconfitta del medico. Se il paziente muore sei un perdente». Non è bene così? «Ma questo conduce all'accanimento terapeutico, che troppo spesso dà luogo a un inganno a carico del servizio pubblico e di famigliari creduloni. Se ti sei formato per guarire, non per curare, sei spinto a osare sempre di più, prima della rinuncia finale. Quello che non ti insegnano è di farti carico del processo finale. Non esiste una strategia medica che ti accompagni a morire».
Cosa intende? «Lo spiega bene Michele Gallucci, che è stato il primo a fondare in Italia una scuola di cure palliative. Non c'è nella testa dei medici l'idea della morte naturale.
Tutte le volte che un medico ha a che fare con un malato che rischia di morire, immediatamente mette in atto tutta la potenza della medicina per tenerlo in vita».
Per fortuna, no? «Sì certo. Ma il medico fa la stessa identica cosa quando si trova davanti a malattie inarrestabili. Quando in un pronto soccorso arriva un malato terminale che sta morendo per un'emorragia, il medico dovrebbe chiedersi se nel fargli una trasfusione gli sta allungando la vita o semplicemente la sofferenza. È un passaggio culturale. Nell' hospice, se un malato comincia a morire, lo si lascia morire, evitando che sviluppi sintomi come il dolore o altri tipi di sofferenza».
Lei parla anche di libertà di sigaro e di whisky. «Ma certo, nei migliori hospice è già così. Non ha senso alcuna restrizione. Si ribalta completamente il concetto di cura e assistenza, così come avviene nelle case privilegiate di chi può godere dell'assistenza di un figlio o di un amico medico.
Stiamo parlando di una questione - la gestione della parte finale della vita - che riguarda moltissime persone».
A dire il vero tutti, senza essere sospettabili di pessimismo.
«Certo, in ultima istanza tutti, ma mi riferisco a dati precisi. In Italia muoiono ogni anno 600.000 persone, ossia l'1 per cento della popolazione. Un quarto di coloro che muoiono sono malati terminali, cioè malati che muoiono in modo prevedibile, dopo una malattia e una lunga sofferenza. Centocinquantamila persone all'anno non è una piccola cifra».
L'obiettivo del medico diventa non più salvare la vita ma togliere la sofferenza. «Il problema è che i medici non sono attrezzati per far questo. Quante volte la mano indugia sull'iniezione di morfina, nel sospetto che potrebbe accelerare la fine? La nuova legge, poi, lascia i medici nella più totale solitudine. Anzi, peggio, li costringe ad alimentare artificialmente pazienti ormai perduti, con la minaccia del processo penale. Se non metti il sondino, commetti reato. Una follia. L'estremo atto di compassione diventa una colpa, e pure grave. Uguale a quella di chi ha preso la lupara e ha sparato».
Siamo indietro rispetto all'Europa.
«La legge andrebbe riscritta, anche perché non rispetta la volontà di quel settanta per cento di italiani - dati del Censis - che vogliono avere la possibilità di decidere quando interrompere le terapie. Ed è curioso come le posizioni del cattolicesimo più intransigente - nonostante il luminoso esempio finale di papa Wojtyla - coincidano con il laicismo longevista che non s'arrende fino all'ultimo respiro. A farne le spese è comunque la qualità dell'assistenza terminale. Tema difficile, su cui però varrebbe la pena riflettere».

Repubblica 18.4.12
Il neuroscienziato, ospite a "Incroci di civiltà", racconta il suo nuovo saggio sulla coscienza

Antonio Damasio “Perché la nostra mente è come una sinfonia”
di Marco Filoni


Una delle capacità del nostro cervello è quella di creare mappe. Ma se dovessimo creare noi una mappa del nostro cervello, in molte parti dovremmo scrivere: hic sunt leones. Il cervello è un territorio impervio e in gran parte sconosciuto. Alcuni scienziati, come esploratori coraggiosi, tentano di conquistare terreno per scoprire il funzionamento di questo splendido, misteriosissimo organo. Antonio Damasio è uno di questi. Anzi, è forse il più audace e temerario degli esploratori. Neuroscienziato di fama mondiale, nato a Lisbona, oggi insegna a Los Angeles dove dirige anche il Brain and Creativity Institute. Deve la sua notorietà ai suoi studi sulla fisiologia delle emozioni, sulla memoria e sull'Alzheimer, nonché ai suoi fondamentali libri (tradotti in Italia da Adelphi). In questi giorni è a Venezia, dove stasera ritirerà il Premio Bauer-Ca' Foscari e inaugurerà la rassegna di incontri internazionali "Incroci di Civiltà". Proprio oggi esce per Adelphi anche il suo ultimo libro, Il sé viene alla mente, un libro su come il cervello costruisce la mente cosciente.
Lei inizia il libro con una citazione di Pessoa: l'anima come "una misteriosa orchestra" e la conoscenza di sé "come una sinfonia".
«Sono portoghese e Pessoa fa parte della mia cultura. E l'analogia con l'orchestra ci spiega bene cosa sia la vita umana. Pensiamo a un brano da suonare. C'è un progetto da realizzare, il brano stesso, poi c'è il direttore d'orchestra, i musicisti, ecc. Ma affinché il progetto si realizzi non basta suonare le note nel modo corretto: ci sono anche i tempi da rispettare, la linea verticale della partitura. Ecco, la vita umana è un po' la stessa cosa».
E la coscienza che parte gioca? «La coscienza è un grandioso brano sinfonico. Possiamo dire che è l'ingrediente principale della mente, che altrimenti sarebbe soltanto cervello, capace di poche operazioni di base. La mente cosciente invece ha differenti livelli di "sé": il sé primordiale, il sé nucleare, il sé autobiografico. Noi condividiamo con diversi animali un tipo di coscienza molto semplice, che si può distinguere con il termine sentience. In inglese equivale a coscienza, ma per esser più precisi è la condizione dell'essere senziente. E infatti è un termine più antico di coscienza, deriva dal latino sentire. Questo è sostanzialmente un "sé primordiale" che permette di avere sensazioni, come provare dolore e piacere. Ma non di riflettere su queste sensazioni».
Cosa che possiamo fare noi esseri umani.
«Grazie ad altri livelli come il sé nucleare e il sé autobiografico. Così siamo in grado non solo di essere senzienti, ma anche "riflettenti". Ovvero abbiamo la capacità di speculare su noi stessi e su quello che ci succede.
Anche nella prospettiva della storia e la memoria: ogni cosa che ci accade è un'eco di quello che abbiamo passato e assume senso in ciò che succederà poi».
La coscienza è quindi ciò che ci permette di dare senso alle cose? «Proprio così. Il livello di base ha a che fare con le sensazioni, il resto della coscienza dà un quadro migliore e più chiaro di quello che significano le cose».
E questo aspetto riflessivo che rapporto ha con il corpo? «Ogni azione materiale è modellata e forgiata dal cervello.
C'è una costante fusione fra cervello e corpo. Tanto che basta tagliare questo legame che tutto collassa. È il caso dei danni al tronco cerebrale, come avviene in certi casi di coma: tutto crolla, fisicamentee mentalmente».
Nel libro cita una massima di Francis Scott Fitzgerald: «chi per primo inventò la coscienza commise un gran peccato».
«Mi piace molto Fitzgerald: è stato uno scrittore brillante e mi lega a lui il fatto che abbia passato gli ultimi anni della sua vita a Los Angeles, dove vivo. Quando Fitzgerald cercò di scrivere per il cinema, fallì miseramente. Questo perché era troppo letterario, troppo sofisticato, mentre gli Studios volevano storie veloci, dialoghi facili e poca riflessione. Da questo suo fallimento si può evincere l'idea che aveva: il fatto che la coscienza, pur straordinaria, ha un lato oscuro, perché ci dice chi siamo e dove falliamo. Ha una doppia faccia». Possiamo dire che la coscienza è una sorta di sceneggiatura della nostra vita? «Sì, è giusto, e possiamo mettere le due metafore che abbiamo usato in parallelo: come esseri viventi abbiamo alla base una sinfonia e poi, quando raggiungiamo il livello del linguaggio, abbiamo una sceneggiatura. E questo è quello che facciamo: scriviamo le cose, tutte le volte». Quindi siamo noi che "scriviamo" la nostra coscienza? «Ne siamo gli autori in larghissima parte, ma non del tutto. In passato la natura ha scritto per noi. Perciò non siamo completamente padroni del nostro destino: spesso ci troviamo a far fronte a cose che non volevamo ma semplicemente sono successe».
E questa consapevolezza è sempre un bene? «Più sappiamo come siamo fatti, più possiamo capire come funzioniamo. Certo, c'è la doppia faccia, quasi pericolosa (e mi viene in mente Hitchcock), di cui parlava Scott Fitzgerald, che ci mostra la tragedia della vita: vivere e morire. Eppure questa conoscenza è la sola possibilità che abbiamo di aiutare gli altri a vivere meglio».
Perché le veniva in mente Alfred Hitchcock? «Lo amo molto, in particolare il film L'uomo che sapeva troppo. Verso la fine del film, il protagonista interpretato da James Stewart, dice più o meno così: "anche un po' di conoscenza può esser troppo pericolosa". E in effetti nel film farà una brutta fine». Che importanza ha la biologia nel suo lavoro? «Tutto si può capire meglio se lo si guarda in una prospettiva biologica. I nostri sistemi biologici sono sistemi economici, ovvero sistemi che operano in un ambiente sociale. Questo ci può aiutarea comprendere la nostra società che, in fondo, si comporta come un sistema biologico, basato sul successo e sul fallimento. I sistemi morali, religiosi, economici, così come le leggi o la medicina e le arti, non sono altro che una proiezione di un sistema biologico».
E questo vivere biologico come si concilia con la coscienza che abbiamo di noi stessi? «La nostra condizione di viventi è una lotta contro la malattia e la morte. È una battaglia costante, dobbiamo sempre lottare per mantenere una "condizione omeostatica".
Questa condizione oscilla fra il buon funzionamentoe il cattivo funzionamento. Sin dall'inizio biologico ed evolutivo, storicamente, appaiono questi yin e yang, uno nella forma del piacere e l'altro nella forma del dolore. E vivere è stare nel mezzo.
Dobbiamo navigare fra il troppo dolore che ti uccide e la troppa felicità, che ti uccide lo stesso». È soddisfatto delle sue ricerche? «No, per nulla: sono riuscito a chiarire alcune idee, ma ne ho scoperte altre da sviluppare e studiare. Per dirla ancora con Scott Fitzgerald, alla fine del Grande Gatsby: siamo una nave che va sempre controcorrente, un po' andiamo avanti e un po' torniamo indietro».

