giovedì 26 aprile 2012

l’Unità 26.4.12
Al corteo dei partigiani una folla di giovani
«Roma è antifascista»
di Luciana Cimino


Nella capitale l’affollato corteo dell’Anpi, con la voglia di riaffermare i valori della democrazia. Dopo le polemiche sulla presenza di Alemanno e Polverini, i due disertano e non inviano neppure la corona istituzionale

«Per favore – dice Tina Costa con tono gentile ma deciso ai fotografi che l’assediano e ai manifestanti che la riconoscono e la salutano, le vogliono stringere la mano, la ringraziano – non chiamatemi “signora”, sono una “compagna”». 87 anni, Tina si trovò a fare la staffetta partigiana durante la Resistenza. «Abbiamo combattuto per la libertà, certamente, ma anche per la dignità e il lavoro, oggi mi sembra che siamo ritornati a 60 anni fa: c’è un rigurgito fascista nelle istituzioni e ci sono precari e esodati, cioè giovani e meno giovani senza stipendio e senza futuro. Molti di noi sono morti perché in Costituzione ci fosse scritto “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”».
Se c’è un filo rosso che attraversa il corteo organizzato come ogni anno dall’Anpi a Roma, che lega le diverse sfumature di rosso delle sue mille bandiere, le decine di associazioni che hanno aderito, è proprio l’articolo 1 della Costituzione, oltre alla richiesta veemente di un taglio netto della città nei rapporti con ogni organizzazione che si richiami alle ideologie del ventennio o xenofobe, che negli ultimi tre anni sembrano aver preso in ostaggio a suon di aggressioni, minacce, violenze (l’ultima al Liceo Avogrado durante l’intervento del partigiano Mario Bottazzi, tre giorni fa) la coscienza civile e antifascista della Capitale, città medaglia d’oro della Resistenza. Nessuno nel corteo, uno dei più partecipati e affollati degli ultimi anni, si nasconde che non è solo la celebrazione di un rituale ma è un “riprendersi la città” dopo gli ultimi fatti di cui si è resa protagonista l’estrema destra. Dopo le polemiche infamanti scaturite alla morte del partigiano Rosario Bentivegna, anima della Resistenza cittadina, sollevate da una certa destra, a cui nessuno di certa parte delle istituzioni cittadine ha voluto porre ufficialmente rimedio. Nino Ruffa, segretario del Circolo Martiri delle Fosse Ardeatine, guarda il lungo corteo alle sue spalle e nota: «il popolo di Roma sempre si è distinto per l’antifascismo e soprattutto adesso, dopo questi episodi di violenza neofascista, tanti giovani sono venuti qui oggi, questo dimostra che c’è voglia di affermare valori di democrazia e tolleranza».
UNA SOLA CORONA DI ALLORO
Alla fine sul palco, tra le note di Bella Ciao e di De André e le testimonianze applauditissime dei partigiani, i più attenti avranno notato che c’era solo una corona di alloro da parte delle istituzioni. Il mittente era la Provincia di Zingaretti. Non pervenute quelle di Campidoglio e Regione Lazio. Eppure Renata Polverini aveva persino fatto appello al Capo dello Stato a causa dall’iniziale mancato invito da parte dell’Anpi. In mattinata era previsto il suo arrivo. Poi all’ultimo minuto il dietrofront per paura di contestazioni. «Questa è una festa, non ci sarebbe stato nessun problema di ordine pubblico», ha commentato poi il presidente dell'Anpi di Roma, Vito Francesco Polcaro, ribadendo che sarebbe auspicabile da parte di Comune e Regione «un segnale di netta chiusura verso tutti quei movimenti o quelle associazioni pseudo-culturali (come Casa Pound) che si richiamano all'ideologia fascista, all'antisemitismo e al razzismo e verso coloro che li rappresentano nei consigli».

l’Unità 26.4.12
Liberare la speranza
C’è ancora un vento del Nord
di Rinaldo Gianola


L a festa della Liberazione è stata dominata dalle preoccupazioni, dall’ansia, dalle paure indotte da una lunga crisi economica. Sentimenti che coinvolgono milioni di famiglie. Ma come a volte avviene in Italia, quando più forti sono le difficoltà, il 25 aprile offre la speranza, l’impegno di tanti soggetti sociali, per aprire una nuova stagione.
Le migliaia di persone che ieri hanno partecipato alle manifestazioni per celebrare la vittoria della democrazia sul nazifascismo non si illudono che l’uscita dall’emergenza economica, dalle difficoltà politiche, dall’estrema tensione sociale sarà una passeggiata, nè che la scorciatoia passerà dalla facile demagogia, dalla propaganda all’ingrosso che vengono diffuse in questi giorni dai presunti puri neofiti di una politica anti-partiti e anti-istituzioni.
Il Paese, come è successo nel 1945 e come è accaduto in altri momenti della sua storia tormentata, si salverà con l’impegno di tutti, con la ricerca della solidarietà e della giustizia sociale, con la sanzione dura dei privilegi e della corruzione, con il rispetto e la difesa della Costituzione. Nella nostra Carta c’è dentro tutto quello che ci serve, non c’è bisogno di inventarsi stranezze. Come in altri momenti di crisi il Paese aspetta che dal Nord prenda a soffiare un nuovo vento, forte, innovatore, positivo capace di ispirare un’altra diversa stagione politica ed economica. Se questa, come pensiamo, è la strada da seguire, allora qualche indicazione la si può trarre anche dalla giornata della Liberazione celebrata ieri.
A Milano, dove negli ultimi decenni sono nati i fenomeni politici più rilevanti (da Craxi a Bossi passando per Berlusconi e arrivando oggi al tecnico Monti), emergono segni importanti che sarebbe sbagliato sottovalutare. Per chi abita in questa città e ha dovuto patire vent’anni di sindaci leghisti e di destra, che guardavano al 25 aprile e al Primo Maggio come a noiosi incidenti del calendario, quella di ieri è stata una bella giornata. Vedere il sindaco Giuliano Pisapia in prima fila, in corteo, con la fascia tricolore dietro il gonfalone della città martoriata dalla guerra fascista e capace di riscattarsi con la rivolta di popolo, offre la certezza che ci sono battaglie lunghe e faticose ma che si possono vincere. È stato proprio il sindaco Pisapia a mandare un messaggio politico aperto, costruttivo. Ha parlato di «nostalgia, di fame della buona politica», della necessità di aprire una nuova fase nel Paese che passi da «una rivolta morale» capace di ridare una speranza ai giovani, alle donne, alla famiglie colpite dalle enormi difficoltà di una crisi economica e f inanziaria che pare non finire mai e che accentua le diseguaglianze tra chi sta meglio e chi sta peggio.
Se oggi ha un senso parlare di un nuovo vento del Nord, questo va ricercato nei sacrifici che milioni di cittadini hanno accettato di affrontare con grande responsabilità per salvare ancora una volta l’Italia, e nell’impegno che le forze sociali, del lavoro, produttive, sindacali e politiche hanno messo in campo, ciascuna per la propria competenza e attitudine culturale e professionale, per cercare di aprire uno squarcio di sereno nel futuro. È nel Nord produttivo e del lavoro che si colgono i tentativi faticosi ma coraggiosi di rompere questa cappa nera della crisi che ci opprime con la disoccupazione dilagante e la caduta del reddito, è nelle amministrazioni delle grandi città come Torino, Milano, Venezia, che nasce la necessità di sparigliare anche le carte della politica per trovare nuove dimensioni di aggregazione, di partecipazione e di raccolta del consenso. I sindaci fanno la loro parte, i sindacati e le imprese pure, anche se le difficoltà sono enormi. Qualcosa si muove ed è bene che il vento possa essere accolto e sfruttato al meglio.
Le parole del presidente Napolitano e il messaggio di Monti hanno richiamato ieri l’urgenza dell’unità del Paese, come avvenne nei drammatici mesi dell’occupazione nazista, per superare queste tremende difficoltà che incrinano le speranze dei cittadini. L’aspirazione all’unità, alla collaborazione delle grandi forze politiche, sindacali, imprenditoriali, sociali, non significa alterare la dialettica democratica o creare le condizioni per una melassa consociativa che non avrebbe senso nè sarebbe utile. Significa, invece, puntare sulla valorizzazione delle diversità e sul riconoscimento leale delle capacità di tutti i soggetti, proprio come avvenne durante la stagione della Resistenza, per superare un momento di enorme difficoltà che potrebbe, questa volta sì, danneggiare in profondità la nostra democrazia.
A ben vedere le feste civili e popolari come il 25 aprile e il Primo Maggio mantengono il loro enorme valore democratico, il loro profondo radicamento, perchè ci costringono a riflettere apertamente, criticamente, senza sconti per nessuno a partire da noi stessi, sulle condizioni del Paese e sullo stato della nostra democrazia.
Piaccia o no, la crisi ci impone di darci tutti quanti un mano se vogliamo risollevarci.

l’Unità 26.4.12
Quel giorno che noi  partigiani dell’Oltrepò entrammo a Milano
di Italo Pietra


Italo Pietra racconta l’avanzata verso la città. Il terribile rastrellamento e l’arrivo sotto la «madunina». E Piero che tre ore dopo sarebbe partito per Dongo mentre la folla festeggiava, rossi gli occhi e le bandiere

Pubblichiamo uno stralcio dell’articolo di Italo Pietra uscito nel dicembre 1945 nel volume «Anche l'Italia ha vinto». Italo Pietra, nato nel 1911 a Godiasco (Pv), è scomparso nel 1991. Alpino fino all’8 settembre ’43, poi in montagna come «Edoardo», consulente militare delle brigate partigiane di cui è divenuto comandante generale guidandole alla liberazione di Milano. Socialista, ha lasciato la politica per il giornalismo. Ha diretto il «Giorno». Licenziato all’avvento del centrodestra, ha assunto nel 1974 la direzione del «Messaggero» subendo l’anno dopo un altro licenziamento su richiesta della Dc.

(...) Quando saremo a Varzi nella caserma alpina

ti scriverò biondina
la vita del partigiano
La vita del partigiano
si l’è una vita santa

s’ mangia, s’ bev, as canta pensieri non ce n’è.
Pensieri ce n’è uno solo

l’è quel della morosa
che gli altri fanno sposa

e mi fo il partigian.

