sabato 21 aprile 2012

l’Unità 21.4.12
La sfida democratica è uscire dal leaderismo
La caduta di Berlusconi e Bossi segnala il fallimento della forzatura bipolarista, dove l’enfasi sulla decisione legittima l’eclisse dei controlli
di Stefano Rodotà


Caro direttore, con l’abituale sua nettezza, di cui sempre dobbiamo essergli grati, Alfredo Reichlin solleva la questione dell’attacco ai partiti e, in sostanza, della stessa sopravvivenza della democrazia in Italia (e non solo, visto che giustamente volge lo sguardo ad una crisi assai più generale).
E scrive che «non si può sfuggire alla necessità di tornare a dare alla sinistra quella ragione storica che è la sua e che non può che consistere in una critica di fondo degli assetti attuali del mondo». Proprio da qui bisogna partire, e proprio qui è la difficoltà, perché questo indispensabile rinnovamento culturale e politico deve avvenire in un tempo che pone scadenze così pressanti da schiacciare tutti sul brevissimo periodo.
Vivo con la sua stessa angoscia lo stillicidio quotidiano delle notizie sui fatti di corruzione, un terribile bollettino di una guerra che rischia d’essere perduta non da corrotti e corruttori, ma proprio da chi è rimasto estraneo a queste pratiche. Questo è l’esito d’una saldatura tra decomposizione morale e destrutturazione del sistema politico. Era già avvenuto. Mani pulite venne dopo una stagione all’insegna dell’«arricchitevi» e della «Milano da bere», scambiati per tratti liberatori d’una nuova modernità che tutto consentiva e che, quindi, aveva bisogno di sottrarsi al vincolo della legalità, come puntualmente avveniva nelle aule parlamentari con il rifiuto delle autorizzazioni a procedere contro quelli che le vicende successive avrebbero rivelato responsabili della corruzione.
Dobbiamo chiederci perché, con il passare degli anni, quel fenomeno, lungi dallo scomparire e dall’essere ridimensionato, si sia poi ingigantito. La ragione è tutta politico-istituzionale, e richiederebbe una analisi di dettaglio che qui appena accenno. La caduta di Berlusconi e di Bossi non ci parla di fallimenti personali, ma è la rivelazione del fallimento del modello che ha accompagnato gli ultimi venti anni, fondato sulla forzatura bipolarista, la democrazia d’investitura, l’accento sul bene della decisione
che ha legittimato l’eclisse dei controlli. Molti si stracciano le vesti di fronte alla possibilità che il bipolarismo si appanni. Ma in politica i modelli non si giudicano in astratto, ma valutandone gli effetti. Che sono davanti ai nostri occhi, e si chiamano personalizzazione estrema della politica, appannamento della rappresentanza, rafforzamento delle oligarchie, insignificanza della partecipazione delle persone.
Di fronte a tutto questo si avverte forte un bisogno di «diversità». Parola a molti sgradita, lo so. Ma io che mai sono stato iscritto al Pci, e con il quale tuttavia ho percorso un tratto significativo della mia vita continuo ad essere convinto che Enrico Berlinguer fosse stato lungimirante quando indicò nella questione morale un tema capitale per la politica. Una indicazione assolutamente realistica, come le vicende successive hanno dimostrato. E che, se pur voleva sottolineare una diversità del Pci, la traduceva in un di più di responsabilità che incombeva sul suo partito.
Proprio perché oggi il Pd ha più carte in regola di altri, su di esso incombe una responsabilità maggiore, non tanto per sottrarsi a un discredito generalizzato, ma soprattutto perché è politicamente essenziale la ricostruzione dello spirito pubblico, sulla cui mancanza l’antipolitica costruisce le sue fortune. Ma nella società non vi è solo antipolitica. Dico da tempo che è cresciuta un’«altra politica», di cui si possono discutere forme e contenuti, ma che è un fatto vitale di cui il Pd dovrebbe prendere piena consapevolezza senza restare prigioniero della vecchia diffidenza verso il movimentismo, che si rivela sempre di più come una mossa conservatrice. Bersani ha avuto il grande merito di schierare il Pd a favore dei referen-
dum dell’anno scorso, pur conoscendo le resistenze diffuse e «autorevoli» esistenti nel suo partito. Quel successo non è stato capitalizzato (anzi permangono incredibili resistenze contro l’attuazione del risultato riguardante l’acqua), noncisièresicontochelìviera uno spunto di critica degli «assetti attuali del mondo» ed una manifestazione di quelle soggettività politiche che si stanno costruendo, e con le quali un partito rinnovato deve intrattenere un rapporto, sia pure fortemente dialettico. Un nuovo blocco di forze è necessario, gli antichi steccati devono essere abbattuti. Tornano antiche parole con forza rinnovata. Che cos’è l’eguaglianza nel tempo della disuguaglianza strutturale? Che cos’è la libertà nel tempo della tecnoscienza? Che cos’è la dignità nel tempo della riduzione a merce di lavoratore e lavoro? Che cos’è la solidarietà nel tempo della negazione del legame sociale? Quale antropologia della persona si sta costruendo? Domande che la politica deve rivolgere a se stessa, pena la sua irrilevanza.
Tutto questo mi porta a ribadire quel che dico da sempre sull’indispensabile ruolo dei partiti nello spirito dell’articolo 49 della Costituzione e sulla necessità di risorse pubbliche per la politica, perché questa non sia consegnata ad una forza del denaro sempre più prepotente. Una rinnovata legittimazione del finanziamento pubblico viene oggi proprio dalla pervasività della logica economica, che vuole sottomettere la politica anche attraverso la sua dipendenza solo dal capitale privato, che è cosa assai diversa dalla buona contribuzione dei cittadini. Di nuovo, però, questo non può significare arroccamento intorno al presente stato delle cose. Anche una fase di transizione esige una diversa visione del contributo pubblico (ne ha discusso assai bene Gaetano Azzariti sul «Manifesto»). Le rendite di posizione sono finite, tutte. E proprio qui il Pd deve fare le sue prove.

l’Unità 21.4.12
Günter Grass e Israele
di Marco Rovelli


Sul sito di alfabeta2 (www.alfabeta2.it) ho scritto un pezzo sulla poesia di Günter Grass accusata di antisemitismo. Dove invece essa è un atto di accusa contro la politica del governo d’Israele. Oggi chiunque critichi le politiche di quel governo (e non certo gli ebrei!) viene periodicamente accusato di antisemitismo. Tra le altre cose, citavo una frase attribuita a Levi: «Ognuno è ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele» di cui Domenico Scarpa e Irene Soave sul Sole24 ore avevano dimostrato, a mia insaputa, che Levi non l’aveva mai pronunciata. Internet pone un problema quanto alle fonti: anch’io, che pure sono di formazione storica e le fonti dovrebbero essere un tic mentale, ho creduto a quell’attribuzione, e me ne scuso. La leggi tante volte, e lo dai per scontato. E dopo l’abitudine c’è la fretta, a compiere l’opera.
Però l’articolo di Scarpa e Soave che ripristina la verità non trae per me conclusioni corrette. Al contrario di quel che scrivono, il sillogismo la cui conclusione è «i palestinesi sono gli ebrei d’Israele» è pienamente legittimo, confrontando quell’assunto generale con quanto dice in un’intervista da essi stessi citata (i palestinesi sono «vittime» e «vittime di vicini troppo potenti») e sapendo appunto che Levi firmò appelli in favore dei palestinesi contro il colonialismo israeliano, e a favore del principio «due popoli due Stati» proprio quanto è oggi assolutamente intollerabile per il governo israeliano! Insomma, se Levi ha scritto che i polacchi erano stati gli ebrei dei russi, perché non dovrebbe essere parimenti consequenziale entro la grammatica mentale di Levi che i palestinesi sono gli ebrei d’Israele? Un altro ebreo, Franco Fortini, scrisse: «Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra politica israeliana e ebraismo».

Corriere 21.4.12
«Così Patrizio Peci ha ucciso mio padre un'altra volta»
La figlia di Roberto: non era terrorista, lo sta infangando
di Giovanni Bianconi


ROMA — In trent'anni l'ha visto un paio di volte, da bambina. Sempre di sfuggita, senza che si dicessero nulla di significativo. «Avrei voluto incontrarlo di nuovo, parlarci con calma. Non solo perché è sangue del mio sangue. Ma anche per conoscere meglio mio padre. Anche se lui è stato la causa della sua morte». Così diceva Roberta Peci, figlia di Roberto, il papà che non ha mai conosciuto, assassinato dalle Brigate rosse a 25 anni d'età il 3 agosto 1981, dopo 55 giorni di sequestro. Quattro mesi prima che nascesse sua figlia, che la madre volle chiamare come lui. Lo uccisero per reazione al «tradimento» di Patrizio, brigatista che dopo l'arresto decise di pentirsi facendo arrestare decine di ex compagni. L'uomo che Roberta voleva incontrare. «Adesso però non so più che cosa voglio — sostiene — perché le falsità che ha detto il fratello di mio padre sono gravissime, inqualificabili e inspiegabili. È come se l'avesse ucciso un'altra volta».
Lo sfogo di Roberta Peci segue l'intervista che il primo pentito nella storia delle Br ha rilasciato al settimanale Oggi. Nella quale l'ex-terrorista confessa di provare ancora rimorso per la morte del fratello («se avessi immaginato che finiva così avrei fatto i miei anni di carcere e Roberto non lo avrei sulla coscienza»), e poi afferma: «Roberto era buonissimo, ma è sempre stato d'accordo con tutte le mie scelte. Prima la contestazione, poi la lotta armata e infine la dissociazione». E su Roberta: «Non sa niente, non è vero quello che le hanno fatto credere, non è vero che c'è stato un fratello infame e uno buono, Caino e Abele. Sono pronto a spiegarle tutto e le dico: incontriamoci, saprai e capirai».
Roberta Peci s'infervora: «Ora chiede d'incontrarmi? Attraverso un'intervista? Perché in trent'anni non s'è mai fatto vivo? Sapeva benissimo dove stavamo, io e mia madre: a San Benedetto del Tronto, da dove lui è fuggito per andare in clandestinità e dove le Br hanno rapito mio padre. Da libero c'è tornato tante volte, poteva cercarci e parlarci quando voleva. Perché si sveglia ora? E perché dice quelle falsità sul conto di mio padre?».
La figlia di Roberto Peci fa fatica a chiamare Patrizio «zio». Dice sempre «fratello di mio padre», quasi a certificare un distacco che in questi anni s'è allargato e adesso sembra incolmabile: «Praticamente lo paragona a un brigatista, dopo che l'anno scorso siamo finalmente riusciti a fargli intitolare una strada (quella in cui i brigatisti lo rapirono, ndr). Ma mio padre non era un terrorista, è stato solo una vittima, e suo fratello lo sa bene. Si guadagnava il pane montando antenne per la tv, non andava in giro ad ammazzare le persone come lui. S'era sposato, il giorno in cui l'hanno sequestrato era il primo anniversario di matrimonio, aveva concepito una figlia. Non c'è bisogno che ora arrivi suo fratello a spiegarmi chi era. Ci hanno già pensato mia madre e le altre persone che gli hanno voluto bene».
Roberta Peci sa che anche suo padre fu un estremista, e partecipò all'azione armata contro la Confapi di Ancona nel 1976, insieme al fratello: «Glielo chiese lui, per sostituire una persona che s'era ammalata, e mio padre accettò. Lo arrestarono e ha pagato, ma poi basta. Patrizio divenne latitante dopo la scoperta delle armi che aveva nascosto a casa di un amico del nonno. Scappò all'improvviso, quale decisione può aver preso con mio padre, che per quelle armi fu arrestato e subito rilasciato perché riconosciuto estraneo? Io so che mia nonna implorava Patrizio di lasciar stare il fratello, che non c'entrava niente e rischiava di pagare per le sue scelte. Com'è avvenuto fino alla fine».
Anche Patrizio Peci si sente responsabile della morte di Roberto, e forse è l'unico punto su cui la nipote è d'accordo: «Se lui non si pentiva e si faceva la galera come tanti altri, mio padre sarebbe vivo, questo è certo. Ed è l'unica verità. A che serve infangarlo ora, dopo che io e mia madre abbiamo tanto lottato per restituirgli la dignità di vittima del terrorismo? E così le mie zie? Non hanno niente da dire, loro, a quest'uomo riemerso per dire falsità sul conto del fratello ammazzato per causa sua?». È una storia drammatica e crudele, quella dei fratelli Peci, che sembra volgere verso un epilogo amaro. Ma Roberta è decisa: «È inutile che tiri in ballo Caino e Abele. Non c'è un fratello buono e uno cattivo, è vero: ce n'è uno vivo e uno morto. Uno libero che ha potuto crescere suo figlio e uno sottoterra, che sua figlia non l'ha mai conosciuta. Perché i brigatisti l'hanno ucciso facendogli pagare il pentimento del fratello. Oggi quel fratello lo accomuna a sé, ed è un comportamento peggiore di quello che tenne trent'anni fa. Allora poteva essere inconsapevole delle conseguenze, oggi invece sa bene di dire bugie e di sporcarne la memoria. Vorrei sapere perché, ma sono sicura che non sarà lui a dirmelo».

Repubblica 21.4.12
Una nuova edizione del "De officiis", opera del celebre autore latino
Così Cicerone inventò Il concetto di "Persona"
L´idea che la vita politica assomigli a una rappresentazione teatrale in cui bisogna interpretare un ruolo che tenga in equilibrio le esigenze individuali e quelle pubbliche
di Maurizio Bettini


Come si concilia l´utile con l´onesto? O più semplicemente, "che cosa è giusto fare"? È questa la domanda che Cicerone si pose al termine della propria vita, indirizzando al figlio un´opera destinata a diventare un vero e proprio cardine della morale europea: il De officiis. Una domanda fondamentale, la cui risposta riguarda direttamente i compiti e le prerogative dell´uomo in quanto essere sociale – per non parlare di chi ha in mano il governo della città. Del resto, per rendersi conto di come la vita pubblica possa essere avvilita, umiliata, se chi l´amministra smette di porsi questa domanda – come conciliare l´utile con l´onesto? – basta osservare ciò che sta accadendo nel nostro paese, anche in questi giorni. Il De officiis di Cicerone apparterrebbe dunque al genere dei classici attuali? Certo, e oggi lo è più che mai.
Siamo tra il settembre e il novembre del 44 a. C. Roma è insanguinata dalle lotte civili, Cicerone è impegnato nelle Filippiche e solo un anno dopo, nel dicembre del 43, offrirà spontaneamente la testa ai sicari di Antonio. È questo il clima di tumulto all´interno del quale egli scrive il De officiis, sulla falsariga di un´opera composta dal filosofo stoico Panezio. Difficile tradurre in italiano questo titolo, del resto non era stato facile sceglierlo neppure per il suo autore. Il testo greco si intitolava Perì tou kathékontos, ossia (all´incirca) "Su ciò che è conveniente": ma la parola kathékon, scriveva dubbioso Cicerone all´amico Attico, si può tradurre con officium? Attico non aveva avuto dubbi, officium era la parola giusta, e l´Arpinate aveva proceduto di conseguenza. Di solito, chi traduce in italiano si accontenta di rendere De officiis con "Sui doveri", ma Rita Marchese e Giusto Picone – nell´ottima edizione di quest´opera appena uscita per la Nuova Nue di Einaudi – hanno optato per un esplicito "Quel che è giusto fare". Parafrasi eccellente, perché l´officium dei Romani è una categoria pratica, che punta alle azioni: non designa un obbligo astratto, un rigore interiore o uno scrupolo individuale, ma un dovere sociale.
Come Picone mette in evidenza nella sua lucida introduzione, la complessa articolazione del pensiero morale di Cicerone si focalizza su una categoria ugualmente romana: il decorum. Con questo termine si designa ciò che è conveniente, ciò che risulta appropriato per ciascuno quando è in gioco il suo comportamento. Sì, ma in che senso "appropriato"? Per spiegarlo Cicerone ricorre a una metafora di grande efficacia. «Bisogna capire», scrive infatti, «che la natura ci ha dotati di due personae», ossia di due "maschere": una ci rappresenta genericamente come esseri umani, dotati cioè di ragione; l´altra invece come singoli, ciascuno con le proprie inclinazioni e il proprio carattere. Come se non bastasse, a queste personae se ne aggiungono altre due: la prima che ci deriva dal tempo e dalle circostanze, perché si può nascere nobili o umili, ricchi o poveri; la seconda invece è la maschera che indossiamo volontariamente, in base alla nostra scelta individuale: ed è per questo che ci dedichiamo chi a un´attività, chi a un´altra.
Sotto i nostri occhi vediamo dunque nascere una nozione, e una parola, destinate ad avere enorme importanza nella cultura posteriore: "persona". Persona nel senso di soggetto umano e sociale, dotato di una sua propria "personalità", come ancora oggi diciamo; e insieme figura giocata all´interno di tutti quei ruoli, pubblici e privati, che fanno di ciascuno di noi un´entità così complessa. L´idea che sta alla radice di questa scelta metaforica, da parte di Cicerone, è evidentemente la seguente: la vita all´interno di una comunità rassomiglia a una rappresentazione teatrale, in cui ciascuno recita una parte corrispondente al ruolo che gli è stato assegnato. Salvo che, a differenza dell´attore che in teatro indossa la persona del vecchio avaro, o quella del giovane innamorato, il cittadino che "recita" sulla scena della propria comunità ha a disposizione non una sola maschera, e sempre la stessa, ma ben quattro.
Ed eccoci di nuovo al punto: il decorum, ciò che "appropriato" a ciascuno, si colloca precisamente nel luogo in cui queste quattro personae si incontrano. Ciò che conviene lo si realizza appieno solo al momento in cui ci si comporta in modo tale da non compromettere nessuno dei quattro ruoli che siamo chiamati a interpretare. Con una postilla, però, che la drammatica attualità del De officiis ci invita a registrare: «chi ha incarichi pubblici», continuava infatti Cicerone, «deve capire che indossa direttamente la persona della città. Egli è perciò obbligato a sostenerne l´onore e la dignità, preservandone le leggi, né può scordarsi di ciò che è affidato alla sua credibilità».

venerdì 20 aprile 2012

l’Unità 20.4.12
L’incontro dei partiti socialisti e democratici di tutti i continenti: «Riscriviamo il mondo»
D’Alema: «L’Europa epicentro della crisi». Bersani: «Ora paghi anche la finanza»
Progressisti a Roma «Senza alternativa democrazia a rischio»
I leader parlamentari delle forze progressiste di tutto il mondo a Roma per un convegno organizzato dal Pd. Tra gli obiettivi l’integrazione dell’Ue. Eurobond e tassazione sulle transazioni finanziarie tra le proposte
di Simone Collini


Se le forze progressiste non rilanciano l’obiettivo dell’unità politica dell’Europa, se non si impegnano ad affiancare al rigore di bilancio concrete misure per la crescita, se non lavorano tutte insieme per costruire un’alternativa alle politiche delle destre, a rischiare non saranno solo i partiti ma lo stesso sistema democratico. Mentre in Aula si vota la fiducia al governo e il decreto sulla semplificazione fiscale, al primo piano di Montecitorio i vertici del Pd discutono insieme ai leader parlamentari progressisti provenienti dai cinque continenti di un argomento piuttosto ambizioso: «Rewrite the world», riscrivere il mondo.
Per tutta la giornata esponenti dei partiti socialisti, progressisti e democratici provenienti dall’Australia e dalle Americhe, dall’Asia e da quasi tutti i paesi europei hanno parlato della crisi economica in atto e di come il vecchio continente si sia mostrato non solo incapace di affrontare l’emergenza ma anche un freno per le altre democrazie.
Se è vero, come dice Rosy Bindi aprendo i lavori, che «le risposte nazionali si sono rivelate insufficienti» è anche vero, come sottolinea il responsabile Esteri del Pd Lapo Pistelli, che la «mancanza di un’unione politica in Europa» ha una rilevante responsabilità in quanto sta avvenendo. Dice anzi Massimo D’Alema che l’Ue è «l’epicentro» di questa crisi, il «peso morto» in un mondo, in gran parte governato da forze progressiste, che si dà da fare per andare verso una ripresa economica. Al punto che «sulla strada della rielezione di Obama c’è l’ostacolo Europa». E sta alle forze progressiste rimuoverlo. «Noi abbiamo la responsabilità di costruire un’alternativa a questa situazione dice D’Alema qui in veste di presidente della Fondazione per gli studi progressisti europei un’alternativa, che non può che avere una dimensione europea, alle destre populiste, nazionaliste, conservatrici e monetariste, che hanno colto le paure e gli umori degli europei ma non hanno una strategia per il futuro».
Il concetto che viene sottolineato in tutti gli interventi è che la disciplina di bilancio non può da sola superare la crisi, che servono misure per la crescita e per una maggiore integrazione dell’Europa (il vicepresidente dei deputati Pd Alessandro Maran parla della necessità di un candidato alla presidenza dell’Ue scelto da tutti i progressisti), che la finanza e in particolare chi ha speculato sulle debolezze dell’Ue deve pagare una quota per il risanamento. Tra le proposte che vengono rilanciate da un po’ tutti i leader progressisti ci sono gli Eurobond e la tassazione sulle transazioni finanziarie. Perché, come dice Pier Luigi Bersani chiudendo i lavori, «il costo della crisi non può pagarlo tutto il lavoro e il welfare, un po’ deve pagarlo la finanza».
ATTENZIONE AL POPULISMO
Il leader del Pd mette in guardia dai «populismi in cerca d’autore» presenti in Italia e pronti a speculare sul momento difficile che stiamo attraversando, e sottolinea che oggi «il tema principale è la questione economica e sociale ed è qui che i progressisti devono dire la loro e proporre ricette che diano speranza, fiducia e prospettiva».
Un punto su cui insiste in particolare D’Alema, dicendo che se i progressisti non costruiranno un’alternativa, ora che sembra che la volontà dei mercati si sia sostituita alla volontà popolare, «a rischiare non saranno i partiti, come potrebbe sembrare dal dibattito italiano, ma la democrazia stessa»: «Se il governo deve fare presto ciò che chiede l’economia non servono i governi, servono i tecnici». Un riferimento ai fatti di casa nostra perché, dice D’Alema «è un discorso carico di termini ambigui quello secondo cui dopo i tecnici torneranno i politici, mentre è un discorso chiaro dire che dopo l’emergenza la sinistra dovrà andare al governo del Paese». Ma anche un ragionamento che il presidente della Feps fa guardando fuori dai confini nostrani (dice che un possibile punto di svolta può arrivare dalla vittoria in Francia di François Hollande, «auspicato anche se non lo possono dire pure da governi conservatori che vogliono liberarsi della gabbia “Merkozy”») e guardando indietro nel tempo. Il presidente della Feps dice che hanno commesso un errore tanto le forze del socialismo tradizionale che vedevano l’integrazione europea come una minaccia al welfare costruito a livello nazionale quanto quelle che hanno creduto in una terza via e in una globalizzazione buona in sé. Dure errori fatali. «A Lisbona si è costruito un bellissimo libro dei sogni ma ci siamo dimenticati che la politica è anche gestione del potere, della forza, altrimenti diventa predicazione e allora dilaga il populismo».

l’Unità 20.4.12
Intervista a Mikael Damberg
«Il rigore non basta. Fate come noi: investite sul welfare»
Il leader dei socialdemocratici svedesi:
«Le politiche di destra hanno portato alla crisi, ora è possibile una svolta. A cominciare dalla Francia»
di Umberto De Giovannangeli


