mercoledì 25 aprile 2012

l’Unità 25.4.12
Un giorno di libertà tra memoria e voglia di cambiare
Chi ha combattutto nella Resistenza lo ha fatto per liberare l’Italia ma anche per inseguire il sogno di un futuro migliore Sta a ciascuno di noi riprendere quelle speranze. E realizzarle
di Carlo Smuraglia
, Presidente nazionale ANPI

Prima di tutto la memoria, perché un Paese che non ricordasse i suoi morti per la libertà e dimenticasse le pagine più gloriose della sua storia sarebbe condannato all’ignominia e al decadimento. Il ricordo, dunque, dei partigiani e dei soldati che combatterono in armi, dei militari che non si arresero ai tedeschi, dei contadini che aiutarono i combattenti, delle donne che fecero irruzione nella vita politica nazionale per battersi in favore della libertà, dei sacerdoti che aiutarono i partigiani e i militari, di tutti coloro insomma che hanno composto il grande quadro della Resistenza; tutto questo è prioritario, rispetto ad ogni altra cosa, perché è dovuto al loro sacrificio ma anche all’esempio che ci hanno dato di fierezza e di speranza. Quei combattenti che non anelavano soltanto alla libertà, ma volevano anche avviare la ricostruzione di un Paese distrutto, sui sentieri della democrazia. Ed è proprio alle loro speranze e ai loro sogni che oggi va dato il massimo tributo perché la memoria non sia formale e retorica, ma sia utile per capire e affrontare il presente e il futuro.
Viviamo in una fase difficile, di fronte a una crisi che non è temporanea ma strutturale, alle difficoltà di tante famiglie senza lavoro e senza un’adeguata sicurezza sociale, al lavoro “dimenticato”, alla dignità sepolta nei meandri del precariato, alle tante modestissime pensioni di vecchiaia, alla ricerca affannosa di accompagnare al necessario rigore quell’altrettanto necessaria equità senza la quale i sacrifici non possono essere accettati.
Una fase difficile, aggravata dal distacco dei cittadini dalla politica (che rischia sempre di trasformarsi in una pericolosissima “antipolitica”), dalla corruzione dilagante, dall’assalto della criminalità organizzata al nostro stesso sistema economico, dalle nostalgie di un passato che non può più tornare, dal degrado anche culturale che sta avviando, da tempo, il Paese su una china estremamente rischiosa. Una fase difficile anche perché alla rassegnazione e alla indifferenza si uniscono talora una protesta e un’indignazione, altrettanto pericolose se fini a se stesse, perché la storia ci insegna che certe derive portano facilmente a soluzioni populistiche e autoritarie, come ci dimostra in questi giorni, anche l’incredibile affermazione elettorale di un movimento di destra estrema in Francia.
In una fase come questa, ci si può affidare allo scoramento, alla caduta di ogni speranza, e perfino alla rassegnazione? Io credo che sarebbe cadere in un baratro senza ritorno. Non sta a me indicare le soluzioni e le alternative; perché non è questo il compito dell’Anpi, mentre lo è l’indicare la strada per “resistere” e avviare il Paese verso il riscatto, con un cambiamento deciso di rotta sul piano economico, politico e sociale.
Il fondamento di questo impegno si può trovare soltanto nel ricorso ai princìpi e ai valori della Costituzione che affondano le radici nella Resistenza che oggi ricordiamo. A quel rilancio di valori dobbiamo contribuire tutti, perché questa, solo questa, è la via della salvezza del Paese.
Per questo, oggi la Festa è e deve essere di tutti, perché al ricordo aggiungiamo il richiamo ai valori fondamentali che si riassumono in parole semplici (lavoro, dignità, uguaglianza, solidarietà) ma estremamente significative.
Una festa di tutti. E sarebbe ora che tutti lo capissero, abbandonando i negazionismi e i revisionismi di sempre e mettendo finalmente da parte i troppi rigurgiti neofascisti (sono di ieri i manifesti che inneggiano alla Repubblica di Salò!), per riconoscersi finalmente in ciò che di grande è avvenuto nel nostro Paese, attraverso la ricostruzione dell’Unità nazionale, nella libertà, e l’apertura delle porte alla democrazia.
Rivolgo dunque, un invito fraterno e amichevole a tutti, cittadine e cittadini, donne e uomini di altri Paesi che si trovano in Italia, a raccogliersi, oggi, nelle piazze attorno alla Resistenza, alla Costituzione, ai valori di fondo che fanno del nostro Paese una vera Nazione. Un giorno di libertà e di festa, nel commosso ricordo dei caduti, volgendosi indietro con la memoria, ma con lo sguardo rivolto in avanti, proteso con la volontà e l’azione verso un futuro migliore.

l’Unità 25.4.12
Ricostruire il Paese
Oggi come ieri i giovani devono vincere la sfida
Non abbiamo a che fare con una guerra perduta né con una dittatura fascista eppure il passaggio a cui siamo giunti è cruciale per l’avvenire della democrazia È necessario un grande rinnovamento, bisogna rialzare la testa come allora
di Alfredo Reichlin


Sono passati quasi 70 anni una intera epoca storica dalla liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista. Io ricordo bene quella giornata che segnò l’avvento di una nuova Italia. Un mondo soprattutto di giovani prendeva in mano il destino di un Paese coperto di macerie, ferito da migliaia di morti, umiliato dalla sconfitta in una guerra ingiusta e sciagurata, occupato da eserciti stranieri. È in queste condizioni che i grandi partiti popolari, i rappresentanti delle masse contadine ed operaie che fino allora erano state escluse dalla vita pubblica dello Stato post-risorgimentale, presero la guida dell’Italia e la portarono alla riscossa. In meno di dieci anni il Paese intero fu ricostruito, uscì dall’arretratezza del vecchio mondo contadino, diventò la quarta o la quinta potenza industriale del mondo, mandò i suoi ragazzi a scuola.
La spiegazione di questo autentico miracolo si fa presto a dirla. Fu la capacità di mobilitare le energie profonde del popolo italiano facendo appello a quella straordinaria risorsa che è la sua antica civiltà. Il popolo si sentì protagonista e i suoi diretti rappresentanti (non i sovrani o le classi dominanti, come era sempre avvenuto nel passato) scrissero un nuovo patto di cittadinanza, la Costituzione repubblicana, fondata sul lavoro e garante di nuovi diritti. Non solo l’uguaglianza di fronte alla legge ma nuovi diritti sociali. Insomma, costruirono uno Stato democratico avanzato, che è tale non solo perché consente la libertà di voto e di opinioni ma perché garantisce anche agli ultimi, alle classi subalterne, di organizzarsi e di pesare sulle decisioni pubbliche attraverso i propri strumenti di potere: i partiti politici, i sindacati, le associazioni volontarie.
Da allora è passato un secolo, un’epoca intera. Perciò appare davvero singolare che rievocando quell’antica vicenda, noi in realtà abbiamo netta la sensazione che stiamo parlando, sia pure in modi molto diversi, dei problemi di oggi. Perché? È evidente, per fortuna, che non abbiamo a che fare con una guerra perduta, né con una dittatura di tipo fascista. Eppure il passaggio a cui siamo giunti è molto aspro ed è cruciale per l’avvenire della democrazia repubblicana e per il futuro dei nostri figli. Si sta creando una miscela esplosiva tra una gravissima crisi economica che getta nella disperazione milioni di persone al punto che si moltiplicano i casi di suicidio e il fango gettato ossessivamente, ogni giorno e ogni ora sul Parlamento e sui partiti politici dipinti come tutti ladri e tutti uguali.
È sacrosanta l’indignazione per i fatti di corruzione. Ma è solo di questo che si tratta? Io vedo anche il tentativo di creare una grande confusione. Il Gattopardo. Quel libro famoso in cui si narra che di fronte alla caduta rovinosa del regno borbonico e all’arrivo di Garibaldi in Sicilia il vecchio principe spinge il nipote a sposare una popolana. Così faremo credere che tutto cambi affinché tutto resti come prima. È caduto Bossi? Avanti allora un altro: Beppe Grillo. Tanto sono tutti uguali. Il che non è vero affatto. L’Italia prima di Berlusconi è stata governata da ministri come Ciampi, Prodi, Andreatta, Amato, Giorgio Napolitano, tra i migliori e i più onesti della Repubblica. Dopo, per quasi dieci anni hanno governato Bossi, Berlusconi, Rosi Mauro e certe signore.
Io penso che da qui, da un lungo malgoverno che ha fatto del denaro e dell’egoismo sociale la misura di tutte le cose, viene la crisi anche morale dell’Italia. Come ne possiamo uscire? È evidente che senza una riforma profonda anche intellettuale e morale, l’Italia decadrà e non sarà più quella cosa meravigliosa che è stata nei secoli. Quale strada vogliamo imboccare? Vogliamo affidare ancora una volta il destino del Paese a un comico, a un altro avventuriero, a un altro miliardario che ha chiamato partito la sua azienda personale e si è comprato anche i deputati?
È necessario un grande e profondo rinnovamento. Ma senza i partiti veri con quali strutture di partecipazione democratica possiamo dare una risposta alla potenza inaudita della finanza speculativa e ridare il potere alla democrazia e al Parlamento invece che alle banche? Non dimentichiamo che il fenomeno più impressionante a cui stiamo assistendo è l’aumento della povertà, ma al tempo stesso della concentrazione della ricchezza in poche mani. Dobbiamo contrastare il predominio di un’aristocrazia planetaria del sapere, del potere e della ricchezza, a fronte di una massa di semplici consumatori, e più in basso ancora di esclusi, sia dal potere che dai consumi.
È con questi pensieri che io mi rivolgo ai giovani e li esorto a rialzare la testa, come fecero i giovani di allora dopo il fascismo per ritrovare l’orgoglio delle ragioni storiche dell’Italia nell’aspro scenario di lotte e di contraddizioni che sempre più segnano questo nostro mondo. Le elezioni francesi possono essere anche per noi una opportunità di cambiamento. Abbiamo tutti bisogno di un nuovo pensiero critico. Una critica, la cui radicalità non sta nella violenza e nel rifiuto di assumere responsabilità di governo, ma nel mettere in discussione i poteri reali che governano da sempre questo Paese.
Italia e giustizia sociale. Questa è la nostra bandiera, che dovremmo tenere più in alto e con più orgoglio. La loro era fino a ieri il patto tra Berlusconi e Bossi. Adesso è Grillo per l’Italia e la signora Le Pen per la Francia. Mi rattrista molto. Ciò che mi consola è che io, tanti anni fa, l’ho vista scappare molto impaurita questa classe dirigente inetta e trasformista. Aveva però di fronte un progetto di ricostruzione della nazione, che coinvolgeva anche forze non di sinistra.

l’Unità 25.4.12
25 Aprile scaccia populismo
di Bruno Gravagnuolo


Ancora un 25 aprile, per fortuna. Dopo che in tutto questo dopoguerra la destra, con contorno di moderati terzisti, ha tentato di svilirlo. O di ridurne la portata. Ecco una sintesi di ciò che è stato in gioco. Di quel che è stato conquistato e che nei tempi mutati dobbiamo rilanciare. Primo: il 25 aprile segna la vittoria della Resistenza. Guerra di liberazione civile. Con l’accento su liberazione dal nazifascismo. Nonché dalla sua «guerra ai civili» terroristica che non riuscì a trascinare l’Italia in una vera guerra civile a fianco di Hitler e Mussolini.
Dunque vi fu anche guerra civile, ma fu «secondaria», a fronte della liberazione: civile, partigiana e coobelligerante con gli Angloamericani. E non vi furono due «patrie». Perché la stragrande maggioranza degli italiani in retrovia, in prima linea o in «zona grigia» voleva quella Liberazione. Questo con tutto il rispetto per i ragazzi di Salò e quant’altro: roba rifritta e scontata. Con la quale già Togliatti seppe fare i conti. Senza bisogno di Pansa, Mazzantini o De Felice.
Seconda conquista: dal 25 aprile vengono Costituzione e discontinuità antifascista iscritta nella prima. In guisa di Grund-Norm fondativa. Spartiacque simbolico non negoziabile, da cui tutto deriva. Dunque: frattura inaugurale e Repubblica democratica fondata sul lavoro. Una e indivisibile. Con requiem finale per le pagliacciate della Lega, assunte con fin troppa tolleranza culturale o sociologica (federalismo, «barbarie novatrice», costola della sinistra, etc., etc.). Infine, terza conquista: che «tipo» di Repubblica? Parlamentare, bicamerale, riformabile col 138 senza rimettere in questione i fondamenti. Tra cui, oltre al lavoro, i partiti, cuore della democrazia. Che il fascismo liquidò inneggiando a: «giovinezza», élites, tecnica, movimento vitale dal basso e legame capo-masse. Guarda caso...

il Fatto 25.4.12
Il nostro 25 aprile
di Paolo Flores d’Arcais


 L’antifascismo non è un optional. La convivenza civile si basa sulle leggi, le leggi sulla Costituzione, la Costituzione solo su un fatto storico che la legittima e che regge dunque l’intero ordinamento. Per l’Italia democratica questo fatto si chiama Resistenza antifascista. Se viene meno il riconoscimento della Resistenza crolla l’intero castello di legittimità. Per questo il 25 aprile è festa nazionale: perché l’identità del-l’Italia democratica, della nostra Patria, ha il suo ultimo fondamento nella vittoria della Resistenza antifascista, nella frase “Aldo dice 26x1”, con cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia dà l’ordine dell’insurrezione generale e i partigiani liberano le grandi città del nord da nazisti e fascisti prima dell’arrivo delle truppe alleate.
Patriottismo costituzionale a antifascismo fanno dunque tutt’uno. I funzionari pubblici che giurano sulla Costituzione compiono spergiuro ogni volta che non sono coerenti con i valori della Resistenza. E anche il semplice a-fascismo segnala drastica indigenza di patriottismo. Chi non è antifascista non è un autentico italiano. Chi poi è anti-antifascista è semplicemente un nemico della Patria.
Oggi purtroppo l’antifascismo è in minoranza, maggioritaria è la morta gora dell’indifferenza. I giovani nulla sanno dell’epopea della Resistenza a cui devono la libertà di cui godono. Colpa delle generazioni che avrebbero dovuto educarli, di un establishment che ha seppellito l’antifascismo nella retorica di celebrazioni bolse ed ipocrite, o peggio.
I governi democristiani, da perfetti sepolcri imbiancati, commemoravano il 25 aprile mentre trescavano con ogni risma di neofascisti e rottami repubblichini. Il regime berlusconiano ha voluto azzerare ogni memoria antifascista, portando “risma e rottami” al governo, in un progetto coerente di sovversione della Costituzione. La nostra convivenza civile poggia oggi sul vuoto. Ricostruire quel supremo “bene comune” che è l’identità della Patria repubblicana è perciò un compito morale, culturale e politico prioritario e di lunga lena. Che deve bandire la retorica, restituire ai giovani l’epos di rivolta che è stata la Resistenza e sopratutto la sua attualità in ogni lotta odierna per “giustizia e libertà”.

Corriere 25.4.12
Le mille bandiere dei partigiani. Il valore dell'unità nella Resistenza
di Aldo Cazzullo


Colpisce, nelle rituali e ormai stucchevoli polemiche sul 25 Aprile, il riproporsi dell'antico riflesso ideologico: destra contro sinistra, difensori dei ragazzi di Salò contro fazzoletti rossi e Bella Ciao. Ma la Resistenza non è una cosa di sinistra.
Non è patrimonio di una fazione, neppure di quella che talora se n'è impossessata
nel dopoguerra; è patrimonio della nazione.
La Resistenza non è solo Bella Ciao (che peraltro un capo partigiano come Giorgio Bocca non aveva mai sentito cantare in tutta la guerra di liberazione). Non fu fatta solo dalle Brigate Garibaldi. La Resistenza fu fatta dai militari, come i fucilati di Cefalonia, che per primi presero le armi contro i nazisti. Fu fatta dai carabinieri come Salvo D'Acquisto, che si fece uccidere con un gesto nobilissimo per evitare la rappresaglia per un attentato che non aveva commesso. Fu fatta dai monarchici come il colonnello Montezemolo, cui a via Tasso vennero strappati i denti, le unghie, ma non un solo nome dei compagni, prima della morte alle Ardeatine. Fu fatta dai sacerdoti come don Ferrante Bagiardi, che quando vide i nazisti fucilare 82 suoi parrocchiani scelse di morire con loro dicendo: «Vi accompagno io davanti al Signore». Fu fatta dagli alpini come Maggiorino Marcellin, che restituiva i corpi degli Alpenjäger con un biglietto «da un alpino italiano a un alpino tedesco». Fu fatta dalle donne e dai civili. Dai valdesi come Willy Jervis, dagli ebrei come Leone Ginzburg, dai cattolici come Ignazio Vian, il primo a salire sulle montagne sopra Boves: non un bolscevico, un tenente delle guardie di frontiera e militante della Federazione universitari cattolici, un amico di Moro e Andreotti; i nazifascisti lo impiccarono a un ippocastano davanti alla caserma di Torino.
E la Resistenza fu fatta anche dai comunisti. Che — si sente ripetere — non volevano la libertà ma un'altra dittatura. Argomento perfetto per la polemica politica attuale. Privo di senso quando c'era da decidere da che parte stare, con o contro i nazisti, con o contro coloro che portavano gli ebrei italiani ad Auschwitz. La pietà dovuta a tutte le vittime, e l'umana comprensione per i giovani che andarono a Salò credendo in buona fede di servire l'Italia, non possono cancellare quella che in tutti i Paesi occupati dai nazisti è un'ovvietà, tranne che nel nostro: in quella guerra c'erano una parte giusta e una parte sbagliata.
Certo, la Resistenza fu fatta da uomini. E gli uomini commettono errori, talvolta crimini. La Resistenza ha avuto le sue pagine nere, e per troppo tempo se n'è parlato troppo poco. Generazioni di italiani sono cresciute senza aver sentito parlare del triangolo della morte, di Porzûs, di Basovizza. Ma il rischio è che oggi i giovani non abbiano mai sentito parlare neppure di Marzabotto, di Sant'Anna di Stazzema, della Benedicta, dei fucilati del Martinetto, dove fu eliminato il comitato di liberazione del Piemonte, sorpreso mentre era riunito non in una sezione del Pci, ma nella sacrestia del Duomo. Tra loro c'era un solo comunista, un operaio amico di Gramsci, Eusebio Giambone. Gli altri erano avvocati e militari: il tenente Geuna, il capitano Balbis, il colonnello Braccini, il generale Perotti, che era di Carrù, il paese dov'è nato Luigi Einaudi. Se in tutte le scuole si leggesse la lettera in cui Perotti dice addio alla moglie, raccomandandole di risposarsi per crescere i tre figli e pregandola di ricordare loro il suo sacrificio per la patria e per la libertà, di polemiche sul 25 Aprile tra qualche anno non ce ne sarebbero più.

Repubblica 25.4.12
La Resistenza da difendere
di Miguel Gotor


Il 25 aprile di quest´anno desideriamo celebrare il sangue versato dai vincitori e ricordare, accanto alla memoria e alla letteratura della Resistenza, anche la storia e la politica del movimento partigiano. Non solo, dunque, gli immaginifici sentieri dei nidi di ragno percorsi da piccoli maestri come il partigiano Johnny, ma i viottoli di montagna battuti 67 anni fa da uomini in carne e ossa come Arrigo Boldrini, Vittorio Foa, Sandro Pertini e Paolo Emilio Taviani.
Grazie alla loro storia commemoriamo i migliaia di giovani caduti in nome della libertà, per la dignità e il riscatto della Patria, in difesa della propria comunità di affetti.
Lo facciamo nella consapevolezza che senza la riscossa partigiana e senza la fedeltà all´Italia e il senso dell´onore di quei militari che, a Cefalonia e non solo, scelsero di impegnarsi nella guerra di liberazione dal nazifascismo, non sarebbe stato possibile gettare le fondamenta della nuova Italia democratica e repubblicana, quella che ancora oggi abbiamo il privilegio di abitare. Ma avvertiamo questa esigenza anche perché abbiamo alle spalle oltre vent´anni di un senso comune anti-antifascistiche ha egemonizzato il discorso pubblico intorno a due concetti meritevoli invece di maggiore ponderazione.
Il primo è quello che vede nell´8 settembre 1943 la morte della patria. In quei giorni si assistette al collasso dello Stato e delle istituzioni, ma la patria trovò, grazie alla scelta partigiana e alla coscienza di tanti, le ragioni per resistere, rigenerarsi e rinascere alimentando un secondo Risorgimento della nazione.
Il secondo concetto è quello di guerra civile, che è stato indebitamente strumentalizzato. In questo caso, la condivisibile interpretazione azionista di un partigiano come Franco Venturi («le guerre civili sono le uniche che meritano di essere combattute») è stata piegata agli interessi del reducismo fascista e saloino che da sempre hanno negato il carattere di lotta di liberazione alla Resistenza e, sin dalle origini, hanno utilizzato il concetto di guerra civile per equiparare, sul piano politico e morale, le ragioni delle parti in lotta.
Da questa duplice manipolazione della realtà storica è scaturita la rivalutazione di carattere moderato/terzista della cosiddetta «zona grigia»: l´attendismo e l´indifferentismo, motivati da umane e comprensibili ragioni, inizialmente vissuti con disagio e un sentimento di vergogna, si sono trasformati nella rivendicazione orgogliosa di una zona morale di saggezza e virtù. Al contrario, se la Resistenza non avesse avuto il consenso implicito ed esplicito della società civile non sarebbe riuscita a prevalere sul piano militare e politico. Bisogna piuttosto rammentare che l´intrinseca moralità della Resistenza sul piano storico deriva dal fatto che quei giovani combatterono non soltanto per la propria libertà, ma anche per quella di chi era contro di loro e di quanti scelsero di non schierarsi: lo ha dimostrato senza ombra di dubbio la storia successiva dell´Italia democratica e parlamentare.
Oggi questi atteggiamenti, alimentati dalla lunga stagione del berlusconismo con la sua corrosiva ideologia della divisione, segnano il passo e offrono l´occasione alla Resistenza di trasformarsi finalmente in un patrimonio nazionale condiviso anche sul piano del giudizio storico. Un giudizio in cui devono albergare un sentimento di pietas per gli sconfitti, la volontà di studiare in modo equanime - contestualizzando e non per rinfocolare odi di parte - tutta la Resistenza, anche quella più violenta, vendicativa e oscura, e, infine, il riconoscimento dell´importanza del percorso compiuto da quanti oggi, pur essendo cresciuti nel Movimento sociale, hanno dichiarato di riconoscersi nella condanna delle leggi razziali del 1938 e nei valori dell´antifascismo.
È indicativo che in un momento di crisi della politica e della rappresentanza come questo, stiano aumentando le iscrizioni all´Anpida parte dei più giovani. Nell´Italia attuale è necessario recuperare lo spirito di collaborazione e di ricostruzione civica che ha animato il movimento partigiano da cui scaturì la stagione della Costituente in cui forse politiche di estrazione profondamente diversa impararono a conoscersi e seppero fare fronte comune nell´interesse nazionale. Quello spirito lontano e generoso è il testimone della Resistenza che serve oggi all´Italia.

Corriere 25.4.12
Il commercio e l'eccezione di Pisapia per il Pontefice
di Dario Di Vico


Si è già detto di Giuliano Pisapia e della battaglia che il sindaco di Milano ha intrapreso contro l'apertura dei negozi nella giornata del 25 Aprile e più in generale versus la liberalizzazione del commercio. Per guadagnarsi il consenso delle organizzazioni dei commercianti il sindaco ha steso un protocollo di intenti che regola l'intera materia. Una concertazione in salsa ambrosiana che indica le festività «protette». L'orientamento sembra essere stato quello di tutelare le varie sensibilità politico-culturali. Non è un caso, ad esempio, che la svolta sia stata annunciata durante un convegno delle Acli, un modo per segnalare una particolare attenzione alle feste religiose. Ma per par condicio il protocollo di palazzo Marino considera festività «di valore fondamentale e irrinunciabile» anche il 25 aprile, il 1° maggio e il 2 giugno. Fin qui niente di nuovo, si può eccepire (e lo abbiamo fatto) che l'apertura di un supermercato non lede il valore religioso o politico di una festa, riempire il carrello non equivale a svuotare la memoria o cancellare i valori. Leggendo il protocollo, però, ci si imbatte in una sorpresa. Pisapia pur riconoscendo il valore del 2 giugno quest'anno opera una deroga e consente agli esercizi commerciali di restare tranquillamente aperti. Per quale motivo vi chiederete. Risposta: «La presenza a Milano di Papa Benedetto XVI in occasione del Settimo incontro mondiale delle famiglie». Ma come? In coerenza con quanto detto e fatto finora il sindaco avrebbe dovuto «proteggere» la presenza in città del Santo Pontefice dall'impazzare dei riti del consumismo e avrebbe dovuto sbarrare le porte dei supermercati, invece ha scelto addirittura di «sacrificare» la Festa della Repubblica. Generando così ulteriore confusione.