Dunque, questa canzone è nata un anno fa, d’agosto, nell’Oltrepò pavese, quando là, su per le montagne che guardano Varzi, e vedono il gran mare di terra bianca e verde fino alle Alpi, vivevano tre brigate, e non avevamo avuto neanche un lancio.
Eravamo tre brigate, eravamo mille armati, eravamo padroni di una zona libera fatta di sette valli, di ventidue comuni, di cinquantamila abitanti; ma il magazzino armi e munizioni era ancora sulla via Emilia, ogni arma un agguato, così tanti ragazzi, come Armando, Bianchi e Walter, sono morti con la faccia sull’asfalto. Non avevamo avuto neanche un lancio.
Da Pometo capitale della Matteotti, da Zavattarello garibaldino, dal vecchio bel Romagnese tutto ribelle, scendevano a sera i gialli camion partigiani della Wehrmacht verso gli agguati al Po e lungo la via Emilia. Ecco Alfredo il moro col cappello alpino, ed ecco, col berretto da Ss, Fusco, che quasi ogni notte si guadagna una uniforme, e Maino senza cappello conte Luchino dal Verme garibaldino. Ed ecco il padre dei garibaldini pavesi, è quel pallido ragazzo sui vent'anni, col braccio al collo in una fascia rossa: si chiama Americano, ed è italiano, studente, comunista. Quello in piedi che ride senza denti, porta scritto con filo d’oro sulla camicia rossa «Caramba dominatore dei falsi profeti», ma una sera le brigate nere lo prenderanno vestito da prete in una osteria di Casteggio, e andrà al muro come spia.
Ragazzi morti, ragazzi vivi, ormai sembra un sogno, ma chi ricorda quelle sere piene di fisarmoniche, sten, ragazze, buoi squartati, polente, automobili, camicie rosse, mele cotte, scabbia, pidocchi, messaggi speciali, Sangue di Giuda (è un vino dello Stradellino, ndr), sigarette tedesche, cioccolato americano, cappelli alla garibaldina, ex prigionieri inglesi, capisce perché certi ragazzi, che in montagna hanno combattuto per la libertà, oggi sono quasi prigionieri di quel sogno.
Verso l’alba si sentivano i motori, e allora, per esempio a Romagnese, la gente correva al vecchio muro del castello, dal muro guardava lontano come dal ponte di una nave. Ecco alla svolta il '34 della Sesta Brigata, cantano, c'è il bandierone delle nottate d’oro, questa volta sono sacchi, saranno sacchi di zucchero, ecco anche un camion giallo che deve essere l’ultima preda; si vede ruzzolare una forma di parmigiano, ci sono quattro tedeschi, quello è un ufficiale della repubblica.
Il comandante della Sap corre a far suonare a festa il campanone; il comandante che si chiama don Alberto Picchi, parroco del Paese (...)
Poi è venuta la neve, era il 23 di novembre, allora è venuto il grande rastrellamento (dei Mongoli della Turkestan, ndr). Ecco gli alpini e i bersaglieri di De Logu, che cantano alla tedesca «per l’Italia, per l’Italia» e vuotano le case, ecco gli austriaci della stella alpina belli e terribili, ma avanti a tutti vengono i kirghisi e i calmucchi e i mongoli del 162 ̊ reggimento, guai alla donna che passa per la vita di queste bestie matte.
Da Montalto e da Rocca Vistarino venivano avanti nella nebbia su un fronte di pochi chilometri, e intanto i 75 e i 149 e i mortai da 80 scuotevano i boschi e le case. Quando un ufficiale tedesco cadeva, la vendetta era di case bruciate, di uomini al muro, di donne giovani.
Chi sa fermare una valanga?
I partigiani erano senza cannoni, le mitraglie avevano pochi colpi, non fu che un lavoro disperato di imboscate, e di agguati; fu la tetra vita dei boschi, Pietracorva, Valformosa, Pizzocorno, Oramala, Valverde, soli come lupi. Dall’alto delle grandi montagne bianche e nere, dal fondo dei boschi pieni di neve, si sentiva l'urlo dei mongoli, e i gridi delle donne; di notte gli incendi dei villaggi sventolavano all’orizzonte.
Settanta giorni è andato avanti il rastrellamento, settanta giorni.(...)
Noi andiamo verso la città. In testavalamotodiGimediCiro,poi viene la macchina del comando Zona, poi vengono otto camion pieni di partigiani che cantano.
Alle nostre spalle, a destra e a sinistra dei camion, si vedono, lontano, le colline dove eravamo ieri, e le montagne dove un anno fa siamo nati partigiani. Da una parte sta il rosso e il verde di Cigognola, e in fondo al palazzo del castello dormono nove partigiani. Dall’altra parte si vedono le gobbe del Penice; di là da quei monti c’è Vesima, con la chiesa bianca e il sagrato, e un anno fa sull’erba del sagrato hanno disteso Diego e Chicchiricchì, e quattro altri ragazzi, erano tutti feriti, poi li hanno finiti con bombe a mano, sangue e pezzi di carne sull'erba davanti alla chiesa. E adesso noi andiamo verso la città di Diego, e i compagni di Diego cantano, così è la guerra.
La strada va in mezzo ai prati, si rivedono i filari di pioppi, e le vecchie rogge lombarde che non si sa dove vanno a finire, e oggi la pianura lombarda è piena di colonne tedesche che non si sa dove vanno a finire; è il 27 aprile, noi andiamo verso la città da liberare.
Ieri abbiamo lasciato Carli a Voghera, e Marco a Casteggio, e Carlo a Cigognola, e poi tre ragazzi presso Zinasco al traghetto del Po, e adesso sono in mezzo ai fiori; 'poi abbiamo lasciato trenta ragazzi a Pavia, e intanto ne sono anche caduti ventidue a Vigevano, e adesso sono tutti in mezzo ai ceri e in mezzo ai fiori. Un’ora fa alla Certosa, abbiamo preso duecento tedeschi, dieci minuti fa a Binasco due caccia inglesi hanno distrutto un nostro camion, sangue, ancora sangue sull’asfalto. E certo ancora qualcuno di noi deve morire questa sera laggiù nella città da liberare, i partigiani cantano, così è la guerra. Eccola finalmente dopo tanti mesi, manca il respiro, adesso i partigiani non cantano più; la madonnina viene avanti adagio adagio sui tetti e sulle piante. Poi Milano è davanti ai nostri occhi, si sentono le fucilate lontane dei tedeschi che aspettano noi; la voce del commissario Piero canta, «O mia bela madunina, ti te dominet Milan»; è quello che fra tre ore partirà per Dongo.
Adesso andiamo tra case e naviglio, le fucilate tedesche ci aspettano al centro, la gente grida, noi non siamo che cinque ragazzi vestiti di lana inglese in una macchina tedesca con bandiera tricolore; e abbiamo paura di Mussolini. C’è tanta gente che grida, si capisce che la guerra se ne va, si capisce che la libertà viene avanti sull’asfalto con le nostre automobili tedesche, ma noi abbiamo paura di Mussolini, la segreta paura che uno di noi balzi in piedi, come lui allora, e guardi e saluti dall’alto il rosso e il nero della folla, come lui allora. E invece noi siamo partigiani, e i nostri nomi dovranno morire, appena la guerra sarà morta.
Sono belli i nostri ragazzi con gli occhi lontani, con le belle divise gialle americane; ma, accidenti, è Italia, non gridate, non gridateci più «Welcome, welcome».
Così noi entriamo nella città piena di bandiere rosse, di tricolori, e di fucilate, nella città dove tutti quelli che ci guardano hanno gli occhi rossi.

La Stampa 26.4.12
Il lavoro irrompe sul 25 Aprile
Camusso: dal governo soltanto rigore e niente equità
di Flavia Amabile


ROMA Camusso e Pisapia a Milano L’abbraccio e i sorrisi tra il sindaco di Milano Giuliano Pisapia e la leader della Cgil Susanna Camusso in Piazza del duomo dopo il comizio Assenti Alemanno e Polverini Polemiche per l’assenza del Governatore Polverini e del sindaco Alemanno che hanno deciso di non partecipare per evitare le contestazioni Generazioni Una giovane nipote con il nonno che ha fatto la resistenza alla manifestazione di Roma per celebrare la Liberazione Destra in piazza a Cagliari Momenti di tensione quando un gruppo di giovani dei centri sociali ha tentato di impedire una manifestazione organizzata dall’estrema destra Ricordo e concerto a Torino Nessuna tensione a Torino dove c’è stata una cerimonia in ricordo delle vittime al cimitero Monumentale e poi il concerto in Piazza Castello
Contestazioni in tutt’Italia anche in questa festa della Liberazione che ogni anno dopo 67 anni continua a creare polemiche. La presidente della Regione Lazio Renata Polverini non ha partecipato al corteo romano per evitare di esasperare gli animi mentre in alcune città le tensioni si sono trasformate in veri e propri scontri.
A Milano negozi e centri commerciali sono rimasti aperti nonostante l’invito di sindacati e Comune a rispettare la festività. Davanti ad alcuni di loro ci sono stati volantinaggi di Cgil, Cisl e Uil e il segretario della Cgil Susanna Camusso ha voluto salutare i sindacalisti che distribuivano i volantini. «Dobbiamo dare solidarietà ai lavoratori che stanno manifestando davanti ai negozi che sono aperti anche il 25 aprile», ha detto dal palco per il comizio conclusivo.
La segretaria generale della Cgil è stata di continuo applaudita e salutata. Ha parlato di Resistenza ma anche del governo Monti a margine della manifestazione. «Non sta facendo un buon lavoro - ha affermato - Ha annunciato un programma di rigore, equità e crescita, ma vediamo solo il rigore. Senza lavoro e creazione di lavoro non si esce dalla crisi. Serve un Piano sul lavoro, bisogna incentivare le assunzioni, sbloccare gli investimenti e favorire il credito a cittadini e imprese».
Sulla Resistenza ha chiesto di non fare polemiche se si chiama «assassino qualcuno» ha avvertito mettendo in guardia contro i «venti del negazionismo» e ha sollecitato a «non dimenticare chi ha liberato il paese ed è stato dalla parte giusta».
Non tutto però è stato applausi e sorrisi nel capoluogo lombardo. Sono apparse scritte contro la ricorrenza («Partigiano infame» e «XXV Aprile festa di infami»). Altri slogan più piccoli di tenore nazista sono poi stati scoperti sui muri dell’Università Statale. E ci sono state contestazioni nei confronti del presidente della Provincia, Guido Podestà. Alcuni manifestanti, subito tenuti a distanza dalle forze dell’ordine, hanno urlato, fischiato ed esposto cartelli con scritto «Podestà spalleggia i nazifascisti, vattene».
A Roma il corteo organizzato dall’Anpi si è svolto senza incidenti. Sfilavano anche i centri sociali, dal loro spezzone si sono levati cori insultanti contro il sindaco Gianni Alemanno e Renata Polverini, entrambi assenti però. «La Polverini ha fatto bene a non venire, non vogliamo fascisti al corteo e sul palco del 25 aprile. Se fosse venuta, sicuramente sarebbe stata contestata e avremmo deciso come farlo al momento», hanno chiarito alcuni dei manifestanti. «Purtroppo - ha risposto il governatore - alcuni gruppi di violenti hanno minacciato di rovinare una giornata di festa e ho voluto raccogliere l’invito dell’Anpi a soprassedere». Nessun invito invece nei confronti del sindaco Alemanno, né ad andare, né a non andare. «Ne ho preso atto - ha commentato lui meglio evitare situazioni di tensione che non giovano alla festa e alla manifestazione».
A Pesaro una ventina di militanti di Forza Nuova ha manifestato contro il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, atteso per la cerimonia del 25 aprile. Contestazioni anche a Pesaro, Sanremo e Salerno mentre a Lovere, in provincia di Bergamo, una targa dedicata alla memoria del partigiano Bortolo Pezzutti è stata bruciata. A Cagliari per diverse ore una piazza del centro è stata occupata da centinaia di giovani che volevano protestare contro una manifestazione organizzata da giovani di destra. La piazza è stata sgomberata dopo alcune ore, poco prima dell’inizio della cerimonia.

l’Unità 26.4.12
Comportamento antisindacale per aver messo fuori la Fiom dallo stabilimento di Bari
«La sottoscrizione del contratto in azienda non misura la rappresentatività di un sindacato»
Il giudice condanna la Magneti Marelli
Non si può escludere la Fiom da un’azienda solo perché non ha sottoscritto il contratto
di Ivan Cimarristi


«La sottoscrizione del contratto in azienda non è l'unico indice per misurare la rappresentatività di un sindacato al quale garantire i diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori».
Lo mette nero su bianco il tribunale del Lavoro di Bari, condannando la Magneti Marelli per comportamento antisindacale verso Fiom. In sostanza, la mancata firma del sindacato dei metalmeccanici della Cgil sul contratto di Pomigliano, non può escludere il diritto alla rappresentanza sindacale in azienda. «Torneremo più forti – assicura Antonio Pepe, segretario generale di Bari Fiom – Da domani (oggi, dr) sarà nuovamente riconosciuto il diritto degli operai ad essere regolarmente rappresentati dal loro sindacato». Ma non solo: porte aperte anche alla bacheca de l'Unità, rimossa a dicembre scorso su decisione dei vertici aziendali. Un'iniziativa presa in tutti gli stabilimenti Magneti italiani, e che a febbraio scorso ha portato gli operai di Fiom Bari a indire un'ampia manifestazione all' esterno dello stabilimento, con la distribuzione di centinaia di copie del quotidiano. «Se ci tolgono la bacheca dove affiggere l'Unità, noi riempiremo tutta la fabbrica con il giornale», dissero all'esterno i vari operai mentre lo distribuivano.
Il provvedimento del tribunale di Bari, 21 pagine, analizza l'interpretazione l'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, sulla costituzione in azienda delle rappresentanze sindacali. Secondo i magistrati, la norma si «applica in favore di quelle organizzazioni sindacali che, in forza del numero degli iscritti e della rappresentanza costante sul posto di lavoro, hanno effettivamente partecipato al processo contrattuale, pur senza sottoscrivere il contratto collettivo». Questo, secondo i magistrati, «elimina un altro effetto distorsivo riconducibile alla lettura della parte resistente (Magneti Marelli, ndr): quello secondo cui il datore di lavoro (...) potrebbe sempre negae il riconoscimento dei diritti sindacali tutte le volte in cui non sia sottoscritto il contratto». Il tribunale, infatti, ritiene che l'azienda non abbia tenuto conto della «effettività dell' azione sindacale da parte della Fiom» nello stabilimento barese, dove conta «un numero di iscritti a livello di unità produttiva di 210 su circa 900 dipendenti». L'articolo 19, dunque, «deve essere letto – concludono i magistrati nella sentenza – nell'ottica di una interpretazione sistematica e teleologica, garantendo il diritto di costituzione di Rsa alle organizzazioni sindacali dotate di effettività nell'azione sindacale, partecipando attivamente alla fase di formazione del contratto collettivo, pur senza giungere alla successiva fase di sottoscrizione».
Ma se da una parte sembra che almeno nello stabilimento di Bari tutto si sia risolto per il meglio, dall' altra sono stati denunciati ripetuti atteggiamenti antisindacali verso l'Rsu di Fiom, Giovanni Spilotros. La scorsa settimana, infatti, è stato depositato al tribunale di Bari un altro ricorso, in cui si parla di sospette “pressioni psicologiche” aziendali, che avrebbero dovuto avere riflesso negativo su tutti gli operai. Ma non solo, in quanto è stato “vittima” di accuse “letteralmente false”, racconta Spilotros. Lo hanno accusato di aver raccolto firme per sottoporre a referendum abrogativo l’accordo di Pomigliano, sottraendosi al lavoro e andando a raccogliere adesioni in altri reparti. «Tutto falso – racconta – ero in pausa e mi stavo fumando semplicemente un sigaro, come fanno tutti gli operai. Hanno dichiarato cose false e per giunta mi hanno multato, levandomi dalla busta paga mensile 3 ore di lavoro, circa 20 euro. Non sono i soldi, chiaramente. È il gesto che più fa rabbia». Non è tutto, però. Spilotros racconta che ha subito pressioni anche durante una pausa, mentre si trovava in una saletta sindacale dell’azienda, con altri colleghi. “Eravamo una decina, in pausa, a chiacchierare in una delle sale sindacali, quando è giunto un vigilante che mi ha detto “tu che fai qua, non puoi stare. Tutti siamo rimasti a bocca aperta per questo atteggiamento assurdo”. Tutto questo è stato inserito nel secondo ricorso al tribunale del Lavoro di Bari, sempre per sospetti comportamenti antisindacali di Magneti.

