lunedì 23 aprile 2012

l’Unità 23.4.12
Il partigiano Bottazzi: «Non abbiamo invitato Alemanno e Polverini per evitare proteste»
Via Rasella Ieri il presidio dei giovani Democratici: questo è il luogo simbolo della Resistenza
25 aprile: l’Anpi torna a sfilare a Roma. In memoria di Sasà
Le parole di Gramsci su uno striscione: «Odio gli indifferenti, vivo, sono partigiano»
«A Roma si respira un clima degenerato». Dopo l’ultima provocazione nei confronti del partigiano Bottazzi, contestato in un liceo, l’Anpi torna a sfilare il 25 aprile. In memoria di Sasà Bentivegna
di Riccardo Valdesi


Dopo due anni di manifestazione stanziale a Porta San Paolo quest' anno torna il corteo dell'Anpi che, il 25 aprile, sfilerà a Roma a partire dalle 9.30. Lo annuncia il vicepresidente vicario dell'Anpi Roma Ernesto Nassi, sottolineando che il 25 aprile 2012 «sarà dedicato in particolare ai partigiani recentemente scomparsi: dal compianto Sasà Bentivegna a Mario Bianchi, da Ferdinando De Leoni a Alba Meloni». Il «problema sostiene è che l'Italia ha dimenticato troppo in fretta la guerra per la liberazione. Noi sfileremo per ricordarla. L'invito è esteso a tutti coloro che si sentono democratici e antifascisti, poi chi vuole venire è benvenuto».
STORIE DI RESISTENZA
«Negli scorsi anni non abbiamo fatto il corteo perché volevamo valorizzare Porta San Paolo, la piazza dove è nata la Resistenza. Ora che il messaggio è arrivato alla città, riprendiamo l'abitudine del nostro corteo che speriamo sia grande e partecipato prosegue Nassi -. Soprattutto in questo momento storico, in cui la situazione a Roma sta degenerando, è bene che si veda che nella città medaglia d'oro per la Resistenza, ci sono moltissimi democratici che ricordano il sacrificio dei partigiani». La «degenerazione» di cui parla Nessi permea purtroppo le città d’Italia, e a Roma spesso assume tratti preoccupanti. Aggressioni, provocazioni, scritte e insulti sui muri. Ed è proprio di venerdì il caso di Mario Bottazzi, divenuto partigiano a 16 anni, che dopo essere stato invitato a parlare della sua esperienza al liceo romano Avogadro è stato violentemente contestato da un gruppo di fascistelli. Proprio Bottazzi, che fa parte del direttivo provinciale dell’Anpi, ha comunicato che al corteo non sono stati invitati né il sindaco di Roma Alemanno, né il presidente della Regione Lazio Renata Polverini. «Questo ha spiegato Bottazzi per evitare le contestazioni che già ci sono state negli anni passati». Il corteo che partirà da Arco di Costantino percorrendo viale Aventino si concludera a Porta San Paolo, interverranno i partigiani, alcuni studenti, tra cui quelli recentemente aggrediti al liceo Righi, lavoratori in lotta per il posto di lavoro, sindacalisti e il Coordinamento Antifascista a difesa dell'ordine democratico e della Costituzione.
IL PRESIDIO IN VIA RASELLA
Intanto ieri i giovani Democratici si sono riuniti in via Rasella, a Roma, in vista delle celebrazioni del 25 Aprile, per manifestare e ribadire «il valore della Resistenza». «Odio gli indifferenti, vivo, sono partigiano». Questa frase di Gramsci campeggiava su uno striscione esposto nella strada. «È il nostro omaggio anche alla memoria di Bentivegna e di Bottazzi, il partigiano contestato al liceo Avogadro di Roma da Lotta studentesca», ha spiegato il segretario dei giovani Democratici di Roma, Domenico Romano. «Perché via Rasella? continua Romano -. È il primo luogo della Resistenza romana e nazionale. Vogliamo ricordare quanto accaduto per le generazioni future, per riaffermare i valori dell' antifascismo».
Il presidente dei giovani Democratici romani, quindi, ha ricordato la figura di Rosario Bentivegna, il partigiano di recente scomparso, e ha commentato la contestazione a Bottazzi. «Lotta studentesca è un'organizzazione a impianto neofascista ha detto se possono permettersi di contestare un partigiano, è solo grazie alla Resistenza dei partigiani». Presente alla manifestazione il vicepresidente dell'Anpi di Roma Aldo Pavia che ha letto ai ragazzi un passo di uno scritto di Antonio Gramsci: «Cari compagni e care compagne, amici, fratelli, sorelle, agitatevi perché abbiamo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra forza. Studiate, perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza». Nel salutarsi i ragazzi, dopo aver cantato Bella Ciao, si sono dati appuntamento al corteo dell’Anpi del 25 aprile.

Corriere 23.4.12
Resistenza, un passato che è finestra sul futuro
di Francesco Alberti


OSIMO (Ancona) — I 120 mila partigiani morti nella lotta contro tedeschi e fascisti. La solidarietà della gente di campagna verso gli sfollati dalle città, ai quali non si negava un pezzo di pane o un giaciglio. Le donne e la Resistenza: primi passi di un inserimento sociale poi sfociato in un processo di graduale emancipazione. Le atrocità della Shoah nella sua versione italiana. Tasselli di una storia che diventa memoria e quindi linfa per un Paese che voglia sentirsi tale, anche se spesso non ci riesce. C'è anche questo, e molto di più, nel Dna del premio nazionale Anpi, giunto alla nona edizione, che, partendo dal ricordo di Renato Benedetto Fabrizi, antifascista osimano condannato, esiliato e infine ucciso in cella dai fascisti a 27 anni, vuole attualizzare e rinnovare i valori che, a dispetto di revisionismi non si sa quanto sinceri, fanno del 25 aprile non una cartolina del passato, ma una finestra sul futuro.
Una sintesi resa bene, ieri sera, al teatro «La Nuova Fenice» di Osimo, dall'alternarsi di parole e filmati su passato e presente dell'Italia. Ognuna delle nove persone che hanno ricevuto il premio per il contributo dato nei rispettivi campi d'azione ai valori nati dalla Resistenza, rappresenta un frammento di una narrazione iniziata più di sessant'anni fa. Un lungo viaggio. Dagli aspetti meno conosciuti della guerra italiana sul fronte dei Balcani attraverso gli scritti di Elena Aga Rossi. Al lavoro storico e divulgativo di Luigi Bizzarri, capostruttura di Rai3, con «La grande storia». Dalla testimonianza di Maria Lisa Cinciari Rodano, partigiana, prima donna a ricoprire la carica di vicepresidente della Camera, quindi europarlamentare, ripresa in un vecchio filmato mentre, al fianco di Nilde Iotti, accoglie nell'agosto del 1964 la salma di Palmiro Togliatti. Il direttore del «Corriere della Sera», Ferruccio de Bortoli, ha ricevuto il premio per l'impegno con il quale, da presidente del Memoriale della Shoah di Milano, si è attivato per fare del Binario 21, situato nei sotterranei della Stazione Centrale milanese, un luogo dedicato alla memoria. Da lì, il 30 gennaio del 1944, 650 ebrei detenuti a San Vittore furono caricati sui treni con destinazione Auschwitz. «Una pagina per lungo tempo non letta» l'ha definita de Bortoli. Il valore dell'unità declinato sul versante della lotta al crimine è stato il tema affrontato da Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria della Dia. Premiati la presidentessa di Actionaid, Orietta Maria Varnelli, il musicista Marino Severini e gli storici Emilio Gentile e Franco Brunetta.

Repubblica 23.4.12
Lettere dai partigiani
Cari ragazzi, ricordatevi del 25 aprile
di Paola Soriga

qui

l’Unità 23.4.12
Francia 2012 Il socialista supera il 28%, Sarkò staccato di quasi 3 punti. Eclatante risultato per Le Pen
Aubry: «I francesi hanno sfiduciato il presidente». Affluenza, smentite le previsioni: alle urne l’80%
Hollande alla conquista dell’Eliseo «Cambierò la Francia e l’Europa
L’incognita del Front National: per l’estrema destra è il miglior risultato di sempre nella storia francese
Marine Le Pen, la «sorpresa» nera
di Marina Mastroluca


François Hollande in testa al primo turno delle presidenziali francesi. Andrà al ballottaggio il 6 maggio con Sarkozy. Successo per la destra nazionalista di Marine Le Pen: un elettore su cinque ha votato per lei.

La «bella sorpresa» inutilmente attesa da Nicolas Sarkozy, mentre anche tra i suoi ministri erano in tanti a scuotere la testa, ecco quella spinta della «maggioranza silenziosa» non è arrivata. François Hollande è in testa, intorno al 28,3 per cento secondo gli exit poll, il capo dell’Eliseo segue con il 25,8, i sondaggi non si ingannavano. Lo scarto si mantiene anche nelle prime proiezioni. Per Sarkozy è un brutto colpo, ai limiti dell’umiliazione, una «terribile sconfessione» chiosa lapidaria la segretaria socialista Martine Aubry. Nessun presidente uscente era arrivato secondo al primo turno dal 1958, quando venne instaurata la Quinta repubblica. Sarkozy è secondo. Seguono a ruota la leader della destra nazionalista Marine Le Pen al 18,5 per cento. Quarto Jean-Luc Mélenchon, leader del Front de Gauche, fermo al 11,7% contro il 13-15% previsto. Va male il candidato centrista Francois Bayrou, che si ritaglia appena l’8,5%. Molto dietro la verde Eva Joly al 2% e gli altri quattro candidati in gara.
«VOLTARE PAGINA»
«Questa sera divento il candidato di tutte le forze che vogliono chiudere una pagina e aprirne un’altra sono le prime parole di un soddisfatto Hollande, la Francia “normale” -. Voglio orientare di nuovo l’Europa sul cammino della crescita e dell’occupazione».
Prima di tutto bisognerà fare i conti con la nuova geografia disegnata dal voto. Se sorpresa c’è stata nelle elezioni di ieri, è stata quella di Marine Le Pen. Il suo terzo posto era stato previsto dai sondaggi, ma non l’ampiezza della sua affermazione: il Front National conquista quasi un quinto dell’elettorato francese. Marine non ripete l’exploit di suo padre Jean-Marie, che nel 2002 mise fuori gioco il socialista Lionell Jospin e arrivò al ballottaggio con Chirac, un duello tra centro-destra e destra estrema che fu uno shock per la sinistra francese. Merito allora della scarsa affluenza ai seggi, una spiegazione che oggi non si può invocare. La partecipazione al voto è stata più ampia del previsto, intorno all’80%, appena un po’ sotto i dati del 2007.
Si fa festa nel quartier generale di Le Pen. Un po’ deluso invece Mélenchon, che però rilancia su Twitter: «Abbiamo aperto una breccia di speranza nell’Europa intera, amici. Le premesse di una rivoluzione dei cittadini sono poste». Intanto, però il 6 maggio invita a votare contro Sarkozy, «senza chiedere niente in cambio». Anche Eva Joly dà il suo sostegno ad Hollande.
Conti alla mano la partita del ballottaggio è ancora da giocare, anche se i sondaggi pre-elettorali facevano pendere tutta a favore di Hollande la sfida con Sarkozy: 58 a 42 per cento, una distanza difficile da colmare. Anche per uno abituato a «sudare sette camicie», a ribaltare la sorte sparigliando le carte in tavola. Al suo quartier generale parlano di un «voto di crisi» e promettono di dare battaglia.
Sarkozy riunisce il suo stato maggiore già nel pomeriggio, mentre sul web nel Belgio francofono si scatena una tempesta di anticipazioni sugli exit poll. Certo un’alleanza elettorale con la destra estrema di Marine Le Pen sarebbe un salto culturale, nonostante il Front National in nuova versione abbia cercato di stemperare il suo dna xenofobo in una più generica politica anti-immigrazione non lontana dalle posizioni elettorali di Sarkozy, pronto a chiudere le frontiere e a rimettere in discussione il trattato di Schengen. Ma quello di Le Pen resta un partito anti-europeista, che ha fatto uno slogan della sfida alle elites dell’aristocrazia politica e finanziaria Ue, Sarkozy incluso, e si presenta come partito anti-sistema. «Stasera Marine Le Pen diventa capo dell’opposizione», dice il direttore della campagna elettorale della candidata del Front National. «Nicolas Sarkozy è ormai andato». Le indicazioni di voto, comunque, saranno annunciate solo il 1 ̊ maggio.
I numeri potrebbero esserci. Ma il voto non è semplice aritmetica, una saldatura a destra finirebbe per aprire falle al centro e non è detto che alla fine i conti anche politici possano tornare. Se Sarkozy ha corteggiato l’elettorato più conservatore, i risultati dicono che a destra qualcuno è più convincente di lui. E un riposizionamento al centro a questo punto sarebbe tardivo e probabilmente inutile.
L’alleato potenziale, Bayrou, ha perso il capitale elettorale che aveva solo cinque anni fa, quando incassò il 19% dei voti, con un solido terzo posto. Allora rifiutò di esprimere un’indicazione a favore di Sarkozy o della socialista Ségolène Royal, lasciando liberi i suoi elettori. Stavolta ha meno da offrire, anche se dall’Eliseo, prima del voto, è arrivata qualche promessa, persino l’ipotesi di un suo premierato. Il suo pacchetto di voti alla fine potrebbe fare davvero la differenza, da una parte o dall’altra. Ma resta da vedere se Bayrou, europeista convinto, riuscirebbe a convivere con la destra estrema di Le Pen.

l’Unità 23.4.12
Intervista a Benoit Hamon
«Giustizia sociale e crescita: la Francia può voltare pagina»
Il portavoce del Ps: «Siamo riusciti a parlare a tutta la nazione, indicando una via d’uscita dalla crisi: una politica che non soccombe al diktat dei mercati»
di Umberto De Giovannangeli


