domenica 22 aprile 2012

l’Unità 22.4.12
Se non c’è progetto l’antipolitica ha campo libero
di Emanuele Macaluso


Concludendo il mio articolo apparso sull'Unità di domenica scorsa dicevo: l'antipolitica può essere sconfitta solo dalla politica: se prevale la prima e la seconda che bisogna discutere. Quindi la domanda è: oggi c'è una politica comune dei partiti che dicono di riconoscersi nel centrosinistra? Non c'è. E non c'è sulla questione che coinvolge tutto e tutti: la crisi economica, i suoi caratteri, come affrontarla e come atteggiarsi rispetto al governo Monti, espressione della emergenza che vive l'Italia e l'Europa. Governo che, come sappiamo, regge grazie al sostegno che danno (sino a quando?) il Pd il Centro di Casini e Fini, il Pdl. Un sostegno travagliato e diversamente motivato da forze (Pd-Pdl) che all'appuntamento elettorale si presentano come poli alternativi. Le loro mosse, quindi, sono condizionate da quell'appuntamento. Anche il Centro è impegnato nella preparazione elettorale, identificandosi col governo e progettando il “partito della nazione” su cui fare coinfluire pezzi del Pdl in disfacimento. Sel e Idv svolgono una dura e pregiudiziale opposizione al governo e ignorano completamente la crisi che attraversa il paese. Con loro purtroppo c'è la Fiom che ha ormai assunto il ruolo di terzo partito. Nella riserva si collocano le sigle del comunismo senza comunisti. Questi partiti hanno assunto una posizione del tutto diversa da quella assunta del Pd sulla legge elettorale e quindi sulla prospettiva da delineare con le elezioni del 2013. A destra, il crollo del partito personale di Berlusconi e della Lega di Bossi hanno aperto una voragine e l'iniziativa di Pisanu e dei senatori che ha firmato il suo documento che annuncia un partito diverso dal Pdl è solo
uno dei segnali della crisi. L'altro più clamoroso è l'annuncio di Alfano: lui e Berlusconi hanno l'arma politica segreta che sconvolgerà tutto. Il Duce, da Salò, diceva che Hitler aveva l'arma militare segreta per vincere. Siamo al ridicolo: non c'è il coup de théâtre, come fu quello che si vide a Piazza San Babila col Cavaliere sul predellino che diede vita al Pdl; oggi c'è solo l'attesa del coup. Se questa è la situazione come stupirsi che prevalga l'antipolitica e un comico ottenga consensi. La cosa curiosa di questa stagione è che sotto accusa c'è il “partito politico” che non c'è. Quel che c'è, a destra, l'abbiamo visto. A sinistra la sola forza che ha i caratteri (deboli) di un partito è il Pd che, a mio avviso, si configura ancora come una coalizione politico-elettorale. Insomma nella cosiddetta seconda repubblica un vero sistema politico non è mai nato e quel che c'era si è sfasciato.
Ora, solo un cretino può pensare che si possa tornare al sistema e ai partiti della prima repubblica, ma, chi cretino non è, sa anche che se non si ridefinisce un sistema politico costituzionale in cui si identifichi il ruolo dei partiti, il caos crescerà, l'antipolitica pure e la democrazia correrà rischi. Ecco perché penso che le forze che vogliono ridare ruolo e dignità alla politica, debbono ridefinire se stessi e il sistema politico e non fare finta che c'è ancora quel che è morto. Anche nelle alleanze. E questo vale per le riforme politico-costituzionale, la legge elettorale, la dimensione europea dei partiti. Deve emergere con forza un progetto politico (chi siamo e cosa vogliamo si diceva una volta) che si è perso tra tatticismi e personalismi, che sono il terreno propizio per il carrierismo e la corruzione. Non parlo della destra, ma della sinistra. Un esempio. Penati, come tutti i cittadini, ha il diritto di difendersi davanti ai giudici e sarà quella la sede per verificare se ha commesso reati o no. Intanto si è autosospeso dal partito e dimesso dagli incarichi nel Consiglio Regionale. Ma, questo come molti altri casi al Nord, al Centro e al Sud, sono solo casi giudiziari o c'è qualcosa che attiene alla politica e al modo di essere del partito e di chi ha funzioni pubbliche? Qual è il giudizio su questo fenomeno? Non si dica che la grande maggioranza del quadro del Pd è onesto. Non basta. Occorre alzare il tiro e dare un grande respiro alla politica e al partito al suo modo d'essere che vuole esprimerla per ridare fiducia alla gente, chiamata a fare grandi sacrifici, e ai giovani che cercano un avvenire.
P.S.
Achille Occhetto ha replicato al mio articolo di domenica scorsa e ha detto che «non solo» avrei «individuato il peccato originale nell'antipolitica del Pds», ma avrei ravvisato «come colpa la vittoriosa stagione dei sindaci» ...e prova della colpa sarebbe l'alleanza con Orlando ecc. Io non ho considerato una colpa la vittoriosa stagione dei sindaci, ma il fatto che l'euforia della vittoria e l'assenza di un'analisi della società non fecero capire al Pds di Occhetto, alleato con la Rete di Orlando che conduceva una campagna contro i partiti e parte dello stesso Pds, cosa sarebbe successo un anno dopo con la discesa in campo del Cavaliere. A Palermo dopo la strepitosa vittoria e le primavere di Orlando, nella primavera elettorale del 1994 i progressisti non ottennero nemmeno un seggio! Tutto qui.

La Stampa 22.4.12
Intervista
D’Alema: in crisi è andato il modello dei leader populisti
“Non è il ’92, oggi sono travolti i non-partiti”
di Federico Geremicca


ROMA Alla fine, poiché la sensazione che gli resta a intervista conclusa è sempre la stessa - e cioè che l’interlocutore abbia capito poco o male - Massimo D’Alema diventa quasi didascalico, sceglie con cura le parole e dice: «Quel che dovrebbe trasmettere quest’intervista, è che io penso che quella in atto non sia affatto la crisi dei partiti politici, come accadde con la Tangentopoli del 1992, bensì quasi l’opposto: cioè la crisi dei non-partiti, del leaderismo demagogico e populista, nel quale, agli organismi dirigenti e al controllo degli iscritti, si sostituiscono i cerchi magici attorno al capo. Certo, si tratta di un momento comunque difficile, e non lo nego. Ma la soluzione non sta, come qualcuno vorrebbe, nel liquidare i partiti quanto - piuttosto - nel riformarli: ridando loro efficienza, trasparenza e capacità di decisione. Perché in gioco non ci sono “i politici” ma la democrazia... ».
Che Massimo D’Alema torni in campo per difendere la funzione e il ruolo dei partiti, onestamente non può esser considerata né una sorpresa né una novità. Va però forse annotato il tono: che sale quasi per legittima difesa - col crescere d’intensità degli attacchi che giungono, ormai, da ogni dove. Spiega: «Si prenda la contrapposizione ormai di moda tra tecnici (onesti e competenti) e politici (corrotti e ignoranti): si tratta di una falsificazione della realtà, di una campagna distruttiva che apre la strada al populismo e alla tecnocrazia, che è cosa ben diversa da un esecutivo tecnico. Io sono stato al governo con personalità come Ciampi e Padoa-Schioppa, per dire quanto sia falso contrapporre politica e competenze... Ma qui, del resto, siamo al punto che desta scandalo e sospetto perfino dire che domani il Paese dovrà esser governato da chi vince le elezioni».
Se la situazione però è questa - ed è certamente questa - i partiti forse farebbero bene almeno a riconoscere gli errori commessi, e ad assumere le responsabilità del caso. E invece l’aria, anche a sentir lei, non pare affatto questa.
«Tutti farebbero bene ad assumere le loro responsabilità. Credo che sia stato un errore non fare le riforme del sistema politico e costituzionale. E che ugualmente sbagliato sia stato illudersi che la legge elettorale maggioritaria e il nome del capo scritto sulla scheda sarebbero stati sufficienti a fare dell’Italia una democrazia moderna. In questo modo si è aperta la strada a una logica plebiscitaria di cui ora misuriamo le conseguenze. Ma a certi commentatori che si eccitano per Grillo, bisognerebbe far notare che sembra l’imitazione del Bossi di vent’anni fa: e abbiamo già visto come è andata a finire... Poi, certo, è legittimo discutere del finanziamento pubblico dei partiti: ma bisognerebbe dire che è stato già deciso di ridurre notevolmente i rimborsi elettorali, e non nascondere la verità per alimentare la rabbia dei cittadini».
Questo per dire cosa, scusi?
«Credo che ci si debba preoccupare tutti di quale possa essere l’esito di una crisi di questo genere, perché il rischio è quello di accentuare gli aspetti peggiori della Seconda Repubblica - il personalismo e il populismo - trasformando i partiti in comitati elettorali: e magari, senza il finanziamento pubblico, metterli nelle mani delle lobby economiche e finanziarie più spregiudicate. Non mi pare che un esito di questo tipo sarebbe positivo per il Paese. Per altro, ci spingerebbe fuori dall’Europa: dove i Paesi più forti sono quelli che dispongono ancora di partiti radicati ed espressione di grandi culture politiche. Qui, invece, si batte la grancassa della demagogia e dell’antipolitica. Prenda la vicenda della Lega, per esempio».
Prendiamola. Cosa insegna?
«A me spiace quanto sta emergendo, perché genererà altro qualunquismo, e non se ne sentiva il bisogno. Ma per uscire da questa crisi, la Lega ha una sola via: ritrovare la forza della sua radice popolare».
E più in generale, quali rimedi andrebbero messi in campo perchè i cittadini recuperino un rapporto positivo con la politica?
«Io credo che occorra fare quello che promettiamo agli italiani - purtroppo già da troppo tempo - e che ora è diventato assolutamente urgente realizzare: e cioè le riforme necessarie per ridare efficienza al sistema. Penso che un punto di svolta potrebbe essere rappresentato, oltre che da una legge che riformi e renda trasparenti e controllabili i meccanismi di finanziamento dei partiti, da una nuova legge elettorale. E’ necessario restituire, attraverso il collegio uninominale, il potere ai cittadini e contemporaneamente - responsabilizzare i partiti nell’indicazione dei candidati proposti e nella presentazione di programmi e idee. Ciascuno con il proprio profilo, e non nella confusione delle ammucchiate elettorali: che sono state la regola di questi anni, non hanno producendo stabilità di governo ma solo litigiosità e trasformismo».
Una legge che punti sui partiti certo non può entusiasmare, considerati i tempi...
«Al mondo ci sono solo due modelli democratici: il sistema parlamentare oppure il presidenzialismo. Se non si vuole il primo, si abbia il coraggio di indicare il modello presidenziale. Purché non si insista in soluzioni pasticciate e confuse che hanno già dimostrato di non funzionare».
Considera questa riforma una priorità?
«Sì, queste sono le priorità. Poi, come diciamo da tempo, sarebbero necessarie alcune riforme costituzionali, dalla riduzione del numero dei parlamentari alla fine del bicameralismo perfetto, dai poteri del governo alla sfiducia costruttiva. Ma è venuto il momento di dire che, se non ci fossero i tempi per varare queste ultime, la circostanza non può essere utilizzata come alibi per non far nulla: si faccia quel che si può, a cominciare dalla riforma elettorale. E’ troppo tempo che se ne parla e basta: e questo, certo, è un rimprovero che i partiti meritano davvero».
Finalmente una parola di autocritica, verrebbe da dire.
«E’ onesto riconoscere quando e perché si è sbagliato. Ma sarebbe altrettanto onesto dare ai partiti quel che è dei partiti».
E cos’è dei partiti, scusi?
«Il merito di aver compiuto una scelta di responsabilità, investendo Mario Monti del compito che ha oggi di fronte. Il Pd, in particolare, rivendica a viso aperto questa scelta: che è certo servita a cacciare Berlusconi da palazzo Chigi, ma anche a mettere le premesse per salvare il Paese dalle drammatiche difficoltà in cui era stato precipitato. In fondo, il Pd poteva chiedere le elezioni, che avrebbe probabilmente vinto. Oggi noi sosteniamo Monti con lealtà, lo incoraggiamo ad andare avanti e gli diciamo che è però il momento di agire per rilanciare la crescita del Paese e per una maggiore equità sociale. Operiamo con senso di responsabilità. E nello stesso tempo prepariamo una prospettiva per il Paese».
Il governo tecnico come una parentesi da chiudere, insomma.
«Si andrà alle elezioni, e chi vincerà governerà il Paese, come in ogni democrazia. E non perché io voglia che dopo i tecnici tornino i politici, ma perché ritengo che in Italia, come nel resto d’Europa, è necessaria una svolta che rimetti al centro il lavoro, la giustizia sociale, la crescita economica. Per dirla in parole povere, voglio che la sinistra torni a governare, a cominciare dalle elezioni francesi. In fondo, in Italia il centrosinistra ha dimostrato di saperlo fare. Il governo di Romano Prodi lasciò la guida del Paese nel 2008: il debito pubblico era al 103,5 del pil e lo spread a 34 punti... ».

il Fatto 22.4.12
Il trono vuoto della politica
di Furio Colombo


II segretario di un importante partito italiano se ne va, scompare, non si trova più. Non è mai accaduto. Non si può dire: non troviamo più il segretario. Bisogna sostituirlo subito. Per fortuna il segretario scomparso ha un gemello. Identico, tanto che le televisioni non noteranno. Ma è un uomo profondamente diverso. Per esempio, è un filosofo. E di politica, nel senso in cui si intende la parola (“saperci fare”) non sa niente. Comincia per forza una storia completamente diversa. È il romanzo di un regista diventato scrittore, Roberto Andò, (“Il trono vuoto”, Bompiani) che ha trovato una soluzione per uscire dal peggio. Ma è realtà romanzesca, naturalmente. E per quanto ben scritto, non ci porta fuori dalla politica così come la stiamo vivendo. Dice però con chiarezza che siamo arrivati a uno strano posto di blocco. Se ne esce solo con l’immaginazione. Però siamo costretti a constatare che, tranne i cittadini, il senso del tempo tragico che stiamo vivendo non ha raggiunto nessuno. Ognuno – tra i politici non ancora scomparsi – è pronto a dire che il momento è difficile. Ma a tutti loro sembra sfuggire la differenza fra malessere e disperazione. Questo salto si nota se entri e esci dai dibattiti della politica. Dentro la politica non tutti sono pazzi e non tutti sono in vendita come sentite dire. Ma anche nelle circostanze migliori (che certo non sono tante) ascoltate cose giudiziose che sarebbe stato utile dire trent’anni fa o forse trent’anni da adesso, ma che, in tempo reale, non hanno alcun rapporto con ciò che sta realmente accadendo.
SEMBRA restare invisibile il contesto in cui alcuni si uccidono (non appare più un isolato scatto patologico), molti promettono di non votare più (il numero, dicono i sondaggisti, è altissimo), molti si organizzano in colonne di una protesta cupa di cui non si ha memoria, perchè chi partecipa sa benissimo di entrare in un vicolo senza uscita, un grido alto ma diretto a nessuno e senza speranza.
Ora il treno della politica procede alla luce artificiale di un governo tecnico che è un terzo e diverso protagonista dello strano gioco. Non ha l’ostinata persuasione di continuare a esistere che anima ancora la politica “regolare”. Non ha la disperazione dei cittadini che molto rapidamente, negli ultimi mesi, sembrano avere abbandonato ogni credo. No, il terzo protagonista ha severe misure da proporre per “gli altri”, non deve tormentarsi su se stesso, e sembra avere adottato la regola che le scuole di medicina americane inculcano fin dall’inizio ai giovani studenti: “Ricordatevi che i malati non siete voi”. Questo atteggiamento può portare a un deficit di empatia, ma consente di programmare, quando è necessario, cose terribili, perchè l’importante non è l'approvazione del paziente ma l’efficacia della cura. Non tutti guariscono, e il medico passa ad altro. Altrimenti incasserà gratitudine, ma passerà ad altro comunque.
Tutto ciò per dire che la morsa che si stringe intorno alla politica non si può allentare o distrarre indicando i “tecnici” e le loro decisioni, come la causa di tutto. I politici devono sapere (lo avranno capito tutti ?) che i cittadini non sono in così ansiosa attesa di qualcosa di meglio da loro. Sono in cerca di punizione. E conta poco se sia logico o illogico. Conta poco se i cittadini non stanno attenti a quanto funzionerebbe la nuova idea appena annunciata di cambiare così e così il finanziamento della politica, e a come si distraggono facilmente, quegli stessi angoscia-ti cittadini, se parli, pur con serietà e competenza, di una o dell’altra nuova legge elettorale.
IN QUESTO mondo diviso fra creditori e debitori, dove i creditori non danno pace e non vogliono sentire ragione, i cittadini si sentono creditori e le ragioni sembrano a loro enormi. Sbagliano? Temo di no. Ma se anche fosse, non è il punto. Non c’è dubbio che essi sono in diritto di esigere la restituzione di ciò che hanno pagato, o in danaro o in fiducia o in passione e sostegno politico. E poi è un classico evento della Storia che anche chi non ha pagato nè in un modo nè in un altro, si unisca al corteo, che non è più di protesta ma di distacco. Sta creandosi una cultura del sommerso politico che si nota poco nelle piazze. È una fuga dai partiti di cui non si conosce ancora il percorso. Non si sa se si dirigerà verso il palazzo o no. È una cultura – si può vedere dagli infiniti documenti in rete – fraterna per chi la vive insieme, dalla stessa parte, e inesorabilmente scheggiata dove prima passavano i contatti con la politica. La definizione di “antipolitica” è piccola. Ciò che sta accadendo aspetta ancora la sua definizione, fra anarchia, solitudine, disperazione e rivolta. Nella vera vita non c’è il gemello del segretario, che sembra uguale, ma pensa e agisce in un modo che sembra folle, e cambia tutto (come sarebbe accaduto per Robert Kennedy, se non lo avessero ucciso).
Lo spazio in cui dovrebbe materializzarsi il coraggio di far nascere un’altra vita pubblica, che si chiami o non si chiami “politica”, resta vuoto. Al momento ci sono luci artificiali e alcune gelide infermerie, contro la politica come clinica di lusso che serve solo alcuni privilegiati da centomila euro di diamanti. Il pronto soccorso a volte salva la vita, ma è un luogo duro, anche scoraggiante. Il rischio vero, il rischio spaventoso è che non si presenti nessuno.

Corriere La Lettura 22.4.12
Radicalismo liquido
La crisi diffonde paura e rabbia in aree discontinue della società
di Luca Mastrantonio


L' Italia della crisi pullula di grilli parlanti. Spesso cattivi, che sanno solo fomentare rabbia contro il burattinaio di turno. Ieri il Grande Inquisito, il Corruttore, oggi il Capitalista, il Banchiere, l'Esattore delle Tasse, il Professore, la Ministra del Lavoro, il Giudice. Con le maiuscole, perché nella favola nera che capovolge Collodi sono tutte allegorie del Potere. Oggi, Pinocchio si sente impoverito nei beni materiali e nello spirito. Ha investito a perdere soldi e illusioni nel Campo dei miracoli, vuole fare un giro nel Paese dei balocchi, ma non ha abbecedari da rivendere. Gli hanno promesso che sarebbe diventato umano, ma lui ritorna burattino, alienato, imbestialito. E fa il somaro come l'indignado «Er Pelliccia» di Roma, che lancia un estintore per spegnere i roghi e poi torna a piangere da mamma; il No Tav «Pecorella», che insulta il poliziotto con cui — dice — voleva dialogare; la casalinga ex berlusconiana, in cerca di aiuto per la figlia, che abbraccia Oliviero Diliberto alla manifestazione «Giù le mani dalle pensioni» con la maglietta «Fornero al cimitero», ispirata da Facebook.
Ma chi sono i cattivi grilli parlanti? Toni Negri, arzillo pensionato (extra)parlamentare, sulla rivista «Alfabeta2» di febbraio fa ancora il «cattivo maestro» giocando con i «gradi necessari» di violenza per una «radicale trasformazione». Da condannare? L'autore di Impero viene elogiato da Giulio Tremonti versione No Global a Servizio pubblico di Michele Santoro, dove l'ex ministro dell'Economia dice che «la politica sta tornando dalla parte giusta, non la finanza, ma il popolo». E Luca Casarini, anche lui ospite, spiazza di più: assolto di recente per gli espropri proletari a Roma nel 2007, resta No global, ma con partita Iva. E ancora: Beppe Grillo sul blog dice che bisogna capire le ragioni di chi mette le bombe ad Equitalia. Poi, prendendo sul serio il titolo del suo libro sulla Rete contro i partiti, Siamo in guerra (Chiarelettere), tuona: se non si vota, «sarà guerra civile!» E chiede una «Norimberga» per i politici. A destra c'è CasaPound, contro banche e stranieri, il cui leader Gianluca Iannone su Facebook esulta per la morte del magistrato che indagava su di loro. Sempre via web, prima terreno soprattutto di antagonismi rossi, La Destra di Francesco Storace ha organizzato la manifestazione No Tax cui hanno partecipato anche i «forconi» di Forza d'Urto, agricoltori siciliani che protestano per il caro-benzina e i tetti della Ue. Come fecero gli allevatori leghisti per non pagare le multe per le quote latte.
Si tratta di radicalismo «liquido», per dirla con il celebre aggettivo che il sociologo Zygmunt Bauman ha assegnato alla modernità in cui siamo immersi. Dove le strutture lavorative ed emotive, sociali e politiche cambiano troppo in fretta per restare solide. Il lavoro è flessibile, precario, i sentimenti fragili, la comunicazione fluida attraverso la Rete. È un fiume carsico, con affluenti e potenziali foci a destra e sinistra, da nord a sud, non facilmente unificabili. Visibile in Val di Susa tra i No Tav, ha esondato qua e là nelle lotte cittadine contro banche e Borsa. Vedremo se nella prossima battaglia contro la riforma dell'articolo 18 s'ingrosserà come, silenziosamente, avvenne per il referendum contro la liberalizzazione dei servizi idrici nell'estate 2011, presentata da una efficace campagna «emozionale» come privatizzazione dell'acqua. La paura, infatti, è il sentimento che anima la modernità liquida. E spinge agli estremi, alla reazione conservativa, al ritorno alle «radici» (che «non gelano», dice J. R. R. Tolkien, amato a destra). Schiuma rabbia, proletaria e piccolo borghese, mescola indignazione morale e lotta per il lavoro, difesa di diritti acquisiti e nuovi livori per la povertà che avanza. Una moltitudine non riducibile a identità politiche o culturali chiare. Il voto dello scontento può anche passare da un contenitore all'altro, come spera Grillo che punta ad attirare i delusi della Lega. Intanto, a Genova, incassa il sostegno dei «neri» di Forza Nuova. Con quella dei post-comunisti di Sinistra Ecologia Libertà e dei post-giustizialisti dell'Italia dei valori, la crescita dei neo-qualunquisti di Grillo allarga un'area eterogenea di voto radicale di protesta. Il cui peso, il 27% nei sondaggi Ipsos, aumenta con l'astensionismo, la sfiducia nei partiti moderati, la richiesta di cambiamenti da parte dei giovani.
Lotta di classe senza Marx
Dopo il ventennio dei falsi «moderati», o meglio dei «moderati radicali», sia in economia con il turbo-capitalismo sia in politica con Berlusconi e la Lega, è l'ora del «radicale mite», che senza violenza propone un ritorno alla radice umana. Bevilacqua, in Elogio della radicalità (Laterza) si ispira a Karl Marx: «Essere radicale significa cogliere la radice delle cose — scriveva — ma la radice delle cose è l'uomo stesso». Quindi la radicalità è umana, come l'economia dovrebbe essere ecologica, sostiene Bevilacqua che propone la decrescita. Altro marxismo liofilizzato è La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza) di Luciano Gallino, dove si sostiene che lo scontro sociale sia in corso. Ma a condurlo sono i nuovi padroni che, dopo aver vinto grazie al neoliberismo, vogliono stravincere (e ci riescono, visto che i poveri sono sempre più poveri e i ricchi più ricchi): grandi proprietari, anche immobiliari, cioè i nuovi latifondisti, top manager privati e per procura, che hanno speculato anche sui fondi di risparmio, alti dirigenti finanziari e politici legati alla classe economicamente dominante. La lotta di classe dal basso? Per Gallino — che ricorda come il complottismo anti-banche sia di destra — si fa con una riforma della finanza che colpisca la classe dominante. Nel mondo capovolto, le riforme sono rivoluzioni.
Radicalismo «debole», direbbe Gianni Vattimo, è quello sottoscritto da Bevilacqua e Gallino per un «Soggetto politico nuovo», programma apparso sul «Manifesto» il 29 marzo e animato, tra gli altri, da Paul Ginsborg, già portavoce dei girotondi, e dal giurista Ugo Mattei. Il soggetto, per l'ex direttore dell'«Unità», riformista, Peppino Caldarola, è un embrione di quarto polo di sinistra radicale: Nichi Vendola e Luigi De Magistris. Vogliono il «benecomunismo» per difendere il patrimonio umano e culturale dai vizi del capitalismo. O vizi capitali, visto che si citano invidia e ira, rivelando la matrice cattolica, oltre che post-comunista, dei manifesti sulla difesa dei beni comuni. Binomio ora armonico, ora contraddittorio. Oltre al profeta della decrescita Serge Latouche, infatti, viene spesso citato il biologo Garrett Hardin, che in un articolo su «Science» del 1968, «La tragedia dei beni comuni», sostenne che il beneficio individuale di aumentare i capi di bestiame rovina il bene comune, cioè l'erba. Tra i rimedi proposti da Hardin, favorevole all'eutanasia, ci sono l'aborto sistematico e gli aiuti negati ai paesi affamati. «Avvenire» non ne ha tenuto conto nell'editoriale della vigilia del Santo Natale 2011 che ne osannava la tesi.
Cattocomunismo liquido? Non bisogna sorprendersi, sostiene il professor Luciano Pellicani, intellettuale socialista, tra i massimi studiosi critici del marxismo, a lungo direttore di «Mondoperaio»: «Il radicalismo nasce cristiano, nel Medioevo, contro il denaro, poi diventa ateo e comunista; ma l'anticapitalismo senza il capitalismo non si può dare, per questo la decrescita, che sogna il ritorno alla civiltà pre-industriale, non può mescolarsi al marxismo, che era per lo sviluppo ed era persino colonialista. C'è anche il radicalismo di destra, contro le banche, e quello nichilista, perché "ripulire la società" è l'ideale dei nichilisti, diceva Turgenev. Oggi siamo di fronte a un nuovo nichilismo».
No Tav nella valle dell'Eden
I nuovi radicali si definiscono per via negativa. No Global, No B Day, No Tav. In un continuo referendum abrogativo. Al contrario dei radicali liberali, liberisti e libertari di Pannella che hanno esteso i «diritti» moderni, i radicali liquidi si oppongono ai «doveri» postmoderni imposti al territorio e alla società. Michele Roccato e Terri Mannarini, docenti di Psicologia sociale, nel libro Non nel mio giardino. Prendere sul serio i movimenti Nimby di prossima uscita (il 10 maggio, dal Mulino), si chiedono se i cittadini attivi di fronte al progresso, magari contro di esso, siano un ostacolo o una risorsa. Per alcuni intellettuali e lavoratori della conoscenza di Roma, il giardino è il Teatro Valle, che stava per diventare un supermercato (di prodotti slow food). Per loro la cultura è un bene comune, come l'acqua. Il loro slogan è «Com'è triste la prudenza», ma non sono violenti, né solo radical chic. Nell'appello firmato contro la riforma del lavoro, partito dal Valle e dal gruppo di intellettuali trenta-quarantenni di TQ, si difendono precari e partite Iva. La temperatura dello scontro, finora, nelle città si è alzata solo nell'autunno romano 2011, con gli indignados. Più tiepida, nel marzo 2012, la versione milanese di Occupywallstreet, organizzata da Giorgio Cremaschi (ala dura della Fiom) del coordinamento No Debito, che ha visto qualche migliaio di persone protestare contro banche, Borsa e Governo. C'erano destra e sinistra, sindacati e partiti, pensionati e disoccupati, gente comune e intellettuali come Vattimo, Vittorio Agnoletto e Giulietto Chiesa. Ma il vero cuore del radicalismo liquido italiano è in Val di Susa. Qui si resiste all'Alta velocità con un movimento locale guidato da un ex impiegato di banca, Alberto Perino, e gli anarco-insurrezionalisti del centro sociale torinese Askatasuna. Qui il diabolico traffico di merci non offende la natura. La Val di Susa è un Eden anticapitalista, dove l'uomo non s'è alienato, dimostrando che un altro mondo è (era o sarà) possibile. Ma forse è solo un'Arcadia intellettuale.
Purezza e paranoia
Per Enrico Pozzi, che insegna Psicologia sociale a Roma e Boston, «il radicalismo è rifugiarsi nel mito di un'età originaria pura, da recuperare, lottando contro chi l'ha corrotta». È il mito fondante di Antonio Di Pietro, nato con «Mani pulite», protagonista del ventennio della purezza e della paranoia. Assieme a Berlusconi che ha usato la paranoia anticomunista per «radicalizzare i moderati», come i leghisti quella degli immigrati e «Roma ladrona». Il centrosinistra ha risposto con la paranoia di Berlusconi causa-di-tutti-i-mali che, purtroppo, sono restati anche senza di lui. Così i giustizialisti riversano il loro purismo paranoico nel radicalismo sociale: no alle tasse, no alla riforma dell'articolo 18 e no all'Alta velocità. Grillo, che era un luddista prima di scoprire il web, è un convinto No Tav. Di Pietro fa l'opportunista, perché da ministro delle Infrastrutture era favorevole. Marco Travaglio, sul «Fatto quotidiano», è un No Tav imbarazzato, dopo le contestazioni di alcuni militanti al procuratore Giancarlo Caselli (ad un evento siglato Anpi), per le indagini sul movimento. Contraddizioni? No. Tutto ciò che è radicale è sempre più irrazionale.
Quando Di Pietro, che sull'articolo 18 segue Maurizio Zipponi, ex Fiom di Brescia, dice che Monti «ha sulla coscienza i suicidi per la crisi», indica il capro espiatorio. Beppe Grillo lo chiama «Rigor Mortis» e lo mette nella bara, «suggerendo la freddezza calcolata e stitica di chi non è capace di passioni, cioè di vita». Come la Fornero, che per Di Pietro è la «badessa». I poteri forti corrompono i valori, economici e vitali, anche erotici, mentre loro, Grillo e Di Pietro, sono fisici e vitali. Anche volgari, ma veri. Per Pozzi, sono «conduttori della paura della gente, la traducono in odio verso bersagli trasformati nelle cause della crisi, della paura. La sfiducia nelle istituzioni aumenta il caos cognitivo, che necessita di nuovi nemici, di aggressività, per non deprimersi, e dunque c'è bisogno di Grillo e Di Pietro. Così si costruiscono aspiranti leader populisti che fomentano la paranoia sociale per proporre se stessi come terapia antipolitica». Grillo e Di Pietro, conclude Pozzi, inverano l'aforisma di Karl Kraus: «La psicoanalisi è la malattia di cui pretende di essere la cura». Basta sostituire la psicoanalisi con l'antipolitica. Si può guarire da 20 anni di antipolitica, dopo l'apoliticità dei tecnici, con una forma più radicale di qualunquismo e populismo?

