giovedì 19 aprile 2012

l’Unità 19.4.12
Scotch sulla bocca dei rimpatriati Alcuni passeggeri protestano e la foto finisce in Rete
La polizia: «La maschera tutela i passeggeri». Ma è polemica. Manganelli: ora una relazione
Migranti imbavagliati e legati. Scandalo sul volo Roma-Tunisi
Sul volo Alitalia, due clandestini scortati dalla polizia con nastro da pacchi sul volto e fascette di plastica ai polsi. E gli agenti che dicono: «È una operazione di routine». La denuncia su Facebook.
di Ma. Ge.


Una foto shock, che apre uno squarcio su come vengono effettuati i rimpatri degli immigrati irregolari espulsi. «Guardate cosa è accaduto oggi sul volo Roma-Tunisi delle 9,20 Alitalia», scrive postandola su Facebook, l’autore, Francesco Sperandeo, aiuto-regista di fiction, che si trovava su quell’aereo martedì scorso insieme ai «due cittadini tunisini (è la sua supposizione ndr) respinti dall’Italia e trattati in modo disumano» ritratti nella foto: «Nastro marrone da pacchi attorno al viso per tappare la bocca ai due e fascette in plastica per bloccare i polsi». Con il telefonino, in realtà, il passeggero-reporter è riuscito a fotografarne solo uno. Una foto «rubata» che fa il giro della rete, insieme alla sua denuncia: «Questa è la civiltà e la democrazia europea?», si domanda l’autore, protestando perché alla richiesta di trattare in modo umano i due passeggeri «mi è stato intimato in modo arrogante di tornare al mio posto perché si trattava di una normale operazione di polizia...». «Normale?», replica il regista a mezzo Facebook. «Fate girare e denunciate!».
E se gli altri passeggeri come racconta lo stesso Sperandeo non si sono indignati, la Rete ha fatto il suo dovere. E nel giro di poche ore al coro delle proteste raccolte sul social network, si sono aggiunti uno a uno politici, deputati, senatori. «Come è possibile che in uno Stato di diritto come l'Italia possa accadere una cosa del genere?», si domanda Andrea Sarubbi, annunciando una interrogazione al ministro dell’Interno. «Anche se i rimpatri sono necessari, devono essere effettuati nel rispetto dei diritti umani e non di certo violando la dignità degli immigrati che vengono espulsi dal nostro Paese», attacca Livia Turco, da ex ministro e da responsabile del Forum Immigrazione del Pd, che parla di fatto «inaudito». «Vorremmo che il ministro dell’Interno ci facesse sapere se effettivamente tale prassi sia di routine, come sembrerebbero aver asserito gli stessi agenti di polizia», scandisce il responsabile Sicurezza del Pd Emanuele Fiano: «La nostra opinione è che quanto denunciato sia inammissibile per un Paese civile». È lo stesso presidente della Camera Fini, di lì a poco, a incalzare il governo affinché riferisca in aula «con la massima urgenza».
LA RICOSTRUZIONE DEL VIMINALE
All’ufficio di Polizia di Frontiera, responsabile di quella «normale operazione di polizia» che normale non sembra affatto, il capo del Dipartimento di Pubblica Sicurezza Antonio Manganelli ha chiesto una relazione dettagliata. Una prima ricostruzione, intanto, spiega che i due immigrati, che potrebbero essere algerini, provenivano da Tunisi ed erano diretti in Turchia, con scalo tecnico a Fiumicino: una volta giunti a Roma, però, la mattina del 15 aprile, si sono rifiutati di proseguire il viaggio. «Come accade in questi casi, è scattata la procedura di respingimento che prevede il ritorno alla località di partenza, indipendentemente dalla nazionalità», spiegano dal Viminale. Il giorno dopo quando è stato individuato il primo volo utile per Tunisi, i due avrebbero di nuovo rifiutato l’imbarco, «opponendosi in tutti i modi, mordendosi l'interno della bocca e sputando sangue».
È allora che sarebbe stata loro applicata quella che viene definita «una mascherina sanitaria», successivamente «fissata con lo scotch» perché «i due continuavano a tentare di sfilarsela facendo dei movimenti con la bocca». La misura spiegano dal Viminale -, sarebbe stata presa «per garantire la sicurezza degli altri passeggeri». Una volta effettuato il decollo, «ristabilita la calma», il nastro come ha confermato lo stesso Sperandeo è stato tolto.

l’Unità 19.4.12
Dignità violate, è inaccettabile
di Moni Ovadia


È un'immagine che ferisce: quegli immigrati con lo scotch sulla bocca, le mani legate e gli occhi spaventati, la cui foto ha fatto il giro del web, ci dice più di tante parole che cosa siamo. Quale è l'abisso in cui rischiamo di cadere senza più qualsiasi senso di solidarietà e di rispetto umano. L'immigrato vale meno di una merce da spostare da una parte all'altra del mondo. È il segno di un declino spaventoso.
Eppure, un luogo comune assai diffuso e pigramente accettato dai più, è che l'Occidente abbia espunto dal proprio orizzonte quella disumanità che fu l'incunabolo delle atrocità di cui è disseminata la storia del secolo breve. E naturalmente noi italiani, brava gente per definizione, il cui fascismo sarebbe stato un blando autoritarismo che mandava gli oppositori in vacanza al confino nelle belle isole Eolie o nella allora remota Eboli dove però potevano conversare con Cristo, fra tutte le genti civili e umane del civilizzatissimo Occidente saremmo i più bravi e i più umani. Le stragi di Stato sarebbero un incidente di percorso, il bestiale sfruttamento dei lavoratori africani nei nostri campi di pomodori, anomalie, i respingimenti illegali di immigrati mandati alla tortura, alle violenze carnali e alla morte più atroce nei campi di «concentramento», pardon, campi di raccolta dello spietato rais libico a cui si baciavano le mani per l'ottimo lavoro svolto, un dettaglio sgradevole.
Siamo ancora oggi il Paese in cui, in spregio a tutte le convenzioni internazionali, si ammassano i detenuti nelle carceri in condizioni crudeli, siamo ancora il Paese in cui la tortura non è rubricata come reato, siamo il Paese della macelleria messicana in puro stile fascista sudamericano alla Diaz di Genova. Questo è il Paese che ha promulgato una legge per istituire il reato di clandestinità, un'infamia giuridica ed etica. I retori da barzelletta si sbracciano nel dire appassionatamente che siamo un grande Paese. Ma in che film?
Siamo un Paese che annovera grande gente: i magistrati e le forze dell'ordine, servitori dello stato che hanno dato le loro vita per difendere la legalità e per combattere la mafia, i sacerdoti di strada o quelli antimafia che testimoniano la parola di Gesù nella sua autenticità, le miriadi di eroi quotidiani che lavorano onestamente e nel rispetto delle regole in un Paese che però è ancora il regno della corruzione. Quando accadono certi fatti, quando immagini così dure da mandare giù ci toccano e ci sconvolgono, allora pensiamo che l'Italia in quanto nazione nelle sue diffuse strutture pubbliche e private non è un grande Paese. Che è un Paese meschino che defrauda la povera gente, che disprezza i lavoratori, che perseguita lo straniero e che non ha fatto e non vuole fare i conti con il suo retaggio di violenza latente. Aleggia uno spirito di ferocia e di indifferenza che oggi si specchia nei volti umiliati, imbavagliati come si usa nei sequestri, di due immigrati. Due esseri umani la cui dignità è brutalmente violata da chi dovrebbe avere il compito di vegliarla.

Repubblica 19.4.12
Laura Boldrini, portavoce Onu per i rifugiati
"Mai visto niente del genere li hanno trattati come animali"
di Caterina Pasolini


ROMA - «È un trattamento scandaloso. Umiliante. Ingiustificato». Pesa le parole Laura Boldrini, portavoce dell'alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Ma non nasconde la condanna: dura.
Cosa pensa di quello scotch sulla bocca? «Non ho parole, non avevo mai visto una persona trattata così in Italia: quella mascherina, il nastro adesivo che chiudono la bocca per impedire ogni parola, ogni protesta. Penso a come si devono essere sentiti quegli immigrati e ne sono sicura: umiliati, profondamente».
Le manette? «Quelle di plastica le ho viste diverse volte ai polsi dei rimpatriati.
Capisco che a volte i migranti che non vogliono essere rimpatriati protestino in modo rumoroso, a volte fastidioso per gli altri passeggeri, ma tappare loro la bocca neanche fossero animali non lo accetto. No, non si può proprio».
Sbagliato il modo o il rimpatrio? «È giusto rimandare a casa chi è entrato illegalmente, ma tutto questo va messo in pratica con rispetto e comprensione. In fondo l'unica colpa che hanno queste persone è di aver cercato qui un futuro migliore». Cosa l'ha colpita di più? «L'indifferenza degli altri passeggeri su quel volo. Nessuno, tranne il fotografo, ha reagito. Come se fosse normale un simile trattamento, come se fosse giusto imbavagliare con lo scotch una persona».
Perché tanta indifferenza? «Credo che questi i trattamenti esagerati facciano pensare alla gente che deve aver paura dell'immigrato, che è un essere pericoloso, che il suo timore è giustificato. E quindi alla fine trovano tutto normale, tutto accettabile. È un serpente che si morde la coda».

«Gli esseri umani sono caratterizzati dal linguaggio e dalla parola, come spiega bene Lacan. Perché privarli allora di ciò che li rende umani?»
Repubblica 19.4.12
La compassione e le regole
di Michela Marzano


LA SICUREZZA innanzitutto. E poi le regole da rispettare e gli ordini da seguire. Ma fin dove? Dove comincia e dove finisce la "normalità"? Imbavagliare con nastro da pacchi due cittadini tunisini che vengono rimpatriati non dovrebbe essere qualcosa di "normale". Anche quando si ritiene "normale" metterli su un aereo per rispedirli nel loro paese. Perché, nonostante tutto, il viso di una persona ha sempre un valore simbolico. È attraverso il viso e la bocca che ognuno di noi esprime la propria soggettività. È attraverso il proprio sguardo che si entra in relazione con gli altri. E la soggettività di un essere umano, anche quando si è commesso un crimine o un delitto, non dovrebbe mai essere negata o cancellata come accade quando, per applicare le procedure ed evitare di creare scompiglio e confusione, si cede alla tentazione di far tacere a tutti i costi, anche con del nastro adesivo. Per garantire il buon funzionamento della società, ciascuno di noi è chiamato a fare il proprio dovere e ad assumersi le responsabilità che gli competono.
Non si tratta qui di negare l'importanza delle regole che, da sempre, rendono possibile il "vivere insieme". Dovere e responsabilità, però, non dovrebbero implicare né un'assenza di compassione, né l'indifferenza. Perché gli esseri umani non sono dei semplici automi, delle macchine che si limitano ad eseguire i programmi con cui sono state concepite. La compassione nei confronti di un'altra persona, però, è possibile solo quando si è capaci di immedesimarsi nell'altro. E, quindi, quando si riconosce l'altro come un essere umano simile a noi. Altrimenti si scivola, anche senza rendersene conto, in una forma di barbarie.
Come ci insegna Hannah Arendt nel 1963, il problema del rapporto tra "dovere" e "umanità" è molto complesso. Perché talvolta accade che, proprio nel nome del dovere, ci si dimentica che chi ci sta accanto è anche lui una persona. È allora che si commette il "male". Paradossalmente nel nome del "bene".
Anche banalmente. Non perché il male, in sé, sia banale. Ma perché può accadere a chiunque di "smettere di pensare" quando si tratta di applicare una regola, e di non sapere più fare la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Umiliare una persona non dovrebbe mai essere giusto, anche in nome della sicurezza e della giustizia. Eppure è proprio di umiliazione che si tratta quando si parla di nastro da pacchi sulla bocca. Questi due tunisini li si doveva, certo, rimpatriare. Si doveva probabilmente immobilizzarli. Ma c'era veramente bisogno di farli tacere imbavagliandoli? Non è solo una questione di "eccessi" o di "misura". È una questione simbolica. Gli esseri umani sono caratterizzati dal linguaggio e dalla parola, come spiega bene Lacan. Perché privarli allora di ciò che li rende umani?

l’Unità 19.4.12
Pressing di Bersani sul governo: al più presto misure per la crescita
Le richieste del leader Pd al vertice con Monti: allentare il Patto di stabilità
Il premier: per ora il tesoretto non sarà utilizzato per diminuire le tasse
di Maria Zegarelli


ROMA. Sei ore di vertice, due delle quali riservate alle slide proiettate da Corrado Passera sul piano nazionale per le riforme, ma il vero braccio di ferro seppur sobrio e discreto si è consumato tra il leader Pd, Pier Luigi Bersani, e il governo sulle misure urgenti per fronteggiare la recessione.
All’indomani della full immersion il segretario traccia un bilancio positivo ma, aggiunge, «il lavoro deve continuare» perché di fronte ai dati drammatici diffusi ancora ieri dall’Istat e da Confindustria non c’è tempo da perdere e se il piano per le riforme del governo contiene proposte «valide e interessanti» i cui frutti sono destinati ad arrivare nell’arco di nove anni, il Paese ha bisogno di una «boccata d’ossigeno oggi, subito».
Di questo l’altra sera ha parlato a lungo Bersani, «è necessario sbloccare gli investimenti dei Comuni, gli unici a poter fare adesso investimenti rapidi» e per questo è tornato a chiedere a Monti, «un allentamento selettivo sul Patto di stabilità», questione definita ancora «irrisolta». Ma il primo ministro e il sottosegretario Grilli, pur consapevoli della necessità di dare una scossa all’economia, hanno frenato.
Le previsioni del Fmi, che danno per l’Italia uno spareggio di bilancio almeno fino al 2017, e i dati contenuti nello stesso Documento di economia e finanza presentato ieri (nel quale si conferma un crollo del Pil dell’1,2%), spingono il governo verso una tenuta della linea di rigore fin qui intrapresa. L’allarme è talmente alto (malgrado ieri il premier si sia detto ottimista sul pareggio nel 2013) che per ora non si parla di destinare alla diminuzione della pressione fiscale il provento del tesoretto frutto della lotta all’evasione.
Non a caso ieri Monti ha ribadito che soltanto nel 2014 sarà possibile intervenire su questo fronte. Argomento bruciante per il Pdl, che del calo delle tasse ha sempre fatto un cavallo di battaglia elettorale, tanto che Angelino Alfano è tornato all’attacco proprio pensando al 2013: «Il primo modo per sostenere la crescita del Paese è smettere di aumentare le tasse. La nostra idea è basta tasse e basta dare l'impressione che ogni provvedimento del governo contenga un nuovo balzello».
E se per il segretario Pdl la crescita passa attraverso la diminuzione delle tasse, per il segretario Pd passa anche e soprattutto attraverso una serie di misure che immettano nuova liquidità sul mercato per le imprese e contribuiscano alla creazione di posti di lavoro, vera emergenza nazionale. Bersani ha parlato di investimenti nel settore delle nuove energie, politiche industriali mirate soprattutto nei settori più in affanno, e nuove risorse per la pubblica amministrazione attraverso una «triangolazione con la Cassa di Depositi e prestiti e le banche». Su questo ultimo punto, ha spiegato ieri, «è stato allestito un percorso da verificare tra governo, Cassa depositi e banche, che può dare frutti positivi». Si è parlato «solo di questioni economiche, sociali e occupazionali», ha tenuto a chiarire, e non dell’asta delle frequenze, nervo scoperto di Silvio Berlusconi nonché motivo di frizione fortissima con la decisione ribadita ieri da Monti di andare avanti su questa strada.
Dunque, un bilancio positivo ma non esaustivo per il Pd che chiede più coraggio e interventi immediati, perché «c’è un Paese che soffre molto, che ha sulle spalle un’eredità pesantissima» e considera quello di ieri solo l’inizio di un confronto destinato ad andare avanti nelle prossime settimane. A partire dalla riforma del Lavoro che, su questo i leader di Pd, Pdl e Terzo Polo sono in sintonia, «dovrà essere migliorata in Parlamento» non solo su alcune parti sostanziali, ma anche per alcune «sbavature tecniche»: fermo l’impegno di Alfano, Bersani e Casini a rispettare l’impianto generale della riforma e i tempi di approvazione. Ferma la richiesta del premier ai partiti a condividere pubblicamente l'impegno a proseguire sulla strada tracciata dai tecnici e ad attuare la riforma della «governance», attraverso una nuova legge elettorale, la riduzione dei parlamentari, e un diverso meccanismo di finanziamento.