Molti analisti lo dipingono come l’astro nascente della politica svedese. C’è chi si azzarda a pronosticargli un futuro da primo ministro. Lui, neo presidente del gruppo parlamentare del Partito sociademocratico svedese, su come uscire dalla crisi che investe l’Europa, parla della «ricetta svedese»: «Puntare sulla partecipazione femminile al mondo del lavoro e investire nel sapere». Mikael Damberg, 40 anni, è tra i protagonisti del II Meeting internazionale dei leader parlamentari progressisti, apertosi ieri a Roma, promosso dal Pd e dal gruppo parlamentare alla Camera. «È ora di fare un passo in avanti rimarca Damberg perché gli spazi per ripartire e trovare nuove forme di sviluppo ci sono. Serve un patto rigoroso che coinvolga tutto il sistema economico affinché questo sia più equilibrato e integrato. Il futuro dell’Europa si gioca con il resto del mondo e non nell’isolamento. Il primo passo importante saranno le elezioni francesi che rappresentano l’occasione di una svolta contro le destre la cui politica europea è tra le principali responsabili della grande crisi».
Qual è lo stato dell’Europa visto dal Nord?
«Uno stato di debolezza strutturale, con debito pubblico sempre più alto e tassi di crescita tendenti decisamente al basso. L’Europa è oggi il punto debole dell’economia mondiale. Una condizione da cui si può e si deve uscire al più presto. C’è una domanda ineludibile da cui partire...».
Quale?
«Che oggi il quadro delle risorse non sia ottimale, è chiaro a tutti. Ma detto questo, dobbiamo chiederci se l’Europa stia gestendo queste risorse disponibili nel modo ottimale. La risposta non può che essere negativa. Da qui occorre partire per voltare pagina».
Da dove partire?
«Da un approccio diverso a una questione cruciale: come affrontare la disciplina di bilancio. La risposta dei conservatori non ha funzionato. Le forze socialiste e progressiste europee devono farsi portatrici di una visione più lungimirante. Il che non significa affatto mettere tra parentesi la necessità del risparmio e di misure rigorose soprattutto in Paesi, come la Grecia e la Spagna, che hanno un fortissimo indebitamento. Sia chiaro: assumere misure rigorose è un passaggio obbligato. Per tutti. Se la Svezia può discutere oggi di investimenti nell’istruzione o in altri campi strategici, se possiamo ragionare su un “nuovo welfare” è proprio perché abbiamo agito sull’abbattimento del debito. Ma non ci siamo fermati a questa prima fase. Le risorse devono essere gestite saggiamente, ma i governi conservatori in Europa non sembrano dotati della necessaria “saggezza”». Dal suo osservatorio, cosa significa gestire con lungimiranza le risorse? «Investire nel capitale umano, nell’istruzione, in un insegnamento di qualità. Un discorso che dalla Svezia proietto in Europa. L’Europa può competere nell’economia mondiale se punta sul sapere. Insisto su questo punto: gli investimenti in ricerca e sviluppo sono necessari sia per aumentare la domanda ma anche per rafforzare la competività dell’Europa nel mondo. La concorrenza ci sarà sulla conoscenza e non sui salari bassi». Il sapere, e poi?
«Una saggia gestione delle risorse deve tener conto, ad esempio, dei vincoli ambientali. Trasformando questi vincoli in un nuovo, potente volano per uno sviluppo sostenibile».
In precedenza, lei ha fatto riferimento al «capitale umano» su cui investire.
«Un capitale al femminile. Puntare sulle donne come leva della crescita. Il che significa, tra l’altro, realizzare le condizioni perché questo protagonismo possa determinarsi: il che significa politiche di sostegno alla famiglia, tempi di lavoro che non costringano le donne a dover scegliere tra lavoro e famiglia. Una economia a misura delle donne può far crescere dell’11% il Pil in Europa. Non è una utopia, un’illusione, è una prospettiva praticabile, se supportata da una volontà politica che non si confina all’interno dl singolo Stato ma diviene scelta comune, sovranazionale, europea. L’aver puntato sulla partecipazione femminile al mondo del lavoro, così come aver investito sul sapere, è la chiave del successo del welfare scandinavo. Una via che va rilanciata in chiave europea. Non si tratta di imporre un modello, non abbiamo questa presunzione, ma di socializzare una esperienza che ha dato buoni frutti».
C’è chi vede molte più ombre che luci sul futuro dell’Europa.
«Non sono di questo avviso. Nonostante tutto, sono ottimista. Un ottimismo che potrebbe uscire rafforzato da una vittoria socialista in Francia. Un successo di Francois Hollande alle presidenziali rappresenterebbe un primo, cruciale passo per porre fine al predominio delle destre che si è rivelato distruttivo per l’Europa».

Chi è
MIKAEL DAMBERG, 40 ANNI
LEADER DEI SOCIALDEMOCRATICI SVEDESI
Esperto di amministrazione In Parlamento dal 2002

l’Unità 20.4.12
La sfida francese. Intervista a Elisabeth Guigou
«Hollande darà una svolta europeista. La sinistra non ripeterà i vecchi errori»
Per l’ex ministra delle Finanze le elezioni francesi possono cambiare il corso delle politiche europee. Fallita la linea conservatrice del rigore senza crescita
di Umberto De Giovannangeli


Più che i sondaggi a dar conto delle difficoltà crescenti di Sarkozy sono le defezioni tra i suoi ministri. Ma bisogna mantenere la calma ed evitare qualsiasi trionfalismo. La posta in gioco è altissima, non solo per la Francia ma per l’Europa. Perché una vittoria di Francois Hollande può far ripartire la costruzione di una Europa più forte nelle sue istituzioni politiche, un’Europa che sappia coniugare rigore e crescita. In gioco è un profondo cambiamento della politica europea». A sostenerlo è Elisabeth Guigou, europarlamentare del Ps, già ministra della Giustizia e (1997-2000) nel governo guidato da Lionel Jospin, e successivamente (2000-2002) ministra delle Finanze. Guigou è tra i protagonisti del II Meeting internazionale dei leader parlamentari progressisti, apertosi ieri a Roma, promosso dal Pd e dal suo gruppo parlamentare alla Camera.
Domenica la Francia va al voto per il primo turno delle elezioni presidenziali. Gli ultimi sondaggi danno Hollande in vantaggio al primo turno e vincitore al ballottaggio del 6 maggio. La partita è chiusa?
«No, non lo è. E non lo dico per scaramanzia. Certo, i sondaggi sono incoraggianti, così come sono indicativi delle crescenti difficoltà di Sarkozy, le defezioni, più o meno pubbliche, di alcuni tra i suoi più autorevoli ministri. Defezioni tanto più significative perché danno conto di una presa di distanza da una deriva neopopulista e di destra della campagna elettorale di Sarkozy. Ma fino a che l’ultima scheda non sarà deposta nell’urna, non dobbiamo mollare la presa. E questo anche alla luce di un dato che resta allarmante...».
Quale?
«C’è una forte spinta all’astensione. Un distacco che è in gran parte frutto del modo in cui Sarkozy ha gestito la politica. Anche per questo è meglio essere prudenti, il che non sminuisce la soddisfazione per una campagna elettorale che ha saputo parlare al cuore e alla testa dei francesi, senza concedere nulla al populismo ma parlando il linguaggio della serietà e della speranza: un binomio inscindibile in Francois Hollande».
Quale peso può avere per l’Europa una vittoria di Hollande? «Determinerebbe una discontinuità profonda con il ciclo conservatore. Una presidenza Hollande innescherebbe un profondo cambiamento delle politiche europee, avrebbe un positivo effetto di trascinamento. L’Europa ha conosciuto una deriva preoccupante nell’ultimo decennio, un decennio a guida conservatrice. Dobbiamo essere consapevoli che in gioco è la sopravvivenza a lungo termine dell’integrazione europea, e agire di conseguenza. Questo è molto di più che un sostegno alla moneta unica. Serve un nuovo approccio da parte dei socialisti e dei democratici che riaffermi con forza i nostri valori e che abbia il coraggio di proporre soluzioni europee: solo così si può dare all’Europa l’energia per sostenere i suoi capisaldi, la solidarietà, l’efficienza economica e la vitalità democratica. Occorre far ripartire la costruzione di una Europa solidale, più forte nelle sue istituzioni politiche, che sappia affrontare con il necessario rigore l’indebitamento legando però il rigore a un impegno comune alla crescita. È questa la sfida del cambiamento lanciata da Hollande. Dobbiamo uscire da questa crisi con misure non congiunturali, ma per farlo occorre riflettere con serietà e capacità autocritica sugli errori commessi quando a guidare l’Europa erano i governi progressisti. E l’errore più grave è stato il deficit di europeismo, l’aver ritenuto che di fronte a problemi globali fosse possibile rispondere in ordine sparso, a livello dei governi nazionali. Oggi c’è bisogno di più politica, di una buona politica, ma perché sia tale deve muoversi sempre più a livello sovranazionale».
Qual è il limite più profondo, strutturale, sempre in chiave europea, del ciclo conservatore, quello che Hollande vorrebbe spezzare, non in termini ideologici ma di progetto?
«L’aver puntato sulla deregolamentazione, i cui effetti si sono rivelati devastanti. È l’eccesso di liberalismo mascherato da critiche verso una Europa che si diceva, parole di Barroso, “troppo tecnocratica e invasiva”. Il risultato è che non ci sono state, e continuano a non esserci, iniziative forti, coordinate sulla crescita. Non c’è spirito europeo. Quando sono state prese, le decisioni sono apparse tardive e frammentarie. Senza una visione d’insieme».
In questa chiave, qual è la visione di Hollande?
«È quella di chi si fa portatrice di un “Patto di responsabilità” rivolto sia ai francesi che all’Europa. Un Patto che si faccia carico di una seria, rigorosa disciplina di bilancio legandola, però, indissolubilmente ad un altrettanto serio, e rigoroso, programma di crescita. Con la convinzione che senza crescita non ci potrà essere un abbattimento dell’indebitamento». Anche qui, come entra in gioco l’Europa?
«Un Patto per la crescita è a fondamento di una “nuova Europa”, capace di legare giustizia sociale e rigore. Dobbiamo puntare a un rafforzamento della democrazia europea, quali che siano le nuove regole di governance economica. Un’Europa che abbia le idee, e l’ambizione, di guardare al mondo, proponendosi come leva del cambiamento e non come ostacolo. L’obiettivo è quello di costruire uno sviluppo comune, perché comune sono le sfide che siamo chiamati ad affrontare, dalla sicurezza all’economia, dall’ambiente alla finanza. Costruire un futuro comune, un cambiamento possibile: è il senso della sfida lanciata da Francois Hollande».

La Stampa 20.4.12
A Bordeaux l’ultimo comizio della campagna elettorale
Francia, Hollande guarda a sinistra per affondare Sarkò
Stoccata al comunista Mélenchon “Scegliete me, non disperdete il voto”
di Alberto Mattioli


Forse Dio non vota socialista, ma il tempo certamente sì. L’ultimo comizio di François Hollande prima del voto di domenica si svolge in un bel parco di Bordeaux trasformato in pantano da una specie di nubifragio tropicale. Però quando spunta il candidato-quasi-presidente, almeno stando ai sondaggi (27% contro il 26,5 di Sarkò, ma 56 a 44 al secondo turno), il sole fa lo stesso. Lui coglie la palla al balzo: «Oggi il sole è a sinistra», e giù applausi. Idem quando promette che, per il ballottaggio del 6 maggio, «il cielo sarà rosa».
Insomma, le cose vanno talmente bene che anche il mite, onesto, cortese e noiosissimo Hollande sembra quasi un oratore. Continua a non dire nulla, o almeno nulla di più di quel che è scritto nel suo programma elettorale abbastanza vago per non scontentare né preoccupare nessuno, ma lo dice meglio, con calore, con passione e con la voce arrochita dai troppi comizi, nonostante i consigli del logopedista di fiducia e le pasticche al miele della compagna Valérie. Strilla che «l’alternanza è una somma di collere», collera contro le disuguaglianze che aumentano, lo strapotere della finanza, i valori della République traditi dalla destra ingorda. Tuona contro le «grandi fortune» che finanziano Sarkozy e si radunano «nei saloni privati».
Qui si fa già festa, perché tutti sono convinti che la faranno a Sarkò. Hollande ribadisce che i voti li vuole subito, perché «è adesso che bisogna creare la dinamica» e chiede di nuovo di non disperderli, cioè di non darli alla sinistra vetero-massimalista di Jean-Luc Mélenchon. Però per la prima volta lo sfidante urla «Fatevi un piacere! » a una folla che non ne concepisce uno maggiore che sbattere Sarkozy fuori dall’Eliseo, e la Marsigliese la canta con un sorriso grande così.
Hollande gioca la carta della semplicità e della modestia contro l’«iperpresidenza» sarkozysta. Perfino con certe civetterie mitterrandiane. Appena sbarcato a Bordeaux, alla domanda su dove attenderà il verdetto di domenica, sorride: «A Tulle, ovviamente», la «capitale» della Corrèze di cui è stato presidente, la sua metropoli di 25 mila abitanti. Ma perché, monsieur Hollande? «Perché voto lì e ogni voto conta», risponde lui sornione. E tutti pensano a François I, insomma Mitterrand magno, che aspettò l’incoronazione nel paesello delle vacanze.
I socialisti, in ogni caso, non cambiano. Anzi, dopo tanti anni di quaresima, gli appetiti ministeriali incattiviscono l’abituale tutti contro tutti. Il totoportafogli impazza. Per la poltrona più prestigiosa, quella di primo ministro, è in pole Martine Aubry: in realtà Hollande la detesta (e viceversa), però è una donna, è la mamma delle 35 ore, ha un’immagine di sinistra e quindi è perfetta per affrontare i sindacati nell’autunno caldissimo che tutti prevedono senza ammetterlo. L’Interno se lo giocheranno, pare, Manuel Valls, il meno socialista dei socialisti francesi, e un grande amico di Hollande, il deputato-sindaco di Digione, François Rebsamen. Gli Esteri, l’usato sicuro Laurent Fabius e Pierre Moscovici. All’Economia, quasi certo Michel Sapin, il miglior amico di Hollande. La Giustizia andrà o ad Arnaud Montebourg, il Robespierre del Ps, o a Eva Joly, la Di Pietro dei Verdi, che però dal basso del suo 2% potrà forse chiedere ma certo non pretendere. Di sicuro, il primo governo del quinquennio hollandista sarà tutto socialista, con al massimo un radicale e un verde: per aprire a Mélenchon si aspetta di vedere come andranno le legislative di giugno.
Ma intanto non bisogna farsi prendere dall’euforia. Fra i 15 mila (fonte Ps) del pubblico di Bordeaux, lo spiega un rosso antico uguale ad Asterix, probabilmente già iscritto ai tempi del Front populaire: «Finora va tutto bene. Purché la destra non ci f... anche stavolta! ».

Corriere della Sera 20.4.12
E il Pd spera in Hollande: «L'Europa verso sinistra»
di Alessandro Trocino


ROMA — «Forse siamo a un turning point, a un punto di svolta. Ci sono stati piccoli segnali: la Danimarca, la Slovacchia, la Slovenia. Parigi può segnare la differenza. E poi toccherà alla Germania e all'Italia». Ci spera Massimo D'Alema. Confida in una riscossa del centrosinistra in Europa e lo dice a «Rewrite the world», secondo meeting internazionale dei progressisti europei. E il segretario del Pd Pier Luigi Bersani — che parla in serata, dopo Lapo Pistelli e Rosy Bindi — ha già pronta una ricetta: «Questa destra europea ci ha portato a un disastro. C'è già un pacchetto concreto di cose condivise: non ci può essere solo austerità, ma anche una politica comune per la crescita». Sul palco della Sala Regina di Montecitorio ci sono alcuni leader del centrosinistra di Paesi che hanno subito i colpi della crisi economica: Stavros Lambrinidis, membro del Pasok greco; Soraya Rodriguez, capogruppo del Psoe in Spagna; Carlos Zorrinho, capogruppo del partito socialista portoghese. E poi c'è Elisabeth Guigou, segretario del Ps francese, già collaboratrice di François Mitterand e Jacques Delors. Su di lei, e sul suo candidato François Hollande, si appuntano le speranze dei progressisti europei. E la Guigou non si tira indietro, sia pure con cautela: «Siamo fiduciosi, ma prudenti. Anche perché nel 2002 abbiamo avuto una brutta sorpresa». In effetti allora accadde l'incredibile: al ballottaggio contro Jacques Chirac, invece di Lionel Jospin, ci finì il candidato dell'estrema destra Jean Marie Le Pen. Ma il clima stavolta è favorevole e la sinistra, anche italiana, spera nell'effetto volano. Anche perché, sostiene D'Alema, «se non si trova un'alternativa a rischiare sarebbe la democrazia». L'Europa, dice l'ex ministro degli Esteri, «appare invecchiata, pessimista, impaurita. Dominata da due destre, una conservatrice e monetarista dominante, un'altra populista. Il modo in cui ha trattato la Grecia è stato una vergogna. Si è comportata come faceva il Fmi con i Paesi dell'America latina». La sinistra qualche ricetta per cambiare ce l'ha, dice Bersani, che contesta i «populisti in cerca d'autore»: «Un pezzo del debito europeo non deve cadere sul lavoro, ma deve essere pagato dalla finanza, con la tassa sulle transazioni finanziarie; un altro pezzo del debito va messo in mutualità, con gli eurobond, per abbassare i tassi. Poi servono i project bond, per gli investimenti nelle infrastrutture». Bersani fa sua anche l'idea di Alessandro Maran di un «presidente degli Stati Uniti d'Europa». Nelle parole di D'Alema, invece, c'è spazio anche per l'autocritica: «C'è stata una sinistra nazionalista che voleva proteggere il welfare avanzato nei singoli Paesi, senza pensare che non avrebbe funzionato. E c'era la Terza via che pensava che la globalizzazione fosse una cosa buona in sé. A Lisbona abbiamo scritto un bellissimo libro dei sogni». Ora si tratta di cambiare passo. Magari «facendo nostro un tratto del pensiero liberale», come le liberalizzazioni «contro i privilegi». Quello che è certo, spiega Rosy Bindi, è che «senza crescita il pianeta finirà in ginocchio».

Corriere della Sera 20.4.12
Ecco l'arma segreta di Hollande, il grande favorito senza carisma
Lo sfidante socialista reso imbattibile dall'impopolarità di Sarkozy
L'onda d'urto della pacifica normalità di Hollande
di Aldo Cazzullo


Davvero il prossimo presidente di Francia, il capo della seconda potenza
europea con alle spalle «settanta re e sette secoli di sangue» e con la «force de frappe» nucleare, sarà quest'uomo sovrappeso, molliccio, pelatino,
con gli occhiali e senza più voce, che ha fatto per undici anni il segretario di partito ma non ha amministrato nemmeno un bistrot, tutto tecnica politica e niente carisma?
Non c'è un sondaggio che non lo dica. Non c'è un militante socialista, tra quelli riuniti qui a Bordeaux, che in fondo al cuore ne sia davvero sicuro. Compreso lui: «Non fidatevi dei sondaggi…». Ma François Hollande ha un'arma segreta che lo rende quasi imbattibile: Nicolas Sarkozy.
L'ex segretario socialista è in testa a tutti i sondaggi per il secondo turno di domenica 6 maggio (il primo è dopodomani) proprio perché è un leader rotondo, in tutti i sensi. Non suscita entusiasmi, ma neppure veti. Non si fa amare, ma neppure odiare. In una ricerca dell'Ipso, supera Sarkozy per simpatia, onestà, sincerità, competenza, coerenza. Perde nettamente solo alla voce «statura presidenziale» (appena il 46% gliela riconosce, contro il 62% di Sarkozy).
Non a caso, ieri l'ultimo grande comizio di Hollande è stato più una festa campestre che un'incoronazione. Quanto di più diverso dalle rappresentazioni drammatiche che il presidente in carica va inscenando ogni giorno in ogni angolo della Francia. Sarkozy si fa introdurre da musiche tipo Armageddon, immagini di carri armati e bombardieri con la coccarda tricolore, un video con i potenti della terra. Hollande compare al suono di un'orchestrina multietnica con matronali vocalist africane, proietta le sue foto da ragazzo, nel video va al mercato e compra baguette. Sarkozy grida la Marsigliese a pieni polmoni, Hollande la sussurra. Sarkozy agita. Hollande tranquillizza. Il messaggio del presidente è: le cose vanno già male, se si cambia andranno peggio. Lo sfidante sostiene che le cose possono solo migliorare; proprio quello che i francesi vogliono sentirsi dire. Se si considera poi che Sarkozy è il presidente più impopolare della Quinta Repubblica, si capisce perché la sinistra non è mai stata così vicina all'Eliseo dai tempi di Mitterrand.
Evocare la vittoria del maggio 1981, però, è davvero fuori luogo. All'epoca il leader socialista voleva «cambiare la vita» e «rompere con il capitalismo»; ora il suo erede vuole rompere con la Merkel. Mitterrand abbassò l'età della pensione a 60 anni, aumentò le ferie a 5 settimane, introdusse la patrimoniale, nazionalizzò Pechiney, Dassault, Matra, Rhone Poulenc, Saint-Gobain, Usinor: un terzo della Francia divenne dello Stato. Hollande promette o minaccia molto meno. La sparata propagandistica di portare al 75% l'aliquota oltre un milione di euro servirà solo a rianimare il mercato degli immobili a Montecarlo. L'ex premier Laurent Fabius, che dopo il suicidio politico di Dominique Strauss-Kahn resta l'intelligenza più sottile della sinistra francese e ora punta agli Esteri, ha già smontato le misure più populiste del programma: aumentare l'Iva solo sui prodotti di lusso? Non si può, l'Europa lo vieta. Imporre un rapporto massimo di 1 a 20 tra il salario dell'apprendista e quello del capo azienda? Non si può, le imprese private pagano i loro dirigenti quanto vogliono. Così Hollande si accontenta di mandare a tutto volume al comizio la sua cantante preferita, Zaz: «Una suite al Ritz? Non la vorrei! I gioielli di Chanel? Che ne farei?».
La vera discontinuità sarà in Europa. Il candidato socialista ha annunciato la fine o almeno la revisione dell'asse con la Merkel. Non a caso la Cancelliera si è molto esposta a favore di Sarkozy, che l'aveva pure invitata a fare comizi insieme; poi, vista la reazione degli elettori, ha lasciato perdere. In questo momento storico, l'insofferenza per i tedeschi prevale su quell'ammirazione inconfessata che cova nell'animo dei francesi. Hollande l'ha capito e anche ieri ha ripetuto che l'accordo sul fiscal compact è da rifare: no al pareggio di bilancio in Costituzione, sì a nuove misure per la crescita. «Vi faccio una confidenza: pure qualche leader conservatore mi ha detto che spera nella nostra vittoria, per far saltare l'austerity europea».
A Cenon, nella banlieue di Bordeaux, sulla strada per Bergerac, Hollande ha speso l'ultimo filo di voce. Per una volta ha nominato Sarkozy: «Di solito lo chiamo candidato uscente, ma non per mancanza di rispetto, per non infierire; quando dicevo il suo nome, ogni volta si levavano grida e fischi. Io invece posso andare a piedi dappertutto, senza grandi scorte, e continuerò a farlo dopo il 6 maggio. Lui dice che sente alzarsi un'onda? Ha ragione, e la prenderà in faccia». Hollande gioca la parte del «candidato normale» contro l'anormalità di questi cinque anni: «Un presidente a zig-zag, tutto eccessi, sempre presente mai efficace. Ora insegue Marine Le Pen e parla solo di burqa, imam, carne halal. Io parlo di diritto di voto per gli stranieri, diritto di finire la vita con dignità, diritto per le coppie che si amano di sposarsi».
Lui, Ségolène Royal non l'ha mai sposata, anche se da lei ha avuto quattro figli. A Bordeaux l'ha nominata una volta sola. Nel libro-manifesto della campagna, «Cambiare il destino», le dedica una riga, contro le pagine commosse sulla madre, assistente sociale morta tre anni fa, e sul padre, medico, uomo di destra, sostenitore dell'Algeria francese. Ieri al suo fianco c'era la nuova compagna, Valérie Trierweiler, giornalista di Paris Match, che sul telefonino è registrata come «mon amour». I contatti con la Royal li tiene il primogenito Thomas, avvocato, 27 anni, simpatico e alla mano come il padre.
«Mi dispiace lasciarvi…». Hollande chiude il comizio invitando a non disperdere il voto a sinistra. È preoccupato dall'avanzata di Jean-Luc Mélenchon. Lo atterrisce l'idea di governare con trotzkisti e comunisti, di venire a patti con candidati il cui programma è «lavorare il meno possibile e guadagnare il più possibile»: come non essere d'accordo? Per questo ripete che «non ci sono due sinistre, una idealista e una opportunista; la sinistra è una sola, quella di Blum, Mitterrand, Jospin, Mendès-France», e forse l'antenato che sente più vicino è proprio il riformista che governò gli anni della decolonizzazione. «Ho bisogno di essere in testa al primo turno, per riunire e riconciliare la Francia al secondo» conclude; e 4 istituti su 5 in effetti lo danno in testa già domenica.
La sinistra si avvicina al potere quasi senza crederci, certo senza entusiasmo. I due giornali che sostengono Hollande, Le Monde e Libération, durante le ultime presidenziali avevano aumentato le vendite del 7,4 e del 7,9%; ora le vedono calare del 2,2 e dell'1,3 (mentre il destrorso Figaro cresce). Lui commenta: «Preferisco vincere con un po' meno di euforia, che perdere con molto più fervore». Però l'idea di arrivare all'Eliseo sull'onda dell'antisarkozismo lo innervosisce; così, quando il ministro della Cultura Frédéric Mitterrand, nipote del presidente, l'ha avvicinato in pubblico fidando sull'abituale bonomia di Hollande, si è sentito gelare: «Lei il 6 maggio non sarà più al suo posto». Non c'è un autentico movimento popolare a sospingerlo. La sua speranza è che la maggioranza dei francesi si comporti come il grande malato Jacques Chirac, il quale in un momento di lucidità ha fatto sapere agli intimi che voterà Hollande, con questa motivazione: «In tutta la vita nessuno mi ha mai fatto tanto male quanto Sarkozy».