Repubblica 18.4.12
Così il processo a Freud finisce con l’assoluzione
di Luciana Sica


Freud non è un truffatore, né un impostore e neppure ha abusato della credulità popolare. Millee 20 gli innocentisti, 170 i colpevolisti - secondo il verdetto della giuria popolare: il pubblico che partecipa al "Processo a Sigmund Freud". Sala Sinopoli dell'Auditorium di Roma strapiena l'altra sera, eppure l'ingresso non è gratuito, costa anzi quindici euro.
Per ottenere la condanna o l'assoluzione dell'illustre imputato, vestono la toga giuristi di gran fama. A cominciare dal presidente della Corte, Giuseppe Ayala, che alla fine scandirà la sua sentenza: "La colpevolezza non appare provata in alcun modo". L'avvocato difensore è Gianluca Tognozzi. Pubblico ministero: Luca Tescaroli. C'è anche Freud, in carne ed ossa, si fa per dire: l'attore Edoardo Siravo. A un giornalista, Alessandro Barbano, tocca invece il ruolo di Jung, un testimone assai tifoso del maestro viennese, e anche piuttosto impertinente: al Pm che gli chiede conto di malattie e guarigioni vere o presunte, risponde "Lei crede di essere completamente sano, signor Pubblico ministero?".
Serata godibilissima, sempre sul filo dell'ironia, mai uno sbadiglio in tre ore di dibattimento. Della psicoanalisi si parla in modo approssimativo, ma fa niente: le valutazioni contrapposte risultano interessantissime a chi ne sa qualcosa e a chi ne sa niente.
Aldilà dei capi d'imputazione, Freud sembra soprattutto accusato di essere una specie di erotomane, un uomo fissato con il sesso, che tutto - ma proprio tutto riconduce a quella cosa lì. La parola che risuona più spesso è "libido", e pazienza se mai nessuno ne parli come di una "pulsione di vita". Il divertimento si fa esilarante quando il termine viene applicato alla sessualità femminile, a quelle povere bambine "evirate", alle donne condannate - loro sì - all'invidia del pene. La requisitoria non tiene in gran conto quel che è stato un rompicapo per Freud, la dichiarata enigmaticità del "continente nero", quella domanda irrisolta e poi ripresa da Lacan: "Che cosa vuole una donna?". Niente da fare: Freud avrebbe sentenziato una volta per tutte che alle signore manca qualcosa di cui sentono tanto la mancanza.
A quel punto, Tognozzi - nella sua grintosissima arringa - ha buon gioco a demolire l'argomento e a strappare un applauso con una battuta: «L'invidia del pene... ma non sarà un problema maschile, non è un rovello degli uomini?". Ed è lui a citare Repubblica, quel "Manifesto" che definiva la psicoanalisi una scienza a statuto speciale, perché fatalmente a entrare in gioco è anche la fondatezza epistemologica del sapere freudiano.
Peccato solo che di analisti romani, almeno riconoscibili, non se n'è vista l'ombra. Peccato, perché avrebbero colto qual è la percezione della psicoanalisi nello sguardo di un pubblico medioalto. E magari avrebbero rubato qualcosa all'attore un po' gigione che si è divertito a citare Mark Twain, per dire di chi si ostina a intonare il requiem per Freud. A un giornale che per errore aveva annunciato la sua morte, lo scrittore inviò un telegramma di grande humour: "La notizia del mio decesso - scrisse - è fortemente esagerata".

La Stampa TuttoScienze 18.4.12
Paolini: “Resuscito Galileo il filosofo che aprì i cervelli”
di Marco Paolini


«Itis Galileo» di Marco Paolini si terrà il 25 aprile alle ore 21 nella Sala B dei Laboratori del Gran Sasso: la diretta sarà su La7

Quando la Signoria di Firenze propose a Galileo Galilei di cambiare cattedra e di trasferirsi armi, bagagli e cannocchiale in Toscana per sviluppare le proprie ricerche all'università di Pisa sotto l'egida dei Medici, lo scienziato pretese una cattedra per un solo studente, il granduca di Toscana. Così poteva avere finalmente più tempo per le sue ricerche. Pretese anche la nomina a filosofo di corte. Vista con gli occhi di oggi - sappiamo tutti quale bassa considerazione abbiano le facoltà umanistiche - la pretesa galileiana potrebbe apparire come un vezzo capriccioso, mentre per quel tempo significava essere investiti di un'autorità superiore a quella di un matematico (sottostante solo a quella dei teologi).
Dal Seicento al Novecento la storia racconta il riscatto della scienza, che da ancella diventa protagonista. Anche grazie alla «rivoluzione galileiana» il sapere scientifico ha dettato l'agenda del progresso, soprattutto quando si è convertita in successi tecnologici. Eppure la ricerca ha saputo mettere costantemente in discussione i principi che sembravano assodati,
sottoponendoli a dialettica costante, fino a postulare insieme i principi della relatività e quello dell'indeterminazione quantistica, che non si parlano tra loro, ma dicono a noi cose ugualmente importanti.
È per confrontarci con questo linguaggio e con questa dimensione critica che abbiamo scelto di portare uno spettacolo che racconta di storia e di scienza come «Itis Galileo» nei Laboratori del Gran Sasso dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Perché, parlando di Galileo, si apre un confronto ampio sulla forza delle idee e sulla necessità di limiti del pensiero governato dalla dittatura economica della convenienza. La convenienza è più forte di ogni dubbio, perché è così ragionevole da rendere un idiota chi la mette in discussione, partendo da presupposti non economici. La convenienza è come il pensiero aristotelico al tempo di Galileo: una sfera che contiene tutto.
Ecco il punto: al tempo di Galileo c'era un pensiero fragile, ma fortemente innovativo e moltissime persone di buon senso non vi aderivano, perché non ne vedevano la convenienza, era rischioso. Lui è stato uno scienziato geniale, ma in tempi difficili. Ha saputo mettersi in ascolto e scorgere i segnali del mondo, ma allo stesso tempo ha dovuto mettere in campo una straordinaria «resistenza» all'oscurantismo e al tempo che indurisce la mente. Perché, allora come oggi, non è facile tenere il cervello aperto e mettere costantemente in discussione il proprio lavoro.
In questo senso credo che il nostro tempo abbia l'assoluta necessità di aprire un dialogo con la scienza per acquisire altri gradi di pensiero. Non in astratto, ma nel concreto delle scelte che ci rendono tutti cittadini, governanti e governati. Amo la politica, ma ritengo che non tutto possa essere frutto di mediazioni. Ci devono pur essere letture comuni dei dati di fatto (relativi, ma concreti), letture condivise che ci obblighino ogni tanto a cambiare idea, che ci aiutino a interpretare i segni del tempo alla luce della storia, anche di quella della scienza. Così, guardando il nostro pensiero, potremo dire con Galileo: «Eppur si muove».

La Stampa TuttoScienze 18.4.12
La previsione
“I computer sfideranno presto la mente umana”


Tra poco i computer saranno in grado di imitare gli uomini: è il parere di Robert French, direttore della ricerca delle scienze cognitive del Cnrs francese, secondo il quale l’intelligenza artificiale ha fatto tali progressi da essere ormai a un passo dal superare il famoso test di Turing, elaborato dal matematico inglese per distinguere un essere umano da un computer (nella foto). «Rivoluzioni come i microchip che sanno imitare le cellule nervose - ha spiegato in un articolo pubblicato sulla rivista “Science” - ci stanno portando ogni giorno più vicini al superamento della barriera tra la mente umana e l’intelligenza computerizzata».