Repubblica 25.4.12
Lo sterminio prima dello sterminio: l´eliminazione delle "vite indegne"

di Gad Lerner

Esce "Ausmerzen" il libro di Marco Paolini che racconta la soppressione dei deboli fatta dal Nazismo fin dal luglio 1933
Disabili e malati di mente vennero sterilizzati, reclusi, sottoposti a diete micidiali e uccisi nelle prime piccole camere a gas
Le testimonianze di medici e infermieri restituiscono lo stupore di chi è convinto di non avere nulla da rimproverarsi

Lo speciale rapporto dei veneti con la psichiatria dipenderà forse dal fatto che sono un po´ tutti matti, da quelle parti? Città e campagne che il capitalismo non ha mai irreggimentato del tutto nella sua regola tayloristica. Modernità imbevuta di strapaese. Fatto gli è che da Zanzotto a Rigoni Stern, fino alla generazione irregolare dei Diamanti, Stella, Bettin cui è lecito accostare un maestro del teatro italiano contemporaneo qual è Marco Paolini, il Nord-Est si configura come il laboratorio intellettuale critico più sensibile ai temi della diversità. Forse per contrasto alla cultura retriva di chi governa su quel territorio. Sarà un caso che pure la misconosciuta (da noi) riforma della psichiatria – valorizzata invece come esemplare in tutto il mondo – sia stata intrapresa da Franco Basaglia lassù fra Gorizia e Trieste?
Antiretorica eppure grave, intima e solenne come solo lui è capace di modularla riempiendo la scena, la voce di Marco Paolini ha saputo così riformulare per noi il dubbio progressista più scabroso del Novecento: vale la pena dissipare risorse, in tempo di penuria, per mantenere in vita dei "mangiatori inutili"?
Il computo indecente dei risparmi di cui beneficia una società "sana" praticando la sua igiene, cioè eliminando le "vite indegne di essere vissute", è stato recuperato in un foglietto sfuggito alla distruzione degli archivi nazisti. Lista ritrovata in un armadio a Hartheim: «È calcolato che fino al 1° settembre 1941 sono stati disinfettati 70.273 pazienti… Calcolando un costo giornaliero di 3,50 Reichsmark, abbiamo fatto risparmiare 4.781.339,72 kg di pane; 19.754.325,27 kg di patate… E inoltre 2.124.568 uova».
L´appunto autografo di Hitler che ordinava l´eutanasia, cioè la soppressione dei disabili, si presenta caritatevole, rivolgendosi ai medici e «autorizzandoli a concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l´umano giudizio». Ma non fatevi illusioni: se Marco Paolini ha sentito il bisogno di riscrivere completamente il testo teatrale che l´anno scorso inchiodò al video 1.709.000 telespettatori, proponendocelo ora nella forma compiuta di un libro (Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute, pagg. 177, Einaudi Stile libero, euro 12), è perché non possiamo permetterci la consolazione di scaricare per intero quell´abominio tra le colpe storiche del Terzo Reich.
Vero è che la pratica di selezionare in quanto esistenze-zavorra i disabili e i malati di mente, così come di procedere alla loro sterilizzazione fin dal luglio del 1933, con l´istituzione di centottanta apposite corti genetiche, e poi di sottrarli alle famiglie, rinchiuderli in sei centri pseudo-ospedalieri, sottoporli a diete omicide, infine eliminarli nelle prime piccole camere a gas allestite dal Reich, è riconosciuta dagli storici come la fase preparatoria dell´immane sterminio pianificato industrialmente nei lager dal 1942. Non solo. La collaborazione disciplinata di medici, infermieri, psichiatri, autisti e la rassegnazione con cui le famiglie sopportavano il prelievo forzato dei congiunti disabili, rivelarono ai gerarchi di Hitler quanto manipolabile fosse una società totalitaria assoggettata nel terrore. Anche se il timore di uno scandalo pubblico propagato dai familiari per questa strage degli innocenti, indusse il Reich a circoscriverne le modalità dopo il 1941.
Non credo però che Marco Paolini avrebbe proseguito la sua ricerca fino a scrivere questo libro stupefacente se a sollecitarlo non fosse stata una scoperta imbarazzante: l´eugenetica, pseudoscienza della selezione ottimale della specie umana, ben prima del nazismo, e ben oltre, affonda le sue radici nel positivismo della razionalità occidentale. Da Cesare Lombroso a Francis Galton, da Alexander Graham Bell fino a Konrad Lorenz, i teorici dell´eugenetica sono stati riconosciuti dall´establishment come alfieri del progresso. La dogmatica delle compatibilità economiche e un´ambigua nozione di progresso nella ricerca medica, si sono combinate nel legittimare sperimentazioni il cui retroterra non è sempre e solo necessariamente razzista.
Così la ricerca di Marco Paolini e di suo fratello Mario, musico terapeuta, è proseguita un anno oltre lo spettacolo teatrale. Ma non ne ha disperso l´impatto drammaturgico che in Paolini consiste nell´abilità di personificare il racconto, a tratti perfino capace di humour, umile nell´immedesimazione: cosa avremmo fatto noi al posto di quelle infermiere, abituate a praticare iniezioni a prescindere che guarissero o sopprimessero, in obbedienza alle prescrizioni mediche? E il medico che rivendicava la sua funzione sociale a beneficio di una collettività impoverita che doveva pur risparmiare per sopravvivere, dandosi priorità di tutela, e che magari si sforzava di non lasciar soffrire, sopprimendola, la vita indegna di essere vissuta, siamo così certi avesse una sensibilità tanto diversa dalla nostra? Non agiva forse anch´esso per il progresso?
Certo Paolini è capace di esprimere lo sdegno, attraverso un´ingenuità sapiente: «A ben guardare i centri di uccisione sono organizzati come macelli, travestiti da cliniche ma macelli. Soltanto la necessità di intrattenere rapporti con le famiglie, di giustificare i decessi, li distingue da una macelleria». Eppure prevale la naturalezza di quella scelta eugenetica di selezione che, infine, porterà alla morte procurata di trecentomila esseri umani, censiti in un ufficio di Berlino al numero 4 di Tergartenstrasse e prelevati uno ad uno nelle loro case. Non si spiega altrimenti la scoperta, umiliante per le truppe d´occupazione statunitensi nel luglio del 1945, da cui prende spunto il racconto. Finita ormai da oltre due mesi la guerra, a Kaufbeuren-Irsee, non lontano da Monaco di Baviera, nell´ospedale psichiatrico ("Luogo per sanare e curare", recita il cartello all´ingresso) si è continuato a sopprimere i ricoverati. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, l´esercizio di una deontologia a prescindere dagli ordini del regime nazista ormai deposto.
Attraverso le testimonianze di medici e infermieri (solo due di essi si toglieranno la vita) Paolini ci restituisce lo stupore di chi non riteneva di avere nulla da rimproverarsi. Straziante è il ritratto di Ernst Lossa, soppresso all´età di quattordici anni nonostante la sua strenua resistenza alla Dieta E, completamente priva di grassi. Ancor più piccoli di lui sono i ragazzini italiani dell´ospedale psichiatrico di Pergine in Valsugana, sui quali una corrispondenza burocratica narra sperimentazioni crudeli, sempre "a fin di bene".
Mi piace ricordare infine l´incontro con una donna straordinaria che ha introdotto Mario Paolini alla ricerca di Ausmerzen: Alice Ricciardi von Platen. Era una giovane dottoressa tedesca nel 1946, quando venne incaricata dall´ordine dei medici di raccogliere testimonianze per il secondo processo di Norimberga. Quei ricordi terribili non ne hanno scalfito la dolcezza, fino a quando si è spenta in terra toscana nel 2008.

Corriere 25.4.12
«Il calice fu versato per molti» Cambia la formula dell'Eucarestia
Non si dirà più «per tutti». Il Papa: è la traduzione corretta
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — La lettera di cinque pagine è rivolta alla conferenza episcopale tedesca ma riguarda ogni vescovo, a cominciare dagli italiani che ne discuteranno nell'assemblea di maggio. Benedetto XVI spiega le ragioni per cui si dovrà cambiare la formula dell'Eucarestia nella messa. Nell'ultima cena Gesù spezza il pane («questo è il mio corpo») e poi prende il calice del vino, e qui durante la messa il sacerdote ripete parole che i fedeli sanno a memoria: «Questo è il mio sangue... versato per voi e per tutti in remissione dei peccati». Solo che nei Vangeli non si legge «per tutti». E il pontefice vuole che si torni alle parole di Gesù: «Versato per molti».
Lo stesso Papa ricorda i riferimenti testuali. Nel vangelo più antico, Marco (14,24) si legge upèr pollôn, in quello di Matteo (26,28) c'è scritto un analogo perì pollôn, insomma il «per molti» è la traduzione letterale dal testo originale greco. Assente in Giovanni, in Luca (22,19) c'è «per voi» (upèr umôn). L'indicazione era già contenuta in un documento della Santa Sede firmato nel 2006 dal cardinale Francis Arinze. Ma ha incontrato resistenze, dalla Germania agli Usa all'Italia. L'espressione «per tutti» venne introdotta dopo il Concilio con la riforma di Paolo VI, nel '69, il messale latino aveva «pro multis». Il timore di tanti vescovi è che si interpretasse la modifica come l'esclusione di alcuni dalla salvezza, una reazione preconciliare. Così il Papa ha scritto ai vescovi tedeschi, chiarendo che le cose non stanno affatto così: l'«universalità» della salvezza non si discute, anche San Paolo scrive che Gesù «è morto per tutti». Il senso non cambia: negli anni Sessanta, ricorda, gli esegeti giustificavano il passaggio a «per tutti» citando Isaia 53 («il giusto mio servo giustificherà molti») e dicendo che «molti» è «un'espressione ebraica per dire la totalità». Solo che Gesù usa «molti». Bisogna guardarsi da traduzioni «interpretative» che hanno portato a «banalizzazioni» e «autentiche perdite», scrive: «Mi accorgo che tra le diverse traduzioni a volte è difficile trovare ciò che le accomuna e che il testo originale è spesso riconoscibile solo da lontano». Questione di «fedeltà» alla «parola di Gesù» e alla Scrittura. Il Papa invita tuttavia a preparare preti e fedeli: «Fare prima la catechesi è la condizione fondamentale per l'entrata in vigore della nuova traduzione». La sua stessa lettera, come una catechesi, dà voce ai dubbi («Cristo non è morto per tutti?», «Si tratta di una reazione che vuole distruggere l'eredità del Concilio?») per fugarli. In Italia si continua a dire «per tutti» ma presto la Cei concluderà la discussione sul nuovo messale. I timori non mancano, ma un grande teologo come il vescovo Bruno Forte spiega: «Il problema non è teologico, ma pastorale. Il Papa mette in luce che la redenzione oggettiva, per tutti, passa attraverso l'adesione libera di ciascuno. Dire "per molti" non esclude ma anzi esalta la dignità e l'assenso umano. Tuttavia la gente è abituata a "per tutti": per questo, dice il Papa, il cambiamento va fatto dopo una lunga catechesi che ne faccia capire il valore».

Corriere 25.4.12
Il paradosso dell'Italia senza destra
Storicamente debole, divisa, sempre priva di legittimità intellettuale
di Ernesto Galli della Loggia

Per capire le vicende della destra nell'Italia repubblicana conviene, a mio giudizio, prestare più attenzione al panorama ideologico complessivo del Paese che al sistema dei partiti in senso stretto. È innanzitutto sul piano delle idee, infatti, che si è decisa la sorte della destra italiana. La destra ha perso la sua battaglia politica allorché per mezzo secolo, tra il 1948 e il 1994, non è riuscita in alcun modo a disporre delle risorse intellettuali necessarie per rompere con il passato da un lato, e dall'altro per diventare un diverso luogo di formazione e di coagulo di una classe dirigente.
La storia culturale della cosiddetta Prima Repubblica è stata dominata per mezzo secolo da un punto di vista genericamente di sinistra. Dal 1948 al 1994 è quasi impossibile trovare un romanzo di successo, un manuale scolastico, un libro di storia, un film, un programma televisivo di qualche valore che in un modo o in un altro non rifletta un tale punto di vista. All'egemonia della sinistra nella sfera pubblica ha contribuito in maniera molto significativa anche la Carta costituzionale adottata nel 1948, i principi della cui prima parte si ispirano a una visione solidaristica, tendenzialmente egualitaria, di tutela collettiva soprattutto degli interessi più deboli, che rientra pienamente nella tradizione della sinistra e del cattolicesimo democratico.
Come si sa, questi principi costituzionali hanno cominciato ad avere sempre più larga applicazione a partire dagli anni Sessanta del Novecento, con la diffusione nel discorso ufficiale del Paese della cosiddetta «cultura della Costituzione». Si tratta di un orientamento di etica pubblica — politico solo in senso lato, ma niente affatto neutrale — il quale ha avuto l'effetto di diffondere e legittimare un punto di vista — direi qualcosa di più: una vera e propria visione del mondo, ispirata ai valori e alle idee propri della sinistra.
Dunque, durante la Prima Repubblica la destra in senso proprio, la destra politica e i suoi partiti, sono stati di fatto marginali se non inesistenti. Anche su un piano non immediatamente politico i valori definibili di destra non sembrano aver conosciuto miglior fortuna. Va sempre tenuto a mente che in Italia il tempo della Repubblica e della democrazia ha coinciso con un'immensa trasformazione sociale di cui sono ben noti i caratteri. In non più di una ventina d'anni, dal 1960 al 1980, il volto dell'Italia è diventato completamente un altro. Questa grande trasformazione ha significato per milioni di persone soprattutto una cosa: la fine di una povertà secolare. Dunque non può stupire che essa sia stata vissuta come un fatto radicalmente positivo. In tal modo, anche se comportava tensioni e lacerazioni, la dimensione della rottura, del nuovo, acquistò nel Paese un prestigio immediato, quasi ovvio. Tutto ciò che era vecchio, antico — che si trattasse di paesaggi, di fogge di abbigliamento, di rapporti sociali, di abitudini mentali e di vita — apparve indifendibile.
A spingere in tal senso, oltre la natura delle cose, ha contribuito anche una peculiare caratteristica della modernizzazione italiana: e cioè la massiccia politicizzazione con la quale essa è avvenuta. Una politicizzazione cui i vasti movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta diedero — di nuovo! — un forte segno di sinistra, coinvolgendo molta parte dei ceti medi, specie quelli addetti all'istruzione e al pubblico impiego, e non a caso determinando la massima espansione elettorale del Partito comunista. Pur così tuttavia restava ben vivo nel Paese un elettorato potenzialmente diverso ed estraneo rispetto alla vulgata ideologico-politica dominante e ai suoi partiti. E cioè un elettorato di massa che da un punto di vista sociologico era potenzialmente di destra.
Fu solo nel 1994, tuttavia, che questo elettorato, fino allora rimasto nascosto sotto il grande mantello della Democrazia cristiana, ebbe realmente modo di venire allo scoperto. Perché ciò accadesse fu necessario il sovrapporsi di una causa oggettiva e di una soggettiva. Fu necessario, cioè, da un lato, il crollo del sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica, con la scomparsa della Dc e della legge elettorale proporzionale, e dall'altro la comparsa sulla scena di una personalità come Silvio Berlusconi. L'avvento di un sistema elettorale maggioritario, voluto da un referendum popolare, decretò la fine del centro e l'obbligo di schierarsi o da una parte o dall'altra, a destra o a sinistra. Il rifiuto dei cattolici reduci dall'ormai disciolta Dc di schierarsi contro la sinistra guidata dai postcomunisti — il rifiuto cioè di schierarsi in questo senso a «destra» — lasciò vuoto, per l'appunto a destra, un enorme spazio elettorale. Uno spazio potenzialmente maggioritario, come stava a indicare tutta la storia del Paese. Precisamente in questo vuoto si infilò Berlusconi, con il proposito di riempirlo. Egli capì che per farlo con una speranza di vittoria era però necessario unificare tutte le forze contrarie alla sinistra. E dunque da un lato bisognava porre fine alla pregiudiziale antifascista e all'uso molto spesso strumentale che ne aveva fatto per 50 anni il sistema politico italiano, e dall'altro era necessario accettare senza batter ciglio la neonata retorica secessionista della Lega. Ciò che è quasi impossibile far abitualmente accettare è l'idea che all'origine del ruolo politico e della vittoria di Berlusconi ci sia stata innanzitutto una fortissima ragione di tipo sistemico. Così come l'idea che senza di lui e la sua azione unificatrice difficilmente si sarebbe potuto formare un competitivo polo politico di destra in grado di vincere tre volte le elezioni.
Tuttavia, pur avendo alle spalle circa dieci anni di governo, la destra italiana non è ancora riuscita a risolvere il problema cruciale di darsi una vera identità. Ancora oggi la sua unica vera ragion d'essere resta quella del 1994, l'anno della sua prima vittoria elettorale: impedire alla sinistra di vincere e di governare. L'obiettivo della «rivoluzione liberale» con il quale essa si presentò venti anni fa è stato totalmente mancato. Bisogna chiedersi perché. Con ogni evidenza le ragioni sono principalmente due. La prima è la presenza tra le sue fila di tre destre molto diverse tra loro, portatrici di culture e interessi contrastanti: la destra postfascista, nazional-statalista e fortemente antiliberale; la destra leghista, dotata di una visione localistica e antinazionale, protezionista in agricoltura ma impregnata di una sorta di anarchismo manchesteriano per tutto il resto; e infine la destra berlusconiana vera e propria, oscillante tra un laissez faire di principio e la rappresentanza di tutti i mille interessi settoriali della società italiana, caratterizzata da una generale indifferenza per qualunque valore etico-politico.
Silvio Berlusconi si è mostrato sorprendentemente incapace di rendere in qualche modo compatibili e nel riuscire a integrare queste tre anime della sua coalizione. Leader plebiscitario per antonomasia, e teorizzatore convinto di un tale tipo di leadership, quando però si è trattato di essere realmente un leader politico, ha dimostrato di non riuscire a esserlo affatto. Ha dimostrato di non avere nessuna predisposizione personale autentica per la politica, per la comprensione dei suoi meccanismi e delle sue esigenze di fondo. La sua leadership si è fondata quasi esclusivamente (e ossessivamente) sul richiamo carismatico personale. Un richiamo senza dubbio vero, effettivo, con quel quid di inspiegabile che ha ogni carisma: ma tanto forte nel momento elettorale quanto singolarmente inefficace nel momento del governo. È indubbio che ad accrescere tale carisma e la relativa presa elettorale sono valse non poco anche la sua smisurata ricchezza e la proprietà della più importante tv commerciale della Penisola. Ma a dispetto di quel che si sente ripetere tante volte, denaro e tv non sono stati gli elementi decisivi dei suoi successi elettorali. Denaro e tv sono stati essenziali, semmai, per un'altra cosa non meno importante: e cioè per assicurargli il dominio assoluto sulla sua coalizione. Per farne il leader incontrastato e incontrastabile della destra.
Venuta meno la carta programmatica, alla destra non è rimasto che giocare poche carte identitarie (ma anche qui non senza qualche contrasto più o meno sotterraneo tra le sue fila): la carta di un forte rapporto con la tradizione cattolica del Paese e con la Chiesa, quella dell'enfasi sulla sicurezza, sul law and order, o la carta del contrasto all'immigrazione clandestina. Evidente, però, è stata l'incapacità, se non addirittura il disinteresse — abbastanza sorprendente dal momento che aveva in mano tutte le leve del potere —, che la destra ha dimostrato nell'affermare e organizzare una propria presenza culturale e intellettuale nella società italiana.
Si è così manifestata ancora una volta la debolezza storica di fondo della destra nell'Italia repubblicana. Essa continua a essere esclusa dal mainstream del discorso pubblico. Un'esclusione che riflette una più generale esclusione della destra e dei suoi esponenti dai centri più importanti del potere italiano. Nei salotti buoni dell'alta borghesia, nei circoli della finanza, tra l'intellettualità, nell'università, nei giornali che contano, è ancora oggi rarissimo imbattersi in chi abbia una riconosciuta appartenenza di destra. Riconfermando la propria subalternità, la destra, d'altra parte, non è riuscita neppure a proporre una sua originale narrazione circa il passato del Paese, né a influenzare in modo significativo il senso comune, non dico producendo ma tanto meno riuscendo a identificarsi con mode, miti, figure simboliche nuove e diverse rispetto a quelle correnti, tuttora fortemente dipendenti da un punto di vista di sinistra.
È invece accaduto paradossalmente che proprio sotto il suo governo l'interdetto antifascista — che durante un breve intermezzo tra gli anni 80 e 90 sembrava ormai in via di superamento — si sia trovato, viceversa, rimesso in auge e rafforzato sotto le nuove spoglie di interdetto antiberlusconiano e antileghista, aprendo una nuova stagione di delegittimazione. Si perpetua in tal modo un duplice pregiudizio che, sfruttato politicamente a dovere da chi ha interesse a farlo, ha nuociuto gravemente al sistema politico italiano e alla vita pubblica del Paese. Il pregiudizio, cioè, secondo il quale: 1) la destra non può che essere qualcosa di radicalmente negativo e ha una natura sostanzialmente estranea o ostile all'ordine costituzionale democratico; e 2) l'idea che di conseguenza il sistema politico italiano debba e possa fare stabilmente a meno di un polo politico di destra.

il Fatto 25.4.12
Paese che vai estremisti che trovi
La crisi fa montare la marea dei populisti d’Europa
di Giampiero Gramaglia


In fuga dalla recessione. E in fuga dall’Europa. Come se negare i problemi e rifugiarsi nel localismo al tempo della globalizzazione siano risposte efficaci. Certo, le ricette anti-crisi dell’Ue, rigore e sacrifici, tagli e riforme liberiste, non hanno – ancora? condotto l’eurozona al sicuro, non innescano stimoli alla ripresa e creano disagio sociale. Risultato, il richiamo dei populisti euroscettici acquista forza e i risultati elettorali lo provano.
LA CRESCITA “ serve pure a mettere in sicurezza la democrazia”, dice Angelo Panebianco sul Corriere della Sera; e una politica di ‘lacrime e sangue’ senza impatti positivi tangibili la mette in pericolo, specie quando la paura di perdere il lavoro, le certezze del presente, le speranze del futuro, si somma e si salda alla paura del diverso, dello straniero, dell’altro. Euroscettici e xenofobi costituiscono un mix potenzialmente letale per l’Unione e per il disegno di integrazione che pure ha garantito, al nucleo originario, 60 anni e più di libertà, di pace, di democrazia, di progresso economico e sociale, e che ha ne fatto un irresistibile magnete di tutte le realtà circostanti e un catalizzatore di rispetto dei diritti dell’uomo.
E, intanto, tra la mancanza di coraggio dei leader attuali e l’inconsistenza dei demagoghi i burattinai della crisi, la finanza, le banche, le agenzie di rating, tirano ancora le fila dei loro profitti. Certo, la lettura delle elezioni in Francia e della crisi in Olanda varia molto, a seconda dell’orientamento dell’analista: Sarkozy vi dirà che le borse vanno giù perché Hollande, che vuole rinegoziare il Patto di Bilancio fra i 25 – Gran Bretagna e Repubblica Ceca ne sono fuori le spaventa; e Hollande vi spiegherà che il nervosismo dei mercati è frutto dell’exploit dell’estrema destra del Front National, con parole d’ordine contro l’euro e l’Unione. Ma se poi Sarkozy va a caccia dei voti ‘lepennisti’ sul terreno della sicurezza e delle frontiere le incertezze s’intrecciano e si rilanciano l’un l’altra.
La sinistra europea, che la crisi economica ha ridotto ai minimi termini – governa in una manciata di Paesi appena, nell’Ue – attende dalla Francia un segnale di riscossa il 6 maggio. Ma, nel cuore dell’Unione, la destra xenofoba ed euro-scettica ha il potere di fare cadere un governo non sui temi dell’immigrazione, ma su quelli del rigore: dopo il ‘dagli all’Islam’, è l’ora del ‘dagli all’euro’.
RECESSIONE e austerity fanno un’altra vittima, si confermano un moloch mangia governi.
L’avanzata degli euroscettici, ora con i toni della destra, ora con quelli della sinistra, ma sempre vigorosamente populisti, ha contagiato molti Paesi: in Belgio, i nazionalisti fiamminghi attendono che il governo del socialista francofono Elio Di Rupo cada per fare un balzo in avanti alle urne; e in Olanda, gli xenofobi anti-Islam fanno il governo e lo disfano; in Finlandia, i ‘veri finlandesi’, sorta di leghisti nordici, sono un interlocutore politico inevitabile; in Francia, Marine Le Pen guida l’estrema destra più in su di dove suo padre Jean-Marie non fosse mai riuscito a portarla; in Italia e in Germania, dove le elezioni sono lontane, ci sono Grillo e i Piraten; in Grecia le urne di maggio rovesceranno il governo dei tecnici e i partiti tradizionali sotto una valanga di voti di protesta.
In Grecia, come in prospettiva in Italia, è in gioco il sistema politico, con la fine del bipartitismo: nel nuovo Parlamento, ci saranno non 5, ma 10 partiti. E i sondaggi rilevano forti contraddizioni: circa il 75% degli elettori dice di volere un governo di coalizione fra i due maggiori partiti (Pasok, socialista, e Nea Democratia, centrodestra), a garanzia della permanenza della Grecia nell’eurozona; ma, nello stesso tempo, dice che voterà per i partiti contro il Memorandum.

