venerdì 27 aprile 2012

l’Unità 27.4.12
Bersani: «Grillo non si permetta di dire cosa farebbero i partigiani»
Dura polemica fra il comico genovese e i partiti che lo sfidano al confronto sul terreno della politica

Botta e risposta anche con Di Pietro. E intanto alla Camera si definisce la road map delle riforme
di M. Ze.


Mentre Beppe Grillo spopola nei Tg e conquista spazio nel giorno della Liberazione attaccando direttamente il presidente della Repubblica ed evocando a sproposito i partigiani, i partiti, dal Pd, all’Udc all’Idv (con moderazione), prendono le distanze dal comico prestato al Movimento a Cinque Stelle.
«Ieri il presidente Napolitano dice il segretario del Pd Bersani durante una conferenza stampa a Como ha detto cose puntuali e serissime. Grillo ha risposto con insulti: non si permetta, e non si azzardi a dire cosa direbbero se tornassero i partigiani, che saprebbero cosa dire dell’uomo qualunque». Il comico genovese aveva tirato in ballo i partigiani affermando che oggi, davanti all’attuale crisi politica, «forse riprenderebbero in mano la mitraglia», frase pronunciata durante le celebrazioni del 25 aprile, in coerenza con lo stile oratorio a cui ha abituato il suo popolo.
I PARTIGIANI E LA POLITICA
«I partigiani replica Bersani ci hanno dato una democrazia, una Costituzione che comprende l’articolo 49, quindi i partiti, che devono ripulirsi perché così non va, ma che sono un’ossatura della democrazia». «Attenzione: aggiungenon cederemo a qualunquismi non per noi ma per l’Italia, che non può avere un futuro cercando scorciatoie. Bisogna riforma la politica nel solco della Costituzione». L’ultimo riferimento a Grillo ha tutto il sapore di una provocazione: spieghi, chiede Bersani, perché «non è candidabile, mentre il presidente Napolitano lo sarebbe da domani. Ci spieghi perché, prima di sparare insulti».
Anche Pier Ferdinando Casini sfida Grillo sul terreno della politica: «Piuttosto che fuori, meglio che Grillo sia dentro il Parlamento, così si dovrà confrontare, non con le paro-
le, ma con i fatti. È capitato ad altri movimenti politici di arrivare con grandi aspettative e poi dover fare i conti con la realtà». Sul filo le dichiarazioni di Antonio Di Pietro, la cui sintonia con il comico resta agli atti e ha il suo peso. Prende le distanze, ma solo un po’, dicendo che la differenza tra lui e Grillo è una sola: «Io critico ma voglio costruire un’alternativa, lanciare un modello riformista e legalitario. Lui invece mira a sfasciare tutto e basta». Ci resta male il comico e fa sapere che mai si sarebbe aspettato una cosa così dal leader Idv. «Caro Beppe tranquillizza Di Pietro te l’ho detto e te lo ripeto: non cadere nel trabocchetto di chi ci vuole mettere uno contro l’altro». Pace fatta?
LA SFIDA DELLE RIFORME
Se Grillo soffia sul fuoco dell’antipolitica e cresce nei sondaggi, ai partiti resta il compito non faciledi riconquistare il terreno perduto tra gli elettori e di riavvicinare l’opinione pubblica, restituendo la credibilità persa e la fiducia messe a durissima prova anche dagli ultimi scandali che hanno travolto i tesorieri di Lega e Margherita.
Bersani anche ieri è tornato sul tema. Il Pd, ha ricordato, ha presentato una sua proposta per il dimezzamento del finanziamento pubblico, mentre in Parlamento c’è una proposta sui bilanci dei partiti, per «metterci in una condizione di pulizia»: riforme che vanno fatte con priorità assoluta non solo per dare un segnale ai cittadini ma perché è la stessa politica ad aver bisogno di una nuova partenza.
Ieri, intanto, la riunione dei capigruppo della Camera ha fissato la road map del prossimo mese: il 14 maggio arriverà in Aula la proposta di legge sulla trasparenza dei bilanci dei partiti firmata da Alfano, Bersani e Casini che però sarà modificata. Su richiesta del capogruppo Pd, Dario Franceschini, infatti, sarà accorpata al testo sui finanziamenti dei partiti (che in precedenza era stato invece abbinato al testo di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione.) Saranno i relatori, Gianclaudio Bressa (Pd) e Peppino Calderisi (Pdl) a dover rimettere mano al testo dovrebbero presentarne uno base il 3 e non è escluso che la Commissione debba lavorare anche la prossima settimana, a Camera chiusa, per portare il 14 maggio in aula il provvedimento. «La proposta della maggioranza sarà parte spiega Bressa di un testo nuovo di cui dovremo incaricarci. Una proposta semplice per l’attività emendativa».
Il 9 maggio, invece, verrà presentato in commissione Affari costituzionali il testo base di riforma dei partiti, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, che unificherà le proposte di legge depositate in commissione su questa materia. Entro il 14 dovranno essere presentati gli emendamenti che saranno messi al voto dal 15 al 17 maggio, mentre il 24 dovrebbe essere assegnato il mandato al relatore. Ancora non è stata decisa la data di approdo in Aula, dove arriverà soltanto «se ultimato». Critici il radicale Maurizio Turco e il leghista Pierguido Vanalli secondo i quali il testo avrebbe dovuto essere abbinato al finanziamento dei partiti.