Corriere della Sera 19.4.12
Camusso: Fornero dalle tute blu? È una sfida, non vada all'Alenia
«Dopo il sì di Cisl, pronti allo sciopero generale unitario»
di Antonella Baccaro


ROMA — Tutto è pronto per la mobilitazione unitaria dei sindacati che sfocerà nello sciopero generale della seconda metà di maggio. Il segretario della Cgil, Susanna Camusso, riceverà oggi il mandato del direttivo per avviare una piattaforma comune con Cisl, che ieri ha avviato le proprie iniziative, e Uil. Parole d'ordine: lavoro, crescita e fisco. Non convince la «fase due» espressa dal governo che, secondo il leader del maggior sindacato, non sembra essere vicino ai bisogni degli italiani.
Ma come segretario? Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, sarà il primo esponente del governo a andare a spiegare una riforma del lavoro in fabbrica, lunedì, all'Alenia di Torino: non le sembra la ricerca di un dialogo?
«No, penso che sia una scelta molto discutibile. Veramente molto discutibile».
Non dovrebbe andarci?
«Ritengo che ognuno abbia i suoi ruoli che bisogna mantenere e rispettare. Io ci vedo della supponenza in questo gesto, una sorta di "vengo io che così gliela spiego la riforma, perché voi non sapete fare il vostro mestiere". Mi pare la sua una logica di sfida».
Il premier Mario Monti nella premessa al Documento economico finanziario scrive che «il disagio occupazionale tocca direttamente o indirettamente quasi la metà delle famiglie italiane».
«E' impossibile non sapere che in ogni famiglia c'è disagio. Il risparmio sta diminuendo, i consumi pure, la povertà è in crescita, cala la fiducia, c'è disperazione. Poi però non basta dire: "Capisco". In concreto che si fa?».
C'è un'«Agenda per la crescita sostenibile» presentata dal ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera. E' la «fase due»...
«Non riesco a avere la percezione di un cambio di passo. Si è rinviato troppo: la fase della crescita sarebbe dovuta andare insieme con quella del rigore e della crescita. Perché il rigore da solo ha effetto recessivo/repressivo e produce la richiesta di altro rigore».
Lei si aspettava un'«ideona» per la crescita?
«Dico solo che non si può continuare a pensare che le riforme strutturali siano quelle che metteranno in moto lo sviluppo. La crescita si misura sull'aumento dei posti di lavoro e qui invece, lungi dall'invertire l'attuale tendenza, non la si è nemmeno arrestata».
C'è aria di sciopero generale, segretario?
«C'è un'interlocuzione interessante con Cisl e Uil sulle emergenze fisco e lavoro, un interesse comune alla mobilitazione. Pensiamo che bisogna costruire una nostra idea: una piattaforma comune».
Avete fissato una data per lo sciopero generale?
«Non abbiamo ancora fatto un ragionamento unitariamente, dovevo incontrare il segretario della Cisl, Bonanni, martedì. Ma una cosa è certa: non lasceremo scoperto il percorso parlamentare della riforma del lavoro».
Teme ancora imboscate sull'articolo 18?
«C'è stata un'attenzione eccessiva sull'articolo 18 e intanto sulla precarietà il governo non ha mantenuto le promesse. Così come siamo preoccupati di un intervento sugli ammortizzatori sociali che, oltre a non essere universale, dà troppo per scontata la diminuzione della mobilità».
Governo e maggioranza sembrano aver trovato un accordo sulle modifiche alla flessibilità in entrata.
«Molte delle modifiche che sento prospettare non sono accettabili. Se mi si dice, ad esempio, che si ha bisogno di un po' più di tempo per applicare le nuove norme sulle partite Iva, okay. Ma se alla fine salta tutto, qual è la riduzione della precarietà di cui tanto si parla?».
E' delusa da questo governo?
«Questo è un governo che si definisce tecnico, ma nel senso che è portatore di quella politica europea che investe tutto sulle riforme e niente sul lavoro e sull'equità. Poi però tutto questo si misura con il fatto che il Parlamento è quello precedente e la politica pure».
Una politica che è in crisi di consenso presso l'opinione pubblica. Che ne pensa di movimenti come quelli di Grillo?
«Penso che c'è la possibilità che qualcuno raccolga i frutti di un'antipolitica che ha tratti autoritari e antidemocratici e che bisogna contrastare, anche se nasce da dati oggettivi. Ci vuole una riforma molto seria».
Di che tipo?
«Meno finanziamenti ai partiti, niente nomine politiche nella sanità, basta con i presidenti di Regione nominati commissari straordinari. Sì alla riduzione dei parlamentari. Insomma la politica deve fare la propria parte».
Sinceramente, non avverte un distacco anche nei confronti dei sindacati?
«Difendo un'idea di funzione dei sindacati diversa rispetto a quella dei partiti politici, non vorrei confondere i due terreni. Poi c'è un tema, quello della rappresentanza: il nostro problema è legato alla capacità di trasformarci rispetto al tessuto produttivo. E' la ragione per cui insisto sui temi della precarietà, cui bisogna dare risposte e rappresentanza».
In Confindustria la successione a Emma Marcegaglia sta dando luogo a uno scontro interno durissimo. Che ne pensa?
«Siamo rispettosi delle questioni altrui come vorremmo che gli altri lo fossero delle nostre. Credo che siamo alla fine di una lunga stagione segnata dall'idea di un modello contrattuale separato, funzionale all'idea che la compressione dei diritti salvi il sistema. Un'idea che evidentemente non funziona».

il Fatto 19.4.12
Ai dalemiani il prof non piace più
La bordata dalle pagine di Italianieuropei
D’Alema boccia Supermario, da gigante a studente
di Fabrizio d’Esposito


Il crudele disincanto per il loden di Monti adesso lambisce anche le sponde dalemiane, simboleggiate dalla rivista “Italianieuropei”. L’ultimo numero suona infatti come una bocciatura senza appello del Professore bocconiano.

LA BORDATA Dalle pagine di Il crudele disincanto per il loden verde di Mario Monti adesso lambisce anche le sponde dalemiane, simboleggiate da quella camera di compensazione bipartisan incline all’inciucio che è Italianieuropei. L’ultimo numero della rivista pubblicata dalla Fondazione di Massimo D’Alema e Giuliano Amato, dedicato alla “politica in Purgatorio”, suona infatti come una bocciatura senza appello del Professore bocconiano chiamato dal capo dello Stato dopo le dimissioni del Cavaliere da premier. Toni completamente opposti a quelli del novembre scorso, quando Monti, per lo stesso D’Alema, era “una grande occasione per il Paese” e soprattutto serviva a scongiurare lo spettro delle elezioni anticipate sotto sotto sognate dal segretario del Pd Pier Luigi Bersani.
Si comincia proprio con l’ex Generale Massimo. Il suo editoriale ha un titolo solenne, da grandi occasioni: “A cosa serve la politica”. Il punto interrogativo alla fine non c’è. La lezione dalemiana è assertiva, senza tentennamenti. La contrapposizione è con la tecnocrazia e Monti viene ridotto a una parentesi della Storia dopo che per mesi, all’interno del Pd, ci si è baloccati con il gioco della Grande Coalizione permanente, da qui all’eternità passando per il 2013. Stavolta D’Alema si distanzia dai grancoalizionisti dichiarati come Enrico Letta e Walter Veltroni e si riscopre persino comunista, come lo ha sfottuto qualche giorno fa sul “Fatto” il suo vecchio amico Fabrizio Rondolino. Un ritorno alle origini impreziosito da una mazzata sarcastica al Professore: “Allo stesso modo la forza e il ruolo esercitati in Cina in forme autoritarie dal Partito comunista sono, sia pure in una economia capitalistica di mercato, indiscutibili. Persino il professor Monti, che nel nostro Paese giganteggia e talora sempre compiacersene rispetto ai partiti, sembrava uno studente emozionato alla Scuola dei quadri del Partito comunista cinese”. Da gigante, Monti viene retrocesso a studente emozionato. Uno scatto di cattivismo dalemiano che si sublima nel rilancio del primato dei partiti contro i tecnici. Non siamo al “fascismo bianco” denunciato da Giulio Tremonti ma i punti di contatti con l’ex ministro colbertista sono tanti: “Se il compito dei governi consiste nell’eseguire i ‘compiti a casa’ che i mercati finanziari, in sostanza, assegnano loro allora non serve che siano organismi politici, basta, appunto, un governo tecnico. La politica ha senso solo quando esiste un margine ragionevole di libertà tra le scelte possibili, scelte che devono sempre avere come obiettivo il conseguimento del bene comune. Altrimenti diventa irrivelante e priva di significato”.
Più avanti, D’Alema riscopre anche i “progressisti”, declinandoli in chiave neosocialista. È il recente Manifesto di Parigi tra Bersani, Hollande e Gabriel che vuole dare una svolta all’Ue anti-Merkozy. E Gianni Cuperlo, dalemiano doc, in un altro articolo (affiancato da una pagina di pubblicità della famigerata Finmeccanica), spara così sul quartier generale della Bce: “Oggi per fortuna non siamo davanti a una guerra. Ma fa impressione l’impudenza di una cosiddetta ‘austerità fiscale ed espansiva’ come presupposto per ottenere aiuti d’emergenza in un quadro di recessione”. Insomma, D’Alema e i dalemiani si preparano a un mutamento epocale: la fine del compromesso tra democrazia e capitalismo industriale, che Nadia Urbinati riassume con toni neomarxisti di lotta di classe: “I partiti politici sono diventati accumulatori di potere invece che luoghi di mediazione per la gestione del potere e la distribuzione delle risorse. La casta non è la ragione della crisi ma semmai la conseguenza. La combinazione tra democrazia e capitalismo è interrotta, il compromesso è sospeso e le classi sono tornate a prendere nelle loro mani le decisioni”. È il dalemismo che veleggia in modo epocale verso la Terza Repubblica e fa a pezzi a Monti anche sotto il profilo della comunicazione. Titolo: “La politica senza contenuti”. Scrive Giovanna Cosenza, esperta di semiotica: “Monti usa un lessico alto, che include espressioni tecniche e anglicismi che non sempre spiega: per una certa élite intellettuale ciò che lui dice è chiaro, ma per gli altri? Inoltre la sua celebre ironia ha un’efficacia elitaria: funziona con i giornalisti italiani e stranieri (ridono, annotano), funziona con gli interlocutori politici internazionali che lui riesce a rassicurare, ma è raggelante per la parte meno abbiente e colta degli italiani che o non la capisce o la considera una presa in giro che non tiene conto dei loro problemi e sacrifici”. Non solo studente, ma anche raggelante.
Un’archiviazione anzitempo del Professore che però deve fare i conti con il futuro. Secondo Stefano Fassina, responsabile Economia e Lavoro del Pd, è questione innanzitutto speculativa. La transizione Monti ha due diverse prospettive: “Una filosofia deterministica e una filosofia aperta”. La prima porta alla tecnocrazia. La seconda al bipolarismo. La notizia è che D’Alema è passato dalla prima alla seconda. Contro Monti.

Corriere della Sera 19.4.12
«Fondazioni, una svolta per garantire trasparenza»
di Andrea Peruzy, Segretario generale Fondazione Italianieuropei


Caro direttore,
la Fondazione Italianieuropei svolge le proprie attività dal 1997 e non è mai stata, non è e non sarà mai, l'ufficio attraverso cui leader politici svolgono la propria attività politica. Non è una struttura né dipendente né parallela al partito. Non usufruisce di finanziamenti pubblici. Con serietà e capacità continuiamo a produrre cultura e proposte di policy. Abbiamo una rivista mensile, un sito che registra oltre 30.000 contatti al mese, una media di trenta iniziative all'anno fra appuntamenti pubblici e seminari. Siamo parte di un network di fondazioni di cultura politica di area progressista europea e lavoriamo con i maggiori think tank in Europa, Nord America, Sud America, India, Cina. Siamo stati la prima fondazione di cultura politica finanziariamente ed editorialmente indipendente. Abbiamo scelto, in un contesto che certamente non facilitava l'applicazione di questo modello, di ispirarci alla tradizione dei think tank anglosassoni, ossia di confrontarci con il mercato, di non prendere soldi dallo Stato, finanziandoci invece con la raccolta pubblicitaria, la sponsorizzazione delle iniziative e i proventi della distribuzione della rivista e delle nostre pubblicazioni. Tutti questi contributi sono regolarmente riportati in bilancio secondo le modalità previste dalla legge. Le fondazioni legalmente riconosciute — come Italianieuropei con decreto del ministero per i Beni e le attività culturali del 26/6/2000 — devono iscriversi nel registro delle persone giuridiche istituito presso le Prefetture ove devono depositare lo statuto e l'atto costitutivo e, successivamente, le eventuali modifiche apportate. La nostra controllata Solaris srl è invece tenuta alla iscrizione dei bilanci annuali nel registro delle imprese. Nei prossimi giorni approveremo il bilancio 2011, che sarà reso pubblico in base alle procedure previste dalla legge. Oggi si grida all'opacità di questo sistema. Oggi come allora siamo convinti di aver lavorato nella massima trasparenza. Per questo siamo i primi a chiedere che venga fatta chiarezza in questo settore intervenendo sul modello delle fondazioni. È giusto ed è anche nostro interesse. Sarebbe un vantaggio per le fondazioni vere, che funzionano, ma anche per gli stessi investitori privati che potrebbero essere smarriti di fronte al proliferare di questi centri. Abbiamo anche delle proposte al riguardo: regolare le modalità di finanziamento attraverso concreti sistemi di incentivazione fiscale per i donatori, istituire codici di autoregolamentazione, comitati etici e sistemi di trasparenza e controllo oltre quelli già previsti dalla legge.
Andrea Peruzy
Segretario generale Fondazione Italianieuropei

Corriere della Sera 19.4.12
Monti
Lunga conversazione con Bertone e vari ministri
Premier in Vaticano, vede il Papa. Apprezzata la gestione della crisi
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — Prima un incontro «privato» e «strettamente personale», il quarto in cinque mesi: Mario Monti è andato ieri pomeriggio nell'appartamento del Palazzo Apostolico per fare gli auguri a Benedetto XVI, che lunedì ha festeggiato gli 85 anni, oggi ne compie sette di pontificato e, deciso a «procedere con sicurezza», ancora nell'udienza del mattino ha chiesto ai fedeli di pregare perché «possa perseverare nel mio servizio a Cristo e alla Chiesa». Quindi il ricevimento alla nunziatura della Santa Sede in Italia, con le due delegazioni al gran completo: il cardinale Tarcisio Bertone assieme ai vertici della Segreteria di Stato vaticana e il presidente del Consiglio con buona parte del governo italiano.
Di per sé un appuntamento tradizionale, ad ogni «compleanno» del pontificato. Meno scontati, anche se in linea con gli incontri precedenti, sono stati i quaranta minuti di colloquio «molto cordiale» tra i due governi. Il Segretario di Stato e il premier, seduti su un divanetto, hanno avuto anche l'occasione di conversare a quattr'occhi. E da entrambe le delegazioni trapelano la «sintonia», i «buoni rapporti», soprattutto l'«apprezzamento» della Santa Sede per gli sforzi del governo nell'affrontare la crisi e la «messa in sicurezza» dei conti pubblici. Certo c'è preoccupazione e lo stesso Benedetto XVI, nel Venerdì Santo, durante la Via Crucis al Colosseo, aveva parlato dei disagi e della sofferenza delle famiglie «aggravata dalla precarietà del lavoro e dalle altre conseguenze negative provocate dalla crisi economica». Del resto non si tratta solo dell'Italia. Ed è significativo che i colloqui di ieri sera abbiano toccato vari temi, dal Medio Oriente al viaggio di Monti in Cina, ma si siano soffermati sull'Europa. Le preoccupazioni per la tenuta non solo economica del Vecchio Continente si affiancano a quelle ripetute a Pasqua dal Pontefice, soprattutto per l'Europa e l'Occidente: «Il buio su Dio e il buio sui valori sono la vera minaccia per la nostra esistenza e per il mondo in generale». Benedetto XVI segue con attenzione l'attualità. Il cardinale Bertone, in un'intervista al direttore del Gr Rai Antonio Preziosi in onda stamattina, ha bollato l'«immagine fuorviante e falsificante» di chi dipinge «come un carroarmato» un uomo «così vicino, così dolce», e insieme ha smentito lo stereotipo del Papa «concentrato solo sui libri, un uomo non di governo ma isolato». No, «Benedetto XVI non è un uomo isolato», scandisce Bertone: «Con vero carisma di governo guida la Chiesa e affronta i problemi della Chiesa e dell'umanità».
Alla «lunga conversazione» di ieri, oltre al nuovo nunzio Adriano Bernardini, hanno partecipato i vice di Bertone, gli arcivescovi Angelo Becciu e Dominique Mamberti, e del governo italiano, tra gli altri, Corrado Passera, Antonio Catricalà, Elsa Fornero, Paola Severino e Andrea Riccardi. Non c'era il presidente Angelo Bagnasco ma la Cei era rappresentata dal segretario Mariano Crociata.

il Fatto 19.4.12
Un papa al tramonto
Ratzinger verso il crepuscolo
di Marco Politi