il Fatto 25.4.12
Israele, violenza e diritto /1
L’accusa. La misura è colma
di Jiga Melik


“LA MISURA è colma” è un’espressione che, io dico, ritrae fedelmente quanto si prova di vergogna davanti alle immagini televisive del tenente colonnello Shalom Eisner, che con indosso quel nome, Pace, colpisce a freddo il volto del giovane attivista dei diritti umani (il 14 aprile impegnato in un’escursione di solidarietà con la causa palestinese nei territori occupati, ndr). Il calcio della mitraglietta ha fatto male a lui e a noi. L’immagine di come sono ridotti Shalom e il soldato Shalom fa tremendamente male. La misura è colma. Non importa che la democrazia nella regione stia molto peggio, che in Siria ne uccidano a migliaia, che a Teheran gli omosessuali siano uccisi per strada senza che alcuno possa obiettare e senza che nel mondo se ne parli davvero. Ognuno risponda per sé: e in Israele la misura è colma. Per le vicende di Palestina, Gaza, Hezbollah, solo a Israele posso rivolgermi, non a Siria, Iran e al Qaeda. Perché è come quando un vaso trabocca per una goccia dopo che è diventato più che pieno: la misura è colma.
PER LE PARTI di questa infinita contesa: per i nervi di Israele, spezzati da un assedio più mediatico che militare, più pericoloso degli anni dei kamikaze; la misura è colma per i nervi, i corpi, le pance e le tasche vuote, le case scoperchiate i sentimenti del popolo palestinese, quella irrealizzata vocazione di una patria per la quale può essere democraticamente responsabile solo Israele, certo non il regime di Hamas – ma Israele rende assente la democrazia, e il tenente colonnello Eisner è ottuso come il governo Netanyahu.
Gli ebrei nel mondo devono, devono! criticare questo governo israeliano, una destra religiosa primordiale che costringe la moderna società ebraica ad essere assorbita dal paragone coll’integralismo islamico; gli ebrei nel mondo devono cessare di esercitarsi a differire le responsabilità israeliane, di rispondere alle domande con altre domande, invece di rispondere a quelle domande: meno le domande del mondo ricevono risposta, più divengono sacrosante. Questo governo israeliano, la sua rozzezza fanno molti più danni dei missili di Hamas. La misura è colma. E di fronte a quel fucile sbattuto sulla faccia di uno che non la pensa come il governo di Israele e lo vorrebbe dire in quel solitario stato democratico, l’unico della regione come da anni ci si sgola a dire, io dico: la misura è colma. Non ci sono scuse: l’esistenza dell’Iran, della Siria, di Hamas, i Fratelli Musulmani, al Qaeda che si stende sul mondo come una ragnatela. Un fucile in faccia, questo atto di arroganza, non è accettabile; né è accettabile quanto è accaduto in questi giorni in Israele, o da parte di Israele: persone fermate e detenute in assenza di qualsiasi regola, gente tenuta a terra negli aeroporti di mezza Europa senza poter partire per Israele (solo passaggio-corridoio per la Palestina). Israele non può e non deve sospendere la democrazia, nazionale o internazionale. È uno sciagurato segno di miopia politica, un suicidio apocalittico, speriamo non irreversibile, speriamo non in corso, che invece i cosiddetti amici di Israele sostengono con un egocentrismo che lascia sgomenti. La misura è colma.
IL CALCIO di quella mitraglietta è il segno di un’anarchia reazionaria da rispedire al mittente: un governo che dovrebbe essere espressione di un Parlamento democraticamente eletto; un primo ministro che si rivolge agli attivisti filo-palestinesi, ai non allineati, a chi, a torto o a ragione, ma a mani nude, arriva da tutto il mondo, e chiede loro perché non vadano a protestare in Siria, in Iran per quello che accade in quei paesi. Israele è solo. Meno democrazia ci sarà in Israele, meno sensibilità eserciterà lo Stato ebraico mettendo la testa sotto la sabbia e facendola mettere agli altri, nascondendo le regole scomode della democrazia, più la guerra si avvicinerà a rapidi passi felpati.
I veri amici dello Stato ebraico e della pace devono alzarsi in piedi e dire al governo Netanyahu che una grande democrazia deve essere potentemente debole. Israele deve scommettere sulla pace.
*scrittore e autore di “Can express. Rotocalco delle bestialità del nostro tempo”

il Fatto 25.4.12
Israele, violenza e diritto /2
...e la difesa. Ognuno risponda per sé
di Furio Colombo


LEGGO con disagio la lettera che lo scrittore Jiga Malik (pseudonimo di Alessandro Schwed, scrittore israeliano che scrive in italiano e che finora non ho avuto occasione di conoscere) dedica all’accoglienza sgarbata, al respingimento malevolo (e, nel caso che lui racconta, brutale) di volontari europei che stavano recandosi (o tentavano i farlo) in Palestina. Il disagio è per la veemenza dello scritto che accusa con furore, ma lascia tutto in sospeso. Probabilmente lo scrittore non sapeva, al momento di questa lettera, che il colonnello israeliano Eisner, che ha colpito in faccia l’attivista danese Andreas Lassa è stato sospeso dall’esercito israeliano per due anni (sospeso senza stipendio, come precisa la autorità militare di quel Paese). Non si tratta di giudicare se la punizione è giusta, ma di prendere atto che fatti del genere non vengono considerati normali. In altre parole, in un Paese con i nervi tesi e sotto assedio è meno facile che in Italia vi siano caserme Diaz. Però la lettera va più lontano e tenterò di farlo anch’io. Ci sono tre punti importanti che meritano di essere raccolti, valutati, capiti. Il primo punto è espresso così: “Quella irrealizzata vocazione di una patria per la quale può essere democraticamente responsabile solo Israele, certo non il regime di Hamas”. Che io sappia e ricordi, Hamas ha sempre negato ogni riconoscimento all’esistenza non solo storica o politica, ma anche fisica dello Stato di Israele. Hamas indica nella sua Carta costitutiva il dovere di ogni palestinese di cancellare Israele, di rimuoverlo come si estirpa una parte infetta e malata. Hamas è in rapporto stretto con tutti i nemici di Israele. E nonostante abbia rappresentanti seri e credibili presso i governi europei, non ha mai dato mandato a quei rappresentanti di tentare strade o legami che consentano a Paesi terzi interventi ragionevoli.
VORREI FAR notare (poiché il mio rapporto con Israele, non il governo ma il Paese, è noto) che nelle frasi appena scritte non ho detto nulla in favore o contro una delle due entità nazionali. Immagino, mentre scrivo, di essere un diplomatico che ha il compito di avvicinare i due popoli. So che troverò molte difficoltà non nei cittadini ma in un governo (quello israeliano) di destra, che crede soprattutto nello strumento militare. Ma so anche che non troverò alcun appiglio, in area palestinese, tra chi crede solo nella rimozione di Israele (di nuovo, parlo della guida politica, non del popolo) e non vuole fare quel primo passo del reciproco riconoscimento da cui tutto comincia.
La appassionata e veemente critica al governo israeliano è libera e legittima, ma non tiene conto della Storia. Non credo sia così facile dimenticare il modo in cui tanti diversi governi e regimi europei hanno giocato con i loro cittadini ebrei per poi abbandonarli e anzi offrirli ai nazisti per lo sterminio. È vero, adesso Israele è un forte Paese con un forte esercito. Si dice che potrebbe essere più generoso, ed esporsi per primo. Conosciamo qualcuno che lo ha fatto, Europa e isole Malvinas (Falkland) incluse? Il secondo è un passaggio che mi pare molto interessante: “Ognuno risponda per sé”. Mi sembra il cuore del discorso. Perché, se sei israeliano o – da ebreo – ti senti legato (anche in senso polemico) a Israele, hai molte cose da dire e il diritto di farlo. Se sei, per esempio, italiano, prima di dare delle lezioni agli israeliani le devi dare a te, al tuo Paese. “Ognuno risponda per sé”, vuol dire non cercare alibi nei problemi degli altri. Non andrò lontano. Resto sul posto. Noi italiani abbiamo il diritto di chiedere che si faccia finalmente, a Ramallah, il processo per l’assassinio di Vittorio Arrigoni. Ricordate? Arrigoni, carismatico volontario italiano al lavoro fra i palestinesi, è stato ucciso un anno fa, da un gruppo che – a quel che è stato detto – fanno o facevano capo ad Hamas. Invano la madre di Arrigoni, un anno dopo, si è recata in Palestina a cercare giustizia per il figlio. Il tribunale è chiuso, non sono previste sedute, gli assassini, che incontrano amici e parenti per tutto il giorno nel cortile della prigione, hanno ritrattato. E nessuno sembra preoccupato di fare giustizia.
 “OGNUNO risponda per sé”. Giusto. Il governo italiano tace. Il 24 aprile la deputata Pd Codurelli ha presentato un’interrogazione urgente al governo nella Commissione Esteri. Il governo in quel momento era Stephen De Mistura, un espertissimo funzionario dell’Onu diventato appena adesso sottosegretario agli Esteri. Era sorpreso dall’evidenza offerta dalla on. Codurelli. Ma è vero, Arrigoni è stato ucciso e non importa a nessuno, né a Ramallah né a Roma. “Ognuno risponda per sé” ammonisce Jiga Melik. De Mistura ha promesso. Ma il fatto è un bel simbolo del come riconoscere, prima di tutto, le proprie responsabilità. Ed ecco il terzo punto. “Non importa che la democrazia nella regione stia molto peggio”. La storia europea insegna che importa moltissimo. Sono state le democrazie intorno alla Germania e all’Italia, benché invase, benché colpite nel modo più grave, a combattere fino all’ultimo, fino all’arrivo delle due grandi potenze Usa e Urss che hanno stroncato, assieme ai partigiani, il nazifascismo. Ma qui vorrei riprendere quel “ognuno risponda per sé”. Se le democrazie, a cominciare dall’Europa, smettono di essere finti tribunali che prima si indignano e poi si astengono, se imparano a essere presenti e vicini all’uno e all’altro dei due popoli, esigendo democrazia e riconoscimento reciproco, forse comincia la pace.

Repubblica 25.4.12
Pubblichiamo la nuova introduzione della Kristeva al suo "Storie d´amore" oggi ripubblicato
L’importanza di vivere in un mondo innamorato
È l’infinita trascendenza dell´esperienza interiore che ascolto, in controtendenza rispetto alle fiammate mediatiche che ci distolgono dalla ragione
di Julia Kristeva


Ho scritto Storie d´amore in una tappa della mia vita in cui l´amore si ritraeva da me. Quale amore? Il colpo del "Grande Amore", mito salvifico, passione consolatrice e derisoria illusione, carica umorale ed elettrica, o fulmine del destino. Un amore che aveva fatto il suo tempo. Non fu però un deserto quello che mi aspettava: su quelle rovine, con l´aiuto della psicoanalisi, è sorto un altro amore, diverso dall´Amore, degno di interesse, in perenne edificazione e che continua a durare. Costruibile e decostruibile attraverso di me, fuori di me, questo amore è l´opera della libertà, è la mia rivolta, di rinascita in rinascita.
Amore-esperienza: amore esplorazione di ciò che fu me, che mi altera e che io altero, che mi esalta, che mi schiaccia, che io abbandono, che mi abbandona, che mi ricrea, che mi trasferisce a te, a lui. Fanatica presenza di un altrui affianco a me e in me, estremità incorporea, che si dà attraverso di me continuamente e dappertutto. Parola che non è niente di ciò che io sono, ma che mi ricompone e ti ricompone, malinteso e interazione che mi sorprendono, mi spossessano, mi inabissano e mi fanno avanzare, folle evidenza. Una specie di società che né mi perde né mi tradisce, né mi delude né mi colma, che non fa altro che eccedermi, fuori dal tempo, fuori dallo spazio, straniera a me stessa, e-statica. Prima di te, dopo di te, in ogni istante ti raggiungo e ti perdo, ti sono e ti fuggo: te, l´amato amante; noi, liberi in amore.
Amore-storia: amore che si declina in poemi, suoni e immagini, racconti e avventure, e si confonde con la storia della libertà, il cui ombelico è qui, in Europa. Trasporti o delusioni? Che importa. È l´infinita trascendenza dell´esperienza interiore che io ascolto in queste pagine, in controtendenza rispetto alle fiammate mediatiche, alle depressioni nichiliste, alle orge pornografiche e ai magheggi esoterici che ci distolgono dalla ragione. E la scoperta freudiana dell´inconscio e del transfert mi rivela la sua verità logica: io la seguo in un´inclusione esterna (a meno che non sia un´esclusione interna), nella storia dell´Occidente greco ebraico e cristiano che, in cerca dell´Altro, ha costruito quel culto dell´"Io sono" che sa superarsi e che si chiama propriamente capacità di amare, quel favoloso mal d´amore.
Universalmente umana, potenzialmente accessibile a tutti gli esseri parlanti, quest´opera della libertà che io scopro nell´amore ha ricevuto in effetti la sua forma più affinata, la sua realizzazione più diversificata, nella tradizione europea: attraverso la religione, la filosofia, l´arte e la letteratura. Appoggiandomi alla mia pratica della psicoanalisi, ho seguito tutti i suoi rimbalzi tra gli innumerevoli avventurieri e interpreti che mi hanno preceduto, prima di acquisire - adesso ve lo posso confessare - quel sentimento di fierezza finalmente liberata da ogni senso di colpa che ormai provo nei confronti del genio europeo.
Ma è l´incapacità di amare, al di qua e al di là dell´assenza di amore, che trascina al fondo l´analizzante e l´analista. Ed è quella stessa incapacità che minaccia la globalizzazione iperconnessa, quando quest´ultima si illude di poter formattare individui apparentemente cooperanti tra loro a forza di chat, di sms, e altri simili tweet, sopprimendo l´esperienza interiore in cui nasce e muore quell´estremo fanatismo nel quale il me e il te si ricreano in amore.
Niente garantisce che il mondo a venire possa continuare ad essere un mondo innamorato. Se queste storie d´amore dovessero avere una fine, quest´ultima svelerebbe il male radicale che è l´automatizzazione degli umani. Il principio di precauzione circoscrive fin d´ora la libertà - che non potrebbe esistere senza rischi - , il bisogno di sicurezza rafforza le chiusure identitarie, e certe nauseabonde zaffate totalitarie invadono gli spiriti, in tempi come questi, di debito e di austerità endemici. E però io scommetto che l´amore, vissuto a partire dalla diversità delle sue storie qui riunite, possa essere uno tra gli antidoti più radicali, perché più intimi.
In modo insolito, Immanuel Kant nella sua Critica della ragion pura intravede, in un lampo, la possibilità di un «corpus mysticum degli esseri ragionevoli che vi sono...» (...). Noi sappiamo oggi che la metafora kantiana dell´unione con se stesso e con ogni altro non può intendersi solo nel senso - compromesso e in profonda crisi, ai giorni nostri - della "solidarietà", vale a dire della "fraternità". La conclamata universalità dei diritti dell´uomo non sempre ha portato il nostro global village a un´etica esemplare, e la trasparenza mediatica dell´era postmoderna accentua in modo più crudele che mai la persistenza della barbarie. Essendo la libertà sinonimo di desiderio, come posso io entrare fino in fondo in "unione" con i miei desideri e con quelli di ogni altro se non esiliandomi da quel me che ho appassionatamente esplorato, per trasmutare le mie pulsioni e i miei stessi desideri, attraverso l´ascolto della libertà di ogni altro, dell´Ogni Altro? Questo patto, che tiene sotto il suo imperio l´uomo e la donna in cerca di etica, non si riduce alle sole leggi morali; le trasforma in amore assoluto.

Repubblica 25.4.12
Miriam Mafai
Così "Pane nero" racconta la resistenza delle donne
di Franco Marcoaldi


Con "Repubblica" il celebre libro della giornalista appena scomparsa
Quando gli uomini sono partiti per il fronte molte ragazze hanno scoperto la libertà

Sono trascorse appena due settimane dalla morte di Miriam Mafai e oggi i tanti, tantissimi lettori che per decenni l´hanno seguita dalle colonne di questo giornale, avranno modo di riaccostare la sua indimenticabile figura leggendo Pane nero, che esce allegato al quotidiano. In una data nient´affatto casuale: giusto quel 25 aprile, ricorrenza della liberazione dal nazi-fascismo, su cui il libro chiude il suo racconto di guerra. Anche se poi la guerra Miriam la racconta a modo suo, ed è un modo davvero speciale. Le protagoniste di questo lungo viaggio dal ´40 al ´45, assieme tragico e avventuroso, si chiamano Bianca, Marisa, Zita, Lela, Adriana, Carla, Silvia, Lucia… E l´autrice del libro ne raccoglie le voci intessendole tra loro per dare forma a un coro tutto femminile, dove finalmente assume la parola chi, sotto la pressione di quella terribile contingenza storica, si trovò a prendere in mano, per la prima volta, il proprio destino.
L´intento del libro è chiarito da subito, nelle pagine introduttive. Tra le diverse "coreute" c´è chi, una volta scoppiato il conflitto, finisce col guidare il tram e chi per fare la postina, chi organizza scioperi in fabbrica e chi assalta i forni, chi crede fino in fondo nella vittoria di Hitler e Mussolini e chi fa la staffetta partigiana. Eppure, annota la scrittrice, nelle differenti testimonianze una frase continua a riecheggiare: «…Però, è stato bello». Come spiegarsi un´affermazione tanto insolita, stridente? «Forse perché ognuna di noi divenne, nel pericolo e nella miseria, più padrona di se stessa».
Se la guerra scardina ogni ordine, nello smottamento va compresa anche la rigida fissità dei ruoli sessuali. È da questa particolare prospettiva che prende le mosse il racconto di Pane nero: incalzante, turbinoso, drammatico. Ma non privo, a tratti, di annotazioni più leggere. Perché la guerra, oltre ad essere bestiale, è anche sommamente ingiusta. E accanto a fame, freddo e morte, lascia spazio per le feste, il lusso, il gioco d´azzardo – almeno per alcuni. L´occhio di Miriam è troppo curioso e smagato per non darne conto. Il quadro deve essere quanto più possibile completo, veritiero. E così è, grazie a una scrittura che combina al meglio l´immediatezza del reportage giornalistico, la puntualità del saggio storico e il respiro del "romanzo" collettivo. Pagina dopo pagina, il lettore rimane inchiodato a una vicenda che lo coinvolge con i suoi orrori e le sue efferatezze, ma anche con i mille slanci di coraggio, riscatto civile, solidarietà umana, nuova consapevolezza politica.
Refrattaria a qualunque retorica e sentimentalismo, proprio per questo Miriam Mafai riesce a restituire appieno il pathos individuale e collettivo che anima quel cruciale passaggio storico. Senza dimenticare mai il suo peculiare punto di osservazione.
Quando, all´inizio del conflitto, sono partiti per il fronte padri, mariti e fratelli, le donne hanno scoperto con sgomento il senso di una nuova libertà. Costrette dagli eventi ad abbandonare il vecchio ruolo di madri e mogli esemplari, si sono trovate per la prima volta in mare aperto. E si sono inventate nuovi lavori, hanno combattuto con le unghie e con i denti per rimediare un po´ di cibo, hanno offerto ospitalità agli sbandati e ricoperto pericolosi incarichi nella guerra partigiana. Ma ora che le ostilità sono cessate, tutti, da destra e da sinistra, raccomandano di tornare all´ordine: «siate miti, siate dolci, siate sottomesse». La «trasgressione» legittimata dalla guerra viene negata, a favore del restauro di un´immagine convenzionale. Ma le donne non saranno mai più quelle di prima. Anche grazie a libri come questo, scritto affinché nella memoria collettiva resti traccia di quel momento di protagonismo femminile.

martedì 24 aprile 2012

l’Unità 24.4.12
Francia 2012 Il candidato socialista per la «ricostruzione» dell’Unione europea: «No alle divisioni»
Hollande-Sarkò, battaglia d’Europa
Hollande parla di valori europei e rispetto per la Francia. Sarkozy invoca una Ue sottochiave, frontiere blindate e più sicurezza. Già partita la campagna per il ballottaggio. E il capo dell’Eliseo vira tutto a destra
di Marina Mastroluca