il Fatto 20.4.12
L’uomo dei sogni
La sinistra di Francia può sognare
Con Mélenchon la sinistra punta a precedere Marine Le Pen. E c’è chi crede nel ballottaggio
di Luca Telese


Jean Luc Mélenchon. È lui il terzo uomo. Come emerge dai sondaggi (sarà vero?) ha già superato Marine Le Pen e tra i suoi c’è chi crede nel ballottaggio. Ieri ha chiuso la sua campagna elettorale davanti a 70 mila sostenitori

Da “meno tasse per tutti” (ad Arcore), a “più tasse per pochi” (in Francia). E così, per la gauche, la sinistra francese, è giunta l’ora della “Melanchonie”, che non è – come potrebbe sembrare – il sentimento della malinconia e del rimpianto, ma quello del dubbio per il destino di un nome, quello di Jean Luc Mélenchon, che in queste ore è diventato una incognita decisiva nella politica francese.
PERSONAGGIO non privo di sorprese, Jean Luc, con sette vite nello zaino: ex trotzkista, ex mitterrandiano, poi critico del secondo mitterrandismo, attuale leader della sinistra radicale. Ha gli occhi verdi ma non è Carlà, è ispanofono ma è nato a Tangeri, ha un appartamento di 76 metri quadri a Parigi ma deve ancora pagare il mutuo, ha un’oratoria affilata come un rasoio, ma non è Beppe Grillo: in questi ultimi giorni tuona in ogni comizio contro le Banche centrali, contro la finanza, contro “la Borsa tedesca”, contro i “patrimoni dei ricchi”, definisce rudemente Marine Le Pen “una semi-demente”, ravvivando – dopo anni di slogan in provetta – il gusto per la polemica anche a sinistra, propone una super-patrimoniale ammazza-ricchi.
Melanchonie: è lui “il terzo uomo” che emerge, dicono i sondaggi (sarà vero?) tra François Hollande e Nicholas Sarkozy. È lui la sorpresa del primo turno delle presidenziali. Le rilevazioni demoscopiche dicono che ha già superato di due punti la Le Pen, il che è tutto da verificare, se non altro perché è un fatto che la candidata del Front Nazional sia quotata “solo” al 15%, ma è anche vero che i lepenisti sono storicamente sottostimati (visto che i francesi si vergognano di dire che votano l’estrema destra). Melanchonie per la sinistra e per la destra, dunque, a cui contende ora il ruolo dell’outsider tra i due favoriti. Ma soprattutto melanchonie per lo stato maggiore di rue Solferino, il quartier generale socialista dove tutti ricordano con orrore cosa accadde quando Jean Marie Le Pen andò al ballottaggio contro Jacques Chirac dopo aver fatto fuori l’amatissimo Lionel Jospin, il leader della gauche plurielle, l’ultima sinistra che sia riuscita a vincere in Francia. Jospin era un vero leader, con la sua faccia da protestante colto e la sua lingua bella chiara e terribilmente pedagogica, ma il popolo della sinistra francese era arrabbiato con i suoi dirigenti, e dal calderone dello scontento saltò fuori il risultato incredibile del postino trotzkista Oliver Besancenot (arrivò all’8%) che sottrasse consensi decisivi al candidato socialista. Poi vene il tonfo di Ségolène Royal, troppo radical chic per sfondare. Anche oggi il malcontento verso la sinistra istituzionale è forte: “Se Hollande avesse la verve di Mélenchon – ha titolato l’insospettabile Libération, citando lo sfogo di un militante in piazza – sarebbe extra”.
Il fatto è che alla sinistra del Partito socialista si sono sempre condensati molti voti, nei primi turni di questi anni, ma è la prima volta che si concentrano tutti insieme su un solo nome. Il passo indietro decisivo lo ha fatto il Pcf, che dal 2009 ha stretto un accordo con il Partie de Gauche di Mélenchon, rinunciando alle sue inutili candidature di bandiera (come quella del “Babbo natale” Hue, segretario di partito privo di appeal esterno).
Ma anche la grafica e la calibratura dei messaggi di Mélenchon in questa campagna sono stati studiati per pescare un po’ ovunque: nel logo del partito la parola “Front” prevale su tutto il resto occhieggiando al marchio di fabbrica del lepenismo, e lo slogan ufficiale è un brillante esempio di populismo progressista: “Prenez le pouvoire”. Ovvero: “Prendete il potere”. Melanchonie e incertezza, dunque: mentre lui, invece, spiega che ha vinto la sua prima battaglia (quella della visibilità) perché ha messo in campo un pacchetto programmatico tutto centrato su tassazioni per i più ricchi: “La proposta di Hollande sulle imposte per chi guadagna più di un milione di euro è ridicola: ha copiato, e male, la mia”. E quale è questa proposta? Quella che – per esempio – gli ha fatto incassare due epiteti caustici dalla Bbc e dalla stampa britannica: “È un bullo narcisista con la passione della provocazione”, è un “pitbull dell’anticapitalismo”.
DI SICURO, nell’Italia in cui si discute da anni se tenere cinque aliquote o tre, o se si debba pagare o meno il tributo a “Roma Ladrona”, farebbe davvero paura la sua idea-bandiera: una super tassa sulla ricchezza secondo cui, i più abbienti dovrebbero subire una imposta del 100% su qualsiasi parte di reddito superiore ai 300 mila euro. Grazie a questo gettito, secondo i calcoli di Mélenchon, il salario minimo dovrebbe aumentare del 20%, i francesi andrebbero in pensione a 60 anni, gli operai e sindacati dovrebbero avere diritto di veto sulle delocalizzazioni e quello di prelazione, per rilevare le aziende se i loro imprenditori se ne vanno via: per poter finanziare tutta questa spesa sociale – aggiunge il candidato del Front – “la Banca centrale europea dovrebbe essere tenuta a prestare denaro al tasso privilegiato dell’1%, non più alle banche, ma direttamente ai governi europei”. Tra i tanti bussolotti che il destino fa ballare nella lotteria delle presidenziali, il destino di Mélenchon dirà qualcosa anche alla sinistra italiana: ad esempio, se un radicalismo di sinistra molto aggressivo può ritagliarsi uno spazio nelle paure dei ceti medi declassati dalla crisi, e se i rapporti tesi, e la prova di forza fra le due sinistre arricchiscono o indeboliscono la coalizione. Chi vota in Francia sa già che sta decidendo le alleanze per le politiche. Chi vota alle prossime amministrative in Italia, invece, ancora non ha capito che sarà lui a decidere se vincerà la foto di Vasto o la tweet-alleanza Abc (Alfano, Bersani e Casini).
Il bello è che Hollande e Mélenchon si sfidarono già nel 1997, nel congresso di Brest. Quando Mélenchon, in uno dei suoi discorsi più brillanti (sono la cosa che gli riesce meglio), fece commuovere i militanti citando l’appena scomparso Mitterrand con spirito di custode testamentario: “Mi ha detto: non arrendetevi mai, difendete la vostra rotta… Eccomi, sono qui che lo difendo! ”. Venne giù la sala, quella volta. E poi, però, vinse il pallido Hollande.

La Stampa 20.4.12
Francia al voto
La sinistra italiana aspetta il vento di Hollande
di Lucia Annunziata


Nelle urne francesi che si aprono domenica avvertiremo anche un assaggio di elezioni in Italia.
François Hollande, unico leader di sinistra rimasto in Europa a dire «qualcosa di sinistra», è ufficialmente l’occasione che la sinistra italiana aspetta, il movimento del pendolo che fa cambiare gli equilibri di forza, una nuova locomotiva europea, cui molti Paesi, a iniziare proprio dall’Italia, potrebbero attaccare i loro vagoncini. Con il suo programma di vigorosa spesa pubblica e ridistribuzione delle risorse, partendo da una patrimoniale ad ampio spettro, Hollande è oggi la speranza per il Pd, ma anche per il Sel e molte altre forze, di poter fare in Europa, coperti dalla Francia, quella battaglia che la sinistra non può fare in Italia, per senso di responsabilità e per timore di dividersi.
Solita illusione (e quante volte la sinistra italiana l’ha coltivata nei confronti dei colleghi francesi)? O stavolta qualche spazio c’è perché si apra effettivamente un nuovo gioco in Europa?
Le risposte sono molteplici, e dipendono da molte componenti, non ultime le evoluzioni possibili dentro il governo Monti, arrivato a dover scegliere, pressato dagli eventi, un profilo più politico di quanto abbia tenuto nei suoi primi cinque mesi.
In effetti con Hollande rientra sulla scena della sinistra un candidato come non si vedeva da tempo: figura per nulla di rottura, anzi figlio delle strutture di partito, parte integrante delle élite del suo Paese, ma anche di «sinistra». Il suo programma rompe con trent’anni di programmi liberisti come uniche formule possibili per far marciare l’Occidente. Rompendo così anche l’incantesimo che per altrettanti anni la stessa sinistra ha subito nei confronti delle ricette liberiste. Una conversione che il candidato socialista ha, per così dire, in casa: ha ricevuto l’ investitura anche della sua ex moglie Ségolène Royal, che solo nel 2007 sfidò Sarkozy impugnando «l’idolatria fiscale» e «l’ossessione per le regole» di cui soffriva una parte secondo lei minoritaria della sinistra.
Oggi è un po’ fuori moda ricordarlo, ma la famosa terza via che segna il periodo d’oro della sinistra in Occidente, negli anni Novanta, con Blair in Uk, Clinton in Usa, Jospin in Francia, Gerhard Schrö der in Germania e Prodi e D’Alema in Italia, fu costruita proprio sullo sdoganamento del mercato a sinistra.
Così oggi si potrebbe dire che con Hollande si immagina una terza via al contrario. Del resto, i risultati elettorali in Occidente tendono ad avere una loro onda lunga. E sicuramente un cambiamento di posizioni della Francia, costituirebbe una forte novità negli assetti europei attuali. Il programma di Hollande è un bel chiodo piantato nell’asse Merkel-Sarkozy su cui si sostiene l’equilibrio europeo.
Alla obbedienza rigorista della Merkel, alla sua piena osservanza dei dettami della Bundesbank, Hollande oppone lo scontro frontale con le banche considerate una delle cause del crac finanziario internazionale: nella sua proposta alle banche francesi sarà vietato operare nei paradisi fiscali, le stock option potranno essere date solo dalle imprese nascenti, l’imposta sui profitti degli istituti di credito crescerà del 15% e sarà introdotta la tassa sulle transazioni finanziarie, la famosa Tobin Tax. Una forte tassa patrimoniale (il 75% sui redditi oltre il milione di euro) completa un quadro di ridistribuzione della ricchezza sociale, in cui il denaro per aumentare la spesa sociale in vari campi viene dai redditi più alti e dalle rendite. Tra le altre cose cui le nuove risorse dovrebbero essere dedicate è un piano per regolare il mercato degli affitti, anche attraverso la costruzione di due milioni e mezzo di alloggi popolari, promesse che, siamo sicuri, colerebbero come miele di questi tempi nelle orecchie degli elettori di sinistra italiani.
Il punto è proprio questo. Le promesse di Hollande sono esattamente quelle che vorrebbero/dovrebbero fare i democratici. Quelle su cui otterrebbero più consensi, su cui potrebbero meglio unirsi. Ma che non possono pronunciare per la scelta di sostenere Monti, per l’obbligo di responsabilità nazionale, e per la paura di non avere la stessa capacità dei colleghi francesi.
E se però vincesse Hollande, non potrebbe essere lui una sorta di nuovo leader indiretto, un papa nero straniero, che rimetta in moto un movimento che da soli gli altri non possono fare?
Il primo punto di questa marcia, partita da mesi, con un accordo fra François Hollande, il presidente dell’Spd tedesco, Sigmar Gabriel, e l’italiano Bersani, passa per una serie di elezioni in Europa, nazionali ed europee che dal 2014 potrebbero portare a un «cambiamento» dell’Europa, come dicono i leader, con al primo posto del programma la revisione del patto di stabilità. Il simbolo stesso della gestione dell’Europa, oggi è, a seconda dei punti di vista, la sua prigione o la sua salvezza.
C’è davvero spazio per uno scenario del genere oggi?
Non sarà facile (forse) né vincere, né continuare a vincere per Hollande. Il mondo anglosassone (quello che spesso si chiama «mercati») ha già inviato i suoi avvertimenti. La Francia entrerebbe subito nel mirino. Come ha fatto capire in una interessante intervista a La Stampa Richard Haass, presidente del più autorevole think tank d’America, Council on Foreign Relations. Ma è anche vero che l’opinione pubblica di altri Stati europei, e l’Italia per prima, potrebbe essere affascinata da questa riapertura politica, e magari davvero spingere per un cambiamento di equilibri a Bruxelles.
In questo senso un segnale di possibili cambiamenti, sia pur molto esili, si avverte persino nel governo Monti. Il Professore premier è nato letteralmente battezzato dall’Europa di Merkel e Sarkozy. È la sua stessa identità. Non che il nostro premier non faccia i dovuti distinguo, ma l’affermazione di questi è sempre rimasta dentro le regole conosciute, e come processo di accreditamento più che di sfida. Ma nello stesso governo italiano, e tra le figure italiane in Europa, non c’è necessariamente lo stesso atteggiamento nei confronti della Germania. Mario Draghi, governatore della Bce, non è certo benvisto dalla Banca centrale tedesca, la Bundesbank. In marzo Der Spiegel scriveva: «C’è una crescente divisione all’interno della leadership della Banca centrale europea su come gestire la crisi europea, per non parlare di quelle fra la Bce e la Bundesbank. Mario Draghi è molto contento di aver allagato i mercati con moneta a poco prezzo, mentre il presidente della Bundesbank Jens Weidmann ha invece avvertito dei pericoli che questa operazione comporta». Il riferimento è alla decisione di Draghi di fornire liquidità al tasso dell’1 per cento alle banche europee per stabilizzarle.
Contro la Bundesbank si è però di recente schierato – con sorprendente chiarezza, durante un’intervista – il più forte ministro dell’esecutivo Monti, Corrado Passera, lui stesso con un passato da banchiere: «Il problema non è la Merkel ma la Bundesbank». Parole che indicano che questo governo, di fronte al disagio del Paese, potrebbe voler affrontare sfide politiche che non sono per ora nella sua carta fondativa.

l’Unità 20.4.12
Il futuro dei progressisti è il federalismo europeo
di Luigi Berlinguer


Bene ha fatto Dario Franceschini ad affermare con autorevolezza che non si può rispondere alle sfide globali entro gli angusti confini dello Stato nazionale. Aggiungo, c’è troppa poca Europa nel nostro lavoro politico quotidiano.
L’Europa deve divenire un elemento costitutivo dell’orizzonte dei progressisti. Ed in questa fase, il primo obiettivo del Pd e dei progressisti europei deve essere quello di agire per la crescita. Occorre pertanto ricordare e spiegare che tra le principali ragioni della crisi c’è proprio la mancanza di Europa. L’influenza dei mercati, dello spread, delle borse è micidiale rispetto alle capacità della democrazia politica di orientare l’economia. Il caso europeo è tristemente emblematico: a moneta unica non corrisponde governo unico.
Nell’equilibrio economico, finanziario, monetario mondiale l’Europa non può reggere. Stiamo camminando, mentre dovremmo correre. E per accelerare, occorre allora procedere rapidamente verso una svolta federalista nella costruzione europea e nella nostra stessa identità di forza politica.
Certo, ci sono le resistenze, gli egoismi nazionali, quelli corporativi. Ma sarà sufficiente, in questo obiettivo, l’attuale determinazione, il coraggio e la consapevolezza delle forze socialiste e democratiche? Non si esce da una crisi drammatica soltanto con modesti aggiustamenti. In momenti così difficili si devono e si possono adottare misure radicali.
Ed è certamente vero che l’Europa ha compiuto dei passi avanti, importanti ma contraddittori e insufficienti sul piano dell’equità e della crescita: dal controllo europeo dei bilanci nazionali all’intervento finanziario “solidale” verso Stati dell’Unione.
Il vero nodo da sciogliere resta quello dell’unità politica. Ed è da lì che deve partire il mondo dei progressisti. È il percorso che Bersani ha avviato con il Ps francese e con la Spd tedesca. È la sfida che François Hollande ha assunto impostando una campagna seria, responsabile, non demagogica, fondata sulla necessità di ripartire dall’Europa e di riportare coesione, equilibrio e slancio unitario al progetto politico dell’Unione europea.
Non si può essere progressisti, socialisti moderni e democratici se non si passa concretamente all’azione per attuare un cammino veramente federalista. L’ideale socialista senza integrazione europea resta un legato arcaico.
I concetti stessi di solidarietà sociale, di uguaglianza, di modello sociale europeo diventano impotenti se rinchiusi nei confini nazionali. Altrimenti resterebbe l’impotenza di una politica fatta solamente della difesa di diritti messi, giorno dopo giorno, sempre più in pericolo.
Guai ad abbassare la guardia della difesa, ma non interessa e non deve interessare al Pd ciò che rischia di essere la guardia del bidone. I diritti si rivendicano e si conservano in una cornice più ampia, quella europea.
Una società aperta impone la rivisitazione delle radici stesse del pensiero socialistico, di cui l’assunzione piena della dimensione europea deve divenire il nuovo elemento costitutivo, riconoscendo in questo senso il limite e le occasioni mancate nella fase dei governi di centrosinistra in Europa alla fine degli anni 90.

l’Unità 20.4.12
L’Istat ha diffuso ieri il dato degli «inoccupati». Insieme ai disoccupati si arriva a 5 milioni
Lagarde, Fmi: rischiamo di perdere per la strada un’intera generazione
Lavoro, in tre milioni non ci credono più
Donne le più rassegnate
Un altro dato drammatico: tre milioni di persone in Italia non cercano più lavoro, sono scoraggiate. Se si aggiungono ai due miloni di disoccupati abbiamo un quadro disarmante. Il lavoro non c’è
di G. Ves.