In un’atmosfera crepuscolare Benedetto XVI entra oggi nell’ottavo anno del suo pontificato. “Così come sto dinanzi a voi – ha detto lunedì al governatore di Baviera Seehofer e ai vescovi bavaresi, che ne festeggiavano l’85esimo compleanno – dovrò un giorno presentarmi al Signore”. La messa celebrata dal pontefice nella cappella Paolina, parole testuali di Seehofer, ha fatto venire la “pelle d’oca”. Il Papa è tornato sull’argomento. “Sto davanti all’ultimo tratto della mia vita – ha esclamato – e non so che cosa mi è destinato”.
C’è il Ratzinger profondo in queste parole. Uomo di fede, ma consapevole di aver accettato il pontificato per senso del dovere, spinto da altri e non per propria ambizione. Durante la preghiera alla Via Crucis al Colosseo il suo viso assorto e scavato ricordava quelle teste di imperatori romani del Tardo Impero: sguardo severo e disincantato.
A ottantacinque anni Ratzinger è il pontefice più vecchio dell’ultimo secolo. Sa benissimo che si è aperta una fase estremamente incerta. In Vaticano l’attenzione oscilla. C’è chi punta a un cambio della guardia al vertice della Curia per superare il malessere sotterraneo esploso con i Vaticanleaks, la pubblicazione di documenti compromettenti fortemente critici nei confronti del Segretario di Stato Bertone.
I GRADUALISTI puntano perciò a una sostituzione di Bertone nell’autunno prossimo, quando il cardinale compirà 78 anni. L’ala realista, invece, sostiene che Benedetto XVI, diventato sempre più esitante con l’avanzare degli anni, non si priverà del suo braccio destro salesiano. Così sono partite le prime caute manovre in vista del conclave.
Tra le finalità del documento segreto sulla “morte del Papa” rivelato dal Fatto (e consegnato – non si dimentichi – nelle stesse mani di Ratzinger) c’era anche la denuncia della campagna sotterranea in corso per arrivare a un “pontefice italiano”. Con tanto di nome e cognome per danneggiarlo, secondo l’uso curiale: Angelo Scola, attuale arcivescovo di Milano.
Ma tra i cardinali del mondo molti non accettano l’idea di un conclave precotto. Rifiutano che venga interrotto il processo di internazionalizzazione del papato. Candidato di tutto rispetto è il cardinale Marc Ouellet, canadese, già arcivescovo di Quebec e ora a capo dell’influente Congregazione dei Vescovi. Ratzinger lo ha appena nominato suo rappresentante al congresso eucaristico internazionale, che si terrà in giugno in Irlanda. Altri nomi cominciano a circolare. Per l’America del Sud torna ciclicamente quello del dinamico e aperto cardinale honduregno Oscar Maradiaga. Ma non è detto che l’America latina non possa produrre altri candidati.
La novità è rappresentata dall’emergere di due porporati statunitensi: Timothy Dolan, arcivescovo di New York e presidente della conferenza episcopale degli Usa, e Donald Wuerl di Washington. Una novità, perchè sino all’ultimo conclave del 2005, è sempre stato dato per scontato che un pontefice non possa provenire da un paese che sia potenza mondiale. È vero peraltro che il XXI secolo, etichettato dagli ideologhi dell’Amministrazione Bush come “secolo americano”, ha rivelato che gli Stati Uniti non sono in grado di dettare il loro volere al mondo, pur restando sulla scena internazionale il protagonista più potente.
GUARDANDO al futuro della Chiesa, il problema non sta tuttavia nei nomi, ma nella piattaforma dei candidati. Chi è disposto a fare riforme? E quali? Tra Natale e Pasqua Benedetto XVI è tornato due volte sul tema di una Chiesa da riformare. Ponendo un punto interrogativo, beninteso. Il Giovedì Santo si è riferito all’“Iniziativa dei parroci” austriaci, che promettono una sorta di disubbidienza civile rispetto ai temi del celibato e delle ordinazioni femminili. Ma, com’è ormai prassi di questo pontificato, Ratzinger non ha fornito risposte concrete.
Nato come pontificato di transizione, il regno di Benedetto XVI si è trasformato in stagnazione. È un “papa della parola”, sostiene il suo segretario particolare mons. Gaenswein, ed è vero. Il meglio sta nel suo ruolo di teologo, pensatore e predicatore. Ma intanto il peso della Santa Sede sulla scena mondiale è calato drasticamente e nel mondo dei media internazionali l’attenzione riservata al papato si è rarefatta. I rapporti ecumenici sono cortesi, ma bloccati. I rapporti con l’islam e l’ebraismo sono cortesi, ma inoperanti. La mancanza dei preti nelle parrocchie e il calo degli ordini religiosi femminili (che in sei anni hanno perso cinquantamila unità) sono temi rimossi. Sulla folle idea del governo israeliano di lanciare un attacco all’Iran, il Vaticano tace. Sfidando la sua fragilità (i problemi di cuore, l’artrosi, i mancamenti che sembrano affliggerlo) Benedetto XVI ha ripreso a fare i viaggi intercontinentali, che pareva avere archiviato dopo l’Australia nel 2008. Benin, Messico, Cuba, Libano nel prossimo settembre e forse Brasile nel 2013. Quasi a preparare con tali exploit una sua uscita di scena, quando le forze dovessero abbandonarlo.

Corriere della Sera 19.4.12
Il prete figlio del boss in carcere e la prima omelia contro i giudici
La difesa del padre condannato: «Giustizia meschina e gretta»
di Goffredo Buccini


ISOLA CAPO RIZZUTO (Crotone) — Ha parlato da figlio «e non da prete», giura adesso con la voce mansueta, quella voce da bravo ragazzo molto amato in paese. Che quasi non sembra la stessa voce con cui, alla fine dell'omelia di domenica scorsa, ha tuonato contro la giustizia terrena dal pulpito del duomo di Isola Capo Rizzuto, sedicimila anime nel Crotonese. Il papà, Romolo Scerbo, sta dentro da tre anni per estorsione «aggravata da metodi mafiosi» (condanna a cinque anni e mezzo, confermata in secondo grado). E lui, don Vincenzo, ordinato sacerdote ventiquattr'ore prima, proprio non ce l'ha fatta a contenersi.
Vuoi l'emozione, vuoi la nostalgia, vuoi magari un certo codice genetico pur sempre ereditato da una famiglia che i rapporti di polizia accostano alla cosca egemone degli Arena, s'è lanciato in una filippica appassionata davanti ai concittadini, al suo parroco, al sindaco con tanto di fascia tricolore. «Una parte del mio cuore viaggia lontano da questo luogo, attraversa i muri e le sbarre del carcere di Siano per accostarsi al cuore di mio padre!», ha ammonito. E non ha avuto remore, il giovane pretino, nel trascinare pure l'Altissimo in questa curiosa forma di privatizzazione delle sacre liturgie a vantaggio di faccende molto personali: «Elevo gravida di dolore la mia preghiera a Dio perché la sua giustizia intervenga là dove la giustizia di questo mondo ha mostrato tutta la sua meschinità e la sua grettezza, guidata da logiche di parte e verità di comodo». «Uno sfogo», dice, adesso ricondotto all'ovile, il buon don Vincenzo, senza però arretrare d'un millimetro dalla sua fedeltà filiale: «Non è questione di stabilire se ridirei o no quello che ho detto. Il punto è che mio padre è innocente, stop. Tutti piangevano per lui in chiesa mentre parlavo, altro che scandalo, altro che sconcerto. Qui tutti ci conosciamo, tutti sanno che lui è pulito».
Già. Il contesto dove tutti sanno. Quello non è mai indifferente, per capire. Il nonno di don Vincenzo, pure lui Vincenzo, sorvegliato speciale e accusato di associazione per delinquere, fu ammazzato il 26 aprile '91, mentre badava alla guardiania del villaggio turistico Tucano. Posticino ambito il villaggio turistico. L'operazione Tucano e il blitz contro gli Arena del giugno 2009 prende le mosse da lì. Anche gli ultimi guai di papà Romolo (e dei suoi fratelli implicati nella stessa indagine) vengono da lì, dalla protezione vera o presunta imposta sul comprensorio col placet dei capimafia. Conta il contesto, e tutti — davvero — sanno. Qui, a Isola Capo Rizzuto, le intimidazioni contro gli amministratori pubblici sono abituali e non molto dissimili da quelle che hanno portato sulle prime pagine dei giornali Maria Carmela Lanzetta, tostissima sindaca di Monasterace. Anche qui il municipio è rosa e di centrosinistra e anche qui la sindaca, Carolina Girasole, tiene duro: «Beh, pochi mesi fa hanno bruciato il portone del comune, mi arrivano regolarmente minacce di morte per posta, ci sono cose più gravi di quelle parole in duomo, ogni giorno, e nessuno se ne occupa».
La banalità della mafia, certo, che smette diabolicamente di fare notizia. Ma un'invocazione come quella di don Vincenzo è sopportabile? «Il ragazzo ha 26 anni, ha fatto un percorso da una famiglia difficile. Ha capito. L'ho conosciuto che raccoglieva fondi per i poveri in Brasile. Io non ho voluto intervenire, domenica ero spettatrice: è una faccenda interna alla Chiesa», conclude la sindaca. E forse ha torto, sul punto: perché se è vero che il parroco, don Edoardo, ha subito tirato le orecchie al suo pretino, è altrettanto chiaro che è difficile contenere entro le mura del duomo o della parrocchia di Maria Assunta una questione che interpella tutti.
Don Vincenzo, forse per riflesso condizionato, prende a calci l'impegno antimafia di una Chiesa che, dai tempi della «Sagunto espugnata» nella Palermo del cardinale Pappalardo e arrivando fino al cardinale Sepe con la «scomunica» dei camorristi napoletani, ha sempre saputo quanto per picciotti e coppole storte le parole dei ministri di Dio siano importanti e temibili, specie se pronunciate da un pulpito.
Sicché, espugnando quel pulpito, diventa una specie di involontario eroe eponimo di un'Italia dove ciascuno arraffa ciò che di pubblico ha a portata di mano, piegandolo a uso personale. Banfield descriveva il familismo amorale nella Lucania degli anni Cinquanta, il nostro tenero pretino lo aggiorna in salsa noir. «Mio nonno è stato ucciso ventuno anni fa, non hanno mai preso gli assassini. Le pare che io possa stare con la 'ndrangheta?», protesta adesso, senza perdere un decibel di dolcezza dalla voce. Nessuno lo sostiene, certo. Ma troppi hanno tradotto il suo appello in un anatema «contro i giudici meschini». E non è un bell'affare. «Senta, ero appena diventato sacerdote, era il giorno più gioioso della mia vita, come un matrimonio per voi, e mio padre non era accanto a me. Può capirmi?». Stando alle accuse, quando il nonno venne ammazzato, papà Romolo e gli zii si presentarono al Tucano dicendo più o meno: «Abbiamo perso nostro padre qui dentro, ormai ci siamo noi, ci tocca». Il piccolo don Vincenzo aveva cinque anni e un futuro già pieno di passato.

l’Unità 19.4.12
Intervista a Dario Franceschini
«Le sfide sono globali. Serve una casa comune dei progressisti»
Il capogruppo Pd presenta il convegno che si apre oggi a Montecitorio
«A partire dall’Europa democratici e socialisti possono costruire un’alternativa»
di Umberto De Giovannangeli


Ogni grande problema è globale: dalla finanza all’economia, dall’ambiente ai flussi migratori, dalle infrastrutture alla lotta al terrorismo. E a problemi globali di questa portata non è possibile, è anacronistico e perdente pensare di poter dare risposte chiuse entro gli angusti confini dello Stato-nazione. Da qui la volontà di dar vita, a partire dall’appuntamento di Roma, a un network mondiale che tenga insieme forze di ispirazione socialista e socialdemocratica europee e forze progressiste di Paesi cruciali per una governance mondiale, come gli Stati Uniti, il Brasile, il Giappone, l’India». A parlare è Dario Franceschini, capogruppo del Partito democratico alla Camera, tra i promotori del II Meeting internazionale dei parlamentari progressisti.
Qual è il senso politico del Meeting che si apre oggi a Roma su iniziativa del Partito democratico e del Gruppo alla Camera?
«Il senso di una sfida sovranazionale, globale, a problemi che non posso più essere affrontati e portati a soluzione dai singoli Stati. È una consapevolezza che era emersa già nel primo Meeting. È sempre più evidente che la globalizzazione ha fatto scomparire frontiere. E tutti i grandi temi, le emergenze che segnano il presente e ipotecano il futuro non possono essere affrontati dentro i confini dei singoli Stati. Ogni tema è globale, che sia la finanza, l’economia, l’ambiente, i flussi migratori, ma anche le infrastrutture o la lotta al terrorismo. Ogni grande questione dei nostri giorni deve essere affrontata in una logica sovranazionale. Nessuno, neanche lo Stato più potente, può oggi pensare di reggere sfide che sono globali. Da qui, è nata l’idea di costruire un network dei parlamentari progressisti che con periodicità si confrontino su questi temi. In questa ottica, i due giorni di Roma resi possibili dallo straordinario lavoro compiuto da Lapo Pistelli, Giacomo Filibeck e da quanti compongono il Dipartimento esteri del Pd intendono rappresentare l’atto fondativo di questo network. Si tratta di un investimento sul futuro ma anche una scelta per molti versi obbligata». Da cosa nasce questa considerazione?
«I problemi globali, come quelli a cui ho fatto riferimento in precedenza, hanno già imposto a governi e Stati nazionali di cercare luoghi sovranazionali, istituzioni, organismi, a cui cedere sovranità. Ma da che mondo è mondo, ogni decisione è proceduta da una riflessione politica. E quindi l’idea di avere luogo, un network che tenga insieme, in contatto parlamentari di forze socialiste e socialdemocratiche e quelli di altre forze progressiste, è un passo importantissimo in questa direzione».
La partecipazione internazionale è ricchissima e autorevole non solo per i Paesi rappresentati e per l’autorevolezza degli intervenuti, ma anche perché dà conto di uno schieramento che va oltre le singole famiglie politiche.
«Il Meeting e il network che s’intende realizzare, non contrasta con il Pse o con l’Internazionale socialista, tant’è che buona parte dei partecipanti sono dirigenti di partiti socialisti, socialdemocratici, laburisti. In questo luogo politico, in questo network in formazione, ci saranno forze che appartengono alla tradizione socialista e forze che sono saldamente collocate nel campo progressista ma che non hanno una tradizione socialista: penso, ad esempio, ai Democratici americani, a quelli giapponesi, al Pt brasiliano, al Dpj giapponese, alla Lega nazionale per la democrazia di Birmania, alle forze protagoniste delle Primavere arabe. Questa è la risposta più efficace al tema su cui è aperto da tempo un dibattito nel Pd e che ha avuto un primo sviluppo positivo, quando ero segretario, con la nascita, all’Europarlamento, del gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici. Costruire un luogo, una casa comune, in cui trovino collocazione sia le forze di ispirazione socialista che quelle progressiste: è questo l’impegno che ci siamo assunti. E che intendiamo portare a compimento».
Un impegno che passa per Roma e per il II Meeting internazionale dei parlamentari progressisti.

l’Unità 19.4.12
Leader da quattro continenti
al Meeting internazionale di Roma
Da tutto il mondo per rilanciare un punto di vista socialista e progressista sulle grandi sfide dei giorni nostri. È il II Meeting internazionale dei parlamentari progressisti che si apre oggi a Roma su iniziativa del Pd.
di U.D.G.


Uno sguardo progressista sul mondo. Tradizioni diverse, unite nella sfida per una governance mondiale capace di proporre un’alternativa praticabile al neoliberismo, sia nella sua versione populista che in quella tecnocratica. È l’ambizioso orizzonte in cui si muove il II Meeting internazionale dei parlamentari progressisti, che si svolgerà oggi e domani presso la Sala della Regina, promosso dal Partito democratico e dal Gruppo alla Camera.
«Quello che manca dice a l’Unità Lapo Pistelli, responsabile delle relazioni internazionali del Pd che coordinerà la due giorni e che il meeting intende attivare è una sorta di “G20 dei progressisti”, ovvero i principali Paesi europei, protagonisti della sconfitta o del rilancio dell’Europa, e i principali attori ormai emersi degli altri Continenti. Tutti insieme a scambiarsi idee, esperienze per arrivare alle scadenze politiche e multilaterali che l’agenda ci offrono nei prossimi tempi». Il meeting vedrà la partecipazione, tra gli altri di Elisabeth Guigou, l’ex ministra delle Finanze francese, Jim Rosapepe, senatore dello Stato del Maryland, Emma Reynolds, ministra ombra per l’Europa dei Laburisti inglesi, Mustapha Ben Jaafar, presidente dell’Assemblea costituente tunisina, Hannes Swoboda, capogruppo socialdemocratico al Parlamento europeo. La prima giornata sarà conclusa dal segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. «È di tutta evidenza annota ancora Pistelli che viviamo in un tempo in cui alcuni poteri sono già globali, si muovono rapidi, non rispondendo a nessuno se non a sé stessi: l’economia, l’informazione, la tecnica.La politica che parla tanto di leadership, cioè di guida, in realtà “ananspa”». «Nonostante questo stato di cose prosegue il responsabile delle relazioni internazionali del Pd anche la politica vive cicli che si condizionano a vicenda: negli anni ‘80 furono Reagan e la Thatcher; negli anni ‘90, Clinton, Blair e la Terza via e poi il decennio di Bush e dei suoi epigoni europei. Oggi sottolinea Pistelli si apre una opportunità con un potenziale secondo mandato di Obama, il mondo arabo che si batte per la democrazia, e i protagonisti europei che mandano i primi segnali di riscossa, come testimonia la “battaglia dell’Eliseo” condotta da Francois Hollande con grande efficacia e, stando agli ultimi sondaggi, con buone possibilità di successo». Il dibattito -nel quale interverranno esponenti dei partiti riformisti di Francia, Spagna, Grecia, Svezia, Romania, Egitto, Tunisia, Panama, Irlanda, Inghilterra, Germania, Portogallo, Marocco, Brasile, Uruguay, Usa, Canada, Australia, Giappone, Sud Africa, Birmania sarà articolato in cinque sessioni tematiche: «Le risposte progressiste alla governance dell’economia»; «Le proposte per lo sviluppo sociale sostenibile»; «La necessità di un Movimento progressista Globale»; «I progressisti e la questione della libertà: Primavera Araba e oltre»; «L’importanza di un network tra i gruppi parlamentari progressisti».

l’Unità 19.4.12
Giulio Anselmi presidente Fieg: i partiti utilizzino per le testate il loro finanziamento pubblico
Federazione della Stampa «Così muoiono senza ragione molte voci significative del Paese»
Gli editori: niente fondi per i giornali politici
Il sottosegretario all’Editoria Peluffo annuncia i nuovi criteri per il finanziamento pubblico. Plaude il presidente della Fieg, Anselmi che però vuole esclusi i quotidiani «politici» come l’Unità. La Fnsi: non vanno chiusi.
di Roberto Monteforte