Al 10 di Rue de Solférino, quartier generale del Ps a Parigi, si respira l’atmosfera delle grandi occasioni. I più stretti collaboratori di Hollande danno conto di un sentimento impastato di euforia e di consapevolezza che il primo passo è stato fatto verso la riconquista dell’Eliseo ma la partita è ancora aperta. Tra i presenti, e tra i più impegnati, c’è Benoit Hamon, portavoce del Ps, 45 anni, uno degli astri nascenti nel firmamento politico socialista. Al telefono con l’Unità, subito dopo le prime proiezioni trasmesse da tutti i canali tv, Hamon non nasconde la soddisfazione: «Il cambiamento è iniziato – rimarca il portavoce del Ps -: da oggi questo non è più solo lo slogan della campagna elettorale di François, ma è ciò che emerge dalle urne. Questo risultato ci darà una spinta ulteriore, altro entusiasmo, per affrontare le due settimane che ci separano dal 6 maggio. Il cambiamento è davvero iniziato, la dignità ha pagato, i francesi hanno sfiduciato Sarkozy. Ora, però, non bisogna mollare. C’è da riflettere sul risultato ottenuto dalla destra estrema di Marine Le Pen, e guardare a quanti in questo primo turno hanno scelto di bocciare la presidenza Sarkozy orientandosi verso il centro moderato e verso la sinistra radicale. Il primo tempo è andato bene, ma ancora nulla è vinto». Mentre parliamo, i canali televisivi danno le prime proiezioni a urne chiuse: Hollande è in testa...
«Quella che ci attende è una lunga notte di attesa e di speranza. Le prime proiezioni confermano i dati in nostro possesso: il cambiamento è iniziato, e il risultato del primo turno, che è ancora migliore di quello che emergeva dagli ultimi sondaggi, darà a tutti i nostri militanti ancor più energia e determinazione in queste due settimane che ci separano dal 6 maggio. C’è anche da tener conto che mai nessun presidente uscente era arrivato secondo alla prima tornata da quando nel 1958 venne instaurata la Quinta Repubblica con l'attuale sistema elettorale. Al di là del dato complessivo, ciò che emerge è la capacità di Hollande di ottenere buoni risultati anche in dipartimenti tradizionalmente più legati alla destra. Vuol dire che siamo riusciti a parlare a tutta la nazione, indicando una via d’uscita dalla crisi che supera vecchi steccati ideologici operando al tempo stesso una netta discontinuità, soprattutto nel campo economico e sociale, con la presidenza Sarkozy».
Ora si tratterà di costruire alleanze in vista del ballottaggio.
«Dobbiamo prima analizzare nel dettaglio le indicazioni del voto. Quel che è certo, è che non rincorreremo il favore di questo o quel candidato, proponendo accordi di vertice o prefigurando future alleanze di governo. La Francia ha la possibilità di voltar pagina, e la sinistra di tornare a governare sulla base di un programma che attualizza principi e valori che sono patrimonio della sinistra e dei democratici: giustizia sociale e fiscale, rigore coniugato all’equità, uno sviluppo sostenibile, la politica che non soccombe al potere finanziario e non subisce i diktat dei mercati. Il patto con i francesi di Hollande non è un libro dei sogni ma un insieme di proposte molto concrete che delineano, per l’appunto, il cambiamento possibile. Quanto agli elettori che al primo turno hanno optato per Mélenchon (il candidato del Front de Gauche, ndr), sono convinto che non sceglieranno di astenersi al ballottaggio, confido sulla loro intelligenza politica, e le prime dichiarazioni di Mélenchon a urne chiuse confortano questa convinzione, e lo stesso si può dire per l’appello al voto a Hollande il 6 maggio lanciato da Eva Joly (la candidata dei Verdi, ndr). Quello per Hollande non è solo un voto utile, è anche il modo per evitare di consegnare la Francia al duo Sarkozy-Le Pen».
Le Le Pen è terza, con un risultato superiore alle aspettative...
«Un dato su cui riflettere ma che non è sommabile meccanicamente a quello ottenuto da Sarkozy, perché nel partito del presidente è forte ancora un sentimento antifascista,anchesenonvaaffattosottovalutata la presa elettorale di un partito, il Front National, dai marcati tratti xenofobi, il cui populismo antieuropeista ha fatto presa soprattutto tra i ceti più deboli e colpiti dalla crisi».
L’ago della bilancia, stano ai risultati del primo turno, sembra essere il centrista Francois Bayrou.
«Molti sono gli “aghi della bilancia” a cominciare da quanti hanno scelto il non voto al primo turno. Con Bayrou il confronto è già aperto, e da parte nostra c’è la piena disponibilità a discutere con lui di come far ripartire la crescita, coniugando rigore e sviluppo, un binomio inscindibile per Hollande, il presidente della svolta. Per la Francia, per l’Europa».

l’Unità 23.4.12
Intervista a Stavros Lambrinidis
«Con questa vittoria la spinta progressista si espanderà nella Ue»
L’ex ministro greco «Dobbiamo riportare la solidarietà in Europa, la cosa peggiore è chiudersi a riccio. La crisi? Non è la Grecia che ha sbagliato, è sbagliata la ricetta»
di Umberto De Giovannangeli


C’è un Paese a cui tutti guardano con preoccupazione. Un Paese il cui nome sembra divenuto sinonimo di pericolo, di contagio da evitare, un default fatto Stato. Quel Paese è la Grecia. Ma la Grecia raccontata dal suo ex ministro degli Esteri, Stavros Lambrinidis, 50 anni, europarlamentare, uno dei leader del Pasok, è un’altra. Lambrinidis è stato tra i protagonisti del II Meeting internazionale dei leader parlamentari progressisti promosso nei giorni scorsi a Roma dal Pd e dal Gruppo parlamentare alla Camera. L’Europa dei progressisti punta sulla crescita. La crescita è uno dei punti chiave del programma di François Hollande. Partendo dalla traumatica esperienza del suo Paese ed estendendo lo sguardo all’Europa, una domanda è d’obbligo: perché non c’è crescita?
«Una delle risposte è nella tendenza ideologica chiara al consolidamento di bilancio e all’austerità. Si sente continuamente dire che sarà l’austerità a portare crescita. Un altro aspetto è il vuoto di valori, superiore persino al vuoto della politica, unito a quest’idea di punizione, l’idea che ci siano Paesi buoni e Paesi cattivi, un’idea che si trasferisce sui popoli, divisi fra buoni e cattivi, un gap da affrontare con maggiore serietà che la crisi politica, se continuiamo a accreditare questi valori non usciremo più dalla crisi, continueremo a flagellarci senza creare nulla di positivo. La Grecia è in tempesta, ma non è la causa della tempesta, è il cavallo di Troia che tutti hanno attaccato, che ha prodotto la speculazione del mercato, mentre gli altri governi non ammettevano la loro politica sbagliata. La Grecia ha fatto i cambiamenti politici più duri in soli 2 anni. In una democrazia si può vivere quest’austerità senza dare speranza alle persone? Il problema non è che la Grecia non ha applicato la ricetta, il problema è che la ricetta è sbagliata».
E da dove dovrebbe partire una sostanziale correzione di rotta? «Dobbiamo riportare la solidarietà in Europa, la cosa peggiore è rinchiudersi nella propria conchiglia. Ora c’è una sorta di razzismo fra di noi, questo è uno sviluppo orrendo e l’errore più grave che possiamo fare. È fondamentale affrontare il deficit democratico che è anche in Europa, la gente guarda ai Parlamenti con disprezzo, sentono che il potere si è spostato, noi siamo qui a parlare ma altri, che non sono stati eletti, prendono le decisioni. Costruiamo la rete progressista che sappia riportare speranza in tutta Europa. Quanto al mio Paese, una cosa mi sento di sottolineare con orgoglio: molti speculatori hanno scommesso sul crollo della Grecia e si sono sbagliati. Continueremo a dimostrarglielo».
Per restare alla crisi, può indicare uno strumento che avrebbe dovuto essere attivato e non lo è stato? «Gli eurobond. L’Europa avrebbe dovuto decidere in tal senso da tempo, accompagnando l’adozione degli eurobond con la tassazione sulle transazioni finanziarie, così come avrebbe dovuto delineare un ruolo più attivo, decisionale, della Banca centrale europea, sul modello della Federal reserve americana. Ma non l’ha fatto perché bloccata, divisa al proprio interno, prigioniera di una logica angusta, monetarista, che ritiene possibile abbattere il deficit di bilancio, contenere l’indebitamento pubblico solo con rigide misure di austerità e senza misure che favoriscano la crescita. La finanza e in particolare chi ha speculato sulle debolezze dell’Ue deve pagare una quota per il risanamento. Sia chiaro: senza rigore non ci sarà crescita, e chi lo nega vende illusioni. Il Pasok ha dimostrato di sapersi assumere anche l’onere di decisioni gravi, impopolari, e lo ha fatto avendo a cuore l’interesse nazionale. Ma con altrettanta chiarezza va detto che non sarà la tecnocrazia a portare fuori dalla crisi l’Europa né a ridare un futuro alla Grecia: la parola deve tornare alla politica, ad una buona politica. Il ciclo conservatore è alle corde: una vittoria di Hollande in Francia potrebbe innescare una forte spinta progressista che si rafforzerebbe se dalle prossime elezioni in Grecia, e in quelle del 2013 in Italia e Germania, uscissero rafforzate le forze di sinistra e progressiste».
A proposito di errori. È stato "un errore" consentire alla Grecia di accedere all'euro: così si espresse Sarkozy in un'intervista tv...
«La mia risposta è secca: speriamo che il 6 maggio queste affermazioni siano di un ex presidente».
Il rigore, dunque. Ma qual è la seconda fase da intraprendere per portare fuori dalla crisi l’Europa, a cominciare dai Paese più esposti?
«Il punto di partenza, la premessa fondamentale, è che nessuno, neanche lo Stato più forte, può salvarsi da solo e che non esistono in Europa pesi morti di cui sbarazzarsi. Ci si salva insieme o insieme, come Europa, saremo condannati alla marginalità in un mondo globalizzato. L’altro punto chiave è che la disciplina di bilancio non può da sola superare la crisi, che servono misure per la crescita e per una maggiore integrazione dell’Europa. Da qui occorre partire per ridare un futuro all’Europa. Un’Europa progressista».

La Stampa 23.4.12
Francia: la sorpresa
L’estrema destra anti-Sarkozy batte ogni record
Marine Le Pen supera anche i risultati del padre “Siamo noi la vera opposizione. Ed è solo l’inizio”
“Il Fn sarà decisivo al ballottaggio, il primo maggio la leader dirà ai suoi per chi votare”
di Marco Bresolin


«Le ho passato il testimone, lei corre più veloce di me». Ha ragione, Jean-Marie Le Pen. Sua figlia Marine, quella che «non solo ho fatto - dice papà - ma che ho anche scelto», ha portato il Front National dove nemmeno lui c’era riuscito in quasi40annidistoriapolitica. La grande sorpresa di questo primo turno ha infatti il volto sorridente incorniciato dai capelli biondi di Marine Le Pen, il «terzo uomo» della tornata elettorale. Forse la vera vincitrice.
Un quinto degli elettori ha votato per lei, per le sue ricette ultra-protezioniste e per la sua «precedenza ai francesi» nei posti di lavoro e nelle case popolari. Esattamente dieci anni (e un giorno) fa, suo padre aveva eclissato il socialista Jospin, conquistando il 16,86% e soprattutto la sfida con Chirac al ballottaggio (costringendo gli elettori di centrosinistra a votare per quest’ultimo). Ieri lei ha fatto molto di più: ha messo nell’angolo il «vicino di casa» Sarkò, sommerso dai fischi dei suoi sostenitori ogni volta che il suo volto appariva sugli schermi nel quartier generale del Front National. «Siamo la vera opposizione alla sinistra» grida Marine dal palco. Parla dell’Ump come di «un partito indebolito» e subito scattano i «buu», dice che «niente sarà più come prima» e i suoi «patrioti» si spellano le mani. Poi prende in prestito lo slogan rosso del maggio 68: «Ce n’est qu’un début, continuons le combat» («Siamo solo all’inizio, continuiamo la battaglia»). E via con l’«allons enfants» della Marsigliese.
Due spinte le hanno permesso di correre più veloce del padre in questa staffetta che ha portato l’estrema destra nel punto più alto della sua storia. Pur senza passare per moderata, l’avvocato 43enne ha smussato gli spigoli di quel partito razzista e xenofobo che JeanMarie le aveva lasciato in eredità un anno fa. E questo è senza dubbiomeritosuo. Madicertoil contesto l’ha agevolata. Rispetto ai tempi in cui il protagonista era papà, il cappio della crisi si è stretto attorno al collo dei francesi. E fa niente se «Monsieur le Président» dice che «altrove è peggio». Gli «operai, i pescatori, gliartigianieicommercianti», a cui Marine si rivolge dal palco, non guardano a Est (verso l’Italia e la Grecia) e nemmeno a Ovest (Spagna e Portogallo). Guardano nelle loro case, nelle loro tasche. Nelle loro buste paga che sono sempre più leggere. Per chi ancora ne ha una. Non è uncasoche, secondoglianalisti, il voto al Front National sia arrivato proprio da quelle aree più colpite dalla crisi.
Ora il destino della Francia è legato a quel 20% di elettori. Sono loro, i «nemici di Sarkò», l’ago della bilancia in vista del ballottaggio. Il 6 maggio molti di loro andranno «à la pêche», si asterranno. Un sondaggio rivela che il 52% sceglierà Sarkò, ma il 27% dice di voler mettere la croce su Hollande. La domanda è scontata: che indicazioni darà Marine? Turarsi il naso per scongiurare la «minaccia socialista», presentando poi il conto a Sarkozy in caso di un’eventuale vittoria (con la consapevolezza che un eventuale flop rischierebbe di avere ripercussioni sul Front National alle prossime legislative di giugno)? Oppure scatterà il «liberi tutti» per non immischiarsi nella sfida tra «i due partiti delle banche, delle finanze, delle multinazionali»? La risposta arriverà in place de l’Opéra, a Parigi, il 1° maggio. Il giorno della festa dei lavoratori. Quelli strozzati dalla crisi.