La Stampa TuttoScienze 18.4.12
“Atomi e cellule emozionanti come Picasso e Beethoven”
Lo studioso del cervello: “Cerco tra i neuroni le autostrade della meraviglia”
di Marco Pivato


Sulle tracce della bellezza. Il mondo invisibile delle particelle e quello visibile di Picasso: realtà opposte e ugualmente straordinarie
Semir Zeki Neuroscienziato  è professore di Neuroestetica allo University College di Londra
Il libro: La bella e la bestia, arte e neuroscienze, Laterza

È il racconto della natura è una storia meravigliosa: non c’è motivo di pensare che il pubblico non la adori, così ho elaborato una teoria che potrebbe diventare la nuova pratica per la narrativa scientifica». Pullulano le idee a Semir Zeki, professore di Neuroestetica allo University College di Londra, pioniere nello studio dei paradigmi che il cervello utilizza per rappresentarsi la realtà e inventare l’arte.
Con Zeki si è aperto oggi, a Firenze, al Palazzo dei Congressi, il XII Convegno di comunicazione pubblica della scienza e della tecnologia («Pcst 2012»): impegnati sul fronte della ricerca e su quello della divulgazione, un gruppo di cervelli stranieri e nostrani siederanno al tavolo della discussione sulla «Qualità, onestà e bellezza nella comunicazione della scienza». Professore, la scienza apre scenari evocativi ma sempre più complessi: come si parla di particelle oppure di cellule a un adolescente o a un letterato? «Con un modo semplice: adottando il linguaggio che accomuna ogni essere umano, sia un bambino, un classicista o uno scienziato e cioè il linguaggio della meraviglia. Il cervello fa sì che tutti noi abbiamo sentimenti di amore, odio, felicità o malinconia. La scienza raccontata deve fare leva sui sentimenti profondi per destare stupore e quindi essere apprezzata». E’ facile da dirsi, ma da farsi? «Perché ci emozioniamo ascoltando una sinfonia di Beethoven o guardando un quadro di Picasso? Studiarlo da scienziati significa che ci chiediamo cosa succede al cervello e ai neurotrasmettitori. Abbiamo ancora una mappa imprecisa, ma questo è il punto di partenza per approntare una strategia che migliori la comunicazione della scienza. Se, infatti, espedienti narrativi della realtà come l’arte possono produrre in noi emozioni sceniche e drammatiche, allora è nostro compito sapere come ciò avviene, perché conoscere queste “strade narrative” ci aiuterà a veicolare meglio i contenuti scientifici». Quindi la scommessa è indovinare come riuscire ad accendere l’interruttore dell’emozione? «Questa è, per così dire, la scienza della divulgazione». Ma ci sarà sempre chi troverà la scienza un linguaggio riduttivo, incompleto per spiegare la bellezza o l’amore. «La scienza non è un linguaggio riduttivo, anzi parla di amore molto bene, addirittura lo insegna».
Ci spieghi. «La conoscenza è un processo affettivo: quando abbiamo solo pochi anni, impariamo cosa è bene e cosa è male, cosa ci piace e cosa non fa per noi, proprio grazie alle relazioni che instauriamo con gli altri. La conoscenza e la curiosità sono processi cognitivi che insegnano un’etica e forgiano un carattere. Da bambini siamo tutti piccoli scienziati che studiano e imparano cosa sono le emozioni». Con le neuroscienze l’intelligenza artificiale fa passi da gigante: ma come faremo a costruire robot che integrino capacità di analisi e capacità filosofiche? «Non abbiamo ancora la risposta, ma avremo necessità di questa integrazione. Il cervello è un organo che non può fare a meno della ricerca filosofica. Alan Turing riteneva che potremo dichiarare intelligente un computer solo allorché, in una conversazione, questo si comporterà in modo indistinguibile da una persona. E aveva ragione. Lo studio del cervello ci insegna che l’intelligenza artificiale non si fa senza integrare capacità computazionali e speculative». Lei riattualizza la questione di Charles Snow sulle «due culture», umanistica e scientifica: è vero che scienziati e letterati hanno poco o niente da dirsi? «Credo che Snow avesse buone ragioni a denunciare questa insensata separazione. Il cervello non distingue tra scienza e non scienza. L'esistenza di “due culture” è solo una separazione che ha origine nel pensiero illuminista, ma non è reale».

La Stampa TuttoScienze 18.4.12
Psicologia. Morale umana e istinti animali: un problema già caro a Darwin
Socievoli e onesti: ecco come la moralità ci fa vivere meglio
di Maurilio Orbecchi, psicoterapeuta


Maurilio Orbecchi Psicoterapeuta, specialista in psicologia clinica
Il libro: Roger Highfield e Martin Nowak, Supercooperatori. Altruismo e evoluzione, Codice edizioni

Siate cooperativi e vivrete meglio! Un invito che può sembrare una piccola predica trova i suoi fondamenti in un rigoroso dibattito scientifico.
La scienza, da Darwin in poi, ha molto da dirci sull’egoismo e sull’altruismo. Non a caso la presenza degli istinti sociali e l’origine della morale è uno degli argomenti dominanti de «L’origine dell’uomo», dove occupa i capitoli IV e V. Tuttavia il dibattito in ambito scientifico non ha ancora portato a una posizione comune. Da una parte si è formata una scuola di pensiero che considera la moralità come una sovrastruttura culturale, un sottile strato che ricopre una natura umana profondamente egoista e brutale. Questa visione risale a Thomas Henry Huxley, detto «il mastino di Darwin»; vi si riconoscono, tra gli altri, la maggior parte dei biologi «adattazionisti», come George Williams e il primo Richard Dawkins. L’altro orientamento, invece, origina dallo stesso Darwin e passa, con sfumature diverse, attraverso Kropotkin, Westermarck, E. O. Wilson per arrivare a Jonathan Haidt. Questi autori interpretano la morale umana come un’estensione degli istinti sociali degli animali che, uniti allo sviluppo del sistema cerebrale, avrebbero permesso di arrivare a un grado inedito di complessità. Del resto la specie umana, come nota Frans de Waal, tra i maggiori esponenti di questo indirizzo, non ha mai vissuto davvero un momento in cui è diventata sociale, perché deriva da una lunga serie di scimmie che erano già altamente sociali.
Il primo punto di vista è stato quello prevalente nel secolo scorso. Ma con l’inizio del nuovo millennio le posizioni si sono ribaltate. Lo stesso Dawkins ha modificato le sue posizioni più radicali: nella prefazione (inedita in Italia) all’edizione pubblicata per il trentennale del suo famoso «Il gene egoista» afferma che nella prima edizione del libro non aveva ancora chiara la distinzione tra «veicolo» (l’organismo) e «replicatore» (il gene). Per questo motivo oggi non scriverebbe più che «siamo nati egoisti». Ritiene perfino che lo stesso libro si sarebbe potuto chiamare «Il gene cooperativo» per sottolineare come gruppi di geni mutualmente compatibili siano avvantaggiati dalla reciproca influenza.
A questo cambiamento di paradigma non sono state probabilmente estranee le neuroscienze, in particolare la scoperta, da parte di Giacomo Rizzolatti dei neuroni specchio che, nel cervello, rispecchiano le emozioni di un altro individuo, permettendoci di viverle in prima persona, pur se attenuate.
Oggi la visione cooperativa e l’accento sulla socialità della natura umana trova un esponente radicale in Martin Nowak, biologo matematico di Harvard. Dopo aver analizzato infinite situazioni di conflitto tramite modelli al computer, sostiene che la forza più creativa della biologia è proprio la cooperazione, un fattore di evoluzione che gli sembra pari alla mutazione e alla selezione naturale. In ogni caso la cooperazione lasciata a sé - afferma - non è stabile, ma cresce e scema come le pulsazioni del cuore. A lunghi momenti cooperativi seguono situazioni in cui prevalgono i defezionisti, che poi lasciano lo spazio a un nuovo ciclo di cooperazione. Il fenomeno avverrebbe a tutti i livelli: un defezionista individualista, per esempio, è la cellula cancerosa. Ma la selezione naturale, indifferente al dolore e alla morale, deve la sua efficacia proprio ai fattori ultra-egoisti, come le cellule cancerose, che hanno causato la morte dei giovani portatori, impedendo la diffusione dei loro geni alle generazioni successive.
Nell’Homo sapiens - conclude Nowak - insieme con la cooperazione si è evoluto anche il linguaggio. Questi due fattori, uniti, affinano e diffondono sempre più i comportamenti generosi e altruistici. Il dibattito continua.

La Stampa TuttoScienze 18.4.12
Misteri
La premonizione esiste o no? Tra scienziati finisce in rissa
di Luigi Rassia


Resoconto di una stranissima faccenda. Lo psicologo americano Daryl Bem fa sentire a un gruppo di persone una parola inventata. Poi chiede a tutti di scriverla e verifica quanti l’abbiano recepita. Diciamo che ci sia riuscito il 50%. A un altro gruppo viene fatta sentire la stessa parola una seconda volta. Le persone che colgono la parola «xxx» aumentano. Per semplicità diciamo che salgono al 70%.
Fin qui niente di strano. Ma ecco che cosa succede a un terzo gruppo. Le persone sentono xxx, poi scrivono quello che sono riuscite cogliere, e solo «dopo» riascoltano xxx. Questo terzo gruppo ottiene un risultato intermedio fra il primo e il secondo, diciamo il 60%. Come è possibile? Lo psicologo Bem fa un’ipotesi: alcune delle persone sondate hanno doti di premonizione, e hanno potuto beneficiare non solo della parola xxx che hanno sentito prima di scrivere il risultato, ma anche della xxx che è stata fatta ascoltare dopo, e che loro hanno «sentito» in anticipo.
Azzardato? Altroché. Lo stesso Daryl Bem dopo aver pubblicato i suoi risultati su una rivista scientifica sollecita i colleghi scienziati a replicare il suo esperimento, per verificare o «falsificare» l’esito.
Qui entra in gioco un altro psicologo, il britannico Chris French. Pieno di buona volontà replica il test di Bem. Ma il risultato è diverso: le persone che hanno sentito il suono xxx una volta «prima» e una volta «dopo» ottengono solo il 50% di successi. Nessun indizio di premonizione.
Bene, a questo punto French vorrebbe dare il suo contributo alla conoscenza scientifica internazionale e pubblicare su una rivista accademica i risultati della verifica negativa. Ma ha una sgraditissima sorpresa: tutte le riviste respingono il suo articolo: «Non pubblichiamo repliche», «Non ci facciamo coinvolgere in polemiche». «Ma come? - sbalordisce French - Le pubblicazioni accademiche non dovrebbero fare proprio questo, cioè pubblicare le verifiche o le smentite delle ricerche controverse? ». Lui lo aveva dato sempre per scontato, e invece scopre che no, non è così.
A un certo punto, a forza di sbraitare, French riesce a trovare udienza presso un’autorevole rivista internazionale di psicologia. Come d’uso, prima della pubblicazione il suo articolo viene sottoposto allo scrutinio di validità di due commissioni accademiche. La prima dà un verdetto favorevole. Ma la seconda respinge la domanda di pubblicazione. Sorpresa: da chi è diretta la seconda commissione? Dallo stesso Bem, cioè proprio lo psicologo i cui risultati French mette in discussione. Un caso monumentale di conflitto d’interesse. In conclusione: l’articolo non si pubblica. Non sulla stampa specializzata, la sola che faccia testo in campo scientifico.
Chris French resta basito. E a noi sorge il dubbio che il mondo funzioni in modo diverso da come credevamo.