È questione di giorni perché il governo presenti regole nuove e più rigorose per accedere al finanziamento pubblico. L’obiettivo è quello di moralizzare il settore e disboscarlo dai giornali e dalle redazioni finte. Ma il presidente della Fieg, Giulio Anselmi, vuole altro, i giornali politici «si cerchino altri canali più propri di finanziamento». Nei fatti vuole cancellarli, anche se sono giornali veri. Una presa di posizione inaccettabile per Federstampa.
Le intenzioni del governo le ha confermate ieri, a margine della sua audizione alla commissione Affari Costituzionali al Senato, il sottosegretario all’Editoria Paolo Peluffo. «Spero a giorni di portare in Consiglio dei ministri tutto l'insieme degli interventi sull'editoria», compresa ha affermato «una legge delega per creare un nuovo sistema con dei criteri molto selettivi nella scelta delle testate meritevoli di sostegno».
LA RICETTA PELUFFO
L’obiettivo dell’esecutivo è quello di mettere in campo «un intervento normativo che rende trasparente, semplifica e rende più facili i controlli» ha spiegato il sottosegretario. Il meccanismo sarà quello della «selettività industriale». «Il contributo sarà erogato sulla base delle copie effettivamente vendute». Perché «non si possono finanziare pubblicazioni che nessuno legge». Ha ancipato i criteri. Si prevederà «la tracciabilità delle vendite con l'informatizzazione delle edicole», quindi «una semplificazione e una riduzione delle tipologie di costi che vengono rimborsati, dando la prevalenza a quelli per giornalisti e poligrafici, ma anche all'online, oltre alla stampa e alla distribuzione».
È così che da una parte saranno più semplici ed efficaci i controlli e dall’altra le aziende potranno effettuare risparmi, «spendendo meno su costi che ora subiscono per poter usufruire del contributo». L’obiettivo del governo è chiaro. «Le poche risorse disponibili vanno usate bene e in modo trasparente» afferma Peluffo. Per questo «bisogna eliminare distorsioni e zone grigie conclude evitando l'uso improprio da parte di imprenditori che si organizzano con la sola finalità di prendere contributi». Entro due anni e mezzo i nuovi criteri dovranno essere operativi.
Gli editori plaudono all’avvio dell’operazione «trasparenza e rigore». Ma con un distinguo. La stampa di partito deve essere esclusa dal Fondo per l’Editoria. È stato più che chiaro, brutale, il presidente della Fieg e dell’Ansa, Giulio Anselmi ieri alla presentazione del Rapporto Fieg sulla Stampa in Italia 2009-2011. Ha snocciolato i dati della crisi del settore che, comunque vede oltre 22 milioni di persone leggere ogni giorno quotidiani, quasi 33 milioni i periodici, circa sei milioni gli utenti dei siti web dei quotidiani. Ha ribadito la critica «alla distribuzione indiscriminata delle risorse». Chiede di «indirizzare i contributi pubblici verso i giornali veri: per copie vendute e per numero di dipendenti con regolari contratti». Ma dovrebbero restare fuori quotidiani, come l’Unità, che malgrado le difficoltà rispondono proprio a questi criteri, solo perché politici. «Si cerchino altri canali più propri di finanziamento» taglia corto Ansemi riferendosi a quelli della politica. Il Fondo dell’editoria andrebbe utilizzato «per favorire la trasformazione tecnologica con una forte spinta all'innovazione». È così che si tutelerebbe il pluralismo. Comunque il sostegno dovrebbe essere «a termine».
LA RISPOSTA DELLA FNSI
Ad Anselmi risponde la Federazione nazionale della stampa. «Non si può liquidare il sistema dei contributi in essere, soprattutto con riferimento ai giornali politici, senza avere chiaro il quadro del sistema, la funzione e il lavoro dei giornalisti di questo genere di testate» risponde in una nota. «Tagliare i fondi ai giornali di partito, mentre ancora si deve discutere su come riqualificare e rendere più trasparente il finanziamento della politica continua la Fnsi farebbe morire senza ragione testate significative del dibattito pubblico e perdere alcune centinaia di posti di lavoro». E mette in guardia. «Il riordino deve essere di sistema. Non si deve precipitare nel calderone dell'indistinta antipolitica e l'informazione non può essere comunque l'agnello sacrificale».
La Fnsi ricorda l’ impegno per la trasparenza e la lotta agli abusi chiama in causa «ciascun editore, compresi i partiti, a fare la sua parte con chiarezza e responsabilità». Per il resto la Fnsi accetta e rilancia la sfida per lo sviluppo anche per l'informazione digitale, evitando che testate significative siano costrette a chiudere per mancanza di ossigeno e di garanzie per il pluralismo.

l’Unità 19.4.12
Il commento
Chi vuole colpire l’Unità


Il presidente della Fieg ha dichiarato ieri che i giornali di partito non hanno diritto ai contributi pubblici. Si tratta di affermazioni gravi, tanto più se pronunciate da chi, come Giulio Anselmi, ricopre un delicatissimo ruolo a tutela degli editori associati.
Dire semplicisticamente che i quotidiani che si riferiscono a un partito non hanno diritto ai contributi pubblici ha il suono della campana a morto. Ed è paradossale che l’Unità, da tempo impegnata in una difficile battaglia di risanamento dei conti, rischi di essere il bersaglio principale di questa campagna.
Come Anselmi dovrebbe sapere, proprio l’Unità da tempo è in prima linea per contribuire a una nuova ed efficace gestione dei contributi pubblici, proponendo tra i primi nuovi e più stringenti parametri per la loro erogazione. Copie effettivamente vendute, numero dei dipendenti a tempo indeterminato, innovazione tecnologica sono esattamente i criteri con i quali l’Unità chiede che vengano determinati i contributi. Per quanto la libertà di stampa sia un valore che va oltre le mere logiche di mercato, siamo sempre stati consapevoli che l’uso mal disciplinato delle risorse pubbliche vada combattuto.
Nel merito, quello che evidentemente sfugge al presidente della Fieg è che i giornali di idee, compresi quelli di partito, sono parte della libertà di un Paese: contribuiscono alla circolazione delle opinioni anche quando queste si scontrano con le logiche di mercato. Dovrebbe essere una preoccupazione anche di Anselmi: garantire il pluralismo oltre le attuali distorsioni del mercato che penalizzano i più deboli e assicurano i maggiori vantaggi ai più forti, anche sul piano dei sostegni pubblici. Purtroppo è più facile cavalcare il vento dell’antipolitica e dare sponda a chi sarebbe ben felice di veder morire un concorrente.

l’Unità 19.4.12
La campagna di fango contro la politica e l’Italia delle consorterie
Il rischio è di squalificare ogni alternativa, impedire ogni ricambio anche sociale Non c’è una cosa chiamata «partiti», ciascuno ha il suo nome e cognome
di Alfredo Reichlin


È necessario, perfino preliminare (se vogliamo essere ascoltati), riformare i meccanismi del finanziamento pubblico ai partiti, compreso il suo ammontare. Ma che questa sia la risposta alla gravità della crisi a me sembra cosa insufficiente e perfino fuorviante. E vorrei dirlo rivolgendomi ancora alle coscienze intellettuali e morali di questo Paese.
Le quali sanno bene perché è così devastante la crisi della democrazia europea e occidentale. Chi comanda a Bruxelles e con quali armi si combattono le elezioni americane?
Ma non voglio sfuggire. È dalla realtà italiana che dobbiamo partire. Dalla sua estrema gravità. Questa non è solo una crisi della struttura economica e del sistema politico, è l’insieme dell’organismo italiano che è investito da uno sbandamento che è anche morale.
La gente è smarrita e si chiede chi la dirige, e dove stiamo andando. Perciò io credo che il mare di fango che il sistema politico-mediatico sta gettando sui partiti non è un episodio tra i tanti della polemica politica. Esso investe (anche al di là delle intenzioni) l’esistenza stessa del Parlamento, la fiducia in esso. Cioè in quella che è la più grande invenzione della democrazia moderna: la rappresentanza di idee e interessi diversi nella convinzione che solo dal confronto tra “parti” diverse scaturisce l’interesse generale.
A che gioco si sta giocando oggi in Italia? I “partiti” non sono una “cosa”, una professione. Hanno un nome e un cognome. Io da giovane non mi sono iscritto ai “partiti” ma al Pci, cioè a quello che era l’avversario della Dc.
Oggi, vedo che cresce il numero di quelli che non si iscrivono a un partito (tutti in calo di militanti) ma a strutture molto più potenti, ramificate e oscure. Quelle che già Gramsci chiamava «l’Italia delle consorterie». Non confondiamole con i partiti.
Io qui sto parlando invece di un partito che ha un nome e un cognome: il Partito democratico. Quella forza politica che con tutti i suoi difetti (e anche con qualche “mela marcia”) ha, nel recente passato, governato l’Italia assieme a persone come Ciampi, Prodi, Andreatta, Veltroni, Napolitano, D’Alema, Bersani, Visco.
Perché non si dice che questi ministri sono stati tra i migliori e i più onesti della Repubblica?
L’attuale governo dei tecnici non mi fa dimenticare che quei governi hanno privatizzato le banche e l’industria di Stato, hanno riformato il commercio, hanno portato l’Italia nell’euro. Poi, quando la maggioranza degli italiani (non noi, ma una maggioranza creata anche dal semi-monopolio tv-giornali) ha mandato al governo Silvio Berlusconi, noi (ripeto: noi), non altri che oggi si stracciano le vesti, siamo stati all’opposizione.
Ma lasciamo stare la polemica. È la crisi anche morale dell’Italia il problema vero che suscita perfino angoscia.
Come ne vogliamo uscire? Con una riforma anche intellettuale e morale senza la quale l’Italia – non esagero – non sarà più quella cosa meravigliosa che è stata nei secoli, oppure con questo miserabile gioco secondo cui, essendo i partiti tutti uguali, basta mettere la merda nel ventilatore e così impedire ogni possibilità reale di ricambio anche sociale.
Niente soldi ai partiti? Che governino i miliardari, il popolo non avrà più nemmeno una tribuna parlamentare.
Il problema che mi assilla è questo. Quale strada vogliamo imboccare? Non è la sorte particolare del mio partito che è in cima ai miei pensieri. Guardo con tristezza a che punto siamo tutti arrivati. Di che partiti stiamo parlando?
Da dieci anni la Lega Nord non fa un congresso. Adesso si scandalizzano per i diamanti, il Trota, gli investimenti in Tanzania.
Ma quanti articoli abbiamo letto di illustri commentatori e professori di politologia, che esaltavano la Lega come finalmente il vero partito del Nord (non la pochezza della sinistra), un partito tanto popolare che il suo Capo andava alle sorgenti del Po per raccogliere le acque in una magica ampolla che poi veniva portata in processione fino a Venezia.
Questo partito del Nord (povero Nord) che radunava la sua gente con le corna in testa di non so quale razza pagana. E poi gli insulti ai meridionali e agli extracomunitari trattati come bestie.
Ecco i veri, profondi danni che l’Italia, a cominciare dal Nord, ha subito. E abbiamo anche visto che cos’era il “partito” di Berlusconi, nato dalle strutture aziendali della Fininvest. Quale esempio e quale ferita per gli italiani: quel disprezzo per le istituzioni, la Corte Costituzionale «comunista», il rifiuto della legge uguale, il privato (comprese le squallide orgette) confuse con il bene pubblico, l’indulgenza per la rivolta fiscale.
È impressionante il racconto che fa il faccendiere Lavitola ai magistrati: perfino i rapporti personali d’affari con capi di Stato stranieri. Ecco il problema grave e difficile che sta davanti non solo a noi ma alla parte migliore degli italiani. Il bisogno di dare un più alto messaggio etico-politico prima ancora che programmatico. Indicare una speranza, una prospettiva.
È vero che i vecchi partiti non torneranno più. Su questo ha ragione il professor Panebianco. Ma che risposta possiamo dare alle sfide che stanno svuotando i poteri della democrazia? Che tipo di società umana si sta formando? La domanda più importante è questa.
È vero che le vecchie distanze abissali di reddito tra i Paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo si vanno, nell’insieme, riducendo, ma il fenomeno nuovo a cui stiamo assistendo è l’aumento, nei Paesi ricchi, di una grande povertà e, nei Paesi poveri, di un forte sviluppo insieme a una miseria assoluta. Il tutto con crescenti disparità nel campo della conoscenza.
Sembra di assistere all’avvento non di una nuova democrazia ma di un’aristocrazia planetaria del sapere, del potere e della ricchezza, a fronte di una massa di semplici consumatori, e più in basso ancora di esclusi, sia dal potere che dai consumi. I nuovi schiavi. Quali pari opportunità si aprono a una bambina che nasce e vive in una località remota della campagna calabrese rispetto a un bambino figlio di un docente della Bocconi?
Questi sono i fatti, le cose. E davvero non si capisce perché la sinistra non dovrebbe esitare a rialzare la testa e ritrovare l’orgoglio delle sue ragioni storiche (il suo partito) nell’aspro scenario di lotte e di contraddizioni che sempre più segnano questo nostro mondo.
E allora non si può sfuggire alla necessità di tornare a dare alla sinistra quella ragione storica che è la sua e che non può che consistere in una critica di fondo degli assetti attuali del mondo. Una critica la cui radicalità non sta nella violenza e nel rifiuto di assumere responsabilità di governo, ma nel mettere in discussione i poteri reali che governano da sempre questo paese (la vecchia classe dirigente alla eterna ricerca di avventure extraparlamentari) e lottare per la ricostruzione civile del Paese.

Repubblica 19.4.12
Perché lo Stato deve finanziare i partiti
di Nadia Urbinati


La corruzione dei partiti, soprattutto quando sembra un fiume in piena che si ingrossa giorno dopo giorno, ha effetti devastanti. Non soltanto, come è ovvio, sulla stabilità dell'ordine democratico e la credibilità delle sue istituzioni. Ma anche sulla mentalità politica generale. Poiché induce i cittadini a pensare che se lo Stato mettesse i partiti a pane e acqua questi non avrebbero più i mezzi sufficienti per essere disonesti.
Togliere il finanziamento pubblico ai partiti può apparire come la ricetta vincente per costringere all'onestà secondo il detto popolare che l'occasione fa l'uomo ladro. Sull'onda degli scandali giudiziari e in un tempo come questo in cui il governo e il Parlamento impongono ai cittadini enormi sacrifici, questa tesi si fa via via più convincente.
Ma c'è da dubitare che sia la via migliore per impedire la corruzione. Basta ripercorrere brevemente la storia del finanziamento pubblico ai partiti per rendersene conto.
La legge sul finanziamento pubblico dei partiti, introdotta nel 1974 per sostenere le strutture dei partiti presenti in Parlamento, fu voluta e approvata sull'onda di scandali. Attraverso il sostentamento diretto dello Stato, si disse, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione con i grandi interessi economici. Ma si trattò di una pia illusione perché gli scandali non si fermarono come mostrano le vicende Lockheed e Sindona. Evidentemente, la ragione della corruzione non sta nella sorgente del finanziamento. Che sia pubblicoo privato, la corruzione resta. Quindi, pensare di rendere virtuosi i politici facendoli questuanti di soldi privati è illusorio. Non solo non vale a togliere la piaga della corruzione, ma ne produrrebbe una peggiore. Aggiungerebbe alla corruzione classica, quella cioè dello scambio - favori politici in cambio di denaro- un'altra cheè ancora più devastante per la democrazia: la diseguaglianza politica. Infatti, lasciando che siano i privati a finanziare i partiti si darebbe alle differenze economiche la diretta possibilità di tradursi in differenze di potere di influenza politica. Quindi alla corruzione della legalità si aggiungerebbe la corruzione della legittimità democratica. È questa la ragione per la quale il modello statunitense è pessimo.
In questi giorni di malaffare dilagante, che tocca addirittura il partito che si è consolidato gridando agli scandali altrui, si sente proporre il modello americano, magari corretto. Contro quel modello da anni si battono giuristi, opinionisti e teorici politici americani (da John Rawls a Ronald Dworkin tanto per menzionare i nomi più prestigiosi). Gli Stati Uniti sono la prova evidente di quanto sbagliato sia per la democrazia avere partiti privatizzati.
Per un democratico, proteggere le istituzioni politiche dalla corruzione significa proteggere l'eguaglianza politica dall'infiltrazione della diseguaglianza economica. La democrazia accetta le differenze economichee crede che sia possibile impedire che trasmigrino nella sfera politica. Essa quindi si avvale di istituzioni, procedure e norme che bloccano il travaso di influenza economica in influenza politica.
Peri critici di destrae di sinistra questa è una illusione. Perché non sia un'illusione occorrono buone leggi. Ora, le controversie americane sulla questione dei finanziamenti delle campagne elettorali vertono tutte su questo tema. La lotta tra il potere legislativo (il Congresso americano ha proposto e passato leggi che regolano e limitano il finanziamento privato) e il potere giudiziario (la Corte Suprema ha in casi importanti bloccato l'azione del legislatore) verte proprio sull'interpretazione della libertà, se solo un diritto dell'individuo (indifferente all'eguaglianza di condizione) o invece un diritto del cittadino (attento all'eguaglianza di opportunità politica). Il giudici sono schierati con la seconda interpretazione.
Il loro punto di riferimento è il Primo emendamento alla costituzione, il quale tutela la libertà di espressione dall'interferenza dello Stato.
Come bruciare la bandiera è stato definito, in una sentenza memorabile, un segno di libertà di opinione quindi un diritto intoccabile, così è per le donazioni private ai partitio ai candidati. Bloccarle significa, dicono i giudici, bloccare la libertà di espressione. Nella sentenza del 2010 (che riprendeva sentenze precedenti molto importanti) conosciuta come Citizens United versus Federal Election Commision, la Corte Suprema a maggioranza liberista-conservatrice ha sì riconosciuto che "l'influenza del denaro delle corporazioni" esiste ed è "corrosiva" perché causa di corruzione in quanto facilita una "influenza impropria" ovvero una ineguale "presenza politica" nel foro politico. Nonostante ciò, la Corte ha concluso che nonè comunque provabile che le compagnie private perseguano piani espliciti quando finanziano le campagne elettorali. Non si può provare che il loro denaro si traduce in decisione politica. Quindi non si può impedire la libertà di donazione. Tuttavia l'uso dell'espressione "influenza impropria" è significativo perché suggerisce che la base della democrazia è l'eguaglianza politica dei cittadini, ovvero la loro eguale opportunità di influire sull'agenda politica dei partiti, non solo attraverso il voto. Allora, quando c'è corruzione? C'è corruzione solo quando un politico è colluso? Non c'è corruzione anche quando si dà ad alcuni cittadini più opportunità di voce che ad altri? Se per la virtù repubblicana la prima solo è corruzione, per i democratici la seconda è anche e forse più grande corruzione. Perché lede il fondamento della libertà politica eguale. Ecco dunque che la questione di come finanziare i partiti rinvia a una concezione della libertà: se solo del privato individuo che vuole dare i soldi a chi desidera, o invece del cittadino che deve godere di una eguale libertà rispetto agli altri cittadini e non avere meno opportunità di altri di far sentire la propria voce. Nella democrazia rappresentantiva ancor più che in quella diretta, l'esclusione politica può facilmente prendere la forma del non essere ascoltati perché la propria voce è debole, non ha mezzi per giungere alle istituzioni. E il denaro è un mezzo potentissimo.
È questa la ragione per la quale è importante avere il finanziamento pubblico dei partiti. Certo, si può intervenire sulla quantità, le forme, le condizioni; si possono inasprire le pene per chi viola la legge. Ma è sbagliato pensare di combattere la corruzione e il malaffare di cui i politici e i partiti si macchiano eliminando il finanziamento pubblico. Privatizzare i partiti (già ora troppo aziendalie familistici) significherebbe indebolire ancora più gravemente l'eguaglianza politica.