Corriere della Sera 22.4.12
La fiducia nei partiti crolla al 2%
E l'80% dice no ai finanziamenti
di Renato Mannheimer


Il fatto che gli italiani siano in stragrande maggioranza contrari al finanziamento pubblico dei partiti può apparire ormai scontato. Nel momento in cui, come abbiamo documentato le scorse settimane, la disaffezione della popolazione nei confronti delle istituzioni politiche è arrivata ai massimi livelli (tanto che la fiducia verso i partiti è pari al 2% e quella verso il Parlamento supera di poco il 10%), l'idea che le forze politiche ricevano risorse originate dalle tasse che noi tutti paghiamo, non può, di primo acchito, non suscitare dissenso.
Ma, hanno obiettato diversi esponenti politici e autorevoli osservatori, i partiti sono necessari alla democrazia e una certa quota di finanziamento pubblico è essenziale per farli vivere senza condizionamenti. Senza quest'ultimo, si è detto, la politica sarebbe in mano solo alle lobby dei privilegiati e di coloro che comunque possono disporre di grandi risorse e, di conseguenza, finanziare più facilmente la comunicazione e l'attività dei partiti.
Abbiamo voluto verificare il livello di approvazione di quest'ultima argomentazione. Per questo, abbiamo scelto di non porre la domanda secca sull'approvazione o meno del finanziamento pubblico ai partiti (i cui esiti, come si è detto, erano forse scontati), ma di presentare ai nostri intervistati diversi ragionamenti (sotto forma di frasi) invitandoli a esprimere su di essi il loro parere. In particolare, abbiamo proposto l'idea che «è giusto che i partiti siano finanziati con soldi pubblici, sennò le persone molto ricche potrebbero avere più influenza sulla politica, finanziando solo alcuni partiti». Malgrado queste precisazioni, condivide questa affermazione solo il 4% della popolazione. Anche l'altra frase, favorevole al proseguimento del finanziamento pubblico dei partiti, seppure in misura minore dell'attuale, ha ottenuto consensi modesti, di poco superiori al 15 per cento.
Insomma, anche argomentando le ragioni più spesso addotte a favore del finanziamento pubblico, la maggioranza della popolazione mantiene il suo atteggiamento di contrarietà. In particolare, il 39% ritiene che per principio «i partiti non devono ricevere nessun finanziamento pubblico». E un altro 40% non concederebbe denaro pubblico ai partiti «perché spendono male i soldi che gli diamo», non opponendosi dunque direttamente al principio del finanziamento pubblico, ma escludendolo risolutamente per partiti screditati dall'opinione pubblica come gli attuali.
È significativo notare che questi atteggiamenti ricorrono in maniera non dissimile tra i diversi elettorati delle varie forze politiche. Ad esempio, è comunque contrario al finanziamento pubblico dei partiti più del 70% dell'elettorato del Pdl e addirittura più del 75% di quello del Pd, nonostante le posizioni ufficiali espresse da Bersani.
Come si sa, malgrado questo orientamento dell'opinione pubblica in generale e degli elettorati dei partiti maggiori in particolare, i segretari dei tre partiti di governo hanno di recente espresso un parere negativo non solo all'abolizione del finanziamento pubblico, ma anche ad una possibile riduzione dell'entità attuale dello stesso. Anche alla luce di questa presa di posizione, è difficile prevedere a cosa può portare l'atteggiamento così fortemente antipartitico espresso oggi dagli italiani. Un primo effetto è già evidente e consiste nella crescita di consensi a forze politiche che cavalcano i temi dell'antipolitica. Un'altra possibile conseguenza potrebbe essere l'incremento dell'astensionismo. Secondo i risultati di un recente sondaggio di Nando Pagnoncelli per Ballarò, la metà dell'elettorato non vorrebbe più votare il proprio partito se quest'ultimo non rinunciasse esplicitamente al finanziamento pubblico. E un altro 20% dichiara che lo voterebbe comunque, ma che ci rimarrebbe male. Ovviamente, non è detto che, all'atto pratico, la defezione dalle urne raggiunga questa ampiezza. Ma anche questi dati suggeriscono come l'ostilità dell'elettorato verso l'attuale offerta politica possa avere, un domani, implicazioni molto serie. Con effetti oggi imprevedibili sul funzionamento della nostra democrazia.

il Fatto 22.4.12
Delusi e indecisi: 6 italiani su 10 non sanno per chi votare
16 milioni in fuga dal voto
Il 35%, oggi, non si recherebbe nemmeno alle urne. Un altro 7% è indeciso se farlo. Crollo di Pdl e Lega. Salgono Idv e Grillo
di Eduardo Di Blasi


Il 60 per cento degli elettori oggi non si sente rappresentato da nessun partito. Tra questi, il 40 per cento non si recherà nemmeno alle urne. Non è antipolitica ma il crollo di questa politica
Cala anche il gradimento di Monti. Scandali e ruberie fanno precipitare la fiducia nei partiti. Il primo banco di prova le comunali di maggio

Contenitori di nuova foggia, grandi alleanze, partiti della nazione, movimenti di popolo, antipolitica in cerca di una via democratica di consenso. Nelle ultime settimane si moltiplicano annunci e riunioni per scomporre, ricomporre e rifondare vecchi e nuovi scatoloni, in vista di elezioni politiche neanche fissate.
Il punto, ci informa un sondaggio della Cise Luiss del professor Roberto D’Alimonte (riportato ieri dal Sole24Ore), è che nella transizione tra la fine del governo Berlusconi e la messa in opera dei tecnici, sono finiti a spasso la bellezza di 16 milioni di voti. Sedici milioni di elettori sono “in cerca di partito”. E non è che proprio lo stiano cercando: aspettano che l’offerta politica si adegui al passaggio brusco d’orizzonte che si è verificato con la crisi di governo e quella economica che l’ha accompagnata.
Cifre come queste non si vedevano dalla fine della Prima Repubblica, dal dopo tangentopoli, da quando quei voti in uscita dai grandi serbatoi dei partiti di governo (fondamentalmente Dc e Psi), finirono per premiare l’offerta nuova di Lega Nord e Forza Italia, a scapito di chi restò in piedi (il Pds).
SE SI VOTASSE oggi, afferma il sondaggio, il 35% degli elettori non andrebbe proprio alle urne, e un altro 7,1% sarebbe indeciso se farlo o meno. Quelli che già sanno chi votare sono appena il 38,1% (erano il 58,3% appena un anno fa), contro un 19,8% di “indecisi” - ma solo sul partito sul quale barrare la preferenza. In sostanza il 60% degli aventi diritto, vale a dire sei elettori su dieci, non sa chi votare.
L’emorragia di consensi riguarda principalmente i partiti del centrodestra. Nelle intenzioni di voto il Pdl ha preso lo scivolo: 29,7% nell’aprile 2011, 23,3% a novembre, 22,5% oggi. Anche la Lega, che mettendosi all’opposizione del governo Monti era passata dal 9,8% di aprile 2011 al 12,2% di novembre, è precipitata con gli eventi giudiziari degli ultimi giorni al 7,4%. Sono questi i voti che maggiormente viaggiano verso il bacino dell’astensionismo.
Di contro, con un Pd stabile al 30,2%, crescono l’Idv (al 9,5% contro il 7,1% di novembre 2011 e il 6,9% dell’aprile precedente), l’Udc (8,5%), Sel (7,8%) e il Movimento Cinque Stelle, che dall’1,3% di aprile 2011 era passato a novembre al 4,6% e ora viaggia sul 5,5%. Stiamo però parlando sempre dei dati espressi in quel 38,1% che ha detto di aver scelto cosa votare. Dietro di loro si muove una maggioranza confusa e consistente, il vero bottino di future campagne elettorali.
CERTO NON AIUTA la lontanza dalle urne (si voterà a ottobre o nel 2013, e con quale sistema elettorale?) e il momento di crisi dei vecchi simboli della rappresentanza politica. La confusione è talmente alta sotto al cielo che seppure Mario Monti goda ad oggi di un consenso non propriamente elevato (solo il 43,79% mantiene sul premier un giudizio positivo), un’ipotetica “Lista Monti” senza una collocazione politica definita, sarebbe il primo partito e leverebbe consenso principalmente alle due aggregazioni maggiori. Una lista guidata da Monti, arriverebbe al 29,6%, lasciando al Pd il 19,6% e al Pdl il 15,2%.
D’altronde, però, il 56,46% degli intervistati non vedrebbe di buon occhio la sua discesa in campo. Sul segno politico da attribuire all’esecutivo dei tecnici, del resto, gli elettori mostrano pochi dubbi: è un governo di centro per il 28,93% degli intervistati. È un governo di centro-destra per il 27,82%. È un governo di destra per il 20,83%. Solo l’8,38% ritiene che i tecnici siano di sinistra. Il 14,05% che sia di centro-sinistra.
Ai partiti oggi rappresentati in parlamento, per non scomparire davanti a un’offerta politica che l’elettorato può giudicare “nuova”, non resta che attrezzarsi per portare al voto almeno i propri delusi e indecisi (in questo senso oggi è in controtendenza il Pd che pesca voti tra i delusi che non andarono a votarlo nel 2008).
Il segretario del Pdl Angelino Alfano annuncia una rivoluzione dopo le elezioni amministrative: il partito di cui fa parte si rifarà il trucco puntando sulla proposta chock di non accettare più il finanziamento pubblico. Inoltre si valuta l’ipotesi, ventilata già negli scorsi mesi, di affiancare una lista civica nazionale al proprio simbolo tradizionale. Alchimie, per l’appunto, che non tengono conto di quello che questa fascia di elettori, delusi e indecisi, mette per iscritto nei sondaggi. Certo, il 33% del campione monitorato dal Cise Luiss, vorrebbe tagliare le spese di funzionamento dello Stato, ma uno su tutti dei provvedimenti portati avanti dall’esecutivo ha il gradimento della maggioranza assoluta degli intervistati, con il 54%: la lotta all’evasione fiscale. Per il partito che ha depenalizzato il falso in bilancio non proprio una buona notizia.

il Fatto 22.4.12
Livia Turco piange in tv: “Il distacco dei cittadini mi angoscia”


E in tv tornano le lacrime. Venerdì sera è toccato alla deputata Pd Livia Turco, ospite di Luisella Costamagna a “Robinson”. Ha appena visto un sondaggio e dice: “Io sono molto angosciata da quel dato: 48% di persone che non credono nella politica. Sono molto angosciata perchè quando ero giovane ho avuto la possibilità di incontrare la politica come grande passione, come partecipazione, e ho sempre pensato che la politica fosse quella di tante persone che partecipano e che ci credono. E quindi percepire questo distacco è qualcosa che angoscia”. Poi si commuove e dice: “Confesso una grande sofferenza, la sofferenza di si fa il mazzo, di chi gira per il territorio, di chi conosce i problemi sociali...per chi vive la politica così, dover sentire parlare di diamanti, di lingotti, beh, è veramente una grande sofferenza”.

il Fatto 22.4.12
Anche i candidati sindaco scaricano i partiti
Per le sfide del 6 e 7 maggio liste civiche e uomini nuovi
di Wanda Marra


Tre sfide dall’alto valore simbolico e politico (Genova, Palermo e Verona), una campagna elettorale all’insegna dei comizi quotidiani di Beppe Grillo e delle difficoltà dei partiti, il 6 e il 7 maggio 1019 Comuni (tra cui 28 capoluoghi) vanno al voto (ballottaggio fissato per il 20 e il 21), con 9 milioni di elettori coinvolti.
Al rinnovo dei consigli comunali per Genova e Palermo si è arrivati dopo primarie che hanno mostrato tutte le difficoltà del centrosinistra. Nel capoluogo ligure il candidato appoggiato dalla coalizione di centrosinistra è Marco Doria, espressione di alcune liste civiche e di Sel. Si è guadagnato la candidatura sbaragliando le due candidate del Pd (Roberta Pinotti e Marta Vincenzi). Adesso i sondaggi lo danno favorito, con il 47 per cento dei consensi, ben 25 punti in più di Enrico Musso, che guida una lista civica sostenuta dal Terzo Polo. A Palermo, il centrosinistra si presenta diviso, dopo la sconfitta di Rita Borsellino, candidata ufficiale di Pd e Sel, battuta da Fabrizio Ferrandelli, consigliere comunale Idv, espulso dal partito proprio per la decisione di correre alle primarie. Dopo le accuse di brogli (e anche quelle di inquinamento del voto da parte di Lombardo e dei suoi), è sceso in campo Leoluca Orlando, al quale però è andato solo l’appoggio di Idv e Rifondazione, mentre il Pd e Sel hanno scelto di sostenere Ferrandelli. I due sono dati in un testa a testa con Massimo Costa, candidato di Pdl, Udc e Grande Sud.
Il caso Verona, invece, è emblematico della situazione nel centrodestra: super favorito il Sindaco uscente, Flavio Tosi, appoggiato dalla Lega Nord (e da 7 civiche, tutte col suo nome del simbolo): prima delle dimissioni di Bossi sembrava destinato all’espulsione. Non lo appoggia il Pdl, tant’è vero che i 14 dirigenti cittadini pidiellini che hanno scelto invece di sostenerlo sono stati sospesi da Alfano.
Gli altri capoluoghi di provincia in cui si va al voto sono Alessandria, Asti, Cuneo, Como, Monza, Belluno, Gorizia, La Spezia, Par-ma, Piacenza, Lucca, Pistoia, Frosinone, Rieti, L’Aquila, Isernia, Brindisi, Lecce, Taranto, Trani, Catanzaro, Agrigento, Trapani, Oristano, Lanusei.
La geografia delle alleanze dà il segno della situazione politica generale: ovunque, tranne a Gorizia, Lega e Pdl corrono separati. In 16 capoluoghi di provincia da Nord a Sud resiste la “foto di Vasto”, con l’alleanza Pd, Idv e Sel. Mentre in sei città i Democratici si alleano con l’Udc. A La Spezia, Carrara, Taranto e Trani i centristi si aggiungono alla cosiddetta foto di Vasto. I centristi però in molte città si presentano con il Pdl.
Queste amministrative raccontano poi l’entrata in scena a pieno titolo e in grande stile di Beppe Grillo e del suo Movimento 5 stelle. Al 7,5 per cento dai sondaggi, 101 liste su tutto il territorio nazionale, il tour elettorale del comico genovese sta “sbancando” a livello mediatico, con slogan all’insegna dell’anti-partitismo e dell’opposizione dura e pura a Monti.
Sia una ventata di antipolitica o no, la sfiducia nella politica “tradizionale” si vede non solo dal dato in ascesa continua di chi a votare pensa di non andare, ma anche da una serie di casi in giro per l’Italia. Ad Alessandria ci sono 16 candidati sindaci e 34 liste. A La Spezia gli aspiranti consiglieri comunali sono 800, in 27 liste con 14 candidati sindaci. A Isernia si presenta tra i 600 consiglieri comunali anche l’ex parroco Don Vincenzo Chiodi (come indipendente del Movimento del Guerriero Sannita). A Como scende in campo l’ex campione del mondo Pietro Vierchwood, nella lista “Il Faro”. Slogan evocativo: “Stop(er) candidarmi”. Hanno fatto un passo indietro invece le porno star: Ilona Staller all’ultimo momento ha deciso di non andare alla conquista di Monza, ma di preservarsi per le politiche. Mentre Amanda Fox a Taranto non è riuscita a raccogliere le 350 firme per candidarsi Era arrivata, infine, a un soffio dalla corsa a Rittana, nel torinese, la lista “Bunga bunga”: è stata ricusata. Sarebbe stato invitato a fare un passo indietro anche Vitto-rio Sgarbi: il Tribunale di Marsala, dopo che il suo comune di Salemi è stato sciolto per mafia, lo ha dichiarato incandidabie per Cefalù. Ma lui non molla.

il Fatto 22.4.12
Soltanto sobri annunci, tutti i bluff di Monti
Dagli esodati ai tagli di spesa. Promesse finte, tasse vere
di Stefano Feltri


L’ultimo caso è quello del ministro Elsa Fornero: in teoria dovrebbe essere intenta a cercare risorse nel bilancio pubblico per salvare gli “esodati” da anni di indigenza tra lavoro e pensione, nel concreto si è limitata a suggerire alle aziende di riprenderseli, parlando di “nuove opportunità occupazionali”. Ma a misurare la distanza tra le promesse del governo Monti e la loro attuazione c’è soprattutto il negoziato partito a Roma tra Comune e la lobby dei tassisti: i conducenti non soltanto hanno evitato l’aumento delle licenze, protestando contro la legge che impone loro di garantire il servizio pubblico, ma stanno addirittura strappando un aumento delle tariffe del 20 per cento, hanno schivato perfino la ricevuta obbligatoria, già votata dal Comune di Roma e mai applicata. Non stupisce certo che le liberalizzazioni nel decreto dei tecnici siano state presentate come un miracolo da +11 per cento del Pil (nel lungo periodo) e ora, per lo stesso governo, valgano meno dello 0,3 annuo.
Il pareggio mancato
La divergenza maggiore tra promesse e risultati è proprio nel dominio di Monti, il bilancio: “Non è questo governo che ha sottoscritto l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013”, ha ribadito più volte il premier, pur impegnandosi a rispettare la gabbia imposta a suo tempo da Bruxelles alla demagogia contabile di Silvio Berlusconi. Soltanto pochi giorni fa Monti ha annunciato le stime ufficiali del governo, nel Documento di economia e finanza: il deficit nel 2012 sarà lo 0,5 per cento, se la recessione si aggrava può diventare almeno 0,8. Una distanza consistente, di quasi 15 miliardi, dal deficit zero promesso ad Europa e mercati. Certo, dal Tesoro ribadiscono sempre che quello che conta è l’avanzo primario, il risparmio dello Stato che erode automaticamente il debito e che dovrebbe permettere all’Italia di rispettare i vincoli europei sulla riduzione dell’indebitamento (un ventesimo all’anno per la parte che eccede il 60 per cento del Pil) dal 2015. Ma questo virtuosismo si fonda su una disciplina di bilancio che finora l’Italia non ha mai saputo rispettare nell’intera storia Repubblicana. E se i mercati non hanno attaccato di nuovo i titoli di debito italiani (lo spread è “solo” a 400), si deve alla maggior credibilità di Mario Monti rispetto a quella di Berlusconi più che ai numeri: il rapporto tra debito e Pil nel 2012 sarà al 123,4 per cento, quattro punti più di quanto previsto un anno fa. E soprattutto in crescita, invece che calante.
Le tasse e gli evasori
Il premier tende a non scendere mai in dettagli, quando si parla di tasse, preferisce parlare di “sacrifici”. Ma ogni timore di batosta si sta realizzando: dall’Imu, necessaria per rimediare all’abolizione dell’Ici, alla carbon tax, un salasso previsto dalla delega fiscale in discussione che potrebbe far salire il prezzo della benzina ben sopra i due euro. Perfino lLa riforma del lavoro, a sorpresa, costerà 1,8 miliardi pagati da tasse sui biglietti aerei e taglio ai bonus fiscali per le auto e le case dei professionisti. E il nobile proposito di migliorare le abitudini alimentari per ridurre i costi a carico del servizio sanitario si traduce in un nuovo balzello, sullo junk food, i cibi spazzatura, come annunciato dal ministro della Salute Renato Balduzzi. Ogni mese qualche ministro lascia filtrare ai giornali amici, che prontamente rilanciano, l’arrivo di un fondo “taglia tasse”, che dovrebbe restituire ai contribuenti onesti l’incasso dalla lotta all’evasione fiscale. Ma Monti deve sempre smentire. Anche ieri, dal salone del mobile di Milano, ha ribadito che “non ci sono margini per una deroga al rigore”. Qualche flessibilità, o deroga, però c’è: la tassa sugli evasori protetti dallo scudo del 2009, più volte citata dal premier come prova dell’equità dei sacrifici, non funziona e continua a slittare. Se ne riparla a luglio, forse, visto che sembra più complicato del previsto superare il muro dell’anonimato.
La spesa non si tocca
Il ministro Piero Giarda sta lavorando alla spending review, annunciata da Monti fin dal suo discorso di insediamento in Senato, il 17 novembre, come alternativa razionale ai “tagli lineari” (riduzioni in percentuale) che praticava Giulio Tremonti. Ma pochi giorni fa, alla Stampa, Giarda ha chiarito che “dalla spending review non c’è da attendersi nessun tesoretto da destinare a una riduzione delle tasse”. Non è quindi molto chiaro perché allora il ministro ci stia lavorando tanto. Eppure i soldi servirebbero, non solo per le tasse ma anche per pagare le imprese creditrici verso la pubblica amministrazione: da Bruxelles, lato Commissione europea, guardano con un certo sospetto i tentativi dell’Italia di tenere fuori bilancio i debiti commerciali, per migliorare le statistiche mentre le aziende muoiono. Il ministro Corrado Passera aveva annunciato pagamenti in Btp, sono rimasti pochi spiccioli, ora si parla di un rating (così, forse, le banche anticiperanno il dovuto). Davanti agli investitori asiatici, a marzo, Monti ha annunciato la vendita di beni pubblici, immobili e non solo, per 35-40 miliardi. Ma quello lo ha sempre promesso anche Silvio Berlusconi. Ovviamente senza farlo mai.

il Fatto 22.4.12
La lotta di classe al contrario
di Stefano Feltri


Per uscire dalla crisi sappiamo cosa fare: ridurre il debito, tagliare la spesa pubblica, rendere più competitivi i lavoratori, aumentare il ruolo dei privati nell'economia. Sappiamo tutte queste cose, ma non ci è chiarissimo perché le sappiamo. Anche gli economisti più assertivi, tipo Francesco Giavazzi e Alberto Alesina sul Corriere della Sera, faticano a dimostrare che queste sono le ricette migliori. Bisogna fare così e basta, perché lo dicono gli economisti più autorevoli, quelli ascoltati dai mercati. Cioè loro.
LUCIANO GALLINO sostiene una spiegazione sorprendente nella sua semplicità: questo genere di misure non sono neutre e indiscutibilmente giuste, ma la traduzione in politica economica della “Lotta di classe dopo la lotta di classe”, come si intitola il nuovo libro del sociologo torinese pubblicato da Laterza (un'intervista a cura di un’altra sociologa, Paola Borgna). L'analisi di Gallino corrisponde al passo indietro che, in un museo, permette di vedere un quadro come un insieme invece che come somma di dettagli. La tesi è questa: nei primi 70 anni del Novecento la lotta di classe ha portato a una ridistribuzione verso il basso delle risorse: la costruzione dei sistemi di welfare ha protetto milioni di persone dalla povertà e dalle incertezze, la pressione dei sindacati ha ridotto la quantità di lavoro e ne ha migliorato la qualità, l'istruzione di massa ha permesso mobilità sociale. La classe dei lavoratori ha vinto la battaglia. Ma la guerra è continuata, è iniziato un “contromovimento” come lo chiamava Karl Polanyi. I numeri di Gallino sono difficili da confutare: tra il 1976 e il 2006 crolla la percentuale dei redditi da lavoro sul Pil, misura di quanta parte della ricchezza nazionale finisce nelle tasche dei lavoratori. Tra il 1976 e il 2006, nei 15 Paesi più ricchi dell'area Ocse, si passa dal 68 al 58 per cento. In Italia i redditi da lavoro scendono addirittura al 53 per cento. Questo significa, ricorda Gallino, che i lavoratori dipendenti hanno perso 240 miliardi di euro all'anno. Ma pagano comunque moltissime tasse e tuttora in Italia l'aliquota più bassa dell'Irpef (23 per cento) è maggiore di quella sui proventi finanziari, passata nel 2012 dal 12,5 al 20 per cento. Non è colpa della globalizzazione, sostiene Gallino. È la lotta di classe. Perché mentre i lavoratori dipendenti diventavano più poveri, altri si arricchivano. Una superclass globale, ma fortemente radicata anche all'interno delle singole nazioni, si appropriava di quella ricchezza sottratta ai lavoratori. La teoria (neo) liberista, che secondo Gallino è una delle espressioni più compiute della lotta di classe, sostiene che se il Pil cresce tutti ci guadagnano, che rimuovere gli ostacoli alla crescita, rendere il lavoro più flessibile e i salari più competitivi, alla fine è nell'interesse di tutti. Il filosofo John Rawls affermava nei suoi principi di giustizia che una disuguaglianza è accettabile soltanto se migliora la condizione anche di chi ha meno. E Gallino dimostra che all'arricchimento di pochi, soprattutto nella finanza, ha corrisposto un impoverimento della base della piramide sociale, con la perdita della capacità di essere una classe “per se” (soggetto attivo, consapevole di avere interesse comuni).
IL LIBRO DI GALLINO costringe a una perenne ginnastica mentale, perché a ognuno delle dimostrazioni della violenza della nuova lotta di classe al lettore scatta subito la risposta mainstream. I nostri lavori sono poco produttivi? Dobbiamo accettare meno diritti e più flessibilità, o la disoccupazione. Sbagliato, risponde Gallino: con un minimo di coscienza dell'essere classe anche i sindacati dovrebbero porsi il problema di far aumentare i salari dei lavoratori cinesi e indiani, denunciando le condizioni di sfruttamento, invece che rassegnarsi a veder scendere quelli italiani o americani.
C'è un punto di fragilità nel libro di Gallino: l'ascesa della finanza, il trionfo del capitalismo a debito e la conseguente crisi di finanza pubblica non è soltanto un prodotto di questa lotta di classe. Ma anche, per dirla sempre con termini marxisti, l'epilogo di una crisi di sovrapproduzione: i poveracci americani ricorrevano a carte di credito e mutui subprime per avere uno stile di vita che non potevano permettersi e mantenere artificiosamente alto il livello dei consumi. In Europa le finanze allegre della Grecia hanno permesso ai greci di continuare a comprare prodotti tedeschi, e così via. La bolla della finanza, insomma, non ha contagiato l'economia reale, come sostiene Gallino, ma si fonda sulle sue debolezze. Dopo aver letto il libro di Gallino, quando si vedono Mario Monti ed Elsa Fornero accampare spiegazioni scivolose sulla necessità di ridurre le tutele al lavoro, viene da parafrasare Bill Clinton: “É la lotta di classe, stupido”.
La lotta di classe dopo la lotta di classe, di Gallino, Borgna; Laterza  213 PAGG., 12 EURO

il Fatto 22.4.12
Uova sul lavoro della Fornero
Il ministro contestato a Torino
di Stefano Caselli