Christine Lagarde parla di «generazione perduta», mentre l’Istat conta in Italia tre milioni di «inattivi», quelli che vorrebbero un lavoro ma non hanno più voglia o possibilità di cercarlo.
«È una mia grande preoccupazione», dice la presidente del Fondo monetario internazionale a proposito del rischio che una bella fetta di europei manchi l’appuntamento con l’occupazione, almeno così come l’abbiamo conosciuta finora. L’ex ministro francese parla della Spagna ma pensa all’Italia, e non solo. A chi le domanda come mai il Fmi sia così «severo» con il nostro Paese ha visto le stime di crescita al ribasso Lagarde ha risposto che non si tratta di severità, «vogliamo solo che torni l’equilibrio e che il Paese cammini con le proprie gambe».
La ricetta si conosce, è sempre la stessa: conti e crescita. Ma tenere a bada i primi e spingere la seconda non è facile, anzi. La realtà, almeno quella di casa nostra, conta tre milioni di persone che vorrebbero lavorare, ma hanno smesso di cercare un’occupazione. Pesano sul totale della forza lavoro per l’11,6 per cento, tre volte in più del resto d’Europa. È la mancanza di fiducia a pesare sulla nullafacenza di almeno un milione di persone (43%). Gli scoraggiati crescono a ritmi veloci, quasi il cinque per cento sul 2010, mai così male dal 2004. In Italia abita un terzo degli 8,6 milioni di europei disposti a lavorare ma non più a cercare un posto.
«Inattivi» e disoccupati, oltre due milioni di persone pari all’8,4 per cento sulla forza lavoro, messi insieme fanno cinque milioni di italiani a braccia incrociate nel 2011. A farla da padrone, dal punto di vista anagrafico, sono i 15-24enni, la «generazione perduta» alla quale faceva riferimento la Lagarde. La troviamo in (buona) parte nel Mezzogiorno e spesso si tratta di donne. In alcuni casi, poi, sembra di assistere ad una sorta di ritorno al passato, con una donna su cinque che non cerca lavoro per dedicarsi alla cura dei figli e della famiglia. Anche questa è la crisi.
IMPRESE IN AFFANNO
C’è da dire del resto che, al di là della voglia, trovare lavoro è complicato. A febbraio gli ordinativi delle imprese sono calati del 13 per cento sull’anno scorso. Si tratta del dato peggiore dal 2009. Mentre il fatturato industriale diminuisce dell’1,5 per cento sul 2011. Sindacati e politica rinnovano l’allarme: Fulvio Fammoni, segretario confederale dell aCgil, parla di «un esercito di disoccupati che continua a crescere». E aggiunge: «Eravamo accusati di disfattismo ai tempi del centrodestra, quando sostenevamo ciò che oggi evidenzia l’Istat, ma questa è invece, e purtroppo, la realtà dell’Italia, che va cambiata urgentemente». Il segretario generale aggiunto della Cisl, Giorgio Santini, punta sulla necessità di riformare «il lavoro, valorizzando la buona occupazione e penalizzando le flessibilità malate». Mentre l’Ugl sottolinea che «l’aumento sproporzionato degli scoraggiati è lo specchio di un Paese che sta rischiando seriamente di non avere più la forza, e la volontà, di superare la crisi». Per i Democratici interviene direttamente il segretario Bersani, nel corso del meeting dei leader progressisti europei, che punta il dito contro la finanza. «Il costo della crisi non può pagarlo tutto il lavoro e il welfare -diceilnumerounodelPd-Unpo’ deve pagarlo la finanza». Con i colleghi europei Bersani discute di «Riscrivere il mondo» e attacca le risposte della destra europea alle difficoltà economiche. Reazioni inadeguate anche «ideologicamente» perché puntano sul ripiegamento quando invece ci vorrebbe solidarietà. Così non si risolvono i problemi e si suscitano risposte populiste. Per superare veramente la crisi, ha detto il segretario, serviranno scelte precise, e ciò chiama in causa il ruolo dei riformisti, che devono ritrovarsi e indicare le «grandi discriminanti» dell’equilibrio e della reciprocità.
Dura anche l’Idv, che ricorre alla metafora: «L’Italia sta ballando sul Titanic -dice Maurizio Zipponi, responsabile Lavoro e WelfareEMonti continua a dirigere l’orchestra dei banchieri come se nulla fosse».

l’Unità 20.4.12
La Cgil il 10 maggio si mobilita per i precari
Ma il direttivo non ha avuto un esito scontato: 90 sì, 35 no
e 6 astenuti, tra cui i segretari di categoria Pantaleo e Dettori
di Massimo Franchi


Alla fine di una lunga giornata di discussione, la Cgil conferma la mobilitazione e l’apertura a Cisl e Uil, con cui riunirà le segreterie per una piattaforma comune. Il primo appuntamento è fissato: il 10 maggio con i giovani contro la precarietà per «denunciare gli arretramenti della riforma» e «sostenere una politica di contrasto e le richieste di modifica al provvedimento perché ai giovani di questo Paese si diano risposte effettive». Il direttivo si conclude con un voto che registra 90 sì, 35 no e 6 astenuti (tra cui i segretarimento (rigore, equità e crescita), ha cassato la crescita mentre l’equità non c’è mai stata». Dopo un passaggio sull’antipolitica («Nessun cedimento a questo diffuso sentimento, ma la necessità di una riforma urgente e radicale del sistema dei partiti»), arriva l’attacco alla delega fiscale: «Un’occasione persa per spostare il peso del fisco dai lavoratori e dai pensionati ai grandi patrimoni e rendite». Da qui parte la riflessione «sull’impoverimento del Paese» che introduce all’apertura verso gli altri sindacati: «Il fisco non è solo un tema di giustizia ed equità ma guarda alle politiche economiche e a come si rimette in moto il Paese e può essere la molla per determinare il cambiamento della stagione».
Camusso quindi ha chiesto «il mandato per la costruzione di una piattaforma comune e ad una mobilitazione unitaria che parta dalle parole scelte per il prossimo primo maggio “Lavoro e crescita, politiche per uscire dalla crisi”, che si terrà a Rieti. Il segretario generale della Cgil riconosce Cisl e Uil «decisioni utili per aprire una stagione di iniziative sui temi della crescita, del fisco e del lavoro». Ma è sulle maglie di questo mandato a trattare che si accende la dialettica interna.
Giusto Fornero all’Alenia? Polemiche invece più sostenute sulla partecipazione di Elsa Fornero lunedì all’assemblea (a porte chiuse) dei lavoratori dell’Alenia di Caselle (Torino). Invitata da 1.300 lavoratori e dalla Fiom, la ministra del Welfare ha deciso di difendere la sua riforma dalle critiche dei lavoratori. Susanna Camusso ci vede «un gesto di supponenza, una sorta di “vengo io che così gliela spiego la riforma, perché voi non sapete fare il vostro mestierè», mentre la ministra ribadisce che andrà («non accettare sarebbe stato scortese») e Giorgio Airaudo, latore dell’invito, commenta: «La Fornero è invitata da 1.300 lavoratori, sono loro che la sfidano sull’art.18 e la riforma, sono in grado di confrontarsi con un ministro, anche se è tecnico».

il Fatto 20.4.12
L’annuncio del ministro della Funzione Pubblica Patroni Griffi
Statali, dall’estate libertà di licenziare
Il ministro Griffi: riforma del pubblico entro l’estate Fuori dal lavoro dopo due anni di mobilità
È di quasi tre milioni di persone l’esercito dei “senza speranza”, i disoccupati che non cercano più lavoro. Il triplo della media Ue
di Salvatore Cannavò


Nei tavoli di confronto con il sindacato, l'eventualità era finora passata solo per allusioni ma ieri, con un'intervista sul quotidiano Avvenire, il ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, è stato netto: il governo licenzierà anche gli statali. Arrivando fino a dove non era arrivato Brunetta. Le forme saranno mediate, ovviamente, ma la sostanza resta e tutto quanto dovrà avvenire già entro l'estate. Il ministro vuole varare la sua riforma entro metà maggio e del resto, la riforma del Lavoro, che è già all'esame del Parlamento, è stata fatta in modo da recepire, all'articolo 2, una legge delega. A quanto pare la riforma è già avanti nel suo punto più cruciale, quello del licenziamento del pubblico impiego. “Spero che capiscano tutti, anche i sindacati” dice il ministro al quotidiano cattolico. “Devono accettare il meccanismo di mobilità obbligatoria per due anni che già esiste ma che ancora non è stato attuato. Devo farlo perché le amministrazioni pubbliche vanno riorganizzate anche per attuare la spending review sulla spesa pubblica”. La procedura, in effetti, è già prevista nella norma attuale che prevede la messa in mobilità, per 24 mesi e all'85 per cento dello stipendio, del personale dichiarato in esubero. “Prima proveremo a vedere se quel personale, riqualificato, potrà essere utilizzato meglio in altri settori” spiega Patroni Griffi, “poi, solo se alla fine non si troveranno alternative, l’unica strada rimarrà quella del licenziamento”.
NESSUNO crede, però, che quella ricollocazione in un settore già gravato da tagli e riduzioni consistenti possa essere trovata. Inoltre, il meccanismo si inserisce dentro una riforma complessiva del lavoro che vede, per la prima volta dopo 40 anni, la revisione dello stesso articolo 18 realizzando, come dice lo stesso ministro, “la maggior convergenza possibile con il settore privato”.
La risposta sindacale, contraria ai licenziamenti, non è stata particolarmente furibonda. Cgil, Cisl e Uil hanno messo le mani avanti rispetto alle dichiarazioni di Patroni Griffi ma senza mettere in discussione il tavolo di confronto. Il segretario della Funzione pubblica della Cgil punta il dito sulla continuità tra le proposte attuali e quelle di Tremonti chiedendo una maggiore progettualità e poi prendendola con il metodo dell'annuncio a mezzo stampa: “Se davvero questa riforma dovesse passare come una semplice delega al governo – dice Rossana Dettori - e la trattativa dovesse essere una formalità che ratifica le scelte che l'esecutivo comunica preventivamente alla stampa, ne trarremo le dovute conseguenze”. In ogni caso la Cgil annuncia una prima manifestazione sotto la sede del ministero già lunedì. La Cisl parla di un atteggiamento responsabile e leale ma chiede al ministro di avere al più presto le piante organiche dell'amministrazione statale. Dal canto suo l'Usb, il sindacato di base abbastanza forte nel pubblico impiego, si dice “non stupito ” dell'uscita del governo visto che al tavolo di confronto questa ipotesi era stata già ventilata. Il problema, spiega l'Usb, “sono le politiche economiche imposte dalla Bce e dall'Unione europea che impongono di realizzare tagli tramite la “spending review” e questo mette sotto ricatto tutto il pubblico impiego perché non c'è amministrazione che non sia in difficoltà”. L'Usb propone una prima assemblea delle Rsu il 18 maggio e annuncia l'ipotesi di sciopero generale.
SCIOPERO che invece che sembra scomparire dalla prossima fase della Cgil che ieri ha tenuto il suo direttivo nazionale su articolo 18. Dopo una lunghissima giornata e una convulsa fase finale di emendamenti e sub-emendamenti da parte dell'area di maggioranza più critica nei confronti del tentativo di archiviare l'articolo 18 (Pensionati, Scuola, l'area Lavoro e Società) la segreteria ha ricevuto il mandato per costruire una piattaforma comune e una mobilitazione unitaria con Cisl e Uil sui temi del fisco e della crescita.

il Fatto 20.4.12
Il “Manifesto” firmato da Ginsborg e altri intellettuali indica una strada possibile
Obiettivo beni comuni
di Maurizio Viroli


Il Manifesto per un soggetto politico nuovo. Per un’altra politica nelle forme e nelle passioni”, redatto da Paul Ginsborg e da altri intellettuali è in primo luogo una denuncia precisa e severa dello stato di degrado profondo della vita politica italiana: “Oggi in Italia meno del 4 per cento degli elettori si dichiara soddisfatto dei partiti politici come si sono configurati nel loro paese. Questo profondo disincanto non è solo italiano. In tutto il mondo della democrazia rappresentativa i partiti politici sono guardati con crescente sfiducia, disprezzo, perfino rabbia”.
Chiunque conosca, anche se in modo superficiale, la storia politica europea, e quella italiana in particolare, non può non allarmarsi di fronte a questo scenario: quando i cittadini disprezzano tutti i politici, sono pronti ad applaudire e a seguire un leader che prometterà loro di dare una salutare lezione ai partiti, poco importa se l’opera di pulizia porterà anche alla distruzione delle istituzioni democratiche.
La proposta del ‘Manifesto’ per curare il declino della politica si può descrivere, in modo sintetico, come un appello a operare per riscoprire una democrazia fondata non soltanto sul sistema elettorale proporzionale (idea quanto mai saggia), ma su una rinnovata e ritrovata volontà di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica: “Tra i cittadini è cresciuto il desiderio di riappropriarsi di ciò che è comune, non solo beni ma anche processi. La democrazia si allarga e diventa più inclusiva”. Le recenti elezioni amministrative e i referendum sull’acqua, sul nucleare, e sul legittimo impedimento, per non parlare delle molte forme di resistenza intransigente al regime berlusconiano, hanno dimostrato che esiste una parte, minoritaria ma non irrilevante, di cittadini che non si limita a esprimere il proprio disgusto verso i partiti ma vuole essere protagonista. Ci sono insomma ancora uomini e donne che non vogliono vivere la propria vita come spettatori passivi di uno spettacolo deprimente, ma riappropriarsi del bene comune più importante di tutti, perché condizione di ogni altro, vale a dire l’azione politica.
ALLA RADICE dell’impegno dei cittadini che si sono mobilitati per i beni comuni contro il degrado della politica ci sono, anche questa volta, le passioni più che i calcoli e i ragionamenti. Su questo punto l’analisti del ‘Manifesto’ è particolarmente felice: “Le regole formali, preziose e insostituibili, non sono sufficienti […]. A esse va associata la lenta ma costante creazione di una cultura profondamente diversa. […] Certe emozioni e i comportamenti sociali che ne derivano costituiscono invece una risorsa preziosissima per la sfera pubblica politica: la compassione e la gioia, l’amore e la speranza, la generosità e il rispetto per gli altri”.
È del tutto comprensibile la preoccupazione di chi, come Stefano Rodotà, sottolinea che le passioni non sono sufficienti a “produrre direzione politica”, e che non ci si può affidare “unicamente a una spontaneità colorata da emozioni” (‘Il Manifesto’ 12. 04. 2012). Ma è del pari vero che senza le buone passioni non è mai nato alcun movimento o partito politico che abbia saputo realizzare, o contribuire a realizzare, conquiste significative di libertà e di giustizia. Il movimento socialista, in Italia e in Europa, è nato e si è rafforzato, e ha aiutato milioni di uomini e di donne a vivere con più dignità, fino a quando i suoi dirigenti, e i suoi militanti erano sostenuti da un fortissimo amore della giustizia e della libertà, dallo sdegno contro lo sfruttamento degli esseri umani, contro la corruzione, contro le guerre di conquista, contro l’arroganza dei potenti. Quando i leader della sinistra, a cominciare da Bettino Craxi fino a Massimo D’Alema, hanno messo in primo piano i calcoli, i pacati ragionamenti e le sottili tessiture di accordi con gli avversari è finito tutto. No, grazie, ai politici calcolatori abbiamo già dato.
Il difficile, e su questo Rodotà ha ragione, è trasformare le passioni in azione politica vincente, vale a dire capace di portare nei Comuni, nelle Regioni, e soprattutto in Parlamento, persone degne, in grado di fare buone leggi, abrogare le cattive, ispirare con le parole e i comportamenti una rinnovata e ritrovata etica civile degna di questo nome.
ANCHE SE è diventato trito luogo comune dire che la politica che conta non si fa più nelle assemblee legislative, le qualità dei leader e la composizione dei Parlamenti fanno ancora molta differenza, e senza azione legislativa le passioni, anche le migliori, si raffreddano e si disperdono.
Il ‘Manifesto’ propone a questo proposito di rompere radicalmente con “il modello novecentesco del partito” in nome di una struttura confederale ispirata a criteri di eguaglianza. Posto che nessuno è in grado di prevedere come e quando un partito si afferma e un altro scompare (chi aveva previsto la scomparsa, ad esempio, del Psi, una forza politica che aveva saputo rinascere dopo il fascismo; chi aveva previsto la vittoria di Forza Italia nel 1994?) credo che il punto fondamentale sia, più che la forma organizzativa, la sostanza politica e morale dei leader e dei militanti. L’ideale dei beni comuni, potrà diventare azione politica efficace, in altre parole, se saprà ispirare una nuova leadership politica e motivare una nuova generazione di militanti. Il lavoro da fare è molto e lo stesso ‘Manifesto’ deve essere arricchito, ma il punto di partenza è giusto, e vale la pena lavorarci.

l’Unità 20.4.12
I veri nemici della politica
di Bruno Gravagnuolo


E dopo la notte di Valpurga con le scope, la saga nibelungica leghista si arricchisce di un altro scandalo, destinato a intossicare la base «padana». Dalle carte giudiziarie filtra un appartamento al Gianicolo a Roma, con affitto pagato dalla Lega a Calderoli. Che da «triumviro» si difende contro «il fango gettato sul suo lavoro».
Mentre Pini accusa Reguzzoni di aver ricevuto soldi. E ancora non si è spenta l’eco dell’autodafé, con il capo in lacrime tra gli incensi, né quella dell’affaire Belsito condito di diamanti, né quella dei dossieraggi a carico di Maroni. Sconosciuti o «tollerati» da Bossi.
Bisogna pur dirlo: è l’acme di una tragicommedia, dove la vita imita l’arte comica. Qualcosa che neanche Orwell, nella sua Fattoria degli animali, si sarebbe mai sognato: il partito personale e carismatico degli epuratori - figlio dei «ceti virtuosi del nord» si sta autoepurando. In una furia del dileguare dove l’antipolitica forcaiola dei cappi si ritorce contro se stessa. E mostra il suo destino. Quello di generare arbitrio, prepotenza e familismo. Guarnito di mogli, badanti, figli e benefits. In un corto circuito che salda capi e popolo. Gabbando il secondo e lasciando mani libere ai primi. Non è «scherzi a parte», è un pezzo dell’Italia di questi ultimi venti anni berlusconiani: la distruzione della politica e dei partiti. In nome della vitalità barbarica e rigeneratrice della «società civile» e «dei ceti produttivi». Avvenuta tra il tripudio e il voto benevolo di opinionisti e giuristi. E che ha prodotto alla fine molti più guasti della politica di una volta, e partiti ben più «partitocratici» di prima. Con corteo di notabili locali, sottocapi, triumviri, lobbies e brasseur. E filiere economiche privilegiate, in capo a piccoli e grandi uomini della provvidenza.
Insomma, per certi aspetti siamo all’anno zero. Perché davvero stavolta, e in condizioni di drammatica emergenza, il discredito di questa politica, dominata a lungo dall’asse Berlusconi-Bossi, rischia di travolgere tutto. In un vortice emotivo senza fine, sospinto dal risentimento di massa e dall’insicurezza. Che, come già accaduto nella storia, può rifluire in anarchia populistica e regressiva. O in forme nuove di sovversivismo dall’alto, sull’onda dell’astensionismo e della protesta. Magari nel segno del «tecno-populismo», che è poi nient’altro che un regime commissario sui ceti subalterni e sulla politica, nel quadro di compatibilità finanziarie dettate dall’esterno e incontrollabili.
Per questo, e anche la vicenda della Lega ce lo dice, è necessario sbrigarsi a ricostruire un tessuto sano della politica di massa. Che in ogni democrazia è sempre e comunque fondato su partiti. Un tessuto civile, identitario, di appartenenza. Tra società e Stato. E tra politica e movimenti. Quel tessuto che deve esprimere governi programmatici e di partito è l’unico in grado di risospingere in avanti l’economia. E può essere un buon contrappeso etico di responsabilità e di trasparenza. Ma a certe condizioni ben precise.
La prima sta nel comprendere come si è giunti alle derive di oggi. E la risposta è: ci si è giunti con questo bipolarismo malato e maggioritarista. Fondato su partiti «coalizionali» e
«acchiappatutti». Populistici e proprietari a destra. Di opinione «liberal» a sinistra. In ogni caso su partiti «personalitari». Perciò non è più tempo di indugi: occorre una riforma elettorale che favorisca aggregazioni imperniate su partiti egemoni. Radicati nelle culture politiche e negli interessi di fondo del Paese. E poi: porre mano, entro la fine della legislatura, alla riforma del bicameralismo, e alla riduzione dei parlamentari. E infine: ridurre i costi della politica, con controlli di spesa rigorosi ed esterni, fino a sanzioni esemplari per chi tesaurizza in modo improprio gli avanzi di bilancio. Ma c’è un’altra cosa da chiarire: «governo di partito» non vuol dire «Stato-partito». E men che mai «partito-Stato» piglia-posti. Vuol dire cittadinanza e partiti forti. Con distinzione di ambiti e ripudio di sprechi e corruttela. Eccolo il «che fare». Prima che la «gente» faccia di ogni erba un «fascio». O una Lega...

l’Unità 20.4.12
Le radici della sfiducia
di Sergio Cofferati


L ’insofferenza di molti cittadini e cittadine verso la politica è palese e tende a crescere. È una tendenza spontanea anche se spesso l’informazione la amplifica. L’uso strumentale di questo malessere che viene fatto da più parti non può essere contrastato minimizzando lo stesso o arroccandosi nella difesa dell’esistente, sia che si tratti di strumenti che regolano la vita dei partiti o delle istituzioni, o che riguardi politiche che interessano più da vicino i cittadini e le cittadine.
Quali sono le ragioni di questa insofferenza? Credo siano molteplici e a volte specifiche di singoli gruppi sociali, ma alcune sono più rilevanti e vistose. Tra queste prevalgono i comportamenti che ripropongono un’idea di «cattiva politica», come l’uso per fini privati o clientelari di risorse pubbliche destinate a compensare le spese elettorali dei partiti. Se ci sono stati, come è probabilissimo, anche reati lo appureranno i giudici ma tutto ciò che è già dimostrato è largamente sufficiente a indicare l’esistenza di nuovi problemi.
È evidente lo scarto esistente tra le risorse che la legge destina sotto forma di rimborsi e la stessa capacità di spesa dei partiti per la loro attività. Sono convinto che il ruolo dei partiti, anche nelle società moderne, sia insostituibile, come sono altresì convinto che sia necessario un sostegno finanziario degli Stati per assicurare una efficace e trasparente attività dei partiti. Ma la situazione attuale non è equilibrata e dunque non sostenibile e giustificabile. Bisogna correggerla dando anche nel contempo segnali visibili di discontinuità rispetto alla situazione attuale, ad esempio congelando le risorse in fase di erogazione e ipotizzando un loro diverso impiego.
Esiste, secondo me, un’altra ragione ancor più delicata che sta creando insofferenza tra le cittadine ed i cittadini: è quella che discende dalla assoluta anomalia della fase politica attuale, infatti se i partiti rinunciano a svolgere per un periodo la loro funzione primaria che è quella di governare o di fare opposizione, inevitabilmente danno la stura a pulsioni negative in molti elettori e rafforzano gli argomenti strumentali di coloro che sono ostili alle forme attuali della rappresentanza politica. È molto importante per questo comunicare ed argomentare le ragioni della temporanea rinuncia alle funzioni di rappresentanza tradizionale.
Si può convenire che il gesto di generosità del Pd di anteporre gli interessi del Paese alla propria probabile affermazione elettorale non ha fatto la strada necessaria e non ha così prodotto l’effetto di contenere il disagio e l ́insofferenza? Ma il danno maggiore deriva dalla mancanza di efficace contrasto, che in alcuni settori del partito si è determinata, all’ipotesi di possibile (per alcuni addirittura auspicabile) prolungamento anche nella prossima legislatura dell’attuale esperienza di governo. Abbiamo invece bisogno rapidamente di un programma e di una coalizione, il candidato c’è già ed è il segretario, per rendere credibile e inequivoca la nostra proposta politica.
Infine non dobbiamo in alcun modo sottovalutare gli effetti della grave crisi economica e dei primi provvedimenti del governo da noi sostenuto su milioni di persone. L’aumento della disoccupazione e della povertà è molto forte e anche relativamente rapido, cresce nel contempo la fondata consapevolezza che i mesi futuri saranno peggiori di quelli che ci stiamo lasciando alle spalle. Sofferenza e preoccupazione sono componenti quotidiane della vita di moltissime famiglie. Ed ancora, i provvedimenti del governo, segnatamente quelli sui pensionati, sui cassaintegrati attuali e futuri e la politica fiscale, sono giustamente percepiti come iniqui e spesso ingiustificati. E gli effetti positivi di questi sacrifici, spesso enfaticamente annunciati, non sono nemmeno all’orizzonte.
Siamo in piena recessione e, come si dice da parte di autorevoli ministri e del presidente del Consiglio, fino al 2013 non ci saranno apprezzabili segnali di diversa tendenza. Il guado da attraversare è lungo e la sponda da raggiungere ancora incerta. Anche per questo conta moltissimo acquisire primi risultati sulla crescita ed indicare la giusta rotta per ridurre la povertà e la disoccupazione. Se tutto ciò non accadrà in tempi brevi inevitabilmente l’insofferenza e la sfiducia saranno destinate a crescere

Repubblica 20.4.12
Oltre cento liste e niente gerarchie il motore di Grillo va al massimo ma solo il guru decide e scomunica
L´ultimo strappo:"Via dall’euro, non rimborsiamo i Bot"
Euforici e confusi i "grillini" al bivio
di Michele Smargiassi


Per soffocare i frondisti riminesi il leader delle 5 Stelle ha usato perfino le intercettazioni
Il movimento può aspirare al podio di terzo partito, ma non ha gruppo dirigente, c´è solo lo "Staff"