La Stampa 23.4.12
Intervista
“Temo l’avanzata della destra più xenofoba”
Il senatore Morando (Pd): “È una malattia europea”
di Carlo Bertini


Senatore Morando, una vittoria di Hollande cambierà la politica economica europea o partirà un braccio di ferro con la Merkel dagli effetti imprevedibili?
«Intanto spero che si concretizzerà al secondo turno con un risultato molto netto. Poi certo spero che possa creare le condizioni per un mutamento della politica fiscale dell’Europa, non tanto nel mettere in discussione il rigore, ma nel consentire che vi sia un’iniziativa più forte sul versante del sostegno alla crescita».
Hollande minaccia di bloccare il patto di bilancio europeo se non conterrà misure per lo sviluppo. Avrà il sostegno di Monti in questo suo pressing?
«Lo avrà, io spero, non se si rifiuterà di ratificare il “fiscal compact”, ma se chiederà di rafforzarlo sul lato del sostegno alla crescita e del finanziamento europeo di grandi investimenti in infrastrutture. Mi aspetto dunque che vi sia un’azione della Francia, assieme ad altri Paesi, per completare l’operazione del “fiscal compact” attraverso un nuovo trattato per la crescita».
Un eventuale freno all’au- «Se non si contesterà il rigore, non credo ci saranno sorprese da parte dei mercati, che si preoccupano sia se non c’è rigore nelle politiche di bilancio, sia se facendo solo politiche di rigore si riduce la crescita e si va addirittura in recessione. Se risulterà chiaro che l’orientamento della politica francese cambia, non perché diventa più lassista sul versante della spesa pubblica, ma perché più esigente su quello del sostegno alla crescita attraverso un salto nell’unità politica dell’Europa, ciò non dovrebbe determinare reazioni negative dei mercati».
Quali benefici effetti potranno sortire per la sinistra italiana in questa fase così complessa?
«Il buon risultato di Hollande vuol dire che per il centrosinistra in Europa si riaprono delle possibilità. Ma questo voto francese segnala anche un risultato della destra estrema, xenofoba e antieuropeista molto preoccupante. E mi auguro sia un fenomeno soltanto francese, ma purtroppo non lo credo. Quindi si può riaprire la possibilità di una dimensione europea per il centrosinistra. Dopo la sconfitta spagnola, ammesso che al secondo turno vada bene come tutti ci auguriamo, queste elezioni riaprono una speranza di successo elettorale e di ritorno alla direzione dei Paesi più importanti dopo la terribile gelata degli anni scorsi. E contemporaneamente segnalano però la presenza nell’elettorato europeo di orientamenti esacerbati dalla crisi sociale e di populismo estremista molto pericolosi».
Quali rischi comporta viceversa per il Pd blindarsi neltrincea dell’eurosocialismo?
«Il Pd non è un partito socialista, ma di centrosinistra. Nato per costruire in Italia il partito dei riformisti uniti, che nel nostro paese non c’è mai stato. E la sua cultura politica deve essere in grado di rappresentare la cultura dei “New Dem”, dei Democratici, non quella socialdemocratica. Lo dice un liberalsocialista che tiene molto alla sua cultura. Ma se il Pd si facesse schiacciare come versione italiana dei partiti socialdemocratici europei, perderebbe non solo la sua vocazione maggioritaria, ma anche il suo appeal. In Italia le cose sono andate così alcuni decenni fa: un partito socialista a vocazione maggioritaria noi non siamo stati capaci di costruirlo e non si torna indietro da questo punto di vista».

Corriere 23.4.12
La sfida finale nelle mani di chi protesta
di Massimo Nava


Sembra inevitabile che la crisi del debito travolga ad uno ad uno i governi europei (ultima vittima, l'Olanda) e favorisca ricambio di leader e alternativa politica. I risultati del primo turno delle presidenziali lasciano prevedere che anche la Francia non sfuggirà a questo destino. Il socialista François Hollande sopravanza il presidente uscente Nicolas Sarkozy. L'immagine del sorpasso ha il peso di uno schiaffo politico e conferma la tendenza radiografata nei sondaggi. In teoria, lo scarto non è irrecuperabile nelle due settimane che precedono la sfida finale: «contatori» azzerati, tempo di parola diviso in parti uguali, confronto fra programmi sono elementi su cui fa leva un uomo abituato al combattimento e mai rassegnato, quale è Sarkozy. Ma è l'aritmetica dei rapporti di forza a rendere probabile il tramonto della sua stagione controversa, piena di errori, speranze mancate e risultati oscurati dalla crisi. Il giovane leader che voleva rinnovare il gollismo e trasformare il modello francese rischia di essere ricordato per aver consegnato la Francia intera alla «gauche» (dai Comuni all'Eliseo) e risvegliato in modo esponenziale la galassia dell'estremismo, dell'antipolitica, del rifiuto di tutto: delle riforme avviate e di quelle necessarie al risanamento dello Stato.
Lo sfidante Hollande è riuscito a compiere un piccolo capolavoro: tenere insieme riformismo e rivoluzione, la Francia protetta dell'impiego pubblico e la Francia libertaria, il rigetto del sarkozysmo e la paura dell'austerità economica, rassegnazione e rivolta. Trent'anni dopo Mitterrand, la sinistra potrebbe tornare al potere — con un altro François — in una società a maggioranza conservatrice. La scommessa è trasformare il capolavoro in una certezza e in un progetto sostenibile: per la Francia e per l'Europa che guarda con qualche apprensione a Parigi.
Da oggi, Sarkozy e Hollande dovranno mantenere la mobilitazione del proprio campo, evitare il rischio bivalente della rassegnazione e del trionfalismo, e conquistare il massimo possibile di francesi che ieri non hanno votato per loro. E in questa sfida all'ultimo voto, il risultato ottenuto dagli altri candidati offre molti spunti di riflessione sul comportamento di un elettorato da stamane in libera uscita.
Il sistema bipolare si è diviso in blocchi. I due finalisti ottengono insieme poco più della metà dei voti. Dalle urne escono cinque candidati con sostegno a due cifre. Sono dati che rimettono prepotentemente al centro della battaglia presidenziale il gioco delle alleanze e offrono ancora margini d'incertezza sull'esito finale: estrema destra ed estrema sinistra totalizzano un terzo dei voti espressi. Il centrista François Bayrou supera il 9 per cento e verrà corteggiato da entrambi gli schieramenti senza essere l'ago della bilancia, poiché l'ultimo duello sarà condizionato soprattutto dagli umori dell'estremismo.
Quello giacobino-comunista di Jean-Luc Mélanchon, meno importante del previsto, è compatto nell'antisarkozysmo e annuncia il sostegno in massa di Hollande. Non potrà dettare condizioni per l'alleanza, ma risulterà decisivo per portare la sinistra alla maggioranza assoluta all'Assemblea nazionale.
Quello xenofobo e populista di Marine Le Pen è anche un voto protestatario, di profonda e ideologica antipatia per il presidente uscente, tentato dall'astensionismo al secondo turno e nella sua componente popolare persino incline a rifluire a sinistra. È un risultato eccezionale — la terza forza del Paese — che complica la strategia di recupero di Sarkozy, anche perché Marine Le Pen non darà indicazioni di voto. Ha solo 44 anni, ha tutto l'interesse a non disperdere una grande forza d'opposizione e una nuova prospettiva: la frattura dell'elettorato di destra in blocchi con culture e valori in gran parte antitetici.
Il successo del Fronte conferma il malessere della Francia, in parte mitigato dall'alta partecipazione al voto. E resta un problema in più per il prossimo inquilino dell'Eliseo.

Corriere 23.4.12
Gli estremismi rimangono fuori (in Italia no)

di Michele Salvati

Quando un presidente uscente si ripresenta all'appuntamento elettorale successivo, come ieri è capitato a Sarkozy, la sfortuna e le circostanze avverse valgono come il demerito e l'incapacità: in una situazione di crisi economica e disagio sociale gli elettori se la prendono con chi ha avuto in mano le leve del potere. Non stanno a chiedersi se abbia fatto tutto il possibile per contrastare una situazione internazionale difficile e se gli sfidanti avrebbero fatto meglio di lui, ciò che dovrebbe essere il metro di giudizio di un elettore razionale. Non voglio con questo sostenere che Sarkozy sia stato un buon presidente e mi limito solo a notare che, agli occhi di un italiano, i risultati economici francesi durante la sua presidenza — attraversata dalla più profonda crisi del dopoguerra — sono stati migliori dei nostri.
Tutto questo per dire che la prima sconfitta di Sarkozy non mi sorprende: quando la situazione economico-sociale è penosa per i cittadini al tempo delle elezioni, vale l'inverso della legge di Andreotti: «Il potere logora... chi ce l'ha avuto». Così come non mi sorprende il successo di partiti estremisti e populisti di destra e di sinistra, soprattutto di quelli di destra.
Come primo commento a queste importanti elezioni vorrei limitarmi a due osservazioni: una riguarda il sistema elettorale francese in un confronto con quello italiano, la seconda le ripercussioni di una eventuale vittoria finale di Hollande o Sarkozy per il nostro Paese. In Francia, sia per le elezioni presidenziali, sia per i candidati nelle elezioni legislative — che avranno luogo subito dopo la proclamazione del Presidente — vale un sistema a doppio turno: se non si raggiunge la maggioranza assoluta, i due candidati più votati vanno al ballottaggio due settimane dopo, come i nostri sindaci. Con risultati non ancora completi per il primo, inutile speculare sul secondo turno e quindi su chi sarà il vincitore di questa sfida all'ultimo voto: tutto dipenderà da come si comporteranno coloro che hanno votato per i candidati sconfitti, soprattutto i sostenitori di Marine Le Pen, e dalle dimensioni e dalla distribuzione dell'astensionismo. L'osservazione e il confronto con l'Italia riguardano sia il sistema elettorale sia la diversa natura dei partiti francesi e italiani. In Francia, i grandi partiti di destra o sinistra non sono estremisti o populisti: concessioni in questa direzione vengono fatte, ma l'estremismo e il populismo sono caratteri di partiti che al ballottaggio delle presidenziali non possono vincere, e solo una volta uno di loro ci è arrivato; lo stesso avviene nella maggioranza dei collegi elettorali e il Presidente dunque è in grado di costruire un governo omogeneo. Da noi, con entrambi i sistemi elettorali che abbiamo sperimentato nella Seconda Repubblica, la necessità di costruire le alleanze più grandi possibili ha condotto a inserire estremisti e populisti nelle coalizioni che sostengono il governo, e lo stesso partito leader del centrodestra aveva tratti populistici assai più forti di quelli francesi, con le conseguenze di ingovernabilità che abbiamo di recente sperimentato.
La seconda osservazione è più importante: quali le conseguenze sul nostro Paese della vittoria dell'uno o dell'altro candidato? Per chi è soprattutto preoccupato delle condizioni soffocanti cui è costretta la nostra economia, del fatto che il rigore si pone oggi in contrasto con la crescita invece di aiutarla, una vittoria di Hollande sarebbe una buona notizia. È vero, potrebbero esserci turbamenti sui mercati, ma la cancelliera tedesca si renderebbe conto, di fronte a un deciso mutamento di politica del suo principale alleato, che concessioni fiscali e monetarie assai più forti sono indispensabili per stimolare la crescita dell'Europa e salvare il suo sistema monetario.

Corriere 23.4.12
«Ecco la nuova era. Le ali più estreme a un passo dal potere»
«Il Front National riaprirà i giochi»
di S. Mont.