La Stampa TuttoScienze 18.4.12
Chi diventa un sognatore lucido migliora anche i movimenti del corpo
di Nicla Panciera


Vaticini per il nostro futuro, sede di ritorno del represso, sottoprodotto di attività cerebrali dovute ad attivazioni neurofisiologiche spontanee: considerati nei secoli in modo diverso, i sogni ci accompagnano da sempre. «Sognano i mammiferi e sognano i feti dal quinto mese di gestazione», spiega Allan Hobson della Harvard Medical School, pioniere degli studi sulla neurobiologia del sonno. E proprio lo scienziato americano è stato uno dei primi a studiare i sogni lucidi, quelli nei quali l’individuo che dorme è cosciente di stare sognando e può agire intenzionalmente nel sogno come se fosse sveglio. Svegliarsi all’interno del proprio sogno ed intervenire si può imparare con dei piccoli accorgimenti da prendere prima e dopo il sonno e avrebbe ripercussioni positive sullo stato di veglia, secondo gli scienziati. I vantaggi riguarderebbero la capacità di trovare soluzioni originali a problemi difficili, come gestire sonni agitati ma anche lo stress quotidiano, forse grazie al senso di controllo sperimentato durante questi sogni, come dimostra uno studio israeliano sul «Journal of Traumatic Stress». Non solo. Sognando, si può imparare. Studi con la tecnica della risonanza magnetica e della spettroscopia nel vicino infrarosso al Max Planck Institute of Psychiatry, a Monaco, dimostrano che le attivazioni cerebrali di un individuo che sogna un movimento sono le stesse di quando ci si muove per davvero: l’esercizio motorio durante un sogno lucido, quindi, si tradurrebbe in prestazioni fisiche migliori, negli sportivi e negli individui con problemi motori come gli anziani. All’Università di Yale (Usa) si sono registrati anche altri tipi di apprendimento nei sognatori lucidi, osservando un miglioramento nelle prestazioni sociali, emotive e decisionali.

La Stampa TuttoScienze 18.4.12
Nello spazio tante copie del nostro sistema solare


Otto o dieci pianeti con una stella al centro: la struttura del nostro sistema solare potrebbe essere molto diffusa nel cosmo. Lo rileva un’analisi del «Centro de Astrofisica da Universidade do Porto» (Caup) in Portogallo, in collaborazione con l’Università di Ginevra in Svizzera, che mostra come nei sistemi planetari extraterrestri le orbite siano fortemente allineate, a disco, come nel nostro microcosmo: il team - che ha pubblicato un articolo su «Astronomy&Astrophysics» - l’ha dedotto studiando i dati di un censimento delle stelle simili alle nostre realizzato dal satellite «Keplero» e dallo spettrografo «Harps».

La Stampa TuttoLibri 14.4.12
Teologia. Una rilettura del Grande Inquisitore riapre (rinnova) lo scontro fra dottrina e bene
Mancuso “eretico”: trionfi la coscienza non l’obbedienza
di Ferdinando Camon


Vito Mancuso, Obbedienza e libertà, critica e rinnovamento della coscienza cristiana, Fazi

Vito Mancuso sta costruendo nella teologia, oggi, una rivoluzione che ricorda quella che han costruito nella scienza, ieri, Galileo e Newton. E diventa, come quelli, eretico: lo sa e lo dichiara, l’eresia è la strada obbligata per la verità. Stavolta il tema è l’obbedienza. Il traguardo indicato da Mancuso è: non più verità = dottrina, ma verità>dottrina, e quindi verità>Chiesa, e infine verità>cristianesimo. È una tesi eretica. Questo papa, in Dominus Jesus, afferma: «Tutta la verità sta nella cattolicità».
A monte di Mancuso sta la Parabola del Grande Inquisitore. È la parabola che chiude il pensiero di Dostoevskij sul rapporto tra fede e scienza. Mancuso qui la espone, seguendo il racconto dei Fratelli Karamazov. Ivan è ateo, mentre Alioscia è novizio in un monastero. Sul tavolo dove scriveva i Fratelli Karamazov, Dostoevskij teneva un santino, raffigurazione di un Cristo adolescente e imberbe, intimamente buono. Gli serviva per il ritratto di Alioscia. Ho visto quel santino, in quella casa. Seduto al tavolo, Dostoevskij aveva di fronte una finestra, e attraverso la finestra, a sinistra, vedeva le cupole di una chiesa. La sua speranza era di poterle vedere, se gli capitasse una morte improvvisa. Spero che le abbia viste, per la sua pace.
Il Grande Inquisitore è molto vecchio, sui novant’anni. È un cardinale, ma ama uscire vestito col saio monastico, e un giorno (uso il riassunto di Mancuso), davanti alla cattedrale, sente un uomo che dice: «Fanciulla, alzati», e la fanciulla, morta, si alza. L’Inquisitore guarda l’uomo-del-miracolo, lo riconosce, e decide di condannarlo al rogo e bruciarlo. Lo fa catturare e gettare in prigione. Siamo in Spagna, a Siviglia, l’Inquisizione lavora a tutto spiano per mantenere il popolo nell’obbedienza a Roma. Quella notte l’Inquisitore si presenta in carcere, si fa aprire la cella, va davanti al prigioniero, lo fissa a lungo, poi gli spiega come stanno le cose. Gli uomini han bisogno, per essere in pace, di «trovare qualcosa in cui credano tutti gli altri, che tutti venerino, e, condizione imprescindibile, tutti insieme».
Le forze capaci di unificare gli uomini nell’obbedienza sono tre: il miracolo, il mistero, l’autorità. «E noi - dice l’Inquisitore, a nome della Chiesa Cattolica - abbiamo corretto la tua opera fondandola sul miracolo, sul mistero e sull’autorità». «Queste parole di Dostoevskij - adesso è Mancuso che parla - vanno a cogliere alla perfezione il fondamento della costruzione che la fede cattolica è andata erigendo nei secoli».
Il Cattolicesimo ha imposto l’obbedienza in luogo della coscienza. Dopo tanti secoli, bisogna riprendere l’opera dei grandi teologi che hanno richiamato i credenti all’ascolto della coscienza. Facendo questo, e uscendo dall’obbedienza alla Chiesa, tutti quei pensatori distribuiti lungo i secoli, sono caduti nell’eresia. L’eresia è la strada per il recupero della coscienza. Mancuso rivendica l’ereticità di questo e di altri suoi libri come percorso salvifico e benefico per l’umanità. Ma come reagisce al sermone dell’Inquisitore il Cristo prigioniero? Si alza dalla panca, lo abbraccia e lo bacia. Per Mancuso, quel bacio vuol dire che non è l’Inquisitore il vero colpevole, perché egli è solo un funzionario della struttura. Gesù vede che «il vero prigioniero è proprio il suo carceriere», e ne ha pena.
Quella Parabola io ricordo un illuminato cristiano (non cattolico), Franco Fortini, spiegarla come segue. L’Inquisitore dice: abbiamo impiegato secoli e secoli per costruire un ordine nel quale l’umanità soffra e muoia senza impazzire, le abbiamo dato una verità, non possiamo permettere che sprofondi nel dubbio, che è il massimo dolore che si possa patire in terra; perciò domani io ti brucerò. Il prigioniero, che si alza e abbraccia e bacia colui che lo imprigiona, sta a dire che non condanna il sistema che lo imprigiona, ne riconosce l’ineluttabilità storica e morale. A questo punto Fortini faceva un salto tremendo, e le sue conclusioni erano, e sono, inintelleggibili nella loro sublimità. Sono tre: Cristo è venuto, anche se non fosse mai venuto; ha detto quel che noi crediamo che abbia detto, anche se avesse detto tutto il contrario; non tornerà, neanche se tornasse. Torna infatti, nella Parabola, ma tutto resta come prima. La questione si chiudeva così. Mancuso, ad ogni suo nuovo libro, la riapre. Con questo più che mai. Perché con questo afferma lo scontro fra obbedienza e coscienza, fra dottrina e bene: se scopo della vita è fare il bene, è anche lasciar perdere la dottrina. I suoi libri sono gioiosi e trionfali per i non cattolici, atroci e dolorosi per i cattolici. E questo più degli altri. "Un ragionamento che contrasta con Ratzinger secondo cui «tutta la verità sta nella cattolicità» Un percorso salvifico indicato da un libro atroce e doloroso per i cattolici, questo più degli altri"