l’Unità 26.4.12
Diritti e detenzione
Anche la sinistra annaspa nell’autoritarismo penale
Nonostante le posizioni di tanti intellettuali antifascisti, che segnarono
i primi anni della Repubblica, il tema della «giustizia giusta» resta un tabù
di Luigi Manconi


Eppure c’è un filo rosso robusto e tenace che unisce il 25 aprile della Resistenza partigiana a questo 25 aprile di mobilitazione per l’amnistia, promossa dai Radicali italiani. Sono numerosi gli elementi che motivano una relazione stretta tra la ricorrenza della Liberazione nazionale, intorno a valori di democrazia e giustizia sociale, e una battaglia per uno stato di diritto che sia veramente tale e per la tutela rigorosa delle garanzie individuai. Non si tratta di una evocazione ideologica o di un artifizio retorico: il rapporto tra i due fatti è davvero profondo. Basti pensare a un importantissimo documento storico, tuttora scarsamente conosciuto.
Nel 1949, venne istituita la prima commissione parlamentare di indagine sulle carceri: ed è difficile dire se colpisca di più il fatto che già allora si avvertisse la necessità di realizzare una simile inchiesta o la constatazione che quella, come le successive, non riuscisse a modificare la drammatica situazione del sistema penitenziario. In quegli stessi mesi venne pubblicato un fascicolo speciale della rivista Il Ponte voluto da Piero Calamandrei e interamente dedicato al tema, che ospitava testimonianze e riflessioni di Carlo Levi, Emilio Lussu, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, Giancarlo Pajetta, Vittorio Foa, Leone Ginzburg e molti altri. Ovvero il meglio dell’antifascismo e del pensiero democratico e repubblicano, in tutte le sue componenti. Leggere quel fascicolo dà, oggi, una grande emozione. Non solo per la qualità politica e, direi, morale degli interventi, ma anche per lo spessore della riflessione sui temi del diritto e della pena.
C’è una ragione per quella acutezza intellettuale ed è talmente nitida da assomigliare a una sorta di rivelazione: quelle persone, l’abiezione del carcere, l’avevano conosciuta sulla propria pelle, e per lunghi, talvolta lunghissimi anni. Scrivevano, cioè, di una sofferenza e di una miseria direttamente patite, mentre discutevano di una riforma seria e razionale dell’amministrazione della giustizia e del sistema penitenziario.
Nel merito quella discussione va studiata e approfondita, partendo mi sembra un ottimo spunto da un’affermazione di Vittorio Foa per il quale nessuna pena detentiva avrebbe dovuto superare «i tre, al massimo cinque anni». Avete capito bene: tre, al massimo cinque anni. Eppure non si trattava di un confronto tra utopisti velleitari e filosofi inconcludenti, bensì tra uomini che avevano combattuto la dittatura e che avevano affrontato rischi enormi. Ma credevano nella politica e nel fatto che essa dovesse fondarsi su principi saldi, tali da segnare una discontinuità radicale col precedente regime e da tracciare un’idea di società rispettosa dei diritti individuali e collettivi.
Quella discussione è ancora più preziosa perché avveniva in una fase storica appena successiva a un’aspra guerra civile e che conosceva allora una condizione di crisi economica e disordine sociale. Tre anni prima, il ministro della Giustizia Palmiro Togliatti aveva promulgato un’amnistia, che aveva suscitato una diffusissima diffidenza e molte reazioni, in qualche caso violente (è interessante notare che, all’interno del Pci, la maggiore ostilità proveniva dalla componente autoritario-stalinista).
E tuttavia, la discussione drammatica che il provvedimento di amnistia determinò non ebbe l’effetto di condizionare quella riflessione sul carcere, proposta dal Ponte. Così che gli interventi di Calamandrei e Pajetta, di Lussu e Salvemini poterono confrontarsi liberamente, senza che i giustizialisti del tempo (ce n’erano, eccome se ce n’erano) li accusassero di essere complici delle Brigate Rosse o di Cosa Nostra (per restare all’epoca: della Volante Rossa o di Salvatore Giuliano).
Al di la della suggestione che può suscitare l’associazione mentale ed emotiva tra resistenza e lotta per i diritti delle persone private della libertà, c’è da restare costernati per l’impossibilità di riproporre oggi una simile discussione. Cosa è mai accaduto nella cultura della sinistra per renderla così fiacca e povera quando affronta le questioni del diritto e della pena? Eppure lì, proprio nella elaborazione di un programma per una giustizia giusta, si misura il senso di responsabilità della politica e la sua moralità. Qui non si vuole riproporre, certo, che nessuna pena detentiva superi «i tre, al massimo cinque anni» ma si vuole sperare almeno che la cultura della sinistra si emancipi dall’autoritarismo penale. Ovvero da una concezione profondamente immorale della giustizia, dove il fine «retributivo» della pena costituisce, in realtà, un surrogato miserevole della vendetta. Insomma, si vorrebbe che il grido roco «in galera» resti appannaggio della comicità scellerata di Giorgio Bracardi, e non si ritrovi nel discorso pubblico del centrosinistra.

l’Unità 26.4.12
Radicali in piazza per chiedere amnistia e giustizia


Si è svolta ieri a Roma il corteo organizzato dai Radicali italiani per sostenere la richiesta di un provvedimento di amnistia per alleviare il sovraffollamento carcerario. «Le carceri oggi in Italia sono luoghi di inciviltà senza pari. L'amnistia è uno strumento obbligato ha spiegato Marco Pannella Oggi chiediamo giustizia e libertà nel ricordo dell'antifascismo chiediamo che venga interrotta questa flagranza criminale. Oggi in moltissime carceri si sta facendo lo sciopero della fame». L'Italia è «un Paese che ha nove milioni di processi pendenti e in cui l'istituto della prescrizione fa saltare 200 mila processi l'anno. Tutto questo è insostenibile in un Paese democratico», ha proseguito Emma Bonino. questa situazione «genera un'amnistia di classe, con i più ricchi che si avvantaggiano delle prescrizioni e le carceri che diventano una discarica sociale».

il Fatto 26.4.12
Tagli e pochi investimenti. I grandi giornali in crisi
Il gruppo Espresso annuncia sforbiciate, ma non rinuncia ai dividendi: distribuiti 24 milioni. Il Sole non sfonda
di Giovanna Lantini


Milano Il prodotto non si vende bene e, nonostante i tagli, i conti non tornano. Ma l'unione fa la forza. Gli editori dei grandi quotidiani italiani, dopo l'ondata degli aumenti dei prezzi di copertina, hanno trovato una nuova tattica difensiva: protestare contro le rassegne stampa online della pubblica amministrazione. Che, a loro avviso, violerebbero il diritto d’autore e toglierebbe copie vendute. I ministri Elsa Fornero, Corrado Passera e Mario Monti, hanno già oscurato dai siti istituzionali la rassegna, mentre il presidente della Camera, Gianfranco Fini, tiene duro.
PER QUANTO indorate, infatti, le cronache degli ultimi giorni sono impietose: i conti della grande stampa italiana sono sempre più in discesa. Solo colpa della pubblicità tagliata dalla crisi o carenze di strategia costruttiva da parte degli editori? I giornalisti del Sole24Ore all'assemblea del gruppo della Confindustria, hanno “giudicato grave il continuo avvicendamento ai vertici della società che dimostra l'incapacità di chi governa l’azienda di assumere decisioni che abbiano una prospettiva di medio-lungo periodo” e hanno chiesto all'azionista di definire la fisionomia del gruppo. Parole come pietre, per l'ad Donatella Treu che sta “presidiando il mondo digitale”. Il quotidiano nonostante la cura di Roberto Napoletano, non riesce a sfondare quota 266mila copie e il saldo dal cambio di testimone con Gianni Riotta è di meno di 700 copie in più. L'aumento del prezzo a 1,50 euro, che ha dato al Sole il primato di quotidiano più caro d'Italia (non c’è più il Riformista), poi, non ha aiutato le vendite, ma ha sostenuto il fatturato. E intanto Napoletano, durante la guerra di successione in Confindustria, ha incassato prima la nomina a direttore editoriale poi la conferma a direttore responsabile. Proprio mentre, esauriti i tagli, si è passati ai contratti di solidarietà. Ma i conti ancora non tornano: nell'ultimo triennio l'editrice ha perso 100 milioni, 10 dei quali nel 2011.
NON VA meglio al Corriere della Sera e alla Gazzetta. Il salotto buono di Rcs sembra più preoccupato delle lotte di potere che della disaffezione dei lettori. Altrimenti qualcuno si sarebbe accorto che il giornale milanese da gennaio 2011 a gennaio 2012 ha perso 7.904 copie, 5.683 soltanto da settembre in poi, in piena crisi politica ed economica. E non si può dire che i lettori preferiscano distrarsi con lo sport, visto che la Gazzetta a gennaio rifletteva un calo annuo di oltre 30mila copie. Anche qui pesano le scelte dei manager con oltre 20mila copie bruciate dopo l'aumento del prezzo di luglio. L’editrice del Corriere, che ha chiuso il 2011 con una perdita di 322 milioni è ancora a caccia di un ad. E nel frattempo l'azienda galleggia nel limbo, tenendo nel cassetto strategie che di industriale hanno poco: tagli, cessioni di testate ovvero di immobili o di rami aziendali. Ma niente è ancora certo. L’unica novità di rilievo sul cartaceo è il lancio delle edizioni locali di Bergamo e Brescia del Corriere, tanto care al presidente di Intesa, Giovanni Bazoli, ma comunque partite con circa un anno di ritardo.
IN QUESTO contesto non può che brillare il meno peggio, il Gruppo Espresso. Tanto che la trimestrale del gruppo di Carlo De Benedetti, seppure in calo rispetto all'anno scorso con profitti in contrazione del 23,2% a 10,1 milioni, è stata accolta con favore dal mercato. Lo stesso ingegnere, che dalla sua ha il vantaggio di essere padrone in casa propria, non ha nascosto il tracollo nelle vendite di dvd, libri e cd (-40,9%). Ma non va meglio con i lettori di Repubblica: gennaio ha segnato una perdita di oltre 13mila copie su base annua e la ripresa ingranata a dicembre con l'arrivo del governo Monti è già stata azzerata. Anche qui non ha aiutato il rincaro varato a inizio anno. E nel dubbio De Benedetti ha annunciato una nuova ondata di tagli. Mani avanti però sui dividendi: nonostante i tempi di magra agli azionisti sarà distribuita una cedola da 24 milioni, quasi la metà dei profitti. E pensare che nei migliori manuali di economia si suggerisce invece di investire nei tempi di crisi per non perdere l'occasione del rimbalzo. Per quanto riguarda l’informazione in rete, nessuno degli editori italiani, con qualche eccezione del gruppo De Benedetti, ha ancora capito come monetizzare. Tanto che nel dubbio sull'I-Pad hanno deciso di fare fronte comune per dar vita all’edicola italiana. Già perché l'unione fa la forza.

Corriere 26.4.12
Un detective dall'Opus Dei contro i corvi in Vaticano
Benedetto XVI affida a Herranz l'indagine interna
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — Anni fa, quando gli chiesero se fosse vero che il fondatore dell'Opus Dei Josemaría Escrivá avesse un carattere talvolta brusco, rispose imperturbabile: «Era un uomo e gli uomini non sono tutti fatti di pasta frolla». Di certo non lo è neppure lui, il cardinale Julián Herranz, esimio giurista e uomo di punta dell'Obra — per ventidue anni visse accanto a San Escrivá e ne fu segretario personale — al quale Benedetto XVI ha affidato il compito di presiedere la commissione che dovrà fare «piena luce» sui cosiddetti corvi che hanno svolazzato in Vaticano nei mesi scorsi. Il Papa fa sul serio, i veleni e la fuga di documenti riservati della Santa Sede non saranno senza conseguenze: e la «commissione cardinalizia», voluta dal Pontefice dopo «la recente divulgazione in televisione, sui giornali e in altri mezzi di comunicazione di documenti coperti dal segreto d'ufficio», avrà pieni poteri.
Quella pubblicata ieri dalla Segreteria di Stato è una «notifica», un atto formale: informa prelati o dipendenti — nel caso li convocassero per essere ascoltati — che la commissione «agirà in forza del mandato pontificio a tutti i livelli». I tre cardinali che la compongono — oltre al presidente Herranz, il prefetto emerito di Propaganda Fide Jozef Tomko e Salvatore De Giorgi, già arcivescovo di Palermo — sono in pensione e quindi non hanno oggi incarichi in Curia, ma la conoscono assai bene. Si sono già riuniti martedì «per stabilire metodo e calendario dei lavori».
Che il Papa «addolorato» ma «sereno» e ben «determinato a guardare avanti» volesse istituire una commissione cardinalizia, lo aveva annunciato il mese scorso l'arcivescovo Angelo Becciu, «sostituto» della Segreteria di Stato e quindi vice del cardinale Tarcisio Bertone, uno dei bersagli principali dei «corvi». Il governo vaticano, dai cui stessi uffici sono trapelati molti documenti, aveva già disposto due livelli di indagine: «A livello penale è condotta dal Promotore di giustizia del Tribunale vaticano e a livello amministrativo è svolta dalla stessa Segreteria di Stato». Il «terzo livello», la «commissione superiore» guidata dal porporato spagnolo, potrà attingere anche al loro lavoro e risponderà direttamente a Benedetto XVI.
La scelta del Papa, del resto, è significativa. Il cardinale Herranz, considerato tra i «grandi elettori» dell'ultimo conclave, ha presieduto il pontificio Consiglio per i testi legislativi e guidato tra l'altro la commissione disciplinare della Curia. Figlio di un medico, nato 82 anni fa nella diocesi di Cordoba, a Baena, è membro dell'Opus Dei dal 1949, quando studiava medicina a Madrid (si specializzò in psichiatria) prima degli studi teologici a Roma. Conosce la Curia romana da più di mezzo secolo: fu chiamato nel 1960 e durante il Concilio collaborò tra l'altro alla commissione che preparò il decreto «Presbyterorum Ordinis» sulla responsabilità (compresa l'«unione fraterna») dei sacerdoti.
È insomma uno dei cardinali più influenti, al quale le «voci» vaticane avevano attribuito, durante la riunione pre-concistoro di febbraio, una forte preoccupazione sul governo della Curia. Lui, riservatissimo, non replicò: ma trapelò un certo fastidio perché, fece sapere, in realtà al concistoro non era intervenuto. Di certo Herranz è preoccupato della situazione. Chi lo conosce bene lo descrive come un uomo di grande spiritualità e rigore e di grande fermezza. Non una «pasta frolla», insomma. La sensazione, Oltretevere, è che per i «corvi» e per chi ha mancato nei controlli si preparino tempi difficili. Come disse il cardinale nel 2005, in un'intervista al vaticanista Marco Politi: “Gli uomini, come Gesù Cristo che era vero uomo, hanno anche necessità di prendere atteggiamenti forti. Cristo ha cacciato i mercanti dal tempio, eppure era un esempio di mansuetudine».