PARIGI — François Hollande è primo, ma Marine Le Pen raccoglie un successo clamoroso. Si può dire che la sinistra abbia vinto, ieri?
«In un'elezione a due turni come questa la prima tornata mostra una statistica, la seconda esprime una dinamica politica… Hollande è primo, certo, e Mélenchon, come era ampiamente prevedibile, chiede di battere Sarkozy, cioè di votare per Hollande. Lo stesso fa l'ecologista Eva Joly. Tutta l'estrema sinistra alla fine va in questo senso, mostrando che le elezioni sono uno spettacolo che termina sempre con il successo di un candidato liberale. Il primo turno è un grande circo nel corso del quale ci sono spettacoli di orsi, incantatori di serpenti, domatori di leoni; il secondo è un numero di clown tristi…». Michel Onfray, 53 anni, è uno dei filosofi e opinionisti francesi più noti e popolari. I suoi libri — contro Freud, o in onore di Camus — fanno discutere, così come le sue posizioni spesso critiche contro la globalizzazione liberista. Vicino alle idee di Mélenchon in politica interna, ha criticato duramente il leader del Front de Gauche per le sue posizioni — favorevoli a Castro e Chávez — in politica estera.
Quale ruolo avrà nei prossimi mesi Marine Le Pen?
«Se Sarkozy scompare dalla scena del potere, cosa che mi pare altamente probabile, Marine Le Pen ricomporrà la destra a partire da lei. Entriamo dunque in una nuova era politica, quella delle ali estreme suscettibili di arrivare al potere. In questa configurazione, nel giro di un solo quinquennio, Hollande rischia di rappresentare solo un momento di transizione».
Ieri sera la Le Pen ha esultato dicendo che «la battaglia di Francia non fa che cominciare». La destra tradizionale, ormai indebolita, potrebbe rompere il «cordone sanitario» e aprire a un'alleanza, per esempio già alle prossime legislative di giugno?
«Troppo presto per ricomporre il paesaggio politico francese… Per adesso ci sono tre destre: una versione centrista con Bayrou, che patisce una sconfitta crudele e non è più abbastanza forte per venire realmente corteggiato. Una versione bonapartista con Sarkozy che è in grande difficoltà; questa destra è anche minata al suo interno da quelli che aspettano il loro turno, come Jean-François Copé o Xavier Bertrand. Poi c'è la terza destra, la sua versione radicale con un Front National presentato stasera come una "nuova destra" da Marine Le Pen».
E' la fine del bipolarismo francese?
«Anche il Front de Gauche di Mélenchon, che ha ottenuto un risultato molto inferiore a quel che annunciavano i sondaggi, è minato al suo interno dalle divisioni. Il partito comunista, che ne fa parte, è stato umiliato, Hollande lo sa, e potrebbe approfittarne offrendo alla componente comunista qualche posto nel governo, come fece Mitterrand nel 1981. Destra e sinistra potrebbero continuare a frantumarsi, e Marine Le Pen avrà bisogno di questa esplosione della destra e della sinistra per ricomporre il panorama politico a partire dalla sua figura».
Che destra è quella di Marine Le Pen, che ha usato l'ultimo anno per distaccarsi dall'eredità paterna? E', al fondo, l'eterna Francia reazionaria dell'Indocina e dell'Oas o c'è qualcosa di nuovo?
«Non dimenticate che Marine Le Pen è nata nell'agosto 1968… La sua formazione non è quella del padre, cioè Vichy, Pétain, la collaborazione, la guerra d'Algeria, l'Oas, ma quella di una ragazza che, quando arriva alla maggiore età, non ha conosciuto che François Mitterrand al potere… Sa che Mitterrand ha avuto un passato di compromissione con il regime di Vichy, che ha difeso l'Algeria francese, che è stato ministro dell'Interno e della Giustizia durante la guerra d'Algeria. Marine Le Pen sa che la frattura tra destra e sinistra, in Francia, non è quella che si racconta. Molti elettori di oggi dispongono della sua stessa formazione e non sono fermi ai punti di riferimento della Seconda guerra mondiale: è una ragazza post-sessantottina, che parla del ritorno dei "patrioti di destra e di sinistra"».
E' il Front National «né di destra né di sinistra».
«La divisione proposta da Marine Le Pen non è tra destra e sinistra, ma tra patrioti e cosmopoliti, tra difensori della nazione francese e sostenitori del liberalismo. L'intelligentsia parigina si sbaglia se pensa che padre e figlia appartengano allo stesso mondo politico-culturale. Marine Le Pen sta facendo con il partito di suo padre quel che Fini in Italia fece trasformando l'Msi in Alleanza nazionale. Quando Fini in Israele parlò del fascismo come di un "male assoluto", ha compiuto un passo imitato da Marine Le Pen nel febbraio dell'anno scorso, quando ha definito i lager nazisti "il summum della barbarie". Il fenomeno Marine Le Pen non si riduce all'estrema destra, è più complicato».

La Stampa 23.4.12
Intervista
Lo storico Max Gallo “Hollande non andrà troppo a sinistra”
di Alb. Mat.


A un’ora dalle prime proiezioni, le percentuali sono ancora incerte, l’analisi dello storico Max Gallo no: puro Cartesio. Del resto, non si è accademici di Francia per nulla.
Monsieur Gallo, è Hollande che ha vinto o Sarkozy che ha perso?
«Diciamo che per il momento Nicolas Sarkozy ha certamente perso. Il suo obiettivo era di arrivare in testa o almeno pari allo sfidante. Mi sembra assodato che non ci sia riuscito. Vincere al ballottaggio non è impossibile. Ma è molto difficile. É vero che questo voto è stato una specie di referendum pro o contro Sarkozy».
Hollande ha la stoffa per fare il presidente? Lei lo conosce bene...
«É stato il mio capo di gabinetto quando ero portavoce del governo con François Mitterrand presidente. Non mi ha deluso: ha fatto la sua campagna, che è stata lunghissima, con grande sangue freddo. Adesso bisogna vedere se sarà in grado di resistere alle pressioni dei suoi alleati. Però il risultato di Jean-Luc Mélenchon è meno elevato di quel che si pensava e i Verdi sono soddisfatti dell’accordo che hanno fatto con i socialisti per le politiche. Non credo che riusciranno a far sbandare Hollande troppo a sinistra».
Resta il fatto che Marine Le Pen sfiora il 20%, l’estrema sinistra supera il 10 per cento e un francese su cinque non ha votato: è la vittoria dell’anti-sistema?
«Sicuramente il sistema è in crisi. Le élite politiche, sia di destra che di sinistra, hanno dimenticato che la questione della sovranità nazionale è decisiva. Decisiva in tutta Europa e ancor più in Francia, data la sua storia. Infatti il tema dell’Europa si è imposto quasi da solo nella campagna. E tutti i comizi si sono svolti davanti a un inaspettato mare di tricolori. La politica non l’ha capito. Per questo dico che non è in crisi il sistema della politica, ma la politica del sistema».
Perché gli anti-sistema di destra sono più di quelli di sinistra?
«Proprio perché la destra ha inserito nel rifiuto della globalizzazione il tema della sovranità. In fin dei conti, qual è l’unica vera differenza fra madame Le Pen e monsieur Mélenchon? La Nazione, la sua storia, le sue particolarità».
Secondo un sondaggio, al secondo turno l’85 per cento degli elettori di Mélenchon voteranno per Hollande. Ma per Sarkò sarà più difficile convincere quelli di Le Pen.
«Sono convinto che ne trascinerà parecchi dalla sua, perché chi vota per madame Le Pen non vuole la Francia nelle mani della gauche. Ma non so se saranno abbastanza».
Gli storici non dovrebbero fare i profeti. Però par di capire che lei preveda una vittoria di Hollande...
«Con tutte le cautele del caso, sì. Del resto i sondaggi sono unanimi e finora non si sono sbagliati. Sulla carta, Hollande ha vinto. Però è la sorpresa l’unica vera legge della storia».
Lei è stato ministro di Mitterrand ma nel 2007 ha appoggiato Sarkozy. Stavolta per chi ha votato?
«Diciamo che ho votato come la maggioranza dei francesi».

Repubblica 23.4.12
Cambia il vento anche da noi
La vittoria socialista è un segno
Mario ne deve tenere conto
di Goffredo De Marchis

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Repubblica 23.4.12
Uguaglianza e laicità
Così sopravvive il socialismo stile Hollande
di Marc Lazar

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Repubblica 23.4.12
Mappe

Restaurare il futuro?
di Ilvo Diamanti

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l’Unità 23.4.12
L’antipolitica già al potere
di Michele Prospero


Ci sarà un esito antipolitico alla crisi italiana? La furiosa contestazione delle élites di solito apre le danze, mobilitando chi invoca spazi nuovi di agire sociale liberati dagli apparati logori. Poi però compare chi propone di chiudere le operazioni con la macabra esibizione muscolare della destra.
Una destra trionfante, peraltro, che celebra la riscoperta di arcane pratiche di dominio personale. Quando si avvicina una crisi di sistema occorre per questo sempre preoccuparsi di scongiurare che i crampi della politica si intreccino con il disagio sociale.
Oggi l’Italia è molto vicina a una grande crisi di legittimità che accompagna un oscuro passaggio di fase. Tutto può saltare quando si realizza una saldatura tra questi elementi: lo smarrimento di forze economiche che perdono referenti solidi, lo spaesamento di strati che cedono posizioni di ricchezza e prestigio serbando un grande rancore contro le classi dirigenti percepite come responsabili del loro declino, la comparsa di metafore anticonvenzionali amplificate dai media, la crisi paralizzante dei soggetti politici tradizionali. Se la sinistra si lascia sorprendere da un cortocircuito culturale e da un allentamento della sua presa rassicurante nel malessere sociale, allora la crisi, con una incredibile celerità, contagia economia, politica e culture. Si innesca un’onda anomala che sconvolge gli antichi assetti di dominio non più adeguati evocando però soluzioni del tutto apparenti, imperniate sulla primitiva fascinazione di capi carismatici.
Nella giuntura odierna una lacerante crisi sociale, che potrebbe dare sfogo alla disperata ribellione della massa, convive con lo smembramento del sistema politico bipolare e personalistico edificato vent’anni fa. La rivolta contro l’èlite al potere in Italia c’è già stata e ha portato al governo proprio i campioni dell’antipolitica, che oggi sono travolti dai disgustosi episodi di malcostume. Nel duello tra la società civile riflessiva, che voleva abbattere la vecchia nomenclatura dei partiti conil mito di Westminster, e la rude microimpresa padana, che sognava un denaro senza gli obblighi del fisco, vinse la miscela avvelenata preparata dal magnate di Arcore. Egli arruolò, a fianco del suo partito di plastica, le truppe di terra assoldate nel rurale mondo periferico del nord, dove le sensibilità più elementari garantivano una maggiore disposizione al nuovo, all’inaudito, al folklorismo politico. Oggi è in crisi proprio l’antipolitica che ha sostituito i partiti con le due forze irregolari (Forza Italia e Lega) che avevano inopinatamente preso il potere in nome del nuovo.
Questo è il dato reale: lo sfaldamento dell’antipolitica che, da tendenza eccentrica, era diventata una incredibile forza di governo. I due partiti egemoni non reggono allo sfascio immane che hanno provocato. Ci sono dunque delle energie positive liberate da una crisi che si è abbattuta sulle due forze interpreti dell’antipolitica. Per quanto i media stiano tentando l’ultima operazione di sviamento che rimane ai ceti del privilegio, quella di coinvolgere tutti i partiti nella stessa catastrofe, la lezione storica da trarre è invece del tutto trasparente. Non si può rimanere a lungo nel solco dell’antipolitica senza distruggere la capacità di governo di una società complessa che richiede innovazione. Da questo fragoroso fallimento di imprenditori e ceti irregolari insediatisi al potere discende che un Paese moderno non può prescindere da grandi partiti che esprimono una reale partecipazione, una forte energia etica, una autentica cultura. Se non ricostruisce partiti dall’elevato profilo ideale, un Paese civile è condannato alla lenta marginalizzazione e al collasso storico.
La forma del partito personale, che la destra ha inventato e imposto sulla scena come un segno della postmodernità, appare cadaverica. Non poteva essere altrimenti. L’usura del corpo del capo mette in discussione la sopravvivenza stessa del partito sprovvisto di quella «dignità che non muore» di cui parlavano i giuristi medievali come peculiarità del politico. Un partito di plastica o carismatico muore con il corpo del capo che declina o è ammaccato. Questo scostamento dai cardini della modernità politica occidentale ha ostacolato il funzionamento delle istituzioni, occultato il principio di legalità.
Come vent’anni fa, i persuasori palesi cavalcano l’antipolitica per abbattere tutti i partiti. La videopolitica lancia i fantasmi del partito del comico, del professore, del sindaco, del magistrato o le liste civiche di protesta. Una sciagura. Il verbo antipolitico e le metafore ultrademocratiche diventano il veicolo di una rivoluzione passiva che nel deserto impone un nuovo capo a un pubblico disorientato, demotivato, scoraggiato dagli scandali. La ricetta è quella di sempre: scaldare il cuore dell’indignazione per sparigliare anche a sinistra il nesso tra capi e popolo, e poi incassare a destra il via libera per la prosecuzione del piccolo mondo antico abitato da governatori celesti, politicanti senza pathos politico, miliardari divorati dal conflitto di interessi. Con una crisi sociale drammatica, la destra e i media dell’antipolitica a reti unificate preparano il suicidio della democrazia.

La Stampa 23.4.12
Il “partito dei tecnici” spaventa il Pd
E i bersaniani di ferro provano a stoppare le tante aperture interne ai centristi
di Carlo Bertini


ROMA Seduto su un divano in Transatlantico, il giorno dopo gli annunci di Casini e Pisanu, un dirigente Pd della minoranza, tra i più informati sui movimenti tellurici nei tre poli, butta lì una manciata di numeri ipotetici, che più di una suggestione assumono il sapore di un brutto presentimento: un Pdl attestato al 15% e svuotato delle sue compagini più moderate, idem per il Pd, ma sul lato sinistro del campo, dove la concorrenza delle forze di Vendola, Di Pietro e Grillo insieme potrebbero totalizzare il 20% dei seggi; e tutto il resto, un bacino di consensi potenziali del 35-40%, suddiviso tra il nascituro Partito della Nazione dei terzopolisti e un ipotetico listone civico nazionale; che per semplicità potrebbe esser definito «partito dei tecnici». «Ecco, se tra un anno il quadro politico si presentasse mutato fino a questo punto, magari in assenza di una legge elettorale riformata, cosa succederebbe? ».
E anche se è evidente che trattasi solo di fantapolitica, queste domande segnalano se non altro quanto i movimenti centristi agitino anche i vertici Democratici, che pure non lo danno a vedere facendo finta di nulla. Perché se questo nuovo progetto di Casini si saldasse con il «partito dei tecnici» (magari benedetto dai berlusconiani di fede montiana) la lunga corsa verso la vittoria alle urne del Pd (oggi in vantaggio nei sondaggi dopo lo spappolamento del centrodestra) potrebbe infrangersi contro un muro. Non sono infatti casuali le battute di Bersani che da giorni mette in guardia dalla tentazione di dare uno sbocco alla crisi della politica con nuove soluzioni «eccezionali» come fu quella di Berlusconi nel ‘94, facendo perno su una gigantesca sfiducia delle fasce più popolari verso i partiti, alimentata per motivi diversi da tutti i media. Il fastidio dei bersaniani di ferro come il responsabile economico Stefano Fassina per le aperture ai centristi sono un’altra spia di queste ansie. Sull’Unità di ieri Fassina bacchettava il cattolico Fioroni che, pur garantendo di non voler spiccare il volo dal Pd, invitava a non sottovalutare l’operazione messa in piedi da Casini. Bollata però da Fassina come puro marketing elettorale, «un ripackaging di ceto politico, magari con qualche innesto tecnico, senza un programma credibile». Programma che invece il Pd si vanta di avere ben imbullonato nel solco dell’area progressista europea, sperando di blindarsi dietro una vittoria di Hollande, che verrebbe salutata come pioggia benefica dopo anni di siccità per la sinistra, battuta sonoramente anche in Spagna.
Anche i politici Dem più strutturati e riflessivi come l’ex segretario del Ppi Castagnetti, in questi giorni tracciano scenari da far tremare i polsi: «Io prevedo da qui a qualche mese un Monti bis con dentro i politici, per riuscire ad andare avanti tra mille difficoltà, perché si è usurata la formula di provvedimenti che non tengono conto dell’indispensabile mediazione sociale e che i partiti vedono solo dopo». L’esponente cattolico ricorda che «Bersani a novembre evitò di entrare nel governo per non pagare dazio, ma ora lo stiamo pagando lo stesso senza avere neanche la possibilità di intervenire per tempo sulla preparazione delle norme più delicate». E come molti altri nel suo partito, ritiene poco probabile un’interruzione anticipata della legislatura. E non è un mistero, come ammette uno dei tre massimi dirigenti del Pd, che «al nostro interno vi siano personalità interessate a fare da sponda al cantiere di Casini. Ma sul piano del consenso elettorale questa operazione ci toglie terreno al centro e ci obbliga a recuperare a sinistra, anche se è stata fatta troppo presto con l’effetto di spaventare tutti e di frenare la mediazione in corso sulla legge elettorale». "Un dirigente: «Tra di noi personalità interessate a fare da sponda a Casini» Si teme che due grandi contenitori moderati possano arrivare a una fetta tra il 35 e il 40%