il Fatto 19.4.12
Falce e performance
Fausto horror picture show
Alda Fendi chiama, Bertinotti recita Thomas Eliot
di Malcom Pagani


Apvile è il mese più cvudele/ geneva lillà dalla tevva movta/ mescola memovia e desidevio/ stimola le sopite vadici con la pioggia pvimavevile”. Undici erre in una sola strofa. Bertinotti assorbe la trappola con stile. La moglie, signora Lella, è tutta un fremito. Sul palco, Fausto recita T. S. Eliot. Portaocchiali al collo. Maglione turchese. Al centro dell’antico mercato ebraico del pesce, elegante latifondo della Fondazione Alda Fendi, ecco “Transiti di venere” di Raffaele Curi. Mezz’ora di feti, montagne, nuvole, confezioni di dispositivi vaginali, fiamme, pianeti, canzoni di Yoko Ono ed Enya, spose sfiorate dall’annunciazione e harakiri proiettati a tutta parete. Lo chiamano sperimentalismo, somiglia al “casino organizzato” dell’ex operaio siderurgico Eugenio Fascetti e per celebrarlo, a un passo dal Circo Massimo, si sono accalcati in 400. Fiere e domatori, vecchi amici e neofiti. Un’istantanea a metà tra l’ultima assemblea del Partito socialista e i Cafonal di Dagospia. Mario D’Urso e Adriano Aragozzini, Salvo Nastasi e Umberto Croppi, Ritanna Armeni e Carlo Rossella che ieri commosso, sul Foglio, denunciava ancora un certo turbamento: “Fausto Bertinotti attore. E che attore! ”. Intorno all’alta società del Presidente di Medusa e tramontata la voce impostata di un anonimo che avverte, come a corte: “Si prega di spegnere i telefonini e non di far uso di flash” un altro film. Trentenni sgomenti, imbucati di ogni età, turisti per caso dell’arte senza esborso che da un decennio è il manifesto della minore delle sorelle Fendi.
ALDA VENDETTE il marchio, incassò una cifretta vicina al miliardo di euro e decise di restituire. Se la chiami mecenate si offende: “Mi sento una missionaria, un piccolo granello di sabbia, una folle sana di mente e intenti, cui il mondo non mercificato e corrotto inizia a dare ragione. Non esiste nulla di più gratificante che vivere e nutrirsi d'arte. Voglio che con me ne godano tutti”. E così sia. Al lato della rappresentazione (sic) vestiti come buttafuori di un qualunque Studio 54 fuori latitudine, sostano una dozzina di imitatori di Will Smith allevati a glamour e palestra. Gessato, camicia spalancata, Persol, vistosi orologi al polso. Restano immobili, mentre alle loro spalle, lo scorrere del tempo (c’è la metafora!) è una sabbia che cade inesorabile dall’alto e le immagini (e le scritte) si rincorrono sul muro. “Il settimo sigillo”. Con Bergman non ti sbagli mai.
POI, ANCORA. Un ex campione di basket Nba sopravvissuto alla fame (Abdul Jeelani) interpreta Cristo. Con la corona, la posa sofferta e tutto il resto. Un ragazzo vestito come un tennista degli anni 30 e una bucolica fanciulla che lo insegue ballano su una schermaglia amorosa. Altra scritta sul muro. 2,176 Kelvin. L’unità di misura seguita da due ragazzi in succinto costume da bagno accompagnati da lazzi e battute irriferibili su altre misure: “Ahò, ma è eccitato, è barzottissimo” e riprovazione disgustata della claque. Al cambio di scena, i due innamorati di prima si ritrovano nudi ai lati della sala. Si osservano, mentre il pubblico li divora. Ammirazione per la splendida Cécile Leroy, figlia di Philippe, che non muove un muscolo. Una sfinge. Alla fine, timidissimi applausi e fuga collettiva. Raffaele Curi, il sosia di Mal dei Primitives, l’autore di “Transiti d’amore” che da ragazzo fu Ernesto nel Giardino dei Finzi Contini di De Sica, in età matura ha imparato a far di conto, l’allestimento a casa Fendi non è una novità. Lei è pazza di lui, lui ricambia (come dargli torto) sentitamente. Ogni anno, con titoli pretenziosi, ma alati per le sue creazioni (“Sfiorerai il mio destino come una farfalla”) o vezzosi menu natalizi (quello del “clochard” da degustare ascoltando The Fun Powder Plot di Wild Beasts o in alternativa la “salsa del figlio del podestà”) Curi si spende e fa spendere agli altri. Quando non lavora con Pupi Avati o non affitta appartamenti in via Giulia a Guido Bertolaso trovando a fine locazione cumuli di bollette: “Ero felicissimo: ho pensato che fosse una persona affidabile. Ma non sono mai riuscito a contattarlo per farmi firmare il contratto, non l’ho mai visto in faccia” dà vita a spaventose messe in scena. A Everest di ridicolo involontario. In cima, una volta scalata la vetta, la ricompensa. Lo squittio delle dame impegnate a tener desti i mariti: “Ma, caro, non sbadigliare, è me-ra-vi-glio-so” e sorridere ragazzi più cinici e grevi: “È il vero appuntamento trash di Roma” o anche, nella versione meno ecumenica: “Non ci si crede. Non ho più parole. Soltanto parolacce”.
LA FENDI è generosa. Magnanima. Finanzia molti ambiti artistici, sogna di scoprire un Andy Warhol, ma si accontenta delle opere di Curi. Si immedesima in Peggy Guggenheim indossando enormi lenti nere, sfama le mandrie che occupano lo splendido palazzo aperto al dopo “Transiti di venere” offrendo come dice Rossella un “delizioso panaché” in faccia al Foro Traiano che a Roma, per semplificare, si risolve in birra e gazzosa. Tra i vassoi si commenta. Non sono concetti gentili, ma spruzzi di ingratitudine. Inganni. Opinioni. Forse Curi è un genio, “Transiti di Venere” un capolavoro e l’arte contemporanea tutta, un immenso speaker’s corner appaltato a chi è più rapido. Furbo. Dialettico. Chi sale sul ceppo per primo vince. E Curi, dall’angolo Fendi, continua a parlare senza che nessuno si azzardi a interromperne il flusso di coscienza.

Repubblica 19.4.12
Il personaggio L'ex presidente della Camera fa l'attore
Sponsor: la Fondazione dell'imprenditrice della famosa griffe
Da falce e martello all'alta moda Bertinotti recita Eliot per Alda Fendi
di Filippo Ceccarelli


POSTO che recitare non è reato, e trovarsi un'occupazione meno che meno, la circostanza che Fausto Bertinotti, in cachemirino celeste, sia salito su di un palcoscenico per rallegrare la mondanità capitolina alimentando una già copiosa produzione di foto-Cafonal, è una faccenda che però solleva qualche dubbio: non solo sul destino semi-obbligato degli ex presidenti della Camera, ma anche e specialmente sulle motivazioni per cui dopo tante esperienze sindacali, politiche e istituzionali uno come lui in piena e libera facoltà di se stesso abbia deciso di farsi ridere dietro.
La Pivetti, del resto, vabbè, si sa: è figlia e sorella di gente di spettacolo. Così dopo le infatuazioni cattolico-vandeane di Montecitorio la si è vista padroneggiare sanguinolente trasmissioni di chirurgia plastica al fianco di Platinette, e poi anche strizzatissima in tenuta sadomaso di latex con tanto di frusta. Ma Bertinotti finora, con l'inseparabile moglie detta «la sora Lella» figuravano al massimo come un elemento stabile del paesaggio notturno di una certa Roma, compulsivamente arruolati a party, presentazioni e sfilate di moda, da Mario D'Urso a Valeria Marini: «Berty-night», come l'aveva designato ormai diversi anni orsono Dagospia, «e io mi arrabbio teneramente - reagiva lui - perché è una falsificazione della mia immaginee mi verrebbe voglia di replicare contando le ore che ho passato davanti ai cancelli delle fabbriche». In attesa del rendiconto, e non senza dimenticare che nei giorni lieti della Camera ai gentili ospiti dopo il pasto veniva donato un campanellino di quelli con cui un tempo certe signore borghesi richiamavano la servitù, ecco, varrà dunque la pena di segnalare che l'altra sera, all'insegna della fondazione «Alda Fendi», l'ex presidente della Camera ed ex leader di Rifondazione comunista si è di nuovo esibito davanti ai soliti noti in una pièce niente affatto politica. « Transiti di Venere », una visionaria cosmogonia di Raffaele Curi giocata fra pianeti e varietà di palle (pingpong, tennis, basket), richiami letterari e carni denudate di maschi e femmine disposte su di un improvvisato proscenio dalle parti del Circo Massimo, là dove il sabato e la domenica mattina si svolge un grazioso mercatino bio della Coldiretti.
Essenziale e minimal, un leggìo e un fascio di luce, Bertinotti ha recitato alcuni brani de «La terra desolata» di Eliot. Poi felice come una pasqua di aver confuso memoria e desiderio si è fatto un sacco di foto-ricordo con gli attori e infine, nella magnifica residenza Fendi con vista sul foro di Traiano, ha accolto con piacere tanti elogi sulla cui sincerità la sua indubbia intelligenza deve essere entrata in serio conflitto con il suo formidabile narcisismo, probabilmente avendo la peggio. Ma questo non vuol dire che come attore non sappia il fatto suo, piuttosto che quell'ambiente lì è per sua natura abbastanza maligno.
Gli archivi impongono di aggiungere che comunque non è la prima volta. Tra un soggiorno nel Chiapas e una visita ai monaci del Monte Athos, recordman di presenzea Portaa porta, nel 2007 accettò con entusiasmo la parte di Calamandrei in uno spettacolo su Danilo Dolci al teatro Valle.
Scrisse allora Franco Cordelli sul Corriere della Sera che in scena era stato bravo, a parte essersi messo per due volte le mani in tasca e aver tradito una lieve vibrazione alla gamba destra. Qualche mese dopo Fiorello gli fece declamare alla radio le parole dell'inno di Forza Italia: e anche in quell'occasione, se fece finta di non averle riconosciute, Bertinotti si dimostrò un attore naturale - se drammatico o comico, come capita spesso in Italia, è una questione abbastanza secondaria.

il Fatto 19.4.12
Pannella chiama Grillo

Ha scelto Twitter (dove ha oltre 10 mila follower) il leader radicale Marco Pannella per lanciare un appello a Beppe Grillo, protagonista della campagna contro il finanziamento pubblico ai partiti: “Norimberga per l’Italia! Grillo parlante o copiante? Finalmente together? Lo sai che ti aspetto da tempo?” scrive Pannella in un tweet.

Repubblica 19.4.12
Inchieste, scandali e la crescita nei sondaggi del Movimento 5 Stelle: così riprendono quota lo scontento e il dissenso verso le forze tradizionali
Contro politica. La sfiducia nei partiti e i rischi del qualunquismo
di Guido Crainz


Alla fine dell'Ottocento lo scrittore Vamba, futuro inventore di Giamburrasca, creava l'onorevole Qualunquo Qualunqui del partito dei Purchessisti, propugnatore del programma Qualsivoglia e sostenitore del gabinetto Qualsiasi: sembrerebbe anticipare Guglielmo Gianninie Cetto Laqualunque ma sono radicali le differenze fra i diversi momenti, e ancor più con i dilaganti fermenti attuali contro i partiti. Alla fine dell'Ottocento, ad esempio, vi era sullo sfondo una retorica antiparlamentare conservatrice e una critica al sistema rappresentativo in sé fortemente presenti nel dibattito colto. E nel successo dell'"Uomo Qualunque" alla caduta del fascismo vi erano umori e veleni di lungo periodo assieme a paure e diffidenze per una democrazia ancora sconosciuta, dopo il lungo ventennio. Il movimento di Giannini scomparve rapidamente e l'Italia repubblicana è stata caratterizzataa lungo, invece, da una altissima e viva partecipazione alla politica: le denunce della "partitocrazia" che iniziarono a serpeggiare negli anni Settanta coglievano precocemente la fine di una stagione.
Una fine avvertita anche "dall'interno": nel 1981 la critica di Enrico Berlinguer alla degenerazione dei partiti di governo («federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sottoboss"») fu il tentativo più alto di riportare la politica alla sua dignità ma forse anche il presagio di una sconfitta. E nello stesso anno un racconto di fantapolitica di Giuseppe Tamburano prevedeva e paventava per il 1984 quel che sarebbe avvenuto dieci anni dopo: il crollo per discredito dello "Stato dei partiti" e l'avvento di una Seconda Repubblica con «la sostituzione dei partiti e la restaurazione dei valori e degli interessi di una borghesia imprenditoriale senza più lacci e lacciuoli». E con un programma simile a quello di Licio Gelli. Il crollo del 1992-94 era dunque ben prevedibile, preceduto da un intreccio sempre più melmoso di occupazione partitica dello stato e di corruzione. E aprì la via all'esplodere dell'antipolitica, nelle forme del leghismo bossiano e dell'estraneità berlusconiana alla democrazia. E a nuovi, profondissimi guasti. Ma perché non se ne è usciti? Perché oggi il panorama appare più devastato e devastante di allora? Perché una "partitocrazia senza partiti" ha lasciato segni così negativi sulla seconda repubblica e si sono al tempo stesso sviluppate forme inedite di "banalità della corruzione", strapotere delle cricche, familismi immorali? Perché, soprattutto, siamo accerchiati più drammaticamente di allora da pulsioni rozze contro la politica e al tempo stesso da un'incapacità dei partiti di rinnovarsi che non lascia moltissimi spiragli alla speranza? Forse su un nodo occorrerebbe riflettere meglio: nel crollo della "prima Repubblica" rappresentanze consistenti di una parte della "società civile", per dir così, entrarono impetuosamente nelle istituzioni e nella politica sotto le insegne della Lega Nord e di Forza Italia. Vi portarono umori che si erano consolidati negli anni Ottanta: dalla diffidenza, se non ostilità, nei confronti dello Stato sino alle più differenti pulsioni ad una ascesa individuale sprezzante di ogni vincolo, incurante del bene comune. E fecero ampiamente e amaramente rimpiangere il personale politico precedente. Poco spazio trovarono invece altre parti della società, a partire da quelle che avevano il loro riferimento nelle culture riformatrici, nel rispetto delle regole e dei valori collettivi: e così, mentre le file del centrodestra si gonfiavano di animal spirits limacciosi e di rappresentanze talora impresentabili, il centrosinistra vedeva progressivamente isterilirsi il proprio ceto politico e le proprie dinamiche interne. Vedeva progressivamente indebolirsi - o meglio, contribuiva colpevolmente a dissipare - quelle forme più ampie di partecipazione che la costruzione stessa dell'Ulivo avrebbe potuto e voluto alimentare. Sin dal suo inizio in realtà, in un seminario convocato a Gargonza per rilanciare quella ispirazione e quelle aperture, l'allora segretario del Pds Massimo D'Alema vi contrapponeva una superiorità dei partiti che largamente prescindeva dalla loro profonda crisi (Umberto Eco lo ha ricordato di recente in modo graffiante). Alla caduta del primo governo Prodi la chiusura in sé di partiti rissosi e divisi diventò dominante e portò al tracollo. Portò poi a guardare con perenne fastidio la ripresa di iniziativa della società civile: dal movimento dei girotondi sino alla "lezione non raccolta" del pronunciamento referendario e delle elezioni amministrative della primavera scorsa.
Ha origine anche qui l'incapacità di contrastare adeguatamente il degrado complessivoe al tempo stesso di combattere i crescenti e multiformi sussulti distruttivi di oggi, privi sia dei miti identitari leghisti sia dell'illusionismo miracolistico del Cavaliere delle origini. Alimentati più trasversalmente che in passato da una politica che non ha saputo evitare al Paese il disastro attualee non ha molti titoli per giustificare gli enormi flussi di denaro pubblico percepiti contro la volontà referendaria.
Una politica, soprattutto, che appare drammaticamente incapace di trovare in sé le forze per invertire la tendenza, unica via possibile per evitare il baratro. La speranza è l'ultima a morire ma il baratro sembra spaventosamente vicino.