Torino. In questo paese c’è un clima poco costruttivo, ma anziché lamentarsi e protestare bisogna lavorare insieme”. Ci aveva provato Elsa Fornero. Ma qualcuno non l’ha ascoltata. Erano in circa duecento ad aspettarla fuori dal Teatro nuovo di Torino. Lancio di uova, insulti, qualche carica di alleggerimento e tutto finisce. Ma a Torino l’intensità dello scontro sociale si misura in termini di prevedibilità. Si sapeva che la mattina in corso Massimo D’Azeglio, dove la Conferenza Regionale sulla Scuola organizzata dalla Cei ospitava sia il ministro del Welfare Fornero che il collega dell’istruzione Francesco Profumo (entrambi torinesi) sarebbe finita così.
Le forze dell’ordine, dalle prime ore del mattino avevano creato un cordone di protezione su via Sclopis, praticamente all’interno del Parco del Valentino in corrispondenza dell’uscita lato palco. Di fronte si erano radunate alcune decine di manifestanti, in prevalenza esponenti dei Cobas e delle organizzazioni studentesche, tra cui alcuni provenienti da via Verdi 15, la residenza universitaria di fronte alla sede regionale della Rai occupata dalla metà di gennaio. Slogan, striscioni e poco più.
NON APPENA il corteo ha cominciato a sciogliersi, le forze dell’ordine (come prevedibile) si sono trovate di fronte un gruppo di manifestanti in buona parte riferibili al centro sociale Askatasuna, quelli sempre in prima fila, dalla lotta No Tav in Val di Susa alla manifestazione degli indignati del 15 ottobre scorso a Roma. C’è stato un lancio di uova all’indirizzo delle auto dei ministri Fornero e Profumo. Quindi, una carica di alleggerimento per disperdere i manifestanti: “É chiaro - racconta un dirigente della Digos di Tori-no - che quando si preme e si tirano oggetti si intervenga per allontanare i manifestanti. Dopo pochi minuti tutto era concluso, senza incidenti di rilievo”. Dall’altra parte della barricata si contesta innanzitutto la natura “confessionale” della Conferenza regionale sulla scuola: “Mentre la scuola pubblica va a pezzi - si legge in un comunicato - il governo in carica si mostra in perfetta continuità con quello precedente. I ministri mostrano con chiarezza quali siano i loro interlocutori privilegiati. Partecipando ad una conferenza episcopale, si ribadisce l'idea (tutta politica) di una formazione e una cura delegata alla Chiesa e alle sue appendici ‘sociali’, smantellando il pubblico o dandolo in pasto al privato o agli istituti paritari”. Ovviamente motivo della contestazione è anche la riforma del lavoro. Ma l’obiettivo principale degli strali dei contestatori (tanto per cambiare) è la “sbirraglia, sempre più nervosa di contestazione in contestazione, chenvorrebbe imporre l’impossibilità di manifestare”. In realtà la “sbirraglia” è sì nervosa, ma per altri motivi: “Oggi - dichiara Massimo Montebove, consigliere nazionale del sindacato autonomo di polizia Sap - i poliziotti torinesi si sono presi pietre e uova per difendere la signora Fornero. Dovrebbe essere sufficiente questo per far capire al ministro che non può continuare a tirare la corda anche con gli operatori delle forze dell’ordine, soprattutto in materia pensionistica. Diventa difficile per un poliziotto o un carabiniere che non arriva a fine mese e che sa che andrà in quiescenza a 65 anni con una pensione da fame, come vorrebbe Fornero, continuare a lavorare e operare con la necessaria serenità”.
IL MINISTRO, insomma, non ha mai avuto così pochi amici come in questi mesi. Domani la aspettano i lavoratori dell’Alenia Aermacchi a Caselle Torinese. Elsa Fornero, spiazzando quasi tutti, ha accettato l’invito della Fiom a recarsi in fabbrica per confrontarsi con i lavoratori sul a riforma del Welfare. Dentro la aspettano con favore, quanto meno per la cortesia. Fuori chissà.

l’Unità 22.4.12
Intervista a Stefano Fassina
«Al centro operazione di marketing politico. Sul Pd Fioroni sbaglia»
Il responsabile economico dei Democratici: «La nostra identità non era l’antiberlusconismo Pareggio di bilancio: giuste le critiche»
di Simone Collini


Un partito non è un’espressione di marketing elettorale», dice Stefano Fassina guardando alla «più grande novità della politica italiana» annunciata da Berlusconi e Alfano. Ma non è solo il movimentismo del Pdl a lasciare perplesso il responsabile Economia del Pd. «Ho sentito anche dai vertici dell’Udc parole che mi hanno fatto pensare più al marketing che a un progetto serio».
A cosa si riferisce?
«Il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa ha detto che il partito della nazione si rivolge a tutte le persone di buon senso».
E allora?
«Bè, abbiamo scoperto che carattere distintivo di una forza politica può essere il buon senso. Un partito dovrebbe essere un’impresa culturale per la storia del proprio Paese, dovrebbe dare una prospettiva di futuro. Le operazioni di questi giorni sembrano soltanto ripackaging di ceto politico, magari con qualche innesto tecnico, piuttosto che l’offerta di un programma credibile in grado di portare il Paese fuori dal tunnel». A sentire il suo compagno di partito Beppe Fioroni non sono operazioni da sottovalutare e anzi il Pd dovrebbe a questo punto fare autocritica: “i partiti si sono trasformati di fatto nei fan club di questo o quel leader”, ha detto all’Unità.
«È un’analisi sbagliata. Il Pd non è stato mai un fan club, siamo un partito vero. Bersani fin dalla campagna congressuale ha chiarito che non avrebbe mai messo il suo nome nel simbolo elettorale».
Dice anche Fioroni che “prima” potevate fare alleanze nel segno dell’antiberlusconismo, ora dovrete chiedere il voto perché siete “i migliori”.
«Anche questa valutazione è incomprensibile. Il Pd non si è sorretto sull’antiberlusconismo, ha costruito un profilo identitario, politico e programmatico sempre più definito a cui hanno concorso tutte le sensibilità del partito. Come esempio di questo processo sottolineerei la nostra analisi e proposta autonoma sul lavoro, senza la quale non sarebbe stato possibile raggiungere un risultato importante come quello sull’articolo 18, innovativo e coerente con la civiltà del lavoro europea». Risultato che sarà messo in discussione in Parlamento, a sentire il Pdl.
«La parte sull’articolo 18 non verrà toccata dal percorso parlamentare perché è frutto di un accordo politico. Il passaggio in Parlamento migliorerà i punti sulla flessibilità in entrata, che non funziona per le imprese e di conseguenza per i lavoratori, e sui contributi per i parasubordinati, per i quali andrà anche estesa l’indennità di disoccupazione, da cui oggi sono esclusi.
Che ne pensa dell’uscita della Fornero, per la quale ai lavoratori esodati lontani dalla pensione si possono offrire “nuove opportunità occupazionali”?
«Il punto fondamentale è che chi è stato colpito dalla brutalità dell’intervento pensionistico non può rimanere senza pensione e senza reddito. Ma è complicato per questi lavoratori usciti attraverso la mobilità, con la chiusura di aziende, o attraverso accordi aziendali con cui sono stati sostituiti da altro personale, ritornare al lavoro. Per di più in una fase, come quella attuale, caratterizzata da una ulteriore contrazione occupazionale. La soluzione per gli esodati è prevedere le risorse necessarie per farli accedere al pensionamento secondo la previgente normativa». Tornando ai movimenti al centro: non è giusto rispondere alla domanda di cambiamento che arriva dalla società?
«L’obiettivo del Pd non è inseguire un astratto elettorato ma recuperare consenso in un’area vastissima che vuole sì cambiamento, ma progressivo. Questo è stato dimostrato nei referendum sui beni comuni, nel movimento delle donne, nei movimenti sul lavoro. È un’area che si sente lontana dalla politica perché questa appare incapace di articolare una prospettiva diversa rispetto a un pensiero unico che ci sta portando a sbattere». Cosa intende dire?
«Che se la politica si limita ad essere l’attuazione di lettere che arrivano da Francoforte e da Bruxelles non si capisce a cosa serva. Oggi viviamo una fase di crisi democratica di cui la crisi dei partiti è la parte più evidente. Se la politica non è in grado di mettere in campo un pensiero autonomo e una prospettiva in grado di rispondere ai drammatici problemi che abbiamo di fronte, se si limita ad attuare i diktat che arrivano dall’empireo tecnocratico, è difficile che ritroverà fiducia da parte dell’elettorato». Massimo D’Antoni e Ronny Mazzocchi hanno scritto sull’Unità che il pareggio di bilancio in Costituzione “è un cedimento della politica”. Lei che dice, visto che il Pd l’ha votato? «Hanno ragione, è certamente frutto di subalternità culturale assumere come vincolo costituzionale la norma del pareggio di bilancio, di per sé espressione di una cultura economica fallita. Tuttavia l’Italia si è trovata a fare i conti con un vincolo politico e quel voto è stato il prezzo necessario da pagare per costruire una politica di bilancio nell’area Euro legittimata democraticamente».

l’Unità 22.4.12
Assemblea per la Liberazione boicottata dai mlitanti di Lotta Studentesca legati a Forza Nuova
L’insulto: «Raccontaci la favoletta». L’Anpi aveva allertato la polizia. Le minacce su Facebook
Sberleffi e striscioni Partigiano contestato in un liceo romano
Al liceo romano Avogadro un gruppo di studenti legati a Forza Nuova, organizzazione di estrema destra, contesta pesantemente il partigiano Mario Bottazzi. Solidarietà del mondo politico.
di Ma.Ge.


«Beffato partigiano al liceo Avogadro», hanno rivendicato sul loro gruppo facebook, subito dopo il blitz. Una irruzione durante una assemblea organizzata dal collettivo studentesco del liceo Avogadro di Roma per ricordare il 25 aprile. Per l’occasione, gli studenti del collettivo avevano invitato nella loro scuola il presidente del vicino circolo Anpi, Mario Bottazzi, ex partigiano, che combattè nelle montagne attorno a Piacenza.
LA PROVOCAZIONE
Iniziativa che a quelli di Lotta studentesca, organizzazione giovanile di Forza Nuova, non è piaciuta per niente. Si sono presentati in tre o quattro, con uno striscione: «Papà castoro raccontaci una storia», lo hanno srotolato, durante l’assemblea, a irridere il testimone della Resistenza, che aveva appena finito di parlare. Favole, secondo loro. «Parlaci piuttosto dei preti cattolici ammazzati dopo la Liberazione», ha chiesto uno di loro. «È chiaro che era una provocazione, meditata e preparata, nel modo più meschino», ricostruisce la scena Mario Bottazzi: «Lo sapevamo, per quello avevamo allertato la polizia». Che, presente fuori dalla scuola, è stata chiamata a intervenire dalla stessa preside «per riportare la calma».
Da giorni, i militanti di Lotta studentesca avevano fatto partire il tam tam. «Contro il monopolio ideologico delle assemblee scolastiche, contro gli assassini trattati come eroi, boicotta l’assemblea d’istituto», recita un post pubblicato su facebook dal gruppo «Lotta studentesca Avogadro» tre giorni prima dell’assemblea, ovvero mercoledì scorso. Con tanto di volantino del collettivo riprodotto (simbolo compreso: un martello che distrugge la svastica) a indicare bene quale era l’iniziativa da boicottare. «Non lasciare la memoria nelle loro mani», recita un altro manifesto postato sempre dai militanti di Lotta studentesca lo stesso giorno. E a seguire il botta e risposta con una studentessa del collettivo, che aveva organizzato l’incontro con il presidente del circolo Anpi. «Invece di organizzare monologhi non sarebbe stato meglio un dibattito, invitando oltre a un partigiano un reduce della Rsi o i familiari delle vittime di via Rasella?», la attaccano quelli di Lotta studentesca. Un fuoco di fila che aveva spinto l’Anpi ad allertare il commissariato di zona. «Non è certo il primo episodio firmato da Lotta studentesca in quella scuola», spiega Elena Improta, vicepresidente dell’Anpi di Roma e consigliera Pd del II municipio. Lo scorso 27 gennaio, giorno della memoria ricorda -, sempre all’Avogadro fu cancellata una iniziativa sulla Shoah, perché avevano allagato la scuola. «Anche allora segnalammo l’episodio al commissariato: queste non sono bravate, se le chiamiamo così alimentiamo il ghetto e releghiamo chi le fa nel ruolo di fascistelli». Quanto all’antifascismo: «Non è certo andare contro i fascisti nelle piazze ma combattere il fascismo culturalmente», ci tiene a dire.
A difesa della memoria, intanto, si leva il presidente della Provincia di Roma Zingaretti: «Se in Italia oggi c'è democrazia lo si deve anche al coraggio di partigiani come Bottazzi». «Un italiano che quando aveva la stessa età di quei ragazzi che lo hanno offeso è andato sulle montagne», lo ringrazia il segretario del Pd Lazio Enrico Gasbarra. E lo stesso Alemanno condanna: «Un atto inaccettabile sotto ogni punto di vista».

l’Unità 22.4.12
Intervista a Mario Bottazzi
«Un brutto segno, bisogna resistere»
Parla l’aggredito: «Solo provocatori, gruppi che nella Roma di Alemanno trovano sponda»
di Mariagrazia Gerina


M io fratello era del ’25 e quelli della sua età, nella Repubblica di Salò, se non si presentavano venivano fucilati. Salì in montagna, io, più giovane, decisi di andargli dietro, non potevo fare altrimenti». Ecco, quando fece la sua scelta Mario Bottazzi, il partigiano insultato alla vigilia del 25 aprile, aveva sedici anni, più o meno l’età di quei tre ragazzi di Lotta studentesca che lo hanno contestato. «Una provocazione premeditata e meschina», si amareggia lui, che della testimonianza nelle scuole ha fatto una ragione di
vita. «Altro che favole».
Come è andata?
«Erano tre, hanno srotolato lo striscione. Poi mi hanno chiesto: “Lei cosa dice dell’assassinio di quel prete a Rimini dopo la Liberazione?”. Volevano provocare: dimostrare che i partigiani erano delinquenti. Li conosciamo bene, per questo abbiamo allertato il commissariato». Chi sono? Cosa li spinge a contestare una storia che non conoscono?
«Un tempo pensavo che fosse per ragioni familiari. Ma non è così. In questi anni abbiamo visto nascere grup-
pi di tutti i tipi a Roma. Non c’è solo Casa Pound. Quelli che mi hanno contestato si arrabbiano se gli dici che sono di Casa Pound. Il punto è che nella Roma di Alemanno trovano sponda. Non c’è iniziativa che non corrano a contestare con migliaia di manifesti: chi glieli dà i soldi?».
Lei aveva più o meno la loro età quando è diventato partigiano?
«Non avevo ancora compiuto 16 anni. Venivo da una famiglia di antifascisti. Mio padre era stato licenziato dall’Arsenale militare dove lavorava come meccanico perché non aveva la tessera del fascio...».
Cosa ricorda del 25 aprile?
«Per noi a Piacenza il giorno della Liberazione fu il 28: gli alleati restarono fuori, lasciando che fossimo noi partigiani a entrare per primi, un riconoscimento del ruolo che aveva svolto la lotta partigiana».
Che valore ha oggi quella lotta?
«Abbiamo sconfitto i tedeschi e il fascismo, ci siamo messi nella condizione di ricostruire un Paese che allora era totalmente distrutto. Il regime ci aveva portato al disastro». Che pensa della decisione di tenere aperti i negozi anche il 25 aprile. «Sono anche quelli attacchi al 25 aprile. Ha fatto bene Pisapia a non accettare la cosa. C’è ancora da resistere».

l’Unità 22.4.12
Francia Oggi il primo turno, praticamente scontato il ballottaggio
Sarkozy spera nell’apporto del centrista Bayrou. L’incognita Le Pen
Hollande, il giorno della verità. È sfida per la pole position
Oggi alle 20 si conoscerà il vincitore del primo turno. Sarkozy spera di smentire i sondaggi, e punta tutto sulla rimonta in vista del 6 maggio. Con offerte più o meno esplicite ai centristi.
di Luca Sebastiani


È vero, la campagna elettorale quest’anno non ha brillato per originalità, entusiasmo e mobilitazione. Se la si compara con quella di cinque anni fa, non si può che definirla noiosa: con i piccoli candidati che hanno promesso grandi cose e i grandi candidati che hanno avanzato piccole proposte. Del resto la campagna era posta sotto il segno di una crisi che ha ristretto i margini di manovra e messo fuori corso i programmi mirabolanti. Ciò non toglie che la corsa è stata lunga e sfibrante e la Francia è oggi ferma col fiato sospeso per scoprire stasera alle 20 l’ordine di piazzamento dei dieci candidati al primo turno delle presidenziali.
Nonostante i sondaggi non abbiano fatto che confermare per tutti questi mesi una vittoria di François Hollande, le incognite che pesano sull’esito di stasera sono ancora numerose. In particolare l’astensionismo, che calcolato intorno al 30% potrebbe spostare qualche equilibrio o invalidare qualche predizione. La sorpresa è sempre dietro l’angolo, soprattutto quando ci si può riferire ad un precedente storico abbastanza recente per cui la memoria collettiva conserva fervido il ricordo. Il 21 aprile 2002, una sera come quella che si svolgerà stasera, davanti ai loro teleschermi i francesi scoprirono che non il favorito socialista Lionel Jospin, ma l’outsider dell’estrema destra Jean Marie Le Pen accedeva alla sfida finale del ballottaggio contro Jacques Chirac.
Il primo turno è la prima tappa della corsa presidenziale in cui ognuno corre per sé, magari sperando nell’aiuto di qualche sorpresa.
Tra tutti, quello che oggi scommette di più è Sarkozy. Il presidente uscente può sperare di rivoltare le previsioni dei sondaggi che lo danno già sconfitto al ballottaggio solo piazzandosi davanti a Hollande stasera. Come De Gaulle nel 1965, il candidato neogollista non può contare su nessuna dichiarazione in suo favore tra i due turni. Marine Le Pen non chiederà ai suoi elettori di votare per lui, e neanche il centrista Bayrou probabilmente lo farà. L’ultima disperata speranza di Sarkò è legata ad una pole position che stasera possa rimescolare un po’ le carte e creare una dinamica di mobilitazione tra astensionisti e indecisi. Solo con l’aggiunta di questi voti e di quelli che andrà cercando lui stesso rivolgendosi direttamente agli elettori sulla destra e verso il centro può contare di farcela. Se non arriva in testa al primo turno, ha confidato anonimamente un ministro, «è morto».
Lo sfidante per ora sembra avere una posizione più agevole, e ha condotto gli ultimi stralci della campagna cercando di consolidare il proprio piazzamento rivolgendosi agli astensionisti. È l’unico a non volere sorprese. L’interesse di Hollande stasera si porterà sui piazzamenti rispettivi dei candidati di sinistra, le sue riserve di voto per il ballottaggio. Stando ai sondaggi la gauche nel suo complesso dovrebbe arrivare a totalizzare uno storico 46%. Dall’entità di questa base dipenderà la strategia di Hollande verso i suoi due principali bacini di riserva, François Bayrou e Jean Luc Melenchon.
Il «rosso» da parte sua ha smesso di sognare il ballottaggio. Anche se dato indietro di un paio di punti, per Melé quello che conta a questo punto è piazzarsi terzo, davanti a Le Pen contro cui ha riservato l’ultima parte della sua campagna. In questo modo dimostrerebbe che è possibile una politica di sinistra contro l’estrema destra e piazzerebbe il secondo esponente della gauche tra i prime tre. Un record.
LA SCOMMESSA DI MARINE
Anche se i sondaggi hanno storicamente sottostimato il voto dell’estrema destra, il voto di Marine Le Pen non dovrebbe arrivare oltre il 20% come ha dichiarato la candidata. Per lei la scommessa è prendere più del padre nel 2002, il 16,8, e soprattutto non scendere sotto il 15 e magari in quarta posizione. Si tratterebbe di una scomunica della sua strategia e nel partito si aprirebbero le spinte nostalgiche.
Anche Bayrou spera in una sorpresa. Il terzo uomo che nel 2007 aveva raccolto il 18,5 dei voti, oggi è dato intorno al 10, ma continua a sperare in qualcosa in più per pesare nelle strategie del secondo turno. Si tratterà di una difficile quadratura del cerchio, perché dalle analisi del suo voto è emersa una tripartizione netta: un terzo voterà Hollande, un terzo Sarkozy, un terzo si asterrà. Molto probabilmente allora Bayrou non darà indicazioni dirette, ma lascerà fare. In fondo al cuore però punterà sulla vittoria di Hollande e la seguente esplosione dell’Ump per ricostruirsi delle truppe al centro.

il Fatto 22.4.12
Hollande si sente già il nuovo Mitterand
La Francia decide oggi. Il presidente Sarkozy teme il tonfo Lotta aperta per il terzo posto tra Marine Le Pen e Mélanchon
di Gianni Marsilli


Parigi E così stasera, salvo terremoti carsici e inattesi, il capo dello Stato francese sarà messo al suo posto: dietro il socialista François Hollande, a quattro o cinque ruote di distanza. L’aritmetica, se i sondaggi dicono il vero, appare impietosa: per un Sarkozy in seconda posizione, fermo attorno al 25 per cento dei suffragi, sarà impresa epica rimontare e vincere al secondo turno.
Tra due settimane non avrà più riserve alle quali attingere, se non parte dei voti lepenisti e parte di quelli centristi. Invece Hollande potrà contare, oltre che sui centristi ai quali Sarkozy fa venire l’orticaria, su un bel riporto di voti da sinistra, a cominciare da quelli di Jean Luc Mélenchon e del suo Front de Gauche, che gli ultimi sondaggi davano al 14/15 per cento.
NON CHE a Mélenchon e ai suoi piaccia il socialdemocratico Hollande, ingenerosamente battezzato “capitano di pedalò”, altroché presidente. Ma la loro conclamata priorità è di sloggiare Sarkozy dall’Eliseo, e se il grimaldello per farlo si chiama Hollande, ebbene, si voti Hollande: “Aux urnes, citoyens! ”. Lo dice persino l’operaio operaista marxista leninista Philippe Poutou, che non vede l’ora di tornare in fabbrica: “Sarò lì già il 2 maggio”, e il 6 al seggio “per buttar fuori Sarkozy e la sua combriccola”. Ecco che il socialista Hollande, questa sera, potrebbe avere in tasca un consenso virtuale che ruota attorno al 45 per cento, mentre l’altro arriverebbe, ansimante, forse al 40 per cento.
Per la sinistra francese, globalmente intesa, sono percentuali che non si percepivano dal 1981, quando Mitterrand portò la rosa nel pugno al governo del Paese. Questo spiega anche la convergenza di tutti i sondaggi in vista del secondo turno: almeno il 54 per cento per Hollande, non più del 46 per cento per Sarkozy. Va detto però che tra il primo e il secondo turno vi saranno ancora due settimane di campagna, e che se c’è una cosa che non manca al presidente uscente è l’energia e la capacità di rimonta. Galeotti furono gli esordi presidenziali, per l’ancor giovane Nicolas Sarkozy. Galeotto fu, cinque anni fa, il riposo del guerriero a bordo dello yacht dell’amico Vincent Bolloré. Galeotti furono i rolex, gli amici della jet society parigina, quello stile che venne battezzato bling-bling. Galeotte furono le esenzioni fiscali ai più abbienti, le parole sprezzanti rivolte alla plebe: “Levati di torno, coglione”.
GALEOTTO fu soprattutto lo sgarbo nei confronti della funzione presidenziale, che per i francesi è figlia di un’elezione ma si nutre di un’anima monarchica. Il re de-v’essere altero nella solitudine del potere, Sarkozy è stato un monellaccio rumoroso e maleducato. Ma galeotta è stata anche la testarda rotta politica tenuta da cinque anni: fare a gara con il Fronte nazionale a chi più tartassa gli immigrati, legali e non, a chi evoca di più l’islam e i suoi esoterici pericoli. A Sarkozy era andata bene nel 2007, adesso basta: da ministro degli Interni o da presidente della Repubblica, sono dieci anni che agita gli stessi spettri.
Risultato: il Fronte nazionale è sempre lì, anzi pare tornato ai fasti del 2002, quando Jean Marie Le Pen si giocò la finale con Jacques Chirac, e la sinistra rimase alla finestra, traumatizzata e orfana di Lionel Jospin. Gli errori degli inizi e le coazioni a ripetere gli son rimasti incollati, al presidente Sarkozy. Hanno forgiato la sua immagine, e di conseguenza nutrito l’antisarkozysmo. Che ha messo radici troppo larghe e profonde per sparire d’incanto, il tempo di un’elezione. Si è detto e scritto che la campagna elettorale ha volato basso, che si è parlato più della carne halal e della patente a punti che della crisi economica. È vero, la crisi è stata costantemente evocata ma non analizzata e soprattutto nessuno ha osato preconizzare le modalità e i prossimi tempi duri e austeri, che dovranno necessariamente arrivare anche per la spesa pubblica più alta d’Europa. Ma c’è stata un’altra cosa che ha accomunato tutti i candidati, dando vita ad una specie di colonna sonora di tutti i meeting: l’atteggiamento verso l’Europa. Ha scritto il direttore di Le Monde, Erik Izraelewicz: “La musichetta anti-europea che ha animato tutta la campagna ci è stata particolarmente sgradevole”. A noi pare che ne sia uscita una Francia rimpicciolita: neanche François Hollande, che pur si formò alla scuola di Jacques Delors, ha fornito una visione europea, d’avvenire del suo progetto. Quanto a Sarkozy, ha evocato l’Unione solo in quanto “ombrello protettore” dei francesi contro le malefatte della mondializzazione. Non parliamo degli altri: per Marine Le Pen l’Europa è un’armatura di cui liberarsi, per Jean Luc Mélenchon una cattedrale di burocrazia, e persino il centrista François Bayrou, in altre campagne vessillifero del progetto europeo, stavolta non ne ha indossato i colori, scegliendo come slogan “produrre francese, comprare francese”.
Un ripiego generale di qua dal Reno, una Maginot degli spiriti.

il Fatto 22.4.12
Claude Angeli, capo del politico al giornale satirico
Il “Canard”: sinistra attenta, c’è il rischio fascista
di Anna Tito