Corriere della Sera 27.4.12
Il Pd, D'Alema, e la tentazione del voto
Fra i democratici si fa strada l'idea di elezioni a ottobre
Le alleanze: Idv-Sel, o Casini-Vendola senza Di Pietro
di Maria Teresa Meli


ROMA — Molti erano convinti che fosse l'ennesima mossa mediatica del Cavaliere. Quell'insistere nel dire che il Pd voleva le elezioni a ottobre dava adito a qualche sospetto.
Ma la storia vera è molto più semplice, anche se a tutta prima odora di fantapolitica. Le ultime mosse dei partiti, però, ci hanno abituato a questo e ad altro ancora e quello che fino a qualche tempo fa poteva sembrare assurdo è diventato normalità nello scacchiere immaginario di certi professionisti della politica. Insomma, per farla breve la storia è questa. Berlusconi, come del resto gli è già capitato altre volte persino in delicati vertici internazionali, non resiste alla tentazione di raccontare a compagni di partito o anche agli stessi giornalisti quello che gli è stato riferito in colloqui riservati e confidenziali. E proprio in una di queste conversazioni con un esponente più che autorevole del governo, all'ex presidente del Consiglio è stato detto che Massimo D'Alema ritiene che l'esecutivo Monti abbia esaurito la sua missione e che perciò non c'è nessun motivo per andare oltre ottobre prossimo perché il Paese ha bisogno di un governo politico.
Berlusconi ha drizzato le orecchie e ha continuato ad ascoltare il resto del racconto. Il suo autorevole interlocutore gli ha spiegato che il presidente del Copasir va facendo questi discorsi un po' dovunque e per questo sono giunti a Palazzo Chigi, creando, com'era scontato, una grande fibrillazione. Il ragionamento di D'Alema, in sostanza, sarebbe questo: o si va alle elezioni inglobando Sel e alleandosi con l'Idv, oppure se si riesce a convincere Casini a fare una coalizione ci si tiene Nichi Vendola e si lascia per strada Antonio Di Pietro. È una voce, questa, che ormai rimbalza di corridoio in corridoio a Palazzo Montecitorio, tanto che sul nuovo sito Internet Il Retroscena, molto bene informato delle vicende del Pd, c'è una dichiarazione di Beppe Fioroni che suona così: «Se avessimo in tasca l'accordo con Casini e con Vendola che entra nel Pd allora sarebbe una cosa. Ma non mi pare che ci sia aria, quindi lasciamo perdere».
Già, il responsabile del Welfare del Partito democratico è, con Enrico Letta e Paolo Gentiloni, uno dei sostenitori delle elezioni a scadenza naturale. Per il vicesegretario le elezioni anticipate sarebbero una «follia», per Gentiloni «un suicidio». Ma il Pd, tanto per cambiare, è diviso. Vengono guardate con un certo sospetto le mosse di Dario Franceschini. Il capogruppo prima appariva come uno dei promotori della riforma elettorale che dovrebbe eliminare Sel e Idv, ora sembra aver cambiato idea. Non solo, Franceschini non disdegna più nemmeno l'idea di una grande alleanza delle sinistre. Insomma, il capogruppo alla Camera è indicato come uno degli esponenti del Pd che, al pari di D'Alema, non disdegna l'idea del voto anticipato. Tant'è vero che sempre il sito Il Retroscena riportava una frase sfuggita qualche giorno dal suo braccio destro Antonello Giacomelli: «Certo, se si trovasse chi stacca la spina...». Di sicuro non la vuole staccare Berlusconi che ha interpretato le parole dell'altro giorno del capo dello Stato contro lo scioglimento anticipato come un ammonimento al Pd.
«Quelli che stanno con Bersani — è il convincimento del Cavaliere — vogliono votare assolutamente in autunno con questa legge elettorale per poi governare con Casini». Berlusconi faceva più affidamento su D'Alema: «Lui vuole andare avanti e modificare la legge elettorale in senso tedesco». Ma le ultime notizie riferitegli dall'autorevole esponente del governo gli hanno fatto capire che la situazione era più seria di quanto pensasse. Ma non è solo la spina evocata da Giacomelli che potrebbe bruciare le mani di chi la stacca l'unica complicazione lungo la strada del voto a ottobre. E probabilmente questa è la ragione che spinge Bersani, cui pure il voto anticipato gioverebbe perché conquisterebbe Palazzo Chigi, a muoversi con estrema prudenza, stretto com'è tra la volontà di Napolitano, il puzzle politico di D'Alema, la voglia dei suoi di farla finita e di conquistare un seggio in Parlamento. Il segretario avrebbe la vittoria in tasca in autunno. Mentre ha paura che nel 2013 possa riprodursi la stessa situazione del '94, quando la macchina da guerra dei progressisti fu spazzata via dalla novità Berlusconi. Ci sono però anche i sondaggi a preoccupare Bersani. Gli ultimi che sono giunti sulla sua scrivania non solo raccontano che alle Amministrative gli assenteisti potrebbero essere il triplo dell'ultima volta, ma dicono che lo spazio elettorale potenziale del Pdl rimane immutato.