La Stampa TuttoLibri 14.4.12
Storia delle monache Dal 1450 al 1700, un panorama grandioso tra avvelenamenti, ricatti, autoflagellazioni, ribellioni vere o sognate
Per molte donne il convento era l’unica via, pre e post Controriforma, per la costruzione di una propria identità
Le campane suonano per le “sepolte vive”
di Mirella Appiotti


Siliva Evangelisti, Storia delle monache (1450-1700) Il Mulino, pp. 281, 26

Sassi e tegole piovono sui muratori incaricati di rinforzare le mura del convento di Santa Cristina (Bologna, 1628) e, dalla finestra, «un grosso marmoro» ha come bersaglio la testa del notaio inviato dalle autorità: è la lotta «armata» delle promesse spose di Gesù contro l’inasprirsi della clausura postridentina. Un secolo e rotti più tardi, per la povera Suzanne Simonin chiusa nel monastero delle Clarisse a Longchamp, «furono suonate le campane affinché tutti sapessero che si stava creando un’infelice», ovvero la discesa agli inferi della piccola, intramontabile Religeuse di Diderot (usurpata poi dalla Rivoluzione). Del resto Lutero è un ex agostiniano sposato alla ex suora Caterina von Bora.
A fronte di ribellioni, vere, sognate o cantate da secoli in ogni forma d’arte, nella grande «fiction», Dante e Manzoni, Boccaccio e Stendhal, Verga e Pascoli (Myricae «... queste bimbe, queste vergini... »), tra Abelardo e Eloisa e La monaca portoghese, nella splendida ricostruzione teatrale di Maricla Boggio, in realtà l’avventura della «monacazione» posa su consensi (ancor vivi, con o forse grazie a Internet), fortissimi all’epoca. Non solo nelle fughe notturne di superagiate e nobili ragazze «per cercare rifugio nel monastero» dai soprusi familiari, o nell’estremo gesto di buttarsi «nell’acqua bollente allo scopo di deturpare la propria apparenza e rendersi, così, poco appetibili sul mercato matrimoniale... » quando la fede viene contrastata o, più comunemente, lo sposo designato è vecchio e laido...
Contro la «circoncisione dell’intelletto», Jacqueline Pascal, la sorella di Blaise, combatte a fianco della Mère Angélique e consorelle per la difesa di Port Royal; il dramma delle monache costrette, a metà ’500 dai seguaci delle 95 tesi di Wittenberg, a lasciare il convento violato, è tuttora vivido nella Petite Chronique di Jeanne de Jussie, badessa a Ginevra. Un panorama grandioso, tra enormi miserie (avvelenamenti, ricatti, autoflagellazioni oltre all’uso di sesso), che Silvia Evangelisti ridisegna nella sua Storia delle monache .
La docente di Storia Moderna all’Università East Anglia prende in esame il periodo dal 1450 al 1700, in una prospettiva che indaga, con un più di passione attraverso la vita delle «sepolte vive» che non attraverso le opere largamente note delle appartenenti a comunità aperte, «la funzione sociale e politica dei conventi a partire dal tema specifico dell’espansione degli ordini religiosi e femminili dentro e fuori dell’Europa e nel nuovo mondo» (le missionarie, eroiche, da sempre): secoli cruciali per gli strumenti della religione, per l’affermarsi degli scismi, per l’influenza delle grandi mistiche.
Di questa rivoluzione sotto spoglie reazionarie, una protagonista assoluta sarà Teresa d’Avila che «sposando» la sottomissione delle monache alla clausura, sposava «una missione ben precisa, secondo la quale la Chiesa cattolica se voleva la pace e tornare a essere unita, aveva bisogno delle donne e del loro contributo». A tal punto che il mondo del silenzio (non sempre così stretto, certe recluse di Strasburgo potevano parlare tra loro «in ore prestabilite, però in latino... ») diventerà pressoché l’unica via aperta alle donne, pre e post Controriforma, per la costruzione di una propria identità.
In alternativa al matrimonio, era il monastero a offrire buone se non ottime chances. Non si contano, infatti, in quei decenni le donne scrittrici: da Teresa a Maria Alacoque, altra celebrata mistica, a Fiammetta Frescobaldi, alla prolifica Tarabotti. E così musiciste, pittrici, sponsor (la magnifica «Camera di San Paolo» del Correggio a Parma). Assecondate dalle famiglie per ragioni di immagine e di prestigio, in specie di moneta (essendo anche tre volte meno costosa la dote per una monaca di quella per una ragazza da marito: sicché a Firenze, tra ’500 e ’700, il 46% delle figlie dell’élite prende i voti) e, molto, di politica.
Le donne in Cristo sono state determinanti intermediarie con i poteri, al tempo, davvero «forti» (a Madrid le rampolle Asburgo dal convento delle Descalzes Reales «negoziavano questioni di primaria importanza»), occupandosi del pari delle faccende di casta, al di là e al di qua delle mura, entro le quali soltanto il Vaticano II riuscirà a far saltare, dopo oltre cinque secoli, la ferrea gerarchia tra monache coriste e monache converse. Al contrario, da allora, contro il maschilismo ecclesiastico, ben poco ha potuto la mai spenta «querelle des femmes»: il «contributo delle religiose a una tradizione intellettuale il cui sviluppo si collega al pensiero femminista moderno». Perché, parafrasando Luisa Muraro, «il Dio era ed è delle donne».

La Stampa TuttoLibri 14.4.12
Ferraris. Manifesto suggestivo, ma poco oggettivo: si confonde l’interpretazione con l’immaginazione, degradata a puro fantasticare
Un nuovo realismo per salvarsi dal nichilismo
di Federico Vercellone


Maurizio Ferraris «Manifesto del nuovo realismo» Laterza pp. 113, 15

Si propone un «realismo modesto» che riconosca in ciò che è altro da noi un elemento di attrito nei confronti del soggetto Ma l’autore trascura che l’ermeneutica si è formata a contatto con un’esperienza oggettiva

Apparteniamo a un’epoca di svolte e dunque anche di bilanci. E questo vale anche per la filosofia, e per il nostro passato culturale recente. È, in effetti, un vero e proprio bilancio quello che viene proposto da Maurizio Ferraris nel Manifesto del nuovo realismo pubblicato da Laterza. Ferraris delinea qui un’alternativa filosofica che è un vero spartiacque, quella tra postmoderno e realismo. E la filosofia del postmoderno è, secondo Ferraris, l’ermeneutica, la teoria dell’interpretazione che sorge nella Germania del Cinquecento come disciplina connessa alla filologia biblica, e che ha, nel Novecento, in Hans Georg Gadamer, il proprio più significativo rappresentante. Il discrimine proposto da Ferraris è insieme storico e di prospettiva. A quella che viene vista come la koiné, come l’alveo dominante della filosofia degli ultimi decenni del Novecento verrebbe ora a sostituirsi, quantomeno in germe, una nuova lingua comune della filosofia che è quella del realismo.
Ferraris tipizza il postmoderno sulla base di un brevissimo passo nietzschiano che suona: «non ci sono fatti, solo interpretazioni». Questa definizione sintetica viene attribuita al postmoderno e alla filosofia che lo fonderebbe. Il postmoderno viene visto come una vera e propria ubriacatura dell’immaginario che indirizza verso il nichilismo. Se non ci sono fatti ma solo interpretazioni, si scivola inevitabilmente verso la negazione della realtà. Si nega cioè che esista un’oggettività, e dunque anche che a questa si possa fare riferimento per discriminare il vero dal falso sia sul piano della conoscenza sia su quello morale. In questo quadro molto critico Ferraris propone l’idea di un «realismo modesto» che riconosca cioè nella realtà, in ciò che è altro da noi, un elemento di attrito nei confronti del soggetto. Ci sono dunque consistenze «inemendabili» nel mondo. Per venire a un esempio di Ferraris, se dico a qualcuno di passarmi «quella» ciabatta, non ci sono possibilità di errore: se il mio interlocutore mi consegnasse un pettine o una scarpa sbaglierebbe. Ci sono poi «oggetti sociali». Sono tutte le iscrizioni che depositiamo nel mondo: testi, leggi, atti giuridici, contratti, messaggi inviati via posta elettronica o tramite il cellulare ecc. che dobbiamo invece riconoscere nel loro carattere costruito, interpretabile, derivato da una costruzione intellettuale spesso guidata dalla tecnica. Si tratta in quest’ottica di distinguere tra l’ontologia, la conoscenza di ciò che è, e l’epistemologia, la dottrina della conoscenza. La natura oggettiva attribuita agli oggetti naturali vale, in parte, anche per gli eventi storici. Anche l’Olocausto, se tutto fosse interpretazione, potrebbe divenire il frutto dell’invenzione di qualche storico incline ad accusare i nazisti di aver progettato un piano di sterminio degli Ebrei.
L’interpretazione di Ferraris, poiché di questo si tratta, è suggestiva ma poco oggettiva. In realtà Ferraris confonde interpretazione con l’immaginazione e degrada per altro l’immaginazione a un puro fantasticare, al sogno ebbro di un soggetto che ha perduto coscienza di sé e del mondo. Su questa via egli identifica, compiendo un vero e proprio ingiustificato cortocircuito, l’ermeneutica con il postmoderno, ed entrambi con una visione del mondo anti-illuministica e regressiva, involontariamente cinica proprio in quanto vuole sollevarci dal responsabile fardello della realtà e dell’oggettività.
Le cose andrebbero molto più circostanziate. Mi limito a pochissime osservazioni. Il postmoderno ha rappresentato uno stile culturale non egemonico, tra l’altro molto criticato a suo tempo, del quale già ci stavamo dimenticando. Il postmoderno poi, anche se ha enfatizzato il pluralismo culturale, non si è identificato con l’ermeneutica anche solo per il fatto che quest’ultima ha troppe anime per essere riassunta in una definizione inclusiva. Né l’ermeneutica si è consegnata, come movimento di pensiero, al postmoderno. Ferraris sembra dimenticarsi quello che, in quanto storico dell’ermeneutica, ben conosce. Trascura cioè il fatto che l’ermeneutica si è formata storicamente a contatto con un’esperienza oggettiva di primo livello, quella del confronto con il testo classico o biblico, che non può essere mai superato ma semmai attualizzato, compreso nel suo significato per il presente ma mai tradito. Come si può poi metter da parte che è l’esperienza della legge e della sua validità quella che guida il più grande rappresentante dell’ermeneutica contemporanea, Hans Georg Gadamer, nella sua opera maggiore, Verità e metodo? Qui viene in luce che la legge può essere esercitata soltanto in quanto può essere «applicata», e cioè solo in quanto l’interprete è in grado di adattare la norma, che va colta nel suo dettato e nella sua universalità, al caso singolo che ha tutta la sua consistenza. Non è dunque un’ansia di liberarci dalla realtà o dalla norma morale o legale a orientare l’ermeneutica al suo livello più rappresentativo e influente. È semmai la preoccupazione, che può essere anche molto conservatrice, di salvaguardare le tradizioni fondanti della cultura occidentale. Di qui, nel bene o nel male, mi sembra che si possa riprendere a discutere.