Parigi Non poteva che risultare originale l’analisi di Claude Angeli: dal 1971 redattore capo per la politica del Canard enchaîné, prestigioso settimanale satirico francese, del tutto indipendente – senza finanziamenti pubblici, né pubblicità – da sempre antimilitarista e anticlericale, autore di indagini su scandali politici, economici e finanziari; con le 500 mila copie vendute a ogni tiratura e il bilancio ampiamente in attivo, turba da sempre il sonno dei potenti, “scrivendo quel che gli altri non scrivono”, secondo il suo motto, coniato in occasione della fondazione nel 1915 a opera dei coniugi Maréchal nell’intento di “criticare la guerra” con l’arma dell’ironia, dell’umorismo e della derisione, convinti dell’effetto vendicativo e consolatorio del ridere. Angeli ha quindi, senza dubbio alcuno, le antenne lunghe.
Il Canard chi sceglierà domenica fra i candidati all’Eliseo?
Il nostro è un giornale di sinistra, quindi vedete voi. Ritengo però che la campagna elettorale non sia stata di grande qualità, né da parte della maggioranza attuale, né dell’opposizione.
Per quale motivo?
Si parla e straparla di patente, del burqa, insomma di questioni marginali… Ma i problemi sono ben altri, e mi colpisce il silenzio, da parte di tutti, sulla politica estera: si è ignorato il conflitto israelo-palestinese, nel timore di reazioni da parte degli elettori e per evitare di impegnarsi; tutti si dicono d’accordo sulla creazione di uno Stato palestinese, ma permane la questione delle colonie, e i giornalisti si guardano bene dall’interrogare i politici a questo proposito. E sul rischio di un raid israeliano sull’Iran ho scritto un articolo, che uscirà mercoledì prossimo, sulla base di un rapporto riservato del nostro Ministero della difesa: francesi, americani e altri, non auspicano questi attacchi, ma non si esclude che entro quest’anno gli israeliani non tentino di colpire l’Iran, prima che venga in possesso della sua arma nucleare. Va detto che il Paese è nella paranoia anche per via della stupidità del regime iraniano con i suoi propositi annunciati di voler distruggere Israele. Quanto all’Afghanistan, basti pensare che per Sarkozy il ritiro avverrà nel 2013, per gli americani nel 2014 e per Hollande entro quest’anno, come se migliaia di tonnellate di materiale bellico si potessero mettere su un aereo.
La mancanza di dibattito sulla politica estera quali ripercussioni avrà?
Secondo i sondaggi, l’astensione, ad esempio, potrebbe arrivare al 30%. Mi rincresce che non si affrontino i problemi essenziali: come abbiamo potuto lasciare la Grecia e la Spagna andare alla deriva? Con quale faccia tosta vengono ora a parlare di crescita? Dinanzi alle questioni delicate, tutti fuggono, e la disinformazione comporta inevitabilmente un ‘ritorno indietro’ della democrazia. Ormai noi, cittadini, elettori o militanti dobbiamo accontentarci di quanto ci propinano la radio e la televisione, falsità il più delle volte. Vogliamo parlare dei 15 milioni di immigrati che sarebbero giunti in Francia, secondo Marine Le Pen?
Potrebbe arrivare lei, come nel 2002 suo padre Jean Marie, al secondo turno?
Lo ritenevo impossibile fino a un anno fa. Credo però che ora raccoglierà non pochi voti, poiché giocano a suo favore tutte le debolezze sociali e psicologiche dell’elettore, nonché la mancanza di cultura politica, e lei porta avanti una campagna intelligente, con la difesa dei servizi pubblici ad esempio, cosa che suo padre si guardava bene dal fare.
Si dà ormai per scontata la vittoria di François Hollande, forse pericolosamente, e lui stesso si è detto preoccupato che questo porti alla dispersione e al disimpegno dell’elettorato.
Hollande auspica un voto “utile” poiché teme un elettorato troppo convinto della sua vittoria, e che dunque non lo voterà al primo turno. Ricordo la lezione del 2002, quando, sicuri della vittoria di Jospin, alcuni – e ne conosco non pochi – non si recarono alle urne, ripromettendosi di andare al secondo turno. Trionfò Le Pen, poi sconfitto da Chirac al ballottaggio.

l’Unità 22.4.12
Intervista a John Podesta
«Obama ha bisogno di politiche progressiste anche in Europa»
L’ex capo di gabinetto di Clinton: «C’è un forte legame tra la visione riformatrice del presidente Usa e il programma del candidato socialista all’Eliseo: ora dobbiamo fare squadra ed essere più ambiziosi nelle idee»
di Umberto De Giovannangeli


Investire nella sicurezza della classe lavoratrice, nello sviluppo comune produce maggiore equità e migliori prestazioni economiche. Abbiamo bisogno di un progetto comune per condividere le nostre idee, per vedere come un’economia progressista che investe sul capitale umano possa offrire maggiori possibilità alle donne, ai giovani, alle fasce deboli della popolazione. Una politica fiscale più equa produce un’economia interna più sostenibile, maggiore equità e incentiva la crescita, ma è un risultato che si ottiene solo attraverso una riforma effettiva ed efficace a opera di governi pronti ad abbandonare quanto non ha funzionato e intraprendere quello che funziona. Nella condivisione di questo orizzonte, vedo un forte legame tra la visione riformatrice di Barack Obama e il programma del candidato socialista alle presidenziali in Francia, Francois Hollande». Riflessioni importanti, tanto più significative perché ad esprimerle è una delle figure chiave nella politica dei Democratici Usa: John Podesta, già capo di gabinetto di Bill Clinton nei suoi anni alla Casa Bianca, l’uomo scelto da Obama per selezionare il suo team presidenziale. Podesta, attualmente presidente del Center for American Progress, il più autorevole think tank democratico americano, è stato tra i protagonisti del II Meeting internazionale dei leader parlamentari progressisti, promosso a Roma dal Pd e dal Gruppo parlamentare alla Camera. L’Unità lo ha intervistato.
Quali sono, a suo avviso, i pilastri di un punto di vista progressista per una nuova governance mondiale della crisi?
«Mi permetta una premessa che prende spunto da questa importante conferenza organizzata dal Partito democratico italiano: l’impressione che ho ricavato da quest’incontro è che ci sia una grande chiarezza sul valore sociale delle politiche progressiste, ma poca chiarezza che da queste azioni derivi migliore politica fiscale e economica. Doppia, insieme, compiere questo salto di mentalità. Essere più ambiziosi, aver maggiore fiducia nelle nostre idee, nei programmi, nella politica. Lei mi chiedeva dei pilastri, delle idee forza. La prima, per quanto mi riguarda, è la solidarietà sociale, che resta un valore per tutti i democratici, che certo va calato nella realtà dell’oggi ma che non può essere messo ai margini. Un altro pilastro è la convinzione che una maggiore equità favorisce la crescita. È questo uno degli spartiacque tra progressisti e conservatori: quest’ultimi considerano l’equità sociale come un ostacolo alla crescita, noi democratici pensiamo l’esatto opposto. Così come siamo convinti che l’ineguaglianza produce inefficienza. Maggiore crescita e maggiore equità: nell’economia progressista si tengono insieme, e questa visione a me pare accomunare il presidente Obama e Francois Hollande».
Un accostamento importante...
«Direi di sì, tanto più che esso si determina sul piano progettuale e non concede nulla a ideologismi o a scorciatoie populiste mascherate da falso progressismo. L’economia progressista, quella vera, non è un libro dei sogni ma è qualcosa di molto concreto: ad esempio valorizza il capitale umano, puntando soprattutto sui giovani e sulle donne. L’economia progressista ha poi un importante sviluppo in una idea partecipata di democrazia...».
A cosa si riferisce in particolare?
«Ad un maggior coinvolgimento delle persone nel processo decisionale e nella stessa selezione delle classi dirigenti. La partecipazione rafforza la credibilità oltre che la rappresentatività dei partiti e della stessa democrazia. È questo il valore delle primarie, un altro punto di incontro tra l’esperienza dei democratici americani e il Pd. Per quanto riguarda poi i democratici Usa, continuo a pensare che sia necessario irrobustire la propria identità guardando oltre il tradizionale orizzonte liberal, con la centralità dei diritti civili e del singolo, pensandosi più in chiave di progressisti, e dunque insistendo molto di più sulla comunità e sui diritti sociali».
C’è chi sostiene che questa Europa a guida conservatrice possa rappresentare un ostacolo per la rielezione alla Casa Bianca di Obama.
«Ostacolo forse è troppo, di certo un’Europa ripiegata su se stessa, bloccata nella crescita, non rappresenta quel partner necessario per governare una crisi globale. Un’Europa che va in recessione rappresenta indubbiamente un problema per Obama e un freno nella crescita stessa degli Usa. Non è solo un discorso economico-sociale, ma si proietta anche nella politica estera. La crisi dell’Europa e il dossier Medio Oriente sono i punti caldi nell’agenda internazionale di Obama, punti che saranno tra le priorità del suo secondo mandato presidenziale se, come spero e credo, uscirà vincente dalle elezioni di novembre».
La crescita come chiave di volta per uscire dalla crisi. Vede dei segnali incoraggianti in Europa?
«Una vittoria di Hollande sarebbe un segnale molto importante, una “spinta propulsiva” per il cambiamento, ma penso anche all’opera del governo Monti in Italia, che sta cercando di coniugare il rigore con misure volte alla crescita, e questo sta facendo acquistare all’Italia nuova credibilità sulla scena internazionale, anche nei rapporti in Europa con Paesi chiave come Germania e Francia, come nelle relazioni con gli Usa. Mi pare che in Europa vi siano leader, governi, forze politiche e sociali che cercano di uscire dalla trappola delle politiche di austerità; politiche che impediscono la crescita e anche un riequilibrio strutturale dei
conti. In quest’ottica, trovo di grande importanza l’idea alla base del Meeting di Roma: creare un network, canali permanenti di comunicazione tra leader di tutto il mondo che hanno interesse a scambiarsi esperienze, confrontare programmi, fare squadra».
Torniamo alle elezioni presidenziali americane. Diversi analisti sostengono che la forza di Obama è anche nella debolezza del probabile antagonista repubblicano, Mitt Romney...
«La prima debolezza è nella sua politica fiscale, che penalizza fortemente soprattutto la middle class, a favore dei super-ricchi. Altra debolezza è l’aver perso il sostegno delle donne a causa delle sue idee regressive, ad esempio sull’uso dei contraccettivi. Ma quella di Obama è una forza propria e non vive dei limiti del suo avversario. Sta nei programmi per la crescita, nelle riforme in campi sociali vitali come la sanità, sta nel puntare sul sapere e nel contatto con la gente. Obama è percepito come un “pragmatico permeato di valori”, che guarda alle famiglie e ai loro problemi quotidiani. È su questo tasto dovrà battere per ottenere la rielezione».

La Stampa 22.4.12
A maggio la «Piratenpartei» entrerà in due laender importanti e in vista delle politiche del 2013 rappresenta una minaccia per Spd e Cdu
Ai tedeschi adesso piacciono i pirati
Trionfa l’antipolitica: il “partito arancione” sale al 13% malgrado le gaffe dei suoi leader
di Tonia Mastrobuoni


30% I simpatizzanti, quasi un tedesco su tre ha detto di essere tentato dall’idea di votare il partito dei Pirati
50% I giovani tra i tedeschi che hanno meno di 29 anni, la percentuale di chi sta pensando di votare i Pirati sfiora il 50%
Un candidato ha detto di non sapere nulla di finanza pubblica «Non è indispensabile»

Trionfanti Festa di strada dei «pirati» a Saarbruecken dopo i primi risultati del voto nel Land della Saar lo scorso 25 marzo Il partito, che si presentava per la prima volta, prese il 7,4% dei voti

Voti “rubati” alla sinistra Secondo gli analisti il partito dei Pirati pesca i suoi elettori nel bacino dei socialisti e dei verdi, anche se nelle loro file ci sarebbero simpatizzanti di estrema destra A lato, un piratagiocattolo della Playmobil: l’azienda non vuole che venga associato al partito

Sembra ormai inarrestabile l’ascesa del Partito dei pirati tedesco. Non solo tallona da vicino i Verdi; in prospettiva potrebbe diventare una minaccia anche per le due grandi corazzate del panorama politico tedesco, la Spd e la Cdu, in vista delle politiche del 2013. Dopo aver conquistato negli ultimi sei mesi l’ingresso nei parlamenti regionali di Berlino e del Saarland, superando la soglia di sbarramento del 5%, i sondaggi concordano. A maggio la Piratenpartei entrerà trionfalmente in due Länder importanti, lo Schleswig Holstein e la regione più popolosa della Germania, il Nordreno Westfalia, che garantisce un quinto del Pil.
Il boom del partito arancione è merito di un’ondata di antipolitica che anche in Germania sta raggiungendo livelli di allarme. Nei sondaggi più recenti – Emnid e Forsa - ha conquistato a livello federale un ragguardevole 12-13%. Soprattutto, quasi un tedesco su tre (30%) ha detto di essere tentato dall’idea di votarli. E tra i giovani tra i 14 e i 29 anni la quota di chi flirta con l’idea di mettere la crocetta sul simbolo con il teschio sfiora il 50%. Le risposte dell’indagine mettono in evidenza la natura assolutamente protestataria dell’ondata di popolarità che sta favorendo un movimento che alle ultime elezioni politiche nel 2009 aveva preso appena il 2% e che è esploso da un migliaio di iscritti del maggio del 2009 a circa 23mila attuali. L’81% dei tedeschi interpellati da Emnid ritiene che il loro successo si spieghi con il fatto che «sono così diversi dagli altri partiti».
Secondo gli analisti il partito pescherebbe soprattutto nel bacino elettorale dei socialisti e dei verdi. Eppure i «Pirati» sono assurti alle cronache negli ultimi tempi per una serie di gaffe che accreditano la presenza di qualche simpatizzante di estrema destra nelle loro fila. UncandidatodiHannover, Carsten Schulz, è stato cacciato perché ha promosso la libertà di opinione per i negazionisti dell’Olocausto e la diffusione di «Mein Kampf». E un rappresentante del partito nel BadenWuerttenberg, Kevin Barth, ha sollevato a febbraio una bufera con un twitter in cui definiva gli ebrei «di per sé antipatici perché fanno una guerra insensata» e la politica israeliana «di cacca». Il problema di un partito così giovane, fondato nell’autunno del 2006 e che per un po’ ha vivacchiato sotto la soglia di attenzione dell’opinione pubblica, è evidentemente lo spontaneismo e la tendenza a mostrarsi orgogliosamente ignorante ed estraneo alla «solita» politica. Di recente in Schleswig Holstein, dove si vota il 6 maggio, è emerso che il partito ha integralmente copia-incollato il programma elettorale da altri Laender. Commettendo errori grossolani come quello di chiedere l’uscita dal nucleare che lì è già avvenuta dopo Fukushima. Il capo regionale del partito, Hans-Heinrich Piepgas, ha liquidato la gaffe con un’alzata di spalle, invocando il diritto a copiare programmi che funzionano. Con altrettanta noncuranza il candidato della Piratenpartei in Nordreno-Westfalia, Joachim Paul, ha detto in questi giorni di «non essere un politico» e ha ammesso di non saperenulladicontipubbliciedi non ritenerlo indispensabile. Insomma, al di là della manciata di obiettivi sbandierati nel programma – su diritti d’autore, trasparenza su internet, diritti civili o antinuclearismo – i suoi membri continuano a sbandierare la propria ignoranza come una risorsa. Ma visti i risultati recenti, forse è tempo anche per i«Pirati»dimettersiunpo’suilibri. Almeno, su quelli contabili.

l’Unità 22.4.12
Ora c’è il sospetto della complicità nell’omicidio di Neil Heywood p Parla il politologo Wo Lap Lam: «È in atto una campagna per screditarlo»
Cina, segreti & bugie sul caso Bo Xilai
E sullo sfondo gli scontri ai vertici
di Emidio Russo


Delitti e non solo: rivelazioni scandalose a getto continuo sull’avversario del premier Wen Jiabao, il «populista» Bo Xilao. E se fosse un modo per «coprire» il regolamento dei conti ai vertici del grande dragone cinese?

Continuano le rivelazioni scandalose su Bo Xilai, l'ex segretario di partito di Chongqing, sua moglie Gu Kailai, un avvocato con molti interessi nel business ora in carcere con l'accusa di aver ucciso il britannico Neil Heywood, e il superpoliziotto Wang Lijun, ex braccio destro di Bo, ora agli arresti dopo aver tentato di rifugiarsi al Consolato americano di Chengdu. Da quando Bo è caduto in disgrazia, infatti, pochi riferimenti sono stati fatti alle sue politiche pertanto eccentriche, fra campagne neomaoiste e lotta alla criminalità senza quartiere concentrandosi interamente sul discreditare la sua persona. «Ora c'è la possibile complicità nel delitto Heywood. Il modo più semplice per incolpare Bo e Gu, e discreditarli, è quello di continuare a dire che sono stati coinvolti in
crimini efferati. Chi sta centellinando le notizie da dare al pubblico non si metterà certo a dire che si tratta di una guerra intestina al Partito: è molto più facile ottenere il sostegno del pubblico dicendo che si tratta di crimini comuni», dice Willy Wo Lap Lam, professore di Scienze Politiche all'Università Cinese di Hong Kong: «Vogliono a tutti i costi evitare che si parli delle lotte interne».
SCAVARE NEL TORBIDO
E la stampa, in particolare straniera, che in questo periodo è autorizzata più che mai a scavare nel torbido su un membro del Politburo cinese, solitamente intoccabile, secondo l'analista sarebbe in parte strumento inconsapevole di questo regolamento di conti interno: «Penso proprio che la stampa, a cui vengono rilasciate informazioni esclusive in modo molto selettivo, sia un po’ vittima di una strategia che non controlla. Le storie succose su una possibile tresca fra Gu Kailai e Neil Heywood, o l'improvvisa rivelazione sulle aziende detenute da Gu e dalle sue sorelle, come se fossero appena nati, e non gruppi aziendali stabiliti da molto tempo. Non solo: in tutto ciò, si tace che tutte le mogli e i mariti dei membri del Politburo, tutti i figli, fratelli e sorelle fanno lo stesso. Incluso i parenti di Wen Jiabao (il premier cinese, avversario politico di Bo Xilai). Ma quello che si vuol far passare sulla stampa è che questa è una famiglia particolarmente feroce, fuori dal comune per corruzione ed efferatezza», dice Lam. Non solo: «In questa frenesia, nessuno accenna nemmeno a tutte le significative conquiste di quello che fino a ieri veniva chiamato 'il modello Chongqing', una parola già espugnata dal vocabolario politico cinese».
Invece, proprio da qui era partita l' idea di costruire case popolari, malgrado indignazione dei gruppi immobiliari, che ha fatto scuola, e quella di dare la residenza cittadina anche ai residenti delle campagne circostanti. Chi sarebbe dietro una tale campagna di annientamento di Bo e Gu? Secondo Willy Lam, si potrebbe trattare di Hu Jintao stesso, il segretario generale del Partito e Presidente cinese: «tutte le dicerie sono state lasciate circolare liberamente su Internet, per recare un chiaro avvertimento contro quella che viene descritta come la fazione dei 'principi’, a cui appartiene anche il prossimo Presidente cinese, Xi Jinping. Hu Jintao e Xi non vanno d'accordo, ma se Hu non può bloccare Xi, può dargli però fastidio, e Hu potrebbe dunque aver lanciato la campagna di Fedeltà, a cui deve aderire l'esercito, e questa frenesia propagandistica che strilla che si sarà impietosi con chi è malvagio. Nessuno ci crede, naturalmente, la corruzione è molto più estesa di così», conclude Lam, «e uno scandalo di queste proporzioni potrebbe danneggiare la legittimità dell'intero Partito. Hu però sembra non crucciarsene: è disposto a pagare questo prezzo per sbarazzarsi dei suoi nemici».

Corriere La Lettura 22.4.12
La nuova resistenza all'invasione cinese
Dall'Africa nera al Sudest asiatico, l'altolà alla colonizzazione economica
di Federico Fubini


Forse perché in Italia si è sviluppata negli anni una pedagogia che insegna a temere la Cina, sono passati inosservati certi episodi che vedono protagonista chi della nuova superpotenza non ha alcuna paura. Anzi c'è qualcuno che della sua avversione a Pechino, sulla base di un freddo calcolo politico, ha fatto una piattaforma elettorale. Così per esempio si esprimeva non troppo tempo fa Michael Sata a Lusaka, Zambia: «Vogliamo che i cinesi se ne vadano e che i vecchi dominatori coloniali tornino. Anch'essi sfruttavano le nostre risorse, ma almeno si occupavano di noi. Costruivano scuole, ci insegnavano la loro lingua, ci portavano la civiltà britannica... Se non altro il capitalismo occidentale ha un volto umano. I cinesi sono qui solo per sfruttarci». Una propaganda del genere ha fatto presa. È con una campagna elettorale tutta imperniata su questi temi che Sata, sei mesi fa, è stato eletto presidente dello Zambia.
Non è facile dirsi anticinesi nel cuore in un'economia da appena 16 miliardi di dollari, nella quale Pechino di recente ne ha investiti due. Non è facile farlo da quando lo Zambia, 12 milioni di abitanti fra il Congo e lo Zimbabwe, ha trovato in Pechino l'unico vero committente del rame dal quale dipende per sopravvivere. Ma Sata, populista stagionato, ha fiutato che lì si nascondeva una miniera di voti e ha l'ha centrata, salvo poi ovviamente ricevere l'ambasciatore cinese come primo fra i dignitari esteri dopo l'elezione e proseguire la cooperazione (quasi) come prima; senza di essa, lo Zambia crollerebbe su se stesso. Ma il messaggio arrivato dal fianco sud del continente africano resta, ed ha un valore più vasto di quanto la (relativa) irrilevanza del Paese lasci sospettare. Anche ciò che accade a Lusaka può segnalare una tendenza globale. E questa volta lo ha fatto con perfetta scelta di tempo, perché la corrente di risentimento e successive ritirate strategiche di Pechino in questi mesi è stata innegabile. E senza precedenti.
Certamente non è il segno di un declino precoce, e forse è del tutto normale. Magari dipende solo dal fatto che la Cina ha ormai compiuto la transizione da Paese emergente a potenza emersa, dunque soggetta all'attrito e alla diffidenza altrui ovunque provi ad asserire il proprio ruolo. Probabilmente però iniziano a emergere i primi sintomi di un problema più vasto: il modello cinese di espansione all'estero, perseguito in cerca di materie prime attraverso le banche e le grandi imprese a diretto controllo statale, ogni volta con decine di migliaia di lavoratori al seguito, sembra sul punto di toccare i suoi limiti. Negli ultimi dieci anni quella spinta verso il petrolio, il gas, il rame, la bauxite, il ferro, il cadmio o la giada ha portato milioni di cinesi nell'intero continente africano, da Algeri a Città del Capo, e in buona parte dell'Asia (ad eccezione di India, Corea del Sud e Giappone). Ma neanche il modo in cui la Cina oggi proietta il proprio potere nel mondo può funzionare all'infinito. E i fatti recenti dicono che l'intero ingranaggio corre il rischio di incepparsi.
In Birmania, sempre a settembre scorso, proprio mentre Sata vinceva le elezioni in Zambia, la giunta militare ha preso una decisione passata inosservata in Occidente. Ha bloccato una diga. I generali che per anni hanno tenuto Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari, improvvisamente hanno fermato il progetto di un grande impianto idroelettrico a Myitsone sull'Irrawaddy, il fiume che rappresenta il vero monumento naturale della nazione. La diga era stata concordata con China Power e China Southern Power Grid; il governo di Pechino avrebbe coperto il costo dell'investimento per 3,6 miliardi di dollari e a partire dal 2015, con il 90% della sua produzione di energia, avrebbe alimentato lo Yunnan, la provincia cinese che confina a sud con la Birmania.
Ma se la giunta militare ha fermato tutto, non è solo perché le popolazioni dell'area erano in rivolta per le distruzioni di villaggi o i danni ambientali. Anche i generali birmani hanno iniziato a temere l'amicizia della Cina. Da anni sotto sanzioni sempre più dure da parte dell'Occidente, la giunta si è accorta che presto sarebbe divenuta del tutto dipendente da Pechino. E il vicino del nord-est rischia di dimostrarsi un partner molto esigente: per l'estrazione dell'oro, del petrolio e delle molte risorse minerarie birmane, i cinesi spediscono direttamente lavoratori dalla madrepatria. La giunta ottiene prestiti e manodopera qualificata per le infrastrutture. Ma l'impatto economico per le popolazioni locali è minimo e il governo si trova a essere dipendente dalla volontà dei cinesi per il proprio bilancio, proprio come in Africa. Di fronte a questa prospettiva, la Birmania ha accelerato il disgelo politico per riallacciare i rapporti con l'Occidente. Il ritorno di Aung San Suu Kyi in libertà e nel Parlamento si spiega in buona parte proprio con il timore che una Birmania isolata finisse preda dei cinesi.
Altrove invece le imprese e il governo dell'Impero di mezzo sembrano aver sbagliato i loro calcoli geopolitici. Dopo aver preso di fatto il controllo del regime sudanese di Omar al-Bashir sotto sanzioni, offrendo infrastrutture costruite da cinesi in cambio di petrolio, è successo qualcosa di prevedibile: il Sudan si è diviso in due e dopo il divorzio, che ha dato luogo a una guerra, gran parte dei giacimenti si trova ora nel Sudan del Sud. Ma il nuovo governo di Juba si sta rifiutando di spedire il greggio lungo gli oleodotti cinesi, quindi Pechino per ora ha perso mezzo milione di barili al giorno dopo uno sforzo logistico enorme.
Più a Nord, nel Maghreb, l'inverno scorso la Cina ha perso un Paese in poche settimane. Tre navi della sua marina militare sono state spedite in Libia e hanno prelevato 35 mila cinesi che non sarebbero più tornati: operatori del gas e del greggio, specialisti di trivellazioni e condutture, ingegneri e costruttori edili. Al loro posto sono tornati i francesi, i britannici e gli italiani.
Poco dopo, in Asia, altre sconfitte. Sulle isole Spratley, disputate con il Vietnam, la Cina è rimasta sola fra i Paesi affacciati sul Pacifico a sostenere che si tratti di una lite bilaterale; secondo tutti gli altri è «multilaterale», modo felpato per far capire che Pechino non può decidere sulla base della propria forza. Non solo: il Vietnam ha aperto i porti alle fregate americane e Washington ha lanciato un'area di libero scambio, il «Partenariato trans-pacifico», che include otto Paesi dell'area, ma non il più grande e più temuto.
Difficile che tanti passi indietro della Cina in pochi mesi siano solo frutto del caso. «Gli emissari di Pechino — spiega Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia — si muovono all'estero con pragmatismo e buona fede, cercano solo di accedere alle risorse e far valere il loro potere. Ma il loro modello di migrazioni di massa crea tensioni etniche, la loro cultura non è apprezzata e il loro governo è isolato sul piano internazionale».
Persino il Partito comunista, a Pechino, se n'è accorto: ha bisogno di più soft power, più capacità di farsi amare dagli altri. A gennaio a Nairobi ha lanciato Cctv Africa, un investimento da oltre 100 milioni per un'emittente che porti la voce della potenza asiatica in tutto il continente nero. E nell'ultimo anno ha preso a organizzare «viaggi-studio» a Pechino e Shanghai per le élite professionali africane, purché filogovernative. La sera, pare, in albergo guardavano tutti telefilm americani.