l’Unità 27.4.12
Intervista a Luciano Violante
«Nuova legge elettorale ora vedremo chi bluffa»
Il responsabile riforme del Pd «Se il testo non va in Aula entro maggio
ci terremo il Porcellum. Ma qualcuno dovrà assumersene la responsabilità»
di Maria Zegarelli


Si capirà presto se i partiti fanno sul serio o è la solita melina. Luciano Violante, ex presidente della Camera, nonché uno degli “sherpa” del Pd” impegnati a mettere a punto una proposta di riforma elettorale è fiducioso ma una deadline l’ha tracciata, eccome. «O il testo arriva in Aula entro maggio o non si farà la nuova legge elettorale. A quel punto, però, i partiti responsabili della paralisi si dovranno assumere questa responsabilità davanti agli elettori». Dunque, quanto sia reale la volontà anche del Pdl di rimettere mano al Porcellum sarà presto chiaro, secondo il parlamentare Pd.
Presidente, la riunione degli sherpa che lavorano alla riforma è slittata a dopo le amministrative e intanto c’è chi sostiene che Berlusconi alla fine preferirebbe tenersi il Porcellum. Non è che la nuova legge elettorale resta solo un buon proposito?
«Lo slittamento è stato determinato dalla concomitante riunione della presidenza del Pdl, non ci sono altri motivi. Il nove maggio, quando avremo chiuso il nostro lavoro, la parola passerà ai partiti: saranno loro a decidere. Il nostro compito è solo un lavoro istruttorio. Ma i partiti dovranno decidere velocemente. Entro maggio ci sarà il voto del Senato sulla riforma costituzionale. Conosceremo il numero dei parlamentari da eleggere (secondo la proposta saranno eletti in Italia 500 deputati, invece di 630, e 250 senatori invece di 315). E si potranno definire gli ultimi dettagli, sempre dopo che gli organismi dei partiti avranno deciso».
A quel punto si saprà davvero chi vuole una nuova legge elettorale e chi no.
«Non esiste una legge elettorale perfetta e infatti il testo che consegneremo ai segretari dei partiti dovrebbe prevedere, a mio avviso, soluzioni prevalenti e soluzioni alternative. Bisogna tenere conto anche di un altro aspetto: chi sta alla Camera o al Senato da due legislature, nella maggioranza dei casi, non ha ancora fatto una campagna elettorale di collegio».
Sta dicendo che uno dei timori dei parlamentari è di doversi conquistare il consenso?
«Non parlo di timori. Parlo di un cambiamento. Se la proposta passasse, cambierebbe radicalmente il lavoro del parlamentare. Ci sarebbe una presenza continuativa da fare nel collegio, fine settimana dopo fine settimana, per rendere conto puntualmente delle scelte fatte dal partito e delle iniziative prese in Parlamento e per assumere iniziative
specifiche per i problemi del collegio. È il modo più bello di fare politica, ma è decisamente diverso dalla situazione attuale. Le assicuro che tutti i parlamentari hanno la consapevolezza che se non cambiassimo la legge elettorale ci sarebbe un discredito forse definitivo sui partiti. Metteremmo a rischio la stessa democrazia. Per questo dobbiamo agire con grande determinazione».