Repubblica 19.4.12
L'ideologia "oracolare" e fondativa del comico
Il grillismo figlio del “Non”
di Michele Smargiassi


È un avverbio palindromo il grimaldello che può scardinare il quadro politico italiano. Una parolina di tre lettere che non ha significato, ma li nega tutti: non. Il MoVimento 5 Stelle, si legge nel suo "non statuto", è una "non associazione", "non è un partito" e "non lo diventerà in futuro", non ha "organismi direttivi o rappresentativi", non è di destra e non è di sinistra, non ha tessere, non ha una sede fisica e neppure un leader, anche se ce l'ha, lo sanno tutti. Il lessico comune, che non rispetta i non-statuti, li definisce "i grillini": un capitale di sdegno, impegno e sincera voglia di cambiamento che ogni partito serio vorrebbe avere alle spalle, ma che un attore comico di successo, con intuitoe doti mediatiche, ha saputo catalizzare attornoa sé nell'Italia provvisoria dalle rivoluzioni continuamente tradite.
Quale sia il ruolo di Beppe Grillo nel MoVimento da lui battezzato (quella V maiuscola in mezzo al nome è la reliquia venerata dell'evento fondatore, il V-day, giorno del gran Vaffa, 8 settembre del 2007, Bologna, decine di migliaia di fan), sta all'articolo 3 del non-statuto che cita Grillo come "unico titolare dei diritti d'uso" di nome e simbolo del MoVimento 5 Stelle, in sostanza il proprietario del marchio senza il quale non si può agire a nome del movimento. Imprimatur amministrato con decisione, come sanno liste e gruppi e singoli a cui è stato negato con diffida scritta degli avvocati del nonleader. Movimento "dal basso" gestito dall'alto, movimento in cui «uno vale uno» ma dove Uno possiede personalmente la legittimazione di tutti. Eppure, come avverte Federico Fornero in un'analisi sul prossimo numero de Il Mulino, alla bomba grillina innescata nelle urne con percentuali da terzo partito, «l'etichetta di "partito personale" sta stretta».
Allora la definizione più calzante per questo singolare cocktail di spontaneismo e personalismo, di orizzontale e verticale, che condivide molte radici ma poche omologie con i movimenti antipolitici emergenti in Europa, dagli Indignados spagnoli ai "Pirati" nordici, forse è quella di "movimento oracolare". La Verità del movimento sta solo in parte nel suo programma, che potrebbe essere quello di un partito ecologista se in Italia un dissennato ceto politico non avesse dilapidato la chance dei Verdi. Sta nel ricorso, costitutivo dell'identità stessa del MoVimento (la sede è un indirizzo Web, la tessera è un login ), alla Rete come entità in sé, più che come canale di comunicazione. «La Rete ha reagito male», «la Rete ha deciso». Come tutte le personalizzazioni mitiche di un'entità superiore, anche la Rete per i grillini esige un decifratore, un aruspice. Gli articoli dell'eponimo sul blog beppegrillo.it sonoi vaticini che dettano la linea su questioni non previste dal programma, e sfiduciano per eteronomia questo portavoce o quell'eletto, con scomuniche tanto perentorie quanto non emanate da un potere ufficialmente legittimato a farlo. «Beppe ha scritto che», è sufficiente: seguono proteste e tempeste nei meetup locali, raramente scissioni, più spesso accettazioni del responso.
Ma non è banale leaderismo mascherato. Il controllo oracolare garantisce la sopravvivenza dell'esperimento. Il non è un requisito vitale per un movimento che nega alla radice la politica esistente e verrebbe disinnescato dalla più piccola contaminazione: la non-politica può vivere solo se sfugge ad ogni definizione, anche passiva, se "vola" ( fuori, oltre, sopra, parole correnti nel vocabolario grillino) lontano dall'agorà civica dove incrociano i partiti che l'hanno ridotta in condizioni pietose. Questa è forse la vera missione in capo all'oracolo genovese: custodire la purezza del non, sacro Graal della contropolitica.

Repubblica 19.4.12
Tribuni
Lo spettacolo come forma di contestazione
Quel richiamo della protesta
di Filippo Ceccarelli


Assistere a un comizio di Beppe Grillo, come pure a uno dei suoi sproloqui televisivi, è una esperienza quasi metafisica perché come ogni grande attore comico il fondatore del movimento Cinquestelle ha i tempi, ha il ritmo, ha la voce e la sa modulare in una varietà incredibile di toni, dallo stridulo allo stentoreo, dal sommesso all'esasperato passando per quel mugugno stranito che rende gloria all'identità genovese, ma poi strabuzza anche gli occhi, tace di colpo, gonfia il petto oppure scatta come una tigre imprigionando la fantasia del pubblico in un reticolo emotivo di contagiosa ostilità verso tutti i protagonisti di una politica ridotta allo stato terminale.
Anche assistere a un comizio di Guglielmo Giannini, ai tempi di De Gasperi, Togliatti Nenni ed Einaudi, doveva essere un esperienza più che coinvolgente. Una sera a Cagliari incantò una piazza trascinando 30 mila persone a cantare in coro «Dove sta Zazà». Massiccio d'aspetto, ma leggero in scena, elegante e popolaresco, mezzo inglese e mezzo napoletano, tra ruggiti e sentimentalismi il fondatore dell'Uomo qualunque si può a buon diritto considerare il profeta dell'antipolitica avendole lasciato in dote moduli espressivi destinatia grande fortuna: da "Upp" (Uomini Politici professionali) a "Forchettoni", passando per l'invocazione di un "Ragioniere alla guida del governo".
Ridotto all'osso, il programma di Giannini risuonava in una formula che qualche fascino lo eserciterebbe francamente anche oggi: «Non vogliamo avere le palle rotte da nessuno».
L'antipolitica è nozione arcana nella sua indubbia ambiguità. Ma forse, per afferrarne le forme nell'arco ormai di quasi 70 anni, converrebbe partire dal fatto che anche Giannini, come Grillo, proveniva dal mondo dello spettacolo, essendo stato un commediografo di successo. Non risulta - ed è un peccato - che Guy Debord, teorico della società dello spettacolo, abbia mai studiato il personaggio che oltretutto si presentava con un vistoso monocolo, sommergeva gli avversari di volgarità e rompeva la routine dei lavori parlamentari con applauditissime barzellette.
Ma certo viene da chiedersi se proprio un deficit di presenza scenica non spieghi come mai il filone colto ed educato della più varia antipolitica - l'ultimo Sturzo, il professor Maranini, Ernesto Rossi, alcuni intellettuali del Mondo, il Pasolini del Palazzo, lo stesso Montanelli - rimase al dunque sempre così minoritario da risultare un pericolo trascurabile per la partitocrazia. Il ricorrente fenomeno deve accendere la fantasia e infatti ha sempre avuto bisogno di tribuni dal fisico inconfondibile e dalla voce tonante. Si pensi a Lauro, a Pannella, che pure è risultato molto più politico di tanti politicanti, a Cito, a Di Pietro o a Funari che di fronte a milioni di italiani sottoponeva i potenti della Prima Repubblica in disfacimento a una specie di rito di degradazione costringendoli a ingollare cubetti di mortadella. Dal piccone di Cossiga a "la Lega ce l'ha duro" fino alla troppo rimarcata estraneità del telepopulismo berlusconiano; dal Gabibbo al Tapiro passando per le prime piazze di Santoro e le ultime Iene che fanno la posta ai deputati fuori Montecitorio, l'antipolitica si alimenta di una vena anarcoide presente «nei bassifondi dell'anima italiana» (Luigi Salvatorelli), ma soprattutto comporta un che di demoniaco che riscalda lo show.
Grillo si è scritto un inno che a costo di fare l'occhietto al diavolo ha per titolo: "Ho un Grillo per capello". Il refrain offre un programma più esistenziale che politico: «Non ce la faccio più! ». Giannini nutriva lo stesso sentimento. Tutto torna, solo le generazioni invecchiano.

Corriere della Sera 19.4.12
Breivik: «O mi assolvete o mi condannate a morte»


OSLO — O la pena di morte o l'assoluzione: sono le uniche opzioni «giuste» per la conclusione del processo secondo Anders Behring Breivik, imputato per le stragi di Oslo e Utoya nelle quali il 22 luglio 2011 persero la vita 77 persone. Lo ha affermato lo stesso Breivik nel terzo giorno del dibattimento: «La reclusione per 21 anni sarebbe una punizione patetica» ha detto, precisando che nel caso in cui in Norvegia fosse stata in vigore la pena capitale lui avrebbe «rispettato il verdetto». Messo sotto torchio sui presunti legami con altri estremisti di destra, per la prima volta ha opposto al pm un secco «No comment». Salvo poi aggiungere: «Ci sono altre due cellule pronte a colpire in Norvegia in qualsiasi momento». Breivik non ha comunque voluto fornire i nomi di altri nazionalisti.

il Fatto 19.4.12
Grande fuga dal carro di Sarkozy
Anche il premier Fillon: “Perdiamo” L’ultimo sondaggio: Hollande a +6
di Gianni Marsilli


Parigi. Era il giugno scorso e Jacques Chirac, che per i colori della destra fin dagli anni 60 fu ministro, primo ministro e per due volte presidente della Repubblica, creò un certo sconcerto: “Voterò Hollande”, disse perentorio. E quando sua moglie Bernadette lo rimbrottò perché c’erano giornalisti in ascolto, ebbene, lui piccato lo ridisse: “Ho detto che voterò Hollande. Potrò ben dire per chi voterò, o no? ”.
Con un certo garbo, il socialista Hollande incassò l’inatteso sostegno, ma attribuì l’inedita scelta dell’ex capo dello Stato allo humour un po’ rustico e tipico della Corrèze, il dipartimento nel quale i Chirac hanno una bella dimora e del quale lo stesso Hollande è il presidente eletto. Si sa, infatti, che Chirac, dopo l’ictus che lo colpì nel 2005, non è più lo stesso uomo, a volte lucido a volte svagato. Ma ecco che in questi giorni, alla vigilia del primo turno, dal clan Chirac arrivano esternazioni a pioggia, tutte in favore di François Hollande.
TUTTE meno una, perché per Bernadette, che resta una Chodron de Courcel, votare socialista è geneticamente impossibile, e infatti si fa spesso vedere ai meetings di Sarkozy. Non così per la figlia Claude, beccata a pranzo in compagnia di Valerie Trierweiler, la compagna di Hollande. Non così per Frédéric Salat-Baroux, già segretario generale dell’Eliseo. Non così per Jean Luc Barré, che redigeva i discorsi dell’ex presidente. Non così per Hugues Renson, che era stato consigliere molto ascoltato. Non così per Corinne Lepage, che di Chirac era stata ministro. Tutti costoro, e anche altri, domenica voteranno socialista.
È gente della destra gollista, e non da oggi considerano Sarkozy come una iattura. Un altro insolito movimento di truppe ha attratto in questi giorni l’attenzione generale: la cosiddetta “apertura a sinistra” di Sarkozy, che segnò l’inizio della sua presidenza, pare definitivamente evaporata nel nulla. Tornano quasi tutti all’ovile, i ministri di sinistra che credettero in Sarkò. Ecco la combattiva Fadela Amara, fondatrice di “Ni putes ni soumises”, già ministro per le Politiche urbane, di origine maghrebina, che dichiara di votare Hollande. “Provo vergogna per te”, le ha cinguettato via twitter l’ex collega di governo Christine Boutin. Ecco Martin Hirsch, anch’egli arruolato da Sarkozy per le politiche sociali, fare la stessa scelta: “Indegno”, l’ha apostrofato Christian Jacob, presidente del gruppo parlamentare dell’Ump. Così come Jean-Pierre Jouyet, che per Sarkozy era stato ministro degli Affari europei prima di presiedere la Consob francese, anch’egli intenzionato a votare Hollande.
RIMANE invece testardamente sarkozista Eric Besson, che nel febbraio 2007 cambiò repentinamente casacca, lasciando Ségolène Royal al suo destino e passando armi e bagagli nel campo avverso. Besson è tuttora ministro dell’Industria, ma anche se volesse non potrebbe ritrovare facilmente la strada della vecchia magione socialista. Hollande, nei suoi riguardi, usa infatti volentieri epiteti pesanti: “Lo lasceremo al suo destino di traditore”. Rimangono per ora elettrici di Sarkozy altri due simboli dell’“apertura” di cinque anni fa: l’antillese Rama Yade, benché priva di sottosegretariato da due anni, e l’ex Guardasigilli Rachida Dati, donna in carriera che mira al municipio di Parigi. Si son perse infine le tracce di Bernard Kouchner, che di Sarkozy fu il ministro degli Esteri fino al 2010, pur avendo passato una vita a sinistra. Al Quai d’Orsay non lo rimpiange nessuno, al Ps ancora meno.
Poi c’è chi non cambia casacca, ma che non scommetterebbe più un euro sulla vittoria del presidente, come l’attuale primo ministro François Fillon: a quanto rivela il prestigioso settimanale satirico Le Canard Enchaîné Fillon avrebbe fatto confidenza della sua personale convinzione, per Sarkozy “non c’è più speranza; ovunque in Europa, i candidati uscenti hanno perso a causa della crisi e non faremo eccezione”. Sempre secondo il Canard, anche il ministro degli Esteri, Alain Juppé, avrebbe detto che “non crede più” in un’eventuale rielezione di Sarkozy, mentre il ministro dell’Economia, François Baroin, ripete dietro alle quinte che ormai “non c’è più niente da fare”.
La campagna elettorale si avvia così alla conclusione, e gli ultimi sondaggi hanno assunto un’omogeneità fino ad oggi sconosciuta: danno tutti Hollande in testa fin dal primo turno, anche con cinque, sei punti di vantaggio. Sembra aver recuperato qualche punto anche Marine Le Pen: non tanto da irrompere in finale, come fece suo padre nel 2002, ma abbastanza per concorrere alla conquista del terzo posto, ai danni del Front de Gauche di Jean Luc Melenchon.

il Fatto 19.4.12
Lettera ai francesi
Gli economisti su “Le Monde” scelgono il socialista


Più di 50 eminenti economisti di istituti universitari sparsi in tutto il mondo hanno indirizzato una lettera aperta a Le Monde e ad altri media per motivare le ragioni del loro appoggio al candidato socialista François Hollande. Quella che segue è una sintesi del lungo e articolato documento firmato tra gli altri da Michel Aglietta, Julia Cagé, Thomas Chalumeau, Daniel Cohen, Elie Cohen, Jean-hervé Lorenzi, Jacques Mistral, Thomas Piketty.
Siamo economisti e seguiamo con attenzione il dibattito elettorale e le dichiarazioni dei candidati. Diamo un giudizio sulle loro proposte economiche in particolare per ciò che concerne la ripresa della crescita e dell’occupazione, l’incremento della competitività, il regolamento dei mercati finanziari e la visione delle politiche economiche europee. Ma giudichiamo anche la credibilità dei loro progetti e il loro impatto sulla coesione sociale del Paese. A nostro giudizio un candidato sembra il più adatto a rimettere in piedi la Francia e a unire i francesi. Questo candidato è François Hollande. La crisi dell’Eurozona dimostra che il peggio non è passato e che prevalgono ancora politiche di austerità, che soffocano la crescita, e la tentazione di molti a pensare al proprio interesse facendo valere la legge del più forte. Bisogna mettere fine a queste politiche che devastano le economie europee. La crisi del debito si supera solo con la crescita e con l’incremento del potere di acquisito dei salari. È urgente ripensare la costruzione europea di modo che sia al servizio della crescita e dei cittadini negoziando un nuovo Patto di responsabilità, di crescita e di governance con i partner europei.
IL PAREGGIO del bilancio alla fine del quinquennio è un obiettivo ambizioso, ma raggiungibile. La grande riforma fiscale annunciata da Hollande deve essere meglio precisata e la sua attuazione accelerata. Bisogna riorientare la politica fiscale in direzione di una maggiore giustizia sociale e di una maggiore efficacia economica. Bisogna mettere fine ai privilegi fiscali di cui godono capitale e rendite per non aggravare le disuguaglianze e per evitare gli eccessi speculativi che sono stati all’origine della crisi finanziaria. Hollande ha mostrato di volere uno Stato efficace e attento alla spesa pubblica. Dopo anni nei quali si è ridotta la modernizzazione a una semplice equazione contabile, le amministrazioni sono disorganizzate, i funzionari demotivati e la qualità dei servizi pubblici inaccettabile. La Francia dispone di una grossa risorsa: una gioventù numerosa e dinamica. Non è più accettabile che proprio tra i giovani sia più elevata la disoccupazione. Inoltre bisogna restituire il loro ruolo alle organizzazioni sindacali e rafforzare l’istruzione pubblica.
La globalizzazione è stato uno straordinario strumento di crescita e di diffusione del sapere, ma ha anche creato un mondo più frammentato e meno solidale accrescendo disuguaglianze. Sono necessarie misure per rimediare agli errori del mondo finanziario. È inoltre necessario combattere i paradisi fiscali e ridurre l’evasione fiscale con una seria imposta sulle transazioni finanziarie, vietando le stock-options, favorendo il credito al consumo. Il bilancio di questi cinque anni - 350 mila posti di lavoro in meno nel settore industriale e 900 stabilimenti industriali chiusi - evidenzia un errore al quale bisogna rispondere sul piano della qualità dei nostri prodotti. Le misure proposte dal candidato socialista sono le più idonee ad affrontare la sfida dell’innovazione. Per tutte queste ragioni vi chiediamo di votare per François Hollande. Il presidente non ha mantenuto le promesse fatte nel 2007 mentre Hollande ha presentato un programma di riforme che è all’altezza della sfida. Credibilità, ambizione e coerenza sono dalla sua parte.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Corriere della Sera 19.4.12
Le ambizioni dell'India Al lancio il missile che può colpire Pechino
di Danilo Taino


Il desiderio di affermarsi come grande potenza e la rivalità con la Cina stanno spingendo l'India in una corsa agli armamenti che suscita perplessità. Oggi o domani, lancerà il suo primo missile balistico intercontinentale, Agni-V, un veicolo capace in futuro di colpire in un raggio di cinquemila chilometri e di portare testate nucleari. Era pronta a sperimentarlo ieri sera nell'Oceano Indiano ma il cattivo tempo ha consigliato un rinvio. Temporali permettendo, sarà l'ingresso del Paese nel club dei possessori di capacità intercontinentali (Icbm) e darà a Delhi la possibilità di colpire l'intero territorio cinese, comprese Pechino e Shangai. Si tratta di un salto strategico non da poco. E non è un'iniziativa isolata. Quattro mesi fa, l'India ha affittato per dieci anni un sottomarino nucleare russo. Il prossimo dicembre, la Marina dovrebbe ricevere una portaerei (ristrutturata) di costruzione sovietica. E, in generale, il Paese è impegnato in uno sforzo di rinnovamento delle forze armate che lo ha portato a essere uno dei principali acquirenti internazionali di armi.
È che il governo indiano ha stabilito che la crescita economica deve essere accompagnata da una forte capacità militare. Nella regione, in effetti, i rischi ci sono. Al momento, i rapporti con la Cina sono buoni, ma le dispute di confine non mancano e Delhi è preoccupata per quello che percepisce come un espansionismo di Pechino nell'Oceano Indiano. E le tensioni con il Pakistan possono riaccendersi in ogni momento. L'India è dunque convinta che la strada verso lo status di potenza regionale debba essere percorsa con muscoli militari significativi, pena la possibilità che la stessa crescita economica venga messa a repentaglio.
Il guaio è le cose non stanno funzionando come nei piani. Poche settimane fa, il capo di Stato Maggiore ha scritto al governo per dirgli che, nonostante le enormi spese, parti consistenti dell'esercito sono senza munizioni. In un'altra lettera ha denunciato un tentativo di corruzione nei suoi confronti. E più in generale il fenomeno India sembra stia per finire nella sabbia: la crescita, che doveva superare il dieci per cento del Pil, è caduta al 6,1% e le riforme necessarie a competere con un Paese come la Cina non arrivano, anzi pare che Delhi voglia tornare a forme di controllo statalista sull'economia. Non sarà con Agni-V che l'India si garantirà lo status a cui aspira.