Bologna. Che fare? Nulla. «Non dobbiamo fare proprio nulla. Faranno tutto gli altri, si disferanno da soli, e noi vinceremo». La strategia del ragno, predica Giovanni Favia.E Favia sa quel che dice, perché sul podio di terzo partito che alle politiche la Swg attribuisce al non-partito di Beppe Grillo, lui consigliere regionale ci sta già seduto sopra da due anni. Col 7%, doppiati i centristi, il MoVimento 5 Stelle è già il terzo polo in Emilia Romagna. «E possiamo fare molto di più. Anche tre volte tanto».
Basta non sbagliare le mosse. L´euforia è pericolosa, e scricchiolii già si avvertono: zuffe virtuali, scomuniche dall´alto, malumori dal basso. «Nervi saldi. È la grande occasione ma le occasioni si colgono, o si sprecano»: Massimo Bugani, fotografo, felpa rossa da ragazzino, un anno fa festeggiava con le sfrappole lo sfondamento (tre consiglieri) a Bologna; ma ora va di frizione, «ci serve ancora tempo per essere pronti». Eppure sembra un piatto cotto e servito, la Lega che sprofonda (e cede ai grillini, pare, metà dei voti in fuga), la coalizione ABC che s´impastrocchia sul tema più impopolare, il finanziamento ai partiti. Centoquattro liste pronti a «surfare l´onda», come dice il capo. Ad Alessandria, 33 liste e 16 candidati sindaco, per il pentastellato Angelo Malerba potrebbe perfino scapparci il colpo grosso, il primo sindaco grillino; lui gongola, «se mi presento vuol dire che son pronto a governare», poi esita: «se non vedo non credo...». Ma c´è davvero nell´euforia una punta di paura se perfino l´oracolo genovese tuona contro il "rigor Montis" ma non invoca elezioni subito, e sugli scandali mette le mani avanti: «ora tocca alla Lega, dopo a Di Pietro, poi a noi». Paura di imboscate. Paura di cadere sul traguardo come Dorando Pietri.
Nato il 4 ottobre del 2009, come san Francesco, il M5s è un´utilitaria lanciata in pista al massimo dei giri. Il carburante è buono. Migliaia di militanti di anagrafe dinamica, età media 35, terziario tecnologico, esperienze glocal, una riserva di sdegno-più-impegno che è forse l´ultima spiaggia della politica pulita nel Belpaese astensionista. Anche la rotta è scelta con cura: non sono orfani di Berlusconi come i dipietristi o l´evaporato popolo viola. A Grillo non mancano i bersagli, clamoroso l´ultimissimo: «Usciamo dall´Euro e non paghiamo il debito pubblico». Intanto diversifica gli investimenti nell´Italia delle mille rivolte, blandisce i tassisti, sfotte le tasse, boccia lo ius soli per i figli degli immigrati. A Bologna una consigliera romena cinquestelle si dimette per protesta, ma a Legnano, Padania profonda, il candidato Daniele Berti fa campagna contro il campo Rom.
Quel che rischia di sbullonare però è il motore. Niente dirigenti, impone il «non statuto», viva la democrazia orizzontale del Web, peccato che non esista. La Rete è potente per mobilitare e diffondere viralmente: frana se deve decidere. «Abbiamo giustamente deriso le primarie infiltrate del Pd, ma le votazioni Internet sono la stessa cosa», ammonisce da Genova Christian Abbondanza, animatore della Casa della legalità, quasi un eroe per il popolo grillino, ma ora molto arrabbiato con i suoi amici: «Basta un software, ti procuri 199 identità Internet e ribalti una scelta, si rischia di farsi imporre i candidati da chissà chi». Quando la tessera di militante è una password e diventare un votante dev´essere facile come fare un login, i rischi sono questi. Molti li hanno già intravisti. A Bologna si entra nel MoVimento solo dopo aver partecipato a tre assemblee in carne ed ossa. «Io sono stato scelto da persone fisiche», rivendica Davide Bono da Torino. Insomma in democrazia a volte quel che è buono non è nuovo e quel che è nuovo non è buono.
Ma le scelte alla fine qualcuno le fa, e ogni scelta premia ed esclude, e lascia scontenti. La Rete è piena di blog di delusi, fuoriusciti o mai entrati, scomunicati, amareggiati grillini della prima ora che gridano al tradimento e fondano grillerie alternative: sembra la turbolenta gestazione della Lega Nord. «Bastano dieci che si insultano per farci sembrare divisi, usiamo la Rete troppo e male», ha ammesso Favia. Ma il guaio è che nel movimento orizzontale nessuno ha i poteri per sedare una rissa o contrastare una "devianza", tranne l´unico potere verticale: lui. Il "Garante". A cui il non-statuto non attribuisce cariche, neppure questa che tutti gli riconoscono, ma che senza poter essere sfiduciato può sfiduciare chi vuole. Gli bastano due righe sul suo blog, e saltano teste e liste. Valentino Tavolazzi è ancora lì che si lecca le ferite: la sua lista civica "Progetto per Ferrara" è più vecchia del M5s, ed ebbe nel 2009 il regolare timbro del capo, che adesso però ha cambiato idea e gliel´ha tolto di botto, in piena campagna elettorale, con una lettera dei suoi avvocati. «Ci ha lasciato senza scorta», si lamenta desolato il Tavolazzi: sul sito ha coperto il simbolo cinquestelle con un frego nero. «Non capisco, forse la democrazia interna è ancora prematura...». A Taranto il primo gruppo cittadino si ribella al candidato Furnari. A Genova il Meetup 20 non gradisce Paolo Putti, che Grillo ha pescato fuori dal MoVimento: è il leader del popolarissimo comitato "No Gronda", sorta di no-Tav dell´asfalto.
Agli scontenti non resta che il mugugno. Oppure il ricorso allo Staff. Lo chiamano tutti così, "lo Staff", tanto sanno di chi si tratta: "i Casaleggio". Casaleggio Associati, società di strategie di Rete, spin doctor di Grillo, geniali artefici della sua fortuna sui new media, molto più che tecnici, svolgono un ruolo politico, gestiscono le crisi locali, valutano candidature, qualcuno comincia già a temerne il potere. Un movimento che rifiuta ogni gerarchia formale rischia di subire quelle di fatto.
Del resto fra qualche mese il MoVimento potrebbe essere costretto da un nuovo sistema elettorale a fare una scelta gerarchica devastante per la sua ideologia. Un nome sulla scheda, il candidato premier. Grillo? No. È il proprietario del marchio, ma come leader predestinato si giocherebbe tutto per una base che al motto "uno vale uno" ci crede davvero. «Beppe è un papà, ma lo mollerei se si candidasse» giurava un militante di Arezzo alla "Woodstock" romagnola del movimento. Chi allora? A Rimini, in marzo, una riunione autoconvocata di meetup dissidenti ha osato l´inosabile: mettere in discussione l´autorità del guru e dei suoi consiglieri. C´era (ma non messa ai voti) perfino una mozione che proponeva candidato premier Giuseppe Favia, proprio lui, il primo trionfatore bolognese, recordman nazionale dei consensi grillini. Instancabile, da mesi cura meticolosamente la sua popolarità partecipando ai talk show televisivi e facendosi invitare in piazze anche molto lontane dalla sua Emilia. Eccessivo personalismo per molti, e Grillo ha iniziato a mandargli messaggi ben decifrabili, a bruciargli la terra attorno: piallando il suo fedelissimo co-consigliere regionale Defranceschi per un´inezia (una mozione di solidarietà all´Unità in crisi), cacciando dal MoVimento la lista ferrarese sua amica, ottenendo un giuramento di fedeltà personale "senza se e senza ma" dai tre consiglieri comunali di Bologna. Per soffocare sul nascere i frondisti riminesi, Grillo ha sfoderato addirittura un´arma da seconda repubblica, le intercettazioni: pubblicando sul blog, senza nomi, alcuni messaggi scambiati tra i dissidenti in chat riservata («a leggerli mi sono cascate le palle») e sfidandoli al coming out (nessuno si è fatto vivo). Favia a Rimini non c´era andato, ma in qualche modo ha accusato ricevuta: «Non mi candiderò al Parlamento». Ha ragione davvero: quando c´è tempesta, meglio stare fermi.

Corriere della Sera 20.4.12
La Cassazione «smonta» la legge di Pdl, Pd e Udc
Il presidente della Corte: «Il controllo dei bilanci esula dai nostri compiti»
Casini e Alfano: sì ai soldi dai privati
di Dino Martirano


ROMA — Il primo magistrato d'Italia smonta, pezzo dopo pezzo, la proposta di legge Alfano, Bersani, Casini che mira ad affidare anche alla Cassazione il compito di controllare scrupolosamente i bilanci dei partiti a partire dalle gestioni 2011 e 2012: «Sotto l'aspetto pratico devo rilevare che alla mia carica l'ordinamento già imputa molteplici funzioni che non lasciano tempo sufficiente per assolvere idoneamente altri compiti....».
Così, con una lettera inviata ai presidenti di Camera e Senato, il presidente della Corte di Cassazione, Ernesto Lupo, affonda il testo della maggioranza depositato il 12 aprile alla Camera che, a questo punto, rischia di essere istradato su un binario morto. Tant'è che Pier Ferdinando Casini ha già presentato un provvedimento fotocopia della proposta di legge popolare presentata da Pellegrino Capaldo (sostituire progressivamente l'attuale meccanismo di rimborsi elettorali a carico dello Stato con contributi volontari defiscalizzati). E anche Angelino Alfano dice che «quella di Capaldo è la strada giusta». Del resto, lo schema di proposta dell'ex banchiere, oggi al vertice della Fondazione Sturzo, trova sostenitori pure nel campo del Partito democratico.
Dunque, lo sprint della leggina Alfano, Bersani, Casini sembra già esaurito. Il primo colpo glielo ha dato la Lega, che raccogliendo 76 firme ha bloccato la corsia preferenziale della commissione in sede legislativa. Il secondo fendente è arrivato dall'ufficio studi della Camera che ha messo in discussione il calendario della I commissione: perché non si può mica discutere prima dei controlli (testo Abc) e poi della natura giuridica dei partiti (legge sull'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione). Poi è arrivata la lettera del presidente Lupo che ora rischia di completare l'opera di demolizione. Con la condivisione anche del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Michele Vietti: «Il presidente Lupo ha espresso un avviso assolutamente condivisibile. Il vertice della giurisdizione ordinaria non può essere investito di funzioni di controllo dei bilanci dei partiti che potrebbero originare contenziosi i quali finirebbero inevitabilmente davanti al giudice».
In altre parole, Lupo ha segnalato più di un errore da matita blu contenuto nel testo firmato dai tre leader. E questo fa dire al relatore Gianclaudio Bressa (Pd) che «l'iniziativa è quanto meno irrituale» perché «si tratta di un intervento preventivo in risposta a una decisione presa in piena autonomia dal potere legislativo». Ma — aggiunge Bressa — «siccome il primo presidente è una delle più alte autorità sapienziali di questo Paese le sue perplessità saranno prese in considerazione».
Eppure — come aveva anticipato due giorni fa un altro deputato del Pd, l'ex magistrato Lanfranco Tenaglia — i punti di criticità costituzionale del testo Abc sono più di uno. Scrive infatti il giudice Lupo nella sua lettera a Fini e Schifani: uno, «i compiti previsti dalla proposta fuoriescono completamente dal giudizio di legittimità attribuita alla Corte da me presieduta»; due, il presidente della Cassazione non può essere sottoposto al presidente della Corte dei Conti (coordinatore della commissione di controllo sui bilanci) perché questo meccanismo «non tiene conto dell'ordine in cui si collocano, anche a livello dell'ordinamento costituzionale, le diverse giurisdizioni»; tre, il vertice della Cassazione chiamato a vagliare i bilanci dei partiti verrebbe poi coinvolto per esaminare gli inevitabili ricorsi dei partiti e dei movimenti politici sanzionati che, al termine del giudizio, approderebbero proprio in Cassazione.
Casini e Alfano, a questo punto, lasciano intendere che la strada percorribile potrebbe essere un'altra. Lo stesso Casini infatti, assieme a Cesa, è il primo firmatario di un testo depositato ieri alla Camera che prevede, nell'arco di 5 anni, un passaggio graduale dal rimborso elettorale da parte dello Stato alle erogazioni volontarie dei cittadini: fino a un massimo di 2 mila euro ciascuno, con un credito d'imposta riconosciuto dallo Stato del 95%. È, appunto, la proposta contenuta nella legge di iniziativa popolare presentata da Pellegrino Capaldo che, nella sua impostazione, sembra convincere anche il segretario del Pdl: «L'idea di un x per mille e di un maggiore protagonismo dei cittadini nell'individuazione delle risorse per i partiti è la strada giusta. Se tutti si avvicinano a questa strada io sono contento e penso che sia possibile riuscirci», dice l'ex Guardasigilli. Nel Pd si inizia a muovere anche Massimo D'Alema che, pur giudicando «interessante» la proposta Capaldo, immagina un meccanismo diverso: «Si potrebbe anche delegare ai cittadini di destinare nella dichiarazione dei redditi una parte dei soldi alla forza politica preferita». Però, aggiunge l'ex premier, «credo che si debba anche riformare la legge elettorale e restituire alla gente il potere di scelta dei propri rappresentanti».
Resta da vedere che cosa succederà martedì in I commissione alla Camera, quando riprenderà l'esame del testo Alfano, Bersani, Casini (sui controlli per i bilanci dei partiti) e della legge sull'attuazione dell'articolo 49 (natura giuridica dei partiti). Pier Luigi Bersani è convinto che i problemi si risolveranno: «Vedrete che a maggio ci saranno sia la legge sui controlli dei bilanci sia quella sullo statuto dei partiti».
Ma il nodo della riduzione dei rimborsi elettorali ancora non è stato affrontato, tanto che il leader dell'Idv Antonio Di Pietro annuncia per sabato prossimo l'inizio di una raccolta di firme per la proposta di legge di iniziativa popolare finalizzata a cancellare il finanziamento pubblico ai partiti. Il cerchio lo chiude il vicepresidente del Senato Vannino Chiti (Pd), che ammette: «Sui rimborsi elettorali le leggi attuali sono pessime. Per questo dobbiamo chiedere scusa agli italiani, anche se queste risorse non sono state gestite da tutti allo stesso modo».

il Fatto 20.4.12
In morte di un partigiano
risponde Furio Colombo


Caro Colombo, giorni fa è morto a Parigi un grande, vecchio leader della Resistenza francese, Raymond Aubrac (97 anni). Nella foto che vedo sui giornali francesi la bara, portata da militari in alta uniforme, è seguita dai familiari e dal presidente Sarkozy. Ho pensato: ecco un Paese normale, in cui la Storia non si tocca e la destra è dentro, non fuori (ed estranea e nemica) dal comune passato del Paese.
Armando

FATALMENTE viene in mente un fatto italiano appena accaduto, la scomparsa di un grande personaggio della Storia antifascista italiana, Rosario Bentivegna. Come si ricorderà, Bentivegna è stato, in Roma, il protagonista di una Resistenza quasi improvvisata, quasi senza mezzi, contro la poderosa occupazione nazista e il collaborazionismo fascista. Come è noto il suo nome è stato legato al più importante attentato subìto dai nazisti a Roma, quello di via Rasella. La rappresaglia tedesca, comandata direttamente da Hitler, è stata tra le più crudeli e furiose e ha dato luogo al massacro delle Fosse Ardeatine. La destra italiana ha scelto prontamente di mettere la rappresaglia nazista e i 335 morti delle Fosse Ardeatine a carico dei Partigiani, e non su quello di coloro (tedeschi ma anche italiani), che hanno eseguito o aiutato a preparare il massacro. In questo modo sono riusciti a usare per decenni il nome di Bentivegna come quello di un colpevole invece che come quello di un eroe. Negli ultimi due decenni Berlusconi ha dato vita, agiatezza e ministeri a ciò che rimane di quella destra, aggravando la spaccatura dell'Italia e rendendo possibile un costante lavoro di screditamento della Resistenza e della sua celebrazione. La morte di Rosario Bentivegna ha confermato che la separazione di questo Paese dalla sua Storia è un triste fenomeno che continua. Ogni giornale di destra si è prontamente dedicato a ricordare il Partigiano come responsabile della rappresaglia, tentando di denigrarlo fino alla tomba, e poi di ricominciare a chiedere che si abbandoni e smentisca l'antifascismo che sarebbe, come nell'ignobile trucco di via Rasella, la causa dell'Italia divisa. Non ci resta che guardare a quell’immagine del presidente Sarkozy, candidato della destra alle prossime elezioni presidenziali francesi, e provare invidia per quel Paese che ha i conti in ordine con la Storia.
Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano

l’Unità 20.4.12
Unioni di fatto dal Colle stop alle polemiche: «Serve una legge»
Il Parlamento legiferi per dare «puntuale regolamentazione» alle coppie di fatto, anche quelle omosessuali. Così il Quirinale che è stato coinvolto nelle polemiche successive alla sentenza della Cassazione sui matrimoni gay
di Marcella Ciarnelli


Al lavoro per le riforme. Quelle che dovrebbero riuscire a portare il Paese fuori dalla crisi seguendo il percorso, pur doloroso, di stabilizzazione economica e quelle che viaggiano in parallelo, altrettanto necessarie, della politica e delle istituzioni su cui il Parlamento è dai fatti chiamato ad un intervento tempestivo. Riforme della politica che hanno in sè la potenzialità di stabilizzare il Paese e migliorare la percezione complessiva delle istituzioni. Un argomento anche questo affrontato nel colloquio tra il presidente della Repubblica e il premier nel corso del colloquio di un’ora e mezza dedicato non solo questioni economiche.
I DIRITTI
Ma, a proposito del ruolo che il Parlamento deve avere, il presidente della Repubblica ha deciso di rendere noto il suo carteggio con i senatori Gasparri e Giovanardi e con le deputate Concia e Alfano, a proposito delle unioni di fatto, comprese quelle omosessuali dato che «sono all’esame delle Camere più proposte di legge in materia e ad esse spetta comunque dare puntuale regolamentazione» a situazioni che riguardano più di seicentomila coppie in Italia che sovente si trovano davanti a condizioni di oggettiva difficoltà per il mancato riconoscimento di diritti nella costanza di un rapporto.
Nel giorno in cui al Senato è stato presentato un disegno di legge bipartisan sulle «modifiche da apportare al codice civile» per arrivare anche nel nostro ordinamento all’introduzione di «un accordo di unione solidale» ed alla Camera è partito l’iter in Commissione giustizia per unificare i disegni di legge in materia di unioni di fatto depositati da tempo, è riesplosa la polemica.
Ad innescarla hanno provveduto i senatori Maurizio Gasparri e Carlo Giovanardi che avevano pensato bene di far arrivare fino al Colle il loro sdegno davanti alla sentenza che la Corte di Cassazione aveva emesso in marzo a proposito di un matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso «non trascrivibile» ma non mancando di fare intendere come ci si trovi di fronte ad una questione da affrontare. Finalmente. E poi di rendere nota ieri la loro interpretazione della risposta, peraltro riservata, arrivata da Napolitano, a firma del segretario generale della Presidenza, Donato Marra che ha provveduto a rispondere anche alle onorevoli Paola Concia e Sonia Alfano che avevano contestato l’iniziativa dei due senatori tornando a richiedere che in materia ormai si arrivi ad una legge.
LE RISPOSTE
Il Quirinale non è entrato nel merito della questione vissuta, ovviamente, con opposti punti di vista ma ha ai due senatori ha provveduto a specificare che «non pare che i giudici con il loro provvedimento abbiano voluto sostituirsi al legislatore o interferire sulle scelte che solo ad esso spettano» mentre alle due deputate che avevano criticato la missiva Gasparri-Giovanardi perché il presidente «non va tirato per la giacchetta», Concia ancora ieri.«Ai senatori Gasparri e Giovanardi ha scritto Marra ho fatto presente che, fermo il diritto di critica spettante a chiunque in relazione ai provvedimenti della magistratura, non pareva, al Capo dello Stato, che la sentenza avesse inteso interferire sulle scelte del legislatore. Come la pronuncia della Cassazione ha affermato in più punti, compete infatti esclusivamente alla discrezionalità degli Stati prevedere o meno il matrimonio tra coppie omosessuali e, per l’effetto, valutare, come ha stabilito di recente la Corte Europea dei diritti dell’uomo, se “stabilire diritti differenti tra coppie sposate e coppie dello stesso sesso che non possono contrarre matrimonio”» possa costituire una violazione del diritto.

l’Unità 20.4.12
Il portavoce del ministro degli Esteri: incaricate le sedi consolari
Anche la magistratura di Civitavecchia apre un’inchiesta
Migranti imbavagliati, l’Algeria pronta ad azioni diplomatiche
Algeri è pronta ad azioni diplomatiche contro l’Italia sul caso del rimpatrio dei due migranti. Lo ha annunciato il portavoce dl ministro degli esteri. Intanto la magistratura ha aperto un’indagine.
di Pino Stoppon


Rischia di diventare un caso internazionale l’odissea dei due algerini rimpatriati lo scorso lunedì con un volo Roma-Tunisi. Una foto, scattata da un passeggero, li ritraeva imbavagliati, con del nastro adesivo per pacchi, e legati. Ieri, secondo la stampa locale, il governo di Algeri una volta accertata la veridicità della notizia è pronto a chiedere spiegazioni al governo italiano.
Stiamo appurando, il portavoce del Ministero degli Esteri algerino, Amar Belani ha detto Belani, «la veridicità delle informazioni rilanciate dalla stampa» e, se esse risponderanno al vero, «la parte italiana sarà chiamata a fornire le spiegazioni che si impongono in materia». «Le nostre sedi diplomatiche e consolari a Roma ha aggiunto il portavoce del Mae al sito algerino Tsa sono state incaricate di fare i passi necessari per ottenere informazioni ufficiali sul trattamento che sarebbe stato inflitto ai nostri connazionali». Belani ha quindi condannato «nel modo più energico tutto quanto attenta alla dignità dei nostri residenti all’estero. Condanniamo nella maniera più ferma questo genere di pratiche vergognose, degradanti e inumane».
INDAGINE
In attesa di sviluppi ci sarà anche un’indagine della magistratura. La procura di Civitavecchia ha aperto un procedimento, al momento contro ignoti, per verificare eventuali responsabilità. I due nordafricani nel viaggio erano scortati da due agenti in abiti borghesi. Il fascicolo, aperto dal procuratore capo Gianfranco Amendola, non ha ancora ipotesi di reato: il magistrato ha affidato gli accertamenti ai carabinieri del nucleo investigativo di Roma.
La vicenda era stata resa nota dal regista Francesco Sperandeo che si trovava a bordo dell’aereo e che ha scattato una foto con il cellulare ai due per poi pubblicarla sul suo profilo di Facebook. L’istantanea «rubata» da Sperandeo raccontava dei due clandestini seduti all’ultimo posto in fondo all’aereo, le mani legate con una fascetta di plastica, la bocca tappata con un pezzo di scotch da pacchi e una mascherina protettiva abbassata. La polizia di frontiera dell’aeroporto di Fiumicino, intanto, così come sollecitato dal capo della polizia Antonio Manganelli, sta raccogliendo tutti gli elementi al fine di redigere una relazione su quanto avvenuto.
In base a quanto ricostruito i due extracomunitari sarebbero algerini che avrebbero fatto scalo tecnico a Roma con un volo che da Tunisi doveva portarli in Turchia. Arrivati a Fiumicino la mattina del 15 aprile, avrebbero rifiutato per due volte di imbarcarsi sul volo diretto in Turchia. A quel punto le nostre autorità avrebbero fatto scattare la procedura di respingimento che prevede di riportarli nel luogo dal quale sono partite e, dunque, Tunisi. La vicenda ha sollevato un vespaio di polemiche, anche in ambito politico.

l’Unità 20.4.12
Breivik, un videogame di guerra per allenarsi alla strage di Utoya
l killer di Utoya, prima di uccidere 77 persone, si era allenato a usare i sistemi di puntamento con un videogame di guerra: Call of Duty. E nel 2006 si era preso un anno sabbatico per giocare con World of Warcraft
di Marina Mastroluca


Per non sbagliare un colpo si era allenato a lungo. Come un vero combattente, o come un qualsiasi ragazzino di quindici anni. Anders Breivik, il killer di Utoya, si era preparato giocando con un videogame di guerra, Call of Duty Modern warfare. Nell’aula del tribunale distrettuale di Oslo dove deve rispondere dell’uccisione di 77 persone, il sedicente cavaliere templare, votato alla guerra contro l’islam e l’Europa multiculturale, ha spiegato di essersi preparato davanti ad un computer, usando un «sistema di puntamento olografico» comprato per i suoi wargame: dello stesso tipo di quello che poi ha utilizzato per fare una strage al campeggio laburista sull’isola di Utoya.
«Si sviluppa una capacità a restare sull’obiettivo», ha spiegato Breivik, parlando dei videogiochi. «Sono ottimi per acquisire esperienza sui sistemi ottici». E una volta che ci prendi la mano, tutto diventa semplice anche fuori dalla realtà virtuale. «Sono fatti in modo che potresti darli a tua nonna e lei diventerebbe un tiratore scelto. Sono fatti per essere usati da chiunque. In effetti non serve un grande allenamento. Ma naturalmente la pratica su un simulatore aiuta». Ore di allenamento pensando alla strage. La sua idea era di uccidere tutti i ragazzi o almeno spingerli nel lago per vederli annegare. Voleva anche ha detto sterminare l’intero governo norvegese e decapitare il primo ministro, magari registrando un video. Non pensava di cavarsela, naturalmente, si aspettava che qualcuno finisse per piantargli una pallottola in corpo durante la sua missione.
L’aveva messo in conto.
Non è andata così e in tribunale Breivik può parlare di quante altre persone avrebbe voluto uccidere, quante altre bombe e stragi aveva covato. E all’accusa che, mentre parla della simulazione ai videogiochi, gli ricorda che in aula ci sono i parenti della vittime e gli chiede come crede che si sentano, il killer risponde lucidamente: «Probabilmente stanno reagendo nel modo più naturale, con disgusto e orrore».
ANNO SABBATICO
Non fa confusione, sa bene che realtà virtuale e reale sono cose diverse. Breivik adora i giochi di guerra. Alla corte norvegese racconta si essersi preso un anno «sabbatico» tra l’estate del 2006 e quella del 2007, spendendo tutto il suo tempo davanti ad un computer. Sedici, diciassette ore al giorno spese a giocare con World of Warcraft. Non gli serviva per preparsi alla strage, anche se il killer norvegese sostiene che già allora avesse in mente una missione suicida. Il videogioco era puro divertimento. «A qualcuno piace giocare a golf, altri amano navigare. Io giocavo a World of Warcraft», ha spiegato. Un hobby, niente di più. «Avendo in mente una cosiddetta missione suicida, volevo non avere rimpianti per quello che avevo perso».
La madre e gli amici erano rimasti increduli quando aveva annunciato il suo programma di restarsene in casa a giocare per un anno intero. «Non potevo dire che stavo prendendo un anno sabbatico perché ero intenzionato a farmi esplodere entro cinque anni», ha raccontato Breivik. Alla madre aveva venduto la storia che era diventato video-dipendente. «È stata la mia principale copertura». Per essere lasciato in pace ed avere anche il tempo di scrivere il suo «compendio», la sua lettura del mondo, il suo delirio xenofobo. Poi è riemerso dalla realtà virtuale e ha cominciato a darsi da fare. Fino a quel pomeriggio di luglio.