«Cari amici siamo al secondo turno e tutto ricomincia». I seggi si sono chiusi da poche ore, non c’è stato quasi neanche il tempo di dormire, per Sarkozy in seconda fila non c’è nemmeno un minuto da perdere. Di prima mattina una sua e-mail dà la sveglia agli elettori. Parla di «rispetto delle frontiere», «controllo dell’immigrazione» e sicurezza. Che il cuore di Sarkozy battesse a destra l’aveva detto la sua campagna elettorale, oggi con Marine Le Pen al 17,9 per cento c’è una ragione in più. «Aiutatemi a far vincere la Francia forte scrive -. Rivolgete questo appello a tutti quei francesi che mettono l’amor di patria al di sopra di qualsiasi considerazione partigiana».
Hollande è già ripartito per la Bretagna, dopo aver messo a punto il piano di battaglia nel suo quartier generale. Rientrato a Parigi nella notte dal suo collegio elettorale, ha stilato una «dichiarazione di intenti» e messo in guardia chi pensava che la vittoria fosse già in tasca. A portata di mano sì, senza che nulla sia ancora deciso. «Se avremo vinto dice lo sapremo il 6 maggio». Ma poi nel pomeriggio Hollande trova in piazza toni più entusiasti, mentre chiede la vittoria della sinistra per riorientare la costruzione dell’Europa. «L’onda sale, sale talmente che il candidato uscente la prenderà in piena faccia».
DUE MILIONI DI VOTI PERDUTI
A seggi chiusi i nuovi pronostici sul secondo turno danno qualche ragione per pensarlo. Tra Hollande e Sarkozy la distanza oscilla tra gli 8 e i 12 punti. Il capo dell’Eliseo fa finta che non sia vero e già dalle prime battute accusa lo sfidante socialista di temere il confronto. Propone tre dibattiti tv, Hollande non ne concede più di uno, com’è tradizione: «Sarkozy è in difficoltà, ma non può cambiare le regole», dice. L’Eliseo insiste: «Non fugga».
Il ballottaggio è tra due settimane,
se c’è una possibilità per il presidente uscente di ribaltare i pronostici di book-maker e sondaggi, sta molto nella sua capacità di pescare nel mare degli scontenti e degli esclusi che hanno scelto Le Pen. Un voto di crisi, questa è la lettura all’Eliseo, perché a scegliere il Front National nella versione un po’ più digeribile coniata da Marine, sono stati quelli che hanno meno: meno soldi, meno istruzione, meno opportunità. Il 50 per cento non ha un diploma, molti sono operai, il 29%. Non ci sono voti buoni e voti cattivi, dice Sarkozy. «Gli elettori del Front national devono essere rispettati. A loro dico: vi ho sentiti, trarrò tutte le conseguenze».
Quasi due milioni di voti persi in un quinquennio alla presidenza, in gran parte incamerati dal partito di Marine Le Pen, che ha incassato 6,4 milioni di preferenze, un milione in più del 2002 quando il vecchio Jean Marie arrivò al ballottaggio. In mezzo c’è l’anima nera insofferente con la destra gollista e ci sono i voti antisistema, quelli che mettono Hollande e Sarkozy sui due lati di una stessa medaglia. Secondo i sondaggi, tra il 48 e il 60 per cento potrebbe alla fine decidere di votare per il presidente uscente. C’è anche un largo 20% di indecisi, altrettanti voterebbero invece per il candidato socialista pur di liquidare Sarkozy e spianare la strada al Front National come partito leader dell’opposizione, «l’unica opposizione alla sinistra». Già si ragiona su un nuovo nome, un progetto per dopo le legislative di giugno dove Marine spera in un successo.
Per Sarkozy è più facile parlare a questa platea. Nel comizio a Tours se la prende con «l’Europa che non regola i suoi flussi migratori» e apre il suo mercato senza contropartita. Un’Europa così, dice, «è finita!». Parla di patria, di nazione. «I francesi non vogliono un’Europa colabrodo, incluso i più europeisti tra noi dice -. Domenica i francesi ci hanno detto che non vogliono più una globalizzazione senza regole». Anche i socialisti sperano di riuscire a recuperare i voti popolari intercettati dalla destra estrema, i voti di quanti «hanno l’impressione di non avere un posto nella società», come dice Martine Aubry.
Hollande punta agli indecisi. Intanto può contare già sul sostegno di Mélenchon, dei verdi e dei candidati minori, un pacchetto di circa il 15%. E c’è già qualche annuncio a suo favore dei centristi di Bayrou, che però si riserva di esprimersi. Sarkozy al contrario deve ancora conquistarselo il voto lepenista. Marine Le Pen sembrerebbe orientata a non dare nessuna indicazione, anche se il Front National ha annunciato una decisione per il 1 ̊ maggio. Sarkozy ha già prenotato questa data, con l’intenzione di scippare a Hollande la piazza della festa del lavoro, riconvertita in «festa del vero lavoro, di quelli che lavorano duro, che soffrono e non vogliono più che quando non si lavora si possa guadagnare più di quando si lavora». Hollande replica già presidenziale: «Non farò mai una festa degli uni contro gli altri».

l’Unità 24.4.12
Da Le Pen a Wilders, quel rabbioso vento che soffia sull’Europa
L’elemento unificante delle destre estreme è sempre la xenofobia
Da Bruxelles a Copenhagen passando per Berlino, allarme per l’affermazione del Front National. È il riflesso di un fenomeno più vasto che attraversa il Vecchio Continente ma non può essere derubricato come «nostalgico»
di Paolo Soldini


Che cosa c’è dentro quel quasi 18% al Front National che ha rischiato di rovinare la festa di François Hollande per il primo turno delle elezioni presidenziali? Se lo chiedono un po’ tutti: chi con preoccupazione e invitando i leader europei «a fare attenzione alla minaccia populista», come la Commissione europea, chi sdrammatizzando «perché il problema non ci sarà più al secondo turno», come il governo tedesco; chi, come i ministri degli Esteri lussemburghese e danese, evocando le responsabilità di Sarkozy e della destra «rispettabile» per aver giocato sporco su temi come emigrazione e convivenza. Le risposte non sono facili. Ce n’è una apparentemente tranquillizzante e dice che da molti anni, ormai, in tutte le società europee esiste uno zoccolo duro di consensi per i partiti che in un modo o nell’altro si richiamano ai valori e ai princìpi dell’estrema destra. In questa ottica, ammesso che sia quella giusta per guardare al fenomeno, il successo di Le Pen sarebbe indicativo, sì, ma non proprio clamoroso. Già con suo padre il Front National aveva raggiunto percentuali quasi altrettanto massicce (17,89% al ballottaggio del 2002) e da allora sono passati dieci anni in cui i problemi che danno alimento al populismo e alla demagogia, a cominciare dalla crisi economica, dalla globalizzazione e dall’immigrazione, sono tutti aumentati.
Proprio il carattere «europeo» del fenomeno, però, rende non solo più complicata la sua comprensione, ma anche più problematiche le strategie per affrontarlo. Una ricognizione dell’estrema destra politica sul continente ci mostra una estrema varietà di spinte, anche contraddittorie. Alcuni partiti e molti movimenti esprimono una specie di «protesta contro la Storia» e rivalutano i vari fascismi europei e il nazismo, come la Npd tedesca, i panslavisti russi, i fascisti ungheresi o baltici, l’italiana Forza Nuova, il Partito nazionale britannico.
Ma per altri la ragion d’essere on è l’occhio al passato. Il Front National, la Cdu dello svizzero Christoph Blocher, il Pvv dell’olandese Geert Wilders, il belga Vlaams Blok, il partito del Popolo Danese di Pia Kjaersgaard, i partiti antitasse norvegese e svedese non sono affatto «nostalgici». Rivendicano, anzi, il fatto di essere molto «moderni», al passo coi tempi e «vicini al popolo» perché ritengono di esprimere al meglio le novità che le complicazioni delle società moderne diffondono nella coscienza di ampi strati della popolazione: la paura per le «invasioni» degli immigrati e le insidie per la sicurezza e l’ordine pubblico, il rifiuto della globalizzazione e di ogni idea di cessione di sovranità, l’ostilità verso i «signori di Bruxelles», un egoismo sociale e di gruppo apertamente ammesso e, anzi, rivendicato come un merito. È evidente che le drammatiche vicissitudini della crisi finanziaria e sociale forniscono ormai da anni abbondantissimo nutrimento a queste istanze.
Secondo gli osservatori, il vero piatto forte della campagna di Marine Le Pen è stato la polemica con Sarkozy sulla sua acquiescenza ai diktat di Bruxelles e di Angela Merkel (ed ora è anche il maggiore ostacolo alla confluenza su di lui dei suoi voti). Il rifiuto della globalizzazione e della comunitarizzazione delle politiche può assumere i caratteri della rivendicazione dell’orgoglio di Nazione, come nel caso del lepenismo, o in un regionalismo che costituirebbe la trama dell’«Europa dei popoli», com’è il caso dei movimenti secessionisti (Lega in Italia o il Vlaams Blok), o potenzialmente tali, come la Fpö austriaca che fu di Haider o il partito di Blocher.
Il panorama è vario e complicato, come si vede. Ma qualche elemento unificante di tutta la galassia dell’estrema destra europea c’è. Il primo è la xenofobia, che spesso sconfina nel razzismo aperto. Poi c’è, quasi sempre, un forte conservatorismo in materia di costumi pubblici e privati. E infine, e soprattutto, il populismo costruito intorno a figure carismatiche. I partiti di estrema destra, assai più che gli altri, hanno bisogno di un capo indiscusso e di un’autocertificazione di «diversità» rispetto al resto della politica. Ora, se si considerano questi tratti unificanti, è facile verificare che molti elementi di legittimazione politica della destra estrema sono venuti e vengono dal potere e dalla destra moderata e «rispettabile».
La Cdu e la Csu tedesche per anni hanno fatto campagna sullo slogan «das Boot ist voll» (la barca è piena); Sarkozy, trovando sponda a Berlino, ha movimentato le ultime ore della sua campagna con la proposta di sospendere Schengen; in Italia è stato ministro degli Interni un personaggio che voleva prendere le impronte digitali ai bambini e che si vanta ancora dei respingimenti in mare che hanno provocato morti e terribili sofferenze e sono stati condannati dalla comunità internazionale (e ora ammette: «Ci abbiamo marciato»).
Anche il populismo carismatico è stato blandito dalla destra «normale». Il razzista islamofobo Wilders è stato accettato come sostenitore del governo in Olanda; il partito di Haider ebbe ministri in Austria; in Ungheria c’è un leader messo sotto osservazione dalla comunità internazionale. Anche senza scomodare il caso paradossale dell’Italia, dove la Lega ha partecipato al banchetto del potere fin quasi al giorno della sua indecorosa rovina, l’esperienza dell’Europa mostra che il problema non è tanto l’estrema destra in sé, ma le politiche delle destre, di certe destre, che la nutrono. C’è da sperare che Sarkozy ne sia consapevole.

l’Unità 24.4.12
Intervista a Marc Lazar
«Il risultato del Fn? È anche una forma di antipolitica»
Il sociologo francese: «La sinistra segna una netta ripresa, ma non basta. Hollande cercherà di dare risposte pure a chi ha dato un voto anti-sistema»
di Umberto De Giovannangeli


Il primo turno delle presidenziali registra una ripresa delle sinistre in Francia, con un più 8% rispetto al 2007. È un dato significativo ma che non deve attenuare il campanello d’allarme rappresentato dal successo del Front National di Marine Le Pen. Il risultato del Fn non è un incidente di percorso ma qualcosa che investe non solo la Francia ma l’Europa: perché testimonia della capacità attrattiva dei populismi che si fanno forti di sentimenti diffusi di insicurezza e di rivolta anti-sistema. Per certi aspetti, il successo della Le Pen è anche segnato da quel vento dell’”antipolitica” che soffia anche in Italia». A parlare è uno dei più autorevoli sociologi della politica francesi, professore a Sciences Po e alla Luiss.
Partiamo da una visione d’insieme dei risultati del primo turno delle presidenziali. Quali sono i dati più significativi? «Sono quattro. Il primo: una partecipazione più alta di quella prevista, il che sta a testimoniare che le elezioni presidenziali mobilitano i francesi, salvo nelle zone più periferiche delle grandi città. Il secondo dato: il candidato socialista, François Hollande, è in testa al primo turno, con il secondo risultato migliore tra tutti quelli registrati dai candidati socialisti nella Quinta Repubblica. L’unico che aveva fatto meglio di Hollande è stato Mitterrand nel 1988. Terzo dato importante: per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica, il presidente uscente, candidato alla propria successione, arriva secondo al primo turno. Quarto dato, ma non in ordine di importanza: il Front National con Marine Le Pen registra il più grande successo nella storia del Fn». Guardiamo al futuro che si fa già presente. Su cosa punterà Hollande in quete due settimane che lo separano dal ballottaggio del 6 maggio? «Hollande insisterà con la sua strategia, quella, per dirla con le parole di Mitterrand dell’81, di una “forza tranquilla”. Cercherà di mettere al centro del dibattito, ancor più di quanto è stato fin qui è avvenuto, i temi economici e sociali, forte del fatto che i francesi considerano questi gli argomenti, le problematiche principali. Hollande cercherà inoltre di attrarre una parte dell’elettorato centrista di Francois Bayrou, certo com’è di ottenere quasi automaticamente i voti che al primo turno sono andati ai candidati della sinistra radicale, a cominciare dal leader del Fronte de Gauche Jean-Luc Mélenchon, e a Eva Joly, la candidata dei Verdi. E, forse, Hollande cercherà di parlare anche a una parte dell’elettorato del Front National, insistendo sulla sofferenza sociale prodotta dalla crisi e dal rigore a senso unico praticato da Sarkozy».
E Sarkozy, quali carte proverà a giocare?
«Su cosa Sarkozy punterà è già chiaro dall’altra sera, a urne chiuse per il primo turno: insisterà sull’immigrazione come minaccia a cui far fronte, chiamando in causa l’Europa “permissiva” che non regola i flussi migratori, batterà il tasto dell’’insicurezza, esalterà la Nazione francese per prendere i voti di Marine Le Pen. La sua sarà una corsa a destra»
Marine Le Pen, per l’appunto. Come leggere il suo risultato? Terza classificata, con il 17,9% dei voti...
«Va detto che esiste un nucleo forte del voto del Fn da quasi trent’anni in Francia. In quel 18% ci sono inoltre molti elettori delusi da Sarkozy e che avevano votato per lui nel 2007. A tutto ciò va aggiunta una componente di protesta contro tutti i partiti, alimentata dalla crisi economica e dalla gravissima situazione sociale».
Quali ricadute sull’Europa potrebbe avere una vittoria di Hollande il 6 maggio?
«Se Hollande sarà il nuovo Presidente, ha già annunciato che cercherà di rinegoziare il trattato fiscale europeo. Sarà molto difficile, ma Hollande scommette su una doppia vittoria in altri due Paesi europei: l’Italia, nelle elezioni della primavera 2013, e la Germania, con le legislative dell’autunno 2013. Molte cose dipenderanno anche dal risultato delle elezioni legislative francesi di giugno. Se il Ps otterrà la maggioranza assoluta da solo, allora avrà un certo margine di manovra; se invece non l’avrà, il Ps di Hollande dipenderà dai voti dei parlamentari del Front de Gauche, che sono molto ostili all’Europa attuale».
Il voto del primo turno visto da sinistra e da destra: cosa indica anche in chiave europea?
«Questo primo turno indica una ripresa delle sinistre in Francia che, con un complessivo 43,5%, ha una crescita di 8 punti di percentuale rispetto al 2007. Ciò potrebbe indicare una nuova stagione per le sinistre in Europa; una stagione ancora fragile, però, perché in Francia questa crescita è dovuta soprattutto al rigetto di Sarkozy. Ma in chiave europea penso soprattutto alle elezioni nel 2013 in Italia e Germania oltre che in quella interna, deve far riflettere il successo di Marine Le Pen, perché quel risultato dimostra lo spazio politico-elettorale che oggi possono avere i populismi in Europa».

La Stampa 24.4.12
Francia, il ritorno del nazionalismo
Nella roccaforte di Marine Le Pen “Il cuore è rosso, ma la collera nera”
Viaggio a Hénin-Beaumont, dove gli operai di sinistra hanno votato il Front National
di Marco Castelnuovo


Qui non ci sono picchiatori, uomini neri con la testa rasata, razzisti. Qui non ci sono fascisti. Hénin-Beaumont è il feudo di Marine Le Pen.
La donna nera, e non solo perché farà da arbitro al ballottaggio, è una tranquilla cittadina nel Pas de Calais, a settanta chilometri dal confine belga, dove la vita scorreva tranquilla. Nella parte ricca case di mattoncini rossi a un piano, giardino con altalena e barbecue, camino ancora acceso in questa primavera che tarda ad arrivare. Divisa dalla ferrovia che da Lens porta a Lille, la parte più popolare: casermoni del dopoguerra, grigi ma dignitosi, a ospitare i minatori che fino agli anni 70 hanno fatto di questa zona una delle più produttive del Paese.
È qui nella parte popolare, sopra un negozio di occhiali, ironia della sorte in rue Rousseau, che Marine ha deciso di rompere con il passato e la figura ingombrante del padre per ricostruire il “suo” Front National. Quello che ha battuto tutti i record, anche quello del 2002 che vide il vecchio Jean-Marie arrivare al ballottaggio ma con una percentuale inferiore a quella presa dalla figlia l’altra sera.
«Guardi qui», dice buttando una copia del quotidiano locale del giorno un cliente affezionato del bar “la Paix”, proprio di fronte alla cattedrale, uno dei pochi aperti in questo lunedì di pioggia battente e forte vento. «E sempre il Front National» si intitola l’editoriale. Butta il giornale sul tavolo del vicino: «Tutte le volte la stessa storia. L’Fn fa il botto, si dice che non deve più riaccadere, nessuno fa nulla. La volta dopo il Front National fa ancora meglio e ci si chiede il perché. È sempre la stessa sorpresa». Il gestore del locale Dino, condivide. «Qui siamo stati dimenticati».
Ma cos’è che vogliono gli elettori della Le Pen? Chi sono? A quest’ultima domanda è difficile rispondere. Nessuno ammette di votare Front National, anche se più di un elettore su tre domenica ha messo la croce sul simbolo della fiamma tricolore. Si vergognano, si dice. Chi si espone lo fa sotto anonimato perché – sostiene – altrimenti «quelli mi vengono a prendere e mi menano». Basta questa frase, detta da un settantenne con il bastone in una mano e il carrello della spesa nell’altra, per capire il rancore nei confronti di marocchini, algerini, insomma degli «arabi» come li chiama, spiccio, lui. «Non vogliono lavorare, non parlano francese, vivono con il sussidio e fanno piccoli furti: tanto se li arrestano che gli possono fare? Non hanno nulla da perdere». Il tema dell’integrazione (semi) fallita è centrale per capire la paura di chi vede perdere tutto. Ma non può bastare la paura per giustificare un exploit del genere, soprattutto in assenza di fatti eclatanti.
«È infatti un voto di scoramento» dice cercando di minimizzare David Noel, giovane segretario cittadino del Partito comunista. «In questa regione, gli elettori dell’estrema destra non sono più del cinque per cento». La Le Pen qui ha preso sette volte tanto. «Qui si usa dire che il cuore è rosso, ma la collera è nera», ammettendo così implicitamente che anche alcuni voti di sinistra siano finiti al Fn. In realtà poi spiega che se si analizzano i flussi di voto non è propriamente così, che lo scandalo locale che ha colpito l’ex sindaco socialista arrestato per corruzione ha pesato oltremodo, ma sa bene anche lui che quelli sono voti di gente normale, che lavora per pochi spiccioli quando va bene, che è stata lasciata senza speranza da mille e mille promesse poi mai mantenute. «Cacceremo questa feccia con getti d’acqua ad alta pressione», disse sfrontato Sarkozy nella cavalcata che lo portò all’Eliseo nel 2007. Di pompieri non ne hanno visti, e nemmeno Monsieur le President s’è più fatto vivo da queste parti. Con il risultato di avere perso otto punti secchi in cinque anni.
Madame Le Pen ha vinto la sua scommessa: non è di queste parti, ha passato i primi tempi ad ascoltare. Ha ricostruito l’estrema destra francese partendo da una zona mineraria, fatta di operai e gente senza ideologie. Domenica dopo il voto ha detto: «Porto con me lo spirito di Hénin-Beaumont». E non solo quello. Ha rinnovato la classe dirigente plasmando la sua creatura attorno a tre paure fondamentali: immigrazione, sicurezza, perdita del potere d’acquisto. E da qui è partita per fare il pieno sia nelle roccaforti del padre nel Sud est e in Corsica, sia sfondando in zone semirurali, come l’est della regione parigina. Oggi non rappresenta anche operai, impiegati, giovani non diplomati che temono il «declassamento sociale». Alla radio Marine si è rallegrata perché l’Europa teme il suo risultato: «É il ritorno della Nazione», ha detto rinviando al 1° maggio l’annuncio su cosa farà al ballottaggio. «Nessun voto» dicono a Hénin-Beaumont i militanti. Anche perché si pensa che una sconfitta di Sarkozy acceleri ulteriormente la disgregazione dell’Ump con tanti voti in libera uscita in vista delle legislative di giugno. Come in fondo è successo già qui. Oggi ci si sorprende, ma era tutto previsto. E prevedibile.

il Fatto 24.4.12
Olanda, la destra sfascia tutto. Paese verso il voto
Affossato il piano di austerità e gli xenofobi guadagnano consenso
di Alessandro Oppes


Un’altra mina vagante sul terreno accidentato della zona euro. Salta il governo olandese, di fronte all’incapacità di arrivare a un compromesso sulla riduzione del deficit. Dopo otto settimane di negoziato infruttuoso, è stato il leader dell’estrema destra islamofoba e antieuropea, Geert Wilders, a rovesciare il tavolo e a far cadere il fragile esecutivo formato da liberali e democristiani. Per il premier Mark Rutte, in carica dall’ottobre 2010, non c’è stato altro da fare che presentare le dimissioni nelle mani della regina Beatrice, aprendo in questo modo la strada a un voto anticipato che dovrebbe essere convocato per il prossimo autunno.
L’OBIETTIVO del governo era quello di varare un piano d’austerità da 16 miliardi di euro, per fare in modo che il Paese possa rispettare l’obiettivo del deficit al 3 per cento fissato da Bruxelles per il 2013 (mentre, in mancanza di correttivi, le previsioni indicano che non si scenderebbe al di sotto del 4,6, una percentuale quasi uguale a quella registrata nel-l’ultimo esercizio). Ma la rigidità imposta dalla Ue “è una sciocchezza” secondo Wilders, il cui sostegno fu indispensabile – un anno e mezzo fa – per consentire la formazione di una maggioranza parlamentare otto mesi dopo le elezioni politiche. Fu proprio l’appoggio dell’estrema destra a garantire a Rutte 76 voti alla Camera su un totale di 150 seggi. Ma il mese scorso uno dei deputati del Pvv di Wilders era passato al gruppo indipendente, dando così la prima severa spallata a un esecutivo debole fin dal momento del suo insediamento. “Che non mi segnalino come responsabile e che non cerchino un capro espiatorio”, dice ora il leader dell’estrema destra. “Quello che è accaduto non è colpa mia. È ora che gli olandesi parlino di nuovo e decidano il futuro che desiderano”. In gioco, c’è proprio il futuro del modello olandese. Secondo i dati forniti dall’ufficio centrale della pianificazione, le misure proposte dal primo ministro Rutte determinerebbero nel corso del prossimo anno una caduta del potere d’acquisto del 2,5 per cento. Il piano d’austerità prevedeva il congelamento degli stipendi dei funzionari pubblici, un aumento dell’Iva, tagli alla spesa sanitaria e riduzione dell’aiuto allo sviluppo.
CON IL SUO “no” al progetto governativo, Wilders spera di poter incrementare la propria base elettorale, approfittando soprattutto della crescente stanchezza dei cittadini per i sacrifici che un Paese “virtuoso” come l’Olanda ha dovuto sostenere negli ultimi due anni a beneficio del fianco più debole della zona euro. Ma l’instabilità politica rischia di trasformarsi in un pessimo affare, tanto per l’Olanda come per l’intera Europa. Il Paese potrebbe correre il pericolo (la prima concreta minaccia è arrivata da Fitch) di perdere la “tripla A”, massima qualificazione concessa dalle agenzie di rating. Un’eventualità che, secondo alcuni economisti, avrebbe effetti nefasti sulla crescita economica e gli investimenti, e provocherebbe l’aumento della disoccupazione. Pur essendo dimissionario, il governo di centrodestra ha comunque l’obbligo di presentare entro il 30 aprile un piano d’austerità a Bruxelles. Per questo Rutte è già impegnato in una disperata corsa contro il tempo nel tentativo di riunire una maggioranza parlamentare per un provvedimento d’emergenza. Subito dopo, comincerà una lunga campagna elettorale alla quale il premier liberale si presenta, secondo gli ultimi sondaggi, come favorito.

il Fatto 24.4.12
In Germania sondaggio boom per il partito ribelle
Lo scivolone dei Pirati: “Cresciamo come i nazi”
di Federico Mello


Inesperienza, crisi di crescita o problemi strutturali di organizzazione? Il futuro è ancora tutto da scrivere ma i pirati tedeschi, il partito nerd-libertario che alle prossime elezioni in Germania insegue risultati a due cifre, si è tirato ieri una bella zappata sui piedi. L’ultima di una discreta serie, peraltro. “L’ascesa del partito è veloce come quella del Nspd (il partito nazista, ndr) fra il 1928 e il 1933”, ha dichiarato Martin Delius, 27 anni, uno dei leader del partito a Berlino, in un’intervista allo Spiegel. Il giovane politico si è subito pentito di questo suo strafalcione – sale sulle ferite nella Germania dove niente è tabù come il nazismo – anche se, coerentemente con la ferrea fiducia hacker nella trasparenza e nella libertà di stampa, non ha voluto ritrattare per rispetto del giornalista e del suo lavoro. Piuttosto, ha successivamente chiesto scusa annunciando di rinunciare a candidarsi alla leadership federale del partito – ma rimanendo per ora in carica nel consiglio regionale. La toppa, però, non è stata sufficiente a coprire l’enorme strappo provocato dalla sua dichiarazione che è suonata piuttosto come una conferma del titolo (in italiano) sparato in prima pagina proprio dal settimanale Der Spie-gel: “Avanti dilettanti”.
COME STA succedendo da noi con il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo – che rivendica spesso una sua comunanza di storia e di intenti con i pirati, anche se quest’ultimi hanno strutture e delegati che Grillo rifiuta –, i Pirataten sono la novità politica in Germania. Nati come costola locale dei fratelli svedesi – che hanno due parlamentari a Strasburgo ma non sono ancora riusciti a sfondare nelle elezioni nazionali –, i pirati tedeschi hanno stupito tutti lo scorso settembre portandosi a casa un 8,9 per cento nelle elezioni regionali di Berlino. Ma il successo non ha sorriso loro solo nella capitale cool e giovane della Germania unita: lo scorso mese nello stato del Saarland sono usciti dalle urne con un altrettanto incoraggiante 7,4 per cento. Solo la scorsa settimana, infine, il sondaggio che, almeno sulla carta, fa storia: l’Emnid Institute gli accredita a livello nazionale un 12 per cento, proiettandoli nell’olimpo del terzo partito nazionale dopo la Cdu e la Spd e addirittura prima dei Verdi.
La ricetta di questo boom è semplice. Se gli svedesi si erano presentati con un programma eccessivamente smanettone (si definivano un “single issue party” un partito concentrato solo su file-sharing, copyright e brevetti), i tedeschi hanno fatto loro un afflato libertario ad ampio spettro. La promessa della condivisione libera di file su Internet basta da sola a scaldare cuori – e portafogli – di più e meno giovani. Ma i Pirati tedeschi hanno proposto anche trasporti pubblici per gli studenti, un salario minimo universale e la legalizzazione della marijuana. Un programma stupefacente e seducente se gli altri partiti impongono solo buchi alla cintura. Eppure non sono tutte rose e fiori: proprio la struttura leggera e l’inesperienza rappresentano un’ipoteca su eventuali successi futuri.
PRIMA DELLA dichiarazione choc di Delius, alcuni giorni fa il segretario regionale di Berlino si era duramente espresso contro l’espulsione per iscritti che mostravano opinioni di estrema destra (anche se il partito si definisce anti-nazi, anti-omofobo e anti-razzista). Anche lui si è poi scusato, ma il nervo rimane scoperto: un ex membro dell’organizzazione di estrema destra Ndp è diventato un dirigente pirata in uno stato occidentale; e la federazione non è riuscita a espellere degli iscritti che in un forum avevano definito la Cdu di Angela Merkel, “più pericolosa dei neo-nazi”. Passi falsi che, uniti a un’antipatia di molti artisti (favorevoli al copyright), e all’alto grado di testosterone di una formazione a stragrande maggioranza maschile, rischiano di incrinare un successo che appariva già scritto. Può essere la crisi di crescita di una forza politica che vuole essere aperta a tutti. Possono essere limiti strutturali: un partito responsabile sulla lunga distanza deve dimostrarsi preparato – i pirati spesso in economia balbettano – e autorevole nelle sue regole di adesione. Può trattarsi infine di inesperienza. Per la quale l’intelligenza pirata potrebbe trovare presto le sue innovative soluzioni.