Repubblica 19.4.12
Mistero Bo Xilai, sesso e spie al comitato centrale
di Giampaolo Visetti


PECHINO Due mesi fa sembrava il copione classico di un'epurazione politica, ambientata nel solo regime comunista di successo nella storia del capitalismo. Poi è andata in scena una spy-story con risvolti finanziari, girata nella nuova megalopoli dell'Asia. La tragedia si è trasformata quindi in una commedia piccante, con la moglie trascurata che fa uccidere l'amante che si è stancato di lei.
Questo mix esplosivo di potere, denaro e sesso, senza precedenti nella storia post-rivoluzionaria cinese, si rivela infine qualcosa di ben più vasto e decisivo: un intrigo globale che può sconvolgere, oltre che la successione politica a Pechino, i precari rapporti tra la Cina e l'Occidente. Anche Stati Uniti e Gran Bretagna precipitano infatti ora nello scandalo più imbarazzante che scuote la Città Proibita dopo il 1989. La Casa Bianca finisce sotto accusa per non aver concesso asilo politico a Wang Lijun, ex capo della polizia di Chongqing che il 6 febbraio si è rifugiato nel consolato Usa di Chengdu.
(segue dalla copertina) Downing Street è invece sul banco degli imputati per aver ignorato, fino a pochi giorni fa, la morte misteriosa dell'uomo d'affari Neil Heywood, vicino ai servizi segreti inglesi, trovato morto il 15 novembre scorso proprio a Chongqing. L'accusa è pesante sia per Washington che per Londra: aver cercato di insabbiare un omicidio eccellente per non danneggiare le relazioni politiche, e dunque gli interessi commerciali, con la seconda potenza economica del mondo.
Al centro del mistero, che minaccia di svelare trame inconfessabili tra i governi più influenti del pianeta, c'è infatti colui che fino a poche settimane fa stava per diventare uno dei leader più potenti della scena internazionale: Bo Xilai, 62 anni, ex segretario del partito comunista di Chongqing, ex ministro, ideologo del neomaiosmo cinese, figlio di uno dei compagni di rivoluzione di Mao Zedong, candidato ad uno dei nove seggi nel comitato permanente del politburo di Pechino. Per salvare lui, quando ancora era considerato l'astro nascente del potere cinese, Usa e Inghilterra avrebbero chiesto la complicità interessata della Cina, tesa a impedire lo scoppio pubblico delle divisioni interne al partito comunista nell'anno del passaggio decennale del potere.
Tutto sarebbe filato liscio, compreso il depistaggio sulla morte causata dall'abuso di alcool, se Wang Lijun, detto "lo sceriffo", non avesse pensato di salvare se stesso tradendo infine il suo capo Bo Xilai e affidando la sua verità proprio ai diplomatici di Washington e Londra. Solo allora la Cina non ha più potuto affrontare il "giallo di Chongqing" come un semplice delitto concluso con una doppia rimozione politica.
La transizione del potere cinese diventa così un caso internazionale e le diplomazie dell'Occidente risultano informate sui retroscena più scabrosi della lotta per la successione a Hu Jintao e a Wen Jiabao.
Ma il punto che in queste ore suscita maggiore allarme, in Cina e all'estero, è che la leadership comunista è consapevole che Stati Uniti e Gran Bretagna sono entrati in possesso dei segreti che celano i legami tra politica, economia, corruzione e criminalità organizzata tra i successori del Grande Timoniere. Se insabbiare il caso Heywood-Bo poteva consentire ieri di aumentare gli interscambi commerciali, andarvi a fondo oggi minaccia di rompere i faticosi equilibri con la Cina sui più scottanti dossier internazionali: la repressione in Siria, la corsa atomica di Iran e Corea del Nord, il valore dello yuan e gli investimenti asiatici a sostegno di dollaro ed euro.
Per questo, di ora in ora, la scomparsa di Wang Lijun e di Bo Xilai, l'arresto della moglie di quest'ultimo Gu Kailai per l'omicidio di Neil Heywood, il misterioso ritiro da Harward di Bo Guagua, figlio della coppia incriminata, assume sempre più il profilo di una crisi dall'esito imprevedibile. Le opinioni pubbliche di Usa e Gran Bretagna non chiedono solo di sapere quale sarà la posizione dei loro governi nei confronti di quello della Cina, qualora i tre protagonisti principali dello scandalo venissero condannati a morte per alto tradimento, corruzione e omicidio. Pretendono di sapere prima di tutto quali siano i rapporti politici ed economici effettivi con la Cina, pubblicamente censurata per la violazione dei diritti umani e le pratiche commerciali scorrette. Ma pure che venga chiarito cosa facesse a Chongqing e per conto di chi agisse Neil Heywood, avvelenato dopo aver chiesto una maxitangente per portare all'estero quasi un miliardo di dollari in contanti consegnatigli dalla moglie di Bo Xilai. E come possa accadere che il figlio di uno dei leader più potenti di Pechino, Bo Guagua, si presenti in Ferrari per portare fuori a cena la figlia dell'ex ambasciatore americano a Pechino, Jon Huntsman.
Anche a Pechino però l'imbarazzo è senza precedenti. I leader politici e i generali dell'armata di liberazione, sempre più forti e più inquieti, si chiedono per quali ragioni uno degli esponenti comunisti di punta fosse da anni il confidente di un uomo dei servizi segreti di Sua Maestà, al punto da cedergli la moglie, il suo patrimonio e pure la carriera universitaria del figlio. Da ieri poi la tensione montata dai primi di febbraio sembra prossima ad esplodere. Fonti americane hanno ammesso il patto segreto tra Wang Lijun e i diplomatici del consolato Usa di Chengdu. A negare l'asilo politico al capo della polizia in fuga dal suo capo Bo Xilai, sarebbe stato lo stesso Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.
Barack Obama il 6 febbraio si apprestava a ricevere alla Casa Bianca il prossimo presidente cinese Xi Jinping. Una crisi Washington-Pechino avrebbe fatto saltare la visita, pregiudicando il sostegno cinese a dollaro e debito Usa. Nel corso di 36 ore drammatiche, venne così ideato l'accordo che è all'origine della crisi all'orizzonte. I diplomatici statunitensi avrebbero restituito lo "sceriffo" pentito non agli agenti di Bo Xilai, ma ai funzionari del governo di Pechino. In cambio avrebbero preteso però una deposizione e un faldone di documenti riservati che, oltre a risolvere l'omicidio Heywood, restituiscono un profilo esatto delle lotte dentro il partito comunista cinese e della corruzione politica che rischia di travolgerlo.
Fonti americane affermano inoltre che Londra era a conoscenza dell'omicidio già da novembre, all'indomani dell'improvvisa cremazione del suo uomo d'affari vicino ai servizi. E che la stessa Casa Bianca si sarebbe risolta a consegnare le prove dell'omicidio Heywood a Downing Street, facendo precipitare la posizione del "principe rosso" Bo Xilai, solo dopo il faccia a faccia tra Barack Obama e Xi Jinping. Non basta questo per concludere che la leadership riformista di Pechino si è vista costretta a chiedere la complicità di Usa e Gran Bretagna per fermare il ritorno del neo-maoismo in Cina, epurandone il profeta che minacciava di bloccare privatizzazionie aperture al mercato. Cresce però il fronte degli analisti che si domandano se il clan dei Bo sia l'unico corrotto tra i nuovi potenti della Cina, l'unico dentro il partito a ricorrere ad arresti, torture e omicidi per arrivare al vertice del partito, l'unico ad avere figli che viaggiano in fuoriserie e che se la spassano tra Europa e Stati Uniti.
Pechino ieri ha negato che la fine di Bo Xilai abbia origini politiche e ha promesso un'inchiesta «rapida e trasparente» sull'assassinio Heywood. Anche il Quotidiano del Popolo ha però ricordato le tre inevase domande essenziali. Perché realmente è stato posto in isolamento il primo e ucciso il secondo? Perché solo la defezione di Wang Lijun ha costretto Washington e Londra a invocare la verità? Perché paga solo il neomaoista Bo Xilai? Da queste riposte dipende il futuro della Cina, ma anche il destino del resto del mondo. SEGUE

Repubblica 19.4.12
Porsche, festini e belle donne
la dolce vita di Guagua ad Harvard
di Federico Rampini


NEW YORK La caduta del potente Bo Xilai "sfiora" perfino Barack Obama, getta nell'imbarazzo il Dipartimento di Stato, la destra americana vuole saperne di più sul ruolo avuto dall'ambasciata Usa di Pechino. Su Newsweek un celebre sceneggiatore di Broadway vede in questa storia un musical più affascinante di Evita, con tanto di donna-drago, la crudele assassina Gu Kailai nei panni della co-protagonista. New York Timese Wall Street Journal sbattono la storia in prima pagina da diversi giorni. L'America è ipnotizzata dal "thriller" cinese che di colpo mette a nudo i segreti di un regime impenetrabile, i vizi dell'oligarchia comunista più potente del mondo, insieme con una trama esotica di amori proibiti, lusso sfrenato, omicidi con avvelenamento. E spionaggio? Una coda dello scandalo lambisce perfino la reputazione della più prestigiosa università americana, Harvard. È in questa università di eccellenza, nella più esclusiva delle sue facoltà- la John Kennedy School of Government dove si applicano le teorie di management alla governance e all'amministrazione pubblica - che studia il figlio del deposto gerarca comunista.
A24 anni, Bo Guagua è su tutti i giornali e rotocalchi americani, fotografato in pose che non farebbero troppo scandalo se lui fosse un qualsiasi figlio di papà: lo si vede in party notturni, o al tavolo di lussuosi ristoranti, abbracciato da bionde avvenenti.
Ma Bo è "figlio di papà" in un paese dove quelli come lui li chiamano "principini", con un misto di invidia e di indignazione. La stampa comunista di Pechino si è impadronita delle sue gesta notturne - compreso quando ha «urinato su un recinto universitario», in stato di ubriachezza - e della sua pagina Facebook, come esempio di uno stile di vita decadente.
Il padre ha tentato di difendersi: «Non è vero che mio figlio gira in Ferrari, in quanto alla retta di Harvard non la pago io, perché si è meritato una borsa di studio». Già, 90.000 dollari l'anno è il costo complessivo per frequentare la School of Government, un po' troppo per lo stipendio ufficiale di un funzionario comunista, sia pure di alto grado. Sulla borsa di studio, le autorità accademiche di Harvard si chiudono in un silenzio imbarazzato. Rispetto della privacy, dicono. Aggiungono che nell'erogare borse agli studenti la super-facoltà adotta un approccio "olistico" che tiene conto non solo del talento accademico ma anche delle "potenzialità di leadership". Altrove questo approccio "olistico" si chiamerebbe opportunismo, o servilismo verso i rampolli di Vip stranieri che hanno delle "connection" da offrire.
In quanto alla Ferrari: per la precisione Bo Guagua la guidava a Pechino, la sera che andò a prelevare la figlia dell'ambasciatore americano per un appuntamento galante. A Harvard, dicono i suoi compagni, lo si vedeva al volante di una Porsche. Dettagli scomodi, nella posizione in cui si trova suo padre oggi. Tanto più che nella stessa Harvard ci sono altri "principini" cinesi che hanno un profilo più basso. La più importante è Xi Mingze, la figlia di Xi Jinping che alla fine di quest'anno salirà al trono della Cina comunista, sostituendo l'attuale leader Hu Jintao nelle massime cariche del paese. La ragazza è decisamente più prudente: usa quasi sempre un falso nome. E non ha mai avuto una pagina su Facebook. Harvard è solo una parte della "connection americana" nel più grave scandalo cinese da molti decenni. In realtà tutto "il caso Bo Xilai" diventa visibile solo quando, il 6 febbraio scorso, il consolato Usa di Chengdu nella provincia del Sichuan accoglie un "rifugiato politico" molto particolare.
A chiedere asilo ai diplomatici americani quel giorno è Wang Lijun, vicesindaco della megalopoli di Chongqing ed ex braccio destro di Bo Xilai che all'epoca è ancora (o sembra essere) all'apice della sua potenza. Wang è soprattutto il vero capo della polizia di Chongqing, l'uomo che per anni ha assecondato Bo nei suoi metodi feroci per la scalata a potere e ricchezza: arresti arbitrari, violenze poliziesche, ricatti ed estorsioni contro i capitalisti locali o gli avversari politici. Ma quel che accadde "dentro" il consolato Usa di Chengdu, è un mistero che appassiona gli americani e si trasforma in una controversia politica. Perché il consolato il 6 febbraio avvertì immediatamente l'ambasciata a Pechino; e da lì la vicenda fu riferita alla Casa Bianca.
Dunque Obama sapeva. Al Congresso di Washington è stato paragonato al film di fanta-spionaggio Bourne Supremacy. I repubblicani ora incalzano: «Perché Wang fu riconsegnato alla polizia cinese? Quali informazioni poteva fornire agli Stati Uniti sulle lotte al vertice del regime di Pechino? Quali passi sono stati compiuti, oppure omessi, per meglio tutelare la sicurezza degli Stati Uniti e anche l'incolumità di Wang? ». Sono domande contenute nell'interrogazione di Ileana Ros-Lehtinen, la potente deputata repubblicana della Florida che presiede la commissione Esteri della Camera. Domande rivolte a Hillary Clinton. Il segretario di Stato finora ha evitato di rispondere. Ad accrescere l'imbarazzo c'è una coincidenza di date: quel 6 febbraio in cui il superpoliziotto Wang andò a consegnarsi alla diplomazia americana, mancava solo una settimana alla visita di Stato del futuro numero uno cinese a Washington, Xi Jinping. La destra Usa insinua che Obama avrebbe "svenduto" un disertore di altissimo rango e di interesse strategico per gli americani, al fine di non compromettere il summit con Xi. La diplomazia Usa lascia filtrare una versione diversa: Wang in realtà non puntava a essere estradato negli Stati Uniti bensì voleva arrendersi alla polizia centrale di Pechino. Altrimenti sarebbe finito nelle mani degli agenti fedeli a Bo e alla diabolica consorte. E rischiava di fare la stessa fine del businessman inglese Neil Heywood: l'ex amante che la First Lady di Chongqing avrebbe fatto uccidere da un domestico col veleno. A proposito: Heywood fu anche l'uomo chiave per le "promozioni" accademiche del figlio... «Madame Butterfly si mescola con Agatha Christie: è una trama stupenda»: lo sceneggiatore David Henry Hwang, unico sino-americano che ha sfondato a Broadway, si dice pronto a portare questa storia sulle scene. "Stranger than Fiction", intitola Newsweek, la fantasia narrativa fatica a tenere il passo con il ritmo di questi colpi di scena.