La Stampa 20.4.12
“In Egitto i generali vogliono pilotare il voto”
Il deputato Kamel: ma il pericolo sono i Fratelli Musulmani
di Francesca Paci


I fan del salafita Hazem Abu Ismail protestano per la sua esclusione dal voto
I militari stanno escludendo i candidati scomodi per favorire il loro uomo Moussa
«La gente è pronta a tornare in piazzaTahrir, non voterà più come a novembre»

Quando martedì sera la Commissione elettorale ha bocciato il ricorso dei tre maggiori candidati alle presidenziali egiziane estromettendoli definitivamente dal voto del 23 e 24 maggio, Basem Kamel preparava la relazione sulla primavera araba da presentare stamattina a Palazzo Madama durante la conferenza dei parlamentari progressisti «Rewrite the world». Come leggere l’esclusione dell’ex capo degli 007 di Mubarak Omar Suleiman, del Fratello Musulmano Khairat al Shater e del salafita ultraconservatore Hazem Abu Ismail Kamel, fondatore del partito socialdemocratico egiziano, attivista della campagna per el Baradei e soprattutto neoeletto membro del Parlamento, sorseggia una Coca-Cola davanti alla sala della Regina: «La vera sorpresa è stato Suleiman, ormai è chiaro che la sua candidatura era un bluff. La giunta militare l’ha spinto nellamischiaperpoiallontanarlo, voleva prevenire l’accusa di boicottare i concorrenti islamisti e lasciare campo libero al suo vero campione, Amr Moussa. Un proverbio egiziano dice che sei vuoi picchiare i figli dei vicini devi mandare i tuoi figli a giocare con loro e picchiarli tutti insieme».
Il risultato è un Paese confuso in cui, secondo il respinto Khairat al Shater, «la democrazia è in pericolo». Kamel condividelapreoccupazione, mainclude i Fratelli Musulmani tra le forze da cui guardarsi. «Da un lato ci sono i militari, che non molleranno facilmente il potere temendo di venire processati con Mubarak, dall’altro loro, gli specialisti dell’ambiguità» nota mentre segue le ultime notizie su Twitter, il Cairo, l’Egitto, la Siria. E pazienza se, come già Washington, il premier italiano Monti ha aperto loro un credito politico: «E’ un errore. Quando sento i Fratelli Musulmani parlare con gli ambasciatori e i rappresentanti stranieri resto senza parole: professano la libertà delledonne, la tolleranza religiosa, la democrazia: sulla carta sembrano talmente liberali che di solito alla fine di questi incontri li provoco proponendogli di fonderci in un unico partito». Non era questo che sognava piazza Tahrir appena un anno fa. Kamel c’era e da allora ne segue l’umore altalenante: «Frequento i caffè del Cairo, parlo con la gente. La fiducia originaria nei Fratelli Musulmani e nell’esercito è svanita. All’inizio gli egiziani si erano fatti convincere da entrambi a confidare nella rivoluzione ma non nei rivoluzionari, ora capiscono che religiosi e militari hanno scippato loro la vittoria e sono pronti a tornare a Tahrir. Non credo che voterebbero più come a novembre. Molti non sanno neppure se votare, sempre che la giunta non cancelli le elezioni».
Il futuro dell’Egitto è un geroglifico. Ha ragione l’arabista Olivier Roy quando nel suo ultimo libro «The Islamists Are Coming: Who They Really Are» sostiene che il sisma politico mediorientale stia cambiando i nuovi islamisti più di quanto loro abbiano fatto con la politica? Kamel sorride, sa di sparigliare: «Questa analisi vale per i salafiti, non per la Fratellanza, fermamente ortodossa. I salafiti vorrebbero spostare l’età nuziale delle donne a 12 anni e bandire l’inglese dalle scuole ma hanno dei principi, stanno imparando la politica e sono sinceri. E’ come se ti minacciassero con il coltello che invece gli altri nascondono dietro le spalle». Difficile dire chi vincerà: «Noi liberali stiamo cercando di far coalizzare l’ex Fratello Musulmano Aboul Fattouh e il nazionalista Hamdeen Sabbahi, l’unica nostra chance è concentrare i voti su un solo candidato». Di certo, giura, l’Egitto non tornerà indietro.

La Stampa 20.4.12
India, un test missilistico per entrare fra i Grandi
Lanciato un vettore intercontinentale: Usa sorpresi, paura a Pechino
di Maurizio Molinari


Il successo dell’India nel test di un missile intercontinentale capace di raggiungere Pechino conferma come in Asia sia in atto una corsa al possesso di Icbm, i vettori balistici più sofisticati e pericolosi perché capaci di portare a lunga distanza ogive atomiche, mutando dunque gli equilibri strategici. Al momento le uniche nazioni che ne possiedono sono i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu - Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna - ma il lancio perfetto dell’Agni-V dall’isola Wheeler porta ora ad includere l’India con la conseguente modifica dell’equilibrio con Pechino perché, come spiega l’analista militare di «Jane’s» Poornima Subramaniam, «ora Nuova Delhi può riuscire a colpire in profondità la Cina, potendo di conseguenza impiegare i propri missili a medio e corto raggio come deterrenti nei confronti del Pakistan». Il cambiamento diventerà operativo nel 2014-2015, quando l’Agni-V verrà dispiegato nei silos sotterranei, assegnando all’India un ruolo di potenza capace di rivaleggiare con la Cina. In maniera analoga il leader nordcoreano Kim Jong Un si proponeva, con il test della scorsa settimana del proprio Icbm, di cambiare l’equilibrio di forze nell’Asia del Nord-Est, puntando a dimostrare di poter minacciare Tokio e Seul se non addirittura il territorio degli Stati Uniti al di là del Pacifico. E al clamoroso fallimento del test, il dittatore ha replicato con un discorso di esaltazione del militarismo teso a far comprendere ai Paesi vicini che l’intenzione di possedere un Icbm continua ad essere in cima ai suoi pensieri. Un recente studio dell’«Arms Control Association» di Washington attesta che «il programma missilistico nordcoreano ha molte similitudini con quello iraniano», non solo per tipo di armamenti adoperati e collaborazione di ingegneri balistici ma in quanto mira a «modificare l’assetto strategico nella propria regione», ovvero il Medio Oriente, facendo di Teheran la prima potenza in grado di lanciare a 5000 km di distanza qualsiasi tipo di ogiva. La corsa di Pyongyang e Teheran verso i missili intercontinentali, come il successo di New Delhi nel test di ieri, avvalora la scelta compiuta dall’Alleanza Atlantica di includere nell’agenda del summit di maggio a Chicago l’accelerazione della realizzazione del sistema di difesa anti-missile,al fine di dotarsi in tempo delle contromisure necessarie alla minacce future. «A Chicago la Nato tenterà di sviluppare un controllo congiunto sulle difese antimissile esistenti» preannuncia il Segretario di Stato, Hillary Clinton. D’altra parte la difesa anti-missile schierata da Stati Uniti, Giappone e Sud Corea in occasione del fallito lancio nordcoreano offre già un esempio di come l’Occidente può tentare di proteggersi: unità marittime Aegis, Patriot di ultima generazione posizionati attorno alle città, super-radar e satelliti del Pentagono hanno consentito al governo di Tokyo di rassicurare i propri cittadini sul fatto che il vettore sarebbe stato abbattuto se si fosse avvicinato allo spazio aereo nazionale. Se lo scudo anti-Nord Corea dispiegato nel Mar del Giappone è stato il primo test anti-Icbm, sul fronte della protezione dal lancio di missili a medio, corto e cortissimo raggio i dispositivi più avanzati sono invece quelli di cui dispone Israele, realizzati assieme agli Stati Uniti. Si tratta del sistema «Arrow» per intercettare missili tipo-Scud e dell’«Iron Dome» che invece protegge il Sud dello Stato ebraico da razzi lanciati da Hamas nella Striscia di Gaza. La sfida a distanza fra missili e sistemi anti-missile che tiene banco in più regioni dell’Asia lascia intendere che è questo il terreno su cui si misureranno i nuovi equilibri fra potenze. Anche se a posizionarsi in maniera differente è la Russia di Putin, che minaccia di non essere presente al summit di Chicago proprio per attestare la contrarietà allo scudo della Nato.

Repubblica 20.4.12
Il leader Spd: "Faccio il papà, via dal partito"
Tre mesi di congedo parentale per Sigmar Gabriel, la compagna vuole tornare al lavoro
di Andrea Tarquini


Mi prendo il congedo parentale così Anke potrà tornare nel suo studio, poi si libererà un posto all’asilo infantile
Scelta non facile dato che nel settembre 2013 si terranno le elezioni politiche federali
Riprenderà il suo incarico solo in autunno quando si libererà un posto all´asilo infantile

Berlino. Sigmar Gabriel starà a casa ad accudire la piccola Marie, nata il 10 aprile scorso. Motivo: la sua giovane compagna Anke Stadler, 35 anni, vuole riprendere il suo lavoro di dentista a Magdeburgo, nel Bundesland orientale di Sassonia-Anhalt. Insomma il partito può attendere, ceda il passo a pannolini e biberon: il compagno Gabriel (nella Spd ci si chiama ancora così) sarà solo papà a tempo pieno fino alle soglie dell´autunno. Solo da allora, per Marie ci sarà un posto in un Kindergarten, e allora lui potrà tornare al posto che fu di Kurt Schumacher, di Willy Brandt e di Helmut Schmidt.
Curioso destino, quello dei leader tedeschi: a volte sanno dare un buon esempio etico, anche se nel quotidiano della politica appaiono perdenti davanti alla fortissima controparte. Una donna, guarda caso: l´imbattibile Angela Merkel. «Io spero di essere un buon padre, tutti i papà lo desiderano», confessa Sigmar Gabriel a Bild. «La mia compagna vuole tornare nel suo studio dentistico dopo l´assenza per la gravidanza e la nascita di Marie». Anke è decisa a ricominciare a lavorare, ben vengano le pari opportunità, la Spd passa in secondo piano. «Mi prendo il congedo parentale, così Anke potrà reinserirsi nel suo lavoro, poi a fine estate si libererà un posto all´asilo infantile».
Scelta non facile per il compagno Gabriel. Tanto più che le elezioni politiche federali si tengono al più tardi nel settembre 2013, e che due cavalli di razza, anche loro come lui ex ministri del Cancelliere delle riforme Gerhard Schroeder e poi della grosse Koalition (gli ex titolari di Finanze ed Esteri, Peer Steinbrueck e Frank Walter Steinmeier) gli contendono la guida della sinistra e la candidatura a cancelliere. Ma tant´è: «Tutte le posizioni di spicco, nella politica o nell´economia, minacciano di divorare la vita privata», nota Gabriel, e continua: «Chi ha lavori di grande responsabilità spesso finisce per staccarsi dalla vita reale»: trascura i figli, o i genitori anziani e bisognosi di cure. «Anche mia madre ebbe il problema: ci crebbe da sola, e lavorava con pesanti turni da infermiera. ma purtroppo in Germania conciliare lavoro e responsabilità parentale non è normale e automatico come in Francia o nei paesi scandinavi».
Bravo compagno Gabriel, contro Merkel sarà perdente in ogni sondaggio ma si mostra coraggioso. Guardiamoci attorno in Europa: sono rari, da Londra a Roma, da Stoccolma a Madrid, i casi di leader che preferiscono il congedo parentale a uno stress da mamma sola della moglie o compagna. Un esempio recente è quello dell´ex mentore di Gabriel, Gerhard Schroeder: resta a casa ad accudire i due piccoli figli adottivi, per consentire a Doris di lanciarsi in politica. Sorpresa: l´attuale datore di lavoro di Schroeder, la Gazprom vicina al "macho" Putin, non ha obiettato.

l’Unità 20.4.12
L’evoluzione? Una danza di tutti i viventi
Boncinelli nel libro «La scienza non ha bisogno di Dio» offre un quadro dello stato attuale delle conoscenze sulle forme di vita. Non tocca il rapporto con la teologia ma rivendica il diritto alla ricerca senza nessun preconcetto
di Gaspare Polizzi


Siamo testimoni del trionfo della biologia, della genetica e delle neuroscienze. È mutato l’intero quadro delle nostre conoscenze nei più diversi settori dell’esperienza umana – nascono la neuroetica, la neuroestetica, il neurodiritto – e si mette in questione l’apparato filosofico esplicativo della mente e della coscienza, al punto da asserire che la biologia si può «trascendere, ma non ignorare». Non si può discutere di coscienza, percezioni, intenzioni e sentimenti senza aggiornarsi sulle scoperte biologiche. Eppure, nonostante ciò, è ancora diffusa «una visione mistica della vita organica, come se si trattasse di un fenomeno non solo incompreso ma fondamentalmente incomprensibile».
L’affascinante «viaggio fino al cuore della vita» che Edoardo Boncinelli ci propone in questo suo ultimo libro (La scienza non ha bisogno di Dio, pagine 164, euro 18,00, Rizzoli) offre un quadro accessibile e rigoroso dello stato attuale delle conoscenze sulla «materia vivente», ovvero della vita, tal quale appare a uno scienziato senza preconcetti.
Domandarsi che cos’è la vita conduce a seguirne la struttura, le funzioni e l’intenzionalità grazie al patrimonio cognitivo e sperimentale offerto dalla genetica, che ha inserito la biologia molecolare nel corpo solido della teoria biologica dell’evoluzione naturale. Boncinelli sa bene, da fisico e biologo, quanto siano cruciali i problemi fisici fondamentali per investigare sulla materia vivente e sulla «materia pensante». Seguendo le orme dall’importante saggio di Erwin Schrödinger Che cos’è la vita? La cellula vivente dal punto di vista fisico, che nel 1944, nove anni prima della scoperta della struttura a doppia elica del Dna, previde che il materiale genetico dovesse essere costituito da una grande molecola non ripetitiva e sufficientemente stabile, ma sbagliò nel ritenerla un cristallo aperiodico e non un polimero, Boncinelli aggiorna le riflessioni del grande fisico viennese alla luce dello stato attuale della genetica, tenendo fermi i tre parametri fondamentali – materia, energia e informazione – che permettono di definire la vita e di riconoscerne l’armonia instabile in un «equilibrio dinamico garantito dal Dna, all'interno di un universo tendente al disordine e alla "morte termica"». Su tali basi non risulta difficile riconoscere le caratteristiche essenziali degli esseri viventi «un essere vivente è una determinata quantità di materia organizzata, limitata nel tempo e nello spazio, capace di metabolizzare, riprodursi ed evolvere». La definizione include i batteri ma non i virus, che sono «genoma puro» e necessitano di una cellula per crescere e riprodursi.
Più saggiamente di Schrödinger, Boncinelli non azzarda ipotesi teoriche, ma si tiene ben fermo allo stato attuale della ricerca sperimentale. Essa conduce a riconoscere la vita come un evento unico che «contrasta un po’ con tutto il resto delle cose dell’universo» e che rappresenta «il medesimo avvenimento – cominciato quattro miliardi di anni fa e mai interrotto»: tutti i viventi «fanno parte di un’unica danza», quella descritta dalla teoria dell’evoluzione biologica. Fino al punto di produrre quel “catastrofico” loop evolutivo che costituisce la sfida più grande per il futuro dell’umanità e della vita stessa sulla Terra: «l’evoluzione biologica ha portato una specie a sviluppare una potente evoluzione culturale che a sua volta potrebbe tornare a indirizzare, coscientemente, la propria evoluzione biologica». Su questo scenario il libro si conclude, ricordando come «mai come in questi anni la natura prometeica dell’uomo si è manifestata e concretizzata», nella sempre più chiara osservazione «del gigantesco gioco cosmico della necessità e della contingenza», ricercando la prima, senza aver più paura della seconda.
UN TITOLO FUORVIANTE
Il titolo – non so se voluto da Boncinelli o redazionale – è un po’ fuorviante, perché il libro non vuole toccare i problemi legati al rapporto tra scienza e teologia. Più semplicemente, e concretamente, Boncinelli rivendica il diritto della ricerca biologica di indagare i fenomeni materiali rintracciabili sperimentalmente nelle cellule e negli atomi che le compongono, fermandosi su ciò che la genetica (e la fisica) possono dirci sull’organizzazione dei sistemi viventi e sulla loro evoluzione, fino alla soglia, già superata, della produzione sperimentale di elementari forme di vita, come nel caso del batterio artificiale di Craig Venter nel 2010, sul quale si apre e si chiude il volume. Se guardiamo oltre, ci dice Boncinelli, attingiamo a credenze che non rendono giustizia all’unicità e alla creatività della vita sulla Terra.

La Stampa 20.4.12
Sigilli alla biblioteca dei furti sospetti
Napoli, la Procura chiude il complesso dei Girolamini
di Antonio Salvati


Spariti Sono 1500 i volumi antichi che mancano Polemica Un gruppo di 500 intellettuali contro il nuovo direttore

Un direttore poco simpatico a molti e 1500 libri antichi scomparsi misteriosamente. Sullo sfondo l’austera biblioteca dei Girolamini, la più antica presente a Napoli e già aperta al pubblico nel lontano 1586. Da mercoledì sera il luogo preferito da Giambattista Vico (le cui spoglie sono conservate proprio nella chiesa attigua) è chiuso per ordine della Procura di Napoli e il direttore, o per meglio dire l’ex, vista la lettera di autosospensione inviata al ministro Ornaghi, è indagato con l’accusa di peculato. È l’ultimo colpo di scena in una vicenda intricata che sarebbe dovuta terminare proprio ieri, con quella «Giornata della verità» organizzata dai Padri Oratoriani dopo le polemiche seguite alla nomina di Marino Massimo De Caro a direttore della Biblioteca. Doveva essere, nelle intenzioni degli organizzatori, una giornata di contro-informazione aperta a tutta la città. Forse avrebbe partecipato anche Tomaso Montanari, professore associato di Storia dell’arte moderna alla Federico II di Napoli. È stato proprio lui il primo a sollevare i dubbi sull’opportunità della nomina di De Caro a responsabile della Biblioteca dei Girolamini.
Un dubbio sostanziato in una petizione controfirmata da oltre 500 intellettuali e inviata al ministro Ornaghi. «Le chiediamo come sia possibile che la direzione dei Girolamini sia stata affidata dai padri filippini, con l’avallo del Ministero che ne è ultimo responsabile, a un uomo (Marino Massimo De Caro) che non ha i benché minimi titoli scientifici e la benché minima competenza professionale per onorare quel ruolo», è l’incipit non proprio cordiale del documento. Una lettera che getta anche pesanti ombre sul curriculum di De Caro, visto che i firmatari affermano che lo stesso direttore «abbia avuto e abbia comunque curiose implicazioni con i libri, che lo portano tuttavia nel mondo del commercio, facendo emergere fin qui episodi degni di essere vagliati non da una commissione di concorso, ma dalle autorità giudiziarie».
Come quella che vide coinvolto De Caro nella vicenda relativa alla vendita di un incunabolo sottratto ad una biblioteca milanese. Inchiesta archiviata però dalla Procura di Milano per mancanza di prove. Così, proprio quando la petizione viene spedita alla volta di Roma, De Caro si presenta in Procura a Napoli per denunciare la sparizione di 1500 libri dalla Biblioteca. «Gli attacchi contro di me - si difende De Caro - risalgono al mio recupero di 28 libri rubati presso la nostra biblioteca. Li recupero in una famosa casa d’aste londinese e li faccio rientrare in Italia. Evidentemente questo ha dato fastidio a qualcuno perché appena ho chiesto a questa famosa casa d’aste i nomi di chi ha messo in vendita i libri è cominciata tutta questa vicenda contro di me».
I carabinieri hanno compiuto numerose perquisizioni sia nell’abitazione veneta di De Caro, sia nella foresteria interna al complesso dei Girolamini, utilizzata dal direttore e dalla sua segretaria. In questi luoghi sono stati rinvenuti numerosi libri antichi ma, visto il ruolo di responsabilità di De Caro, è presto per tirare facili conclusioni. Gli investigatori hanno anche acquisito alcuni filmati delle telecamere di sorveglianza, tanto per accertare se la storia di auto cariche di libri viste allontanarsi di notte dalla biblioteca, sia vero o meno.