La Stampa TuttoLibri 14.4.12
Pensare con il suono
Da Nietzsche che ispira Strauss alle note che forgiano Schopenhauer
di F. V.


Alessandro Bertinetto, Il pensiero dei suoni. Temi di filosofia della musica, Bruno Mondadori pp. 169, 16

L’esigenza di pensare dentro le cose, all'interno del mezzo sensibile che abbiamo prescelto per esprimerci, e è quella che guida l'esperienza artistica. Pensare con il suono, con il colore o la pietra è una necessità essenziale della specie umana sin dalle sue origini.
A queste riflessioni richiama il recente volume di Alessandro Bertinetto, Il pensiero dei suoni. Temi di filosofia della musica, pubblicato da Bruno Mondadori. Si può intendere il pensiero dei suoni sia nel senso soggettivo del genitivo, in quanto pensiero proprio dei suoni, ma anche accogliendo il senso oggettivo del genitivo. Della musica può in altri termini parlare legittimamente anche il filosofo applicando ad essa uno sguardo dall'esterno che tuttavia non la tradisce. I filosofi possono influenzare il pensiero dei suoni, come avviene per esempio esemplarmente nel caso di Nietzsche che ispira Richard Strauss, mentre la musica può ispirare le concezioni filosofiche del mondo. E' il caso per esempio di pensatori come Arthur Schopenhauer e Theodor W. Adorno.
Bertinetto ci offre un percorso teorico, per altro ricchissimo di informazione storica, che affronta il duplice versante del pensiero dei suoni. E lo fa in un affascinante itinerario in cui vengono ripresi originalmente i temi cruciali della filosofia della musica. Si comincia con il chiedersi che cosa distingua la musica dal rumore. E' un interrogativo che coinvolge un ambito vastissimo di fenomeni, dalle espressioni musicali di culture diverse dalla nostra per venire a compositori come Pierre Schaeffer il quale utilizza materiali sonori isolati o introduce rumori nelle proprie composizioni. Bertinetto prosegue affrontando i temi classici della filosofia della musica, dall'interrogativo circa il suo carattere significativo o asemantico, per venire, fra l'altro, alla classica questione della relazione della musica con il sentimento. Il libro termina con un accenno, che promette di essere ulteriormente sviluppato, alla teoria dell'improvvisazione musicale. Che è come dire: come si pensa e si agisce nel suono?

La Stampa TuttoScienze 14.4.12
I paradossi di Zenone
Tempo-spazio, materia-movimento eterna sfida per fisici e metafisici
di franca D’Agostini


Vincenzo Fano «I paradossi di Zenone» Carocci pp. 142 10,50

A lungo i paradossi sono stati considerati una malattia del pensiero, e del linguaggio. «Per me, scriveva Tarski nel 1969, l'apparire di un paradosso è come il sintomo di una malattia». Nella seconda metà del Novecento si è incominciato a pensare che paradossali siano le basi stesse della conoscenza, e che il merito dei paradossi sia rivelare questa profonda ineludibile verità. La tendenza più recente consiste invece nel vedere nei molti argomenti paradossali che capita di incontrare non il crollo delle nostre comuni intuizioni sulla realtà, ma «un insegnamento» di importanza essenziale per chiarire il significato di concetti di comune uso, nella scienza, in politica, in filosofia, nell'arte.
A quest'ultima tendenza si uniforma il libretto di Vincenzo Fano, I paradossi di Zenone, una ricostruzione rapida e documentata del dibattito che ha circondato i bizzarri argomenti di Zenone di Elea, il quale può essere considerato il primo inventore (o scopritore?) di paradossi della tradizione. Fano esamina i paradossi noti come «l'Achille», «la Freccia», «la Dicotomia», «il Grande e il Piccolo», ne presenta un'analisi approfondita, e offre qualche cenno sulla storia della loro straordinaria fortuna, concentrandosi soprattutto sul problema del movimento.
A quanto sappiamo, Zenone inventò la celebre gara di corsa tra Achille e la tartaruga, in cui l'eroe piè veloce non vince, perché deve colmare le infinite metà del percorso, o l'esperimento della freccia, che in ogni istante è immobile nel punto in cui è, per dimostrare che la rappresentazione della realtà in termini di oggetti che si muovono è fonte di contraddizioni e insensatezze. Naturalmente, i suoi argomenti non funzionano: ma quel che conta, spiega Fano, è che nel cercare l'errore scopriamo aspetti inediti dei concetti di movimento, materia, tempo, spazio, che guidano ogni nostra visione della realtà. È questo dunque l'insegnamento, ed è il motivo per cui i paradossi di Zenone costituiscono ancora una sfida, per i fisici e per i metafisici.

La Stampa TuttoScienze 11.4.12
Etologia
“Perché la Terra è nostra e non degli scimpanzé”
Parla lo studioso: “Merito della cultura cumulativa e dei suoi miracoli collettivi”
di Monica Mazzotto


Lavorare in squadra Solo l’uomo ha sviluppato la capacità di condividere motivazioni e interessi creando una forma di civiltà unica

Tra noi e gli altri primati la differenza nel Dna è minima e nel caso dello scimpanzé si aggira tra l’1% e il 2%. Eppure loro non sono riusciti a colonizzare ogni angolo del Pianeta e a costruire gli acceleratori di particelle o a dipingere la Cappella Sistina. Qual è stata la carta vincente della nostra scalata evolutiva?
Alla domanda ha cercato di dare una risposta un team americano, francese e scozzese, capitanato da Kevin Laland del «Centre for Social Learning and Cognitive Evolution» dell'Università scozzese di St. Andrews. «Il nostro successo ecologico e demografico - spiega Laland - è attribuito alla capacità di accumulare e combinare, nel corso del tempo, le innovazioni positive, trasformandole in tecnologia e conoscenza, secondo un processo che
chiamiamo cultura cumulativa. Ciò che dovevamo capire, però, è quali abilità cognitive sono alla base di questa forma di cultura così avanzata». Per scoprirlo è stato condotto uno studio comparativo, pubblicato su «Science», in cui sono stati analizzati gruppi di scimpanzé, cebi cappuccini, scimmie del Sud America e bambini tra i tre e i quattro anni. A tutti è stata presentata una «puzzle-box», una scatola di montaggio che conteneva tre livelli di difficoltà, raggiungibili solo se il precedente stadio era stato risolto, implicando così un processo di cultura cumulativa. Professore, cos'è successo quando ha posto davanti alla stessa prova bambini, scimpanzé e cebi? «Dopo 30 ore di prove, solo uno scimpanzé era riuscito a raggiungere lo stadio più elevato, mentre nessun cebo era riuscito dopo 53 ore. Al contrario, all'interno dei cinque degli otto gruppi di bambini, almeno due individui avevano raggiunto lo stadio elevato in sole due ore e mezza». Quale è stata la differenza tra le tre specie nell'affrontare il problema? «I bambini hanno risposto al test come a un esercizio sociale, cercando insieme la soluzione, guardando e copiando le azioni dei vicini, e impartendo istruzioni. Ma non solo. In certi casi abbiamo assistito ad azioni di generosità, in cui i bambini condividevano i premi ottenuti. Ci saremmo aspettati degli atti di altruismo anche negli scimpanzé e nei cebi, perché erano presenti gruppi di madri e figli, ma non ne abbiamo avuto riscontro. Anzi. Abbiamo visto madri rubare i premi ai figli. Al contrario dei bambini, scimpanzé e cebi si relazionavano con la “puzzlebox” in modo solitario, cercando di risolvere la prova per ottenere cibo solo per se stessi». Lei crede che, come disse il cestista Michael Jordan, «il talento ti fa vincere una partita, ma l'intelligenza e il lavoro di squadra ti fanno vincere un campionato»? «Sì. Credo che alla base ci sia la cooperazione, ma non solo. Devono esserci alcuni comportamenti prosociali, come l'altruismo e l'insegnamento. L'ipotesi che questi processi socio-cognitivi fossero alla base della cultura cumulativa hanno trovato conferma nella correlazione tra il livello raggiunto nella “puzzle-box” e la quantità di insegnamenti verbali e di atti d’altruismo».