La Stampa 23.4.12
Vendola: “Contro l’antipolitica subito in autunno stati generali a sinistra”
di Riccardo Barenghi


«IO NON MOLLO» «Il mio obiettivo resta quello dell’alleanza con il Pd. Basta aspettare i moderati»

ROMA «C’è un’onda melmosa di livore che sostituisce l'analisi, grugniti al posto delle strategie» Nichi Vendola capo di Sinistra e libertà Vendola Il governatore della Puglia e leader di Sel, Nichi Vendola
La prima risposta che il centrosinistra deve dare a questa ondata di antipolitica è convocare da subito gli Stati generali del futuro. In autunno, una grande iniziativa che rimetta in corsa l’alleanza di tutta la sinistra e riconnetta quest’ultima con la società e soprattutto con i giovani». Nichi Vendola è impegnato in un tour de force elettorale nel Nord: «E qui ho sempre trovato piazze piene. Altro che antipolitica... ».
Un problema troppo enfatizzato, secondo lei?
«Non voglio dire questo. Penso che si tratti di un’onda melmosa gonfia di passioni tristi, di livore che sostituisce l’analisi, di grugniti che prendono il posto delle strategia. Una sorta di bestemmia liberatoria che dovrebbe farci sentire tutti meglio».
Sta parlando di Beppe Grillo?
«Non parlo di nessuno in particolare, vedo semplicemente un rito collettivo fatto di esorcismi: basta cacciare il demone della politica e siamo tutti contenti».
Beh, la politica negli ultimi anni non è mica stata così angelica...
«Infatti l’antipolitica è la forma più viscerale e più pericolosa della cattiva politica. Perché nasce da un gigantesco pregiudizio, cioè che la complessità sia un’invenzione del Maligno, che la mediazione sia deteriore e che la democrazia sia una ciclopica frottola. E’ insomma il frutto avvelenato di una stagione politica avara di ideali e di passioni».
Ma la politica come può riemergere da questa onda melmosa?
«La malattia della politica sta nella sua separazione dalla questione sociale, nell’incapacità di cogliere l’acutezza di una crisi insopportabile, di un dolore estenuante che sta tutto dentro la precarizzazione del lavoro e nell’esclusione delle giovani generazioni dalla dimensione del futuro. Per i nostri nonni, il futuro era il tempo della speranza, dell’emancipazione, era una promessa di benessere. Oggi è un vuoto a perdere, un non-tempo, sabbie mobili nelle quali più ti agiti e più sprofondi. Ecco perché propongo al centrosinistra gli Stati generali del futuro in cui stipulare prima di tutto un patto con i giovani».
Così si potrebbe disinnescare l’antipolitica?
«E’ evidente che la rabbia nei confronti dei partiti nasce dalla loro totale afasia verso le ingiustizie sociali. Dei partiti e di questo governo tecnico. Verso il quale io avevo anche fatto un’apertura di credito che però sono stato costretto a ritirare visti i provvedimenti che ha preso sulla pensioni e sul mercato del lavoro, forte con i deboli e debolissimo con i forti. Per non parlare dei continui annunci sulla famosa crescita, spot pubblicitari che ricordano molto da vicino Berlusconi».
Eppure noi qualche mese fa eravamo sull’orlo del baratro, qualcuno doveva pur frenare la caduta del Paese.
«Certo, ed è proprio per questo motivo che noi di Sel non ci eravamo messi di traverso. Ma adesso vedo una situazione molto preoccupante, un mix esplosivo fatto di recessione, disoccupazione di massa e crisi dei partiti che l’Europa ha già vissuto negli Anni Venti e Trenta. Lo sbocco furono populismi reazionari che diedero vita al fascismo. Non lo dico per allarmismo ma perché avverto il pericolo di un antieuropeismo crescente che finisce nelle pozzanghere delle piccole patrie, di micronazionalismi colmi di xenofobia e razzismo. Di fronte a tutto questo non mi pare proprio che il governo Monti stia dando risposte adeguate, spero invece che il voto francese, premiando Hollande, inverta la tendenza segnando la via d’uscita dal liberismo».
Tornando in Italia, la sua alleanza col Pd non sembra così in salute.
«Io non mollo, quello è il mio obiettivo. Penso però che il centrosinistra debba liberarsi dalle prigioni del tatticismo, non può continuare a vivere nell’attesa che giunga Godot, ossia i Moderati, il Centro. Non può continuare a parlare di riforme come se fossero la panacea di tutti i mali. Si facciano due o tre cose fondamentali come la legge elettorale e un drastico taglio ai rimborsi elettorali. E poi si esca da questa gabbia di Palazzo e si vada a bussare alla porta di chi è in crisi di astinenza, penso anche al ceto medio, perché ha bisogno della politica. Ma di una politica che proponga cambiamenti reali».

l’Unità 23.4.12
Intervista a Maurizio Landini
«La riforma non va. E Fornero fa bene ad ascoltare gli operai»
Il segretario Fiom non ci vede nulla di male nella visita della ministra oggi all’Alenia
«Ma fino ad oggi ha sbagliato quasi tutto»
di Bianca Di Giovanni


Polemiche incomprensibili». Il segretario Fiom Maurizio Landini bolla così gli ultimi «battibecchi» mediatici sulla visita di oggi di Elsa Fornero allo stabilimento Alenia di Torino Caselle. L’appuntamento, chiesto da centinaia di lavoratori, ispirato e sponsorizzato dalla stessa Fiom, oggi è finito nel tritacarne politico-sindacale, con Raffaele Bonanni che chiede alla ministra di pensare semmai alla convocazione sugli esodati, che ancora non arriva. Anche Susanna Camusso aveva reagito male, accusando Fornero di essere «troppo altezzosa» per quella sua pretesa di fare lezioni. Dietro a tutto questo c’è la questione della rappresentanza, dei corpi intermedi, dell’opportunità del contatto diretto governo-lavoratori. Finora Landini non ha fiatato. Lo fa oggi con l’Unità.
Si aspettava le polemiche?
«Sinceramente ritengo tutto questo esagerato. Il fatto che proprio quelli che finora hanno protestato più degli altri contro la riforma delle pensioni e l’intervento (io non la chiamo riforma) sul lavoro, cioè i metalmeccanici, si rivolgano al ministro per poter esprimere il loro punto di vista, mi pare positivo. Tanto più in un momento di crisi della rappresentanza, anche politica, che spesso è accusata di essere lontana dal Paese reale, è sicuramente un fatto di interesse».
Ma non le sembra che proprio questo schema indebolisca la rappresentanza?
«No, perché noi rappresentiamo quei lavoratori: loro sono il sindacato. L’incontro è assolutamente utile, e aiuta anche le organizzazioni sindacali. Il ministro sa che quei lavoratori hanno contestato i suoi interventi: il fatto che abbia il rispetto di ascoltarli mi pare importante». Fornero è già stata contestata platealmente a Torino. Accadrà anche oggi? Si aspetta scontri?
«Non credo proprio. I metalmeccanici sanno bene quali sono le regole democratiche, se non altro perché si sono visti togliere il diritto di parola all’interno degli stabilimenti Fiat». L’ultimo impegno di Fornero è un decreto per gli esodati. Lei crede che risolverà il problema?
«Continuo a pensare che la soluzione migliore sia quella di garantire le condizioni contrattate negli accordi».
Il decreto non servirà a questo?
«Mah, sento parlare di tornare al lavoro o cose di questo genere. Proposte impossibili, perché o le aziende non ci sono più, o hanno modificato i loro piani, e comunque quelle intese sono state firmate sostanzialmente per evitare che altri senza alcuna copertura di reddito andassero a casa. Questo è il tema centrale di oggi. La nostra critica all’intervento sul mercato del lavoro e a quello sulle pensioni nasce dal rischio di trovarci di fronte a licenziamenti collettivi privi di tutele. Io propongo che si facciano incentivi fiscali a chi redistribuisce il lavoro attraverso contratti di solidarietà. Sarebbe una soluzione intelligente, ma purtroppo restiamo inascoltati. Da noi al contrario si continua a defiscalizzare il lavoro straordinario. Così diventa sempre più urgente il problema di cosa accadrà nei prossimi due anni, con la riduzione delle tutele».
Perché secondo lei non viene compresa questa proposta?
«Molti parlano di modello tedesco, eppure nessuno ricorda che in Germania si è fatto proprio questo per mantenere il livello d’occupazione. Finché viene prevista la possibilità di avere tanti precari che costano poco, è impossibile invertire questa tendenza. E l’ultimo intervento Fornero non diminuisce affatto le figure atipiche». Bocciatura totale sul mercato del lavoro?
«È un pesante passo indietro culturale e dal punto di vista delle tutele. Per me il lavoro o contiene i diritti o non è lavoro. Invece quel testo sottende l’idea che il lavoro può esistere anche senza diritti, con meno tutele, meno ammortizzatori. Lo dimostra la decisione sull’articolo 18».
Sull’articolo 18 chiede modifiche?
«Credo che la Cgil debba riaprire questa questione, perché non siamo di fronte a un reintegro pieno, per di più in presenza di una diminuzione di tutele e di diritti. Questo è inaccettabile».
I confederali hanno ritrovato posizioni unitarie. Pensa che l’unità reggerà nel tempo, o è solo accidentale? «Sarà perché ai metalmeccanici della Fiat viene negato il diritto di scegliere (cosa che modifica la natura di sindacato confederale in sindacato aziendale), ma io questa unità stento a vederla. Non mi pare che il giudizio sui temi aperti oggi delle tre confederazioni sia uguale. Nel commercio c’è un accordo separato, nel pubblico impiego e nella scuola ci sono questioni aperte, nei metalmeccanici non ne parliamo. Penso che dopo la riuscita degli scioperi dell’ultimo mese, la Cgil debba recuperare iniziativa soprattutto sull’articolo 18».
Cosa pensa della presidenza Squinzi in Confindustria?
«Da quello che ha dichiarato mi apre un passo avanti. Spero si adoperi per ricostruire un sistema di rappresentanza che la Fiat ha messo a rischio».

l’Unità 23.4.12
La sinistra e la crisi
Un progetto per unire persona, diritti, sviluppo
di Vittoria Franco


Nelle analisi avviate su l’Unità da Alfredo Reichlin (14 e 15 aprile) e Nadia Urbinati sono contenuti spunti che non vanno lasciati cadere. Si cercano le risposte al perché della crisi profonda che ha colpito soprattutto l’Europa, ma che accomuna anche altri grandi Paesi, dagli Usa al Giappone. Reichlin esorta a non far uscire dall’orizzonte politico l’origine della crisi, «la ferocia e la potenza distruttiva della ricchezza finanziaria senza limiti che sconvolge il mondo, comprese le nude vite delle persone». Per Urbinati si è rotto l’equilibrio fra capitalismo e democrazia con il predominio del capitalismo finanziario. E dunque, la progettualità politica si deve misurare oggi con la domanda «come si deve attrezzare la democrazia elettorale al mutamento del capitalismo, alla sua richiesta di essere libero da ogni obbligo verso la comunità»? In sostanza, come possiamo riuscire vincitori nella rinnovata lotta fra economia e politica? Si ripropone in termini più drammatici la grande questione che Ralf Dahrendorf poneva già verso la fine del ’900: come far «quadrare il cerchio fra creazione di ricchezza, coesione sociale e libertà politica».
Insomma, il capitalismo finanziario è come il marxiano spettro risorto, che si aggira non solo per l’Europa, ma a livello globale. È il nuovo Leviatano, il nuovo dominus assoluto: e che cosa può fare la politica di fronte a questo mostro gigantesco? Di fronte al predominio dei mercati dobbiamo rassegnarci all’irrilevanza della politica e all’impotenza? Credo che questa sarebbe la conclusione più sbagliata.
Sosteneva Hannah Arendt che il potere della politica consiste nell’agire di concerto, nell’azione comune. Questa dimensione della «cooperazione» va recuperata a livello europeo. Nessun problema nazionale, né economico né sociale, si risolve oggi al di fuori di tale orizzonte. La progettualità va rilanciata a questa altezza, ciascuno vi porterà la sua specificità e il suo contributo come meglio potrà. E il Pd sicuramente ha le risorse intellettuali e civili per contribuire al meglio.
Bisogna però promuovere una ricerca e un’azione diffusa sul territorio, coinvolgente, valorizzare gli istituti storici e di ricerca in modo coordinato. Dobbiamo riuscire a dare la sensazione concreta che il Partito democratico è consapevole dell’enormità della partita in gioco e della necessità di farvi fronte sia con proposte di emergenza che con un lavoro di più lunga lena, ma che può portare a dare certezze per il futuro e recuperare credibilità a una politica fondata su principi e idealità. Affarismo e arricchimenti personali con soldi pubblici sono un male in sé, ma sono anche l’espressione dell’inefficacia dell’azione politica.
Quando Gramsci rilanciava la famosa espressione, che Ernest Rénan aveva utilizzato qualche anno prima, «riforma intellettuale e morale» non intendeva niente di moralistico, ma indicava la funzione più alta della politica: promuovere una forma superiore di civiltà moderna anche attraverso riforme economiche. La politica ha la funzione irrinunciabile di creare un tramite fra economia e Stato, fra mondo della produzione e diritti sociali e civili delle persone. La Carta europea dei diritti ha un titolo sulla dignità delle persone. Questo è un valore irrinunciabile, che rischierebbe invece di perdersi se cedessimo al predominio dei mercati e all’irrilevanza della politica.

l’Unità 23.4.12
Giovani oltre i limiti
Fra sogni e trasgressioni a caccia d’identità
Crescono tra le nuove generazioni i comportamenti a rischio. A spingere verso l’uso di sostanze stupefacenti, la ricerca di sé nel passaggio
fra l’adolescenza e la maturità. E una paura del futuro da non sottovalutare
di Carlo Buttaroni


La ricerca, realizzata per l’Unità, è stata condotta dal 2 al 18 aprile 2012 attraverso 1.000 interviste telefoniche (C.A.T.I.) a giovani di età compresa fra i 18 e i 25anni, sull’intero territorio nazionale. Tipo di campione: rappresentativo per quote dell’universo  di riferimento. Estrazione casuale dei numeri dagli elenchi telefonici.