Corriere della Sera 19.4.12
Reticenza sulla strage di Katyn:  un filo (del Kgb) che arriva a Putin
di Luigi Ippolito


I conti con la Storia, la Russia di Vladimir Putin non riesce proprio a farli. O piuttosto non vuole. Neanche quando si tratta di riconoscere la realtà incontestabile dei crimini staliniani. Lo ha dovuto constatare la Corte europea dei diritti dell'uomo, cui si erano appellati quindici parenti delle vittime del massacro di Katyn. La strage commessa nella primavera del 1940 dai servizi segreti sovietici grava come una ferita mai rimarginata sulla memoria collettiva polacca: 22 mila ufficiali delle forze armate di Varsavia vennero trucidati su ordine di Stalin, con l'obiettivo di sradicare l'intera classe dirigente del Paese tradizionalmente nemico della Grande Russia.
«La Corte è colpita dall'evidente reticenza delle autorità russe ad ammettere la realtà del massacro di Katyn», si legge nella sentenza, nella quale pur tuttavia si riconosce la mancanza di competenza della Corte stessa a giudicare se Mosca abbia violato la Convenzione sui diritti dell'uomo quanto all'obbligo di indagare sulla perdita di vite umane. «L'approccio scelto dalla giurisdizione militare russa — prosegue la sentenza — che consiste nel sostenere, a dispetto dei fatti storici accertati, che i parenti dei richiedenti si sono in qualche modo volatilizzati nei campi sovietici, attesta un tentativo deliberato di gettare confusione sulle circostanze che hanno condotto al massacro di Katyn».
D'altra parte c'è della logica in questa cocciutaggine: basti pensare che a Mosca stanno considerando di rimettere sul suo piedistallo, nella piazza della Lubjanka, la statua di Feliks Dzerzhinskij, il famigerato fondatore della Ceka, la polizia segreta progenitrice del Kgb. Statua che era stata abbattuta dalla folla nell'agosto del 1991, durante i moti che portarono alla caduta del comunismo.
Il filo che lega questi fatti è proprio l'uomo che è stato appena rieletto al vertice del Cremlino: Putin, a sua volta uscito dai ranghi del Kgb. Come dicono tuttora a Mosca gli agenti quando parlano di sé: una volta cekista, cekista per sempre.

Sette del Corriere della Sera 19.4.12
Tutti pazzi per Gramsci
Mai visto un revival così
di Enrico Mannucci

qui

Corriere della Sera 19.4.12
Il relativismo contemporaneo filosofia inevitabile e virtuosa
«Non esiste un principio etico razionale che valga più di altri»
di Dario Antiseri


«Nel campo di coloro che cercano la verità non esiste nessuna autorità umana e chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli dèi». È questo il messaggio epistemologico di Albert Einstein. Lo stesso di quello di Karl Popper: «Tutta la nostra conoscenza rimane fallibile, congetturale. Il vecchio ideale scientifico dell'episteme — della conoscenza assolutamente certa, dimostrabile — si è rivelato un idolo. L'esigenza dell'oggettività scientifica rende ineluttabile che ogni asserzione della scienza rimanga necessariamente e per sempre allo stato di tentativo. Non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l'uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente e inquieta della verità». Tutta la ricerca scientifica, in qualsiasi ambito essa venga praticata — in fisica e in economia, in biologia e in storiografia, in chimica come nella critica testuale — si risolve in tentativi di soluzione di problemi, tramite la proposta di ipotesi o teorie da sottoporre ai più severi controlli al fine di vedere se esse sono false. Cerchiamo, insomma, di falsificare, dimostrare false le nostre congetture per sostituirle, se ci riusciamo, con teorie migliori, vale a dire più ricche di contenuto esplicativo e previsivo. Ciò nella consapevolezza che, per motivi logici, non ci è possibile dimostrare vera, assolutamente vera, nessuna teoria: anche la teoria meglio consolidata resta sempre sotto assedio.
La realtà è che evitare l'errore è un ideale meschino; se ci confrontiamo con problemi difficili è facile che sbaglieremo; conseguentemente, razionale non è un uomo che voglia avere ragione, ma è piuttosto un uomo che vuole imparare: imparare dai propri errori e da quelli altrui. Ancora Popper: l'errore commesso, individuato ed eliminato è il debole segnale rosso che ci permette di venir fuori dalla caverna della nostra ignoranza. Dunque, nello sviluppo della ricerca scientifica, non ogni teoria vale l'altra e, di volta in volta, accettiamo quella teoria che ha meglio resistito agli assalti della critica. Il fallibilismo, in breve, è la via aurea che, in ambito scientifico, consente di evitare sia il dogmatismo sia l'arbitrio soggettivistico.
Ora, la storia delle vicende umane, come anche la realtà dei nostri giorni, ci mostra una Terra inzuppata di sangue versato in nome di concezioni etiche legate a differenti prospettive filosofiche e religiose. Partendo dall'esperienza, ripete Max Weber con John Stuart Mill, si giunge al politeismo dei valori. E con ciò siamo nel mezzo delle questioni connesse al relativismo etico. Certo, è falso sostenere che tutte le etiche sono uguali. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è un principio ben diverso da quello dove si grida «occhio per occhio dente per dente», o da quello leninista per cui «la morale è in tutto e per tutto soggetta agli interessi della lotta di classe del proletariato», talché «non bisogna accarezzare la testa di nessuno: potrebbero morderti la mano. Bisogna colpirli sulla testa senza pietà».
Dunque, tutte le etiche sono diverse, ma ce n'è una migliore delle altre? C'è, insomma, un qualche principio etico che, razionalmente fondato, possa valere erga omnes? Si tratta di un'inevitabile domanda che, tuttavia, non pare possa avere una risposta positiva. Simile risposta positiva non può darsi se vale quella che si chiama «legge di Hume», la quale stabilisce l'impossibilità logica di dedurre asserti prescrittivi da asserti descrittivi. È questa, per usare un'espressione di Norberto Bobbio, una legge di morte per ogni tentativo di giustificazione razionale di qualsiasi sistema etico. La scienza sa, l'etica valuta. Molto può fare la ragione nell'etica, ma la cosa più importante che essa può fare in ambito etico sta nel farci comprendere che l'etica non è scienza. Esistono spiegazioni scientifiche e valutazioni etiche: non esistono spiegazioni etiche. Da tutta la scienza non è estraibile un grammo di morale. I princìpi etici si fondano su scelte di coscienza e non sulla scienza. Pluralismo di valori, dunque scelta; scelta, dunque libertà; libertà dunque responsabilità. Inevitabile la scelta, perché inevitabile il relativismo inteso esattamente quale esito della non fondabilità razionale di qualsiasi principio etico. In un simile orizzonte la «legge di Hume» si configura come la base logica della libertà di coscienza, mentre la presunzione di essere in possesso di fundamenta inconcusse del proprio sistema etico genera facilmente fondamentalisti inquisitori, i quali si sentiranno divorati dallo zelo di imporre agli altri il «Vero» e il «Bene», magari a costo di lacrime e sangue. È davvero difficile dar torto a Hans Kelsen quando scrive che «il relativismo è quella concezione del mondo che l'idea democratica suppone». E non va dimenticato che la società aperta è aperta al maggior numero di idee e ideali diversi e magari contrastanti, ma che è, appunto, aperta e non spalancata; essa, pena il suo autodissolvimento, è chiusa a tutti gli intolleranti e ai violenti — animata, come è, da quel decreto umanitario che stabilisce che «non c'è nessun uomo che sia più importante di un altro uomo». Ma, e qui l'interrogativo si impone, che cosa sarebbe questa nostra «cum-scientia» umanitaria, che cosa sarebbe in altri termini l'Occidente senza il messaggio cristiano? E se da un punto di vista fattuale appare inconsistente la posizione di quanti sostengono che del fiume della nostra storia il cristianesimo sarebbe nulla più che un affluente insignificante e non una sua poderosa sorgente, sorprende l'insistenza di tanti intellettuali cattolici i quali pensano che sia la ragione, al di fuori della Rivelazione, a stabilire, in maniera ultima e definitiva, ciò che è Bene e ciò che è Male. Ma quale ragione, la ragione di chi, è in grado di approdare a simili «assoluti terrestri»? Non è questa una forma di neopelagianesimo, dove il messaggio di Cristo viene trasformato, dal più al meno, in uno strofinaccio dell'argenteria di Aristotele, di Grozio o di Locke?
Blaise Pascal: «Nulla in base alla pura ragione è di per sé giusto, tutto muta col tempo» — e tutti i nostri «lumi» potranno solo farci conoscere che «noi non troveremo né la verità né il bene». E, allora, Pascal è un «fideista» perché disprezza la ragione o è un iper-razionalista consapevole dei limiti della ragione? E non è proprio in un mondo lacerato dalla disperazione, alla ricerca di un bene o senso assoluto non costruibile da mani umane, che risplende il messaggio cristiano nel suo più profondo significato sia esistenziale che politico per la storia dell'Occidente? D'altro canto, per il cristiano solo Dio è assoluto e tutto ciò che è umano è storico, contestabile, perfettibile, insomma non assoluto. La fede cristiana — che, essendo appunto fede, viene abbracciata e va testimoniata, proposta e non imposta — libera l'uomo dall'idolatria, anche dall'idolatria di una ragione concepita come Dea-Ragione. La ragione non è quella prostituta di cui parla Lutero, ma non è nemmeno quella dea davanti alla quale seguitano a inginocchiarsi i seguaci — laici e cattolici — delle svariate forme di fondamentalismo razionalistico. La ragione, piuttosto, è una preziosa lanterna, da tenere sempre accesa, necessaria per la correzione dei nostri errori; indispensabile perché le nostre scelte vengano compiute a occhi aperti, vale a dire con l'intelligenza delle loro conseguenze; e capace di scrutare quei limiti di se stessa, senza la cui consapevolezza popoleremmo la Terra, come insegnano tragiche esperienze del passato e del presente, di idoli mostruosi assetati di sangue.

Corriere della Sera 19.4.12
Testimoni e vittime dei crimini di guerra come capirli e come punirli per legge
di Giusi Fasano


Crimini di guerra in Italia. Echi di drammi lontani, ferite che non hanno mai smesso di sanguinare nella vita di chi è sopravvissuto. Raccontarli, ricostruirli per imbastire un processo, è una strada in salita, sempre più in salita man mano che ci si avvicina ai protagonisti, ai documenti, ai segreti.
E poi ci sono i testimoni che nove volte su dieci sono anche vittime: raccontano storie che hanno più di sessant'anni, hanno desideri di giustizia ma anche di rivincita contro i pochi e vecchi «nemici» rimasti. E devono essere risarciti, quei testimoni. Come se fosse possibile risarcire lo sterminio di comunità intere... Sono storie tanto lontane quanto complicate da riscrivere, con i loro mille dettagli da leggere alla luce del diritto internazionale e umanitario.
Ecco. Di tutto questo parla La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia. Questioni preliminari (G. Giappichelli editore, pagine 320, 25), un libro scritto da tre autori che hanno costruito la loro vita e le loro professioni su questi argomenti.
Marco De Paolis è uno di loro. È il magistrato che dirige la Procura militare di Roma e che è stato pubblico ministero nei processi per le stragi nazifasciste di Sant'Anna di Stazzema, Monte Sole-Marzabotto, Fucecchio, Cefalonia... Silvia Buzzelli, docente di procedura penale europea e sovranazionale all'Università milanese della Bicocca, è un'esperta della procedura penale europea. E infine Andrea Speranzoni, avvocato del Foro di Bologna, specializzato in diritto penale militare e nella difesa delle parti civili dei processi contro gli autori delle stragi nazifasciste. «Tragedie immani» per dirla con le parole di De Paolis «che superano ogni possibile umana comprensione e che lasciano il segno anche dopo più di sessant'anni».

Corriere della Sera 19.4.12
Non confondere liberali con liberisti
di Gianfranco Pasquino


Esiste una concezione minimalista delle democrazie liberal-costituzionali: elezioni libere, diritti politici, governi che si formano e cambiano in Parlamento, luogo nel quale si esprime la sovranità popolare. Se coloro che si dichiarano liberali, in Italia, conoscessero anche soltanto questo essenziale principio, si risparmierebbero gli strafalcioni nei quali incorre furiosamente Piero Ostellino (Corriere della sera del 16 aprile). Alquanto ritrita e del tutto sbagliata è la tiritera sul governo Berlusconi eletto dal popolo, il quale, al massimo — e i liberali dovrebbero esserne preoccupati e combattere una vigorosa battaglia per la riforma elettorale — aveva messo una crocetta sul simbolo di un partito. Un po' poco per esprimere la sovranità popolare: peccato che Ostellino non se ne sia accorto.
Dovendo scegliere non ho nessun dubbio da che parte stare. Le cronache della politica nazionale le leggo sul Corriere. La mia parte politica alla quale Ostellino nella sua furia cieca attribuisce le mie elaborazioni che hanno, invece, fondamento in quella conoscenza comparata dei sistemi politici che a lui manca del tutto, sono chiaramente le socialdemocrazie nordiche. Poiché il liberalismo non va affatto confuso con il liberismo, le socialdemocrazie nordiche sono, dal punto di vista delle loro istituzioni, democrazie liberal-costituzionali. Il loro grande apporto è stato quello di combinare le politiche economiche del liberale Keynes con elementi di welfare anch'essi di solida impronta liberale. È il liberalismo del filosofo politico John Rawls. Purtroppo, Ostellino non è riuscito ad andare oltre la mia introduzione. Difficile negare che la «società giusta» di Rawls sia l'esito che le istituzioni liberali intendono produrre. Facile, invece, spiegare perché i liberali italiani siano quattro gatti senza collare (qualcuno anche senza pudore). Troppi fra loro credono che essere antisocialisti sia sufficiente per definirsi liberali. Anche i conservatori e i reazionari sono antisocialisti ma questo non serve loro per comprarsi il biglietto d'ingresso nel giardino del liberalismo politico e del costituzionalismo. Poiché i liberali sanno che «provando» si può anche sbagliare e che la storia impartisce dure repliche, concluderò suggerendo a Ostellino di «provarci» ancora a confutare il liberalismo dei liberali classici da Montesquieu a Kant, da Tocqueville a Mill, magari dopo avere letto anche soltanto gli articoli loro dedicati da Paradoxa.
Professore di Scienza politica all'Università di Bologna

Repubblica 19.4.12
Un intervento al convegno in corso a Firenze sull'importanza della bellezza
Perché la scienza ha bisogno di estetica
di Massimiano Bucchi


Quasi trent'anni fa la Royal Society lanciò uno storico grido d'allarme. Con il "rapporto Bodmer" (dal nome del genetista che lo coordinò) metteva in guardia da un potenziale deterioramento nei rapporti tra scienza e opinione pubblica, sostenendo la necessità di incentivare "una migliore comprensione della scienza come fattore significativo di promozione del benessere della nazione, elevando la qualità delle decisioni pubblichee private". La conclusione era che "gli scienziati devono imparare a comunicare con il pubblico e a considerare questa attività un proprio dovere".
In un certo senso l'allarme della Royal Society si è rivelato profetico: negli anni successivi infatti numerose questioni e discussioni - dall'energia nucleare agli Ogm, dalla mucca pazza agli animali clonati - hanno segnato in modo i critico i rapporti tra scienza, tecnologia e società.
D'altra parte, è indubbio che da allora le iniziative di comunicazione pubblica, soprattutto da parte delle istituzioni di ricerca, siano cresciute in quantità e varietà: giornate a porte aperte, incontri con i giornalisti, caffè scientifici e festival della scienza. Il risultato più importante, nel complesso, è forse la presa di coscienza, da parte dei ricercatori e delle loro istituzioni, dell'importanza di stabilire con la società un dialogo vero.
Oggi, tuttavia, si apre una sfida diversa, quella della qualità. Bisogna infatti superare una fase 'eroica' in cui tutto andava bene purché fosse nel nome della comunicazione della scienzae della visibilità dei suoi protagonisti. Una fase in cui la scoperta di nuove forme comunicative portava a mettere in secondo piano la chiarezza degli obiettivi e la valutazione dei risultati.
Ma come definire la qualità? O più pragmaticamente, come distinguere la 'buona' comunicazione della scienza da quella 'cattiva'o semplicemente più scadente? In passato si è molto discusso della possibilità di 'regolamentare' la comunicazione della scienza. Negli anni Settanta, la proposta di una sorta di 'tribunale scientifico' in grado di filtrare e certificare i pareri scientifici ad uso di decisori politici e cittadini ricevette il sostegno della Presidenza degli Stati Uniti, ma finì per essere abbandonata anche in seguito a numerose critiche. In modo più pragmatico, il problema della qualità era tradizionalmente risolto perlopiù affidandosi a mediatori dall'elevata reputazione: testate e divulgatori prestigiosi che si facevano garanti della qualità dei contenuti. Oggi, in un contesto di accesso diffuso e proliferazione di contenuti e fonti, questo ruolo di mediazione e garanzia è sempre più messo in discussione; il concetto stesso di responsabilità, centrato sul singolo comunicatore, è spiazzato dalle logiche e tecnologie comunicative contemporanee.
Diventa così necessaria una visione più ampia della comunicazione della scienza: non più solo strumento tecnocratico, legato a un'interpretazione riduttiva della scienza come mero impulso all'innovazione e allo sviluppo economico; ma orientata a un maturo riconoscimento della scienza come parte integrante della cultura. In una simile visione, i criteri estetici e quelli sostanziali, bellezza e accuratezza, dimensione umanistica e scientifica trovano nuova e compiuta intersezione.
Un'intersezione che ha peraltro le proprie radici negli stessi stili espositivi dei grandi scienziati. Quando divenne membro dell'Académie Française nel 1753, il naturalista Buffon sorprese l'uditorio. Non parlò dei suoi celebri studi su animali o minerali, come tutti si aspettavano, ma di stile. Il suo Discorso sullo stile ebbe enorme successo e divenne un punto di riferimento per gli studenti francesi. Buffon vi sostenne che solo lo stile poteva rendere durevole e pienamente comunicabile la conoscenza scientifica, a dispetto dell'inevitabile obsolescenza dei suoi contenuti.
"Queste cose [le nozioni, i fatti, le scoperte] sono esterne all'uomo, lo stile è l'uomo stesso". (L'autore è tra i partecipanti al convegno Qualità, onestà e bellezza nella comunicazione della scienza. Il programma è disponibile su pcst2012.org)