Kevin Laland Biologo, è professore di biologia evolutiva e direttore del laboratorio di apprendimento sociale e evoluzione all’Università di St. Andrews (Scozia)

La Stampa TuttoScienze 11.4.12
Adesso ci vuole anche una legge per aiutare le vittime dell’autismo
di Valentina Arcovio


Nonostante i progressi della medicina, l'autismo continua a essere una patologia sottodiagnosticata. Già 20 anni fa Gabriel Levi, l'attuale direttore dell'Istituto di Neuropsichiatria Infantile di Roma, annunciò che accanto agli autismi ad alto e basso funzionamento cognitivo, cioè i casi che più comunemente associamo a questa patologia, ce ne sono altri che hanno un tipo di autismo incompleto, detto «frustro». E da allora poco è cambiato. «Questi pazienti rappresentano più del doppio degli altri casi di autismo», spiega Levi. Il perché di questa discrepanza tra casi reali e casi più noti è presto detto. «Nei servizi sanitari non riusciamo a intercettarli completamente. L'errore più frequente è che in circa la metà dei casi vengono confusi con disturbi del linguaggio e del comportamento». Per sopperire questa lacuna di recente sono state pubblicate le nuove linee guida sull'autismo. Ma lo scopo, secondo Levi, dev’essere più ampio e lo si può raggiungere solo con una legge sulla salute mentale in età evolutiva. «Gli obiettivi - spiega - sarebbero tre: unificare gli interventi che oggi riguardano patologie separate; intervenire precocemente, saldando il mondo della Sanità con quello della scuola e dei servizi sociali; attivare una serie di screening ad ampio raggio». Obiettivi, questi, che si scontrano con l’indifferenza che continua a circondare la questione. L’istituto romano ne è un esempio. «Lungi dall’essere chiuso - racconta Levi - ha subito durissimi tagli. E, nonostante questo, ricoveriamo ogni anno 800 bambini e adolescenti con problemi psichiatrici e neurologici. Curiamo inoltre 2500 bambini all’anno e seguiamo in ambulatorio 4 mila giovani e giovanissimi. Per questo centro di via dei Sabelli è giusto ideare un progetto straordinario».

La Stampa TuttoScienze 11.4.12
Ogni cervello invecchia allo stesso modo. A cambiare è soltanto la velocità
di Nicla Panciera


Considerare l’invecchiamento cerebrale sinonimo di un inesorabile rallentamento delle funzioni cognitive è un’idea imprecisa e, secondo alcuni, superata. Quello anziano non è un cervello più lento: lavora in modo diverso. Le tecniche di neuroimmagine ci hanno permesso di studiare la relazione tra le differenze di prestazioni (il cambiamento e possibile declino) e le differenze neurali nel cervello anziano. Oggi sappiamo che l’invecchiamento è associato sia ad una diminuzione dell’attivazione neurale in alcune aree sia ad un aumento in altre: sul nuovo equilibrio tra questi due fenomeni si baserebbero le prestazioni del nostro cervello, che per mantenerle alte compie aggiustamenti in termini di spazio, tempo e connettività tra le aree. Questi cambiamenti sono espressione di plasticità cerebrale, la capacità di modificarsi nel corso dell’esistenza per imparare nuove abilità o compensare quelle perse. «Il cervello è una macchina complessa che può migliorare le sue prestazioni in vari modi, con nuove attivazioni o modificando la loro dinamica temporale», spiega Roberto Cabeza della Duke University. E’ un po’ come fare qualche sforzo in più per scartare i pezzi difettosi alla fine della catena di produzione piuttosto che spendere molta energia fin dall’inizio per evitare che gli errori vengano prodotti. Solo quando avremo compreso nel dettaglio come questo processo avvenga potremmo dire di aver capito che cos’è l’invecchiamento cerebrale. Le conseguenze per la popolazione che avanza negli anni sarebbero enormi: rapidi avanzamenti nell’accuratezza dei programmi di «training» cognitivo e nella loro personalizzazione per migliorare esattamente quelle abilità che per prime si perdono con l’età.

l’Unità Lettere a Luigi Cancrini 18.4.12
Il disturbo relazionale nel Dsm
Comitato dei cittadini per i diritti umani onlus


Da alcuni anni a questa parte c’è un movimento in atto nel campo della sanità mentale per includere una diagnosi chiamata “disturbo relazionale” nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (Dsm), la bibbia psichiatrica dell’Associazione Psichiatrica Americana (Apa), la cui uscita è prevista nel 2013. I disturbi relazionali sono definiti come «modelli di comportamento persistenti e dolorosi, sentimenti e percezioni che coinvolgono due o più partner in un rapporto personale importante». In genere, le persone che soffrono di disturbi relazionali hanno problemi con i loro principali gruppi di sostegno, in particolare le loro famiglie. In un disturbo relazionale tra due coniugi, ad esempio, mentre nessuno dei due potrebbe soffrire di una malattia individuale, entrambi potrebbero condividerne una. O come la rivista Time ha scritto nel 2002, «Io sono ok, tu sei ok, noi non siamo ok». Quindi? I fautori della diagnosi di Rd (disturbo relazionale) dicono che la ricerca è dalla loro parte e che le persone con relazioni disfunzionali riempiono le sale d’attesa dei medici. Ma forse ancor più importante è il fatto che una volta che una diagnosi entra nel Dsm, le assicurazioni sanitarie (private e pubblica) normalmente copriranno i costi del trattamento. Nessuna meraviglia che alcuni abbiano definito le diagnosi nel Dsm come «richieste di risarcimento assicurative». Sembra infatti che dietro alle forti pressioni che spingono per introdurre questo disturbo nella prossima edizione del Dsm ci sia la lobby dei consulenti matrimoniali, desiderosi di assicurarsi una fetta di una torta piuttosto cospicua: oltre 800mila coppie si recano ogni anno dal consulente matrimoniale solo negli Usa! Ancora in ultima analisi, forse l’aspetto più inquietante della consacrazione dei disturbi relazionali è che questo è solo l’ultimo di una lunga serie di eventi della storia della psichiatria, che ha visto i suoi professionisti cercare sempre più di estendere la propria autorità all’interno dei confini privati della vita quotidiana. Così se il prossimo Dsm includesse i Disturbi Relazionali, innumerevoli persone si sveglieranno una mattina con un disturbo psichiatrico. E questo avrà molto più a che fare con l’interesse personale di una professione che con la vera scienza.

il Fatto 18.4.12
Il libro del sindaco scrittore
La Bellezza secondo Renzi: “Dante era un ganzo”
di Paolo Nori


Il nuovo libro di Matteo Renzi, che si intitola Stil novo (Rizzoli 2012, pp. 193, 15 euro), mi sembra molto difficile da riassumere. Si apre con un'epigrafe di Camus («La bellezza non fa rivoluzioni, ma viene il giorno che le rivoluzioni hanno bisogno di lei») e parla di molte cose: di bellezza, di Firenze, dell'Italia, dell'America, del mondo. Di Dante, di Leonardo da Vinci, di Michelangelo, di Savonarola. Dei fiorentini, dei toscani, degli italiani, degli americani. È pieno di frasi in un certo senso memorabili, come queste: «Scrivere di Firenze è difficile. Forse arrogante. Per qualcuno persino inutile». «Anche questa città, patria dell'arte e della cultura, si fa spesso raggiungere dalla mucillagine del banale». «Una sorta di Manhattan ante litteram? Sì e no». «Ovviamente, se ascoltate gli storici vi diranno che questa ricostruzione è parziale. Lo ammetto anch'io, sia chiaro. Ma non è che vi dovete preparare a un esame universitario: state assaggiando una città». «Ormai è maturo il tempo in cui l'Italia regolarizzi il servizio civile obbligatorio, la cui introduzione è stata richiesta da molte associazioni e dal settimanale “Vita”, la più autorevole testata del terzo settore in Italia». «Dobbiamo avere la forza di sconfiggere il pensiero debole dei poteri forti, o presunti tali». «Una città non è un ammasso casuale di pietre». «Diciamoci la verità, a Firenze ci sono cose meravigliose, che spaccano il pensiero».
«Se vogliamo essere onesti, però, a Firenze non mancano nemmeno le autentiche cialtronate, che andrebbero proibite con un'ordinanza». «Sono sicuro che se Dante fosse in vita scriverebbe sul suo blog parole al vetriolo contro queste assurdità». «Dante appartiene a questi personaggi rovinati dalla scuola». «Spesso ce lo presentano in modo monotono. E invece Dante era un ganzo. Amava l'amore, amava la politica, amava le passioni forti. Detta male: gli garbava vivere». «Dante ha inventato l'italiano riuscendo nel brillante paradosso di fondare un'appartenenza dall'esilio». «Io sono convinto che Dante era di sinistra, anche se non lo sapeva». «Crea l'italiano anche se probabilmente non ne è consapevole, pur avendo una sufficiente dose di autostima, diciamo così». «In questi momenti mi viene quello che, tecnicamente parlando, si chiama discreto giramento di scatole, giusto per uscire dall'atmosfera poetica». «Anche perché diciamo la verità, la Gioconda è più enigmatica che bella». «Non possiamo indugiare qui nei particolari, rimandando a testi più seri». Ecco: a me è sembrato stranissimo, che in tutte le 193 pagine di questo libro sulla bellezza non sono riuscito a trovare una frase che mi sembrasse non dico bella, ben fatta. A un certo momento mi è tornato in mente Camus quando, nei suoi taccuini, pensa a quel che avrebbe voluto ancora fare, nella sua vita, e scrive: «Ma soprattutto, soprattutto, rifare a piedi, con lo zaino sulle spalle, la strada da Monte San Sa-vino a Siena, costeggiare quella campagna di ulivi e di viti, di cui sento ancora l’odore, percorrere quelle colline di tufo bluastro che s’estendono sino all’orizzonte, e vedere allora Siena sorgere nel sole che tramonta con tutti i suoi minareti, come una perfetta Costantinopoli, arrivarci di notte, solo e senza soldi, dormire accanto a una fontana ed essere il primo sul Campo a forma di palmo, come una mano che offre ciò che l’uomo, dopo la Grecia, ha fatto di più grande. Sì, vorrei rivedere la piazza inclinata di Arezzo, la conchiglia del Campo di Siena e mangiare ancora i cocomeri per le strade calde di Verona. Quando sarò vecchio, vorrei che mi venisse concesso di tornare su quella strada di Siena, che non ha eguali al mondo, e di morirvi in un fossato, circondato soltanto dalla bontà di quegli italiani conosciuti che io amo». E mi è venuto da pensare che Camus, quando parlava della bellezza, era come un falegname che parlava del legno, sapeva quel che diceva.