l’Unità 26.4.12
Intervista a Faouzi Lamdaoui
«Hollande all’Eliseo, la vera posta in gioco  è l’uscita dalla crisi»
di Umberto De Giovannangeli


Il capo dello staff presidenziale «François non ammazza i mercati, ma non è neanche il loro servitore. La crescita? Sarà l’obiettivo comune dell’Europa Gli elettori di Le Pen? Vogliamo che tornino dalla parte del progresso»

Assieme al «vecchio» Serge Moscovici, è l’ideatore della campagna elettorale di François Hollande: lo segue come un’ombra, ne determina gli incontri, ne seleziona le uscite mediatiche. Per questo Faouzi Lamdaoui, 49 anni, già vice segretario nazionale del Ps e oggi capo dello staff presidenziale del candidato socialista all’Eliseo, è la persona più indicata per raccontare, «dal vivo», una campagna che, dice a l’Unità, «può portare al cambiamento in Francia e porre le basi per la fine del ciclo conservatore in Europa». A chi, dentro e fuori la Francia, dipinge Hollande come un «ammazza-mercati», Lamdaoui risponde tagliente: «È una ridicola caricatura. François sa bene l’importanza dei mercati e della finanza, ma al tempo stesso non crede che il loro sia il Verbo a cui la politica debba accondiscendere sempre e comunque. Tra politica e mercato deve esistere un rapporto dialettico, e l’attuazione di un programma fondato su principi di equità fiscale e di giustizia sociale, non è contro il mercato ma al contrario permette di coniugare rigore e crescita. Hollande non “ammazza i mercati” ma non intende essere neanche un loro servitore. Ciò significa, ad esempio, «riorientare» il Fiscal compact (il patto sulla disciplina di bilancio su cui si sono impegnati 25 dei 27 Paesi dell'Ue, ndr) con misure che favoriscano la crescita, con la convinzione che un accordo basato solo sulla disciplina di bilancio è un accordo che porterà alla rovina l'Europa. Quello della crescita deve divenire un obiettivo comune dell’Europa, e in questa direzione si muoverà da subito Hollande se sarà presidente. A parole tutti i leader europei si dicono d’accordo ma occorre trasformare le parole in atti conseguenti, e il primo banco di prova è una revisione del Fiscal compact, partendo, ad esempio, con gli eurobond».
Di origini algerine. Lamdaoui è anche il segretario nazionale del Ps per le pari opportunità: «La lotta contro ogni forma di discriminazione sarà una delle priorità di una presidenza Hollande. La Costituzione francese non fa distinzione tra i cittadini in base alla loro religione o alla loro etnia, ma la realtà, di fatto, è diversa. Ogni giorno c'è discriminazione sociale sia nel settore pubblico che in quello privato, e ci sono pratiche “coloniali” da parte della estrema destra: riteniamo che per farla finita con queste idee e per stabilire il principio di uguaglianza, si debbano affrontare i veri problemi, concependo la multietnicità come un valore e non come un peso nella crescita democratica della comunità nazionale. Un discorso che vale per la Francia come per l’Europa. La disponibilità manifestata da Hollande ad una revisione costituzionale per dare il voto agli stranieri extracomunitari nelle elezioni locali va nella direzione dell’integrazione e di un’estensione oculata del concetto di cittadinanza, fondato su diritti e doveri condivisi».
I media internazionali stanno dando molto risalto al voto francese. È solo rispetto per la “grandeur” francese? «Direi proprio di no. Certo, c’è la consapevolezza che la Francia è uno dei “motori” dell’Europa, membro permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu, insomma è un Paese che conta sullo scenario internazionale. Stavolta, però, c’è molto di più. A spiegare questo interesse è la comprensione della posta in gioco».
Quale sarebbe questa “posta”?
«Non è soltanto quella di determinare un’alternativa politica alla guida della Francia. La vera, grande, posta in gioco è la possibilità di attuare un programma di governo utile a superare la crisi economica. Fin dall’inizio, Hollande si è presentato come uno statista che mira al cambiamento e non alla gestione dell’esistente, consapevole dell’importanza del mercato ma non subalterno alle sue logiche né sottomesso ai suoi voleri. Al tempo stesso, ha mostrato di essere un politico che intende unire e non dividere la sinistra. Questo impegno è sempre valido. Ma in questo ballottaggio non ci saranno negoziati con gli altri partiti della gauche».
Da capo dello staff presidenziale, lei è forse la persona più indicata per rispondere a questa domanda: che campagna elettorale è quella che sta conducendo Hollande?
«Molto faticosa direi (sorride). Una campagna che unisce modernità e tradizione...».
Vale a dire?
«La modernità è nell’uso dei nuovi mezzi di comunicazione che permettono di raggiungere e interloquire con tantissime persone, soprattutto giovani: Twitter, Facebook... Al tempo stesso, Hollande resta un politico “vecchio stampo”, nel senso positivo del termine: fortemente legato al territorio, profondamente convinto dell’importanza del rapporto diretto con le persone da cui trarre preziose indicazioni di lavoro. Nella sua campagna, comizi e web non sono in alternativa, ma tendono a integrarsi».
Mancano dieci giorni al momento della verità. Sia Hollande che Sarkozy provano a conquistare quella parte dell’elettorato che nel primo turno si è orientata verso Le Pen. Ha fatto molto scalpore l’affermazione di Hollande, secondo cui una parte di coloro che hanno votato Le Pen al primo turno può tornare a riconoscersi nella gauche. Solo tattica o c’è dell’altro?
«C’è molto d’altro. C’è la convinzione che la sinistra debba dare uno sbocco positivo a quella rabbia sociale che ha spinto molti elettori a un voto di protesta indirizattosi verso la Le Pen. Quella rabbia sociale non va interpretata come un’adesione ideologica alle posizioni estremiste del Front national, in particolare sul tema dell’immigrazione. Hollande ha usato parole chiare, che delineano un impegno oggi da candidato, domani, speriamo, da presidente: far sì che questi elettori, questi francesi, tornino a schierarsi, dalla parte del progresso, dell’uguaglianza, del cambiamento, dello sforzo comune e della giustizia contro i privilegi, la globalizzazione finanziaria e un'Europa debole: per Hollande è un impegno d’onore».

il Fatto 26.4.12
Hollande, svolta a sinistra
Addio centro, per il ballottaggio s’inseguono le estreme Il socialista: “Voto agli immigrati e ritiro immediato da Kabul”
di Gianni Marsilli


Parigi La sterzata a destra di Nicolas Sarkozy si accentua ogni giorno di più, il suo linguaggio ricalca quello di Marine Le Pen, le sue proposte quelle del Fronte nazionale, anche se annuncia che non ci saranno accordi con i lepenisti per il ballottaggio. Per cominciare, il tema dell’immigrazione è tornato al centro dei suoi infiammati discorsi. Non solo intende “combattere l’immigrazione illegale e legale” riducendo della metà i nuovi arrivi, ma, esattamente come Marine e suo padre, dipinge i lavoratori stranieri alla stregua di zavorra parassita: “Se non controlliamo l’immigrazione, la prima conseguenza sarà l’aggravamento del deficit dei nostri regimi sociali”, sanità e pensioni su tutti.
BALLA colossale, ma tutto fa brodo per attirarsi le simpatie degli elettori lepenisti. Tonitruante e senza freni, Sarkozy non esita a dire cose contraddittorie rispetto al pensiero e all’azione del suo stesso governo. È il caso di un altro cavallo di battaglia del Fronte lepenista, la “preferenza nazionale”, o “i francesi innanzitutto”, per quanto concerne ogni forma di prestazione sociale: sanità, lavoro, alloggio. Ecco che cosa ne pensava, non più tardi di martedì, il ministro Bruno Le Maire: “Noi crediamo alla nazione, noi crediamo alla responsabilità... ma non si tratta certo di introdurre la preferenza nazionale. Ci sono dei limiti che la nostra famiglia politica non oltrepasserà”. Ed ecco le parole di Sarkozy ieri, a ventiquattr’ore di distanza: “Io sono per la preferenza comunitaria, ma non vedo perché non si possa essere per la preferenza nazionale”. Ha smentito uno dei suoi più stretti collaboratori (Le Maire ha redatto il suo programma presidenziale), ma soprattutto ha sdoganato di botto uno degli slogan più odiosi del lepenismo.
Tra i primi a insorgere è stato François Bayrou, il leader centrista detentore del 9 per cento dei consensi al primo turno: “Sarkozy si allinea a Marine Le Pen, svende i valori repubblicani”. Martedì, del resto, il presidente uscente aveva concesso a Marine Le Pen, senza che nessuno glielo chiedesse, un nuovo statuto: “È compatibile con la Repubblica”, aveva detto. Ieri ha precisato: “Se partecipa alle elezioni vuol dire che è compatibile. Ciò non significa che bisogna stringere accordi con il Fronte. Non c’è in vista nessun negoziato, nessun ministero per Marine Le Pen e i suoi”. Ma il brevetto di “repubblicana” glie-l’ha concesso, ed è la prima volta che accade da trent’anni a questa parte. Tra uno sproloquio anti-immigrati e l’altro, non poteva mancare l’accusa ai socialisti di voler attuare “regolarizzazioni di massa” una volta al potere, e di voler concedere il diritto di voto ai cittadini extracomunitari.
FRANÇOIS Hollande, che davanti al moltiplicarsi delle provocazioni mantiene una calma ammirevole, ha messo i puntini sulle “i”: “Nessuna regolarizzazione di massa, e per quanto riguarda il diritto di voto agli stranieri extracomunitari è uno degli obiettivi del mio futuro quinquennato, da attuarsi entro il 2014”. Ha poi specificato il socialista Arnaud de Montebourg che si parla di “persone regolarmente residenti sul territorio nazionale, che pagano le tasse e, quando lavorano, i contributi: costoro devono partecipare alla vita locale”, e quindi alle elezioni comunali e regionali. Sarebbe ora: la proposta figurava già nel programma di François Mitterrand nel 1981, ma non se ne è mai fatto nulla. Se l’uno sbraita, l’altro tira dritto. Ieri François Hollande ha assaporato con grande soddisfazione l’invito ai governi a stringere un “patto per la crescita” pronunciato da Mario Draghi, e apprezzato persino da Angela Merkel.
Il candidato socialista, che Sarkozy voleva velleitario e isolato nell’ambito comunitario, comincia a trovare sponde molto importanti, che fino a ieri gli sembravano precluse. Si è anche impegnato a ritirare le truppe francesi dall’Afghanistan, “fin dal giorno dopo la mia elezione”. Alla riconferma di Sarkozy ormai non crede più nessuno, tantomeno nelle capitali europee. I sondaggi condotti dopo il primo turno sono del resto assai unanimi: collocano François Hollande tra il 56 e il 54 per cento, Sarkozy tra il 44 e il 46. Ciò detto, ci sono ancora dieci giorni di campagna elettorale.

l’Unità 26.4.12
Le critiche di Gunter Grass
L’articolo di Marco Rovelli per il suo articolo in difesa di Gunter Grass mi è dispiaciuto moltissimo. Grass e molti altri come lui sono antisemiti, non hanno il coraggio di dirlo apertamente e così dicono male dello stato di Israele, dimenticando che Israele è una democrazia, l'unica in quell'area. Questo non la fa riflettere?
Diana Zingaro

RISPOSTA L'idea per cui tutti quelli che criticano la politica di Israele sono degli antisemiti (un'idea simile a quella di Berlusconi che definiva antitaliani quelli che si opponevano a lui e al suo governo) è un'idea profondamente sbagliata. In Israele si celebrano libere elezioni e si sviluppano dibattiti in cui degli ebrei criticano le posizioni politiche dei governi invocando dei cambiamenti e molti sono nel mondo gli intellettuali ebraici e gli amici sinceri di Israele che non sono d'accordo con le scelte politiche fatte più volte in questi anni. L'amicizia leale è sempre un'amicizia sincera e si confronta con la necessità di criticare apertamente gli errori della persona o delle persone a cui si vuole bene. Per ciò che mi riguarda, ho un profondo amore e un rispetto profondo per il popolo ebreo e per le persecuzioni cui è stato sottoposto per secoli sulla base prima di idee religiose finte e poi di un razzismo insensato ma mi sento ugualmente d'accordo con molte delle osservazioni di Gunter Grass sugli errori che i dirigenti israeliani stanno commettendo. Provocando danni che ricadono sullo stesso popolo che dicono di voler proteggere...

l’Unità 26.4.12
Il capo dell’esercito Benny Gantz: «Gli ayatollah persone razionali»
L’agenzia Bloomberg: «Teheran potrebbe sospendere il programma»
Lui è «il primo soldato di Israele», ossia il Capo di Stato maggiore dell’esercito: il generale Benny Ganz spiega in un’intervista di «non credere che Teheran costruisca la bomba». Cosa si muove sullo scacchiere globale?
di U. D. G.