Corriere 24.4.12
Lepenisti d'Italia, il (nuovo) catalogo è questo
di Andrea Garibaldi


ROMA — Francesco Storace, leader della Destra italiana, è stato a Parigi dieci giorni fa: «Mi ha portato a visitare anche il quartier generale della sua propaganda, uno scantinato anonimo, indirizzo riservato...». Storace è «d'accordo su quasi tutto» con Marine Le Pen, «una donna che conquista». Quando mette in discussione il modello di moneta, la centralità della Bce, l'umiliazione del popolo greco. Quando paragona a un colpo di stato l'ascesa al governo di Monti. Quando resiste al fondamentalismo islamico. «Sapete cosa dimostra il successo di Marine? Che non servono comici per fare politica. Lei non è Grillo!». Le Pen non usa più il termine «destra», Storace lo inalbera. Questo a parte, lui dice che Marine «si è conquistata sul campo la leadership di un Fronte delle Nazioni d'Europa».
Poi, c'è il leghista duro Mario Borghezio. Nel marzo 2011 portò Marine Le Pen a Lampedusa, a parlare dell'Europa «incapace di proteggere le nostre frontiere e i nostri popoli». Borghezio è attirato da Marine soprattutto quando «difende la nostra identità minacciata dall'islam estremista». Si domanda: «Quale risultato otterrebbe in Italia un leader coraggioso che avesse la forza di parlare chiaro come Le Pen?». A Borghezio piace anche il sostegno ai piccoli commercianti traditi, alla Francia rurale che ama mangiare prodotti locali, genuini. «Il 1° maggio giura sarò alla manifestazione del Front National in onore di Giovanna d'Arco, a Parigi, avvolto nella bandiera della Vandea, bianca con la croce e il cuore rossi».
Anche dentro il Pdl s'insinua il fascino della bionda avvocatessa di Neuilly-sur-Seine. Alessandra Mussolini vota contro Monti dai banchi del Pdl: «Alla fine, anche i francesi si sono stufati dell'Europa della Merkel!». Ma la lepenista primaria è Daniela Santanché, che nell'ottobre 2011 invitò Marine a Milano, Palazzo Mezzanotte, architettura fascista: «Ero sottosegretario alla presidenza del Consiglio e Berlusconi sapeva cosa facevo...». Poi ci fu una cena a casa Santanché, con Marine, il principe Ruffo di Calabria e altri. «Lei si arrabbia se la definisci di destra. Ma è contro lo strapotere delle banche, l'immigrazione clandestina. Da noi, questi sono valori di destra e dovremmo smetterla di guardare al centro».
Ha fatto rumore, ieri, la dichiarazione di Isabella Rauti, consigliere regionale Pdl, moglie del sindaco di Roma, Alemanno: «Avrei votato Le Pen al primo turno». Isabella si dichiara convinta soprattutto del programma di Marine per la famiglia (abbassamento dell'età pensionabile per le madri di tre figli e di un figlio disabile...): «Ha preso molti voti fra under 25 e donne. Ha preso voti di destra e di sinistra, va oltre queste categorie». Il padre di Isabella, Pino Rauti, riprese severamente il padre di Marine quando disse: «Le camere a gas? Sono un semplice dettaglio». Ma da allora, dice Isabella, «è passato un mondo, lei ha cambiato il Front National».
Nel Pdl c'è anche La Russa, uomo di vertice, che fa i complimenti a Marine: «Senza la destra non si vince, la soluzione non è l'ammucchiata al centro». Mentre Cicchitto, Gasparri, Anna Maria Bernini bocciano la politica troppo rigorista e filo Merkel di Sarkozy. Con l'approvazione di Berlusconi.

il Fatto 24.4.12
Resistenza, chi era costei?
di Angelo d’Orsi


Tre giorni fa in un liceo scientifico romano, l’Avogadro, un partigiano, Mario Bottazzi, medaglia d’oro, è stato “contestato” da un gruppo di neofascisti. I quali, intorno al 25 aprile, si ridestano dal letargo e si impegnano in attività come imbrattare lapidi e tombe, lanciare messaggi nostalgici sulla Rete, esibire cimeli e gesti (a cominciare dal braccio teso), insultare i partigiani, appunto. Non è chiaro dai resoconti giornalistici quali siano state le reazioni degli altri studenti. E sono proprio loro che dovrebbero interessarci, più delle minoranze di coloro che, inserendosi nel filone del revisionismo estremo, “rovescistico”, cianciano di “storia dei vincitori”, e versano finte lacrime sul “sangue dei vinti”. Ciò è del resto possibile solo in quanto la conoscenza dei fatti è assai scarsa nella fascia di età fra i 15 e i 20 anni; a dire il vero non è molto più alta fra i venti-trentenni.
MA È BEN più grave l’ignoranza della nostra storia recente al livello della scuola superiore, che dovrebbe completare il percorso formativo dei nostri studenti prima che si introducano nel mondo universitario, dove si danno per acquisite certe conoscenze, e dove comunque la formazione assume un carattere di indirizzo ad ambiti spesso lontani dalla storia, e se guardiamo alla “riforma Gelmini” i risultati saranno devastanti, in quanto l’insegnamento universitario perderà del tutto il suo carattere formativo (innanzitutto alla cittadinanza), per imboccare la strada angusta della mera “professionalizzazione” sulla base delle “esigenze del mercato”. Dunque, “tocca alla scuola”, come si sente spesso dire, dare una base conoscitiva sia pur minima, ma corretta, ai futuri cittadini. E invece… Una ricerca Cirm del 2001, tra 1254 studenti delle scuole milanesi, rivelava che oltre tre quarti (76,5%) degli intervistati confessava la sua ignoranza sulla fine del fascismo, e sul ruolo della Resistenza, e nel contempo faceva trasparire il bisogno di saperne di più. Ma confessava apertamente anche il fastidio per le celebrazioni, in particolare, vorrei aggiungere, quelle “obbligatorie” di aprile. Dunque bisogna cercare altra strada per interessare i giovani alla storia, in particolare a quella dello scontro tra fascismo e antifascismo, che dura ormai da quasi un secolo (in fondo il fascismo si può dire nasca nel 1914, con il voltafaccia di Benito Mussolini che, abbracciando la causa dell’Intervento nella guerra mondiale, rompe col Partito socialista).
Che cosa non va nelle celebrazioni? Il loro carattere ufficiale, espressa da politici in cerca di visibilità e privi a loro volta, spessissimo, di adeguate conoscenze. La retorica ridondante e ripetitiva. L’affidare ai “testimoni” il ruolo che dovrebbe competere agli studiosi: e la confusione tra memoria e storia, regolarmente riproposta dai ministri, dirigenti scolastici, reduci dai campi di sterminio, staffette partigiane, giornalisti e amministratori locali, continua a fare danni. La memoria è soggettiva e labile, comprende l’oblio e l’errore, la dimenticanza e la rimozione, e non può essere né generalizzata, né trasformata in verità assoluta; solo alla storia spetta quel compito, e il ricordo dei testimoni, può essere una fonte importante, non unica e da vagliare opportunamente, e mettere a confronto con altre fonti, in particolare quelle scritte, per fare storia, appunto. Del resto, dobbiamo arrenderci all’inesorabile avanzare del tempo: quanti testimoni avremo ancora in vita fra dieci anni? E quando non ne sarà rimasto alcuno, che faremo?
Rinunceremo a trasmettere la conoscenza di un passato cronologicamente vicino, ma culturalmente lontanissimo da noi – e specialmente da un sedicenne di oggi, i cui genitori generalmente non hanno mai fatto menzione di parole come resistenza e fascismo, o di date come 8 settembre e 25 aprile? Forse sarebbe opportuno, innanzitutto, che l’Anpi, oggi rivitalizzata grazie al consistente, imprevisto afflusso di giovani, mettesse in campo ricerche serie (su campioni ben più cospicui di quello del Cirm) a livello nazionale, per appurare lo stato delle conoscenze sul biennio ’43-45, sul fascismo, e la nascita della Repubblica. In fondo, se non ci pensa l’Associazione dei Partigiani, chi dovrebbe farlo?
LA RICERCA sopra citata, peraltro davvero di scala modesta, non ha avuto seguito: e sono trascorsi 11 anni! Paradossale: e se smettessimo di celebrare, e incominciassimo a capire innanzitutto che cosa sanno i “nostri ragazzi”? e poi, senza inventare nulla di clamoroso, facessimo loro scoprire i fatti, rendendoli magari protagonisti? Facciamo conoscere loro le biografie dei personaggi – eroi e canaglie, resistenti e zona grigia – del nostro recente passato: una storia appresa e narrata da loro, a partire dai documenti. Una storia creativa, nelle forme, ma fedele alla verità, nella sostanza. Ma prima, per favore, diteci che cosa sanno i giovani del 25 aprile, del fascismo e dell’antifascismo! E davanti alla loro ignoranza, corriamo ai ripari prima che sia troppo tardi.

il Fatto 24.4.12
Il loro 25 aprile
di Furio Colombo


Da ieri nelle strade e nelle piazze della Capitale italiana, si vedono grandi manifesti che celebrano la Repubblica di Salò. Avete capito bene. Celebrano la repubblica di Salò sotto la data del 25 aprile. La scritta è stampata in alto sopra la foto di un reparto di Brigate nere passate in rivista dall’ultimo segretario del Partito fascista, Pavolini. Non confondete. Non erano soldati per combattere. Erano soldati da rastrellamento. Rastrellamento vuol dire (nel linguaggio della mia infanzia, quando ho visto ciò che accadeva con lo stesso orrore che provo oggi) catturare antifascisti e partigiani destinati a morire. Sono i “soldati” impegnati a tempo pieno a trovare e catturare cittadini italiani ebrei, bambini e malati inclusi, da consegnare ai camerati tedeschi per lo sterminio nei campi. Quei campi hanno continuato a uccidere fino all’ultimo giorno e all’ultimo fascista in condizione di “combattere” quella guerra ignobile e spaventosa. Fa impressione che quei manifesti siano affissi negli spazi con la scritta “Comune di Roma”. Fa impressione e orrore che lo slogan del manifesto sia la scritta: “Tutti gli eroi sono giovani e belli”. Sono gli eroi che hanno mandato a morte ogni ebreo, ogni partigiano, ogni antifascista su cui sono riusciti a mettere le mani. Mani non di combattenti ma di carnefici. Sono gli eroi che hanno dato una mano alla razzia romana del 16 ottobre (tutte le famiglie trovate nel ghetto, mille persone con tutti i bambini, quasi nessuno è tornato). Sono i complici delle stragi compiute dai camerati tedeschi nei villaggi e paesi dove anche il parroco è stato ucciso, Sono coloro che pagavano lire 5.000 a quelli che indicavano il nascondiglio di un italiano ebreo da mandare a morire. Sono i “ragazzi” che si sono preoccupati di far arrivare ad Auschwitz Primo Levi, catturato mentre combatteva da partigiano. Il macabro manifesto reca in basso la scritta “ai ragazzi di Salò”. Nei giorni scorsi l’ambasciatrice svedese a Roma mi ha espresso il desiderio di celebrare insieme, a Roma, l’anniversario della nascita di Raul Wallenberg, il giovane diplomatico svedese che, assiemeall'italianoGiorgioPerlasca, ha salvato migliaia di ebrei ungheresi. Le ho detto sì. Non nella Roma di Alemanno. A Roma hanno fatto bene le associazioni della Resistenza a non invitare le istituzioni di questa città e di questo manifesto alla celebrazione del 25 aprile.

il Fatto 24.4.12
Un brano di Guccini sui manifesti su Salò: è polemica


Non ci vuole troppo a stravolgere la storia, figuriamoci una canzone. Un brano scritto nel 1972, tempi difficili per l’Italia, diceva che “Gli eroi son tutti giovani e belli” e parlava di disparità sociale, treni a vapore e ragazzi commossi da un’idea che ora suona arcaica: “Trionfi la giustizia proletaria” .
Così cantava Francesco Guccini in “La locomotiva”, così hanno scritto su grandi manifesti appesi in tutta la città tra i giorni del Natale di Roma (la fondazione di Romolo celebrata quest’anno con particolare impegno) e il 25 aprile.
Nella foto in bianco e nero si vedono i fedeli del regime con l’elmetto in testa e i pantaloni alla zuava. Più in basso la dedica: “Ai ragazzi di Salò”. “Non è la prima volta che si prendo un mio testo e si stravolge il senso, ma stavolta non m’è piaciuto proprio ha detto ieri Guccini Tra quelli di Salò ci sarà stata anche gente in buona fede, ma sicuramente stava dalla parte sbagliata: nella Resistenza c'è chi ci ha lottato per la libertà a costo della vita, dall'altra parte si parteggiava con i nazisti e con la tortura. Ricordare la liberazione è molto importante”.

Corriere 24.4.12
La mossa di Napolitano contro le liti sul 25 Aprile
La Polverini e l'Anpi invitati al Quirinale

di Ernesto Menicucci

ROMA — Divisi sul 25 Aprile, riuniti dal Quirinale. Sulla festa della Liberazione, che a Roma è diventata un caso, scende in campo Giorgio Napolitano.
Oggi, al Colle, iniziano le cerimonie per il 67esimo anniversario della data che celebra la fine del nazifascismo, con le Associazioni combattentistiche e d'arma. E, insieme all'Associazione partigiani, ci saranno anche il Comune di Roma, la Regione Lazio e la Provincia di Roma: le tre istituzioni non invitate dall'Anpi romano al corteo di domani che si concluderà a Porta San Paolo, luogo simbolo della Resistenza capitolina. Una decisione, quella dell'Associazione partigiani, che aveva creato molte polemiche.
Ufficialmente, il motivo del mancato invito è «per evitare possibili contestazioni», come capitò nel 2010, quando contro la governatrice Renata Polverini ci furono cori e lanci di oggetti, col presidente della Provincia Nicola Zingaretti (Pd) che per difenderla si beccò un limone in fronte. Ma, dietro la scelta dell'Anpi, ci sono anche altre motivazioni: l'opposizione al sindaco Gianni Alemanno e alla stessa Polverini perché di centrodestra, malumore per come il Pdl ha commentato la morte del partigiano Rosario Bentivegna, liti interne all'associazione, spaccata tra gli esponenti di Comunisti italiani e Rifondazione e quelli legati al Pd e alla Cgil.
Scoppiata la bagarre, la Polverini si è rivolta a Napolitano: «Spero che il capo dello Stato — ha detto — voglia spendere una parola. Bisogna smettere di pensare che chi milita da una parte abbia l'esclusiva della storia. Il sangue è stato versato da tutti, anche da miei familiari e da chi mi ha votato». Più remissivo Alemanno: «Mi dispiace, ma ne prendo atto. L'Anpi è un'associazione privata, decide lei come organizzare le sue manifestazioni. Peccato, però, che il 25 Aprile anziché unire divida». Zingaretti al corteo ci sarebbe andato comunque: «Ma — dice — in forma privata. La decisione dell'Anpi, presa per evitare incidenti, è saggia».
Pian piano, però, sono aumentate le voci critiche. Prima il Pdl, con Fabrizio Cicchitto: «L'Anpi, a Roma, non farà una manifestazione unitaria ma solo quella di una parte precisa». Poi Pierferdinando Casini: «Il 25 Aprile è ricorrenza importante, non può dividere gli italiani. Rattrista l'esclusione di Alemanno e Polverini dalle celebrazioni. Grande errore!», scrive su Twitter il leader udc. Sulla stessa lunghezza d'onda anche Rosetta Stame, presidente dell'Associazione vittime delle Fosse Ardeatine («Alemanno va rispettato come sindaco, no alle separazioni di carattere personale») e Lucio D'Ubaldo, senatore pd («l'Anpi di Roma ha ceduto all'estremismo»).
I sindacati si schierano, in polemica con l'Anpi: «Il 25 Aprile è la festa di tutti gli italiani che si sono riconosciuti nei valori di libertà e di democrazia. Quei valori sono il vessillo delle istituzioni democratiche. Chiediamo all'Anpi di rivolgere a tutte le istituzioni, come da noi suggerito, l'invito a partecipare», la nota firmata da Claudio Di Berardino, Mario Bertone e Luigi Scardaone, segretari regionali di Cgil, Cisl e Uil. Le ultime due sigle, senza presenza istituzionale, non parteciperanno al corteo.
La mossa di Napolitano, ora, riapre gli scenari. Tanto che l'Anpi, adesso, sta valutando il da farsi. Soddisfatta la Polverini: «C'ero rimasta molto male. Il capo dello Stato ha prontamente dato una risposta, ma ne eravamo certi. Ora potremo celebrare tutti assieme la festa della Liberazione». Anche Zingaretti plaude a Napolitano: «Ringrazio il Quirinale per l'ottima e tempestiva iniziativa. È il modo migliore per superare polemiche e incomprensioni». Caso chiuso? Oggi la risposta.

l’Unità 24.4.12
L’appello di Rosetta Stame ai partigiani di Roma: «Tutti siano invitati»
Clima teso nella capitale. Il sindaco: è una manifestazione privata
I sindacati all’Anpi: «Il 25 aprile in piazza anche le istituzioni»
di Mariagrazia Gerina


Dopo la decisione dell’Anpi Roma di non invitare Alemanno e Polverini per evitare contestazioni, il dibattito si fa acceso. Intervengono i sindacati. E il giorno della Liberazione scioperi contro l’apertura dei negozi.

«Mio padre, fu torturato nel carcere di via Tasso ed ucciso alle Fosse Ardeatine quando io avevo sei anni. Mi ha lasciato un testamento morale: ha dato la vita per coloro che la pensavano come lui, ma ancora più per gli avversari in modo che si superasse la contrapposizione e si diventasse un unico popolo», racconta Rosetta Stame, figlia di Ugo, cantante lirico e comandante partigiano, davanti alle divisioni, che ancora, a 67 anni dalla Liberazione, non mancano di incidere sul 25 aprile. A Roma, in particolare. Dove, da quattro anni, le celebrazioni, alla presenza della giunta Alemanno prima e di quella Polverini poi, si sono trasformate puntualmente, ogni anno, in occasione di contestazione. «Alemanno sbaglia, ma ha il diritto di essere rispettato come rappresentante delle istituzioni», insiste Rosetta Stame, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine, davanti alla scelta dell’Anpi Roma, che, per evitare «problemi di ordine pubblico», ha deciso quest’anno di non invitare né il sindaco della capitale, né le altre istituzioni locali, al corteo del 25 aprile.
«Non ce ne era bisogno», ha spiegato ieri il presidente dell’Anpi cittadino Vito Francesco Polcaro: «Il 25 aprile è la festa di tutti i democratici e gli antifascisti. Chiunque voglia partecipare è ovviamente benvenuto». Con un distinguo, pe-
rò: «È chiaro che ad una manifestazione sulla lotta della Resistenza non sarebbe gradito che si presentasse qualcuno che in qualche modo possa essere associato al fascismo». Non era difficile capire a cosa o a chi si riferisse. «Sarebbe come se alla festa dello scudetto di calcio si presentassero anche i tifosi avversari», ha voluto comunque aggiungere Polcaro: «Ci sarebbero problemi di ordine pubblico».
L’unico ad annunciare la partecipazione al corteo, come cittadino, è il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti: «Ci vado da quando ero in carrozzina, fa parte della mia storia», si schermisce.
Gli stessi sindacati però chiedono all’Anpi Roma di ripensarci e di rivolgere a tutte «le istituzioni democraticamente elette» l’invito a partecipare. «Il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani che si sono riconosciuti nei valori di libertà e di democrazia», osservano in un comunicato congiunto Cgil, Cisl e Uil: «Quei valori sono il vessillo delle istituzioni democratiche». Indipendentemente da chi, scelto dai cittadini, sia chiamato a rappresentarle.
«Noi non abbiamo nulla da rimproverarci», si auto-assolve Alemanno, che liquida malamente la questione: «L’Anpi è una associazione privata, può gestire la propria manifestazione come crede». Lui si limiterà, dunque, a partecipare alle cerimonie ufficiali, spiega, aggiungendo anche una reprimenda sul 25 aprile che «invece di essere momento di unità e forza» diventa «una occasione per fare polemiche». Neppu-
re una parola sui manifesti che, al grido «Gli eroi sono tutti giovani e belli», rendono omaggio «Ai ragazzi di Salò». Ieri mattina sono spuntati anche sotto al Campidoglio. Il clima, in città, è questo. Due giorni fa, ne ha fatto le spese anche Mario Bottazzi, il partigiano contestato in un liceo romano da un paio di giovani militanti di Forza Nuova. Mentre prima era toccato alla memoria di Rosario Bentivegna essere offesa nella stessa Aula Giulio Cesare.
PROTESTE E POLEMICHE
Neppure la presidente Polverini accenna a quei manifesti. Mentre, ricordando le contestazioni di due anni fa, sferra una veemente protesta per il mancato invito da parte dell’Anpi: «Sono molto amareggiata non solo per me ma anche per quelli della mia famiglia che hanno contribuito alla Liberazione del Paese», spiega, invocando l’intervento del Capo dello Stato.
Sarà il presidente della Repubblica ad aprire oggi solennemente in Quirinale le celebrazioni ufficiali per la Liberazione. Con lui, l’Anpi e alle altre associazioni combattentistiche, i rappresentanti del Governo e del Parlamento, ma anche gli amministratori locali di Roma e Provincia e la presidente della Regione Lazio. Che si troveranno così, fianco a fianco, con i vertici nazionali e romani dell’Anpi.
Domani per il 25 aprile sono previste manifestazioni in tutta Italia. Napolitano sarà a Pesaro. A Milano, accanto al presidente nazionale dell’Anpi Smuraglia ci saranno il sindaco di Milano Pisapia e il segretario della Cgil Susanna Camusso. Dai sindacati intanto la risposta più forte a chi vorrebbe un 25 aprile meno solenne viene dagli scioperi di categoria proclamati in molte città contro la decisione di tenere aperti i negozi.