La Stampa 20.4.12
Giovanni Paolo I “Sì a moschee e unioni di fatto”
In una lettera scrisse di essersi pentito dell’elezione pontificia
Esce la biografia di Papa Luciani
di Andrea Tornielli


CITTÀ DEL VATICANO Rivelazioni I nuovi aspetti della biografia di Albino Luciani sono contenuti in «Giovanni Paolo I», di Marco Roncalli

I fedeli islamici «hanno diritto di costruirsi una moschea», e se «volete che i vostri figli non diventino musulmani, dovete fare meglio il catechismo». Parole di Albino Luciani, che così spiegava, alla fine del Concilio, il decreto sulla libertà religiosa. Il futuro Papa, pochi mesi prima della nomina a patriarca di Venezia, aprirà alla possibilità di un riconoscimento coppie di fatto, finalizzato, nelle sue intenzioni, a evitare l’introduzione del divorzio in Italia.
Sono alcuni degli episodi contenuti nel volume «Giovanni Paolo I», la biografia di Papa Luciani scritta da Marco Roncalli (San Paolo, pp. 734, 34 euro). Grazie a testimonianze e documenti inediti, l’autore contribuisce a smentire il consolidato cliché di Luciani «conservatore».
Attuali, quasi cinquant’anni dopo, sono le parole che Luciani pronuncia nel novembre 1964, spiegando la dichiarazione conciliare Dignitatis humanae: «I non cattolici hanno il diritto di professare la loro religione, e io ho il dovere di rispettare il loro diritto: io privato, io prete, io vescovo, io Stato». «Qualche vescovo – affermava Luciani – si è spaventato … Ci sono quattromila musulmani a Roma: hanno diritto di costruirsi una moschea. Non c’è niente da dire: bisogna lasciarli fare. Se volete che i vostri figli non si facciano buddisti o non diventino musulmani dovete fare meglio il catechismo, fare in modo che siano veramente convinti della loro religione cattolica».
Nei «pensieri alla famiglia» raccolti nei primi mesi del 1969, l’allora vescovo di Vittorio Veneto, apre, con cautela, alle «unioni di fatto» come un «male minore» per evitare l’introduzione del divorzio. Luciani precisa che queste unioni non dovrebbero essere equiparate al matrimonio, ma aggiunge: «Ci sono, innegabili, le situazioni patologiche della famiglia, i casi dolorosi. A rimedio, alcuni propongono il divorzio, che, viceversa, aggraverebbe i mali. Ma qualche rimedio, fuori del divorzio, non si può proprio trovare? Tutelata una volta la famiglia legittima e fatto ad essa un posto d’onore, non sarà possibile riconoscere con tutte le cautele del caso qualche “effetto civile” alle “unioni di fatto”? ».
È la stessa sensibilità che nei mesi precedenti la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae di Paolo VI, al cui insegnamento prontamente aderirà, farà essere Luciani «moderatamente liberale» sulla pillola anticoncezionale, a patto che fosse usata con «intenzione retta», con il proposito di «mettere al mondo il numero dei figli che si possono convenientemente mantenere ed educare». All’obiezione che fosse contraria alla legge naturale, rispondeva: «La natura vuole che noi siamo più pesanti dell’aria: ciononostante facciamo bene a viaggiare» in aereo. L’esempio, spiega don Taffarel, già segretario di Luciani a Vittorio Veneto, ha questo significato: «L’aereo che per volare vince la legge di gravità, viola le leggi della natura, ma nessuno dice che i piloti facciano peccato. Così si chiedeva: perché non si può vincere la natura senza peccare? ».
Nel libro si afferma che già all’indomani dell’elezione papale, avvenuta il 26 agosto 1978, Giovanni Paolo I avrebbe voluto tornare sui suoi passi. «Non so come abbia potuto accettare. Il giorno dopo ero già pentito, ma ormai era troppo tardi», si legge in una lettera scritta dal Papa, il cui contenuto è stato rivelato dall’ex presidente dell’Azione Cattolica Mario Agnes.
Infine è da citare la testimonianza del padre saveriano Gabriele Ferrari, che il 2 maggio 1978, incontrando il patriarca Luciani si sentì dire: «Da qualche tempo non sto bene…». «Mentre lo diceva, si toccò il petto con la mano e soggiunse: “Da tempo ho un gran male qui”».

Corriere della Sera 20.4.12
Madre e figlia allo specchio. Scrivere per liberare il dolore
L'anoressia, la rabbia verso i genitori, la riconciliazione
di Stefano Montefiori


PARIGI — La donna di straordinaria bellezza nella copertina di Niente si oppone alla notte è Lucile, la madre di Delphine de Vigan. Non si fa torto all'autrice se si individua in quella fotografia una delle ragioni del successo del romanzo, campione di vendite l'anno scorso in Francia, appena uscito in Italia per Mondadori. Difficile resistere a una ragazza così interessante, sia pure di carta, che osserva il mondo, con quel suo sguardo obliquo e quella sigaretta tra le dita, dalle vetrine e dalle pile ammassate in libreria.
Chi non si ferma alla prima pagina, scoprirà che le 300 seguenti meritano altrettanta attenzione: la Vigan illustra con cura, amore e poca retorica i dolori e gli entusiasmi di una madre maniaco-depressiva, violenta e meravigliosa, e le vicende spesso drammatiche di tutta la famiglia.
Niente si oppone alla notte è il racconto di storie vere, basato su ricordi personali, testimonianze degli altri famigliari, lettere e documenti: nulla è inventato o camuffato, ma il libro è un romanzo «perché sono io a scrivere, sono i miei occhi ad avere visto certe cose e tutto è filtrato attraverso di me», spiega la Vigan, che abbiamo incontrato in un caffè.
Quando si è pensato, ri-pensato, rivissuto per milioni di volte gli stessi avvenimenti che hanno segnato una vita, si finisce col capire che la verità talvolta è fuori portata: quel che importa, alla fine, è sistemare le cose in modo verosimile, realizzare un racconto soggettivo, sopportabile e dotato di senso, di quel che è stato. La verità, e il giudizio definitivo sul bene e sul male, si possono procrastinare fino all'aldilà, se esiste. «Per questo ho voluto scrivere il romanzo — dice la Vigan —, è stato un modo per riconciliarmi con i miei genitori e il nostro passato tragico. Volevo fare letteratura "scrivendo mia madre", non solo seguire una psicoterapia usando le parole. Mi sono rivolta non al mio analista, ma al maggior numero di persone possibili». Quattrocentomila, in Francia; l'Italia è il primo Paese dove Niente si oppone alla notte viene tradotto (Mondadori, pp. 310, 18, traduzione di Marco Bellini). Tra i tanti lettori, mancano i due figli di Delphine de Vigan, il figlio 14enne e la figlia di 17. «Ho letto loro i passaggi che li riguardano, ma quanto al resto non sono pronti. Mi hanno detto però che sono felici che il libro ci sia: sanno che è un patrimonio che esiste, al quale potranno attingere quando avranno la voglia e la forza per capire certe cose di noi».
È una storia di famiglia che comincia dalla fine, da quando Lucile si uccide, a sessant'anni. «Mia madre era blu, quando l'ho trovata in casa sua quel mattino di gennaio, di un blu pallido misto a cenere, e con le mani stranamente più scure del viso, come se fossero macchiate d'inchiostro sulle falangi. Mia madre era morta da diversi giorni». È l'incipit del romanzo, che continuerà attraverso gli esordi di Lucile e dei suoi fratelli nel mondo della pubblicità — erano troppo belli per non finire sulle riviste —, le morti accidentali di tre bambini, l'incesto, i frequenti internamenti di una Lucile che alternava momenti di felicità e di fulminante senso dell'umorismo a angosce terribili che sfociavano in deliri e in violenze nei confronti dei figli adorati.
«Aprii la porta, ci precipitammo in salotto, Lucile tentava di trattenere Manon per i capelli, Violette le ordinò di lasciarla, Manon mi si gettò fra le braccia — scrive la Vigan —. Lucile aveva cercato di piantarle degli aghi per agopuntura negli occhi ed era riuscita a piantargliene uno sotto l'occhio destro. Improvvisamente, dietro di noi comparvero uomini in uniforme, qualcuno aveva chiamato la polizia, e la polizia era arrivata. Lucile era nuda e dipinta di bianco, gli occhi stravolti e il corpo tremante. Manon era terrorizzata».
Delphine de Vigan ha scelto di pubblicare anche il biglietto lasciato dalla madre al momento del suicidio, che si conclude con questa frase: «So benissimo che vi causerà dolore ma tanto è inevitabile, prima o poi, e preferisco morire viva».
La storia della donna che ha preferito morire viva, in Francia, ha raccolto le lodi della critica senza destare nessuna delle polemiche che hanno accompagnato, in Italia, l'uscita di un altro romanzo di successo basato su un dramma personale, Fai bei sogni di Massimo Gramellini (Longanesi). Sfruttamento impudico di vicende personali? Allineamento con la tv del dolore? Come se la migliore letteratura non nascesse dalla più radicale impudicizia, che si parli di avventure su Marte o della propria infanzia: quel che conta è l'esito artistico. «Ogni anno vengono scritti centinaia di libri più o meno autobiografici — ricorda la Vigan —, ma ognuno è diverso e raccoglie un successo, di critica e di pubblico, diverso. L'autobiografia non è una moda, non più di altri temi. Contano la sincerità, e le ore passate a cercare la parola giusta».
Non si può fare a meno di leggere Niente si oppone alla notte pensando alla propria, di vita, a quel che la accomuna e la differenzia da quelle vicende interiori. Per Delphine de Vigan è la conclusione di un percorso che le ha fatto raccontare l'anoressia, la rabbia per i genitori, la ricomposizione. «Ora sto bene», dice sorridendo. Prossima opera un film, «ho scritto la sceneggiatura e sarò la regista di una commedia umoristica che parla di sesso». Usare i libri per buttare fuori il dolore può fare bene a chi legge e, evidentemente, anche a chi scrive.

Corriere della Sera 20.4.12
Una mostra a Como
Brueghel. Nel sabato del villaggio
La dinastia che guardò il mondo dalla parte dei vinti Il folclore della vita contadina tra realismo e ironia
di Francesca Montorfano


Spenti i bagliori della Belle Époque, scomparsi i grandi temi aulici o i sontuosi scenari barocchi, ad andare oggi in scena nelle settecentesche sale di Villa Olmo è uno spettacolo nuovo, inaspettato. È un'umanità lontana dallo sfarzo del bel mondo e delle corti, dal culto dell'immagine e delle mode ma forse ancora più vera, colta in tutti i suoi aspetti, anche nei suoi vizi, nelle sue follie, con realismo disincantato e insieme con sincera simpatia. Immagini del duro lavoro dei campi, di stagioni, di animali, di feste contadine, di una terra insieme ostile e amica nel gelo dell'inverno, ma anche luminosi paesaggi dal respiro rinascimentale, anche preziose testimonianze di quella splendida stagione che vedrà l'affermarsi della natura morta e di smaglianti composizioni di fiori rese con precisione in ogni singolo petalo, in ogni più piccola foglia.
Centro propulsore di tale fermento creativo è la ricca e cosmopolita Anversa che a partire dal Cinquecento conosce una straordinaria fioritura economica e culturale per le numerose stamperie a cui si rivolgono artisti e letterati provenienti da tutta Europa. E proprio da un editore di stampe, Hieronymus Cock, lavorerà agli inizi della sua carriera Pieter Bruegel il Vecchio, capostipite di quella celeberrima dinastia di pittori attivi tra il XVI e il XVII secolo e di cui il nuovo evento di Como ripercorre le vicende e il talento, sottolineandone il ruolo di primo piano nell'epoca d'oro della grande pittura fiamminga.
Ma è intorno a un capolavoro di Bosch, I sette peccati capitali, giunto per la prima volta in Italia, che si dischiude il percorso espositivo. È infatti al mondo poetico del suo grande predecessore, al suo immaginario fantastico e surreale che Pieter Bruegel il Vecchio si ispira, attingendo alle medesime fonti, ai proverbi e al folklore contadino, alla religione e alla superstizione. «Si tratta di una mostra dalla grande portata innovativa perché non solo celebra il genio di ben quattro generazioni di Brueghel e di altri artisti a loro uniti da parentela, ma indaga anche lo stretto rapporto che lega Pieter il Vecchio e Bosch», sottolinea Sergio Gaddi, curatore della rassegna insieme a Doron Lurie, conservatore al Tel Aviv Museum of art. «Pieter Bruegel vuole riproporre tutta la suggestione di quel mondo visionario, riprendendone i contenuti didattici e moralistici, i valori simbolici ed esoterici, ma interpretandoli sul registro dell'ironia, della comicità grottesca, della complicità, per arrivare infine a una visione più serena della natura, a scorci paesaggistici dai sorprendenti effetti prospettici, come nella bellissima Risurrezione in mostra».
A portarne avanti i grandi temi, le scene di vita contadina, i cacciatori sulla neve, quei detti popolari che esprimevano i sentimenti più vivi, più immediati dell'uomo, sono i due figli, Pieter il Giovane e Jan il Vecchio, che alla morte del padre nel 1569 vorranno modificare il cognome, ritornando al Brueghel originario. Ma se il primo, attento indagatore e cronista del suo tempo, seguirà la lezione paterna, come in Festa di matrimonio all'aperto o in Trappola per uccelli, sarà Jan a rinnovare la tradizione di famiglia, elaborando un suo autonomo stile, trasferendo in un contesto nordico la luminosità mediterranea.
Grande importanza per la sua formazione avrà infatti il lungo viaggio a Napoli e a Roma dove entrerà in contatto con Paul Bril e con lo stesso cardinale Federico Borromeo, suo appassionato collezionista. Ad affascinare di lui sono così i raffinati paesaggi che già risentono di una luce più mossa, manierista ma anche quelle stupefacenti ghirlande con Madonna e Bambino dipinte a quattro mani con Rubens e quei mazzi dalle più svariate specie floreali, descritti con tale abilità da risultare quasi tattili, da meritargli il nome di Jan dei Fiori o dei Velluti.
Oltre cento sono le opere in mostra, tra dipinti, disegni e incisioni, a raccontare le vicende di questa dinastia di artisti che ha visto la passione per la pittura trasmettersi di generazione in generazione. Ecco Jan Brueghel il Giovane, che lavora a stretto contatto con Rubens e Hendrik van Balen creando paesaggi e scene allegoriche affollate di figure e dettagli, diventando nel 1630 decano della potente Gilda di San Luca. Dei suoi undici figli ben cinque ne seguiranno la strada, come Abraham, celebrato autore di nature morte dal sapore quasi caravaggesco, che vivrà a lungo in Italia, dove morirà nel 1697. Ma è con le vivaci scene di vita quotidiana, con il fresco realismo di David Teniers il Giovane sposo di Anna, figlia di Jan il Vecchio, che la saga idealmente si chiude, portando lo «stile Brueghel» ai vertici della popolarità e del successo.

Corriere della Sera 20.4.12
Rinascimento addio
E il grande caos della Natura riduce anche Cristo al ruolo di comparsa
di Francesca Bonazzoli


Un enigma. Così appare la pittura di Pieter Bruegel il Vecchio a chi volesse decifrarne la qualità. Mettere insieme i pochi pezzi a disposizione per comporre il puzzle della sua collocazione nella storia della critica, poi, rischierebbe addirittura di complicare il disegno.
Pieter «il vecchio» veniva detto anche «il contadino» o «il buffo» perché era specializzato nella narrazione di feste e matrimoni di campagna raccontati con registri comici e grotteschi. Soggetti, dunque, del genere più basso, secondo le classificazioni italiane che dettavano la legge del gusto e mettevano al primo posto le narrazioni mitologiche e di storia. Eppure il giovane Peter Paul Rubens, il più italiano, mondano, colto e raffinato dei pittori fiamminghi compatrioti di Bruegel, contribuì nel 1569 all'allestimento della di lui sepoltura a Notre-Dame de la Chapelle, a Bruxelles, realizzando un dipinto con la consegna delle chiavi a Pietro. Un tributo da parte del sommo Rubens, non c'è dubbio. Ma dall'altro lato si può obiettare che Rubens lo fece perché era molto amico del figlio di Pieter, quel Jan Brueghel detto dei Velluti con cui dipingeva anche a quattro mani. Quindi non tanto un segno di stima nei confronti del padre, bensì di amicizia per il figlio.
Un altro fiammingo, poi, Karel van Mander, il Vasari del Nord che scrisse lo Schilderboek pubblicato per la prima volta nel 1604, cassò la pittura di Bruegel come caratterizzata da grossolanità e scaltrezza contadina, in contrasto con l'arte italiana. In effetti i «pupazzi» di Bruegel (a Roma i pittori olandesi e fiamminghi venivano chiamati «bamboccianti» per la maniera approssimativa di trattare il corpo umano) erano lontano anni luce dall'eleganza paradigmatica di Raffaello o dalle anatomie dei nudi di Michelangelo. Se mettiamo a confronto le date di questi artisti, c'è da rimanere interdetti: Bruegel morì ben quarantanove anni dopo Raffello e cinque dopo Michelangelo, eppure sembra appartenere a un'epoca diversa, ancora rozza e ingenua.
E tuttavia, a complicare il puzzle, si deve considerare il fatto che già intorno al 1600 era ormai praticamente impossibile acquistare opere di Pieter, molte delle quali accaparrate dall'imperatore Rodolfo II, ossia uno dei più sofisticati collezionisti dell'epoca.
Dunque Pieter era un pittore buffone che non riusciva a scalare le vette di anatomia e prospettiva della pittura italiana, o era un genio come lo era stato l'altro suo connazionale, Hieronymus Bosch, ambìto dagli Asburgo di Spagna quanto un Tiziano o un Correggio nonostante dipingesse uomini bizzarri, simili a mostri ibridi?
Nessuno potrà mai dirimere la questione. Di certo Pieter non fu un pittore ingenuo perché inventò un linguaggio che divenne genere e stile molto imitato, e questo accade solo quando dietro c'è della genialità. Inoltre Pieter conosceva bene l'arte italiana non solo perché aveva fatto un viaggio in Italia, ma anche perché le stampe facevano circolare ovunque i capolavori del Rinascimento. Semplicemente, dunque, Pieter non volle adeguarsi a quel linguaggio che oggi definiremmo «stile internazionale», alla moda in tutta Europa. Pieter volle mantenere un suo specifico, mettendo insieme la tradizione fiamminga di Hieronymus Bosch e quella italiana, esattamente come farà poi anche Rembrandt che non si mosse mai nemmeno dall'Olanda ma che collezionava opere d'arte italiane e aveva avuto un maestro, Peter Lastman, seguace di quella che Vasari aveva salutato come «la grande maniera». Entrambi, Rembrandt e Bruegel, sono artisti aggiornati e capaci ma più desiderosi di sperimentare linguaggi propri che di copiare quelli altrui. Resta il fatto che sulla genialità di Rembrandt nessuno discute e mai discusse, mentre su Bruegel i pareri rimangono discordi.
Forse, dunque, più che nello stile o nella tecnica, la pittura di Bruegel va confrontata con quella italiana sul piano del pensiero. La diversità nasce infatti soprattutto da una opposta concezione dell'uomo: per gli italiani, a partire dai calcoli del De prospectiva pingendi di Piero della Francesca e dall'uomo leonardesco inserito nel cerchio e nel quadrato, l'uomo è al centro della creazione e misura di tutte le cose; la sua razionalità interpreta e mette ordine nel mondo.
Al contrario, per Pieter Bruegel l'uomo è solo una minuscola e fugace parte nel cieco meccanismo autogenerativo della natura. Per Bruegel l'uomo non è più grande di una montagna, nemmeno se l'uomo è Cristo che, come per esempio nell'«Andata al Calvario», è solo un dettaglio marginale dell'ampio paesaggio colto a volo d'uccello, con uno sguardo che abbraccia alla pari uomini, fiumi, alberi, rocce, case e castelli, divinità e buffoni.

Corriere della Sera 20.4.12
La Macchina del Tempo per i sette Vizi capitali
di Vladimiro Bottone


Bosch è un artista che può facilmente farsi scambiare per un surrealista ante litteram, dedito alla stravaganza, ai deliri fantastici e a qualche incontrollato trip allucinatorio. Occorrono pazienza e lente d'ingrandimento per accorgersi, invece, della sottilissima filigrana allegorica che trama la sua pittura. Quelle sviluppate da Bosch sono, in realtà, delle complesse allegorie che muovono da una vera e propria enciclopedia con, stivate dentro, religione, metafisica, morale. Come altri colossi enciclopedici e visionari, Dante ad esempio, Bosch è un supremo moralista. Dunque un vero satirico. Non deve sorprendere, perciò, che un tema succulento come quello dei Sette vizi capitali lo tentasse a mordere in più di un'occasione. Sempre, comunque, facendo schioccare la sferza sul groppone dei suoi contemporanei. Basta un'occhiata alla grandiosa tavola ginevrina per constatare che i peccatori, come i dannati danteschi, vestano i medesimi panni dell'autore e della sua età. Inevitabile che, volendo qui rivisitare lo stesso argomento, la galleria dei viziosi debba prendere i panni della nostra epoca.
A testimonianza del fatto che i difetti radicali dell'uomo sono sempre diversi ma sempre uguali (Schopenhauer: tutta la Storia è una Zoologia). È questo che ci può far impunemente scarrellare avanti e indietro nei secoli. Flashback cinquecenteschi, allora, nelle Fiandre oppresse dalla solita, immarcescibile sofferenza del Belgio. Flashforward nell'Italia del 2012 e seguenti, afflitta dalla solita, inguaribile pubalgia etica ed estetica. Il tutto con una panoramica a volo d'uccello puramente esemplificativa e niente affatto esaustiva.
Ira Il politico voce strozzata e faccia paonazza che s'indigna contro chi scialacquò in amenità e ammennicoli, quisquiglie e pinzillacchere il capitale morale del Partito. Come se quei manigoldi fossero altri dal se stesso che non ha voluto sapere, vedere, immaginare, sospettare. A suo tempo il politico preferì che, intorno a sé, fosse tutto un dire, fare, baciare. Che almeno, ora, sottoscriva il testamento.
Superbia Coloro i quali coniarono una moneta (l'euro) prima di edificare lo Stato chiamato a batterla. Senza essere sfiorati dal dubbio di stare operando come chi costruisca un edificio partendo dall'antenna centralizzata.
Pigrizia I critici letterari beccamorti che, da anni e solo in Italia, predicano come un disco rotto la morte del romanzo, insensibili al fatto che, appena dopo Chiasso, la forma- romanzo scoppi di salute (cosa che non si potrebbe dire dei loro faccini smunti). La pigrizia di non sospettare che, spesso, siamo maledettamente autobiografici nelle nostre prediche così simili all'eterno ritorno della medesima pippa.
Lussuria Certe incredibili coppie con lei ventenne velinara e lui sessantenne magnate o boiardo, adeguatamente pompato di Viagra. Talché, in uno sfacelo fisico che rende l'organismo di costui friabile come un wafer, l'unico organo — o muscolo — funzionante risulta unicamente quello. Fino all'inevitabile esito: lei fintamente infatuata, lui autenticamente infartuato; lei in tanga d'ordinanza, lui col pannolone fisso.
Gola Uno dei pochi vizi ancora sentiti come condotta socialmente riprovevole. Vedansi, a questo proposito, le sedicenni allevate dall'Occidente, che riescono ad avvertire un disagio vagamente simile al desueto rimorso non una volta soffocato il fratellino rompicoglioni o la compagna di camera troppo seduttiva ma esclusivamente dopo aver esagerato con i bucatini.
Avarizia Quella degli studi tv durante la programmazione pomeridiana, dedita all'abbrutimento delle sinapsi. Con tutti quei figuranti catatonici, ingaggiati al minimo sindacale per risparmiare sui manichini (che, com'è noto, hanno anche l'inconveniente di una maggiore indipendenza di giudizio e conseguente refrattarietà all'applauso telecomandato).
Invidia Quella degli stilisti che, non meno dei talebani, dettano legge sul corpo femminile, costringendolo in una camicia di forza costituita da taglie irrealistiche, canoni estetici non riscontrabili in natura e regimi dietetici da universo concentrazionario. Tutto in nome di un odio teologico, trasudante invidia, per il tessuto adiposo femminile, basilare come riserva di grasso per una maternità a cui gli stilisti di cui sopra aspireranno invano. Almeno fino a quando i progressi dell'ingegneria genetica e delle scienze mediche non compiranno il salto evolutivo che trasformerà la Medicina in malattia (niente di nuovo sotto il sole: l'ennesimo atto di Superbia. Chi escogitò la formula dei sette vizi capitali, conosceva i suoi polli).