Si affacciano alla vita scoprendone i drammatici conflitti e gli inevitabili negoziati, insieme alla distanza che separa le loro aspirazioni dalla realtà che si gli apre davanti. All’inizio li orienta la volontà di vivere svincolati da qualsiasi condizionamento, la pulsione a emanciparsi dalla condizione pre-adolescenziale; poi il bisogno di scoprirsi entità autonome, pensanti; infine la scoperta che la vita non può essere che un compromesso tra desideri e necessità.
L’altra faccia drammatica della crisi è quella dei giovani che inciampano fra i detriti di sogni troppo precocemente infranti. Avvolti da un’atmosfera rarefatta, senza più alcun punto di riferimento, rassegnati a un deficit di speranza che li porta a vivere un eterno presente dove per usare le parole di Sartre bisogna scegliere tra non essere nulla o fingere quello che si è.
In questo habitat malinconico, in cui l’interlocuzione con il prossimo sembra passare quasi esclusivamente attraverso i social network, i giovani provano a muovere i primi passi, alcune volte troppo timidi per essere efficaci, altre volte sotto forma di salti nel buio alimentati dalla crescente insoddisfazione che li assale. Un’insoddisfazione che diventa timore e ansia da prestazione, che anche quando non rende ragione della loro vita reale, li spinge a cercare nuovi esasperati riferimenti che permettano di esorcizzare la realtà che non comprendono, o che vivono come estranea e distante.
I progetti di vita non appaiono abbastanza forti a restituire significato al senso d’incertezza che avvolge i loro destini. E il modello familiare appare in piena crisi nel momento in cui al suo interno, al posto dell’ascolto e della parola, si alternano distratte attenzioni e vuoti silenzi, occasionalmente compensati dall’ultimo modello di cellulare o dall’automobile lanciata a folle velocità verso il nulla.
Continuamente sollecitati a diventare predatori dell’ambiente che vivono, ma che gli è pericolosamen-
te ostile, i giovani in crisi di futuro tendono a rompere gli argini, a spingersi verso un “oltre” che spesso significa immergersi in dimensioni sconosciute, esplorare nuovi territori che permettano loro di trovare un surrogato d’identità, in un mondo che sembra non riuscire a offrire altre prospettive.
L’atto trasgressivo, forzando e mettendo in discussione norme sociali e collettive, se non anche violandole apertamente, mostra in filigrana un’esistenza precaria e confusa, che spinge i giovani a conoscersi e a riconoscersi attraverso il contrasto, a sperimentare i propri limiti per verificare fino a che punto coincidano con quelli collettivamente accettati. Per poi infrangerli di nuovo, in un continuo superamento dei limiti. Ecco allora che si manifestano la seduzione della droga e comportamenti rituali emulativi come effetti, allo stesso tempo, del conformismo e dell’anticonformismo.
I gesti senza movente riconducono sempre a un’insensatezza di fondo e al fatto che la vita è intesa uguale alla morte. E che le regole primordiali dell’amore e dell’odio non vengono sentite come tali e non spiegano le ragioni del gesto, che dovrebbe invece avere una ragione e un perché.
Un’esistenza così vissuta spinge all’illusione dell’apparire e alla pubblicizzazione dell’intimità, che nettamente differiscono dal «cielo stellato» e dalla «legge morale», connesse alla consapevolezza di andare come diceva Paul Valéry «senza dei verso la divinità». Le trasgressioni estreme che vivono i giovani non sono, come dovrebbero essere, il riaggiustamento della propria socialità percepita come imperfetta. Lo scontro e la conflittualità individuale rappresentano, invece, l’estremo tentativo di riappropriarsi della propria vita, coscienti della propria diversità, e rendere socialmente visibile la trasformazione.
Ogni trasgressione è percepita come una sfida da affrontare, dove l’esito si deposita in un bagaglio di esperienze intorno alle quali l’identità del giovane tende a disporsi.
Il quadro che sembra emergere indica proprio il dischiudersi di due dimensioni: l’una legata al naturale processo evolutivo dall’adolescenza alla maturità, l’altra correlata strettamente al contesto nel quale i giovani sono immersi. Un ambiente sociale surreale, in cui il pensiero e l’azione sembrano elementi sconnessi e scoordinati, anziché la naturale conseguenza l’uno dell’altro. Una dicotomia in cui trovano spazio anche quei comportamenti a rischio che sembrano caratterizzare così fortemente le nuove generazioni. È come se alla base vi fosse un processo che inizia con l’esplorazione della propria identità, ma che si conclude nel momento stesso in cui una delle possibili forme è intravista dall’esterno. E in quel riconoscimento vi è la selezione di un’identità possibile ma provvisoria che esprime tutta questa socialità imperfetta.
Non è più l’individuo lacaniano che si riconosce nello specchio ma è l’individuo che si riconosce solo nello specchio riflesso degli occhi degli altri, dove la positività su ciò che sì, viene vissuta solo in stretta dipendenza con il grado di accettazione da parte degli altri.
Per dirla con Galimberti, i giovani, anche se non sempre ne sono coscienti, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che segnano la loro età, ma perché un ospite inquietante penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti. Un sentimento che sembra gettare i giovani in un’impotenza assoluta di fronte al futuro e alla vita che avanza. Solo il presente ha senso. Un presente da vivere con la massima intensità perché permette di seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che si perde di vista il senso della vita. Un’angoscia che si traduce nell’incapacità di elaborare un pensiero che consenta di uscire dal suo effetto collaterale più evidente: vivere la vita in uno stato di costante incertezza e precarietà.
Quello dei giovani è un grido forte e sottovalutarlo sarebbe il più tragico degli errori perché il grande rischio della nostra epoca è che le nuove generazioni si ritirino dal futuro, rifugiandosi in una curva del tempo priva di valori assoluti, che può solo proporre da quale luogo partire, ma nessun luogo dove andare.

l’Unità 23.4.12
Ieri il compleanno della senatrice Nobel per la medicina. Gli auguri del Presidente Napolitano
Una donna che ci ha insegnato come la ricerca sia un punto di vista democratico sul mondo
Rita Levi Montalcini 103 anni di scienza e di impegno civile
di Chiara Valerio


Rita Levi Montalcini ha compiuto ieri 103 anni. Giorgio Napolitano le ha mandato i più affettuosi auguri di compleanno. Lei ha festeggiato con un brindisi insieme ai suoi più stretti collaboratori

103 è un numero intero positivo, è un «numero primo», il ventisettesimo per la precisione, ed è anche un «numero felice», il che significa che la somma dei quadrati delle sue cifre dà uno. Non che, da matematico, io sia particolarmente legata alla definizione di numero felice, tuttavia, poiché 103 sono gli anni compiuti ieri Rita Levi Montalcini, mi sento di poter festeggiare fin dalla definizione. 103 dunque è un «numero felice», molto. Ho incontrato Rita Levi Montalcini una sola volta, il 21 aprile del 2009, nella sua casa romana. Silvia Bencivelli, Costanza Confessore, Marco Motta e io l’allora redazione di Radio3 Scienza siamo andati a farle un’intervista in occasione dei suoi cento anni. Insieme a Rossella Panarese, il curatore della striscia quotidiana di scienza su Radio3, avevamo costruito la puntata (Voglio una Rita spericolata) intorno all’idea di un secolo di primati divisi tra ricerca scientifica e impegno civile. Circa due anni prima, il 10 ottobre 2007 dalle pagine della Repubblica Levi Montalcini aveva risposto a Francesco Storace, che proponeva di fornirle delle stampelle per la deambulazione sua e del governo, «A quanti hanno dimostrato di non possedere le mie stesse facoltà, mentali e di comportamento, esprimo il più profondo sdegno non per gli attacchi personali, ma perché le loro manifestazioni riconducono a sistemi totalitari di triste memoria». Impegno civile, sì. Il 21 aprile 2009 pioveva e io mi ero persa con la motocicletta dietro piazza Bologna, credo fossi emozionata. Come tutti quelli della mia generazione infatti, oltre a uno scienziato, a un senatore della repubblica, a un esempio ante litteram di espatrio dei cervelli, Rita Levi Montalcini era anche una elegante icona pop.
In effetti, successivamente all’assegnazione del Nobel nel 1986 per la medicina sulle sue ricerche degli anni cinquanta riguardo il fattore di accrescimento della fibra nervosa e il conseguente disegno da parte dello stilista Roberto Capucci dell’abito per la cerimonia del Nobel, Rita Levi Montalcini, pur non essendo un personaggio mediatico, ha cominciato ad appartenere a un immaginario estetico condiviso e riconoscibile, e in qualche modo, replicabile, non portava solo le sue ricerche, la storia degli ebrei italiani e della sua famiglia, ma pure un modo di vestire.
ICONA POP
Una icona pop, per l’appunto. Sono abbastanza certa di essere rimasta immediatamente colpita dalla sua sottigliezza, di fisico e di intelletto, e dalla sua eleganza. Noi eravamo in jeans e camicia, lei era vestita di raso nero, modello Capucci 1986. Io non la conoscevo personalmente e non la conosco neppure adesso, ma ho letto i suoi libri e le sue interviste. Non perché fosse una donna, perché avesse vinto il Nobel, e neppure perché, in seguito alla promulgazione delle leggi razziali fosse stata costretta a espatriare, e neanche perché, tornata dopo un breve espatrio a Bruxelles fosse tornata in Italia e avesse impiantato, nella sua camera da letto a Torino, un piccolo laboratorio nel quale continuare le ricerche. Io ho letto e seguito Rita Levi Montalcini perché nel suo ripetere, anche alla lectio del Nobel, di non avere avuto merito alcuno nella buona riuscita delle sue ricerche, ma solo una grande fortuna, mi ha insegnato che studiare è sinonimo di guardare, di essere (pre)disposti a cogliere le variazioni, di essere perennemente stupiti e grati di quello che accade intorno, nell’infinitamente piccolo degli embrioni di pollo, e fattore di scala dopo fattore di scala, nell’infinitamente umano della politica e della cosa pubblica. Levi Montalcini mi ha insegnato che la scienza è un punto di vista democratico sul mondo, quindi, oltre agli auguri, anche e un’altra volta, grazie.

Corriere 23.4.12
Fecondazione a domicilio, le 27 coppie che hanno rotto il divieto
di Mario Pappagallo


MILANO — La fecondazione artificiale con cellule riproduttive da donatore estraneo alla coppia in Italia è vietata. Si chiama eterologa. Così come non è possibile spedire materiale biologico. Eppure in epoca di globalizzazione in Rete tutto è possibile. Basta non pubblicizzarlo troppo e si può avere una gravidanza con sperma di donatore per un'inseminazione artificiale «fai da te». La cicogna arriva con il postino. Si può ordinare il kit direttamente online dopo aver selezionato anche le caratteristiche del futuro bebé: colore degli occhi e dei capelli, quoziente di intelligenza. Bandito, per esempio, il capello rosso. I figli «pel di carota» non sembrano graditi, a parte le richieste provenienti da Irlanda (dove il rosso abbinato al verde degli occhi è più che simbolico) e da Scozia.
Il servizio è offerto dalla filiale danese della Cryos International, la più grande banca del seme del mondo. Ed il mensile Amica, in edicola dal 23 aprile, ha incontrato in esclusiva sette dei 600 donatori di sperma della Cryos danese. I clienti sono per lo più cliniche, ma anche i privati non mancano grazie al kit «fai da te». Selezione, ordinazione e pagamento online. L'inchiesta di Amica ne ha seguito il percorso fino alla consegna. Il costo? Non caro: varia da 40-240 euro per 0,5 millilitri di seme, se il donatore è anonimo, a 120-320 se non lo è. La possibilità di selezione ha un costo. In questo caso è possibile consultare il profilo del donatore in un database, ascoltarne la voce registrata, osservare com'era da bambino e, ultima novità, conoscere il suo quoziente di intelligenza.
L'età dei donatori varia dai 18 ai 45 anni. Ricevono 500 corone danesi (67 euro) a prestazione. Controllati e certificati per salute e vitalità riproduttiva. Lo confermano i risultati: 2mila gravidanze riuscite in media all'anno, di cui 27 in Italia nel solo 2011. Ventisette coppie italiane in un anno, a dispetto della legge 40 che vieta l'eterologa. Spiega ad Amica Lars Christensen, uno dei donatori non anonimi: «Alla Cryos mi hanno spiegato che, prima o poi, un bimbo concepito con il mio seme potrebbe volermi conoscere». E aggiunge: «Non avrei problemi a incontrarlo, è solo una questione di genetica».
Con 12 mila euro, invece, si acquista l'intera riserva di seme dello stesso uomo, che, a gravidanza avvenuta, va in pensione. Per evitare concorrenze. Tanto l'offerta non manca. Spiega Ole Schou fondatore e direttore di Cryos: «Prima che il seme sia utilizzato, ci vuole un anno di screening per escludere malattie infettive o genetiche e verificarne la qualità. Di solito solo 8 volontari su cento passano il test. Eppure vi è un boom di donatori: 600 in lista d'attesa, mai accaduto prima». Chissà che non c'entri anche la crisi economica. Schou anticipa un'altra novità: «Una nave ai confini delle acque territoriali dei Paesi dove non è permessa l'inseminazione con assistenza medica. Si chiamerà Fertily Ship. E l'Italia è il primo Paese in lista».