l’Unità 24.4.12
I mercati guardano
L’Italia scelga la linea di Hollande
di Paolo Leon


Non bisogna spaventarsi se i mercati perderanno colpi quando Hollande diventerà Presidente dei francesi. Oggi gli speculatori giocano con l’austerità del cosiddetto patto fiscale (il «fiscal compact») e sulle risorse dei fondi europei per il salvataggio dei Paesi più indebitati, sapendo che ogni speculazione al ribasso sui titoli di Stato dei Piigs non porterà al fallimento, ma soltanto ad una riduzione del prezzo di quei titoli: è l’ideale per chi opera al ribasso (si vendono titoli al prezzo del giorno e si compreranno il giorno dopo ad un prezzo più basso), sicuro che il debito sarà onorato. Se Hollande sarà eletto e se sarà capace di battere il conservatorismo della Germania, si alzeranno le probabilità che la crescita in Europa sarà più forte e più equamente distribuita, e immediatamente i mercati speculeranno al rialzo e non più al ribasso.
I mercati sono conservatori, ma sono anche interessati a guadagnare, e accettano sempre la realtà, senza farsi distrarre dall’ideologia. Una volta eletto, Hollande dovrà però trovare alleanze all’interno dell’Unione Monetaria, altrimenti la sua azione per regolare i mercati finanziari, per finanziare i disavanzi pubblici, per ridurre la severità delle misure tedesche, sarà soltanto di minoranza, e potrebbe finire in deboli compromessi. Accadde già così con Mitterrand, eletto nel 1981 su un programma di sinistra e reso subito docile dalla potenza congiunta di Thatcher e Reagan. Certo, la lotta sarà dura, perché la Germania non intende perdere il vantaggio competitivo che le deriva proprio dalle politiche di austerità: queste, infatti, tendono a mantenere stabile il livello del cambio tra euro e dollaro, ma quanto più l’austerità riduce i costi del lavoro negli altri paesi europei tanto più la competitività tedesca, che li usa come subfornitori, ci guadagna.
Le alleanze sono dunque fondamentali per Hollande, e l’Italia deve essere in prima fila: si tratta di abbandonare ancora una volta gli Imperi Centrali, e rivolgersi all’Intesa (perfino Cameron è meno estremista della Merkel). Noi, infatti, abbiamo solo da guadagnare se il «fiscal compact» dei tedeschi verrà modificato, se l’Europa deciderà di creare gli Eurobond, sia per il debito pubblico sia per gli investimenti pubblici, se qualche forma di controllo sui mercati finanziari (la Tobin tax?) sarà introdotta, se si comincerà una riforma della Bce che la renda un vero istituto di emissione. Ma non si tratta di egoismo nazionale. L’appoggio italiano alle politiche di Hollande ha come obiettivo il benessere dell’Europa, la piena occupazione e una più equa distribuzione del reddito ciò che implica anche un aumento delle attività produttive, un salto dei profitti (ma non nelle rendite), un freno al declino industriale europeo. Soprattutto, una politica più progressiva e meno conservatrice preserva l’Europa dall’inevitabile sfascio, se si lascia continuare la Merkel. I segni ci sono: Orban in Ungheria è solo un anticipo dell’autoritarismo fascistoide che accompagna così spesso le depressioni economiche.
Il Governo italiano deve dunque riorientare la propria politica economica europea: non deve farsi confondere dal Tremonti che oggi elogia Hollande per gli Eurobond, perché il ministro di Berlusconi non si è mai opposto al patto fiscale, all’idea del pareggio di bilancio in Costituzione o alla riduzione accelerata del debito pubblico, e ha sempre accettato ogni imposizione tedesca. Quando Tremonti elogia Hollande è solo in odio a Sarkosy, che è diventato antipatico a Berlusconi da quando questi ha capito la disistima che lo circondava. Se, invece, il governo Monti resta abbracciato alla politica tedesca, potrebbe doversi rimproverare l’inevitabile declino dell’economia italiana e l’affievolirsi dello spirito europeo.

il Fatto 24.4.12
Borse, è ancora caos. Bruciati 160 miliardi
Tutta colpa dei socialisti?
La democrazia può essere più forte dei mercati
di Vladimiro Giacché


Nel 1998, alla vigilia del lancio dell’euro, il presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, lodò il fatto che i governi nazionali avevano scelto, con lodevole apertura mentale, di privilegiare “il permanente plebiscito dei mercati mondiali” rispetto al “plebiscito delle urne”. A giudicare dalle reazioni delle Borse al risultato del primo turno delle elezioni francesi, sembrerebbe che i mercati non abbiano la stessa apertura mentale nei confronti dei risultati del “plebiscito delle urne”. Per di più, come spesso accade, il “voto dei mercati” richiede qualche sforzo interpretativo. Che cosa non è piaciuto? Che Hollande è in testa o che non è in testa con un vantaggio tale da garantire la sua vittoria al secondo turno? L’affermazione del partito di Le Pen o il buon risultato del Front de Gauche di Mélenchon? In genere, sono le situazioni di incertezza quelle che piacciono meno ai mercati. E in questo caso l’incertezza non manca davvero. Non solo: oggi è uscito il dato della produzione industriale dell’Eurozona, in calo più del previsto. E allora i mercati scendono perché la vittoria di Hollande potrebbe pregiudicare la politica di austerity prevista dal fiscal compact, o perché non piace la recessione che è il risultato di quella politica? Forse dovremmo, semplicemente, finirla di far dipendere ogni scelta politica dall’andamento giornaliero dei mercati. E confidare nel fatto che, se le politiche adottate sono giuste e largamente condivise, i mercati dovranno infine prenderne atto.

Repubblica 24.4.12
La schiavitù dei mercati
di Jean-Paul Fitoussi


È troppo semplicistico dire che i mercati sono crollati a causa della semi-vittoria di Hollande. La settimana scorsa erano pure crollati, per qualche altra ragione. È un bel po´ di tempo, almeno da luglio dello scorso anno, che ci siamo abituati a questa volatilità mozzafiato.
E ogni volta si cerca ex post di trovare qualche ragione. Ora è la paura del socialismo: chissà, forse gli operatori sui mercati lo temono veramente, magari perché vedono la giustizia sociale come abbinata a nuove tasse, ma io non l´ho mai creduto neanche un momento. I mercati crollano oggi come ieri, e crolleranno ancora chissà quante volte, perché non è stato risolto il problema di una governance europea innanzitutto che esista, nel senso che si crei una struttura centrale in grado di dettare precise linee di azione, e poi che metta al primo posto i problemi della crescita e non dell´austerità a tutti i costi.
Altrimenti viviamo nella schiavitù dei mercati: quando crollano è come se chiedessero austerità, i governi magari ubbidiscono e poi dopo un po´ di tempo i mercati si accorgono che senza crescita le imprese non possono creare ricchezza, e allora i mercati crollano di nuovo. Tutto questo peraltro va nell´interesse degli speculatori: finché ci sarà questa volatilità esisteranno sempre ampie possibilità di guadagni per chi gioca con freddezza e spregiudicatezza sui mercati.
Il problema insomma non è Hollande. Va anche detto che pure Sarkozy negli ultimi tempi ha preso le distanze dalla rigidità della Merkel, l´asse franco-tedesco dava parecchi segnali di scricchiolio. Al punto che ora non so quanto il rinnovato appoggio della Merkel all´attuale presidente possa dirsi benaugurale: ho l´impressione invece che finirà col sottrarre voti a Sarkozy, una specie di consenso avvelenato, perché la Merkel sarà anche stimata dalle classi dirigenti ma non ha più un vasto consenso popolare, tantomeno in Francia. E quello che conta in un´elezione è il voto del popolo.
In ogni caso, Hollande è stato più chiaro e deciso: ha detto senza equivoci che il fiscal compact così com´è non va, e visto che dev´essere ancora ratificato si può, anzi si deve correggere in modo da orientarlo di più verso la crescita. Altrimenti l´Europa andrà a sbattere contro un muro. È questo il vero problema. Altrimenti si andrà avanti con una debolezza strutturale dell´Europa che inquina lo stesso rapporto fra politica e mercati. Il problema va preso molto sul serio. Nel momento in cui ci renderemo conto che i mercati tutelano la politica, sarà già troppo tardi, perché non ci sarà più spazio per la democrazia. E questo la popolazione non potrà mai tollerare in nessuna parte del mondo. Dunque la normalità è che siano i governi a tutelare i mercati. E i mercati a loro volta sanno che sono sottoposti al rischio di non poter sopravvivere senza l´aiuto dei governi. Questa è stata la grande lezione della crisi finanziaria: dire che bisogna cambiare il voto perché sennò si fa dispiacere ai mercati significa aprire una ferita nella democrazia.

Repubblica 24.4.12
Una riforma a favore del più forte
di Luciano Gallino


Le facoltà fondamentali del giudice del lavoro, di contemperamento dei poteri della parte più debole (il lavoratore) e di quella più forte (il datore di lavoro), fatte salve le ragioni di entrambi, vengono drasticamente limitate dal disegno di legge di riforma del lavoro, a partire da quelle che gli assegnava l´articolo 18. In tal modo i licenziamenti individuali e collettivi saranno resi ancora più facili. Sono questi gli esiti più negativi del ddl che il Parlamento dovrebbe cercare di attutire sempre che non prevalga nella maggioranza la volontà di peggiorarli.
Prendere in esame le limitazioni delle facoltà del giudice a tutela del più debole apportate dal ddl è un efficace filo conduttore per non perdersi nelle 79 pagine di questo, per di più irte di dozzine di intricati rimandi a leggi preesistenti. A volte sembra che dette facoltà siano accresciute, ma a ben vedere quasi ovunque sono ridotte. Si prenda l´articolo 18, travestito in modo da apparire un parente della versione originale, ma in realtà radicalmente mutato. Il primo comma dei dieci che nel ddl sostituiscono i commi dal primo al sesto dell´articolo in questione attribuisce al giudice la facoltà di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, in caso di licenziamento discriminatorio, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. Sulle prime questa parrebbe una novità meritoria, poiché da ogni parte si è sempre detto che l´articolo 18 si applica solo alle aziende con più di 15 dipendenti. E qualche voce del governo si è pure levata per far notare questa straordinaria innovazione a favore dei lavoratori. In verità si tratta di un dispositivo che ha più di vent´anni. La legge numero 108 del 1990 stabilisce infatti, all´articolo 3, che nel caso di licenziamento determinato da ragioni discriminatorie si applicano le conseguenze dell´articolo 18, cioè il reintegro nel posto di lavoro, quale che sia il numero dei dipendenti.
A una facoltà di vecchia data presentata come nuova si affianca, sempre nell´articolo 18 ristrutturato, la drastica riduzione della facoltà del giudice di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Nella precedente formulazione il giudice, a fronte di licenziamento intimato senza giustificato motivo, ordinava al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore. Il comma 7 del nuovo articolo stabilisce anzitutto che il giudice può, non deve, applicare la predetta disciplina. Stabilire che un giudice non già deve, ma se crede può applicare una certa disciplina, in questo caso il reintegro del lavoratore, significa palesemente indebolirlo. Se ha il dovere di prendere una certa decisione è difficile sottoporlo a pressioni perché non lo faccia. Mentre se la sua facoltà è solamente facoltativa non è un gioco di parole è possibile che prima venga sollecitato da ogni parte affinché la eserciti nel modo più favorevole all´una o all´altra parte, e poi sia oggetto di valutazioni negative quale che sia la decisione presa.
Tuttavia ciò che ancor più riduce la facoltà del giudice di decidere il reintegro è che esso può effettuarsi soltanto nell´ipotesi in cui egli accerti la "manifesta insussistenza" del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovvero per ragioni economiche. Che sono quelle inerenti all´attività produttiva, all´organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, come dice la legge 604 sui licenziamenti individuali del lontano 1966. Qui il giudice che volesse procedere in senso favorevole al lavoratore si trova dinanzi a due ostacoli monumentali. Il primo è costituito dalle infinite ragioni di ordine produttivo, organizzativo e funzionale che un datore di lavoro può addurre per sostenere che quel tale licenziamento è giustificato. Il secondo ostacolo è la giurisprudenza. Un flusso ininterrotto di essa, consistente soprattutto in sentenze della Cassazione, ha infatti stabilito che le ragioni economiche addotte per un licenziamento sono insindacabili, in forza dell´articolo 41 della Costituzione per il quale l´iniziativa economica privata è libera. Un giudice ha facoltà di andare contro di esse soltanto nel caso remoto in cui, ad esempio, scopra nella motivazione o nei documenti esibiti come prova dall´impresa un falso clamoroso. Pertanto sapeva bene quanto si diceva il presidente del Consiglio allorché ha assicurato le imprese, subito dopo la presentazione del ddl, che "la permanenza in esso della parola reintegro è riferita a fattispecie estreme e improbabili".
La facoltà del giudice del lavoro di andare a fondo allo scopo di stabilire se le ragioni del licenziamento sono valide è altresì indebolita dall´articolo 15 del ddl, con l´aggravante che in questo caso si tratta di licenziamenti collettivi. Esso aggiunge all´articolo 4 di una legge del 1991 in materia di integrazione salariale, la 223, un periodo apparentemente innocuo: "Gli eventuali vizi della comunicazione [per l´avvio di procedure di mobilità perché l´impresa non è in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi] possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell´ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo." Diversi giuslavoristi hanno già commentato negativamente tale aggiunta. In effetti i vizi di una simile comunicazione possono riguardare innumerevoli e rilevanti aspetti di essa: i tempi, i contenuti, i documenti allegati, i riferimenti a date, luoghi e persone, l´interpretazione di leggi vigenti ecc. Che detti vizi possano venire sanati in anticipo da un mero accordo sindacale, piuttosto che sottoposti all´esame di un giudice che a fronte di essi ha la facoltà di invalidare eventualmente il licenziamento stesso, dovrebbe apparire inaudito anche a un non giurista.
Qualsiasi legge si compendia, alla fine, nelle facoltà che essa assegna al giudice di valutare le ragioni delle parti in causa e di decidere quale di esse debba prevalere. Nel caso della legislazione sul lavoro, questa deve certo badare a che la libertà di iniziativa dell´impresa sia salvaguardata, ma deve pure circoscrivere il rischio che la parte più debole sul piano economico, il lavoratore, non si trovi collocato automaticamente nella posizione più debole anche sul piano giuridico, al caso quando si trova davanti a un giudice. È quello che ha fatto per più di quarant´anni la legge 300 del 1970, lo Statuto dei lavoratori. Il ddl di riforma del mercato del lavoro, salvo modifiche in Parlamento, azzera i dispositivi più progrediti di tale legge, e nel limitare le facoltà giudicanti del giudice appare palesemente squilibrata a favore della parte più forte, l´impresa.

l’Unità 24.4.12
La sfida alle oligarchie
di Mario Tronti


È banale ripetere il proverbio «errare umano, perseverare diabolico». Ma è evidente che, per uscire da questa cosiddetta Seconda Repubblica, si stanno diabolicamente ripetendo i modi con cui si è usciti dalla cosiddetta Prima. I costituzionalisti ci bacchettano, a ragione, quando ci esprimiamo con Prima, Seconda e adesso Terza Repubblica.
Parliamo dunque, più modestamente, di fasi, di cicli, passaggi, attraversamenti. È indubbio che siamo di nuovo alle prese con un problema di questo tipo. Si tratta di gestirlo con intelligenza. E l’intelligenza politica una sinistra moderna dovrebbe averlo imparato di fronte a un compito nuovo, è quella che sa tenere insieme responsabilità e radicalità. Prendere il problema alla radice e mostrare di saperlo risolvere.
I modi, dunque, dell’uscita, o del passaggio: allora, primi anni Novanta, populismo e giustizialismo, politica corrotta nazione infetta, un “tutti a casa” ai politici di allora, ispirato dall’alto e praticato dal basso. Nessun progetto di riforma intellettuale e morale. La devastazione, pubblica e privata, che ne è derivata, l’abbiamo vissuta, in quanto persone e in quanto collettività. Il paradosso di oggi: la ricaduta nella malattia proposta come via di guarigione; la distruzione conservatrice dei venti anni passati come il nuovismo dei prossimi venti. Ha fatto bene Bersani a lanciare l’allarme e benissimo ha fatto Alfredo Reichlin ad alzare la voce, invitandoci a schierarci, a prendere posizione. Credo che bisogna calcolare bene i caratteri del fenomeno e i modi di una reazione forte, non generica, non altrettanto emotiva, fondata piuttosto sulle idee e le pratiche capaci di combatterlo e sconfiggerlo.
Intanto le novità, rispetto agli anni Novanta. E queste non stanno nel cambio dei protagonisti. In fondo, tra il guerriero celtico di ieri e l’attor comico di oggi, siamo lì, fenomeni di nicchia, che solo l’insensatezza dei media riesce ad amplificare.
Tra i referendari di allora e gli anti-casta di adesso, non c’è gran differenza: quelli non sapevano ciò che facevano, questi lo sanno, magari perché hanno letto libri di successo e giornali di servizio. Quello che deve preoccupare è la passivizzazione di massa, che porta all’astensionismo sull’interesse pubblico e all’affidamento al potere dei competenti. Sotto la scorza, va visto il nocciolo duro. L’antipolitica come professione governa questo capitalismo postmoderno, globale e neoliberale. La politica comitato d’affari delle compatibilità economiche è destinata o ad essere corrotta o a non avere influenza. Il populismo antipartitico seguirà. Questo è lo stato delle cose, in generale.
Nei particolari, le novità vere, qui da noi, sono piuttosto due: la crisi e questa maniera, “strana”, di rimediarvi. La crisi crea malcontento, disagio, risentimento da parte di chi vive in difficoltà nei confronti di chi ostenta privilegio. La radice è lì e lì bisogna scendere a coglierne i rischi, ma anche le opportunità. La crisi infatti nel capitalismo è un momento di verità, perché riporta il discorso politico sui fondamentali e costringe l’agire politico a mettere avanti al tema delle forme i problemi di sostanza.
Il lavoro, il reddito, la casa, la famiglia, la condizione presente e l’aspettativa futura di vita quotidiana, riconquistano un loro primato. Solo una forza di sinistra può essere in grado di afferrare il momento ed esprimerlo, raccontarlo, rappresentarlo, organizzando conflitto e proponendo soluzioni. Se non è in grado di farlo, non viene percepita come una forza di sinistra, ma viene omologata alle altre forze, che non saranno mai in grado di dare rappresentanza e organizzazione a quella condizione. Allora l’ondata antipolitica, travolge tutto e tutti. Non bisogna aspettare la riforma del sistema politico. Occorre mettere in campo il soggetto, la forza che sappia intercettare il vuoto che si è creato tra popolo e politica, riempirlo con la propria presenza agente e trascinare così il resto del quadro politico a ricollocarsi.
Il tempo del governo dei tecnici va utilizzato per tornare a fare una politica forte. I professori più frequentano le università di eccellenza più si allontanano dal paese reale. Non sono nemici dei lavoratori, sono altra cosa da essi. Vanno prima di tutto informati e poi orientati. E, prima cosa ancora, la più urgente, è contenere i danni sociali che possono infliggere alla nostra gente. In queste condizioni crisi e punitive ricette per uscire dalla crisi il partito della sinistra non può che camminare di pari passo con i sindacati, tutti, anche facendo sintesi delle loro posizioni, sull’obiettivo di dare potenza all’interesse dal basso: con qualche preoccupazione in meno sui reciproci ruoli autonomi, che nessuno contesta, ma che non può essere alibi per andare ognuno per suo conto. Quelli che oggi marciano divisi e colpiscono uniti sono i padroni del mondo, ricchezza e potere, essi, sì, di pari passo, da sempre.
Insomma, niente, più dell’antipolitica, è funzionale ai comodi di chi comanda. Vedo un bel po’ di confusione su questo termine. Eppure la cosa è semplice. L’antipolitica è sempre di destra. E ha ragione Rodotà a dire che, a sinistra, da parte di movimenti, volontariato, femminismo, mobilitazioni, iniziative molto importante quella sui beni comuni viene una spinta per un’altra politica.
Questo mondo va ascoltato. E a questo mondo va rivolta la parola. Per dire che, attenzione!, ogni verbo scaraventato contro i partiti, genericamente, senza distinzioni, soprattutto demonizzando la forma novecentesca del Partito, è un pezzetto di nuova carne gettata nella pentola dove bolle il brodo qualunquista. La politica che viene organizzata e la politica che si autorganizza non sono alternative. Solo insieme, complementari, fanno l’arma più efficace di contrasto dell’antipolitica.

l’Unità 24.4.12
Se non ora dove?
I partiti ascoltino la voce delle donne
di Francesca Izzo


Gian Enrico Rusconi ha posto su la Stampa un problema che ci riguarda: che fine hanno fatto i movimenti che hanno risvegliato la coscienza civile dell’Italia, in particolare Se non ora quando?
Dopo il 13 febbraio, Se non ora quando non solo non è tornato a casa ma non ha neppure scelto di rimanere allo stato gassoso di movimento virtuale.
Ha deciso di non rimanere una rete senza radici e senza fisionomia, pronta solo a mobilitarsi per campagne. Ha scelto di affrontare la faticosa ed oscura via della costruzione di un movimento presente con comitati in tutt’Italia e dotato di un minimo di regole democratiche. La sclerosi, la chiusura autoreferenziale dei partiti, anche di quelli critici verso lo stato di cose esistente, sono frutto anche di una società civile disorganizzata, preda dello spontaneismo della rete e dei trascinamenti carismatici.
Fin dall’inizio al centro della nostra inedita esperienza c’è stato il legame strettissimo che abbiamo colto tra le donne e l’Italia, il destino delle une che sempre più svelava quello dell’altra. Questa è stata la nostra lettura della crisi politica, economica e morale dell’Italia e il nostro giudizio sulla pochezza delle classi dirigenti di questo paese. Avevano lasciato calpestare senza una adeguata reazione la dignità delle donne italiane anche perché lasciavano intere generazioni di donne, anche con elevata formazione e qualifiche, fuori dal mercato del lavoro, fuori dai circuiti economici e politici, scaricando nello stesso tempo su tutte le donne il peso della cura di bambini, anziani, malati, mariti o partner.
Abbiamo accolto il governo Monti, tenendo ben presente questo intreccio: abbiamo registrato infatti che per la prima volta compariva nei discorsi programmatici di un presidente del Consiglio e di suoi ministri la questione delle donne come questione nazionale, decisiva per lo sviluppo del Paese. Sembrava, sotto l’urto di una crisi non contingente, che finalmente le classi dirigenti italiane avessero compreso il significato del le richieste avanzate dalle donne riguardo al lavoro, alla maternità, ai servizi, a un welfare a loro misura, oltre che ovviamente alla presenza paritaria nelle istituzioni, al rispetto e valore della loro identità in tutte le forme di rappresentazione. Sembrava avessero compreso che l’accesso delle donne alla cittadinanza piena è vitale per arrestare la spirale regressiva e invertire la rotta. È in gioco infatti non solo la vita della metà della popolazione ma una diversa regolazione dei rapporti tra Stato, impresa e famiglie, poiché le donne sono il tramite essenziale tra produzione e riproduzione, mercato e lavoro di cura. E sulla base di questa premessa Se non ora quando è sceso di nuovo in piazza l’11 dicembre dello scorso anno.
Invece le donne sono scomparse dall’orizzonte del governo come dall’insieme del discorso pubblico, politico e mediatico. Questo, a mio parere, costituisce uno dei tratti più inquietanti e gravi della crisi in cui siamo immersi, perché se si sostiene che le donne sono il volano per avviare l’uscita dalla crisi e poi non solo non succede nulla ma si aggravano le condizioni di vita delle medesime donne (vedi allungamento dell’età pensionabile unito alla riduzione e restringimento dei servizi alle famiglie) questo vuol dire, non solo che la crisi è gravissima, ma che nessuno sa come uscirne.
Che fare allora? Esprimo opinioni del tutto personali ma credo ci sia soltanto una risposta: accrescere il grado di responsabilità politica che tocca alle donne sostenere, tanto più in presenza di una crisi di legittimazione pesantissima degli istituti democratici. Le prossime elezioni del 2013 saranno un banco di prova per dimostrare capacità di coesione di coerenza e di forza.
Per questo non mi convincono gli inviti alla formazioni di liste di donne sponsorizzate o sostenute dai movimenti, a cominciare da Se non ora quando. Si introdurrebbe un ulteriore elemento di frantumazione e si alimenterebbero rotture e competizioni tra chi sceglie le liste e chi si candida con i partiti, mentre una delle caratteristiche, anche questa non tradizionale di Se non ora quando, è stata tenere insieme, non solo donne di orientamenti culturali e politici differenti, ma anche appartenenti a partiti e non.
Piuttosto, sono propensa ad attivare una fortissima campagna di pressione su tutti i partiti, anche attraverso interventi legislativi (come si sta facendo), perché aprano le loro liste ad una massiccia presenza di donne che tra l’altro costituisce il modo più rapido ed efficace per rinnovarli e in larga misura moralizzarli (non perché le donne siano portatrici di per sé di maggiore senso etico, ma perché un loro cospicuo ingresso spezzerebbe consolidate catene di interessi, legami, anche leciti, tra affari e politica).
Non è sicuro, si dice e con qualche fondamento guardando alle esperienze del recente passato, che le elette si impegnino per davvero a sostenere politiche di genere. Ma una presenza quantitativamente rilevante cambia la qualità: è già di per sé una assicurazione. Quanto a un’istanza altra rispetto ai vertici dei partiti, «un comitato di sagge...fatto di madri e figlie della patria» di cui parla Mariella Gramaglia, nel suo intervento su la Stampa di ieri, che eserciti una specie di controllo preventivo e ponga il “bollino blu” sulle candidature, è un’idea che rischia di creare più problemi di quanti cerchi di risolverne. L’esperienza insegna che c’è sempre una donna più donna di te, più femminista di te pronta a farti l’analisi della purezza del sangue. Piuttosto si dovrebbe arrivare a stilare una sorta di programma comune, almeno per alcuni aspetti, a donne di tutti gli schieramenti, e a trovare forme e modi per far emergere nel modo più limpido e trasparente possibile le disponibilità a impegnarsi nella vita pubblica, a far emergere le candidature femminili. E soprattutto occorre una pressione forte e concentrica su tutti i partiti.