Cosa unisce la più importante agenzia di stampa economica internazionale e il Capo di stato maggiore di uno dei più agguerriti eserciti al mondo? Presto detto: la convinzione che l’Iran possa arrestare il suo programma nucleare. Primo passaggio, Tel Aviv: i comandi militari israeliani a dispetto dei messaggi della destra che guida il Paese non sono affatto convinti che gli ayatollah vogliano davvero portare a termine la loro ipotetica bomba atomica: superando così un punto di non ritorno. Non si tratta d'indiscrezioni. A esprimere questa posizione accompagnata dal riconoscimento che il regime di Teheran, per estremista che sia, possa avere comportamenti «razionali» è, dalla colonne del giornale Haaretz, il capo di stato maggiore delle forze armate con la stella di Davide, generale Benny Gantz. Il quale, in un’intervista a tutto campo, sembra dare un colpo di freno ai toni allarmati, quasi ultimativi, riecheggiati ancora l’altro ieri sera dal primo ministro Benyamin Netanyahu, ospite sugli schermi della Cnn americana. Non che Gantz sottovaluti in alcun modo il rischio. Al contrario. Dalle sue parole traspare però un atteggiamento di grande circospezione rispetto all’eventualità di uno strike israeliano, e persino un certo spiraglio d’ottimismo sulla possibilità di sciogliere il nodo altrimenti: a patto, beninteso, di non rinfoderare la spada di Damocle di una minaccia militare «credibile» sulla Repubblica Islamica.
«L'Iran afferma Gantz sta procedendo passo dopo passo per raggiungere il punto in cui potrà decidere, volendo, di produrre un'arma atomica». E tuttavia aggiunge «ancora non ha deciso di percorrere il “miglio finale”... Se lo facesse commetterebbe un errore madornale. Ma io non credo voglia imboccare quel miglio».
Il generale più alto in grado dello Stato ebraico motiva il suo scetticismo mai espresso in questi termini dall’attuale leadership di governo israeliana con la convinzione che ai vertici del potere iraniano vi siano «persone molto razionali». Fanatiche nella loro retorica anti-israeliana e negli auspici che l’odiata «entità sionista» sparisca dalle carte geografiche, ma consapevoli a cominciare dalla Guida Suprema, Ali Khamenei che le loro installazioni nucleari sono in fondo vulnerabili.
Per questo, secondo Gantz, l’opzione militare deve restare ben visibile all'orizzonte come «la prima in termini di credibilità». Ma anche come «l’ultima in ordine cronologico». A Netanyahu che alla Cnn ha detto di ritenere che le nuove sanzioni imposte su impulso Usa «stiano mordendo l'economia iraniana, ma non abbastanza» il primo soldato del Paese replica indirettamente che a suo parere la pressione diplomatica ed economica su Teheran «sta cominciando a dare frutti». Morale: lasciando l’opzione militare «sul tavolo» come extrema ratio.
CRESCE L’OTTIMISMO
Da Tel Aviv a Washington. L’Iran starebbe valutando di sospendere il proprio programma nucleare e permettere più severe ispezioni dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea). Lo riporta l'agenzia Bloomberg. Teheran farebbe questo in cambio di una revoca delle sanzioni petrolifere. La fonte di Bloomberg è l'ambasciatore iraniano a Mosca. «Dobbiamo valutare questa proposta e vedere su quali basi è stata formulata», ha spiegato all'agenzia Mahmoud Reza Sajjadi, nel corso di un'intervista all'ambasciata di Teheran nella capitale russa, riferendosi al piano russo presentato la scorsa settimana dal vice ministro degli esteri Sergei Ryabkov. Adeguandosi a questo, la Repubblica islamica sarebbe in grado di evitare l'embargo sul petrolio che entrerà in vigore a luglio.
L'Iran, ha aggiunto Sajjadi, manterrebbe il suo diritto di produrre energia nucleare, ma sarebbe pronto a firmare un protocollo aggiuntivo al Trattato di non proliferazione nucleare con cui consentire controlli più numerosi e più duri dell’Aiea sul proprio territorio. Una volta firmato il piano russo, l’Iran non costruirà nuove centrifughe, usate per arricchire l’uranio, e non metterà in funzione quelle che sono già state mese i piedi. «A quel punto», aveva spiegato Ryabkov al termine dei negoziati di Istanbul tra Teheran e il 5+1, i primi tra le parti dopo 15 mesi, «nell'ambito di un percorso graduale, sarà annunciata la revoca delle sanzioni».

l’Unità 26.4.12
Il Land pubblicherà per gli studenti una «versione critica» del libro di Hitler
Nel 2015 decadranno i diritti sul lascito del Führer: «Giochiamo d’anticipo»
Ultime dalla Baviera «Mein Kampf» sui banchi di scuola
di Roberto Brunelli


Dicono che lo fanno per «demistificare» quella che è la Bibbia del nazismo. L’idea è del governo bavarese: pubblicare un’edizione commentata, prima che si liberalizzino i diritti. Seguiranno un e-book e un audiolibro.

È l’ultimo paradosso tedesco. Virtualmente bandito dalla terra per oltre sessant’anni e apparso tutt’al più come oggetto di culto nelle biblioteche dei neonazisti più sfegatati sparsi ai quattro angoli d’Europa il Mein Kampf ricomparirà nel 2015 sui banchi di scuola. Un paradosso doloroso, per certi versi addirittura bizzarro, che nasce nel Land della Baviera, governato dalla Csu, il partito fratello della Cdu di Angela Merkel. Un paradosso che probabilmente si trascinerà dietro una lunga scia di polemiche, che riapriranno squarci profondi nel rapporto molto complesso che la Germania ha con il proprio passato. L’idea sarebbe di far uscire una nuova edizione commentata del «libro-base» del pensiero nazional-socialista (redatto febbrilmente da Adolf Hitler a cominciare dal 1923 mentre era detenuto nella fortezza di Landsberg) fra tre anni, quando i diritti sul testo non saranno più di pertinenza dello Stato bavarese. Che è detentore esclusivo (a parte le potenze liberatrici Usa e Gran Bretagna) dei diritti del Mein Kampf, nonché di quelli su ogni altro lascito del Führer: questo semplicemente perché Hitler fino all’ultimo risultava residente a Monaco.
GIOCARE CON LA STORIA
Sostiene il ministro delle Finanze bavarese Markus Söder, che l’intento è quello di evitare che, nel momento in cui decadranno i diritti, «si arrivi ad una più forte diffusione del Mein Kampf tra i giovani». In altre parole, la Baviera intenderebbe precedere le tentazioni di quegli editori che volessero lanciare la «Bibbia del nazismo» sul mercato senza troppi scrupoli. Ecco che la Baviera vuole giocare d’anticipo, proponendo ai ragazzi delle scuole la versione critica del feroce testo hitleriano, in cui il futuro Führer sviluppò i pilastri della sua «teoria delle razze», a partire dall’idea degli ariani quali fondatori della cultura umana, messi a confronto con gli ebrei, colpevoli di ogni nefandezza immaginabile.
I lavori di commento storico sarebbero già ad uno stadio avanzato, assicura Söder. Ritiene, il signor ministro, che si possa «demistificare» il testo: «Vogliamo che in tutte le edizioni siano espresse chiaramente le enormi assurdità contenute nel testo, che hanno provocato conseguenze fatali». Il progetto consisterebbe nel realizzare un’edizione nel quale il commento critico sia incisivo e «facilmente comprensibile» per i giovani studenti.
Finora la Baviera ha sempre rifutato le richieste di pubblicazione di edizioni non commentate, né ha esitato a procedere per le vie legali in casi controversi come quello dell’editore britannico Peter McGee, che voleva pubblicare in una
collana storica alcuni estratti del libro. La questione certo non è solo di pertinenza degli storici e del ministero della pubblica istruzione, in un Paese in cui oggi le ramificazioni del neonazismo militante assurgono quasi ogni giorno agli onori della cronaca, occupando a tempo pieno intere sezioni delle forze dell’ordine. È di ieri la notizia di un ennesimo raid della polizia, che ha perquisito le case di 18 presunti sostenitori dell’estrema destra nel Nord-Reno Westfalia. Oltre cento agenti hanno messo sottosopra venti abitazioni in diverse parti del Land. È invece dell’anno scorso la scoperta di una rete del terrore neonazista diventata celebre per gli «omicidi del kebab», ossia l’uccisione di nove immigrati tra il 2000 e il 2006. Nell’occasione si era parlato a vario titolo anche dell’opaco ruolo dei servizi segreti, considerati nel migliore dei casi eccessivamente «distratti» nei confronti dell’emergente terrore nero.
Com’è come non è, la Baviera procede con decisione per la propria strada. Lunedì il ministro alla ricerca scientifica Wolfgang Heubisch, del partito liberale, ha annunciato che verrà messa sul mercato anche un’altra versione del volume hitleriano: anch’essa ovviamente condita di apposito commento critico, questa volta destinato ad un pubblico adulto, più articolato e di maggiore spessore dal punto di vista storico-scientifico. In via di preparazione pure un e-book, un audiolibro e un’edizione inglese. Praticamente, tutta la gamma editoriale disponibile, sempre a cura del Land della Baviera.
Per di più, il deputato della Csu Karl Freller, direttore della Fondazione dei memoriali bavaresi, fa sapere di voler mettere in piedi una sorta di trattativa con editori e librerie in tutto il territorio nazionale, affinché queste «rinuncino volontariamente al commercio e alla diffusione del Mein Kampf, rendendosi disponibili ad offrire ai lettori solo la nuova edizione scientifica».
I più anziani, in Germania, se lo ricordano bene il Mein Kampf. Se non altro, perché a partire dal 1933 anno dell’ascesa del nazismo al potere ogni coppia tedesca lo riceveva in gentil dono al momento del matrimonio. Fino al 1945, il Mein Kampf ha avuto in Germania una diffusione di 9,8 milioni di copie. Anche dopo la guerra, è stato tradotto in sedici lingue ed è stato pubblicato più volte. Mai, che si sappia, era finito sui banchi di scuola.

il Fatto 26.4.12
Argentina. Il caso Repsol e il braccio di ferro con la Spagna
La Kirchner alla prova della prepotenza europea
di Horacio Verbitsky