Repubblica 23.4.12
Il contributo che la psicoanalisi può dare al dibattito sulla fine del postmoderno
Quando “la realtà” anestetizza “il reale”
di Massimo Recalcati,
analista lacaniano
qui

Repubblica 23.4.12
Un saggio racconta la rivoluzione del mondo musulmano
attraverso diverse figure femminili
Senza velo
Se gli occhi delle donne possono cambiare l’Islam
di Bernardo Valli

qui

Repubblica 23.4.12
Zaynab, sulle barricate a mani nude
L’eroina che sfida il regime in Bahrein
di Alberto Stabile

qui

Corriere 23.4.12
L'americana picchiata eroina delle cinesi
di Marco Del Corona


PECHINO — Il suo volto tumefatto era apparso in agosto. I segni delle percosse sul viso di Kim Lee nel giro di poche ore avevano portato allo scoperto il suo dramma di donna vittima di violenze coniugali con una franchezza e una brutalità che la Cina non aveva mai sperimentato prima. Dopo l'ennesima lite e l'aggressione, Kim Lee aveva deciso di non tacere. Se ne era andata alla polizia e poco dopo aveva riversato su Weibo (il Twitter cinese) la prima immagine di come il marito Li Yang avesse cercato di imporre, a suon di botte, le proprie ragioni. La dimensione pubblica della tragedia di Kim Lee ha reso la violenza domestica in Cina un tema di dibattito, non soltanto un falso segreto.
Il caso è senza precedenti. Lei, Kim, oggi 40 anni, era un'insegnante di Miami quando nel 1999 venne nella Repubblica Popolare per un progetto di ricerca sul bilinguismo. Lui, Li Yang, già allora aveva lanciato un suo innovativo metodo di apprendimento dell'inglese in un Paese che aveva disperatamente bisogno di rompere una crosta di isolamento che vent'anni di riforme non avevano ancora smantellato. «Crazy English» funzionava e sembrava gratificare con energiche sferzate di orgoglio nazionalista le ambizioni di chi lo seguiva. Kim Lee e Li Yang si conobbero il primo giorno, ebbero la prima di tre figlie, si sposarono nel 2005 a Las Vegas e, soprattutto, lavorarono insieme, con la donna impegnata tra l'altro a preparare testi per i manuali del consorte. I pestaggi cominciarono con una discussione per motivi economici, altri seguirono, fino al fatale agosto 2011. Gli scatti postati sul web resero impossibile anche ai media governativi ignorare la vicenda. I dati della Federazione cinese delle donne sulla violenza domestica dicono che una su quattro l'ha subita mentre nelle campagne la percentuale si alza a due su tre. Un'atroce normalità, considerata accettabile grazie alla pratica di ascendenza confuciana che pretenderebbe le donne sottomesse e ubbidienti. Kim Lee ha trovato sostenitrici e detrattori. Il tema è scivoloso, scivolosissimo. Perché lei è un'americana e, per quanto viva nel suo Paese d'adozione da anni, resta una laowai, una straniera. Li Yang è invece un han che per i suoi corsi aveva coniato slogan tipo «Conquistare l'inglese per rendere più grande la Cina» e che, nel difendersi durante le settimane di maggiore esposizione mediatica, ha menzionato la legittimità culturale del ricorso alla violenza in ambito familiare.
Come ha spiegato alla Associated Press Feng Yuan, che ha fondato un gruppo per contrastare il fenomeno, «vediamo la punta di un iceberg senza sapere davvero quanto l'iceberg sia grande». Kim Lee, di suo, ha dichiarato al China Daily in gennaio di non sentirsi «una eroina» e di pensare di scrivere un libro sul tema. «Negli Usa sai d'avere la legge dalla tua parte — aveva spiegato — mentre in Cina, anche se la donna alla fine parla, è tutto più difficile». Il marito si era difeso raccontando alla tv di Stato Cctv di essere depresso, di aver avuto genitori anaffettivi, di aver commesso soltanto un piccolo errore e di non essere stato «poi così crudele»: in fondo «l'ho picchiata 10 volte in tutto». Lei ha chiesto il divorzio a ottobre, in dicembre la prima udienza, ora si attende il verdetto. Non è uno scontro di civiltà, tra Occidente e Cina: fa molto più male.

l’Unità 23.4.12
Quant’è complicato il nostro neonato!
La divertente «Autobiografia di un bambino di un anno» scritta da un umorista inglese spiazza i genitori demolendo tutte le loro sicurezze
di Manuela Trinci


Ciucciatemi il pannolino, potrebbe essere, in un immaginifico corteo, lo slogan scandito da una miriade di bebè «indignados» e ben decisi a opporsi all’ottusità di dover soddisfare qualsivoglia criterio prestabilito di sviluppo circa i traguardi fisici, mentali e sociali di bambini molto impegnati a crescere, conquistare sabbiere, arrampicarsi su sedie e finestre, eccetera...
Perché non si creda che i bebè non abbiano opinioni esatte sul mondo strampalato sul quale si affacciano, pur se qualche volta cedono pietosi alle richieste di genitori anelanti. Per questo, per dimostrare una sorta di adeguatezza, si prestano a incastrare le formine dei giochetti didattici oppure schizzano coi piedini in piscina, oppure accondiscendono al gioco del cucù, pienamente consapevoli che siano tutte cose assolutamente inutili al loro futuro.
E neppure si creda che non siano in grado di valutare lo stile di vita di genitori che arrancano fra giocattoli sorrisi stirati e notti insonni, che ingoiano il cibo rigorosamente in piedi, senza voluttà, che accessoriano esageratamente il modello base di passeggini, che si lasciano occupare, affranti, la vasca da bagno, e che mal celano come dietro al rassicurarsi che lui, sua maestà il bebè, stia bene si ammanti la rassicurazione che loro stanno bene!
Falsa anche la credenza che i legionari col dito in bocca siano soddisfatti nel dormire dietro le sbarre, o di venire legati alla sedia per mangiare roba poltigliosa, tipo colla per carta da parati, oppure subire l’onta del cambio del pannolone in pubblico, o, peggio, parlare con le bolle di saliva e non essere capiti.
Tanto di bavaglino, allora, a Rohan Candappa (celebre umorista inglese) che nel suo esilarante Pappa Nanna Pupù & altre calamità della vita. Autobiografia di un bambino di un anno (nella traduzione di Laura Bortoluzzi per le edizioni Il Castoro, pagine 230, euro 14) assume il punto di vista e la statura... di un bambino di un anno, narrandone in prima persona le esperienze quotidiane, i possibili pensieri, i temibili non-detti, nonché gli urli della riscossa.
PELLE LISCIA E PELOSO
Il concetto base di questo simpatico bebè eroico nella determinazione per diventare un classico negli annali della guerriglia diviene che per quanto a detenere il potere siano pelle liscia (la mamma) e peloso (il babbo) ciò non vuol dire «che voi (bebè) non possiate essere i padroni della situazione». Con azioni mordi e fuggi, con il moccio strisciato sui vestiti, il rifiuto dei calzini proposti dagli oppressori; con la tecnica del pianto, la serrata della pappa e la resistenza notturna a oltranza alla testa che ciondola, si può intimorire e demoralizzare ottenendo favori insperati.
Un imprevedibile, picaresco, diario di un qualsiasi bebè preso dalla complessità di tante rivelazioni: dalla scoperta della mani così utili per gattonare e così attaccate al corpo, a quella dell’immagine riflessa che raddoppia e inquieta, al passaggio da quadrupede a bipede; dal primo raffreddore, al primo dentino, al primo morso a un gelato: un morso di gelo... sino alla grande scoperta degna del più classico dei design che il dito, qualsiasi dito, entra perfettamente in un buco del naso.
Il tutto arricchito da lancio di scodelle, schermaglie, recriminazioni, osservazioni e riflessioni, sorprendenti citazioni colte. Percorre, poi, quest’autobiografia da brivido, il puro piacere di giocare insito nella natura umana; giocare a nulla e con nulla, rotolarsi senza scopo, afferrare le briciole o lasciarsi scivolare verso l’assuefazione da altalena.
Come pure, vi è implicita, nel libro, la straordinaria convinzione che dei bambini si possa parlare solo «about», circa...intorno... come sosteneva il socratico Winnicott.
WINNICOTT DIXIT
Può darsi che tanti genitori fin troppo abituati alle sicurezze espresse da una fiorente manualistica di genere rimangano perplessi dai ribaltoni e dai traballamenti di pensiero che questo nanerottolo dispettoso induce attraverso la sua autobiografia. E soprattutto può darsi che non vi trovino risposte pre-confezionate, illuminanti, di quanto passi nella sua stravagante testolina... perché a tante domande che noi ci poniamo è ancora Winnicott a suggerirlo «i bambini piccoli si mostrerebbe sicuramente contrariati, perché nessuno meglio di loro sa quanto sia stupido essere sempre razionali»

l’Unità 23.4.12
Quei ragazzi venuti da Bristol
di Pietro Greco


Una mappa socio-sanitaria La ricerca svolta nella città inglese su un campione di oltre 14mila nascituri, oggi 21enni, rivela preziosi risultati
I«ragazzi degli anni ’90» stanno diventando maggiorenni. E a Bristol, in Gran Bretagna, lo scorso 18 aprile hanno tirato le somme della vita di questi giovani che stanno attraversando il traguardo delle 21 primavere. Nella città inglese i «ragazzi degli anni ’90» sono i figli di 14.541 donne che, incinte nel corso del 1990, hanno accettato la proposta del professor Jean Golding dell’University of Bristol di sottoporre a uno screening continuo se stesse, i loro partner e i loro figli. Si tratta del 70% dei giovani di quell’età e delle relative famiglie dell’intero distretto di Bristol. Un campione di popolazione senza precedenti.
È stato così raccolto un materiale enorme e diversificato tra cui 9.000 placente, 4.000 denti di neonati, 15.000 campioni di unghie e 20.000 ciocche di capelli che ha consentito di allestire una serie di banche organiche, genetiche, di dati sociosanitari. In questo modo l’Avon Longitudinal Study of Parents and Children (Alspac) si è affermato come il più grande studio di massa sugli effetti sanitari di quel complesso crogiolo in cui genetica, ambiente naturale e ambiente culturale si fondono per creare lo spazio in cui si svolge la vita di ciascuno di noi.
La ricerca è partita senza un obiettivo specifico. Se non quello di cercare di sapere tutto di tutti. E i risultati scientifici della enorme massa di dati non si sono fatti attendere. A tutt’oggi sono stati pubblicati oltre 700 articoli scientifici, in svariati ambiti disciplinari. Lo studio della coorte di Bristol, per esempio, ha dimostrato che nei primi 18 anni di vita tra il 5 e il 10% dei ragazzi ha accusato forme di psicosi: una percentuale molto più alta di quanto prima ritenuto. E ha mostrato come almeno il 19% dei ragazzi di età compresa tra i 16 e i 17 anni assume atteggiamenti auto aggressivi, ferendosi o comunque danneggiandosi.
PIÙ PESO MENO CULTURA
Molto studiata è stata anche l’obesità, con i suoi effetti. Combinando dati genetici e sociali, gli studiosi di Bristol hanno potuto verificare che non è affatto vero che i ragazzi obesi hanno maggiori deficit cognitivi e vanno peggio a scuola. In realtà l’obesità è solo in parte effetto di cause genetiche. Per lo più è effetto di cause sociali e culturali: è più diffusa tra i ceti poveri e meno acculturati. E che la correlazione tra obesità e voti cattivi a scuola è solo apparente. In realtà il gap cognitivo misura le differenze sociali nascoste nelle differenze di peso. Che i fattori ambientali contino, molto spesso, più dei fattori biologici nel determinare il nostro benessere psicofisico è stato dimostrato dallo studio della depressione dei padri durante il periodo di gestazione e subito dopo la nascita dei figli. Chi ha avuto padri depressi in questi periodi, infatti, ha maggiori probabilità di incontrare il disagio psichico nel corso dell’età evolutive.
Lo studio di Bristol ha ottenuto altri e significativi risultati relativi al periodo della gravidanza: ha mostrato, per esempio, che i figli di donne che hanno mangiato pesce nel corso della gestazione mostrano maggiori capacità cognitive anche ad anni di distanza. Che facendo dormire i bambini a pancia in su è un modo per prevenire della «sindrome della morte improvvisa del lattante», senza precludere in alcun modo le capacità cognitive dei bambini. Che l’uso di lozioni contenenti olio di arachidi per lavare i neonati, fa aumentare l’incidenza delle allergie verso noci e noccioline. Ma anche che la tendenza alle allergie tende ad aumentare tra i giovani che, da bambini, sono vissuti in case troppo igienizzate.
Tutti questi risultati sono solo una parte di quelli che è possibile ottenere dallo studio relativo «ai ragazzi degli anni ‘90» di Bristol. La maggior parte dei dati attende ancora di essere analizzata. Intanto si attendono gli esiti di un’altra indagine longitudinale, avviata in Norvegia su una coorte di 100.000 ragazzi e delle loro rispettive famiglie.