Corriere La Lettura 22.4.12
Il mio romanzo contro Mao che resta chiuso nel cassetto
Acheng racconta il libro censurato dal regime «La Rivoluzione culturale è ancora un tabù»
di Marco Del Corona


PECHINO — Le storie di Acheng si sono arenate qui, in una casa piena di oggetti, che gira con le sue stanze bianche intorno a un cortiletto a sua volta pieno di oggetti. Gli oggetti assediano Acheng, non le parole. «Desidero cose che nessuno vuole. Guardi questo. È un contenitore per cereali, dinastia Han. Questo che c'è dentro», apre il barattolo, prende con un cucchiaino un po' di semi, li mette sul tavolo, «questi cereali hanno duemila anni. Sono importanti. E guardi questa civetta, stesso periodo. Una bella combinazione: la civetta mangia i topi che mangiano i cereali…». Sono gli oggetti che oggi raccontano storie ad Acheng, lui ha quasi smesso. Il re degli scacchi, che uscì in Cina «per puro caso» nel 1984, Il re degli alberi, Il re dei bambini lo resero famoso, «avevano fatto di me uno scrittore, io che nascevo artista, e non mi abituai. Da uno che scrive libri ci si aspetta sempre nuove storie…».
Acheng oggi fa lo sceneggiatore, ma non va al cinema da dieci anni. Ha un romanzo pronto, ma che non esce. «È lì da vent'anni, la censura non mi permette di pubblicarlo», dice al «Corriere». Un libro fantasma che si muove nella molto affollata solitudine di Acheng, dove anche il cognome viene taciuto: «È Zhong. Ma non lo uso perché non voglio mercificare il nome dei miei antenati». Altri autori cinesi aggirano la censura della Repubblica Popolare pubblicando a Taiwan. «Due anni fa ci ho provato, alla fine ho rinunciato per evitare guai».
La sua trilogia dei re, che in Italia è stata tradotta da Maria Rita Masci, non ebbe gli stessi problemi. «Durante la Rivoluzione culturale la gente non aveva niente da leggere, quindi scrivevamo cose che ci dicevamo l'un l'altro. Io buttavo giù diari e storie: i miei libri sono nati così. In Francia e in Italia sono piaciuti più che nei Paesi anglosassoni. Mi hanno detto che il fotografo Henri Cartier-Bresson prima di morire avesse Il re degli scacchi accanto al letto».
E il romanzo fantasma?
«Racconta la Rivoluzione culturale. Non è come Il re degli scacchi: si tratta di qualcosa di più aggressivo. In letteratura non è permesso toccare per davvero la Rivoluzione culturale (1966-76, ndr). Se proprio volessi pubblicarlo dovrei mutilarlo. E comunque, dopo quanto successo a Bo Xilai (l'ex leader di Chongqing, nostalgico della Rivoluzione culturale, sospeso dal Politburo, ndr), potrebbe essere particolarmente complicato».
Non veder pubblicato il suo romanzo la addolora?
«Mi lascia indifferente».
È un testo autobiografico?
«Nessuno dei miei libri lo è. Mostrano la vita degli altri come io l'ho vista».
Che cosa rende impossibile la pubblicazione?
«Scrivo di Mao Zedong. E poi racconto i giovani di allora, le guardie rosse. A scuola, alle elementari, io sono stato compagno proprio di Bo Xilai. Stesso anno: lui prima sezione, io quarta. Nel libro descrivo che cosa facevano quelli come lui. Se il libro fosse uscito a Taiwan, qui sarebbero venuti a saperlo subito. L'anno scorso l'economista Mao Yushi, per una prefazione a un volume su Mao Zedong, è stato attaccato fisicamente».
A lei non è mai capitato?
«No, mai attacchi o minacce. I miei libri del passato erano piuttosto trattenuti. Ma con questo non potrei escludere che mi succeda qualcosa di simile».
Vede altri scrittori?
«Frequento di più gli artisti».
Continua a scrivere, nonostante il romanzo bloccato da vent'anni nel cassetto?
«Da vent'anni uso il computer. Il vantaggio è che posso scrivere qualcosa, salvarlo, archiviarlo, metterlo da parte senza completarlo. Ho fatto tante cose e tante ne ho dimenticate».
A questo punto il dubbio è legittimo: ma scrive per sé o per gli altri?
«Scrivo quando ho voglia».
Lei è nato nell'aprile del 1949: ha quasi la stessa età della Repubblica Popolare. Qual è il momento più felice che ha vissuto?
«Non ho avuto alcun momento felice. La nostra generazione è malata, divorata dall'ansia. Da quando nasci c'è sempre qualcuno, genitori o famiglia, che è coinvolto in qualche vicenda più grande. Qualcuno nei guai… Basta vedere la storia di Bo Xilai. Non c'è differenza tra ora e la Rivoluzione culturale».
Che ricordi ha di Bo Xilai?
«Ai compagni non piaceva molto. Era considerato un furbone. Si è perso nella sua ambizione, fin dai tempi della Rivoluzione culturale. Anche le guardie rosse sono state una manifestazione dell'ambizione dei figli di funzionari e dirigenti di partito (Bo Xilai è figlio di Bo Yibo, già eroe rivoluzionario, ministro e vicepremier, poi perseguitato durante la Rivoluzione culturale, ndr). Pensavano che se i padri avevano conquistato la nuova Cina, allora il Paese apparteneva loro».
Lei fa lo sceneggiatore. Mai stato tentato dalla regia?
«Ogni tanto mi chiedono di fare il regista. No, non ne sono capace. Non so gestire i rapporti fra le persone. Né sono orgoglioso di nessun film che ho scritto io. Di recente il regista franco-vietnamita Anh Hung Tran (autore di Il profumo della papaya verde e Cyclo, ndr) mi ha chiesto di preparare una sceneggiatura per lui. Ha già il mio testo. Per adesso non mi ha risposto».
Il legame con il cinema da dove deriva?
«I miei genitori lavoravano nel cinema».
Quando prima accennava a vicende drammatiche di famiglia parlava della sua…
«Mio padre nel 1957 fu accusato di essere un elemento di destra. Avevo 8 anni. La famiglia dovette affrontare profondi cambiamenti. Lui fu spedito in un "laogai", un campo di lavoro».
Quasi come il poeta Ai Qing, padre dell'artista dissidente Ai Weiwei…
«Infatti. E io sono un ottimo amico di Ai Weiwei».
Che nel 2011 ha trascorso 81 giorni di detenzione segreta. Lei è più prudente?
«Sono diverso. Lui crede nel suo attivismo. Io ho ancora tante cose da fare: non devo lasciarmi influenzare da ciò che non è arte».
Pensa che riuscirà, un giorno, a pubblicare il suo romanzo fantasma?
«Credo presto. Wen Jiabao ha detto chiaro e tondo che bisogna fare piazza pulita delle scorie della Rivoluzione culturale».
In autunno il congresso del Partito comunista cambierà la leadership. Continuerà la linea indicata da Wen?
«Non lo so. Non siamo un Paese trasparente».

Corriere La Lettura 22.4.12
Spoon River sulla Moscova I volti delle vittime di Stalin
di Antonio Carioti


sul cartaceo: le foto dei condannati a morte gettati nelle fosse comuni di Butovo durante la fase più feroce del terrore sovietico tra il 1937 e il 1938

C'erano anche 26 italiani fra le oltre 20 mila persone trucidate dalla polizia segreta sovietica e sepolte nelle fosse comuni di Butovo, nei pressi di Mosca, durante il periodo più intenso del terrore staliniano, tra l'estate 1937 e l'autunno 1938. Purtroppo nel loro caso non si sono recuperate fotografie, quindi non possiamo osservare qualcuno dei loro volti nella splendida antologia fotografica, curata da Marta Dell'Asta e Lucetta Scaraffia, che l'editore Lindau manda in libreria il prossimo 26 aprile con il titolo La vita in uno sguardo.
Il volume offre un'impressionante galleria di ritratti. Alcuni manifestano ansia, altri un'infinita stanchezza, spesso velata di rassegnazione. Ma vi sono occhi nei quali si legge un indomito orgoglio, che in taluni diventa un'espressione di sfida. E in tutti c'è la dignità di chi è chiamato a una prova suprema. Non sapevano che sarebbero stati uccisi poche ore dopo, perché solo al momento dell'esecuzione avrebbero ascoltato la sentenza di morte letta dai loro carnefici, ma certo non potevano farsi troppe illusioni.
Ossessionato dall'idea della guerra e deciso a spazzare via le categorie di abitanti dell'Urss ritenute infide, Stalin aveva ordinato una sorta di gigantesca operazione chirurgica nella carne viva del popolo e dello stesso Partito comunista. Ne conseguì in 16 mesi quello che lo storico Nicolas Werth ha definito «il più grande massacro di Stato mai compiuto in Europa in tempo di pace», con un bilancio di circa 750 mila esecuzioni.
Di quel crimine e dei molti altri compiuti dal potere sovietico, nota Lucetta Scaraffia, sono rimaste scarsissime testimonianze visive, il che «ha contribuito a rendere la loro realtà meno presente nella memoria collettiva, e quindi a indebolirne la portata storica». Le immagini recuperate dall'associazione Memorial e raccolte nel libro (contenente anche contributi di Lidija Golovkova e Oddone Camerana) sono particolarmente preziose, poiché aiutano a tenere deste le coscienze e ad allontanare la prospettiva dell'oblio, molto in voga purtroppo nella Russia di oggi. «La forza della memoria — scrive Marta Dell'Asta — va di pari passo con la sua debolezza, perché è totalmente affidata alla libertà». Quindi è vitale sottrarre alla dispersione ogni frammento che riemerge, magari per caso, dall'immensa discarica della storia.

Corriere La Lettura 22.4.12
Sono io l'unica donna di Picasso
Françoise Gilot: non voleva intorno modelle passive Olga e Dora sono impazzite, ma non per colpa sua
di Maria Teresa Cometto


«Ciao, hai vinto e a me piacciono i vincenti». Sono le ultime parole dette da Pablo Picasso a Françoise Gilot, pittrice e sua compagna dal 1943 al 1953.
Gilot lo racconta in un'intervista alla «Lettura» nella sua casa-studio newyorchese dove tuttora, a 91 anni, dipinge a tempo pieno. «La mia mente è sempre al lavoro, anche mentre dormo: se sei un artista, devi esserlo 24 ore al giorno», spiega mostrando il suo ultimo quadro, un'opera astratta in giallo.
«Picasso mi chiamò al telefono dopo che vinsi anche l'ultima delle tre cause con cui lui aveva cercato di bloccare la pubblicazione nel '64 del mio libro Vita con Picasso — continua Gilot —. Certo non era contento, ma ammirava i vincenti come lui». Nel libro, un bestseller da oltre un milione di copie, c'è tutta la loro storia dal primo incontro in un ristorante a Parigi nel '43, quando lei aveva solo 21 anni e lui 61, fino a quando dieci anni dopo lei lo lasciò, l'unica donna tanto indipendente e forte da osare un simile gesto. In mezzo, il comune amore per l'arte e la filosofia, due figli — Claude nel '47 e Paloma nel '49 —, i giorni felici in Costa Azzurra immortalati dalla celebre foto di Robert Capa dove Gilot cammina radiosa sulla spiaggia mentre Picasso, un passo indietro come un fedele servitore, regge l'ombrellone per proteggerla dal sole. Ma anche i tanti giorni neri in cui Picasso dava il peggio di sé, come uno dei minotauri-mostri delle incisioni che aveva mostrato a Gilot la prima volta che lei aveva visitato da sola il suo studio.
Gilot ne parla senza rancore, con il distacco e la serenità di una donna che alla sua età è ancora bella, in perfetta forma e lucidissima, sopravvissuta non solo a Picasso (scomparso nel '73 a 91 anni), ma anche a due mariti, il pittore Luc Simon (da cui divorziò nel '62) e l'inventore del vaccino antipolio Jonas Salk (con cui rimase sposata felicemente per 25 anni fino alla sua morte nel '95).
Riluttante a concedere interviste, Gilot stavolta ha accettato perché il 2 maggio alla Gagosian Gallery sulla Madison avenue apre la mostra Picasso and Françoise Gilot: Paris-Vallauris 1943-1953, la prima in cui sono esposte insieme le opere della coppia. «Ci sono alcuni quadri della mia prima mostra del 1943 a Parigi, quelli visti da Picasso che poi mi mandò una lettera invitandomi a visitare il suo studio — racconta Gilot —. C'è il mio Autoritratto come una Civetta con Pablo, del '48. La civetta nella mitologia greca era il simbolo della saggezza: nel quadro è appollaiata sulla spalla di Picasso. Il buffo è che avevamo davvero una civetta nello studio a Parigi: ce l'aveva data nel '46 un suo aiutante, che l'aveva trovata con una zampa rotta. Picasso e io l'abbiamo adottata ed era molto utile: in casa avevamo parecchi topi e lei ne mangiava uno al giorno. Lui amava molto gli animali, abbiamo avuto anche piccioni, cani, capre: sulla civetta scherzavamo, dicendo che sembrava sempre di cattivo umore».
Fra i quadri di Picasso ispirati a Gilot, sono esposte quattro versioni di La Femme-Fleur. «È uno dei primi ritratti che mi fece, ovviamente astratto — ricorda Gilot —. Sia lui sia io non abbiamo mai dipinto copiando la natura. È molto più interessante usare la memoria visiva: puoi selezionare qualsiasi aspetto di quello che hai osservato, di solito ricordi quello che ti piace, e poi ricomporlo come vuoi, in un modo completamente diverso. Questo stile ti dà un maggior grado di libertà».
Quando la ventunenne Gilot incontrò Picasso, sapeva di avere davanti un monumento vivente, ma non era per niente intimidita. «Perché mai avrei dovuto esserlo? — chiede sbuffando — Come figlia unica sono cresciuta in mezzo a persone molto più vecchie di me. Inoltre ero anch'io un'artista, una tra i giovani emergenti più riconosciuti sulla scena di Parigi di quegli anni. Allora gli artisti non avevano un buon rapporto con il pubblico e stavano vicini l'un l'altro. C'era la cosiddetta Repubblica delle Arti e della Letteratura e se tu ne facevi parte, anche se poco noto, eri trattato allo stesso modo di un Picasso». Ad affascinarla erano stati soprattutto l'intelligenza e il coraggio di Picasso. «Era molto brillante, aveva sempre idee interessanti e gli piaceva essere circondato da persone intelligenti, era costantemente in dialogo con poeti e scrittori oltre che con altri pittori, come Braque e Matisse — ricorda Gilot —. La mia generazione lo ammirava anche per la sua decisione di restare nella Parigi occupata dai nazisti: non aveva più il passaporto spagnolo, a causa di Franco, ma avrebbe potuto andare negli Stati Uniti, come fecero molti altri. Invece rimase lì, a rischio della sua vita, un gesto molto coraggioso».
Anche fra Picasso e Gilot il dialogo era continuo, ma attento a non urtare le sensibilità reciproche. «Non parlavamo mai direttamente del nostro lavoro — precisa la pittrice —. Non puoi criticare quello che sta facendo l'altro, disturberebbe il processo creativo e sarebbe sgradevole, negativo. Invece discutevamo di arte in generale, comunicavamo facendo riferimento a pittori del passato».
Diventare madre non ha reso più difficile essere artista. «Al contrario — sottolinea Gilot —, mi ha reso adulta. Prima avevo vissuto o sotto la tutela della mia famiglia o dedicata a Picasso. Poi la responsabilità verso i figli, volerli crescere normali, mi hanno fatto cambiare valori. A 31 anni avevo bisogno di indipendenza e di poter volare con le mie ali. Ho lasciato Picasso non perché non lo amavo più. Era la routine quotidiana a non essere più vivibile». Per qualche anno Gilot con i figli ha continuato a vedere Picasso. «Io sarei andata avanti così, ma lui non poteva sopportare l'idea che io avessi preso la mia libertà, era furioso — ricorda la pittrice —. La situazione è peggiorata dopo il suo matrimonio con Jacqueline nel '61 e poi il mio libro nel '64 è stata solo una scusa per smettere di vedere me e i nostri figli».
Non è tenera Gilot con le altre compagne di Picasso e con le donne in genere. «Chi mi ha attaccato di più, distruggendo la mia immagine dopo l'uscita di quel libro, è stata la scrittrice Hélène Parmelin, moglie del pittore Édouard Pignon, un amico stretto di Picasso — dice Gilot —: voleva scrivere solo lei di Pablo! In effetti molti dei miei nemici erano donne che stavano attorno a Picasso, perché io ero l'unica che non poteva essere rimpiazzata». L'unica che non è stata abbandonata da Picasso. E che oggi, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, lo difende.
«Picasso non ha mai impedito alle sue compagne di esprimersi — spiega Gilot —. Ma molte di loro erano solo muse, modelle, donne passive e non esseri umani che partecipano in una relazione. Picasso era più moderno di loro e si aspettava che una donna fosse anche creativa: la sua mente era sempre al lavoro e se non riuscivi a seguire il ritmo, non era abbastanza per lui. Se hai solo la bellezza, quando sfiorisce finisce anche la relazione». Il fatto che la prima moglie Olga Khokhlova, che lo sposò nel 1918 e che ruppe con lui nel 1935 senza però concedergli mai il divorzio, e Dora Maar, che lo conobbe nel 1936 e che sarebbe stata la sua amante per nove anni, «siano finite pazze dopo essere state lasciate da Picasso», e che Marie-Thérèse Walter, amante dal 1927 al 1935, e Jacqueline Roque, sposata nel 1961 e uccisasi con un colpo di pistola 12 anni dopo l'artista, «si siano suicidate dopo la sua morte, prova che quelle donne — conclude Gilot — erano comunque incapaci di esprimere qualcosa da sole: senza di lui non potevano vivere. Questo non è colpa di Picasso».

Corriere La Lettura 22.4.12
La cripta di Adamo ed Eva
A Matera la Bibbia degli analfabeti: guardando imparavano le «Scritture»
di Carlo Vulpio


Nel buio di una delle grotte che, come finestrelle, dalla parete di roccia carsica si affacciano sulla gravina — letteralmente: piccola grave, in realtà fenditura a strapiombo che non ha nulla da invidiare ai canyon americani —, nel buio di una di queste grotte, illuminata dal basso grazie a una sapiente disposizione di luci «calde», si può vedere come l'uomo, e la donna, persero il paradiso.
La gravina che va da Matera fino a Ginosa, a Castellaneta, a Massafra e sbocca nel mare Jonio è una lunga cicatrice ricca di insediamenti e chiese rupestri che segna longitudinalmente l'altopiano delle Murge. Ma la grotta nascosta in questa parte di gravina ancora lontana dal mare, a pochi chilometri da Matera, avvolta con la delicatezza di un velo dal paesaggio della riserva naturale della diga San Giuliano, è — per quel che contiene — unica in tutto il Mezzogiorno d'Italia e nel Mediterraneo.
In questa grotta, chiamata anche Grotta dei cento santi o, più propriamente, Cripta del peccato originale, si può «vedere» il Paradiso perduto di John Milton, il meraviglioso poema che racconta «Del primo atto di disobbedienza/ che l'uomo ha commesso, e del frutto/ dell'albero proibito, il cui fatale/ sapore ci portò dolore e morte».
Si può «vedere», abbiamo detto, e così è. Il ciclo di affreschi che decora la cripta — scriveva nel 1981 la storica dell'arte Anna Grelle Iusco — è una vera e propria «Bibbia figurata, che invadeva pareti e volte della chiesa rupestre del Peccato originale in una successione di episodi ora narrati per sequenze temporali, ora per emblematiche teofanie».
La cripta è stata aperta al pubblico solo alcuni anni fa — esattamente il 23 settembre 2005 —, dopo il recupero curato dalla fondazione materana Zétema e dall'Istituto centrale del restauro di Roma, con la direzione scientifica dell'ex soprintendente ai Beni artistici della Basilicata, Michele D'Elia, e grazie al finanziamento delle fondazioni Banca Cariplo di Milano, Carisbo di Bologna e addirittura della fondazione di Piacenza e Vigevano, mentre le banche indigene e i presunti mecenati locali brillavano per assenza e indifferenza.
«Bibbia figurata», dunque, o anche «Bibbia dei poveri», cioè dei semplici, degli analfabeti, di coloro i quali non sapendo leggere potevano ricorrere soltanto alle immagini per capire cosa era accaduto nell'Eden e così comprendere fino in fondo quale tremendo castigo fosse stato aver perso il Paradiso. Le tenebre e la luce, Dio e i suoi arcangeli, l'Albero della vita — una palma — e l'Albero della conoscenza — un fico —, il Serpente e Adamo ed Eva. Tutti immersi in un tripudio di fiori rossi — sempre lo stesso fiore, il cisto rosso — che hanno meritato all'anonimo frescante il nome di «Pittore dei fiori di Matera».
La scoperta della grotta avvenne per caso, «in un pomeriggio canicolare del luglio 1962, mentre con gli amici del circolo culturale La Scaletta lavoravamo alla ricognizione del patrimonio storico-artistico di Matera», scrive Raffaello de Ruggieri ne La cripta del peccato originale a Matera (Giuseppe Barile editore). L'allora giovane avvocato de Ruggieri, che oggi è presidente della fondazione Zétema, non ha mai più rivisto né ha conosciuto nemmeno il nome del contadino a cui quel giorno diede un passaggio in macchina, quando lo vide a una decina di chilometri dalla città che arrancava sotto il sole con un radiatore rotto sulle spalle. Fu come un'apparizione. Durante il tragitto, quell'individuo taciturno aprì bocca solo per rivelare al «buon samaritano» che lo aveva preso a bordo l'esistenza di una grotta molto particolare, in cui lui, fin da quando aveva dieci anni, ricoverava le pecore.
Disse, il pastore-contadino, che quando riparava in quella grotta, «le cento figure di santi che stanno sulle pareti» lo facevano sentire tranquillo e che certe volte si addormentava lì, anche di notte, ma si sentiva al sicuro, perché «protetto dalle tre figure con le ali, che hanno gli occhi spalancati e vegliano su di me». Parlava dei tre Arcangeli, ma de Ruggieri e i suoi amici della Scaletta non potevano saperlo. Lo capiranno solo un anno più tardi, quando scopriranno, dopo averla cercata in ogni anfratto della gravina e proprio quando stavano per arrendersi, la Grotta dei «cento santi» di cui aveva raccontato il contadino. L'emozione della scoperta fu così forte che de Ruggieri, sua moglie Teresa e i suoi amici Carlo Scalcione e Maria Sinatra si ritrovarono per terra, abbracciati, come ragazzini felici che avessero vinto una caccia al tesoro. «Ribattezzammo subito quell'antro meraviglioso con il nome di Cripta del peccato originale», ricorda de Ruggieri.
Le scene raffigurate in questa grotta — che divenne, con ogni probabilità nell'VIII secolo, uno dei tanti cenobi di monaci benedettini grazie alla sua naturale posizione protetta, così com'era stato per le comunità che avevano abitato la gravina nelle età del Bronzo e del Ferro — sono scene semplici, ma chiare ed efficaci. Proprio come voleva papa Gregorio Magno già nel VII secolo. Di fronte alla tendenza iconoclastica dell'impero d'Oriente, legittimata dall'editto dell'imperatore Leone III, l'Isaurico, contro il culto delle immagini, in Occidente papa Gregorio Magno incoraggiò la raffigurazione della divinità e degli episodi delle Sacre Scritture.
La pittura fu il principale veicolo della sua politica culturale e religiosa. E attraverso la pittura, quindi le figure, ottenne che tutti potessero capire ciò che era scritto nei sacri testi e avessero la possibilità, scriveva Gregorio Magno al vescovo di Marsiglia, di «imparare mediante l'immagine della pittura che cosa si debba adorare: infatti ciò che è la Scrittura per quanti sanno leggere, questo offre la pittura a quanti non istruiti la guardano». Ecco dunque affermarsi il concetto di Biblia Pauperum, la Bibbia dei poveri, che nella Cripta del peccato originale trova la sua piena realizzazione e anzi la sua esaltazione in un ciclo di affreschi davvero unico, quasi una pellicola cinematografica srotolata e affissa alle pareti della grotta secondo la successione cronologica degli episodi del Libro della Genesi.
Le Tenebre e la Luce sono rappresentate da due figure simili ma opposte: la prima ha il volto inespressivo e le mani in grembo, legate, mentre la seconda è nettamente più femminile, con gli abiti colorati, il viso radioso e le braccia levate al cielo, esultante. Il Cristo benedicente è una figura per nulla ieratica e anzi quasi familiare, vestito di una semplice tunica, mentre Dio si manifesta soltanto attraverso la cheirofania, la sua mano che dall'alto si indirizza, quasi a toccarli, verso Adamo ed Eva. I quali, a differenza degli altri i personaggi, sono raffigurati nudi in tutte le scene che li riguardano, dalla nascita di Eva da una costola di Adamo fino al dialogo di lei con il serpente e al frutto proibito mangiato da entrambi. In tre nicchie, poi, ecco gli affreschi delle tre triarchie: san Pietro con sant'Andrea e san Giovanni, la Madonna con il bambino in mezzo a due donne adoranti, e infine i tre Arcangeli, con san Michele al centro che benedice alla maniera greca, tenendo una palma nella mano sinistra.
La cripta, giova ribadirlo, è stupenda. E gli affreschi sono tutti degni della massima ammirazione. Però, secondo Valentino Pace, docente di Storia dell'Arte medioevale all'Università di Udine ed esperto di arte medioevale nell'Italia meridionale, ce n'è uno che è più bello, o almeno più significativo, di tutti gli altri, ed è la Madonna con Bambino. Che in realtà è una Vergine regina — e infatti è affiancata da due sante inginocchiate —, la cui figura aristocratica e longilinea le conferisce un aspetto imperiale che non ha nulla da invidiare a quello della celebre imperatrice Teodora, che si trova nella basilica di San Vitale a Ravenna. È il «tema della regalità della Vergine» a fare la differenza. Un tema, sostiene Pace, «che nell'Italia meridionale era stato proposto per la prima volta tra l'826 e l'842 nel ciclo pittorico dell'abbazia di San Vincenzo al Volturno» (vicino a Isernia, in Molise). In più, in questa Vergine regina — chiamata anche la Basilissa, alla maniera bizantina — si può notare ancora meglio il conflitto tra i due mondi, anche artistici, in cui si era scisso l'Impero, quello latino occidentale e quello greco orientale. La Basilissa di Matera, per esempio, non ha quella che Ferdinando Bologna definì «la fissità iconica, sempre troppo astratta e capziosa, dell'arte di Bisanzio». E questo anche perché nella parte occidentale i Longobardi della «Langobardia minor», come loro chiamavano l'Italia meridionale, guardavano al modello religioso benedettino — fondato su lavoro e preghiera —, che era ben diverso da quello ascetico ed eremitico dei monaci bizantini.
E poi c'era la politica. I Longobardi fronteggiavano e contendevano ai Bizantini e ai Saraceni l'egemonia sugli stessi territori e Matera da questo punto di vista, come ha ben spiegato Rosalba Demetrio nel suo Matera, forma et imago urbis (edito sempre da Barile), si trovava in una sorta di terra di mezzo, con la contemporanea presenza dell'autorità greca e di quella longobarda, la coesistenza del diritto romano-bizantino e di quello longobardo, oltre al temporaneo assoggettamento — a metà del IX secolo — all'Emirato di Bari, da dove i Saraceni riuscivano spesso a sfruttare a proprio vantaggio i contrasti fra Longobardi e Bizantini. Poi arrivarono i Normanni e anche Matera fu definitivamente «latinizzata». Ma la «contiguità» tra culture che caratterizzò quei secoli non si dissolse e insieme con la Cripta del peccato originale ci ha lasciato altre cento bellissime chiese rupestri. Con i Sassi — dei quali non c'è bisogno di dire nulla, se non che vanno salvati dallo sciagurato progetto di «incorniciarli» tra una ventina di gigantesche pale eoliche —, questa terra di mezzo oggi può ben ambire a diventare, nel 2019, capitale europea della cultura.