Nel 2008, quando la Repsol cedette il pacchetto di maggioranza a una società petrolifera russa, Mariano Rajoy disse che solo un Paese da nulla rinuncia al controllo degli approvvigionamenti energetici. Però nella sua qualità di primo ministro del governo spagnolo, non tollera che l’Argentina possa comportarsi in base al medesimo principio e minaccia rappresaglie per la nazionalizzazione dell’Ypf (la principale società petrolifera argentina che Repsol controlla da 13 anni).
L’ESCLUSIONE dell’Argentina dal G-20 altro non è che il sogno di una notte d’estate. Nessuno dei Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) approverebbe questa sanzione contro l’Argentina, che hanno appena invitato a sottoscrivere una dichiarazione del gruppo, nella quale si afferma che non basta la liberalizzazione dei commerci per produrre crescita economica, sviluppo e inclusione sociale. E il Fondo monetario internazionale ha appena chiarito che si tratta di una questione di rapporti bilaterali tanto che alla fine il ministro degli Esteri spagnolo, Garcia Margallo, ha fatto un passo indietro dicendo che tutto dipende dall’ammontare dell’indennizzo a favore di Repsol. Un dato che nessuno può trascurare è che la nazionalizzazione sarà approvata con una maggioranza del 75-80% in entrambi i rami del Congresso, una percentuale che corrisponde, stando ai sondaggi, al parere degli argentini e che basta a rendere improponibile qualsivoglia paragone con il Venezuela di Chavez.
IL GOVERNO ha anche disposto un intervento immediato per fare chiarezza sulla situazione di Repsol, misura questa rivelatasi più che opportuna. L’iniziativa del governo ha permesso di sapere che alcuni dei pochi, ma battaglieri critici della nazionalizzazione erano a libro paga di Repsol, come, ad esempio, il capo di gabinetto del ministro Alberto Fernandez e l’ex ministro per l’Energia, Daniel Montamat. Inoltre è stato possibile accertare le perdite di Repsol su cui la società spagnola manteneva il più stretto riserbo. La presidente Cristina Fernandez de Kirchner non ha avuto peli sulla lingua e alcune sue affermazioni hanno scatenato l’ira degli spagnoli.
Ha detto, ad esempio, che la curva della diminuzione delle riserve e della caduta della produzione dell’Ypf somigliava alla proboscide di un elefante. Ma ancora più chiara è stata sulla questione di fondo: i mancati investimenti di Repsol si sono tradotti per l’Argentina in una bolletta di un miliardo di dollari in importazioni petrolifere, una somma pari quasi al surplus commerciale argentino. “È una politica che porta il Paese indietro di anni”, ha detto Cristina Fernandez de Kirchner. Una situazione intollerabile se si considera che l’Argentina è al terzo posto per riserve di greggio e gas.
La scoperta di queste riserve è merito dei geologi argentini dell’Ypf che hanno utilizzato tecniche modernissime sulla base delle informazioni sismiche disponibili. Queste riserve non sono state minimamente sfruttate da Repsol che, invece di investire in Argentina, ha preferito utilizzare gli utili per investire in altre zone del continente americano e nel Maghreb, proprio a danno dell’Argentina. La Repsol ha comprato l’Ypf nel 1999 per 13 miliardi e 158 milioni di dollari. Da allora si è limitata a monetizzare le riserve già esistenti in modo da percepire dividendi per oltre 13 miliardi e 423 milioni di dollari e ha venduto per tre miliardi e 625 milioni di dollari il 25,5% del pacchetto azionario a un gruppo di avventurieri argentini. Un altro 17,1% lo ha collocato in Borsa ricavandone 2 miliardi e 704 milioni di dollari. Il 57,5% del pacchetto azionario ancora in mano a Repsol varrebbe, secondo Repsol, oltre 10 miliardi di dollari. Quindi in dodici anni Repsol ha incassato utili per 17 miliardi e 767 milioni di dollari.
IL MOMENTO di questa decisione non avrebbe potuto essere più opportuno. Il prezzo del barile ha toccato i 120 dollari e secondo Nuriel Roubini potrebbe aumentare ulteriormente – e anche di molto – se questa estate il presidente Barack Obama in campagna elettorale dovesse usare toni forti nei confronti dell’Iran, così come si augura il governo israeliano. Nessuno sfuggirebbe alla recessione globale provocata da una esplosione dei prezzi petroliferi, ma è comunque chiara a tutti la differenza tra i Paesi che dispongono di riserve di petrolio e Paesi costretti a importare il petrolio dall’estero.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 26.4.12
Il popolo Rom nomade per forza
Il libro di Santino Spinelli ripercorre con ricchezza di documenti la dolorosa storia delle «genti libere». Dalla deportazione dall’India allo sterminio
nei lager nazisti, fino alla diaspora durante le recenti guerre balcaniche
di Marco Rovelli


Nella storia europea non c'è popolo che abbia subito tante persecuzioni come il popolo Rom. Perfino quando ricordiamo lo sterminio nazista, celebriamo solo la Shoah, ma non il Porrajmos, ovvero la «devastazione» dei Rom. Eppure si calcola che furono tra 500 mila e 1 milione e mezzo i Rom sterminati nei lager. Di loro, però, eccedenza costitutiva, scarto inassimilabile perfino nella memoria, non dev'esservi traccia. Ecco allora che un libro come Rom, genti libere di Santino Spinelli (Dalai editore, 17,50 euro) è indispensabile a tessere nuovamente un filo, assegnando un nome, un volto e una storia a un'entità che da sempre viene disconosciuta, manipolata, fatta oggetto di menzogne secolari che hanno dato legittimità alla loro persecuzione.
Il libro di Spinelli, musicista e intellettuale (insegna all'Università di Chieti), ci restituisce anzitutto, con una rilevante mole documentaria, la storia del popolo Rom. Che dall'India del Nord all' inizio dell'XI secolo, dopo le razzie del sultano persiano Mahmud di Ghazni, venne deportato a occidente: e proprio in Persia quelle differenti comunità si diedero il nome «Rom», ovvero «uomo».
Molto interessante il modo in cui Spinelli intreccia la storia dell' esodo dall'India con il divenire della lingua romanì, un itinerario di terre e culture attraversate, che mostra come in tutta evidenza la lingua sia una sedimentazione di esperienze. A cominciare, ad esempio, dalla parola «mare», di cui appunto i Rom fecero per la prima volta esperienza in Persia. Di lì arrivarono nell'Impero bizantino, dove vennero nominati Atsingani (da cui «zingari»), come una setta manichea itinerante con la quale vennero confusi. Il primo modo per non rispettare l'altro è occultarne il nome e l'identità, e proiettargli addosso i nostri fantasmi (così anche «gypsy» e «gitano» vengono da «aegyptianus»).
I Rom erano molto scuri di pelle, e nell'Europa medievale questa era una cosa che spaventava, legata al diavolo. E poi le loro «origini oscure», la lingua misteriosa interpreta-
ta come slang furbesco, i diversi modi di vivere, la pratica delle arti magiche e divinatorie (che li rese invisi alla Chiesa): vennero così banditi da ogni territorio d'Europa.
L'arrivo di queste genti era tanto più inaccettabile nel momento cui si costruivano monarchie nazionali e signorie centralizzate, essendo un elemento di instabilità. Si venne a creare così un circolo vizioso inarrestabile. Nel 1498 l'Imperatore Massimiliano I d'Asburgo emanò un bando: «chiunque può ammazzare e bruciare gli zingari senza commettere reato». In tutta Europa si diffusero misure simili. Una parte consistente di romanì intanto era resa schiava nei principati rumeni, e tale rimase fino alla metà del XIX secolo: anche questo è un altro immenso crimine contro l'umanità che è stato dimenticato, pure in Romania.
IN ITALIA
Un altro capitolo ignoto è l'odierna composizione della popolazione Rom in Italia: su 170mila persone stimate, 60% sono cittadini italiani, prevalentemente stanziali, abitando in case e esercitando svariati mestieri. 30mila sono venuti dalla ex Jugoslavia e 40mila dalla Romania: anch'essi erano, prima delle crisi sociali di quei Paesi, prevalentemente stanziali. Il presunto nomadismo Rom è un'altra violenza esercitata ai loro danni. Chiedete a un Rom se è lui che vuole stare in un campo. Vi risponderà di no. Ma questo elemento di conoscenza, fondamentale per sviluppare una politica basata sui diritti umani, di solito manca ai politici. Molte altre cose che è necessario conoscere ci sono in questo libro (tutta la seconda parte è dedicata agli elementi della cultura romanès: per ciò, leggetelo.

Corriere della Sera 26.4.12
La Francia minaccia l'intervento in Siria
di Lorenzo Cremonesi


La Francia si ripropone tra i massimi sostenitori dell'intervento militare internazionale a garanzia della «primavera araba». L'anno scorso era stata paladina dei blitz Nato in Libia. Ora replica con la Siria. È stato ieri il ministro degli Esteri Alain Juppé a sostenerlo dopo l'incontro con esponenti dell'opposizione siriana al Quay d'Orsay. «Non possiamo accettare di essere presi in giro dal regime di Damasco. Diamo una possibilità alla mediazione Onu. Ma occorre che i 300 osservatori siano attivi sul campo entro due settimane. Se però il regime dovesse continuare a tradire gli impegni, dovremmo allora appellarci all'articolo sette della carta dell'Onu», ha spiegato riferendosi al principio per cui il Consiglio di Sicurezza ha l'autorità per ordinare missioni militari.
La questione è estremamente controversa. Dopo il fallimento della missione degli osservatori Onu (disarmati) in coordinazione con la Lega Araba tra il 26 dicembre e il 28 gennaio scorsi (arrivarono a quota 165 nei momenti di massima attività) il Consiglio di Sicurezza ha nominato l'ex segretario generale Onu Kofi Annan suo inviato speciale in Siria. Questi nelle settimane scorse ha elaborato un piano di pace incentrato sulla necessità del cessate il fuoco e del ritiro dell'esercito lealista dai centri delle violenze. Ma, dopo una prima relativa calma, da alcuni giorni gli scontri sono ripresi gravissimi, specie a Homs e Hama. Il Consiglio di Sicurezza ha nel frattempo approvato l'invio di una nuova missione di osservatori. Al momento però sono solo 10 e dovrebbero diventare 300 entro circa un mese e mezzo. Juppé insiste che si debbano accelerare i tempi e pone come limite massimo il 5 maggio. Le sue dichiarazioni riecheggiano quelle recenti del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton. Ma ostacolo maggiore resta l'opposizione di russi e cinesi, fermi nel porre il veto a qualsiasi intervento militare estero in Siria. Da Mosca criticano le posizioni di Juppé come pesantemente condizionate dalla politica interna francese all'ombra del voto.

Repubblica 26.4.12
"La moglie di Bo Xilai ha confessato l´omicidio dell´uomo d´affari inglese"
Sul Daily Telegraph le soffiate dei Servizi sul giallo di Pechino
di Enrico Franceschini


LONDRA - È una scena che fa rabbrividire. Un uomo d´affari inglese è tenuto prigioniero, legato a una sedia, in una camera d´albergo di una città della Cina. Una donna, una cinese, in piedi davanti a lui, lo costringe a ingerire del cianuro. Lui lo sputa. Lei lo costringe a prenderne dell´altro.
Così sarebbe morto Neil Heiwood, il businessman britannico al centro del giallo che fa tremare Pechino, secondo la prima ricostruzione completa della vicenda, ottenuta dal Daily Telegraph attraverso «fonti diplomatiche», spesso in questi casi un eufemismo per indicare una soffiata dei servizi segreti di Sua Maestà.
La donna che gli somministra il veleno, l´assassina, sarebbe Gu Kailai, stando alla fonte al quotidiano londinese: la moglie di Bo Xilai, il potente governatore della città di Chongqing, membro del comitato centrale del partito comunista cinese che sembrava avviato a una carriera stellare, poi invece epurato a causa dello scandalo. Lui è momentaneamente scomparso dalla circolazione, la moglie è stata arrestata dalle autorità cinesi con l´accusa di omicidio, ma non ci sono ancora incriminazioni formali né una versione ufficiale di quello che è accaduto. Il Telegraph sostiene di avere avuto la sua ricostruzione da una fonte a conoscenza di quanto Wang Lijun, all´epoca del fatto capo della polizia di Chongquing, andò a raccontare prima al consolato americano della vicina città di Chengdu, quindi ad alti responsabili del partito comunista cinese. Dal febbraio scorso gli americani sapevano dunque cosa è successo a Heiwood. Evidentemente hanno passato le informazioni all´intelligence britannica, che ora ha deciso di farle trapelare attraverso la stampa del proprio paese, mentre a Pechino viene data per imminente l´incriminazione di Bo Xilai e della moglie.
Lei, Gu Kailai, era dunque nella stanza d´albergo con Heiwood, attirato in una trappola: la coppia lo voleva a Chongquing per eliminarlo, a causa di un diverbio per affari, forse il progetto di uno shopping center da 80 milioni di dollari su cui l´inglese avrebbe dovuto prendere una percentuale. «Bo Xilai offrì a me lo stesso patto, albergo a cinque stelle, Mercedes con autista, 2 per cento su ogni investimento, in cambio della mia mediazione», dice al Telegraph un altro uomo d´affari occidentale, chiedendo di restare anonimo, «ma sentii che c´erano dei rischi e rifiutai».
Heiwood, che conosceva Bo Xilai da un decennio e aveva già lavorato con lui, invece accetta. Poi qualcosa va storto. Forse c´è di mezzo anche una relazione extraconiugale tra l´inglese e la moglie di Bo Xilai: tanto è vero che è lei ad attirarlo nella camera d´albergo. E infine, dopo averlo avvelenato a forza con il cianuro, è lei a ripetere tre volte a Wang, il capo della polizia della città, come un´ossessa: «Sono stata io, sono stata io, sono stata io».