Corriere della Sera 18.4.12
L’opposizione protesta: insopportabile revisionismo
Alemanno contro via Lenin «È un nome che stride»
di Alessandro Capponi


ROMA — Good bye via Lenin, promette Gianni Alemanno. E lo fa — alla presentazione di un libro dedicato all'artefice della rivoluzione russa del 1917 — dicendo: «L'idea di rivedere la via e il largo dedicati a Lenin credo sia una provocazione intelligente, soprattutto se fatta in maniera trasversale insieme al consigliere Gianluca Quadrana. Il nome di Lenin stride con l'idea di avere una toponomastica condivisa». Solo che proprio Gianluca Quadrana, il consigliere della lista civica per Francesco Rutelli, raggiunto al telefono sembra colto di sorpresa: «Siamo disponibili a discuterne, ma niente di più. Ad Alemanno vorrei dire: ma si è accorto delle condizioni nelle quali versa la città? E lui si occupa di toponomastica?». Il consigliere Dario Nanni del Pd parla di «insopportabile revisionismo. Alemanno ora che si avvicinano le elezioni vuole far contenta la destra. La sua proposta non passerà, e certo non all'unanimità. E poi: Alemanno è sempre lo stesso sindaco che propose di intitolare una via ad Almirante, giusto?». In commissione Toponomastica l'esito appare scontato: i membri del Pdl sono sette, quelli del centrosinistra cinque. Good bye Lenin, dunque, ma senza nulla di condiviso.
A Roma la toponomastica ha sempre fatto discutere: la citata via Almirante, e poi via Craxi, e via Bottai, solo per citarne alcune. Nomi che hanno creato polemiche e riempito i titoli dei giornali, suggeriti ora dalla destra ora dalla sinistra: ma non sono mai diventati toponimi. Come finirà stavolta, si vedrà. Di certo, la polemica è già cominciata.
Interviene subito l'ex ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, Pdl: «La nostra storia è una fonte inesauribile di eroi che meritano di avere una via dedicata nella Capitale. Roma potrebbe fare da apripista per molte città che hanno strade dedicate ad altri dittatori». Si trovano, via e largo Lenin, tra Portuense e Magliana. E se Alemanno immagina di «rivedere un po' tutti i parametri di riferimento della toponomastica», il presidente della Commissione, Federico Mollicone del Pdl, annuncia la sua intenzione «di intitolare questi due toponimi ai martiri del comunismo. Non la formalizzerò fino a quando non ci sarà condivisione». Non semplice. Tra i membri della commissione c'è Andrea Alzetta, eletto nelle liste della Sinistra arcobaleno: «Dopo l'uscita dell'aula del Pdl in occasione del minuto di silenzio per il partigiano Sasà Bentivegna e dopo la scelta di vendere quote di Acea, in barba all'esito del referendum sull'acqua, da questi signori non si accettano lezioni di democrazia».

«Oltre trenta appuntamenti tra lezioni magistrali, interviste, confronti e spettacoli, con alcuni dei più importanti pensatori italiani, esponenti del mondo filosofico, accademico, scientifico, e culturale: da Carlo Flamigni a Lella Costa, da Marco Bellocchio a Chiara Saraceno»
Repubblica 18.4.12
Reggio Emilia Mangiare bene, ma con filosofia
di Francesco Nani


Oltre trenta appuntamenti tra lezioni magistrali, interviste, confronti e spettacoli, con alcuni dei più importanti pensatori italiani, esponenti del mondo filosofico, accademico, scientifico, e culturale: da Carlo Flamigni a Lella Costa, da Marco Bellocchio a Chiara Saraceno. A Reggio Emilia, dal 20 al 22 aprile, tornano le Giornate della Laicità: quest'anno il festival, che si svolgerà fra il Teatro Valli, l'Ateneo e l'Atelier del Gusto al Centro Malaguzzi, (www.giornatedellalaicita.com) , sarà dedicato al tema "Le parole della laicità, Autodeterminazione vs Minorità". Nel corso della tre giorni non mancheranno gli appuntamenti gastronomici: dalla Cena Laica organizzata in collaborazione con Slow Food, che concluderà le Giornate, alle ricette speciali che dieci fra i più grandi cuochi italiani hanno pensato per l'occasione. Le proposte culinarie saranno raccolte in una plaquette a disposizione del pubblico su offerta libera. Il ricavato verrà devoluto al progetto di Salvator Bahia promosso dall'Arci.

Repubblica 18.4.12
Il fisco sul lettino dello psicanalista
risponde Corrado Augias


Caro Augias, Laura Morante ha sollevato con leggiadria il tema dell'evasione fiscale degli psicoanalisti. Problema che riguarda svariate altre categorie. Eppure lo psicoanalista evasore disturba; chiedere la ricevuta a una persona cui si affidano i più reconditi pensieri è cosa se non impossibile complessa. Come in generale chiederla ai medici cui ci affidiamo per risolvere i nostri mali e riavere serenità e salute. Eppure gli psicoanalisti sono molto rigidi nello stabilire il setting, gli orari delle sedute e gli onorari.

Se un giorno devi saltare l'appuntamento perché magari tuo figlio ha la febbre sono pronti a dirti che stai facendo resistenza all'analisi. Non dare la ricevuta fiscale in questi casi è più grave proprio per la soggezione ed il timore riverenziale che queste figure incutono. Spero che a questa mia lettera segua la riflessione dei pazienti e non la levata di scudi della categoria. Quelli che pagano le tasse non hanno bisogno di far sentire la loro voce, fanno il loro dovere e basta, la lettera è diretta agli altri... Anna Cavi Mi ero dovuto porre il problema per un medico (grosso nome) che non contempla proprio il rilascio della ricevuta. La segretaria quando si esce dalla visita non fa nemmeno il gesto di voler riempire quel modulino con la marca da bollo. Non avendo vilmente il coraggio di chiederla, ho cambiato medico. Non mi ero invece mai posto il problema degli psicanalisti. Presumo che come in ogni categoria, dalle artigianali alle specialistiche, ci saranno psy per bene e psy per male, persone di autocoscienza (sociale) avanzata e altre meno. Resta, come sottolinea la signora Cavi, che il caso dello psicanalistaè molto più imbarazzante di quello del medico. Se con quest'ultimo bisogna talvolta mettere a nudo una parte o tutto il corpo, con lo psy è la mente che si deve offrire indifesa il che comporta un'esposizione totale della propria intimità, compresa quella 'rimossa' (quando ci si riesce). Passare da quella fase di assoluto abbandono al dover chiedere la ricevuta con la marca da bollo diventa davvero un salto troppo grande. Del resto la cura aggressiva che il governo Monti sta tentando per convincere finalmente gli italiani che le tasse vanno pagate ha raggiunto buoni risultati ma ha anche aumentato il tradizionale via vai degli spalloni lungo i sentieri montani verso Lugano. Mi scrive da Pescara il signor Antonio Taraborrelli: «A leggere i dati dell'Eurispes sull'evasione fiscale nel 2011 c'è da rimanere agghiacciati: 540 miliardi di euro, pari alla somma dei prodotti interni lordi di Finlandia, Romania e Ungheria». Dato spaventoso, che lo diventa ancora di più se in quel mare di soldi figurano anche quelli ricavati frugando nell'animo dei propri pazienti.

Repubblica 18.4.12
L’arte di Vermeer in ottobre a Roma


ROMA- Alle Scuderie del Quirinale, dal primo ottobre al 20 gennaio, la prima grande mostra italiana dedicata al genio di Johannes Vermeer, maestro fiammingo del '600 che in vita dipinse pochissimo e solo su commissione per mantenere i suoi undici figli. Si conoscono 37 sue opere, delle quali nessuna in Italia e chi le possiede difficilmente le presta, tant'è che negli ultimi 100 anni sono state solo otto le grandi mostre di Vermeer. Di queste, tre hanno raccolto più di quattro capolavori. Non è ancora chiaro quanti ne arriveranno a Roma: la campagna è in corso. È possibile prenotarsi al numero 06/39967500 o sul sito www.scuderiequirinale.it.