Corriere La Lettura 22.4.12
La terza via della bellezza
Non è solo una questione oggettiva o soggettiva Oltre Narciso (che affoga) e Ulisse (che si salva)
di Umberto Curi


La notizia risale ai primi di aprile. Dopo essere stata esclusa in una prima fase dal concorso, Jenna Talackova, la giovane transessuale iscrittasi alle selezioni canadesi di Miss Universo 2012, è stata riammessa, anche a seguito di una petizione sottoscritta da oltre 28 mila sostenitori. L'unica condizione posta è che Jenna fornisca i documenti che ne attestano l'identità di genere. La bellezza oltre i confini del sesso? In un quaderno redatto a Londra nel 1942, poche settimane prima di morire, Simone Weil annotava: «Tutte le volte che si riflette sul bello, si è arrestati da un muro. Tutto ciò che è stato scritto al riguardo è miserabilmente ed evidentemente insufficiente». Pur nella concisione di un'espressione aforistica, ciò che la filosofa intendeva sottolineare può essere proposto nei termini di un paradosso. Da un lato, pochi altri concetti sono altrettanto variabili e soggettivi quanto lo è la bellezza. Ciò che a me appare bello, ad un altro potrà sembrare brutto o indifferente. È ciò che accade quando valutiamo un film o esprimiamo il nostro giudizio ad esempio su un'opera dell'arte contemporanea. Dall'altro lato, vi sono alcune cose — lo sguardo di un bambino, i colori di un tramonto, un'opera d'arte classica, una sonata o una melodia — della cui intrinseca bellezza nessuno si sentirebbe di dubitare. Per alcuni, insomma, la bellezza è legata alla soggettività del gusto individuale. Per altri, invece, bello è ciò che corrisponde ad alcuni parametri che possono essere definiti in termini oggettivi.
Per cercare di uscire da queste antinomie, proviamo a vedere come era concepita la bellezza alle origini della tradizione culturale dell'Occidente. Nella cultura greca arcaica, il termine «kalós» — che abitualmente traduciamo con «bello» — non aveva originariamente un significato «estetico». Ad esempio, la poetessa Saffo parla di «kalé seléne», alludendo non alla «bella luna», come potremmo credere, ma al plenilunio. La luna è «kalé», è «bella», in quanto è piena, cioè è integra, compiuta, non manca di nulla. Bello è, insomma, secondo la cultura e la mentalità greca, ciò che si presenta con le caratteristiche di una forma compiuta.
Scaturisce da questi presupposti una convinzione diffusa in tutta l'antichità greco-latina, e cioè l'idea che la perfezione, e quindi anche la bellezza, coincidano con la finitezza. Se belle devono essere considerate quelle cose che sono integre, a cui non manca nulla, è evidente allora che per essere bella una cosa non dovrà essere in-finita, senza fines, senza con-fini, ma che, al contrario, essa dovrà avere contorni ben definiti. Lo sottolinea anche Aristotele quando ad esempio nella Poetica afferma che, per essere bello, un animale non deve essere né troppo piccolo, perché allora non riusciremmo a distinguerne la fisionomia, né troppo grande, perché in questo caso non potremmo abbracciarlo tutto con lo sguardo. Un'affermazione analoga si ritrova anche nel celebre epitaffio di Pericle, raccontato da Tucidide, dove la principale virtù attribuita agli ateniesi è posta in stretta relazione con la compiutezza: «Noi amiamo il bello — scrive lo storico — ma con un buon compimento» («eutéleia»). Bello è ciò di cui si possa dire che non manca di nulla.
D'altra parte, nella concezione greca di bellezza converge anche un'altra caratteristica fondamentale, vale a dire una particolare nozione di tempo: non il tempo chrono-logico, che misura l'incessante divenire di tutte le cose, ma neppure l'immutabile permanenza del «sempre-essente», chiamato appunto «aión», ma quella singolare dimensione di tempo espressa dal «kairós», il momento propizio, l'occasione buona, l'attimo fuggente. Ne è testimonianza una sentenza che ricorre con irrilevanti variazioni lungo un ampio arco di tempo, secondo la quale «tutto è bello nel momento opportuno». Da ciò risulta allora che definire «bello» qualcosa non implica un giudizio di «gusto», non esprime una preferenza soggettiva, ma si identifica piuttosto con una struttura oggettivamente identificabile.
Ma è proprio a partire da questo modo di intendere il bello, a lungo dominante nella tradizione culturale occidentale, che trae origine un problema di fondo, destinato a rimbalzare fino al cuore del nostro stesso presente. Se la bellezza di una cosa dipende dalle proporzioni, dall'armonia, dalla simmetria, dalla atemporalità, allora si dovrà concludere che essa dipende da qualcosa che resta invisibile, nel senso che a fondamento della bellezza di un oggetto visibile vi è qualcosa che invece sfugge alla vista. Veramente, compiutamente, genuinamente bello non è ciò che appartiene al nostro mondo, ma ciò che rinvia ad una realtà inattingibile. Le cose che giudichiamo belle non testimoniano una presenza, ma una mancanza. Alludono ad un «oltre», verso il quale possiamo soltanto tendere, senza alcuna possibilità di raggiungerlo. Già accennata in Platone, in particolare nel Fedro e nel Simposio, questa tensione è poi esplicitata e condotta alle conseguenze più rigorose da Plotino e dalla successiva tradizione neoplatonica, fino all'Umanesimo italiano, e poi a Goethe e a Schelling. Emerge qui un'alternativa che non riguarda soltanto il piano estetico, ma coinvolge più complessive e pervasive scelte di vita. Come si legge nelle Enneadi, di fronte alla bellezza sensibile dei corpi possiamo scegliere se comportarci come Narciso o come Ulisse. Nel primo caso, ignorando che ciò che vediamo è semplicemente un riflesso, una traccia o un'ombra, perderemo la nostra vita inseguendo una semplice immagine. Nel secondo caso, non ci lasceremo ingannare da ciò che appare, e impegneremo incessantemente ogni nostra energia per ritornare alla «cara patria» — la bellezza in se stessa — che è il fondamento delle molte cose belle.
È possibile procedere oltre questo dualismo? Si può cercare una strada diversa, rispetto a quella seguita da Narciso o da Ulisse? Resta davvero invalicabile il «muro» di cui parla Simone Weil? Secondo una tradizione molto antica, dopo il suo ritorno ad Itaca, Ulisse sarebbe ripartito, avrebbe ricominciato il suo peregrinare, fino a morire in terre lontane. La bellezza non è la patria raggiunta una volta per tutte. Non è la definitiva contemplazione del bello in sé. Questo possesso ci resta precluso — la «cara patria» è un luogo nel quale non è possibile soggiornare. La condizione umana non coincide né con le tenebre della caverna, né con la solare contemplazione della vera bellezza. Ma con un percorso accidentato e discontinuo, nel quale acquisizione e perdita, caduta e salvezza, si intrecciano in maniera inestricabile. Si può concludere citando ancora una volta la Weil: «L'essenza del bello è contraddizione, scandalo e in nessun caso pacifico accordo», come insegna l'ultima vicenda di Miss Universo. Ma si tratta comunque di uno scandalo che «si impone e ci colma di gioia».

Corriere La Lettura 22.4.12
La lezione del 1905
di Sandro Modeo


Diversi economisti, in questi anni, «l'avevano detto», prevedendo lo strangolamento dell'economia reale da parte della finanza. Ma tutti sembrano stingere come lampioni davanti alla luce naturale se si torna a un'opera del 1910 (ma già compiuta nel 1905), Il capitale finanziario di Rudolf Hilferding, ora riproposto con un'intensa introduzione di Emiliano Brancaccio e Luigi Cavallaro (Mimesis, pp. 500, 28). Ministro delle Finanze della Repubblica di Weimar (poi arrestato a Vichy e forse suicida prima della consegna alla Gestapo), Hilferding parte da un marxismo analitico (alieno da qualunque «linea di condotta pratica») per prefigurare ogni dettaglio della finanza come «fenomeno autonomo», dall'umoralità del mercato alla soggezione conformista dei piccoli e grandi speculatori, eccitati dalla (non) logica «del gioco e della scommessa». In questa diagnosi, lo «schermo mistico» che vela i «rapporti capitalistici» giunge così al «massimo dell'impenetrabilità»; ed è un'opacità estesa dall'azione degli speculatori agli economisti che la legittimano, con astrazioni teoriche non dissimili da quelle di certi fisici.

l’Unità 22.4.12
Il codice di Gramsci prigioniero
Opera di Beppe Vacca
La biografia del fondatore del Pci negli anni del carcere, fondata su
documenti finora inediti
di Nerio Naldi


La vita e i pensieri di Antonio Gramsci di Beppe Vacca poggia su un lungo percorso di ricerca e in quanto tale riprende lavori già pubblicati e presenta nuovi sviluppi; in entrambi i casi la trattazione sistematica di quelli che possiamo considerare i temi e i nodi cruciali della biografia personale, intellettuale e politica di Antonio Gramsci nell’ultimo decennio della sua vita, cioè negli anni del carcere, offre un grande contributo alla ricostruzione della sua vicenda e del suo pensiero e alla conservazione e alla trasmissione del suo patrimonio. Il titolo del libro è preciso: la vita e i pensieri (al plurale) di Antonio Gramsci si intrecciano. La parola carcere nel titolo non compare, ed effettivamente possiamo pensare che la grandezza di Gramsci abbia travalicato il carcere, ma è anche vero che egli non trascorse in carcere tutti gli anni fra il 1926 e il 1937: fu prima confinato, poi recluso, quindi detenuto costretto in un letto di ospedale; ma sappiamo che carcere fu.
La lettura è giustamente centrata sulla corrispondenza, perché, al di là di pochi colloqui, soltanto attraverso questa poteva passare la comunicazione, ma in alcuni casi l’analisi usa altre fonti e si estende ai Quaderni (come nell’esame del dissenso di Gramsci rispetto alla svolta del 1928-29 e del significato della sua proposta della Costituente, che, secondo Vacca, che le dedica uno spazio molto più ampio di quanto non avessero fatto precedenti studiosi, rappresenta il punto di confluenza di una serie di elaborazioni cruciali sviluppate nei Quaderni: l’idea che la democrazia e non la rivoluzione fosse il terreno su cui combattere la battaglia per la conquista dell’egemonia). Ma lo studio e la comprensione della vicenda di Gramsci negli anni fra il suo arresto e la sua morte richiedono la considerazione di un numero notevolissimo di piani diversi: il piano del rapporto di amore e di condivisione politica con sua moglie Giulia, le loro condizioni di salute, le sue riflessioni sul movimento comunista e sulle relazioni fra politica nazionale e sviluppo economico mondiale, la preparazione delle istanze relative alla riduzione della pena in seguito alla concessione di amnistie e indulti, l’accesso alla liberazione condizionale, i tentativi di ottenere la libertà attraverso una trattativa fra governo sovietico e governo italiano... fino al destino dei Quaderni dopo la sua morte.
Un merito del libro è nella capacità di renderne l’unitarietà senza cadere nella piattezza espositiva e dando specifico rilievo ai singoli elementi.
Questo avviene essenzialmente individuando una chiave di lettura principale secondo cui la dimensione politica è sempre presente nei pensieri di Gramsci e, di conseguenza, nelle informazioni che trasmetteva ai suoi interlocutori diretti e indiretti. L’insistenza e la coerenza con cui, nel corso degli anni, Gramsci ha riaffermato la propria determinazione a non compiere gesti che potessero apparire come cedimenti al regime fascista è un elemento al tempo stesso cruciale e rivelatore di tale centralità. Ovviamente tali contenuti politici non potevano che essere nascosti e convogliati attraverso codici, perché dovevano raggiungere i destinatari superando la censura carceraria ed eventuali letture da parte di soggetti diversi dai destinatari desiderati. E lo stesso valeva per le lettere dei suoi interlocutori, che erano scritte sotto gli stessi vincoli.
CERCARE I MESSAGGI
Tutto ciò moltiplica le difficoltà di interpretazione e di ricostruzione. E fra queste difficoltà si deve anche considerare il fatto che ognuno dei soggetti coinvolti Antonio Gramsci e Giulia in primo luogo potevano essere condizionati anche emotivamente dalle circostanze restrittive in cui la loro comunicazione era costretta. D’altra parte questa chiave di lettura non può essere generale, perché la comunicazione non affrontava solo temi politici, anche se nel caso di Gramsci ed egli ne è consapevole quasi ogni gesto poteva assumere un significato politico e molte questioni dovevano comunque essere comunicate con la massima cautela. Di qui l’esigenza indicata da Vacca di ricercare i codici dietro cui il vero contenuto delle comunicazioni poteva essere nascosto e di interpretare allusioni, riferimenti e oscurità con questa consapevolezza, ma anche attraverso una valutazione circonstanziata caso per caso.
Dato questo contesto, l’autore riesce ad illuminare una molteplicità di episodi e di frasi che altrimenti potrebbero restare avvolti in una nebbia di incomprensione e stabilisce dei parametri di lettura che si potranno porre alla base di ulteriori ricerche e da cui, anche non condividendoli, non si potrà prescindere. Così, ad esempio, viene interpretato il significato della prima lettera (19 marzo 1927) in cui Gramsci presenta un programma di studio per il periodo che si preparava a vivere in carcere. Secondo Vacca, quel programma, in quel momento, non poteva essere un vero piano di lavoro, e, anche se lo era, poteva essere utilizzato per influenzare l’atteggiamento dei giudici e come prova della disponibilità di Gramsci, se liberato attraverso una trattativa fra il governo sovietico e il governo italiano a non svolgere attività politica. Inoltre, interpretato come un codice, comunicava a Togliatti l’intenzione di continuare a sviluppare in termini più generali, attraverso un’analisi teorica rigorosa e radicale che soltanto ironicamente si poteva dire disinteressata (così vanno intese le espressioni con cui Gramsci descriveva il tipo di studio a cui si proponeva di attendere e in effetti, se consideriamo il testo della poesia di Giovanni Pascoli Per sempre a cui Gramsci sembra fare riferimento, non possiamo pensare che egli volesse svincolare la sua analisi dalla concretezza dei processi storici), le posizioni politiche che era venuto elaborando nel corso del 1926 e su cui con Togliatti si era scontrato e che lo avevano portato ad esporre alla dirigenza sovietica la propria eterodossia. Il fatto poi che su quel piano di lavoro egli chiedesse a Tatiana Schucht di esprimere un parere, viene inteso da Vacca come una ulteriore indicazione di come il messaggio fosse rivolto al suo partito e a Togliatti in particolare, chiedendo alla cognata di assolvere ad un difficile e delicato compito di comunicazione politica.
La possibilità di essere liberato attraverso un intervento del governo sovietico e una trattativa diretta fra stati viene indicata da Vacca come una preoccupazione costante di Gramsci fin dall’inizio della sua detenzione: molte delle sue comunicazioni vengono lette in questa chiave e la famigerata lettera inviatagli da Ruggero Grieco nel febbraio del ’28 viene interpretata come un grave ostacolo frapposto al concretizzarsi del primo tentativo in tal senso. A questa lettura si collega poi la reinterpretazione compiuta, come in altri casi, alla luce di documenti fino a pochi anni fa non conosciuti e di un’acuta rilettura di documenti già noti del ruolo svolto dal giudice istruttore Enrico Macis nell’inchiesta che avrebbe portato al processo davanti al Tribunale speciale. Solitamente Macis era stato rappresentato come capace di carpire la fiducia di Gramsci e di ingannarlo sulle sue vere intenzioni; secondo Vacca, al contrario, l’operare di Macis non ebbe tali caratteristiche, seguì diverse fasi scandite da ordini provenienti dalla segreteria di Mussolini e rappresentò un tramite attraverso cui Mussolini volle mantenere aperto, almeno fino ad una certa fase, uno speciale canale di comunicazione (o piuttosto di interrogazione) con Gramsci, probabilmente perché interessato a valutare la possibilità di scambiarlo per ottenere vantaggi sia in termini di rapporti di forza interni sia in termini di posizione internazionale e di rapporti con l’Unione Sovietica.
LA PEDINA DEL GIOCO
In questo gioco di rapporti fra stati la posizione di Gramsci non poteva essere altro che quella di una pedina, ma ciò non gli impediva di valutare lucidamente la sua situazione e di cercare di sfruttare le opportunità che anche in tale contesto si potevano presentare, pur mantenendo sempre ferma, dall’arresto alla morte, la determinazione a non compiere alcun atto che potesse essere interpretato o contrabbandato come un cedimento al regime e in tal senso si possono leggere le affermazioni esplicite contenute in lettere di Gramsci o nelle comunicazioni dei familiari che furono in contatto con lui: la cognata Tatiana e i fratelli Gennaro e Carlo. A questo proposito si può aggiungere che la disponibilità a non impegnarsi nell’attività politica a fronte della liberazione, se fu davvero espressa, in codice, in una lettera del 1927, in realtà, nel momento in cui gli si aprì la possibilità di chiedere la liberazione condizionale, cioè nel 1934, Gramsci non la confermò anzi, appare molto probabile che, se richiesto di sottoscriverla, l’avrebbe rifiutata. Infatti, la dichiarazione che Gramsci effettivamente sottoscrisse riguardò solo l’impegno a non fare un utilizzo politico del provvedimento di liberazione condizionale che gli veniva concesso.

Il libro. Dal 24 in libreria: le sue vicende personali e politiche
Vita e pensieri di Antonio Gramsci (1926-1937), Giuseppe Vacca pagine XXII 370 euro 33,00 Einaudi
Da martedì in libreria la prima storia della vita e del pensiero di Gramsci prigioniero del fascismo fondata su documenti finora ignorati o del tutto inediti.

l’Unità 22.4.12
Ripensare Dio per trovare senso alla vita
di Roberto Carnero


Èun libro coraggioso e sincero l’ultimo saggio di Ferruccio Parazzoli, Eclisse del Dio Unico (prefazione di Vito Mancuso, il Saggiatore, pagine 160, euro 13,00). L’autore, da mezzo secolo a questa parte punta avanzata dell’intellighenzia cattolica italiana, ora sottopone a radicale critica e revisione le certezze del credo cristiano. Lo fa – afferma – per onestà nei confronti di quello stesso Dio in cui, sin da bambino, gli hanno insegnato a credere, ma soprattutto per onestà verso se stesso e la propria coscienza. Ne esce un libro tra meditazione e autobiografia, con l’efficacissimo racconto di un’esperienza in rianimazione, punto temporale da cui si dipana la riflessione. Il Dio creatore, esterno al mondo, Padre di un Figlio destinato ab aeterno a morire in croce, il Dio di una Chiesa sempre meno convincente, non è più adatto a rispondere alle domande delle donne e degli uomini di oggi. Che cosa rimane allora? Per Parazzoli non certo il nichilismo di gran parte della cultura e della società odierna, che anzi denuncia con preoccupazione. Bisogna rimettersi in gioco per trovare un senso all’esistenza ripensando dalle fondamenta l’identità del divino. E noi stessi in rapporto con questa dimensione.

La Stampa 22.4.12
Jean Valjean da 150 anni in viaggio nelle fogne di Parigi
In Francia si celebra l’anniversario dei Miserabili . Hugo è accusabile di noia, ma sa catturare l’attenzione dei lettori
di Guido Ceronetti


Guardiamoci dall’imitarlo, Victor Hugo. La sua prolissità ineguagliabile vuole ricordi, recensioni, saggi intensi ma brevi. Così ha fatto il numero di febbraio del mensile Lire per il centocinquantenario del romanzo Les Misérables, enorme escrescenza nell’epopea romanzesca inesauribile del secolo XIX. Gli scrittori di allora non amavano, e i loro lettori neppure, che il loro autore amato li piantasse troppo presto in asso.
Uno di quelli che erano, nel lasciare i lettori impazienti di conoscere il seguito, abilissimo, fino al sadismo mentale, fu Fedor Mihailovic Dostoevskij. Ciascuno dei suoi capitoli termina con un’apparizione improvvisa che sembra destinata a cambiare tutto. Forse non è estraneo a questi montaggi stilistici, per la cattura dell’attenzione, proprio Victor Hugo, che in Russia tutti leggevano direttamente in francese. Hugo amava chiudere il capitolo con una sentenza aperitiva. La massima non aveva nulla di definitivo, agiva come chiave del capitolo successivo. Un esempio: «L’amore è una colpa; sia pure. Fantine era l’innocenza galleggiante al di sopra della colpa». Esempio di introduzione, in fine capitolo, ad un incontro decisivo: «La priora, seduta sull’unica sedia del parlatorio, attendeva Fauchelevent». Ma forse è così: in un romanzo il termine di un capitolo né termina né determina niente. Una classica chiusura aperitiva d’apparizione nei Demoni di Dostoevskij: «... qualcuno stava arrivando di corsa. Fece irruzione nel salone: ma non era Nicolaj Vsedolodovitch, era un giovanotto che nessuno di noi conosceva».
Mia madre leggeva soltanto i giornali, e a volte un libro di edificazione. Eppure, bambino, mi parlava di Fantine, Jean Valjean, Cosette, Javert (personaggio esecrato come senza cuore) perché, immagino, aveva pescato emozioni in qualche traduzionaccia illustrata dei Miserabili. Il loro mondo (come quello di un altro romanzone lettissimo anche in Italia, e specialmente a Torino: L’Assommoir) era Parigi XIX, occupante intellettualmente la Torino popolare che gli somigliava. (Prima del fascismo Torino era gemella ideale di Parigi; il regime la forzò ad essere Italia). Si leggeva molto, tra gli alfabetizzati, del peggio di Parigi, e anche del meglio, Hugo e Zola in testa. A Torino c’erano i passages, le gallerie, che tutte evocavano la Parigi di fine secolo, e l’unico modello per la Moda era quello parigino. C’era anche un gemellaggio di assomoir, perché Torino era città bevitrice e cirrotica. Ma alla popolarità del romanzo hugoliano anche le versioni cinematografiche contribuirono non poco. Ce ne furono più che vite di Gesù!
Infatti - da strabiliare: siamo finora a 35 adattamenti (e riduzioni, si spera) di cinema di ogni Paese; 11 serie televisive; sei versioni in cartoni animati; un paio di drammi teatrali. Da oltre trent’anni, fa dei pieni a New York un music-hall che dev’essere dei più miserabili per qualità, incassando perciò dollari a palate. Ignoro se finalmente, oggi, in italiano esista una traduzione decente di questo micidiale capolavoro. Per un giovane volenteroso, un esercizio dei più avventurosi, che val bene una mala paga.
Grandissima potenza della parola sprigionano due momenti in cui l’autore decisamente accusabile di noia è in stato di grazia: il poema della battaglia di Waterloo e la traversata di Parigi attraverso le fogne, di Jean Valjean. Epica pura e rivelazione del soggiacente senso di tutta quell’enorme foresta romanzesca come pellegrinaggio iniziatico in un mistero di salvezza che è proprio di ogni grandezza narrativa che si sia manifestata per trasformare lo svago della lettura in una illuminazione. Ci sono altri momenti, non quelli soltanto, squarci che inducono a pensare, e a non sprecarne l’occasione. Ma nei due che segnalo qui si può essere certi che il terreno non frana.
Sulla traversata delle fogne, con annessa storia degli êgouts, dove oggi si viaggia in battello col segreto timore di non poter rivedere la luce dell’uscita (ma non è questa la metafora delle metafore della stessa esistenza umana?), avevo anni fa elaborato un progetto teatrale di katàbasis cloacale iniziatica che proposi al Piccolo di Milano e che non ebbe esito. No, certo, non sarebbe stata una passeggiata facile, in vista di un successo, da grandi sudori e trepidazioni, incerto... Ma è un debito che riconosco con Victor Hugo. E ho purtroppo dimenticato la fissazione in memoria verace del capitolo di Waterloo intitolato La Catastrofe. L’ultima armata napoleonicasi sbanda e fugge nel si-salvichi-può finale e infila uno dopo l’altro i villaggi dei dintorni, elencati in un crescendo fantastico di topografia emotiva, fino alla frontiera.
Il magistrale capitolo (un po’ meno di tre pagine in tutto) mette in scena il grande Sconfitto del 18 giugno 1815, data del mondo: al cadere della notte, presso Genappe, Napoleone è appiedato, con la briglia del cavallo sotto il braccio, pensoso, sinistro, e sta tornando solo, smarrito, in direzione di Waterloo: «tentava di avanzare ancora, immenso sonnambulo di quel sogno crollato».

La Stampa 22.4.12
Se lo scienziato è un genio della truffa
Due libri analizzano le false scoperte E neppure Einstein ne esce bene
di Piero Bianucci


I neutrini più veloci della luce, notizia boom del 23 settembre 2011, erano un abbaglio. Non è stato un incidente della scienza ma della comunicazione. Un esperimento condotto da seri ricercatori del Cern e del Laboratorio del Gran Sasso suggeriva l’esistenza dei super-neutrini. Parte dell’équipe voleva annunciarlo, parte no; tutti concordavano sulla necessità di verifiche ulteriori e indipendenti. Si opta per l’annuncio. Ma un fisico estraneo all’esperimento, Antonino Zichichi, rompe l’embargo e soffia la notizia al giornale della famiglia Berlusconi. A questo punto i ricercatori CernGran Sasso sono sbattuti sotto i riflettori e le prime pagine escono con titoli del tipo «Einstein bocciato». Passano cinque mesi, i super-neutrini svaporano, Einstein è riabilitato e, in un eccesso di correttezza, il capo dell’équipe, Antonio Ereditato, si dimette. Impressione finale del pubblico: la scienza ha pasticciato. Invece il pasticcio è tutto interno al modo di comunicare, perché l’errore, nella ricerca, è fisiologico, di errori è lastricato il sentiero che porta alla scoperta. Per fortuna il metodo scientifico ha i suoi anticorpi, nuovi esperimenti spazzano via gli errori e si va avanti.
Ciò detto, esistono anche scienziati disonesti. Istruttiva è la casistica riportata in due libri appena usciti: L’universo è fatto di storie, non solo di atomi (Neri Pozza) di Stefano Ossicini, professore di fisica all’Università di Modena, e Il Nobel e l’impostore (Edizioni Dedalo) di David Goodstein, docente di etica scientifica al California Institute of Technology.
Entrambi partono dal caso di Millikan. Premio Nobel per fisica nel 1923, Millikan ha legato il suo nome a un esperimento semplice ed elegante che gli permise di misurare con estrema precisione la carica dell’elettrone, la particella alla base di tutta la nostra tecnologia (tv, cellulari, computer...). L’esperimento consisteva nel lasciar cadere gocce d’olio in un campo elettrico diretto verso l’alto: quando gravità e forza elettrica si elidevano, la goccia rimaneva sospesa a mezz’aria, cosa che consentiva la precisa misura cercata. Millikan era un genio. Ciò non gli impediva di essere autoritario, razzista e politicamente scorretto. Frugando nei suoi appunti si è visto che in laboratorio osservò la caduta di 175 gocce ma nell’articolo che pubblicò riporta solo 58 gocce, quelle con i dati più favorevoli. Sulle altre preferì chiudere un occhio.
Altro caso. Nel 1903, mentre fervevano gli studi su raggi X e raggi catodici, René Blondlot, stimato fisico francese, annunciò la scoperta dei Raggi N, così chiamati da Nancy, sua città natale. Molti ricercatori confermarono, altri smentirono, qualcuno attribuì ai Raggi N straordinarie virtù terapeutiche. Poi arrivò un esperto di ottica, Robert Wood, e dimostrò che i Raggi N non esistono: Blondlot barava, e per smascherarlo lo stesso Wood dovette ricorrere all’inganno.
Sconcertante è il caso di Emil Rupp perché getta un’ombra su Einstein. La storica querelle tra Newton e Hooke se la luce sia fatta di onde o di particelle ora è risolta salomonicamente constatando che essa si presenta in entrambi i modi. Nella prima metà del ’900 la questione rimaneva controversa. Einstein ebbe il Nobel per la teoria delle particelle applicata all’effetto fotoelettrico, De Broglie per la teoria delle onde. Passa qualche anno e un esperimento del giovane Emil Rupp sembra dare ragione a Einstein, che subito simpatizza con lui. Rupp, però ha forzato i dati per compiacerlo. Poi Einstein si accorge che l’esperimento deve essere interpretato in un altro modo, e Rupp ne cambia l’interpretazione pur di far carriera firmando al fianco di Einstein. Il quale fail pesce in barile. Finisce male. Nel 1932 una perizia psichiatrica sancisce che a causa di una «psicoastenia» Rupp «ha pubblicato senza rendersene conto comunicazioni su fenomeni scientifici che hanno il carattere di finzioni». La lista sarebbe lunga. Nel 1988 il francese Benveniste scopre la «memoria dell’acqua», che giustificherebbe la medicina omeopatica: lo sbugiardano il direttore di Nature Maddox e il prestigiatore James Randi. Nei primi Anni 2000 Hendrik Schoen scala una fulgida carriera con i suoi esperimenti di nanotecnologia, ma sono falsi e i Bell Laboratories lo licenziano. Elusiva rimane la fusione nucleare fredda di Fleischmann e Pons, falsa quella ottenuta da Donald Kennedy con la sonoluminescenza.
La conclusione è che ci sono molte sfumature. C’è chi inventa i dati, chi li falsifica, chi seleziona quelli che gli fanno comodo o li forza interpretandoli, e sono «peccati» diversi. Si può assolvere Millikan, non Rupp, Schoen e Benveniste C’è chi aggiusta la teoria sui dati e chi i dati sulla teoria. C’è chi imbroglia per andare in cattedra e chi, già in cattedra, lo fa per ottenere finanziamenti. Ma alla fine, almeno nella scienza, il delitto non paga. Fosse così in politica!