Repubblica 20.4.12
L’intervento dell’analista nel dibattito sullo statuto delle terapie
La sofferenza e la psicoanalisi
di Lorena Preta


Caro direttore, intervengo sollecitata dalla lettera di Gilberto Corbellini sulla psicoanalisi. Si tratta di problemi che riguardano: primo, una precisa idea di cosa significhi fare scienza; secondo, di cosa voglia dire curare, e non ultimo, quale sia l´immagine dell´uomo che queste idee sottendono. Chi mai potrebbe negare che il cervello è alla base di ogni nostra attività di pensiero e della vita emotiva, il problema è semmai capire in che modo queste aree si determinino a vicenda al punto tale da costituire un intreccio inestricabile che porta alla costituzione di quel fenomeno umano che Freud ha chiamato psiche.
In questo processo complesso ogni separazione corpo/mente, ragione/affetto, diventa fuorviante e semplicistica. Certamente quando si vuole capire o intervenire sulla realtà di una sofferenza fisica o psicologica, è necessario effettuare una separazione provvisoria che aiuti a definire il campo di studio e di intervento, ma questo non può annullare la coscienza che al di là di questa divisione vi sia un tessuto comune che comprende più aspetti.
Proprio per questa ragione c´è bisogno di strumenti d´indagine rigorosi ma non rigidi, capaci di passare da un ordine all´altro mantenendo la coerenza. E´ quello che è successo alla nascita della psicoanalisi: Freud era un neurofisiologo intriso della scienza dell´epoca, ma sapeva che il suo oggetto d´indagine presupponeva "l´invenzione" di un metodo d´osservazione adeguato. Questo non è diverso da quello che sempre è successo nella vita scientifica e da quello che tuttora accade. Si producono immagini, si creano ipotesi, si lavora per formalizzarle e renderle coerenti, si annullano idee precedenti, spesso si utilizzano di nuovo. E´ un ciclo vitale che qualsiasi pensiero umano deve praticare, pena l´asfissia e quindi la morte.
La scienza degli ultimi trent´anni, è stata fortemente caratterizzata dalla coscienza di questo intreccio inestricabile e dell´importanza determinante dell´osservatore. E invece che la ricerca assoluta della riduzione dell´incertezza evocata da Corbellini, ha messo al centro della sua riflessione l´instabilità, la contingenza e quindi la storia, che ci consegnano un mondo caotico ma allo stesso tempo governato da leggi imprescindibili. Si tratta di una scienza critica, "flessibile" come si augurava Stephen Jay Gould. Non viene il sospetto che a questa nuova ondata di pensiero abbia dato un contributo la psicoanalisi, denunciando la presenza dell´emozione dietro alla ragione, del pensiero anche nel mondo bizzarro dei sogni, della psiche là dove sembrava esserci solo un corpo dolente?
Non esiste pensiero non contaminato dagli affetti, non esiste scienza che possa prescindere dalle passioni che spingono la ricerca. Sta alle comunità scientifiche fare in modo che questa ibridazione di piani non diventi il delirio di qualcuno o la confusione babelica delle lingue. Nessun analista che pensi la teoria psicoanalitica ma che soprattutto faccia pratica terapeutica, potrebbe fare l´errore di credere che una sofferenza possa essere solo fisica o psichica, essere trattata solo con i farmaci o solo con le parole, solo come un problema dell´individuo senza pensare all´ambiente circostante. Sono necessari dei sistemi integrati che rispecchino questo intreccio, la psicoanalisi lo sa, la clinica quando necessario lo prevede.
La cura delle patologie gravi fa parte integrante della ricerca psicoanalitica che si muove tra elaborazione teorica ed esperienza con i pazienti. I criteri di valutazione dell´efficacia degli interventi terapeutici non sono certo applicabili in base alle leggi della fisica o della biologia o secondo i parametri di guarigione adoperati per un corpo malato, ma si giustificano secondo le regole che la cura psicoanalitica prevede non diverse da quelle delle altre scienze, fatte di falsicabilità dell´interpretazione, di rigore del setting, di evoluzione e di trasformazione del sistema costituito dalla coppia analitica. La scienza è un organismo vivo che ha come suoi organi le comunità scientifiche e come tessuto la cultura sociale nella quale è trapiantata, è necessario tenerne conto per liberarsi dal pregiudizio. E´ in gioco non solo la sofferenza delle persone, ma la visione stessa dell´uomo.
(L´autrice appartiene alla Società psicoanalitica italiana)

Repubblica 20.4.12
Meno credenti, più atei convinti così il mondo volta le spalle a Dio
Studio su 30 paesi, crollo tra i giovani. In Italia fedeli calati del 10% in venti anni
Nel nostro paese resiste la fascia d’età degli over 68, dato dimezzato due generazioni dopo
Religiosità in crescita nelle zone dove in nome di un credo si combatte e si muore
Da noi il 41% delle persone dichiara di seguire una religione ma non si considera spirituale
di Elena Dusi


Caratteri maiuscoli rossi su copertina nera. "Dio è morto?" si chiedeva la rivista americana Time l´8 aprile 1966. Solo per ribaltare l´argomento, tre anni più tardi, con una copertina bianca solcata dai raggi del Sole: "Dio è resuscitato?". Tom Smith, sociologo dell´università di Chicago, ricorda quella confusione di impulsi nell´America dei tardi anni ´60 come il punto di partenza della più lunga ed estesa analisi sociale sulla salute di Dio nel mondo. Dopo le prime due tappe del 1991 e del 1998, il rapporto "Religion" dell´International Social Survey Programme sulla "Fede in Dio nel mondo attraverso gli anni e le nazioni" è arrivato oggi alla sua terza edizione. Sessantamila persone in 42 paesi dal Cile al Giappone hanno raccontato ai ricercatori il loro rapporto con la spiritualità. In una mappa che pure si presenta con colori distinti e contrastanti, contraddizioni e inversioni di rotta, la conclusione generale è che il declino della religiosità nel mondo è lento ma costante.
La fede in calo
I numeri dello stillicidio parlano chiaro: i credenti tra il 1991 e il 2008 sono calati in 14 dei 18 paesi che hanno partecipato a entrambe le indagini. La percentuale degli atei viceversa è cresciuta in 15 nazioni. Per quanto riguarda l´Italia, nel corso dei vent´anni gli atei sono cresciuti del 3,5% e i credenti hanno registrato un declino della fede per nulla trascurabile: il 10,5%. Come se stesse progressivamente prendendo forma l´immagine di Pasolini che nel 1973 vedeva la parola "Jesus" una volta per tutte legata a una marca di jeans.
Il bastione della terza età
Il bastione della fede resta la fascia degli over 68. In Italia ad esempio dichiara di credere in Dio il 66,7% delle persone con più di 68 anni contro il 35,9% dei giovani al di sotto dei 28 anni. Basta dunque saltare due generazioni per tagliare a metà il bacino della fede degli italiani. E il fenomeno è ancora più netto nella cattolicissima Spagna, dove la religiosità balza dal 65,4% degli anziani al 21,8% dei giovani. In maniera del tutto speculare viaggia il numero di coloro che dichiarano di "Non credere e non aver mai creduto". In Italia sono il 12% tra gli under 28 contro un misero 0,5% tra gli over 65. «La fede in Dio - spiega Smith - cresce molto probabilmente tra i più anziani per via dell´approssimarsi della morte».
Gli effetti del comunismo
Il comunismo avrà fallito dal punto di vista economico ma il lavoro di spugna sulla spiritualità degli individui sembra aver funzionato bene nei paesi del blocco socialista. Pur con due importanti eccezioni (la Polonia e la Russia), le nazioni dell´Europa dell´est si ammassano in fondo alla classifica dei credenti. L´ex Germania dell´est ha anche il record di atei convinti (52,1%), seguita dalla Repubblica Ceca (39,9%). E sempre fra i tedeschi orientali la religiosità raggiunge uno striminzito 12,7% tra gli over 68 ed è addirittura ferma allo zero tra i giovani con meno di 28 anni.
Fede e conflitti
C´è un aspetto che impressiona tra i dati del rapporto. I paesi in cui la religiosità è in aumento sono spesso quelli in cui per la fede si combatte e si muore. Israele ad esempio è secondo solo alle Filippine per il numero di persone che dichiarano di "credere fermamente in Dio" e i credenti sono aumentati del 23% tra il ´91 e il 2008. Cipro è al quarto posto. Scendendo di poco si incontra l´Irlanda del Nord. Nella classifica dei paesi più vicini alla religione ci sono ovviamente gli Stati Uniti. Paese che è forse azzardato definire in guerra per la propria fede. Ma in cui sicuramente - fanno notare i ricercatori dell´università di Chicago - «c´è un´intensa competizione tra le religioni principali e tra le varie confessioni cristiane».
La forma di dio
Il Dio in cui credono gli intervistati (in maggioranza, ma non esclusivamente cristiani) è soprattutto un Dio-persona, che si preoccupa per le sorti dell´umanità. Per tre italiani su quattro è in grado di compiere miracoli. E quando nel 2008 Tom Smith ha provato a domandare a un campione di americani a quale figura familiare si sentirebbero di associare Dio, la maggioranza ha scelto "padre" a "madre", "padrone" a "sposo", "giudice" piuttosto che "amante" e "re" piuttosto che "amico".
Il paradosso italiano
La parte italiana dei dati è stata raccolta da Cinzia Meraviglia dell´Istituto di Ricerca Sociale dell´università del Piemonte Orientale, mentre il rapporto sul nostro paese è stato curato da Deborah De Luca dell´università di Milano. «In Italia - spiegano le due ricercatrici - il 41% delle persone dichiara di seguire la religione cattolica ma di non considerarsi una persona spirituale. Come se la fede fosse un valore culturale, le cui radici vanno cercate nella tradizione e nell´abitudine». Si spiega così come mai il 76% degli italiani abbia un crocefisso o un altro simbolo religioso in casa, ma solo il 23% vada a messa regolarmente. Nel nostro paese la Chiesa è anche l´istituzione di cui ci si fida di più accanto alla scuola (anche se l´80% degli intervistati ritiene che il Vaticano non debba dare indicazioni di voto o fare pressioni sui governi). Ma allo stesso tempo il 61% degli italiani dichiara di avere un proprio modo personale di comunicare con Dio, senza passare per Chiesa e riti religiosi.

Repubblica 20.4.12
Il Dio personale del secondo millennio
di Vito Mancuso


Un ampio studio dell´Università di Chicago spiega che la fede in Occidente va lentamente ma progressivamente diminuendo; che interessa soprattutto gli anziani e ben poco i giovani; che avanza sempre più in chi crede la figura di un Dio personale e su misura; e infine che la presenza della fede non è comunque trascurabile perché rimane ancora largamente maggioritaria, visto che i credenti sono maggioranza in 22 paesi su 30, e in 7, tra cui gli Usa, sono al di sopra del 50 per cento. Sono dati che confermano tendenze note agli studiosi e che sarebbero diversi se la ricerca non avesse preso in esame solo una parte di mondo, in gran parte occidentale: la presenza del Sudamerica è ridotta al Cile, quella dell´Asia al Giappone e alle Filippine con la macroscopica assenza di Cina, India e di tutti i paesi delle aree buddista e islamica, mentre l´Africa non esiste nemmeno. Se lo studio avesse considerato l´andamento della fede su scala mondiale, le conclusioni sarebbero non dissimili da quelle di due giornalisti dell´Economist, Micklethwait e Wooldridge, uno cattolico e l´altro ateo, che nel 2009 pubblicarono a New York un volume la cui tesi è già nel titolo: God is Back, Dio è tornato.
Non a caso le religioni costituiscono oggi nel mondo un fattore geopolitico di importanza imprescindibile per la lettura del presente, nel bene e purtroppo anche nel male, poiché è innegabile che dalle religioni derivano sia beni sia mali (e per questo spesso è così difficile ragionarne con pacatezza e senza passionalità). Ma soprattutto uno il dato che a mio avviso va sottolineato: cioè il fatto che in tutti i principali paesi europei se si sommano i credenti convinti agli atei altrettanto convinti non si raggiunge la metà della popolazione. È il caso di Germania (ovest), Austria, Olanda, Svizzera, Spagna, Russia, Italia, paesi in cui ci sono più credenti che atei; e di Gran Bretagna, Francia e paesi scandinavi dove la situazione è opposta. Il paese simbolo di questa tendenza a evitare gli estremi è il Giappone, dove solo il 4,3 crede fermamente in Dio ma solo l´8,7 è ateo. tutti gli altri vivono nell´incertezza di chi non sa, nel limbo di chi non prende posizione. Forse anche l´Europa è destinata con il passare del tempo a diventare teologicamente "giapponese"? Di sicuro la mente occidentale, uscita da poco da quel secolo di ferro e di sangue che è stato il ‘900, è abitata da una forte perplessità e intravede motivi per continuare a credere in Dio e altri per non credervi più: il suo simbolo più adeguato è forse il labirinto, oppure una bilancia i cui piatti non sanno trovare il punto di equilibrio. Se la fede tradizionale a poco a poco viene meno, non per questo i più si rassegnano al materialismo e al nichilismo di chi ritiene che l´uomo sia solo "ciò che mangia", con il risultato che la fede in una dimensione dell´essere chiamata "spirito" nonostante tutto persiste, anche se non si capisce bene che cosa si dice quando si pronuncia il termine "spirito" e quindi neppure quando si nomina "Dio". Per questo non sorprende il dato a mio avviso più significativo offerto dallo studio americano, cioè che a fare le spese di questa crescente perplessità è soprattutto la fede cattolica nella sua configurazione dogmatica e teista. Infatti la perdita della fede in Dio durante il decennio 1998-2008 risulta più alta proprio nei paesi tradizionalmente cattolici, come Austria (-10,6), Portogallo (-9,4), Spagna (-7), Italia (-6,7), Francia (-5,8), persino Polonia (-5,5). Se poi si calcola quello che è successo dal 2008 a oggi nella Chiesa tra scandali legati alla pedofilia e restaurazione di messe in latino con connessa riabilitazione dei gruppi cattolici più reazionari e spesso antisemiti, possiamo essere sicuri che i dati nel frattempo non sono certo migliorati. Ormai è da tempo che a causa della scarsità di vocazioni locali nei nostri paesi vi sono preti e suore extraeuropei in numero sempre crescente, ma se continua così anche le nostre antiche chiese saranno prive dei discendenti di coloro che le hanno costruite. E il Vaticano cosa fa? Invece di guardare in faccia la situazione e correre ai ripari abolendo la legge ecclesiastica e non biblica del celibato sacerdotale, aprendo al diaconato e al cardinalato femminile, rivedendo le leggi anacronistiche in tema di morale sessuale e di disciplina dei sacramenti, non ha saputo fare altro che istituire un altro centro di potere, un altro ministero clericale, il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, i cui frutti inesistenti sono e continueranno a essere sotto gli occhi di tutti. Io mi chiedo come si faccia a non voler considerare la drammaticità della situazione lasciando sistematicamente ignorati tutti i numerosi appelli alla riforma che regolarmente giungono a Roma da tutte le parti, me lo chiedo, ma non so rispondere. Se si avesse veramente a cuore la fede di quello che un tempo si chiamava "popolo" di Dio oggi destinato a diventare un circolo per pochi, non si dovrebbe agire in modo diverso?

Repubblica 20.4.12
Beati gli ultimi?
Sofri-Ravasi, dialogo sul riscatto dei poveri
Un libro raccoglie le riflessioni dell´intellettuale e del cardinale sul tema degli esclusi, tra testi sacri e storie di oggi. Qui anticipiamo due brani tratti dal saggio
di Marco Ansaldo


Il Cardinale e l´Intellettuale. Un incrocio insolito ma fecondo, a giudicare dal risultato di questo lavoro comune, un libro a doppia firma, sulle Beatitudini. "Beati i miti", "beati i puri di cuore", "beati gli operatori di pace"… Gianfranco Ravasi e Adriano Sofri si sono misurati sul tema Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. E´ questo il titolo del volume, il primo di 8 che la casa editrice Lindau ha affidato a personalità diverse. Ricco di citazioni, lo svolgimento di Ravasi. Nel quale il teologo e biblista confronta sotto il profilo esegetico e filologico le versioni di Luca e di Matteo della prima Beatitudine. Mentre i riferimenti all´Antico e al Nuovo Testamento toccano il tema evangelico della povertà unendolo alla letteratura, da Francesco d´Assisi a Bernanos. Il punto di partenza di Sofri è "Beati gli ultimi". Per sottolineare la drammaticità dello squilibrio nel mondo globalizzato fra quelli che sono i moltissimi poveri e i pochi ricchi. Le due prospettive finiscono per integrarsi nelle conclusioni. Ravasi evidenzia il carattere paradossale delle Beatitudini: «La felicità è dichiarata laddove si manifesta l´infelicità». Mentre il pensatore laico avanza la sua proposta, pur rilevando che «ci sono state persone eccezionali che si sono misurate mirabilmente con la radicalità del Vangelo, variamente fallendo, da Tolstoj a Simone Weil».
Il curatore del progetto, Roberto Righetto, ricorda - nella postfazione - una scena di Vita e destino. È quella in cui Vasilij Grossman descrive, dopo l´assedio di Stalingrado, una donna russa che offre un pezzo di pane a un soldato tedesco prigioniero mentre il giovane nazista teme il linciaggio della folla. Perché la lotta fra il bene e il male può finire per intrecciarsi con il ruolo dei Giusti. Dei santi anonimi. Dei beati.

Repubblica 20.4.12
Quella citazione "trasformata" del discorso della Montagna
Così abbiamo riscritto una frase celebre
L’esempio più ammirevole è di Francesco, il figlio del mercante che vende davvero tutto
di Adriano Sofri


Non ho alcun titolo ad affrontare un simile tema. Tratterò dunque questioni aperte e anzi spalancate davanti a ciascuno di noi. Perché infuria la guerra fra poveri? E come potremo spiegare la guerra fra poveri, se i poveri sono beati perché sono gli eredi del regno? E poi: com´è avvenuto che, nell´immaginazione e nel linguaggio comune, alle Beatitudini che aprono il discorso della montagna si sia mescolata la dichiarazione: «Ora molti dei primi saranno ultimi, e gli ultimi primi»? Noi ripetiamo infatti: «Beati gli ultimi, perché saranno i primi». Ma quel «Beati» in Marco non c´è, e nemmeno in Matteo e Luca («Ci sono degli ultimi che saranno primi, e ci sono dei primi che saranno ultimi»). Abbiamo dunque condensato in un´unica espressione, diventata proverbiale, le Beatitudini e in particolare la prima - «beati i poveri» - con il detto sugli ultimi e i primi. Questa trasfusione è feconda, perché induce ad accostare i poveri agli ultimi, e a cercare per questa via una risposta alla domanda iniziale, perché la guerra fra poveri. Se agli ultimi tocca il regno dei cieli, che cosa sarà, nei cieli e sulla terra, dei penultimi? I penultimi infatti non sono tali perché siano a un passo dal diventare gli ultimi, ma perché hanno appena smesso di essere gli ultimi. Ne sono stati spodestati.
(...) Se i poveri sono dunque beati perché è loro il regno dei cieli, come spiegare la guerra fra poveri? Non le guerre guerreggiate, che del resto sono anch´esse combattute da poveri, guerre fra ricchi per interposte persone: ma quella accanita lotta fra poveri di cui il tempo di pace è fitto. Si risponderà che dividere i poveri e metterli gli uni contro gli altri è un tipico espediente dei ricchi e dei potenti, e che anche nel caso di questa guerra metaforica (che peraltro diventa spesso la premessa della guerra guerreggiata) si tratta di un contrasto per interposte persone. È vero, ed è evidente il calcolo di soffiare sul fuoco dell´impoverimento per dirottare la delusione e la protesta sociale, ma non basta a rendere esauriente la risposta.
Se i poveri sono gli eredi del regno, se sono chiamati beati, come è possibile che arrivino a detestarsi, invidiarsi e combattersi? O piuttosto, dal momento che si vede benissimo come sia possibile: come è accettabile? L´esempio più ammirevole e cordiale di povertà scelta - il matrimonio d´amore con madonna Povertà - è quello di Francesco. Il figlio del ricco mercante che vende davvero tutto e dà il ricavato ai poveri, che bacia il lebbroso e predica agli uccelli, visto che chi dovrebbe ascoltare fa orecchi, appunto, di mercante. L´amore per la povertà sta su un filo di rasoio.

Repubblica 20.4.12
Oltre al messaggio cristiano anche la letteratura l´ha raccontata
Da Seneca a Bernanos tutta la miseria del mondo
Ne trattano anche Orazio e Jacopone Per Rilke "è come una grande luce in fondo al cuore"
di Gianfranco Ravasi S.J.


«Povertate, via secura, non ha lite né rancura;/ de latron non ha paura, né de nulla tempestate…/ Povertate è nulla avere e nulla cosa puoi volere,/ e omne cosa possedere en spirito de libertate». La voce francescana di Jacopone da Todi canta in una delle sue Laudi più celebri la serenità che è generata dalla povertà, uno dei temi più cari alla tradizione evangelica. Dobbiamo, però, essere subito consapevoli che l´opzione biblica non è per la povertà in sé, bensì per i poveri. E, come diceva Gesù, «i poveri li avrete sempre con voi». Commentava il protagonista del Diario di un curato di campagna (1935) di Georges Bernanos: «Vi saranno sempre i poveri in mezzo a voi per la ragione che ci saranno sempre ricchi avidi e duri che cercano non solo il possesso ma anche il potere».
Certo, ancor prima di aprire le Scritture, dobbiamo riconoscere che la misera plebs, la «povera gente», come la definiva Orazio nelle sue Satire, è una presenza non solo sociale ma anche letteraria così imponente da aver creato anche una sorta di retorica della povertà, alla maniera di André Suarès che, nel suo saggio su Péguy (1915), rasentava l´enfasi: «La povertà è una compagna ardente e temibile; è la più antica nobiltà del mondo e ben pochi ne sono degni». Non si tirava indietro neppure Rilke autore di un intero Libro della povertà e della morte, ove proclamava che «la povertà è come una grande luce in fondo al cuore».
E si potrebbe continuare a lungo, risalendo anche il corso fino all´antichità, ove ci si può imbattere in vari aforismi dal taglio di questo, desunto dal De providentia di Seneca: Ignis aurum probat, miseria fortes viros. Che la povertà raffini la fortezza delle persone, come si fa nel crogiuolo con l´oro, sarà pur vero, ma chi vi è immerso ha spesso diverso parere. La miseria, infatti, può anche incanaglire, umiliare, devastare l´anima, come ha dimostrato in modo desolato L´albergo dei poveri (1902) di Gor´kij, galleria di umiliati e offesi dalla povertà.
È possibile, allora, ricomporre un autentico filone letterario che, senza esitazione, definisce la povertà come «fra le malattie la più mortale e la più imperiosa», per usare una frase del dramma Nebbia (1914) di O´Neill, preceduto dal collega inglese George Bernard Shaw che all´omonimo protagonista del Maggiore Barbara (1905) metteva in bocca la certezza che «il male più grande e il peggiore dei delitti è la povertà». È per questo che sopra dicevamo che la vera scelta di Cristo e del cristiano non è tanto per la povertà, intesa come un soggetto sociale negativo, causa di abiezione della dignità umana, ma per il povero che dev´essere liberato da questo statuto di umiliazione.