La Stampa 26.4.12
Il malessere degli economisti al tempo della crisi
Dall’India all’Italia una serie di testi per capire i terremoti finanziari che viviamo
di Mario Deaglio


Due novembre 2011, Università di Harvard. Il professor Greg Mankiw, colonna del pensiero economico ortodosso e autore di diffusissimi manuali di economia, arriva in aula per tenere una lezione del suo corso introduttivo. Ed ecco che un gruppo di studenti si alza e se ne va; il motivo, che spiegano con una lettera, è la «mancanza di imparzialità» del suo insegnamento. Mankiw, che è stato consigliere del presidente George W. Bush ed è ora consigliere del candidato repubblicano Mitt Romney, farebbe apologia del mercato e del capitalismo senza presentare in maniera imparziale le opinioni contrarie.
Un piccolo episodio, si dirà. Piccolo, ma altamente indicativo del malessere che percorre il pensiero economico dall’inizio della crisi. Così come altamente indicativa è stata la difficoltà degli economisti di rispondere alla domanda (fintamente?) ingenua della regina Elisabetta, in visita a un altro tempio del pensiero economico, la London School of Economics. «Se queste cose erano così evidenti», disse la sovrana a un economista che le spiegava il susseguirsi della crisi, «perché nessuno se ne è accorto?»
Una parte della risposta sta nelle statistiche sempre più imprecise e sempre più disinvoltamente corrette, così come imprecise e disinvoltamente corrette sono le previsioni economiche; un’altra nella preparazione troppo teorica degli economisti. Lo denunciano due economisti ortodossi, non americani ma largamente formatisi in America, l’indiano Raghuram Rajan e il turco Dani Rodrik, che stanno acquistando peso proprio grazie alle loro critiche sempre più severe.
«Gli economisti vivono fuori dal mondo reale», ha scritto recentemente Rajan che attribuisce la mancata comprensione della crisi alla specializzazione eccessiva; a Rajan si deve uno dei migliori resoconti della crisi finanziaria (ora tradotto da Einaudi, con il titolo Terremoti finanziari ). Rodrik denuncia, con particolare attenzione al ruolo delle istituzioni, il distacco e le arzigogolature di una professione lontana dalla realtà nel suo più recente libro (tradotto da Laterza con il titolo La globalizzazione intelligente ). In questa fase di ripensamento si colloca il Manifesto degli economisti sgomenti - capire e superare la crisi (pubblicato in Italia da Minimum fax) firmato da oltre settecento economisti, in prevalenza francesi o di formazione francese e focalizzato sull’Europa. Il Manifesto è rivolto soprattutto alle false certezze, agli argomenti avanzati da trent’anni a questa parte per guidare le scelte europee e ormai scalzati dagli avvenimenti.
È quindi ormai inutile negare che un’ala importante dell’edificio trionfale del pensiero economico ortodosso sia crollata o stia crollando sotto i colpi delle cadute di Borsa di Wall Street, della nuova debolezza europea, di una ripresa «fredda» negli Stati Uniti. E studiosi di vario tipo, con impostazioni che spesso non possono esser fatte rientrare nelle tradizionali categorie delle scienze umane, si aggirano qua e là, prendendo dalle macerie chi un mattone chi una finestra per cominciare a mettere assieme almeno un rifugio. E per trovare un’uscita di sicurezza di fronte all’incalzare caotico degli avvenimenti.
Uscita di sicurezza, appunto, è il titolo del più recente libro di Giulio Tremonti, uno degli studiosi che si aggira tra queste macerie intellettuali e uno dei pochi politici italiani che sa tenere la penna in mano. Tremonti può essere considerato personaggio emblematico del rimescolarsi dei ruoli e delle dottrine. È al tempo stesso politico - personaggio di primo piano del Partito della Libertà ma attento alle istanze della Lega - e professore, a cavallo tra il diritto tributario e la scienza delle finanze ma con interessi che spaziano dalla macroeconomia ai problemi geostrategici. La sua azione come ministro dell’Economia lo ha portato a vivere la contraddizione tra la razionalità dell’obiettivo del pareggio del bilancio e l’insostenibilità di lungo periodo dei «tagli orizzontali» che, nella sua azione di governo, ha dovuto imporre soprattutto agli enti locali. E anche a essere acutamente consciodella più ampia contraddizione tra politiche nazionali e finanza globale.
Tremonti procede spesso per intuizioni e abbozzi, con frequenti accostamenti interdisciplinari, una via che fa rabbrividire chi non sa lavorare senza equazioni e si rifugia nella propria specializzazione ma che si ha tutto il diritto di percorrere quando le certezze del sapere economico vacillano. Usa spesso accostamenti fulminanti («mettere la ragione al posto degli spread »), paragoni arditi, come quando paragona la finanza europea a un tipo nuovo di fascismo, il «fascismo finanziario, il fascismo bianco». Certamente siamo di fronte a una retorica pesante, ma c’è in realtà molto di più: siamo indotti a ragionare sulle condizioni in cui questo paragone può essere valido oppure rifiutato.
Il tema di fondo è precisamente quello della «malvagità» della finanza internazionale e del suo scontro con gli Stati nazionali e gli interessi della vita civile. Tale tema si viene sempre più precisando dopo altre due opere di Tremonti, Rischi fatali (Mondadori, 2008) e soprattutto La paura e la speranza (Mondadori, 2009). Tremonti argomenta che la finanza ha cambiato natura e da settore sussidiario dell’attività produttiva si è trasformata, assumendo funzioni globali, contrapponendosi agli Stati e opprimendoli, imponendo loro condotte specifiche di politica economica. Equipara la loro azione a veri e propri colpi di Stato, in conseguenza dei quali in Europa abbiamo, per usare le sue accattivanti contrapposizioni, una crisi vera ma una finta Banca Centrale, una moneta senza Stati ma anche Stati senza moneta, una moneta che non viene governata ma governa essa stessa.
La ricetta per cambiare le cose, l’«uscita di sicurezza», appunto va ricercata nel ritorno della «grande politica», in una nuova alleanza tra popoli e Stati, che metta «lo Stato sopra la finanza e la finanza sotto gli Stati», che imponga quindi regole a un mercato finanziario anarchico, che avvii grandi progetti di investimento pubblico per il bene comune, finanziati con gli Eurobond, un progetto molto caro a Tremonti quando era ministro dell’Economia. Ed è interessante che non venga proposto un programma dettagliato ma solo alcune grandi linee e il lettore venga invitato a «interagire» con questo libro attraverso un sito Internet. Chissà, forse anche in questo modo dalle macerie che hanno travolto la crescita dei Paesi ricchi riusciremo a tirar fuori qualcosa di coerente.

l’Unità 26.4.12
La provocazione:
«Manzoni? Nichilista più che cattolico»
L’ardita tesi viene sostenuta da uno studioso di economia Aldo Spranzi che getta una diversa luce sui «Promessi sposi»
di Roberto Carnero


Uno studioso di economia, Aldo Spranzi, si è occupato dei Promessi sposi, giungendo a sostenere una tesi bizzarra: il testo manzoniano non è un romanzo cattolico, bensì un’opera pervasa di un forte nichilismo anticristiano. Una tesi, paradossalmente, espressa in un volume pubblicato da un editore cattolico, Ares: Alla scoperta dei Promessi sposi (pagine 864, euro 26,00).
Prima di seguire Spranzi, facciamo un piccolo passo indietro. Antonio Gramsci, nel negare l’esistenza, in Italia, di una letteratura «nazional-popolare», affermava che neppure I promessi sposi di Alessandro Manzoni, un libro pure diffuso presso ampi strati della popolazione, potevano rientrare in questa categoria. E scriveva: «I promessi sposi non sono mai stati popolari: sentimentalmente il popolo sentiva Manzoni lontano da sé e il suo libro come un libro di devozione, non come un’epopea popolare». Lo scrittore lombardo – continua l’autore dei Quaderni del carcere – è infatti «troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia voce di Dio: tra il popolo e Dio c’è la chiesa, e Dio non s’incarna nel popolo, ma nella chiesa». Insomma, persino Gramsci attribuisce a Manzoni un’indubbia patente di cattolicità. Manzoni, del resto, è l’autore degli Inni sacri, e nessuno aveva mai messo in dubbio il suo cristianesimo, la sua visione provvidenzialistica della realtà umana e della storia, pur nel dramma derivante dal porsi di fronte al dolore e alle sofferenze dei deboli e dei buoni. La Provvidenza appare infatti forza centrale nelle dinamiche narratologiche dei Promessi sposi.
Eppure Spranzi non ha dubbi: Manzoni non è affatto uno scrittore cattolico e il suo romanzo non veicola per nulla una visione cristiana dell’esistenza; anzi, al contrario, la sua opera e la sua stessa vita trasuderebbero, al di là di un’abile capacità dissimulatoria, un perniciosissimo nichilismo anticristiano. È questa l’idea del docente di Economia dell’arte presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano. Il suo primo libro sull’argomento risale al 1994. Nel frattempo l’autore ha moltiplicato gli studi e ora ne offre una versione sintetica nel volume che abbiamo citato, il quale offre il testo del romanzo manzoniano corredato dalle chiose di Spranzi. Il libro è una sorta di requisitoria contro Manzoni, o, meglio, contro le letture che dell’opera manzoniana sono state offerte nel corso del tempo e che, da parte sia cattolica che marxista, hanno consolidato l’immagine di un Manzoni scrittore devoto. Una visione che Spranzi smonta pezzo per pezzo, a partire dall’analisi dei personaggi e degli episodi più significativi dei Promessi sposi.
Come ha reagito la comunità scientifica di fronte a queste affermazioni inaudite? Gli italianisti hanno accolto con freddezza le tesi di Spranzi, sottolineando alcuni errori nel suo metodo di indagine: ad esempio il fatto di isolare alcune pagine del romanzo di Manzoni e di leggerle fuori contesto; oppure la confusione, nella sua esposizione, tra il concetto di «autore» e quello di «narratore» (due termini che, come dovrebbe sapere qualsiasi studente del primo anno di Lettere, non sono affatto sinonimi).
Lui, per parte sua, si difende, riconoscendo di non essere un critico letterario di professione, ma rivendicando, proprio per questo, una maggiore capacità di leggere il testo, in maniera libera e anticonformista, senza farsi influenzare dalla vulgata ermeneutica e da concetti consolidati ma poco verificabili. A nostro giudizio si tratta certamente di tesi ardite, ma che hanno il merito di provocare una riflessione e di richiamare l’attenzione su un’opera, I promessi sposi, togliendole quella polvere depositatavi da una certa tradizione accademica e scolastica.

Corriere 26.4.12
Murasaki, l'eternità è delle donne
Nel Giappone feudale un mondo femminile elegante e senza tempo
di Pietro Citati