Lei non crede che Berlusconi stia cercando di far prendere tempo ai suoi per arrivare al voto con il Porcellum? «Io non so cosa stia pensando l’onorevole Berlusconi. So che i parlamentari del Pdl che discutono e trattano con noi, Quagliariello e La Russa, sono impegnati come noi. Comunque molto presto si vedrà chi vuole davvero andare avanti».
In Aula, se ci arriverà, il testo non avrà vita facile. La Lega e Di Pietro sono contro, ma anche nel Pd ci sono forti perplessità.
«È legittimo che una proposta di legge non piaccia, ma vedremo quali sono le alternative. Se l’alternativa proposta sarà migliore, prevarrà. Finora, in diciotto anni, si è dimostrato che avere una coalizione predefinita e premiata con un numero di seggi che trasforma automaticamente una minoranza in maggioranza assoluta non ci ha dato governi stabili. Negli ultimi diciotto anni i governi sono durati in media due anni. Non possiamo sollevarci dalla crisi con governi che scadono più rapidamente di una scatola di sardine. Capisco, invece, l’obiezione che viene da Rosy Bindi, ossia il diritto degli elettori di sapere con chi vuole governare il partito per cui votano. Ma nessuna legge vieta al Pd, o al Pdl, di annunciare prima del voto con chi intendono allearsi. Anzi, credo che sarà indispensabile dirlo».
Non le sembra questo un argomento forte?
«Certo. Ma il dissenso è su un altro punto. È sulla trasformazione della minoranza migliore in una maggioranza assoluta sulla base di una regola elettorale chiaramente antidemocratica. Spetta i partiti, che non possono delegare a una norma un compito che è loro, dichiarare prima del voto le loro intenzioni sulle alleanze. E sono certo che se non lo facessero sarebbero puniti dal loro elettorato».
Arturo Parisi usa toni molto duri: dice che sono i “professionisti della politica” ad alimentare l’antipolitica. Insomma, ce l’ha con quelli che stanno scrivendo le riforme.
«È inevitabile subire critiche quando si lavora duramente. Non capisco, e mi dispiacciono, i toni di Parisi che mi sembrano non adeguati al suo prestigio di anziano studioso e di uomo politico che siede in Parlamento da 17 anni. In politica è meglio mantenere la razionalità, ascoltare le ragioni degli altri, essere disposti a correggere i propri orientamenti: altrimenti si cade nel berlusconismo, il principio per cui l’avversario, presunto o effettivo, ha sempre e comunque torto».
Napolitano, invece, è tornato a chiedere un’accelerazione sulla riforma elettorale. Servirà a rimuovere anche le ultime resistenze?
«Credo che sia l’augurio che si fanno tutti gli italiani».

l’Unità 27.4.12
Italia a mano armata. Una famiglia su sei ha una pistola in casa
Il nostro Paese è tra i maggiori produttori di armi leggere. Un giro di affari di oltre due miliardi. Eppure non c’è possibilità di censirle. Gli ultimi dati ufficiali parlano di 10 milioni di fucili e rivoltelle. Ma esiste un mercato nero
di Roberto Rossi