l’Unità 24.4.12
Partiti
Chi vuole il modello americano
di Francesco Cundari


L’ottanta per cento di affluenza registrato alle elezioni francesi ha stroncato sul nascere ogni tentativo di estendere alla Francia le considerazioni sul discredito della politica abitualmente riservate all’Italia. Analisi e commenti incentrati sullo spettro dell’astensione non hanno retto alla prova dei fatti. Una smentita che suscita però almeno un dubbio anche sulla versione originale, riservata alla politica di casa nostra.
In questi giorni in Parlamento si discute di nuovi tagli e nuove regole sulla trasparenza del finanziamento ai partiti, come è giusto che sia dopo gli scandali che hanno investito prima il tesoriere della Margherita e poi quello della Lega. Ci sono però anche buoni motivi per diffidare di alcuni rilfessi condizionati del dibattito sull’argomento, a cominciare dal ritornello che ogni commentatore che si rispetti ripete almeno una volta al giorno sui giornali, alla radio, sul web e in tv, a proposito della «fiducia nei partiti» che sarebbe arrivata all’8 per cento (come scriveva in febbraio Renato Mannheimer sul Corriere della Sera), o anche al 4 per cento, (come nello stesso periodo sosteneva Ilvo Diamanti su Repubblica) e ora addirittura al 2 (di nuovo Mannheimer sul Corriere di domenica scorsa).
L’improvviso rilievo attribuito a sondaggi sulla fiducia nei partiti in generale (non su questo o quel partito) è una novità di quest’ultima fase, che precede i recenti scandali, dunque non può esserne la conseguenza. Più verosimilmente, se non altro per ragioni cronologiche, questo improvviso interesse per la popolarità dei partiti in generale è stato causato dalla novità del governo tecnico, sostenuto da una larghissima maggioranza trasversale agli schieramenti. Alla suddivisione destra-sinistra si è così sostituita quella politici-tecnici.
Resta però il fatto che la stessa domanda sulla fiducia «nei partiti» è mal posta. Saremmo curiosi di vedere un sondaggio in cui a tale quesito si affiancassero le domande sulla fiducia dello stesso campione in ciascun singolo partito, chiamato in causa con nome e cognome, dal Pd alla Lega, dall’Italia dei Valori al Pdl. Sbaglieremo, ma ci sentiremmo di scommettere che il totale sarebbe assai superiore al 2,al 4 e anche all’8 per cento.
Questo non significa, naturalmente, che in Italia non ci sia una gigantesca crisi di legittimazione della politica e delle istituzioni democratiche, un fatto che è davanti agli occhi (e alle orecchie) di tutti. Ed è un fatto non meno evidente che ad alimentare la tendenza alla condanna generica, senza distinzioni, sia stata la scelta di formare un governo sostenuto dalle forze principali del centrodestra e del centrosinistra. Appare pertanto degno di nota che a guidare questa campagna siano proprio quei quotidiani che più hanno spinto per la formazione di un governo tecnico, e proprio con l’argomento della crescente delegittimazione della politica e dei partiti.
Quale che sia il giudizio su genesi e operato del governo Monti, questo gioco delle tre carte non può essere accettato. Il governo tecnico non è nato dal fallimento della politica, ma dal fallimento della politica della destra. Non sono stati i partiti a portare l’Italia sull’orlo della bancarotta, ma Pdl e Lega. Se oggi siamo nelle condizioni in cui siamo, non è per colpa dei politici in generale, ma di alcuni politici in particolare: Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, con tutti i loro alleati e sostenitori.
Il tentativo del partito berlusconiano di ripresentarsi ancora una volta come il nuovo che avanza, dopo l’ennesima operazione di chirurgia plastica, punta esplicitamente a raccogliere i frutti di questa campagna contro la politica, magari in alleanza con un altro imprenditore dai molteplici interessi (anche nella comunicazione) come Luca di Montezemolo. L’annunciata intenzione di rinunciare ai fondi pubblici per il nuovo partito-movimento rende l’operazione ancora più spudorata: il partito del miliardario, principale responsabile della crisi e prima ancora del discredito della politica italiana (in patria e all’estero), che si propone come paladino della campagna per la moralizzazione della politica.
L’unico sondaggio affidabile sulla fiducia dei cittadini nei partiti è l’affluenza al voto. I sostenitori del sistema americano, incentrato sui finanziamenti privati, dovrebbero riflettere sul fatto che negli Stati Uniti le forze e gli intellettuali radicali, che contestano i partiti in generale, li accusano proprio di questo: di essere tutti ugualmente schiavi delle grandi corporation, si tratti dell’industria farmaceutica o di quella delle armi, dei giganti del petrolio o della finanza. Fatto sta che negli Stati Uniti quando i cittadini che si recano alle urne raggiungono il 65 per cento si parla di record storico. In Italia, alle ultime elezioni, l’affluenza è stata dell’80 per cento, proprio come in Francia.

Corriere 24.4.12
«Casini ci sta mollando» I timori dei democratici sorpresi dalla svolta Udc
di Maria Teresa Meli


ROMA — Un più che autorevole esponente del Pd spiega così i riflessi che ha avuto nel suo partito la «svolta» udc degli ultimi giorni: «Noi siamo tutti intenti a fingere di non vedere che Casini ci sta mollando».
L'autorevole esponente del Pd preferisce rimanere nell'anonimato perché ormai a Largo del Nazareno è stata siglata una tregua interna che nessuno ha interesse a rompere, almeno fino a dopo le elezioni. Ma già un anno fa Walter Veltroni, prima dell'armistizio e della decisione dell'ex presidente della Camera di sciogliere l'Udc e fare il Partito della nazione, diceva ai suoi: «La politica di Bersani e D'Alema di andare appresso a Casini sperando di stringere un'alleanza con lui è fallimentare, vedrete che Pier Ferdinando nel momento decisivo sceglierà il centrodestra». E a vedere adesso le ultime mosse del leader del Terzo Polo, smanioso di liberarsi dei compagni d'avventura di un tempo, Fini e Rutelli, per buttarsi in un'altra avventura, quella di Veltroni sembrerebbe una profezia azzeccata. Oltretutto confermata dalle decisione dell'Udc di correre alle Amministrative di Palermo con il Pdl, arrivando al punto di operare uno strappo con gli alleati di Fli che contestano la scelta siciliana dei centristi.
Qualcosa accade e i rappresentanti del Pd, per quanto tentino di fare finta di nulla, evitando dichiarazioni ufficiali, discutono dell'ultima uscita di Casini che non li rassicura affatto. «Possiamo dire che ci sono sospettosi indizi della volontà di Pier Ferdinando di troncare i rapporti con noi», ammette persino Beppe Fioroni. Ovvero sia uno degli ex popolari del Pd che viene individuato come un possibile futuro transfuga allettato dalle sirene dell'Udc. Così non è, perché il progetto del responsabile Welfare è un tantino più ambizioso e consiste nel far virare il Partito democratico al centro, togliendo voti a Casini, Fini, Rutelli e persino Berlusconi.
Comunque quello che ha più stupito (e spiazzato) i vertici del Pd è che l'ex presidente della Camera, solitamente in buoni rapporti con Bersani e D'Alema, non abbia preannunciato a nessuno del Partito democratico la sua svolta. Non una telefonata, non un incontro. Eppure il leader del Terzo Polo e i big del Partito democratico si chiamano e si vedono spesso e volentieri. La cosa ha lasciato di stucco molti e amareggiato alcuni. E non importa che nessuno a Largo del Nazareno pensi che questo centro abbia un grande futuro. Tanto meno se si unisce a esponenti della primissima Repubblica come Beppe Pisanu e Lamberto Dini. Per dirla con il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, «anche la Francia ha dimostrato che il "repackaging" centrista non ha delle radiose prospettive».
«Certamente — aggiunge l'esponente del Pd — non fino a quando Berlusconi è in giro. Peraltro c'è una domanda di alternative chiare: destra per rinazionalizzare le politiche o sinistra per una linea di sviluppo costruita nella zona euro». Già, ma secondo molti compagni di partito di Fassina il problema è che i centristi finiranno con la destra, anche se Bersani si ostina a non crederlo: «In Francia come in Italia la partita sarà sempre la stessa: progressisti e moderati contro il populismo di destra». Però, anche se nelle dichiarazioni ufficiali i leader del Pd tendono a ridimensionare la portata politica della svolta casiniana, una certa agitazione c'è. Lo dimostra la gelida reazione del Partito democratico di fronte alle parole pronunciate qualche giorno fa da Napolitano che ha lodato le virtù del centrismo.

Repubblica 24.4.12
La politica senza parole
Perché abbiamo bisogno di un nuovo lessico sociale
Che cosa succede quando "economia" e "individui" sembrano le uniche categorie in campo? Ecco il dibattito in corso tra gli studiosi
di Roberto Esposito


Ma che fine hanno fatto i soggetti della politica? Non parlo solo dei partiti, sempre più preda di irrefrenabili pulsioni autodissolutive, ma anche di quelli più blasonati e classici. Le classi, svuotate e stravolte dal passaggio repentino al paradigma postfordista; il popolo, sempre meno espressivo di un idem sentire; lo Stato, formalmente ancora in piedi, ma mortificato dalle dinamiche di globalizzazione; e infine gli stessi individui, intesi come atomi logici autonomi e razionali, cui la filosofia politica moderna aveva assegnato il compito di governarsi attraverso i meccanismi del contratto sociale e della rappresentanza. In quale faglia epocale, in quale buco nero della storia, tutto questo mondo è scivolato in una forma che sembra non aver lasciare sul campo che residui inanimati, profili incerti ed appannati di un passato lontano?
Da domande di questo tipo nascono i due fascicoli (3/2011 e 1/2012) della rivista Filosofia politica, diretta per il Mulino da Carlo Galli, curati rispettivamente da Geminello Preterossi e Laura Bazzicalupo, appunto intorno alla questione del soggetto. Come sempre avviene in questi casi, ferma restando la crisi dei soggetti politici tradizionali, le risposte variano negli accenti e anche nel contenuto. A letture più rivolte ad un recupero, sia pure rimodulato nei suoi termini, del lessico politico moderno, rispondono ipotesi interpretative più radicali, che cercano di oltrepassare una terminologia, istituzionale e concettuale, non più utilizzabile. Ad essere mutate, secondo questa impostazione più netta, non sono soltanto le condizioni contestuali determinate da eventi, pure decisivi, come il "secondo" ´89, ma quello che possiamo definire il regime di senso, l´orizzonte complessivo, del nostro tempo, segnato dalla svolta biopolitica e dal passaggio dall´idea classica di governo alla cosiddetta governance.
Come argomenta Laura Bazzicalupo nella sua introduzione, ciò che oggi si registra è il passaggio da un atteggiamento normativo ed escludente, tipico dei dispositivi moderni, ad una strategia includente e differenziante che sposta la gestione degli interessi dalla sfera politica a quella sociale, vale a dire alle contingenze quotidiane, relative alla salute e all´ambiente, al lavoro e al tempo libero. Naturalmente questa rotazione senza precedenti dell´asse del governo caratteristica di quei regimi biopolitici postliberali che chiamiamo ancora democrazie ha un effetto ambivalente. Mentre da un lato allenta i vincoli che saldavano l´ordine politico moderno a precisi discrimini selettivi, in conformità con una concezione chiusa e riduttiva di cittadinanza, dall´altro apre uno spazio a nuovi soggetti forti di carattere impolitico economici, mediatici, tecnici capaci di occuparlo. In questo modo si determina la paradossale circostanza che l´apparente liberazione di una soggettività sempre più autonoma dall´ordine repressivo della Legge finisce per coincidere con il suo assoggettamento a poteri e saperi che orientano i suoi bisogni, impulsi, desideri in direzione di determinati interessi.
E allora? Come uscire da questo circolo vizioso? Come porre la questione, comunque ineludibile, del soggetto politico, dopo la svolta "governamentale" che rende impossibile ogni ritorno ai vecchi soggetti individuali e collettivi? Come riempire lo spazio vuoto lasciato dai partiti, per evitare che diventi preda di scorrerie improduttive e disgreganti? Personalmente mi terrei a tre indicazioni di massima. Innanzitutto quella di spingere a fondo la decostruzione di categorie ormai compromesse, quale quella di persona giuridica, come fa nel suo testo Enrica Lisciani Petrini, provando a definire una nozione più aperta e trasversale di soggetto. Su questo punto è necessario sfidare qualche luogo comune: non è possibile continuare ad adoperare, in maniera acritica, termini profondamente segnati, fin nella loro genesi, da una tendenza a suddividere gli esseri umani in categorie di diverso valore. In secondo luogo è necessario allargare l´orizzonte dell´analisi al mondo non occidentale, come fanno Giuliani, Chignola e Mezzadra, attivando uno sguardo ad ampio raggio sul mondo postcoloniale. E ciò non certo per confondere problemi e semantiche tra loro irriducibili, ma, al contrario, per marcare ancora meglio distanze e differenze, in un quadro tuttavia unitario qual è quello del mondo globale. Infine è necessario sfondare il lessico, troppo ristretto, della scienza e della filosofia politica, aprendolo al contributo di altri linguaggi, Tra i quali, in particolare, quello della psicoanalisi, come fa Ida Dominijanni.
Quest´ultima compie una mossa ancora più rilevante, da un lato arretrando agli inizi degli anni Settanta, e non alla fine degli Ottanta, quella svolta che Pasolini avrebbe definito antropologica. E´ d´allora che data l´impossibilità di subordinare il soggetto individuale a quello collettivo, perché è d´allora che si rompono i confini tra personale e politico, con tutti gli effetti che ne derivano. A sfaldarsi non è solo il soggetto politico, ma la forma stessa della soggettività, attraversata e sfigurata, lungo tutta la sua estensione, dalla potenza del bios dalla pressione del corpo e dal taglio della sessualità, dalla forza dell´immaginario e dalla irruzione del desiderio. E´ appunto allora per presunzione o per ignoranza, in particolare dei nuovi linguaggi antropologici e psicoanalitici che la politica, soprattutto di sinistra, perde la sua occasione decisiva. Non coglie la direzione che stavano imboccando i processi di soggettivazione, consegnando a una destra, in un´Italia misera e becera, la parola d´ordine del rompete le righe godete, magari in sogno, come fanno i capi in cui vi immedesimate, purché non mettiate in dubbio il comando ultimo del mercato dove quel godimento è acquistabile tanto al chilo.
E´ appunto qui, su questa linea, insieme storica, politica e culturale, che si gioca il finale di partita per il soggetto della politica, dopo l´implosione, irreparabile, di quello moderno. Certo, diversamente da chi cerca rifugio nel flusso catodico di Facebook o di Twitter o nella insorgenza spontanea di indefinite moltitudini, penso non solo che la politica abbia bisogno di una qualche nozione di soggettività, ma che la soggettività, anche soltanto per identificarsi in quanto tale, abbia a sua volta bisogno di politica. Ciò significa che, all´interno del mondo apparentemente privo di attrito in cui da tempo viviamo, è necessario individuare nuove linee di conflitto tra progetti di società differenti. Si tratta di tornare a pensare insieme "dentro" e "contro". Dentro il regime governamentale senza regredire al vecchio statuto del diritto sovrano e dentro il mondo globalizzato. Ma contro i blocchi di denaro e di potere che ostruiscono il passaggio al benessere, o almeno alla sopravvivenza, per intere popolazioni e nuove generazioni.
Come costruire una nuova egemonia riabilitiamo finalmente questa parola a lungo maledetta! è il problema che in particolare la sinistra ha davanti. Si tratta di pensare il soggetto non più nella forma di un blocco compatto tenuto insieme da una stessa ideologia, ma di una rete capace di collegare necessità e richieste che vengono da segmenti sociali anche diversi. Ciò che si è a lungo chiamato partito deve diventare il collettore che porta alla rappresentanza questo mosaico complesso di soggettività sociale. Certo, non sarà facile. Ma, come si dice, hic Rodhus…

La Stampa 24.4.12
Israele alzerà un muro alconfine con il Libano
di P. Dm.


Israele comincerà la prossima settimana a costruire un muro di due chilometri lungo la sua frontiera con il Libano, attorno alla località di Metoulla. L’annuncio è arrivato ieri sera dal Canale 10, una emittente privata della televisione israeliana. La nuova barriera, alto dieci metri, servirà a evitare frizioni tra le truppe israeliane e quelle libanesi, le cui rispettive posizioni si trovano a pochi metri di distanza.
In gennaio, l’esercito israeliano aveva annunciato il progetto precisando che il muro avrebbe dovuto proteggere gli edifici costruiti recentemente a Metoulla dagli spari dei cecchini, situati nel villaggio libanese di Kfar Kila. Israele ha coordinato la costruzione di questa opera con il Libano, ha precisato ancora il Canale 10, attraverso l’intermediazione della Finul, la missione delle Nazioni Unite in Libano che dall’estate del 2006 controlla la parte meridionale del Paese proprio per evitare scontri fra libanesi e israeliani. .
L’uso delle barriere di cemento in Israele è al centro delle polemiche da quando è cominciato la costruzione di un muro nella West Bank per separare i territori israeliani da quelli più densamente abitati dai palestinesi. La costruzione della barriera, in quel caso, è stata criticata dall’Onu

Repubblica 24.4.12
Tra petrolio e psicoanalisi
di Moisés Naim


L´Argentina è il Paese dove ci sono più psicologi in rapporto alla popolazione. È un dato che mi è venuto in mente quando la presidente Cristina Fernández de Kirchner ha annunciato l´intenzione di nazionalizzare la Repsol-Ypf, la principale compagnia petrolifera del Paese. Dovunque gli psicologi cercano di aiutare i loro pazienti a cambiare abitudini nocive per la salute (drogarsi, fumare ecc.) o modelli di comportamento che li fanno soffrire (scegliere partner inadatti, tollerare abusi ecc.). Sigmund Freud definì «coazione a ripetere» la tendenza di un individuo a continuare a fare cose che non sono convenienti. La nazionalizzazione di Repsol-Ypf ha suscitato un´ondata di critiche e contestazioni in tutto il mondo. Tranne che in Argentina. Per i sondaggi la maggioranza degli argentini è favorevole alla nazionalizzazione. È una cosa che sorprende, perché l´Argentina notoriamente ha una storia lunga e negativa in materia di nazionalizzazioni, che hanno portato solo perdite, corruzione e miseria. In origine la Ypf era un´impresa statale inefficientissima che fu privatizzata. Bisogna ammettere che anche l´esperienza argentina con le privatizzazioni non è stata esattamente una sequela di successi: la corruzione nella vendita delle attività pubbliche al settore privato o le insolite regole a cui sono state sottoposte le imprese privatizzate hanno trasformato molte di questi dismissioni in un disastro. Ma gli argentini sanno – o dovrebbero sapere – che cosa succede quando il loro governo mette le mani su un´impresa: nel decennio passato, l´azienda idrica di Buenos Aires, le Aerolineas Argentinas e diverse compagnie elettriche privatizzate negli anni 90 sono state rinazionalizzate con argomenti molto simili a quelli che ora utilizza la presidente argentina per giustificare l´esproprio della Repsol da parte dello Stato. Il risultato è stato catastrofico: non solo sono peggiorati i servizi e la gestione generale, ma le aziende nazionalizzate registrano perdite colossali, che ricadono sui contribuenti. Jorge Colina, un economista dell´Instituto para el Desarrollo Social Argentino, ha dichiarato che i sussidi statali a queste imprese, l´anno passato, sono stati superiori dell´80 per cento ai soldi spesi in un programma pubblico per il benessere dell´infanzia.
Gli argentini che plaudono alla nazionalizzazione della Repsol-Ypf farebbero bene a guardare anche a quello che è successo in altri Paesi. I casi della messicana Pemex e della venezuelana Pdvsa sono molto istruttivi. Queste due grandi compagnie petrolifere non hanno in comune solo il fatto di essere controllate dallo Stato o di avere un virtuale monopolio sulla ricerca e produzione di petrolio e gas naturale in Paesi ricchi di idrocarburi. La somiglianza più sorprendente è che nonostante la grande crescita del prezzo del petrolio queste due imprese sono in declino: la produzione, le riserve e il potenziale sono inferiori a prima e il rendimento è molto peggiore di quello che potrebbe essere.
Investimenti insufficienti, gestione inadeguata, scarso accesso alle nuove tecnologie, un trattamento poco accogliente o un totale rifiuto verso i soci stranieri sono alcuni dei mali che accomunano le due imprese. Queste debolezze ovviamente sono manifestazioni della politicizzazione da cui sono affette. E l´intromissione politica non si limita a favoritismi e clientelismi, che impediscono di operare in modo efficiente: i loro Governi impongono tasse, normative e controlli dei prezzi che impediscono uno sviluppo di qualità e in alcuni casi le costringono a impegnarsi in attività che non hanno nulla a che vedere con la loro missione principale.
Ma l´esperienza di altri Paesi non offre solo esempi fallimentari, ci sono anche casi di grande successo. Il governo argentino avrebbe potuto guardare quello che sta succedendo in Brasile o in Colombia. Questi due Paesi fino a poco tempo fa erano importatori di idrocarburi: oggi la brasiliana Petrobras è una protagonista del mercato globale, che si avvia a diventare una delle compagnie petrolifere più importanti del mondo, mentre in Colombia la produzione di petrolio ha avuto una clamorosa impennata. In entrambi i casi il governo ha mantenuto un ruolo centrale, ma ha creato strutture che proteggono la gestione dell´impresa da interferenze politiche. È evidente che l´esperienza diretta o quella degli altri Paesi non ha pesato molto nella decisione della presidente Fernández de Kirchner. La nazionalizzazione della Repsol-Ypf non sembra inserirsi in una strategia di sviluppo, in un piano energetico o in una visione più ampia per il futuro del Paese.
Forse è più utile Sigmund Freud che Karl Marx per comprendere le decisioni del governo di Buenos Aires. Ma fare ricorso a Freud significa attribuire un gran peso a comportamenti stimolati dall´inconscio, e in questo caso è evidente che Cristina Fernández de Kirchner è ben consapevole delle sue motivazioni. E dubito che abbiano qualcosa a che vedere con Marx o con la difesa degli interessi del popolo argentino.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 24.4.12
Nel Paese dov’è sbocciata la Primavera araba la sfida al fondamentalismo islamico ora è arrivata nelle università
Tunisi, la battaglia del velo
Contro l’uso del niqab e la sharia
di Giampaolo Cadalanu