La Stampa 22.4.12
La finestra sul niente
Sesso trasgressivo con molto bon ton Ma grande assente è il desiderio
di Walter Sisti


La mala educaxxxiòn (martedì in seconda serata su La7D) si propone di parlare di sesso «in maniera consapevole e condivisa»; la conduttrice Elena Di Cioccio attacca subito forte, leggendo brani di quella letteratura erotica che un tempo era censurata e adesso funziona come prodotto chic. I temi non sono da meno, la prima puntata era dedicata al sesso a tre, nella seconda si annuncia un approfondimento sui sex toys. A garanzia di intelligenza e di eleganza, il talk è intervallato da brevi interviste con intellettuali ragionevolmente trasgressivi. In studio si parla con grande libertà, il casting ha selezionato interlocutori straordinariamente disinibiti: c’è una signora di mezza età che loda i piaceri della doppia penetrazione, una ragazza di colore si dichiara lesbica, altri descrivono se stessi affidandosi alla neo-lingua («ero una rockettara metallara, ma pian piano sono diventata dark e fetish»). Sembra di trovarsi nell’Eden prima del serpente, a dispetto del titolo tutti sono educatissimi e sorridenti, ah come ti invidio la tua perversione, no no, molto meglio la tua; gli spettatori sono invitati a esporre le proprie fantasie in una «bacheca dei pensieri stupendi», la parola d’ordine è sperimentare.
Al programma del martedì si aggiunge una striscia quotidiana, dove tre inviate (Debora, Giulia e Noemi: in tivù i programmi sul sesso sono affidati alle donne, esattamente come quelli di moda e di cucina) vanno in giro per l’Italia a fare domande. Giovedì per esempio Debora era in Fiat, per chiedere agli operai se fanno l’amore in macchina e quale modello sia più adatto alla bisogna (pare che la Multipla sia perfetta) ; memorabile una ragazza a Firenze, che alla domanda su quale posizione preferisse ha risposto imbarazzata «sono vergine». Fare l’amore in allegria è consolante in tempi di crisi, propagandare l’uso del preservativo è sacrosanto; ma allora perché, vedendo queste ragazze inseguire sul loro tacco dodici i passanti («quello alto ha la faccia di uno che può darmi risposte interessanti») mi prende così forte una tristezza da irrealtà e quasi mi vien voglia di abbracciare Giovanardi?
Ce n’è un altro (su Fox Life) di programmi sul sesso: ha come logo una paperella sdrammatizzante, si intitola Sex education show ed è condotto da un’altra spigliata provocatrice, Nina Palmieri; lei preferisce torturare squadre di calcio o di rugby, mettendoli davanti alla lavagna e costringendoli a rivelare la loro ignoranza sull’anatomia femminile; oppure si sottopone alla depilazione delle zone erogene, o si diverte nel ruolo di dominatrice sadomaso. Tutto giocoso, tutto no problem; sesso e amore (lo si vede quando vengono intervistate le coppie) sembrano gravati da un reciproco intralcio e la soluzione proposta è superare i tabù concedendosi a curiosità stuzzicanti. Il grande assente, in tutto questo parlare di organi e pratiche, è il desiderio; quello che porta al cielo e all’inferno. C’è più erotismo in dieci minuti di Storie maledette della Leosini.

La Stampa TuttoLibri 21.4.12
Un viaggio da Nord a Sud nelle oasi benedettine per interrogarsi sul silenzio, sul senso del tempo e sull’anima
Nei monasteri è tutta un’altra vita
di Ferdinando Camon


Giorgio Boatti SULLE STRADE DEL SILENZIO VIAGGIO PER MONASTERI D’ITALIA E SPAESATI DINTORNI pLaterza, pp. 325, 18
Giorgio Boatti, giornalista, ha all’attivo molti volumi dedicati alla storia contemporanea. Fra gli altri «Piazza Fontana» e «Preferirei di no» (Einaudi); «Bolidi» e «Spie» (Mondadori).

Cosa cerca quest’uomo, traversando l’Italia da Nord a Sud per alloggiare e dormire in una ventina di monasteri benedettini? Bellezza? Pace? Arte? Bontà? Se fosse una di queste cose, il libro sarebbe meno di quel che è. Ma è tutte queste cose, più altre ancora. Ho vissuto con questo librone giorni e notti, senza riuscire ad abbandonarlo, neanche quando andavo a letto. Me lo mettevo sotto il cuscino, pronto per il risveglio. È una droga, il racconto di un’esperienza «spaesante». Spaesante vuol dire che ti porta fuori dal tuo paese, dentro un altro paese, fuori dal tuo tempo, dentro un altro tempo, fuori dalla tua vita, dentro un’altra vita. Fuori dalla tua civiltà, dentro un’altra civiltà. La prima scoperta è già a pagina 31: si può cambiare il mondo cambiando il modo di dormire e di mangiare. Altrove aggiunge: e di parlare. Nei monasteri impari l’importanza di due cose, la solitudine e il silenzio. Che non significa «imparare a stare solo» e «a non avere relazione con gli altri», al contrario, significa imparare il valore degli altri e delle parole. C’è un passo dell’Ecclesiaste (pesco nella memoria, non nel libro) che dice: «Si logora ogni parola / di più non puoi farle dire». La parola logorata, quando la pronunci, non ne senti più né il peso né il suono. Per ri-sentire il peso e il suono delle parole, bisogna smettere di usarle per un lungo tempo.
Dunque, Boatti è andato per monasteri per «imparare a parlare». Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, confessa: «Se non avessi ore e ore di silenzio, sarei incapace di parlare e di scrivere». Un altro abate c’informa che in gran parte coloro che entrano in monastero non resistono più di 10-15 giorni: quella è la soglia oltre la quale, se resistono, «diventano altri», e retrocedendo da quella soglia tornano subito ad essere quel che erano. In quella soglia avvertono un pericolo, la perdita di quel che sono. A un certo punto Boatti ha il sospetto che chi ha scelto i luoghi dove costruire i monasteri, molti secoli fa, abbia badato a che lì non ci fosse mai campo, nei secoli futuri: oggi infatti il cellulare non prende, è inutile, e i frati non ce l’hanno, come non hanno radio. Quindi non hanno il mondo. Quindi sono fuori del mondo. Quindi non valutano le notizie come tappe della vita, non dividono il tempo per frazioni o fasi della vita.
L’unità di misura del tempo è una sola: la vita. La vita si vive in solitudine ma la morte si affronta in comunità: al momento della morte, tutta la comunità circonda il morente. L’esatto contrario di quel che avviene da noi, nelle famiglie: si vive e si mangia insieme nelle case, si muore soli in ospizio o in ospedale. I benedettini hanno la repulsione dell’ospedale, quando la malattia si aggrava vogliono tornare a casa, nel monastero. I monasteri sono belli, e correggono la mancanza di bellezza estetica delle nostre piazze e strade. Boatti lo dice per tutti i monasteri, ma più di tutti per Monte Oliveto: «Chi a Monte Oliveto viene per cercare la bellezza, si porta a casa la bellezza». Mi par di capire che non ama Sant’Antimo. Io lo trovo stupendo. Dice che è «una bellezza per esteti». Vabbe’, sarò un esteta, ma appare di colpo ed è un incanto. Trova brutto San Giovanni Rotondo, tutto il complesso costruito su progetto di Renzo Piano in onore di Padre Pio (non è un monastero, ma un santuario). Più che brutto: orrendo. Più che orrendo: repulsivo. Anzi più ancora: un santuario dovrebb’essere un edificio angelico, e questo invece è un edificio diabolico, Boatti lo chiama «San Diabolico al Quadrato». È una stazione + stadio + aeroporto, l’antitesi di ciò che dev’essere una chiesa.
San Giovanni Rotondo (spingo avanti il ragionamento di Boatti) brulica di gente e di affari perché la gente e gli affari ci trovano la propria conferma. I monasteri son luoghi di smentita. Lo dice un abate, ma vale per tutti: «Qui arrivano novizi assai intellettuali ma dopo qualche anno li ritroviamo semianalfabeti». Perché devono perdere quel che sanno e imparare quel che non sanno. Restare ha un alto prezzo psichico.
Se posso permettermi un sospetto, anche l’autore esita a pagarlo, questo prezzo, visto che la prima volta, entrato nella cella assegnatagli, trova subito una scusa per tornare fuori. Ci sono libri di viaggio che ti fanno viaggiare, e con ciò sostituiscono il viaggio. Questo no. Questo viaggio in una ventina di monasteri quasi tutti benedettini ti fa capire che la sosta in un monastero è un cibo. Non puoi sentirne il gusto leggendo il menù. Devi mangiarlo. "Il pellegrinaggio di Giorgio Boatti: di abate in priore «per imparare a parlare» Dove il cellulare non prende: i frati non ce l’hanno, come non hanno radio. Quindi non hanno il mondo «Qui arrivano novizi intellettuali, salvo dopo qualche anno ritrovarsi semianalfabeti: devono perdere quel che sanno»"

La Stampa TuttoLibri 21.4.12
Dal ’40 al ’45 Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico»: una storia che affiora
Violate e in armi donne alla guerra
Vite straordinarie, le protagoniste di una «resistenza civile» che è tragica emancipazione
di Giovanni De Luna


Michela Ponzani GUERRA ALLE DONNE. PARTIGIANE, VITTIME DI STUPRO, «AMANTI DEL NEMICO». 1940-1945 Einaudi, pp. XVI-320, 25

Pochi anni fa, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione che classifica lo stupro come un’arma di guerra. Definendolo uno strumento utilizzato «per umiliare, dominare, instillare paura, cacciare e/o obbligare a cambiare casa i membri di una comunità o di un gruppo etnico», l’Onu ha così ufficialmente indicato nella violenza sessuale contro le donne (realizzata all’interno di un contesto bellico) non solo un reato contro la persona, ma anche una violazione delle norme internazionali, inserendola - di fatto - nell’elenco delle pratiche proibite accanto all’uso di armi vietate, al terrorismo, alle torture sui prigionieri, ecc.
«Scoprire» adesso che lo stupro è un’arma può sembrare quasi irridente se si pensa a quella che è stata la storia. Tutte le guerre che hanno affollato la nostra epoca sono state segnate infatti da questo tipo di violenza: ovunque nel mondo per gli eserciti vittoriosi gli stupri sono stati l’occasione per l’esercizio di un potere assoluto, to-
tale, in grado di espropriare gli sconfitti non solo della loro dimensione pubblica, privandoli del loro Stato, del loro territorio nazionale, ma anche di quella privata, penetrando nelle loro case, squarciandone l’intimità, distruggendo le famiglie.
E’ successo anche da noi. Tra il 1943 e il 1945 sulle donne italiane si scatenarono violenze di tutti i tipi e su tutti i fronti: sulla «linea gotica», i tedeschi infierirono soprattutto nei dintorni di Marzabotto, quasi a voler reiterare la strage in altre forme; sull’Appennino ligure-piemontese, nel 1944, in sei mesi, si registrarono 262 casi di stupro ad opera dei «mongoli» (i disertori dell’Asia sovietica arruolati nell’esercito tedesco). E poi la tragedia che investì le «marocchinate», le donne stuprate in Ciociaria e nel Lazio nella primavera del 1944. Dopo lo sfondamento della «linea Gustav», le truppe coloniali francesi si avventarono sul paesino di Esperia, che aveva come unica colpa quella di essere stato sede del quartier generale della 71˚ divisione tedesca. Tra il 15 e il 17 maggio 1944, oltre 600 donne furono violentate.
Di questi stupri, e più generale dell’ondata di violenza che investì le donne italiane negli anni della Seconda guerra mondiale, parla ora un bel libro di Michela Ponzani ( Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico». 1940-1945. Einaudi, pp. XVI-320, 25). Che però non si limita a sottolineare il loro ruolo di vittime. Consultando archivi, ascoltando testimonianze, inseguendo ricordi, scavando tra gli stereotipi che da sempre si addensano sul binomio donne e guerra, il libro ci restituisce lo scenario complessivo di una Seconda guerra mondiale che, non a caso, una volta Ernesto Galli della Loggia suggerì di chiamare «guerra femminile». Tra il 1940 e il 1945 si registrò un effettivo «protagonismo» delle donne.
Con gli uomini lontani, prima al fronte poi coinvolti nella bufera della «guerra civile», e poi ancora, diventati un bersaglio della «guerra ai civili» condotta dai tedeschi (ostaggi per le rappresaglie, manodopera da deportare...) ; con gli uomini segnati quindi da un’improvvisa e drammatica precarietà, costretti a nascondersi o a combattere, le donne si trovarono ad assumere, di fatto, il ruolo di protagoniste nella lotta per la sopravvivenza, per consentire alla loro famiglia di affrontare la fame, il freddo, la paura, le coordinate di un’esistenza collettiva che scandirono quello che allora, per tutti gli italiani, fu «tempo di guerra». Di qui, nelle testimonianze studiate da Michela Ponzani, il rifiuto di considerarsi vittime e la rivendicazione della propria forza in quanto donne e madri, unita alla consapevolezza di come allora l’eccezionalità della guerra abbia sovvertito antiche gerarchie di genere, rimescolando i ruoli tradizionali. Le donne che facevano la borsa nera per sfamare la famiglia; che nascondevano e proteggevano profughi e perseguitati; che usavano la loro femminilità per sfidare impunemente il dominio assoluto dei tedeschi, furono le principali protagoniste di quella che viene definita la «resistenza civile».
Per molte di esse tutto questo comportò anche l’uso delle armi. Alla fine, furono 35 mila le partigiane combattenti, e 20 mila le patriote; e furono 623 quelle cadute e fucilate. Dalla rivoluzione francese in poi, lo spazio pubblico, quello della politica e della cittadinanza, era riservato solo ai cittadini che potevano portare le armi. Agli uomini quindi, mentre le donne erano confinate negli interni della domesticità familiare. Le donne partigiane oltrepassarono questa soglia. Ma non fu una rottura definitiva. Quando finì la guerra, quando si affievolirono le condizioni eccezionali che avevano determinato quei comportamenti, tutto finì molto presto. Per molte, secondo una testimonianza riportata nel libro, il 25 Aprile 1945 fu come «un presagio di nostalgia per quello che stava finendo, quasi una tristezza per la normalizzazione che ci attendeva, per i sentimenti più tranquilli e senza tensioni alte che avrebbero ordinato la nostra vita. Che non sarebbe stata mai più straordinaria».

Repubblica 22.4.12
Adolfo Kaminsky, "Ho fatto carte false per la Resistenza"
Ho creato vite di carta per l’umanità in fuga
di Fabio Gambaro


Si chiama Adolfo Kaminsky, ha ottantasei anni. Per tre decenni i suoi passaporti hanno aiutato ebrei che scappavano dal nazismo, indipendentisti algerini, militanti antifranchisti, rivoluzionari latinoamericani, vittime dei colonnelli greci Oggi si racconta in un libro e a "Repubblica": "Non ho mai chiesto soldi, sognavo un mondo dove nessuno fosse costretto a nascondersi"
È un miracolo che sia ancora vivo Ci sono persone che anche sotto tortura non mi hanno mai denunciato
Ho insegnato qualcosa anche a Giangiacomo Feltrinelli Era un buon allievo, ma un po´ autoritario

Parigi. Un falsario al servizio di perseguitati e rivoluzionari. Adolfo Kaminsky - ottantasei anni, una gran barba bianca, la voce flebile e il sorriso gentile - per tre decenni è stato un maestro indiscusso del passaporto falso, capace riprodurre ogni sorta di documento per salvare vite e aiutare fuggiaschi. Dagli ebrei in fuga dal nazismo agli indipendentisti algerini, dai militanti antifranchisti ai rivoluzionari latinoamericani, dagli anticolonialisti africani alle vittime dei colonnelli greci. A questa lunga e avventurosa militanza fatta di audacia e di ideali, di scelte rischiose e di corse contro il tempo, la figlia Sarah rende ora omaggio in un libro appassionante intitolato Adolfo Kaminsky: una vita da falsario (Angelo Colla Editore, 224 pagine, 18 euro). Un libro che l´anziano padre sfoglia con un po´ di nostalgia nel suo appartamento parigino proprio sotto la torre Eiffel. «Volevo diventare un artista ma la vita ha deciso diversamente. Tutto era talmente urgente che non ho neppure avuto il tempo di avere rimpianti», dice mostrandoci le sue intense foto di Parigi che l´anno prossimo verranno proposte al pubblico in una grande esposizione. «Durante tutti quegli anni ho solo fatto quello che credevo fosse giusto fare. Sono diventato un falsario perché credevo nella giustizia e detestavo il razzismo. Lottavo per un mondo dove non ci fosse più bisogno di falsificare documenti, dove la gente non dovesse più scappare e nascondersi».
La sorprendente storia di Kaminsky comincia nel furore della Seconda guerra mondiale. Nel 1942, a diciassette anni, è uno dei tanti che in Francia sono costretti a nascondersi per sfuggire alle retate dei nazisti. La sua è una famiglia di ebrei russi, emigrati in Francia all´inizio del secolo e poi espulsi nel 1917, finiti in Argentina, da dove rientreranno a Parigi all´inizio degli anni Trenta, ritrovandosi però in trappola quando i tedeschi occupano il paese. All´inizio della guerra, il giovane Adolfo ha solo un diploma di scuola elementare, ma studia la chimica da autodidatta e intanto lavora come apprendista tintore. Per procurare documenti falsi ai suoi familiari, entra in contatto con un gruppo della Resistenza ebraica, proponendo le sue competenze nel campo degli smacchiatori. E così che in poco tempo diventa «il tecnico», uno dei migliori falsari della Resistenza: «Sono nato e cresciuto nel rispetto della legge, quindi la prima volta che ho falsificato un documento, sebbene fosse per una causa giustissima, ho provato un enorme senso di colpa».
Nel laboratorio clandestino di rue des Saints Pères, mentre fuori la caccia agli ebrei si fa sempre più feroce, il giovanissimo falsario fabbrica documenti di ogni tipo. Passaporti, carte d´identità, tessere annonarie, certificati di nascita e di battesimo: «La gente da mettere in salvo era moltissima e a ciascuno dovevamo fornire più documenti per ricostruire un´intera identità. Avevamo tantissime domande ed eravamo sempre con l´acqua alla gola». Una volta, in soli tre giorni fabbrica novecento documenti per mettere in salvo trecento bambini ebrei. Impresa per cui nel dopoguerra verrà ufficialmente decorato. «Ma il merito non fu certo solo mio, eravamo in molti a darci da fare», si schermisce lui con modestia. «Conoscevo la chimica, ma anche la fotografia, la pittura, il disegno e la calligrafia. Tutto ciò mi ha permesso d´inventare nuove tecniche di falsificazione. E soprattutto ero convinto che tutto fosse possibile. Se qualcuno avevo fatto qualcosa, non c´era ragione perché io non fossi capace di rifarla. Quindi qualsiasi documento era riproducibile, anche i passaporti tedeschi».
Quella vita frenetica e clandestina naturalmente era molto rischiosa e più di una volta Kaminsky si salva per un soffio: «Il pericolo era quotidiano, ma in quanto ebreo ero più protetto facendo documenti falsi per la Resistenza che vivendo nascosto in una tintoria. Nell´azione c´è maggiore possibilità di salvarsi, anche se purtroppo in quegli anni ho perso molti amici ammirevoli. È un miracolo che sia ancora vivo. Forse ho avuto la fortuna di non commettere errori e poi sono sempre stato molto protetto. Ci sono persone che anche sotto tortura non mi hanno mai denunciato».
Alla liberazione di Parigi entra nei servizi segreti dell´esercito francese, dove continua a fare documenti falsi per gli agenti paracadutati dietro le linee tedesche. Nel dopoguerra però, quando i francesi iniziano a impantanarsi nella guerra d´Indocina, lascia l´esercito per coerenza con le sue convinzioni pacifiste. Oltretutto, in quel periodo inizia ad aiutare gli ebrei desiderosi di stabilirsi in Palestina nonostante il divieto degli inglesi: «All´inizio volevo andarci anch´io, ma rinunciai quando, con la nascita d´Israele, la religione divenne di Stato. Non sono credente e sono stato educato al di fuori di ogni religione. Per me, quindi, la fede è sempre stata solo un fatto privato». Il falsario però non smette di lavorare. Negli anni Cinquanta entra in contatto con il gruppo di Francis Jeanson che appoggia l´Fln nella lotta per l´indipendenza dell´Algeria: «Impegnarmi al fianco degli algerini è stato naturale come lo era stato difendere gli ebrei. Non ci sono razzismi cattivi e razzismi buoni. Gli uomini sono tutti uguali e hanno tutti gli stessi diritti, indipendentemente dalla religione, dalla razza e dal colore della pelle».
Per sfuggire alla caccia della polizia francese, Kaminsky è costretto a nascondersi per due anni in Belgio, dove lavora giorno e notte, aiutando centinaia di militanti. «Nessuno è mai stato arrestato per via dei miei passaporti falsi, i poliziotti non li hanno mai scoperti, neanche gli svizzeri che consideravano i loro passaporti infalsificabili», dice oggi con una punta d´orgoglio. E non a caso in quegli anni la sua fama non smette di crescere. Alla sua porta bussano rivoluzionari di ogni latitudine, esuli in fuga dalle prigioni di Salazar, dissidenti della primavera di Praga. A tutti fornisce nuove identità sempre gratuitamente, dato che non ha mai voluto essere scambiato per un mercenario. Tra i tanti che gli chiesero aiuto ci fu anche Giangiacomo Feltrinelli, di cui si ricorda ancora bene: «In passato aveva aiutato l´Fln durante gli anni della guerra d´Algeria, aveva offerto finanziamenti ma anche aiutato materialmente, come quando nascose in Italia alcune militanti evase dalle prigioni francesi». Kaminsky racconta di avergli fatto dei documenti falsi e gli procurò un alloggio a Parigi da un amico pittore. Come faceva spesso con i militanti di altri paesi, insegnò all´editore italiano alcune tecniche di falsificazione perché potesse essere indipendente: «Era un buon allievo. Un uomo gentile e simpatico, ma con un carattere un po´ autoritario. Infatti abbiamo anche litigato, perché pretendeva che fossi a sua completa disposizione. Ma io non potevo certo lavorare solo per lui. Finito il periodo di formazione, è ripartito per l´Italia e non l´ho mai più rivisto. Quando mi giunse la notizia della sua morte, avevo ormai smesso di fare il falsario».
Tra i molti che si avvalsero del suo talento ci fu anche Daniel Cohn-Bendit, all´epoca leader studentesco del maggio ´68 espulso dalla Francia, a cui fornì un nuovo passaporto per poter rientrare a Parigi sotto falso nome: «Pur non essendo, come i miei clienti abituali, un rivoluzionario in fuga dalle dittature, l´ho aiutato lo stesso per sbeffeggiare le autorità francesi che non avevano alcun diritto di vietargli l´ingresso nel paese. Non era certo un pericolo pubblico né un terrorista». Terrorismo, una parola che a Kaminsky non piace. Proprio l´incombere della violenza lo spingerà a interrompere la sua attività e a ritirarsi in Algeria, dove resterà una decina d´anni: «Io sono sempre stato un non violento e non volevo avere nulla a che fare con il terrorismo. E invece sempre più spesso tentavano di rivolgersi a me giovani con uno spiccato gusto per le armi che non erano certo dei perseguitati politici. Così decisi di smettere».
Da allora Kaminsky non ha più fatto un solo passaporto falso. Senza rimpianti. E oggi, dopo tante avventure, si gode una vita tranquilla, guardando incredulo questi nostri tempi dove «c´è chi - i sans papiers - a causa della mancanza di documenti in regola viene trattato come uno schiavo». A loro però i suoi passaporti non servirebbero perché «con i documenti falsi non si costruisce una vita, si può solo attraversare una frontiera o nascondersi». Parola di uno che se ne intende.

Repubblica 22.4.12
Darwin e Lamarck
Se il destino non è più scritto nel Dna
I geni si possono accendere o spegnere. E il cambiamento può trasferirsi ai discendenti Dietro questi studi c’è “l’ombra" di Lamarck
L’epigenetica è una nuova scienza. Che spiega come i fattori ambientali a volte influenzano l’ereditarietà
di Giuliano Aluffi


Soffrite d´ansia? Forse è perché vostro padre da piccolo è stato maltrattato. I vostri figli hanno il colesterolo alto? Potrebbe essere perché non avete mangiato abbastanza proteine prima della loro nascita. Se tutto questo vi suona strano è perché non credete che dei fattori ambientali, come lo stress o l´alimentazione, possano influenzare l´espressione dei geni in un organismo e addirittura nei suoi discendenti. Bene, oggi è in auge una scienza fondata proprio su questa sorprendente adattabilità dei geni. È l´epigenetica, e il suo nome (letteralmente: al di sopra della genetica) indica gli adattamenti di una cellula o un organismo all´ambiente, e la loro trasmissione alle generazioni successive, senza modifiche strutturali al DNA. La cara vecchia doppia elica non cambia finché viviamo, ma i geni delle nostre cellule possono accendersi e spegnersi a seconda della funzione che le cellule sono chiamate a compiere, o della fase della nostra vita, o dell´ambiente. È come se in corrispondenza di certi geni avessimo dei piccoli interruttori.
Gli stimoli ambientali possono agire su alcuni di questi interruttori, ad esempio tramite composti formati da atomi di carbonio e idrogeno, i gruppi metilici, che si attaccano alle spire del DNA in prossimità dell´inizio di un gene, occupando proprio il punto in cui le proteine possono attivarlo: l´effetto è che il gene si spegne. Quando ciò accade, il gene rimane spento anche per tutte le divisioni cellulari successive e – in certi casi - può passare da un organismo ai suoi figli sempre rimanendo spento. È così che la "memoria" di un cambiamento dettato dall´ambiente può trasferirsi tra le generazioni. Quindi il nostro destino non è già scritto nel DNA? Sì e no.
«È importante enfatizzare che la maggior parte dei tratti non sono trasmessi per via epigenetica: queste sono solo eccezioni alla regola. Il meccanismo principale dell´evoluzione resta sempre la mutazione casuale del DNA seguita dalla selezione naturale» spiega Oded Rechavi, autore su Cell di un recente studio sulla trasmissione epigenetica di un adattamento (l´immunità ad un virus) per 100 generazioni di vermi che si conclude con una bomba: «I nostri risultati supportano il concetto lamarckiano di ereditarietà di un tratto acquisito».
È proprio Lamarck il convitato di pietra degli studi epigenetici, e non potrebbe essere altrimenti, almeno da quando, nel 2010, i ricercatori del Brain Research Institute dell´Università di Zurigo, hanno mostrato che i topi non accuditi dalle madri non solo mostrano segni di depressione da adulti, ma li passano a loro volta ai figli. «Durante la formazione dei gameti, l´epigenoma, ossia l´insieme dei cambiamenti "acceso/spento" avvenuti nei geni durante la vita di un organismo, dovrebbe venire completamente cancellato, così che l´organismo figlio possa ripartire da zero. Ma oggi sappiamo che alcuni tratti epigenetici non vengono resettati e ricompaiono nelle nuove generazioni» specifica Martin Braunschweig, genetista dell´Università di Berna e autore di uno studio pubblicato a febbraio su PLoS One sul passaggio intergenerazionale tra suini di caratteristiche acquisite con l´alimentazione «Abbiamo provato che questo può avvenire anche nei mammiferi, ma in generale i tratti acquisiti si perdono dopo poche generazioni». Ecco perché è ancora presto per dedicare una via a Lamarck: «I tratti ereditati si diluiscono di generazione in generazione. È probabile che l´ereditarietà epigenetica dipenda dal passaggio alla progenie di molecole che poi però non possono replicarsi. Così i caratteri acquisiti non si fissano a lungo e non c´è un vero effetto sull´evoluzione» osserva Fabio Casadio, ricercatore della Rockefeller University di New York.
Ma è proprio necessario accapigliarsi sul biologo francese più maudit di sempre? «Bisognerebbe vagliarla questa cattiva reputazione lamarckiana, ormai relegata a caricatura disneyana di giraffe che allungano il collo. Che i caratteri acquisiti possano essere ereditati era infatti idea diffusissima al tempo di Darwin, e lui stesso, nel paragrafo di vertiginosa bellezza che chiude l´Origine delle specie, vede la variabilità emergere «dall´azione diretta e indiretta delle condizioni esterne di vita, e dall´uso e dal disuso». Su questo, dunque, Darwin e Lamarck «la pensavano in maniera simile» puntualizza Giuseppe Testa, direttore del Laboratorio di epigenetica delle staminali all´Istituto Europeo di Oncologia di Milano e autore insieme ad Helga Nowotny del nuovo saggio Geni a Nudo (Codice). «La contrapposizione manichea tra Darwin e Lamarck è figlia di un´epoca posteriore, quando la teoria dell´evoluzione incontra la genetica». È da allora che si associa ai geni quella certa idea di predestinazione ancora prevalente e un po´ oppressiva. Mentre l´epigenetica è una sirena così seducente proprio perché promette – magari illudendo – l´affrancamento dai vincoli del genoma.
Un esempio recentissimo: i sedentari che iniziano a fare attività fisica ripuliscono il DNA dei muscoli scheletrici dai gruppi metilici e riaccendono i geni dei muscoli. Lo hanno scoperto Juleen Zierath e i colleghi del Karolinska Institutet svedese. Non solo: anche la caffeina ha un effetto simile. Ma tra le promesse dell´epigenetica ce ne sono di molto più ambiziose. Ad esempio l´anti-ageing: Anne Brunet della Stanford University, disattivando un gene nei vermi nematodi, li ha resi del 30% più longevi. Inoltre da quando si è scoperto che alcuni geni onco-soppressori risultano inefficienti non perché difettosi a livello di DNA ma solo perché "spenti" a livello epigenetico, si stanno cercando gli interruttori giusti per riattivarli in funzione anticancro. «Abbiamo farmaci epigenetici antitumorali già in sperimentazione clinica, e l´altro ambito promettente è la medicina rigenerativa. Qui la svolta viene dalla capacità di derivare dalla pelle dei pazienti, attraverso il resettaggio dell´epigenoma, i particolari tipi di cellule coinvolte in una data malattia» spiega Giuseppe Testa. «È sempre stato difficile ottenere dal corpo dei pazienti cellule adatte a studiare una malattia. La riprogrammazione epigenetica ci dà finalmente modelli cellulari affidabili su cui studiare tante malattie e testare farmaci a livelli impensabili fino a soli pochi anni fa». Così lungo le spire della doppia elica può srotolarsi perfino una nuova, dinamicissima speranza.