La Stampa 23.4.12
Sopravviveranno i giornali? La ricetta della Columbia
Alla Journalism School dell’università newyorchese: nell’era del Web nuovi modi di informare salveranno la professione
di Paolo Masatrolilli


IL MODELLO Digitalizzato e specializzato: ormai l’informazione generale si trova gratis ovunque
L’ULTIMA COPIA DEL «N. Y. TIMES» «Quando moriranno quelli che ora hanno 40 anni. I lettori nati dopo non vogliono più la carta»

Questa storia la cominciamo dalla fine: «Il giornalismo sopravviverà alla morte delle sue istituzioni», dicono alla Columbia University di New York. A parte la rassicurazione un po’ macabra, tutto il resto è da vedere. Quale giornalismo sopravviverà, quali istituzioni spariranno, cosa prenderà il loro posto. È un giallo che interessa ai professionisti, perché si giocano i loro posti di lavoro, ma anche al pubblico, chiamato a decidere quale informazione vuole in futuro.
Quest’anno la Journalism School della Columbia, che assegna i premi Pulitzer, compie cent’anni. Quindi nel fine settimana ha invitato gli ex alunni, per celebrare e riflettere sul futuro. Il quadro è noto: Internet e i social media hanno rivoluzionato il nostro mondo, tutti leggono le notizie gratis in rete, ogni blogger ci fa concorrenza, le vendite dei giornali di carta diminuiscono, i costi aumentano e le entrate pubblicitarie calano, pure sui siti, per la crisi economica ma non solo. Non è una tempesta passeggera: quando arriverà la ripresa, non si tornerà più al passato. E questo vale pure per la tv.
Le domande a cui si cerca ancora risposta sono due: il contenuto, e il modello. Il preside Nicholas Lemann offre una ricetta essenziale: «Il giornalismo del futuro sarà specializzato e digitalizzato». Specializzato, perché l’informazione generale si trova gratis ovunque: se uno vuole essere pagato per il suo lavoro, deve offrire qualcosa di specifico che non esiste altrove. In questo senso, i media hanno interesse a trasformare i loro giornalisti in «brand», promuovendo la firma, mandandoli in tv, costruendo blog. Così si monteranno la testa e chiederanno più soldi, ma creeranno una fidelizzazione dei lettori essenziale per continuare a vendere il prodotto.
Il giornalismo poi sarà digitalizzato, perché il futuro è nella rete. «Fare e comprare i giornali di carta - dice Phil Balboni, presidente di GlobalPost - non ha più senso». Un professore, che lasceremo anonimo per il suo bene, si azzarda anche a prevedere quando vedremo in edicola l’ultima copia del New York Times: «Alla morte dell’ultimo rappresentante della generazione che oggi ha quarant’anni. Tutti i lettori nati dopo non sono cresciuti con la carta e non la vogliono più». Sreenath Sreenivasan, guru dei new media che ormai a Columbia non chiamano nemmeno più «new», aggiunge un terzo punto ai consigli del preside: «Il giornalismo sarà socializzato, perché è essenziale promuovere il contenuto oltre i limiti della propria testata. Stare o no sui social media farà la differenza tra chi esisterà ancora fra cinque anni, e chi invece sparirà».
Se questo è il quadro, con quali contenuti va riempito? «Ormai - dice l’amministratore dei premi Pulitzer Sig Gissler - noi insegniamo tra digital journalism », ossia un mestiere che usa gli strumenti tradizionali del giornalismo, per le piattaforme digitali. «Un tempo - aggiunge il professor Ernest Sotomayor gli studenti arrivavano a Columbia con l’obiettivo di trovare posto in un giornale che aveva sede a Times Square. Ora invece vengono con una curiosità, una passione, un tema di cui vogliono occuparsi, e cercano di imparare le tecniche giornalistiche per farlo. Una volta acquisite queste capacità, trovano loro il modo di esercitarle». Questo non significa che se chiama il New York Times rispondono no, però vanno solo se possono scrivere della cosa che interessa a loro, e probabilmente a una fetta di pubblico che il Times vuole conquistare attraverso la loro competenza.
Altrimenti fanno come David Cohn, che ha fondato Spot Us, una piattaforma per i freelance. Un giornalista propone un pezzo: voglio fare un’inchiesta su come New York gestisce i rifiuti. Spot Us lo suggerisce alla comunità degli utenti, chiedendo donazioni per finanziare l’inchiesta. Anche un dollaro, tutto serve. Se si raggiunge la cifra necessaria, l’inchiesta comincia. Crowd sourcing e crowdfunding, insomma, finanziamenti dai lettori. Così arriviamo ai nuovi modelli, e alla responsabilità del pubblico per salvare l’informazione di qualità. Se i giornali devono sopravvivere online, come prima cosa serve una tecnologia veloce per fare micropagamenti e leggere articoli con un clic.
I paywall, sistemi di pagamento come quello che ha alzato il New York Times raccogliendo quasi mezzo milione di utenti, dovrebbero dare agli iscritti lo status di «membri» del giornale, come fa il Los Angeles Times, coinvolgendoli così anche nella realizzazione del prodotto. Alla pubblicità tradizionale si potranno aggiungere indagini di mercato richieste a pagamento da aziende che vogliono informazioni sui clienti, come fa già Google. Questa convergenza tra tech e media company è insieme promettente e preoccupante. Le grandi compagnie tecnologiche, Facebook, Google, Apple, Twitter, sono già anche media company: con i soldi che ha, se domani Mark Zuckerberg volesse creare il suo Times, o comprarselo, sarebbe un gioco. Ma i lettori accetteranno queste enormi tech company come editori? All’inverso, i grandi media potrebbero cominciare a sviluppare applicazioni, per fare soldi nel settore tecnologico da usare poi per finanziarie le attività editoriali.
Tutto bene. Ma perché questa storia dovrebbe interessare alla gente, che semmai ha il problema di un bombardamento incessante di informazioni? La domanda va girata sulla qualità, e si risponde solo con le parole di Joseph Pulitzer, quando propose di creare la scuola di giornalismo alla Columbia: «La nostra Repubblica e la sua stampa cresceranno o cadranno insieme. Una stampa capace, disinteressata e dotata di spirito pubblico, con l’intelligenza per riconoscere il giusto e il coraggio di farlo, potrà preservare la pubblica virtù senza di cui il governo popolare è una burla e una parodia. Invece una stampa cinica, mercenaria e demagogica, produrrà nel tempo un popolo spregevole come se stessa».

Corriere 23.4.12
L’effetto timbro tradisce il papiro
di Luciano Canfora


Il testo in lingua greca che qui presentiamo corredato di apparati esegetici essenziali è stato offerto negli scorsi anni all'attenzione sia del grande pubblico sia degli studiosi. Per molto tempo se n'era parlato in modo informale; poi ne fu data una parziale anticipazione su un periodico specialistico: sempre con la pretesa che si trattasse del II libro della Geografia di Artemidoro di Efeso (II secolo a. C.). L'ostensione al pubblico dell'intero manufatto avvenne a Torino nel febbraio 2006, in un contesto mediatico fastoso, ma ben presto foriero di crescenti e radicali rilievi critici.
L'edizione tardò altri due anni (fino al marzo 2008) e dovette misurarsi, non senza incorrere in molteplici contraddizioni, con una bibliografia critica ormai consistente. In meno di un anno la ricostruzione del montaggio proposta dai promotori dell'impresa, e «codificata» nell'edizione del 2008, fu sconvolta e sostituita da un'altra del tutto opposta, che dal punto di vista del puzzle dei frammenti appare obbligata, ma che perviene a dar vita a un prodotto il cui senso sfugge innanzitutto allo stesso studioso che l'ha proposta.
L'intera vicenda è stata ricostruita con oggettività e maestria critica da Federico Condello. Qui conviene dar conto in modo essenziale dei dati di fatto che impongono le seguenti due conclusioni:
a) il cosiddetto papiro di Artemidoro è un falso moderno, costruito ovviamente con materiali antichi;
b) l'autore del falso è Costantino Simonidis (1820-1890 circa).
Ciò che rende evidente che siamo di fronte a un falso moderno è la pratica di questo ragguardevole artigiano di scrivere (e disegnare) intorno alle lacune che il supporto papiraceo da lui adoperato già presentava. Lo sconcertante fenomeno si osserva nelle colonne I (rigo 43) e IV (righi 24 e 25), nonché in larga parte dei disegni che pullulano sul recto di questi frammenti papiracei.
Il fenomeno è dirimente. Non trova altre spiegazioni se non che siamo di fronte all'opera di un falsario, il quale lavora su di un papiro già danneggiato pesantemente (con buchi e sfilacciamenti). Per un falsario questa situazione è un'arma a doppio taglio: per un verso il danneggiamento «autentico», e non creato ad arte, è un vantaggio perché accresce l'impressione di autenticità; per l'altro crea l'inconveniente di dover scrivere intorno alle lacune. È un vero peccato che coloro i quali un tempo si impegnarono a difendere l'autenticità del papiro non abbiano sfiorato questo macroscopico problema.
È ozioso osservare che un incidente del genere potrebbe verificarsi anche in un papiro davvero vergato da un copista antico.
Ciò che rende vana questa «via d'uscita» è la frequenza con cui il fenomeno si verifica in uno spazio così breve: tre casi a brevissima distanza l'uno dall'altro e in aree del papiro per le quali è impossibile invocare il difettoso riaggiustamento delle fibre. Il fatto poi che si verifichi la medesima imprudenza sia per la scrittura sia per i disegni chiude definitivamente la questione.
Vi è poi un elemento altrettanto oggettivo: la presenza della grafite nell'inchiostro con cui è stato vergato il testo presente sul recto. Tale presenza è stata acclarata e resa nota dal laboratorio di chimica per le tecnologie dell'Università di Brescia: «Per quanto riguarda l'analisi del pigmento, è stato rilevato un picco a d = 3.33, attribuibile al carbonio in fase di grafite». Poiché la grafite non è nota prima della fine del Medioevo, l'antichità del testo è definitivamente esclusa.
Un altro elemento fattuale presente nel cosiddetto Artemidoro che ci porta fuori dal mondo antico è l'«effetto timbro» della scrittura del recto, passata, capovolta, sul verso. L'unica ragionevole spiegazione di un fenomeno del genere implica che sia entrato in scena uno strumento che, inchiostrato, ha, per un incidente, lasciato traccia venendo a contatto col verso del papiro. E tale strumento inchiostrato e recante il medesimo testo, che si legge sul recto, ma capovolto, non può essere che una attrezzatura litografica. Simonidis usava creare, appunto con procedimento litografico, facsimili dei suoi papiri più impegnativi onde illustrarne con adeguate tavole la pubblicazione: così fece, ad esempio, per il periplo di Annone, per i frammenti del Vangelo di Matteo e per tante altre sue creazioni anche epigrafiche.

Corriere 23.4.12
Disturbo bipolare, addio tour
Sinead: «Sto male, scusate»

di A. Laf.

Sinead O'Connor annulla la tournée. Ed è la stessa cantautrice irlandese a precisare i «motivi di salute» annunciati in un freddo comunicato dal management.
Sul proprio sito Internet l'artista parla dei suoi problemi psicologici: «È con enorme rimpianto che devo annunciare che devo cancellare tutto il tour di quest'anno perché non sto per nulla bene a causa di un disturbo bipolare» scrive.
Lo aveva già confessato cinque anni nel salotto tv di Oprah Winfrey, aggiungendo anche il racconto di un tentato suicidio nel giorno del 33° compleanno. In questi mesi la situazione è peggiorata. Post su Twitter in cui chiedeva il supporto di uno psicologo, messaggi in cui si diceva alla ricerca di un uomo con determinate caratteristiche sessuali (lo aveva anche trovato, sposato e mollato nel giro di un mese), interviste ai tabloid in cui raccontava di altri due tentativi di suicidio a gennaio. «Come tutti voi sapete ho avuto un forte esaurimento nervoso fra dicembre e marzo e il mio dottore mi aveva consigliato di non andare in tour» si legge ancora nel sito della 45enne.
La tournée è però partita e dopo la cancellazione last minute del concerto di sabato scorso a Monaco, l'annuncio dello stop definitivo che fa saltare anche lo show di domani al teatro Smeraldo di Milano. «Non volevo "fallire" o deludere qualcuno poiché il tour era già stato prenotato per farlo coincidere con l'uscita dell'album». Il mese scorso era stato pubblicato «How About I Be Me (And You Be You)?», disco che, dopo gli ultimi flop, faceva sperare in un ritorno di una delle protagoniste degli anni Novanta: cranio rasato e gran voce. Proprio nelle scorse settimane aveva dichiarato al settimanale Gioia: «Da quando ho pubblicato il mio primo disco, nel 1990, tutti non fanno che trattarmi come una pazza, in un mondo in cui la parola "pazza" è usata come un bastone per far male alla gente».
Tornando al messaggio postato sul sito, la cantante di «Nothing Compares 2 U» riconosce l'errore di non aver dato ascolto al medico: «Molto stupidamente e a mio danno ho ignorato il consiglio, cercavo di essere più forte di quello che in realtà sono». Quindi le scuse: «Chiedo sinceramente scusa per qualunque problema abbia causato. E se il tour è cancellato, spero e ho in progetto di partecipare al tributo a Curtis Mayfield a luglio al Lincoln Centre».