L´ascesa dei fondamentalisti rischia di snaturare le conquiste della rivoluzione. In nessun luogo più che nelle aule dei campus si decide il futuro laico del Paese Fra scontri con la polizia, sit-in di studenti e scioperi della fame, infuria la battaglia per il niqab, il velo integrale, e l´imposizione della sharia. Con una presenza dei salafiti sempre più ingombrante
A Manouba gli estremisti chiedono lezioni separate per maschi e femmine
Accanto alla bandiera tunisina qualcuno ha issato quella nera con i versi del Corano
Una folla esultante ha accolto l´arrivo di un predicatore bandito dal governo
Molti temono che una nuova dittatura confessionale si insedi sulle ceneri del vecchio regime

Nei corridoi della facoltà di Scienze umane, Sausen Labidi chiacchiera con un compagno di corso seduto su una scrivania. L´abito tradizionale islamico la copre come la tonaca di una suora, spuntano solo il viso sottile e la punta delle scarpe. Lui, invece, esibisce un giubbotto di pelle, scarpe da ginnastica e un berrettino da baseball girato all´indietro. «Sono musulmana, mi vesto così. Ma sono anche tunisina, e orgogliosa di rispettare le regole del mio Paese. Se in aula il viso deve essere scoperto, per me va bene». Il velo va bene, ma anche sulle altre richieste dei salafiti Sausen ha le idee chiare: «Hanno proposto lezioni separate per maschi e femmine, credo che sia una buona idea. Sa, uno studioso britannico ha scoperto che le donne in genere sono più produttive dal punto di vista intellettuale quando non ci sono uomini presenti. No, qui ovviamente la religione non c´entra nulla».
A Manouba, una delle due università di Tunisi, gli studenti vorrebbero raffreddare le polemiche delle scorse settimane: «Uno studente salafita ha voluto appendere accanto a quella tunisina anche la bandiera nera dei fondamentalisti, con i versi che dicono "Non c´è altro dio che Dio, e Maometto è il suo profeta". Poi però, qualcuno ha tolto la bandiera tunisina, e le autorità universitarie sono intervenute», racconta Rebah, studente di Lingue in jeans, con la barba appena accennata. Poco più lontano, Mohamed esibisce invece una barba lunga, l´abito tradizionale e la cuffia bianca da preghiera. Chiarisce subito il credo suo e del suo gruppo: «Noi vogliamo studiare l´Islam. Vogliamo che la Tunisia adotti la sharia. Non seguiamo il Libro, vogliamo seguire l´esempio del Profeta e dei suoi amici». La Salafia, insomma.
Mohamed ha 27 anni ma nel viale alberato di Manouba cammina un po´ a fatica. Forse è un ricordo dei quattro anni che ha passato nelle galere di Ben Ali, perché durante il regime era proibito fare proselitismo religioso all´università.
Dopo la rivoluzione che ha dato l´avvio alla "primavera araba", però, gli integralisti hanno cercato un nuovo ruolo, muovendosi in modo molto aggressivo e cercando di influenzare Ennahda, il partito islamico moderato al governo. E il fronte dell´università è il più caldo. A gennaio cinque salafiti hanno avviato uno sciopero della fame per rivendicare il diritto delle studentesse a portare anche a lezione il niqab, velo integrale che copre anche il viso. A marzo i fondamentalisti hanno avviato un sit-in nel campus di Manouba, cercando di far boicottare le lezioni fino a quando il divieto di portare il niqab fosse stato cancellato. Il preside Habib Kadzaghli ha denunciato di essere stato «sequestrato», anche se forse gli è stato solo impedito di accedere al suo ufficio. Gli studenti laici hanno risposto con una manifestazione nel centro di Tunisi, con cartelli che dicevano: "No alle catene, no al velo, la scienza deve essere libera". Ma nei giorni scorsi i salafiti hanno di nuovo interrotto le lezioni, insistendo sul velo e chiedendo anche un luogo di preghiera all´interno dell´università.
Il ministro dell´Istruzione superiore Moncef Ben Salem, che fa parte del partito islamico Ennahda, sospetta che sia stata l´intransigenza del preside a far esasperare i problemi. «In tutto il paese c´è un centinaio di ragazze che usano il velo integrale. Ma le contestazioni sono scoppiate solo a Manouba», dice. Insomma, per il governo lo scontro all´università è più intemperanza giovanile che reale minaccia fondamentalista.
In realtà la presenza dei salafiti non è limitata alle università ed è sempre più ingombrante nel panorama tunisino. Il governo prende le distanze, garantisce che non si farà imporre nessuna agenda radicale. Said Ferjani, in passato esule politico a Londra e oggi alto funzionario di Ennadha, sottolinea che il governo non accetterà l´imposizione di uno stile di vita da nessuno, ed è pronto a proteggere la scelta individuale delle donne, che sia quella di indossare un burqa o di sfoggiare il bikini.
Ma in concreto la polizia appare troppo tollerante con gesti incendiari, come l´appello ad attaccare la comunità ebraica, pronunciato da un predicatore durante un corteo nel pieno centro di Tunisi. O l´accoglienza all´egiziano Heni Sbai, "bandito" da Ben Ali, il cui arrivo all´aeroporto della capitale è stato "facilitato" se non imposto da una moltitudine minacciosa sotto gli occhi degli agenti, nonostante il religioso sia ancora nella lista delle persone "indesiderabili" in Tunisia. O la provocazione di appendere la bandiera di Hizb Ettahrir, partito semiclandestino e favorevole al Califfato, proprio sull´orologio del centro città, nella ex piazza 7 novembre ora intitolata a Mohamed Bouazizi, il giovane venditore di frutta che diede l´avvio alla rivolta immolandosi nel fuoco a Sidi Bouzid, nel gennaio dell´anno scorso.
Il padre della patria, Habib Bourghiba, aveva imposto in Tunisia una visione rispettosa dell´Islam ma fondamentalmente laica. Si era persino esposto a bere un bicchiere di latte durante il Ramadan, perché Dio chiede la preghiera ma approva ancora di più il lavoro, e chi digiuna è troppo debole per produrre. Ora la ripresa integralista vuole rimettere tutto in discussione. Non tutti sembrano preoccupati: «L´alternativa alla tolleranza con i salafiti sarebbe stato il manganello», fa osservare un alto funzionario occidentale: «Se avesse scelto la repressione, il governo avrebbero dato l´idea che si tornava ai modi del vecchio regime. Non era davvero il caso».
Lina Ben Mhenni scuote la testa: «La verità è che non è cambiato niente. Eravamo in una dittatura, siamo in una dittatura anche oggi». La giovane blogger, protagonista della rivoluzione e candidata persino al Nobel per la pace, parla senza remore al JFK di rue de Marseille, dove servono birra senza problemi: «La prova che non è cambiato niente? È l´uso della violenza sul dissenso, il lancio dei lacrimogeni sui dimostranti pacifici durante le manifestazioni. Sono tornati gli stessi picchiatori dei tempi di Ben Ali, abbiamo foto e video che lo dimostrano. E non ci sono differenze fra Ennahda e i salafiti, sono solo due facce della stessa oppressione».
Poco lontano, sull´avenue Bourghiba, i caffè si svuotano con l´imbrunire. O meglio: gli uomini restano, aggrappati all´ennesima sigaretta, le donne sono già sparite. Durante il giorno l´hijab, il velo che copre solo i capelli, si vede più che in passato. Potrebbe essere conseguenza della maggior libertà, visto che ai tempi di Ben Ali gli entusiasmi islamici erano repressi duramente.
A Manouba, comunque, gli studenti non vogliono nemmeno sentir parlare di tornare indietro sulla libertà di abbigliamento.
Sumaya, che ha scelto di unire l´hijab ai jeans attillati, ha anche un´altra risposta per i salafiti: «La religione mi impone di coprire il capo. È una regola di Dio, e la seguo con orgoglio. Ma la divisione delle classi fra maschi e femmine non va bene. Non ci capiremmo più. E Dio ha detto: parlate tra voi».

Repubblica 24.4.12
Gli integralisti avanzano, ma la società civile non rimarrà a guardare
Se la religione minaccia i fiori della Primavera
di Tahar Ben Jelloun


Quella che è stata chiamata «la rivoluzione dei gelsomini» sta trasformandosi in un´erba infestante e pericolosa. I tunisini si sono rivoltati perché non sopportavano più l´umiliazione quotidiana di una famiglia regnante autoritaria e corrotta. L´immolazione con il fuoco di Mohamed Bouazizi è stata la scintilla che ha fatto dilagare il desiderio di rivolta e di cambiamento. All´epoca, nel dicembre del 2010, nessuno parlava di islamismo. Quando Ben Ali lasciò Tunisi sotto la pressione della piazza, il mondo applaudì i primi passi di una contestazione che stava trasformandosi in rivoluzione. Era nata la primavera araba e l´Egitto di lì a poco avrebbe raccolto il testimone.
Quello che nessuno aveva previsto è successo, in Tunisia o in Egitto: ad approfittare di questi sommovimenti sono stati gli islamisti, che non avevano promosso né preso parte alle manifestazioni di piazza dove a centinaia erano rimasti uccisi o feriti. È un paradosso che si sta generalizzando, dal Marocco allo Yemen passando per la Libia e il resto del mondo arabo.
La primavera araba annuncia così una lunga stagione islamista, che potrebbe durare anni.
La Tunisia, contrariamente all´Egitto, non ha conosciuto movimenti islamisti di rilievo. C´era Ennahda, che Ben Ali aveva combattuto ricorrendo a metodi duri e violenti, pensando di sradicare il gene islamista di quella società che l´ex presidente Burghiba aveva avviato sui binari del laicismo e della modernità.
E oggi ecco che Ennahda rinasce dalla sua assenza e militanti più estremisti si permettono di intervenire nella vita quotidiana dei tunisini.
L´episodio del velo nelle università non è nuovo: tanto era vietato all´epoca di Ben Ali, tanto oggi è diventato un simbolo identitario. Le violenze all´Università della Manouba, per esempio, avvengono in un´atmosfera di repressione delle libertà. In questo momento si sta svolgendo un processo contro la televisione privata Nessma, che ha trasmesso il film Persepolis, dell´iraniana Marjane Satrapi. Il direttore di Nessma è stato incriminato per «offesa al culto religioso», perché in quel cartone animato si vede l´eroina parlare in sogno con Dio, raffigurato con le fattezze di un uomo dalla lunga barba bianca.
Ovunque nella società gli islamisti cercano di imporre la loro visione del mondo e di censurare i mezzi di informazione che non rispettano la rigida linea morale dettata da una concezione autoritaria dell´islam.
Delle ragazze senza il velo sono state aggredite in strada. Due giovani diplomati disoccupati, Ghazi el-Beji e Jabeur Mejri, sono stati condannati a sette anni e mezzo di prigione per offesa alla morale, diffamazione e turbamento dell´ordine pubblico. Hanno dichiarato su internet il loro ateismo e pubblicato delle caricature del profeta. El-Beji è riuscito a fuggire, Mejri è in prigione.
Questo Paese mediterraneo che ha subito l´influenza dell´Italia nella cultura e nel mondo di vivere oggi si trova immerso nella nebbia dell´oscurantismo.
Ma quello che dà speranza è che di fronte agli islamisti che aggrediscono, proibiscono e «moralizzano» c´è una società civile, guidata soprattutto da donne, che resiste a questo tipo di fascismo che inquina gli spiriti e riporta indietro le lancette del progresso, all´università, nei mezzi di informazione o semplicemente per le strade.
L´impressione è che la «primavera araba» abbia abolito i dittatori per sostituirli con un ordine dello stesso tipo, ma che agita il vessillo della religione.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

l’Unità 24.4.12
Droghe, i giovani sanno distinguere. Le leggi ancora no
Il sondaggio pubblicato da l’Unità conferma l’esperienza sul campo
La distinzione tra sostanze leggere e pesanti è negata solo dal legislatore
di Luigi Cancrini


L’Unità ha pubblicato ieri un interessante sondaggio di Carlo Buttaroni sui giovani e le droghe. I dati riportati nelle tabelle corrispondono, in buona sostanza, alle impressioni che ricevo dal lavoro che continuo a portare avanti quanto ci sono problemi di droga: con i giovani e con le loro famiglie. Percepite come una componente normale del passaggio umano in cui loro sono immersi da quando entrano nell’adolescenza, le droghe hanno perso infatti gran parte del fascino perverso con cui erano state percepite nella fase in cui il loro diffondersi nella popolazione giovanile determinò un grande allarme sociale. Utilizzate piuttosto «per provare o per trasgredire» (62% delle risposte) per divertirsi e stare allegri (70%) per sentirsi diversi e disinibiti (60%) che per combattere tristezza e depressione (un modestissimo 37%), le droghe sono percepite di fatto dai giovani intervistati come un oggetto di consumo fra i tanti da cui ognuno di loro è circondato: un oggetto di consumo di cui non avrebbe più alcun senso avere la paura irragionevole vissuta da quelli delle generazioni precedenti e nei cui confronti occorre, però, avere informazioni corrette se si vogliono evitare errori pericolosi.
Da questo punto di vista, del resto, i risultati della inchiesta di Buttaroni propongono dati abbastanza confortanti. La distinzione fra droghe leggere e droghe più pesanti è chiara, infatti, nella testa dei giovani intervistati molto più che in quelle, intorpidite dal pregiudizio, dei genitori (e dei nonni) che si riconoscono nei discorsi dell’ex ministro Giovanardi: in particolare per ciò che riguarda la pericolosità dell’hascisch e della marijuana (lo spinello del linguaggio comune) e per ciò che riguarda i rischi collegati, invece, alla cocaina, alle anfetamine e agli oppioidi. Un po’ meno soddisfacente, forse, dal punto di vista sanitario, è l’insieme delle risposte che riguardano l’alcol e il tabacco la cui pericolosità è evidentemente sottostimata dai giovani intervistati: all’interno di una cornice culturale, però, che ancora risente pesantemente del clima di una legge che voleva dissuadere dall’uso degli “stupefacenti” illegali senza neppure provare a mettere in guardia giovani e adulti dai rischi collegati alle droghe legali.
Un’ultima osservazione, assai interessante, è quella che riguarda il rapporto di confidenza con i famigliari. Quello che noi viviamo è un tempo in cui una maggioranza amplia dei giovani di età compresa fra i 18 e i 25 anni (sono questi i limiti di età del campione considerato) è costretta a vivere in casa dei suoi genitori e scoprire qui che appena un terzo degli intervistati «parla in famiglia delle esperienze che gli capitano» propone in modo particolarmente evidente la contraddizione innaturale di una convivenza più necessaria che desiderata dai giovani (e, spesso, dai loro genitori) di oggi. Con chiarezza confermando, ad un livello più generale, la difficoltà di comunicazione da sempre esistente in tema di droga nel rapporto fra le generazioni. Quello su cui mi sento meno d’accordo con Buttaroni è, per finire, il quadro d’insieme che lui, come molti altri sociologi, dà dei giovani di oggi. Collegare la loro familiarità con l’uso e l’abuso di sostanze al malessere e alla mancanza di prospettive «dei poveri giovani di oggi» può essere fuorviante, a mio avviso, nella misura in cui tende a connotare negativamente una familiarità che ha invece, a mio avviso, soprattutto il significato di una forma di adattamento.
Quello che succedeva più spesso dieci, venti o trenta anni fa era che, una volta entrato nel circuito, il ragazzo tendeva a restarne condizionato e/o coinvolto in modo pericoloso mentre quella cui ci troviamo di fronte oggi è una modalità molto più laica e disincantata di vicinanza non necessariamente fisica e personale all’uso di droghe da parte di persone capaci di restare libere abitualmente da qualsiasi tipo di condizionamento o di coinvolgimento: la necessità proponendoci, oggi, di una previsione legislativa capace di tenere in debito conto il mutamento del clima culturale vissuto dalle nuove generazioni.
In tutto il mondo ci si accorge ormai, tranne che in Italia, del fatto che i progetti di prevenzione e di cura, mediatici e professionali, a scuola e sul luogo di lavoro, devono mettere sullo stesso piano le droghe legali e quelli illegali sapendo che le prime sono nei fatti assai più pericolose, dal punto di vista sanitario e sociale, di quelle illegali.
Basarsi sulla responsabilizzazione dell’individuo che cresce invece che sul tentativo di terrorizzarlo è ugualmente riconosciuto, in tutto il mondo tranne che in Italia, come la strada più utile per il coinvolgimento dei più giovani. Depenalizzare lo spinello e diventare un po’ più seri nell’impedire l’accesso al fumo e all’alcol potrebbe rappresentare un passo importante per tenere conto di queste novità. Anche se il Paese in cui viviamo sembra troppo impegnato oggi a parlare di crisi della politica per potersi occupare di problemi come questi.

Corriere 24.4.12
Pound, genio e furore in cattedra
Maestro di Eliot. Ma anche di Hemingway, Yeats e Joyce
di Marzio Breda


 l 10 marzo 1966 a Romolo Rossi, psichiatra della clinica per malattie nervose di Genova, fu affidato un uomo la cui identità era protetta da un falso nome. Quella persona, un ottantenne debilitato fisicamente e psichicamente, «con uno stato d'arresto psicomotorio e del linguaggio» e prigioniero di un «quadro melanconico», era Ezra Pound. Le prime cure richiesero un mese di ricovero. E servì quasi un anno perché la diagnosi fosse puntualizzata come psicosi maniaco-depressiva (oggi si direbbe disturbo bipolare) e il trattamento producesse risultati.
Era un caso complesso. La svolta ci fu quando il medico, mentre lavorava a stabilizzare il malato, tentò una mossa a sorpresa per aggirarne le difese. Appoggiò sul tavolo accanto a lui una copia della Divina Commedia e aspettò gli effetti che il rinvenimento avrebbe prodotto. Accadde l'imprevedibile. La scoperta bastò a ridare la parola a Pound. Che cominciò a sbloccarsi e a dialogare attraverso Dante, del quale citava a memoria i versi più appropriati in risposta alle domande dello psichiatra.
Fu una grande lezione, per Rossi, tanto da fargli dire: «Ormai non sapevo più se il motore della psicoterapia ero io o era lui». Una lezione perché gli permise di verificare il potere taumaturgico della poesia che, sosteneva Andrea Zanzotto, «è ferita e farmaco insieme». E perché, grazie a quei «colloqui didattici», ebbe la fortuna di sondare l'intelligenza di un insegnante speciale che, nell'ultimo scorcio di un'esistenza tumultuosa e carica di dolore, chiamava a raccolta ogni forza residua per spiegarsi, appigliandosi al padre Dante come alla più alta mediazione culturale di cui disponeva.
La commovente immagine di un genio spezzato dalla tragedia, che ritrova il modo di esprimersi con la voce della tradizione e che dimostra anche nell'ultimo scorcio della vita uno slancio pedagogico straordinario, alza il velo su un aspetto piuttosto trascurato di Pound: la sua vocazione di educatore, che fa tutt'uno con quella di scopritore di talenti. Non per nulla Thomas Eliot, che gli doveva le drastiche e fondamentali correzioni della Terra desolata, lo definì «a teacher and a campaigner». Un insegnante, appunto, oltre che un paladino pronto a battersi in difesa degli amici e delle idee in cui credeva.
Già i suoi Saggi letterari dimostrano questo magistero da «miglior fabbro». Nell'Abc del leggere, uscito nel 1934, Pound aveva compiuto un passo ulteriore. Aveva deciso di vestire i panni del professore, ma antiaccademico. Con il proposito di redigere solo «quanto basta per servire da manuale», anche se quel testo era molto di più, mise in comunicazione tra passato e futuro autori e aree letterarie e artistiche che da allora nessuno ha potuto trascurare.
Preoccupato di colmare la distanza tra «la vera cultura e quella che si insegna» nelle università, in quelle pagine Pound fa scuola alla sua maniera. Stretto dall'ansia di antologizzare i linguaggi dell'arte (musica, poesia, pittura), senza dimenticare la filosofia (Confucio), il supremo atto critico sembra per lui consistere nella compilazione di cataloghi degli autori «indispensabili»... Prescrittivo ma senza vizi di erudizione, offre a chi voglia studiare la poesia un metodo scientifico, «un metodo da laboratorio... lo stesso di un biologo contemporaneo». Si propone di renderla «popolare» e di salvarci da «noia superflua» con un consiglio semplicissimo: andare oltre «l'oscurità e la solennità» e separare le opere maggiori dalle cose mediocri, la «zavorra». Infatti, spiega, «è indispensabile strappare le erbacce se il Giardino delle Muse deve restare un giardino».
È un severo tirocinio applicato alla disciplina critica, quello che raccomandava ai lettori. Pound ragiona sul concetto di classico, «titolo» che per lui non va assegnato a opere costruite su stili e regole strutturali codificate, ma perché sono illuminate da «una certa e insopprimibile freschezza». Sonda i segreti del linguaggio, fondati sull'intreccio tra suono e vista, per il quale andrebbe colta l'origine delle parole — magari così come affiorano dagli ideogrammi — e ammonisce di «tenerlo in efficienza... preciso e netto» emendandolo da ogni sciatteria, secondo i precetti ricavabili da quello che gli sembra il paradigma, appena sopra il Cavalcanti di Donna me prega: Dante. E analizza l'importanza della «funzione sociale» degli scrittori, perché «se la letteratura di una nazione declina, la nazione si atrofizza e decade».
È un catalogo, quello poundiano, che lievita su numerosi elementi dimostrativi attraverso i quali rimanda a testi specifici. Dei quali si serve in chiave comparatista. Per esempio esaltando Omero e bocciando Virgilio come pure i tragici greci (eccetto Sofocle), mentre elogia Ovidio e resta in dubbio «se Catullo sia inferiore a Saffo». Una rassegna che include innesti disparati, scavando nei depositi sepolti della civiltà europea. Chiama in causa Cavalcanti, Donne, Dante, Chaucer e Shakespeare, senza escludere gli americani, da Whitman a Hemingway. Con lo scopo di offrire strumenti di valutazione e d'indagine a «coloro che leggono, e scrivono, soltanto in inglese». Lo scopo sottinteso era invece: emancipare chi fa poesia dalla prigione vincolo del vocabolario unico. Del resto, il big bang plurilinguistico dei suoi versi emergeva già nel Canto 86: «It can't be all in one language», non si può esprimere tutto in una sola lingua.
Non basta. Nell'Abc del leggere Pound indica dei «criteri ed esercizi di composizione», senza tralasciare prove di scrittura metrica su processi di reinvenzione connessi all'armonia delle note e, dal momento che per lui «il ritmo è una forma incisa nel tempo», evoca Stravinskij e addirittura il jazz. Mediatore di culture, consiglia di applicare le sue formule e princìpi, seguitissimi dalle avanguardie d'inizio secolo, ponendo a confronto differenti forme d'arte. Lo fa lui stesso quando, con una sicurezza che rasenta la provocazione, sentenzia: «I disegni di Max Ernst relegano nel dimenticatoio un buon numero di romanzi psicologici. Il cinema soppianta un bel po' di narrativa di seconda qualità e buona parte del teatro...». È un testo decisivo, questo repertorio critico-didattico di Pound.
Equivale a squadernare gli appunti di un suo seminario, se mai ne avesse tenuti, e permette di comprendere le qualità che fecero di lui «l'insegnante di scrittura» di Eliot, Williams, Hemingway, Yeats, che stimolò a rinnovarsi. E soprattutto di Joyce, che aveva scoperto e generosamente assistito e imposto.