Repubblica 22.4.12
L’idea di queste ricerche è che ci sia qualcosa "sopra" la genetica E fa pensare ad una elasticità delle cellule, oltre il determinismo
Quando l’apprendimento può essere trasmesso
di Francesco e Luca Cavalli-Sforza


Ogni singola cellula di un essere vivente è come un potente calcolatore che utilizza le istruzioni contenute nel suo software (il DNA) per costruire tutte le strutture e le ‘macchine´ biochimiche (le proteine) che le permettono di funzionare. Naturalmente, per eseguire le istruzioni contenute nel DNA il computer cellula ha bisogno di procurarsi dall´ambiente sia i materiali da costruzione sia l´energia necessaria a compiere tutte le operazioni per cui è programmata. Lo stesso vale per gli organismi formati di molte cellule, come siamo noi. Se il nostro patrimonio genetico è tale da permetterci di crescere alti e robusti, ma il cibo disponibile è scarso negli anni della nostra crescita, non diventeremo né molto alti né particolarmente vigorosi.
Un essere umano è fatto di milioni di miliardi di cellule. Tutte hanno origine da una singola cellula uovo fecondata (lo zigote), attraverso un processo di moltiplicazione e ricambio cellulare che dura finché viviamo. Nelle primissime fasi della vita, ogni cellula dello zigote è potenzialmente in grado di dare origine da sola all´intero organismo, poi, a mano a mano che questo si sviluppa, diversi tipi di cellule si specializzano in funzioni diverse a seconda del tessuto cui sono destinate (pelle, nervi, sangue, ad es.). Come avviene questo, dato che ogni cellula del nostro corpo porta l´identico DNA? Semplicemente, in ogni tipo di cellula si attivano i geni pertinenti alla propria funzione e si "spengono" gli altri.
Che l´organismo sia formato di una sola o di moltissime cellule, ciascuna acquista le sue caratteristiche finali interagendo con il suo ambiente attraverso vari fenomeni chimici che determinano l´espressione dei singoli geni, ad esempio rallentandone o bloccandone il funzionamento. Le nostre attività, quindi, oppure agenti patogeni cui siamo esposti, o ciò che mangiamo, possono modificare il modo in cui lavorano le nostre cellule. I cambiamenti non incidono sulla sequenza di DNA, che rimane immutata, ma sono trasmessi alle cellule figlie insieme al DNA della cellula madre, quando questa si divide. Se il processo avviene nelle cellule riproduttive i cambiamenti possono essere trasmessi alla discendenza, almeno per qualche generazione. È un po´ come se la cellula mantenesse memoria dello stato di attivazione in cui si trovava. Si parla di epigenetica (cioè "sopra la genetica") per designare questi fenomeni, perché non sono determinati direttamente dai geni, ma ne influenzano l´attività. Rivelano la grande elasticità con cui la cellula si adatta al proprio ambiente, utilizzando il DNA nel modo più opportuno.
Quando da piccoli impariamo a parlare, il cervello è pronto ad apprendere il linguaggio. È la genetica della nostra specie che lo predispone a farlo. La lingua che impareremo potrà essere l´una o l´altra: sarà quella che ci verrà insegnata. Quando ce ne saremo impadroniti, la porteremo con noi e la trasmetteremo ai nostri figli. In generale, tutto ciò che si apprende può essere trasmesso. In biologia, invece, l´individuo può trasmettere solo il DNA che ha ricevuto dai genitori, modificato dalle rare e casuali mutazioni che avvengono nelle sue cellule riproduttive. Nei fenomeni epigenetici, anche la singola cellula può trasmettere qualcosa che ha sviluppato nel corso della sua vita.
Il linguaggio, i comportamenti, tutto quello che impariamo nella vita sta "sopra" la genetica. È l´impianto biologico a rendere questo possibile, ma c´è una grande distanza fra la base biologica e l´effettiva capacità umana di produrre ciò che chiamiamo "cultura". Sarà un bel giorno quando riusciremo a capire in termini chimici e biofisici i processi che permettono di trasformare le interazioni fra le molecole in pensieri e in parole. I rapidi progressi della biologia molecolare e della neurobiologia forse ci arriveranno già in questo secolo.
Se paragoniamo la distanza che separa la singola cellula dall´intero organismo alla distanza che separa il singolo individuo dall´insieme della sua comunità, si può pensare che dedicando alle modalità di funzionamento delle nostre istituzioni la stessa attenzione con cui studiamo i percorsi biochimici, potremmo rendere assai migliori le nostre società.

Repubblica 22.4.12
Ciò che i greci nell’antichità avevano capito della crisi
di Antonio Gnoli


Assistiamo con pena crescente ai recenti suicidi nel mondo degli imprenditori. E al travaglio di coloro che perdendo il lavoro perdono se stessi. Come se la crisi, nella quale siamo piombati, stesse distruggendo le difese psicologiche che accompagnano il normale istinto di conservazione che alberga in noi.
Qualche anno fa Reinhart Koselleck, nel tentativo di esplorare il lessico della modernità, mise al centro dei suoi interessi la parola "crisi" (gli esiti parziali di quel lavoro li trovate in un volumetto pubblicato da ombre corte). Lo studioso tedesco ne ricostruì la genealogia, notando come certe espressioni assumono significati diversi a seconda dei contesti storici nei quali agiscono.
In origine – la parola deriva dal greco – crisi stava a significare il modo in cui, di fronte a un problema, occorreva prendere una decisione politica (tale da investire tanto il giusto quanto l´ingiusto). Nella crisi – come pure si ricava dall´uso che ne fa il sapere medico – c´è un atto di responsabilità critica: si registra una patologia e si interviene per risolverla.
Con la modernità la crisi tende ad autonomizzarsi. È soprattutto l´economia a imporre l´idea che la decisione dipende meno dal fattore umano e molto più da quello tecnico. Marx rilevò che le crisi del capitalismo avrebbero portato al suo oggettivo superamento (o estinzione). Ma ancora oggi si dibatte sulla bontà di quella previsione.
Forse il testo che meglio interpreta la nostra condizione è La crisi delle scienze europee di Husserl (un commento recente si deve a Francesco Saverio Trincia per Laterza), dove in tutta la sua gravità si coglie la fine della visione umanistica dell´Europa: una forma di suicidio alla quale fino ad oggi non abbiamo prestato la dovuta attenzione.

Repubblica 22.4.12
Heidegger alle prese col totalitarismo
di Francesca Bolino


I testi di Martin Heidegger editi nel volume La Storia dell´essere risalgono agli anni 1938-1940. Sono scritti importanti perché raccontano la fenomenologia ermeneutica del totalitarismo e riguardano altrettanti "passi avanti" nella preparazione dell´Evento dell´Essere. Nel´33 anno in cui era Rettore dell´università tedesca, Heidegger si era illuso di poter stabilire con Hitler un rapporto di collaborazione analogo a quello che pensava intercorresse tra Mussolini e Giovanni Gentile. Tuttavia Heidegger non è mai stato un nazionalsocialista, piuttosto un Hitlerist, un seguace e fedele di Hitler.
Nel 1938 – come dimostra una lettera ad Hannah Arendt – il filosofo comprese che la rivoluzione nazionalsocialista stava però portando la Germania verso una catastrofe: il più tragico degli inganni. Il regime – che Heidegger non definisce mai "totalitarismo" – gli appare fonte di "devastazione, coercizione e annientamento". In ogni caso la sua interpretazione del totalitarismo come esito pubblico del nihilismo metafisico è un contributo fondamentale per la comprensione del XX secolo.

Repubblica 22.4.12
Da Kandinskij a Malevic, da Chagall alla Goncarova: a Roma una mostra racconta una grande stagione che finì sotto Stalin
 Quando le avanguardie cambiarono la Russia
di Giuseppe Dierna


Dopo l´ondata realsocialista che ha invaso Roma l´anno scorso, la mostra sulle Avanguardie russe, nel Museo dell´Ara Pacis fino al 2 settembre, riporta nella capitale la pittura che aveva anticipato e accompagnato in Russia la rivoluzione, per raggiungere culmine e declino negli anni Venti con l´arrivo di Stalin. In pochi anni quegli artisti avevano sostituito il dominante realismo con un catalogo di variegati sperimentalismi, dalle più radicali scomposizioni cubofuturistiche fino allo spiritualismo suprematista e alle ordinate disposizioni geometriche del costruttivismo.
Con loro non mutava solo la storia della pittura ma il volto stesso della Russia, perché – come aveva intimato il poeta Majakovskij nel «Decreto n. 1 sulla democratizzazione delle arti» - loro avevano dipinto «la fronte e il petto delle città, delle stazioni e delle mandrie di vagoni ferroviari eternamente in fuga», riempiendo nel 1920 le vie principali di Vitebsk di quadrati arancioni e rettangoli azzurri.
Erano avanguardie, giustamente al plurale. Perché se il rifiuto del realismo li univa, ben maggiori erano le diversità, e le mostre in comune si trasformavano spesso in litigi o scissioni irreparabili, coi raggruppamenti antagonisti che impiantavano improvvisati cartelli all´ingresso della loro sala, come condòmini irascibili.
Molto bello, in apertura, il quadro di Kazimir Malevic ancora d´impianto cubista, Vita in un grande albergo (1913), dipinto nello stesso anno in cui il pittore progettava le scenografie della Vittoria sul sole del futurista Chlebnikov, dove per la prima volta compare il quadrato nero che rivoluzionerà la pittura, dando vita a quella fase "suprematista" di cui vediamo qui due belle composizioni, agglomerati multicolori di quadrilateri e frammenti di cerchi e linee. Qualche sala più avanti si può invece osservare Nero su nero (1918) di Aleksandr Rodcenko, dove un nero segmento circolare si adagia su uno sfondo a dominanza grigia, opera già nel titolo polemica nei confronti di Malevic e che infatti segnò la rottura tra i due e la nascita di lì a poco del costruttivismo.
Tra le altre tele rimane nella mente un delicato interno di Chagall, Bagno di bimbo (1916), e Aereo su un treno (1913) di Natalja Goncarova, simultaneità futuristica dai tratti infantili, o la Venere (1912) di Michail Larionov, variante primitivista e contadina, testimonianza della persistenza della tradizione nell´avanguardia russa, come gli elementi fiabeschi in Kandinskij (Mosca. Piazza Rossa, 1916) o in un cézanniano come Aristarch Lentulov. E poi i tersi assemblaggi geometrici di Ol´ga Rozanova e Ljubov´ Popova, o l´astrattismo più volumetrico di Aleksandra Ekster, che in seguito prediligerà la scenografia teatrale, e nel ´24 firmerà costumi e scenografie futuristiche per il film fantascientifico Aelita di Protazanov.
La sala dedicata al cubofuturismo è aperta da una foto della tournée di Marinetti in Russia nel 1914, foto che certo non sarebbe piaciuta agli artisti russi (o almeno all´élite raccolta nel gruppo Gileja, da Vladimir Majakovskij ai fratelli Burljuk), che avevano sempre rigettato ogni vicinanza genealogica, come risulta dalla dettagliata ricostruzione di quei difficili rapporti nel bel saggio di Claudia Salaris che arricchisce il catalogo, risollevando l´antica questione delle precedenze e delle influenze, anche se il piccolo olio ancora cubofuturista di Rodcenko, Figura femminile (1915), sembrerebbe tradire influssi proprio di Boccioni, mescolato a elementi primitivisti.
E alla fine del percorso espositivo il visitatore curioso può ancora godersi un breve filmato che riassume la vivacità culturale di quegli anni rivoluzionari e vedere Majakovskij mentre declama i suoi versi o conciona il pubblico, o recita con l´amata Lili Brik in alcuni fotogrammi tratti da Incatenata dal film. Un unico appunto: dispiace trovare nel catalogo (Silvana Editoriale, 128 pagg., 18 euro) assurdità traduttorie che trasformano, tra l´altro, L´arciere dall´occhio e mezzo in un improbabile Bersaglieri da un occhio e mezzo, ma soprattutto una traslitterazione dei nomi russi che urta con l´uso da tempo assestatosi in Italia.

Repubblica 22.4.12
Gabriel Garzia Marquez
Sepúlveda: "Quando il mio amico Gabo fu scambiato per il suo gemello brutto"
L’autore cileno racconta il collega premio Nobel e un ammiratore insistente
di Luis Sepulveda


l sei marzo, quel ragazzo che si chiama Gabriel García Márquez, Gabo per gli amici, ha compiuto ottantacinque anni e vi invito, in suo omaggio, ad ascoltare questa storia che solo pochi intimi conoscono.
Nel 1990, Gabo e io ci incontrammo a Santiago: lui tornava in Cile dopo aver giurato che non vi avrebbe più messo piede finché la dittatura fosse rimasta al potere, io tornavo dall´esilio.
Gabo era stato incaricato di consegnare il premio per la Difesa dei Diritti Umani al vescovo luterano Helmut Frenz, un tedesco che aveva rischiato la vita per i perseguitati, e dato che io stavo rientrando dopo tanti anni, i compagni della rivista Análisis, organizzatori del premio insieme all´Academia de Humanismo Cristiano, avevano scelto me come anfitrione di quel magnifico e venerato scrittore.
Dopo tre giorni che eravamo a Santiago, mentre facevamo colazione con frutti di mare al mercato centrale, Gabo mi raccontò che una volta il suo caro amico Pablo Neruda lo aveva invitato a mangiare in un posto di cui non ricordava il nome, ma che aveva i tavoli e le sedie sulla sabbia di una spiaggia dove i granchi passeggiavano indifferenti all´appetito dei commensali e i nobili gronghi, i graziosi sgombri, le flemmatiche sogliole e altre specie di mare saltavano con piacere sul tavolo.
Vista la descrizione, gli dissi che doveva trattarsi per forza della Caleta El Membrillo, a Valparaíso, e che, pur non sapendo se il posto era ancora come lo ricordava, potevamo andare a mangiare sul mare.
Partimmo con una vecchia Simca presa in prestito da un compagno di Análisis e due ore dopo eravamo in un ristorante che, in effetti, aveva ancora i tavoli e le sedie sulla spiaggia.
Ci sedemmo e ordinammo un antipasto di locos in salsa verde e una brocca di dissetante vino pipeño che aveva tutto il sapore del Cile meridionale. Il cameriere ci mostrò una cesta con dei pesci che ancora guizzavano, noi scegliemmo un grongo dalle squame argentee, gli chiedemmo di prepararlo alla griglia soltanto con un po´ d´aglio e cominciammo a mangiare.
Eravamo tutti presi a gustarci i frutti di mare, quando mi accorsi che un tizio, seduto insieme a una donna a un tavolo vicino, guardava Gabo con insistenza. Capii che l´aveva riconosciuto e sperai che si trattasse di una persona discreta. Avvertii Gabo, ma lui replicò: «Non importa, basta che non si metta fra me e i locos».
Continuammo a mangiare, passammo dai locos al saporito grongo del Pacifico; il tizio però ci guardava con sempre maggior insistenza, finché non riuscì più a contenersi, si alzò e venne verso di noi.
Io fui completamente ignorato. L´uomo si chinò verso Gabo e senza smettere di fissarlo gli disse: «Amico, di sicuro te l´hanno già detto tante volte, ma tu sei uguale preciso a García Márquez. È incredibile quanto vi somigliate».
Gabo, senza perdere la calma, gli rispose che in effetti glielo avevano già detto in svariate occasioni.
Il tizio non se ne andava, fissava Gabo e scuoteva incredulo la testa, così mi rivolsi a lui in tono energico: «Sì, gli assomiglia, lo sappiamo, adesso però il mio socio e io stiamo trattando un affare, perciò ti saremmo grati se tornassi al tuo tavolo».
L´uomo se ne andò con una smorfia di disprezzo, ma continuò a fissarci con insistenza da lontano commentando con la sua accompagnatrice. Come temevo, di lì a poco era di nuovo da noi. Mi ignorò ancora una volta, posò una mano sulla spalla di Gabo e guardandolo negli occhi dichiarò: «Senti, amico, non so se sai che alla televisione c´è un concorso che si chiama "Cerca il sosia". Se ti presenti, vinci, sono sicuro, e io ti posso anche raccomandare a un mio amico che lavora lì. Vinci di certo, cazzo, sembri il fratello gemello di García Márquez. È incredibile!».
Gabo mi guardò e pronunciò una frase che avrebbe potuto benissimo appartenere al colonnello Aureliano Buendía, ma che io tardai vari secondi a capire: «Se stai mangiando del pesce o mentendo, ricordati di stare bene attento».
In altre parole, non aveva intenzione di staccarsi dal grongo e toccava a me far sloggiare il tizio.
«Sì, amico, è uguale preciso a García Márquez e ti siamo grati per averci detto del concorso. Andremo in televisione, anch´io sono sicuro che il mio socio vincerà, ma adesso, per favore…».
Il tizio bofonchiò un okay e tornò al suo tavolo.
«Non parlavi mica sul serio riguardo al concorso» borbottò Gabo mentre ordinavamo mote con huesillos, il dessert cileno per antonomasia.
Stavamo maledicendo il Nescafé che ci avevano servito alla fine, quando il tizio e la sua accompagnatrice si alzarono in piedi per andarsene, ma prima di uscire lui tornò da noi e buttò lì una frase che merita di passare alla storia. Disse: «La somiglianza è davvero grande, non si può negare, ma a guardarti bene tu sei più vecchio e più brutto di García Márquez».
Da quel giorno, ogni volta che ci vediamo, il mio caro, ammirato, venerato Gabo mi domanda: «Lucho, ti ricordi quella volta che ero più vecchio e più brutto di me stesso?».
Come potrei mai dimenticare questa storia, vissuta a fianco di un gigante che si chiama Gabriel García Márquez, Gabo per gli amici?
Perdite irreparabili
Il dottor Emerson era orgoglioso di essere una persona avveduta, anche se nell´ambiente familiare si prendeva la libertà di definirsi «cauto». Il dottor Emerson era sicuro che il suo talento nel precorrere gli avvenimenti fosse una questione di natura organica, un dono riservato agli spiriti vincenti che, per quanto innato, si doveva coltivare.
A tale scopo si appoggiò a biografie e pian piano scoprì, fra gli altri commoventi dettagli, che Federico il Grande vedeva nei suoi attacchi di gotta evidenti avvisi di contese territoriali con i francesi. Henry Ford, invece, considerava le sue rotule due oracoli infallibili e ogni cambiamento di umore osseo era un fattore chiave nella gestione dell´industria automobilistica. Nelson Rockefeller, da parte sua, praticava la lettura epidermica e bastava una minima traccia di irritazione in viso o di brufolo incipiente per allontanarlo dalla borsa.
Il dottor Emerson confidava nei vaticini offerti dalla sua abbondante villosità nasale. In bagno, uno specchio rotondo che ingrandiva gli permetteva di studiare l´ispida vegetazione delle sue narici. Quando la vedeva uniforme sospirava compiaciuto e, mentre si preparava con estrema cura, si consentiva di sperare nella pace nel mondo. Ma se un pelo, un singolo pelo, spuntava insolente come le antenne di un insetto, esclamava: «No, con me non funziona, caro Gregor Samsa». E subito lo potava con le forbici da baffi enumerando le precauzioni da adottare quel giorno.
Il sistema era quasi infallibile. Solo un difetto ne macchiava la perfezione: non gli diceva da quale parte si sarebbe presentata la situazione a rischio, per cui era costretto ad accollarsi, esprimendosi in percentuale, novantanove misure precauzionali superflue, con conseguente spreco di tempo ed energia, cosa che lo metteva di malumore.
Quella mattina, il dottor Emerson tagliò il mezzo centimetro di peli che gli spuntava dalla cavità nasale sinistra e si mise a pensare a quali precauzioni prendere. Innanzitutto decise di rinviare la produzione della nuova linea di fazzoletti usa e getta. La snif S. p. A. era al primo posto nelle vendite dei fazzolettini classici a due veli, e forse il pelo-avviso si riferiva alla scarsa convenienza di lanciare sul mercato quelli più consistenti, «morbidi e porosi come la superficie lunare» secondo la pubblicità ideata dall´ufficio marketing.
Mentre faceva colazione ascoltò il notiziario del mattino e venne a sapere con orrore che i terroristi non solo tenevano in ostaggio da più di due settimane un industriale del settore della carne, ma per di più ne avevano appena sequestrato un altro della plastica.
Il dottor Emerson ebbe un sussulto. Posò la tazza sul piattino e si diresse a precipizio in bagno. Davanti allo specchio, scoprì che anche dalla cavità nasale destra spuntava insolente un pelo di qualche millimetro troppo lungo, rompendo la simmetria da spazzolino degli altri.
«Accidenti, se la scampo stavolta è davvero per un pelo».
Il dottor Emerson telefonò alla snif S. p. A. dando ordine che gli mandassero due guardie del corpo del servizio di sicurezza.
Il tragitto dal quartiere residenziale agli uffici della snif S. p. A., in centro, non presentò problemi e quando il dottor Emerson uscì dalla Mercedes blindata, nel parcheggio sotterraneo, sospirò compiaciuto. Immaginava la frustrazione dei cecchini nascosti in qualche edificio o l´ira dei rapitori che, seduti in un furgone rubato, avrebbero atteso invano il suo passaggio nei consueti viali.
Una volta nel suo ufficio, la segretaria si avvicinò diligente per sbrigare le prime incombenze. Gli consegnò la mazzetta dei giornali del mattino, che il dottore rifiutò con gesto sprezzante, e poi il vassoio con la posta.
Al dottor Emerson piaceva intuire il tenore delle lettere, prima ancora di aprirle con un tagliacarte di bronzo, leggendo i dati del mittente. Le buste allungate contenevano gli estratti conto bancari dei suoi conti correnti personali. Una lettera inviata dalla Svizzera era senza dubbio della figlia maggiore, che gli avrebbe parlato della mancanza di neve e sicuramente gli avrebbe chiesto un vaglia. Così, lasciò da parte la posta poco allettante, finché non arrivò a una busta rigonfia e senza mittente.
Il timbro era della città, di un ufficio postale di quartiere, e portava la data del giorno prima. La punta del tagliacarte stava già sfiorando l´angolo della busta, quando la villosità nasale gli provocò un preoccupante solletico.
«Ecco cos´era. Una lettera esplosiva. Criminali. Non si fermano davanti a niente» esclamò il dottor Emerson, posando la busta con tutte le cautele del caso.
La prima misura adottata dagli artificieri fu lo sgombero del palazzo e poi, con l´aiuto di un robot cingolato che chiamavano Charlie, munito di bracci con pinze e di un occhio videotrasmittente, passarono a manipolare la busta.
Nel sotterraneo, il dottor Emerson e un ufficiale di polizia seguivano le operazioni da un monitor a colori.
«Perché non la fanno scoppiare una volta per tutte?» domandò il dottore.
«Charlie costa milioni. Non possiamo distruggere il robot. Cercheremo di disinnescare il detonatore» rispose l´ufficiale.
La busta, passata da Charlie a una telecamera a raggi X, lasciava intravedere qualcosa che sembrava un foglio di carta piegato in quattro e una massa informe.
«Ammonite? Esplosivo al plastico?» chiese il dottor Emerson a disagio per il silenzio.
«Non lo sappiamo. È una sostanza troppo molle. Ordineremo a Charlie di aprire la busta».
«Era ora. Dopo tutto quel robot lo abbiamo pagato noi contribuenti».
Charlie infilò le sue dita-pinze in un angolo della busta rigonfia e le mosse come forbici. Più tagliava, più il dottor Emerson si avvicinava allo schermo per non perdere un dettaglio dell´esplosione. Ma non accadde nulla a turbare il silenzio dell´ufficio deserto.
Subito dopo Charlie estrasse una massa visibilmente vischiosa e gocciolante e la depositò sulla scrivania.
«Alfa Uno. Può entrare» ordinò l´ufficiale all´interfono.
Alfa Uno risultò essere un artificiere, dai movimenti lenti a causa della tuta antischegge. L´uomo entrò nell´ufficio e con gesti cauti prese in mano il foglio piegato in quattro.
Il dottor Emerson sentì l´insolente risata dell´artificiere e quando stava per domandarne le ragioni, infuriato, lo schermo gli sbatté in faccia un impareggiabile primo piano del foglio aperto.
Era scritto a mano a caratteri cubitali e diceva: «I suoi dannati fazzoletti snif non resistono a una buona soffiata. Imbroglione. Le allego tutto il moccio dell´ultimo raffreddore che mi sono ritrovato fra le dita. Non comprerò mai più i suoi prodotti».
Il dottor Emerson si portò pollice e indice di entrambe le mani alle narici. Poi, con un movimento brusco e deciso, si strappò due ciuffi di peli. E non gridò, malgrado il dolore provocato da quella depilazione selvaggia. Il dottor Emerson era un uomo di saldi principi e quell´autoflagellazione era il castigo che s´infliggeva per le perdite irreparabili.
© 2012 by arrangement with Literarische Agentur Mertin
© 2012 Ugo Guanda Editore S. p. a
(Traduzione di Ilide Carmignani)