Nel decimo secolo dopo Cristo, quando sul Giappone si estendeva la fiorentissima ed elegantissima civiltà della famiglia Fujiwara, il Paese era diviso in due parti. Da una parte dominava il mondo virile della politica, della feudalità e della burocrazia, dove si parlava esclusivamente cinese. Dall'altra c'era il pettegolo, frivolo e sottile spazio femminile, che parlava e scriveva soltanto giapponese.
La bellezza femminile aveva moltissime forme. Era, in primo luogo, la natura: la sacra natura. Le eleganti dame giapponesi trascinavano con sé i grandi dignitari a osservare la luna, che trapelava dalle nuvole e dalle nebbie: contemplavano i fiori dell'albero di susino, i ciliegi di montagna, gli alberi di pino, le oche selvatiche che attraversavano starnazzando il cielo, la neve folta che d'inverno circondava le case; e luna, fiori di susino, fiori di ciliegio, nuvole, nebbie, neve, oche selvatiche formavano un quadro perfetto, che sembrava composto dalla incontaminata mente umana. Alle dame, la natura non bastava. Volevano creare altre nature. Sulla carta folta e profumata che veniva da lontano, dipingevano coi pennelli poesie squisite: preparavano vesti intonate alla stagione autunnale, o sete trasparenti; e suonavano musica sui diversi strumenti, versando lacrime di commozione. I viaggiatori che giungevano dalla Cina avevano l'impressione che questi oggetti quotidiani avessero un'importanza molto più grande dei sentimenti del cuore; forse non erano altro che i sentimenti del cuore, divenuti musica e pittura.
Vista dalle dame di corte giapponesi, la vita non era altro che una educazione dello spirito. L'amore era l'arte suprema: contemplare una notte di luna, ascoltare il suono di una cetra, riprendere coi versi le immagini e i versi di un'altra poesia, dissolvere la realtà nel sogno e il sogno nella realtà: praticare l'Eros senza parlarne o sfiorandolo appena con le parole. Di una cosa le dame non parlavano mai: l'attività politica apparteneva alle esclusive qualità virili, quelle di cui si parlava soltanto in cinese. Se un evento politico fosse penetrato nel mondo adorato dalle donne, ogni raffinatezza e squisitezza psicologica si sarebbe dissolta. Nei grandi romanzi scritti dalle dame di corte, i cosiddetti monogatari, ogni rovinoso battito del tempo viene cancellato con un rigore ineguagliabile. Passano decenni, trascorrono generazioni, e noi abbiamo l'impressione che siano battiti leggerissimi, o tocchi d'eternità.
Il capolavoro dei romanzi femminili giapponesi è La storia di Genji di Murasaki Shikibu, vissuta nel decimo secolo. È un libro così bello, così complesso, così ramificato, che debbo scusarmi con i miei lettori: qualsiasi cosa possa dire della Storia di Genji, sarà crudelmente elusiva e insufficiente. Non posso che raccomandarne la lettura come potrei raccomandare quella del Sogno della camera rossa o dell'Evgenij Onegin o di Guerra e pace. Della figura di Murasaki Shikibu sappiamo pochissimo. Qualcuno dice: «I giapponesi amano paragonare Murasaki al fiore del susino, perfetto, bianco e immacolato»; oppure: «Di aspetto piacevole ma ritroso, sfuggente, solitario, orgoglioso, amante di romanzi, vanitosa e poetica, era abituata a guardare gli altri dall'alto in basso». Molti anni or sono la casa editrice Einaudi aveva pubblicato la bella e incompleta traduzione di Adriana Motti, desunta da quella inglese di Arthur Waley. L'edizione che sta per uscire (sempre da Einaudi) ha il vantaggio di essere tradotta direttamente dal giapponese, e di essere accompagnata da un ricco apparato di note, che commentano specialmente le bellissime poesie, che ora i personaggi improvvisano, ora scrivono con la loro incantevole calligrafia.
Nel cuore di questo romanzo della bellezza sta il principe Genji, sovranamente bello e affascinante, che appartiene alla famiglia imperiale. Decine di imperatrici, di principesse, di grandi e di piccole dame frequentano il suo letto, che le accoglie con infinita dolcezza e una specie di candore e quasi di noncuranza. Genji non ha nulla del don Giovanni o del libertino: assomiglia piuttosto a un androgino; «Era così bello che si poteva quasi desiderare di vederlo in vesti femminili». Qualsiasi cosa dica o faccia, una parola lo accompagna di continuo: «inquietante». Ma perché è inquietante? Per l'alone quasi eccessivo di fascino, di dolcezza e di candore, che lo avvolge? «La sua bellezza — commenta la Murasaki — rende quasi impossibile distoglierne lo sguardo». Genji è inquietante sopratutto per il suo rapporto con gli altri mondi: da un lato le remote vite precedenti incombono su di lui, dall'altro il futuro egualmente remoto e infine, attimo dopo attimo, l'aldilà vorrebbe suggerlo e trascinarlo nel suo spazio.
Se ama le donne, non lo fa mai con eccesso, ma piuttosto con una tenerissima compassione. Le ama perché vede riflessa in loro una parte di se stesso: l'effimero, il fragile, il vano, il fuggiasco; qualcosa che è insieme simile «alla rugiada del mattino» e «alle erbe galleggianti sull'acqua». Così insegue in loro questo lato profondo della propria natura. Apre loro le proprie braccia: esse vi si tuffano, sempre più affascinate e innamorate; e mentre le figure si moltiplicano, un impulso spinge a dissolvere in una morbidissima nebbia tutte le sensazioni, tutti i sentimenti, tutti i pensieri, tutti i colori.
L'esistenza di Genji è percorsa da un grande fiume d'amore incestuoso. Quando è ancora bambino, la madre, concubina imperiale, muore, e Genji non saprà mai vincere il desiderio, la nostalgia, il rimpianto verso la sua figura malinconica. Per tutta la vita, non farà che cercare riflessi e prolungamenti di quell'ombra scomparsa. Appena conosce la principessa del Padiglione del Glicine, destinata a diventare imperatrice, vi trova l'eco della madre: una profondissima somiglianza; vive vicino a lei, ne ha un figlio, sebbene poi l'imperatrice lo rifiuti e lo allontani; mentre Murasaki avvolge d'ombra quest'impossibile nostalgia amorosa per la donna unica. Infine, conosce una bambina, in cui ritrova i lineamenti e l'alone della madre e della principessa. La educa, la coltiva: le insegna a dipingere, a scrivere, a suonare la cetra, a rispondere in versi: ama in lei la bambina e la ragazza che, a poco a poco, sta diventando donna; e vince i suoi primi rifiuti. «Alla luce della lampada — scrive la Murasaki — il suo profilo e i suoi capelli la facevano sempre più assomigliare alla principessa che tanti anni prima aveva preso il suo cuore». «Era quasi impossibile pensare — insiste — che si trattasse di due persone diverse». Alla fine, Genji sposa l'adolescente, carica di echi e di ricordi, e le dà il nome di Murasaki, lo stesso nome della misteriosa romanziera.
Se ama due volte il riflesso della medesima donna, Genji non potrà vivere che di riflessi. Non contempla mai, diritta davanti a sé, l'immensa vastità e varietà dell'orizzonte: guarda di scorcio, attraverso grate, tende, finestre velate, che nascondono la realtà delle cose: guarda le immagini negli specchi; e tende a ignorare la luce del sole, perché la sola vera luce, per lui, è quella riflessa della luna, che appare e scompare, e di nuovo riappare e riscompare, tra le frange umide della bruma serale e nel tramonto morbido della notte. Questo è il mondo di Genji. Ma sembra che i riflessi non abbiano forza. Da tutte le parti si avanza la nostalgia, lo strazio, le lacrime, che bagnano le vaste maniche dei chimoni; e sopratutto l'immensa Malinconia, il cui nome viene ripetuto incessantemente, come se fosse l'unica sostanza del mondo immaginario e reale.
Il libro: Shikibu Murasaki, «La storia di Genji», I millenni Einaudi, pagine LVI - 1440 90, a cura di Maria Teresa Orsi, illustrazioni di Yamaguchi Itaro. In libreria da lunedì

La Stampa TuttoScienze 26.4.12
Avvistato il fermione teorizzato da Majorana


Avvistati» per la prima volta i fermioni di Majorana, teorizzati dal celebre fisico italiano nel 1937: il risultato, descritto su «Science», si deve a un team della Delft University of Technology nei Paesi Bassi. Queste particelle elusive, a differenza di altre, non hanno una controparte nell’antimateria: sono esse stesse il proprio opposto. Grazie a questa caratteristica, che permette loro di «ricordare» la posizione precedente quando si spostano, potrebbero essere molto utili per trasportare informazioni nei futuri computer quantistici. Al momento le particelle non sono state osservate direttamente, ma la loro esistenza è stata dedotta grazie a un dispositivo basato su un semiconduttore stimolato da un campo magnetico.

La Stampa TuttoScienze 26.4.12
In uno strato geologico il segreto del Cambriano


È considerato l’evento evolutivo più importante di sempre e ha improvvisamente riempito gli oceani di 600 milioni di anni fa con gli antenati di quasi tutti gli animali in vita sulla Terra oggi: l’esplosione del Cambriano, una diversificazione delle forme biologiche senza precedenti e avvenuta in tempi relativamente brevi, ha da sempre affascinato gli scienziati. Ora una nuova ricerca, pubblicata su «Nature», indica che la causa di questo evento-chiave è probabilmente di tipo geologico. «Esiste uno strato geologico particolarmente unico, chiamato “Great Unconformity” (grande discrepanza), che separa le rocce vulcaniche più antiche dai sedimenti recenti», ha spiegato Shanan Peters, geoscienziato della University of Wisconsin a Madison, Stati Uniti, che ha condotto lo studio. «E proprio la “Great Unconformity” - ha aggiunto - deve aver avuto un significativo impatto sulla vita di 600 milioni di anni fa». La sua teoria è che la grande quantità di materiale di erosione proveniente da questo strato in formazione avrebbe spinto gli organismi viventi a evolvere la «biomineralizzazione», vale a dire la capacità di sfruttare i minerali presenti nell’ambiente per creare strutture come i gusci di carbonato di calcio e silice. «L’esplosione del Cambriano, in effetti, è famosa per gli invertebrati con gusci di vario tipo: questi ultimi furono prodotti per reagire alla grande quantità di ioni liberati».

La Stampa TuttoScienze 26.4.12
Misteri
Una settimana di otto giorni celata negli anelli concentrici
di Cinzia Di Cianni


Nel 1902, dalla torbiera di Trundholm, nell'isola danese di Sjælland, emerse un manufatto bronzeo, noto come Solvognen, ora esposto al Museo Nazionale di Copenaghen. Una figurina stilizzata di cavallo traina un disco decorato: entrambi sono posti su un carro, dotato di sei ruote a quattro raggi, lungo 60 cm. Solo una faccia del disco, larga 25, è coperta da una patina dorata, forse in omaggio alla credenza norrena secondo la quale durante il giorno il Sole era trasportato nel cielo da Est a Ovest, mostrando il suo volto luminoso alla Terra, mentre di notte ripeteva il viaggio in senso inverso.
L'oggetto, realizzato con la tecnica della fusione a cera persa e sepolto in un tumulo intorno al XV secolo a. C., è eccezionale sotto molti aspetti. Prima di tutto si credeva che nel Nord Europa i carri con ruote a raggi fossero diffusi solo dall'età del Ferro, quindi dal VI secolo a. C. Poi, la fattura del disco sembra nascondere un enigma matematico. Le due facce sono punzonate con motivi di spirali e piccoli cerchi disposti su anelli concentrici che nel 2010 furono interpretati dall'archeologo danese Klavs Randsborg come un calendario lunare: lui suppone che spirali e cerchi rappresentino i giorni, mentre l'anello che li contiene fornisce il fattore di moltiplicazione. Il tutto dà una somma di 177, che equivale ai giorni che compongono un ciclo di sei mesi sinodici. Il mese sinodico è il tempo che intercorre tra due noviluni.
Ma Amelia Carolina Sparavigna, ricercatrice presso il dipartimento di Fisica al Politecnico di Torino, propone sul sito arXiv.org. un'interpretazione diversa e affascinante: gli otto cerchi concentrici del primo anello rappresenterebbero i giorni della settimana, mentre i due anelli esterni, contenenti rispettivamente 20 e 25 cerchi, indicherebbero le settimane presenti in un anno. «Se facciamo iniziare l'anno col solstizio d'inverno - precisa Sparavigna - i due gruppi potrebbero rappresentare stagioni diverse: in quella più breve regna un “Sole giovane”, che in quella più lunga matura e invecchia».
Moltiplicando otto giorni per 45 settimane, si ottiene un anno di 360 giorni, come quello adottato nell'antico Egitto. Da notare che anche i Romani avevano ereditato dagli Etruschi una settimana di otto giorni, chiamata ciclo nundinale, che regolava i giorni di mercato, le cosiddette nùndine. Secondo la ricercatrice, che è un'appassionata di simmetrie, è anche possibile che il disco Trundholm contenga un calendario a due cicli, con settimane di otto e sette giorni. Ma, soprattutto, la distribuzione di cerchi e spirali indica che «l'artefice conosceva le regole della simmetria e possedeva buone nozioni di geometria, che comprendevano la bisezione degli angoli. Se si aggiunge una conoscenza astronomica, come un riferimento polare, possiamo senz'altro pensare a un raffinato calendario».

l’Unità 26.4.12
Pedalare sicuri
Bici, sabato in piazza per salvarci dalle auto
di Flore Murard Yovanovitch


Mancano due giorni alla manifestazione #salvaiciclisti del 28 aprile. Sì, forse la campagna non è stata “lanciata” con gli strumenti classici della comunicazione delle Pr, perché è campagna spontanea, neonata, cresciuta in due mesi grazie ad un gruppo di folli volontari. Ma quei cittadini “svegli” che sentono l’esigenza di altro, di un nuovo, l’avranno capito. Il 28 aprile, la manifestazione ai Fori Imperiali non riguarda la categoria ciclistica né è un capriccio di neo-hippy nostalgici. Riguarda ogni cittadino che voglia riapproriarsi della città, strapparla al blocco e al dominio della macchina. È l’esigenza di non venire ammazzati per le strade (come è appena successo a Laura Ciccone, uccisa in bici, ad Alice, Eva... la lista è troppo lunga e morbosa), in un anacronistico scandalo etico. Dal palco nomineremo le nostre vittime ma anche Massimo Cibelli, licenziato dal suo bar perché “allontanato” dal posto di lavoro per soccorrere e salvare un ciclista investito da una Citroen. A questa follia, #salvaiciclisti decreta la fine definitiva e la svolta storica. Noi il 28 saremo insieme pedoni e ciclisti, per chiedere alla politica di agire. Le promesse non funzionano più, né le adesioni di facciata come ci arrivano a valanga queste ore; le rifiutiamo perché chiediamo impegno sincero e azioni concrete per la mobilità ciclistica. Un’evidenza che ai bambini non è necessario spiegare: la bicicletta non inquina, è a costo e impatto zero zero, è il mezzo adatto alla crisi.
Il 28 siete liberi di venire a piedi, coi pattini o col monopattino, con lo skateboard, sui trampoli, col passeggino o il risciò. Col veicolo che volete (basta che non sia a motore) ma venite perché riguarda il vostro ambiente e il vostro stile di vita. Per una convivenza nonviolenta e la mobilità di tutti. #salvaiciclisti è anche un’esperienza, tra altre, di cittadinanza nuova, come ne nascono decine nel mondo per marcare la fine delle gerarchie politiche vuote: riappropriazione del bene comune, reazione di cittadini di fronte alla indifferenza di molti politici, auto gestione e promozione delle riforme necessarie. Le disegnamo noi le piste ciclabili assenti. Cittadini non rassegnati e con la fantasia. Lavoratori che scelgono il flusso-libero. Una pedalata che risolve enormi problemi eco-ambientali e in sella, ormai, si va più veloce della macchina. Perché essa, da progresso, come dimostrava Ivan Illich più di 40 anni fa, è diventata incubo: bolide che ti viene addosso sulle strisce, ti annulla e ti domina, perché la società ha ceduto quel «potere di morte». Come spiegare altrimenti la tollerenza passiva verso i suv sopra i marciapiedi e gli attacchi deliranti a chi va in bici? Per non parlare degli insulti che arrivano se sei donna e ciclista... Perché tutto quello che è vitalità, libertà e immagine femminile, viene odiato in questo Paese vecchio dominato dal maschio prepotente e dall’acceleratore facile.
Il 28, noi usciamo allo scoperto per rivendicare il diritto a pedalare allegri, spensierati e protetti. Il nostro “portavoce” si chiama «Pio la Bici», un bambino che gira libero, perché è il futuro, è bimbo e speriamo che andrà in bicicletta.
La bici-rivoluzione è in cammino. Ma pochi in Italia, fino ad due mesi fa, ci avrebbero scommesso. La bici non è utopia, è cambiamento concreto in grado di ridarci una città-respiro, incontro e rapporto, una città-bambina per rivoluzionare i rapporti umani. Un sogno possibile, a portata di pedali. Tocca voi, se decidete di salire in sella.