In Italia siamo in grado di certificare dove è nato un uovo o da dove proviene un pomodoro, sappiamo tutto quello che attiene un prodotto alimentare che arriva sulle nostre tavole, ma non abbiamo una tracciabilità per le armi leggere».
Nonostante anni di tentativi per regolare il mercato, l’Italia, come spiega Francesco Vignarca, della Rete italiana per il disarmo e Tavola della Pace, resta un Paese a «mano armata». Un Paese dove si spara sempre di più, come hanno dimostrato anche gli ultimi due casi di ieri (il tabaccaio di Padova che ha ucciso un moldavo dopo un tentativo di rapina e l’omicidio di Arzignano per questioni di eredità), dove crescono le richieste per avere un porto d’armi, ma dove ogni tentativo di regolare un settore in forte espansione è stato ostacolato in ogni modo.
Cercare dei dati ufficiali sul numero delle armi detenute dagli italiani è come cercare un ago in un pagliaio. Neanche le associazioni dei produttori li hanno. Solo l’Eurispes ha fornito, qualche anno, fa un quadro chiaro spiegando che in Italia le armi legali, cioè regolarmente denunciate, sono oltre dieci milioni e che una famiglia su sei è armata, cioè dotata in casa di almeno una pistola. Nel 2007 i numeri erano questi: le persone in possesso di armi da fuoco erano 4,8 milioni, cioè l’8,4% della popolazione. Così divise: 34mila privati con un porto d’armi, oltre 50mila guardie giurate, 800mila cacciatori con licenza per abilitazione all’esercizio venatori, 200mila permessi per uso sportivo. Il resto, tre milioni circa, ha denunciato, invece, la presenza di armi in casa, ereditate o da collezione. In cima alla lista delle città più «armate» d’Italia Torino e Milano, seguite da Roma e provincia, con circa 2 milioni di armi. Tutte a norma.
Eppure non è questo il dato che allarma. Secondo l’istituto di analisi statistiche quello che dovrebbe far riflette è il fatto che in Italia c’è un aumento costante delle richieste per la concessione di un porto d’armi (richieste che per la maggior parte non vengono accolte). Nella sola Capitale, ad esempio, si è passati dalle 5mila del 2003 alle 11mila del 2006 per arrivare alle quasi 15mila di tre anni fa. Questo anche in virtù di una nuova normativa, la legge 59 del 2006, che dilatò il criterio di legittima difesa introducendo il rapporto di proporzione rispetto all’offesa se si utilizza come extrema ratio un’arma legittimamente detenuta.
Questi sono i dati ufficiali, gli ultimi in circolazione. Veritieri, ma certamente in difetto. Perché, come spiega ancora Vignarca, «in Italia non si sa quante siano veramente le pistole in mano alle persone». Per capire come possa esistere un mercato parallelo e sotterraneo basta fare un salto a Brescia. Dove lo scorso 8 marzo sono comparsi davanti al Gup della città 14 persone, tra queste anche Ugo Gussalli Beretta, proprietario della storica società di armi, il senatore Pd Luigi De Sena, vice presidente della commissione antimafia, più altri dodici indagati. Secondo la procura, a vario titolo, i quattordici sono accusati dei reati di illecito commercio di armi, illecita detenzione e cessione. Perché? La contestazione fa riferimento a armi che sarebbero uscite dalla Beretta e finite all’estero. Armi che non esistono nei registri ufficiali, armi «fantasma», ma che sono finite in Iraq. Ma come hanno fatto ad arrivarci? In sostanza, come ricostruito dagli inquirenti, il ministero degli Interni nel 2003 avrebbe ceduto all’azienda bresciana le Beretta in dotazione ai vigili urbani di Roma: 44.926 pistole 92s. Le armi, definite fuori uso, sarebbero state rimesse a posto e poi rivendute a una società inglese, e alcune per la procura 16 esemplari sarebbero state trovate in possesso dei guerriglieri iracheni. Se era un passaggio non legittimo sarà il tribunale a stabilirlo (il prossimo 21 giugno) ma quello che resta da spiegare è come sia possibile che un quantitativo così corposo di armi fosse rimasto sotto traccia.
Non si sa quante armi leggere
ci siano effettivamente in Italia, quindi, ma ci vantiamo di avere una tra le normative più severe per il rilascio del porto d’armi. Secondo la legge, infatti, oltre alla maggiore età, occorre avere anche un fedina penale bianca. Per inoltrare la richiesta al prefetto occorre poi una certificazione di idoneità psico-fisica e, per chi non ha fatto il servizio militare, un’idoneità rilasciata da un poligono. La licenza che è valida per cinque anni (ma va rinnovata annualmente) tra certificati, marche da bollo e abilitazioni al tiro ha un costo minimo, poco più di 150 euro.
«Ma queste norme sono severe solo sulla carta» ci spiega la senatrice del Pd Marilena Adamo autrice di una proposta di legge che giace ancora in Parlamento. «La legge attuale si basa ancora sul concetto di onorabilità della persona, sulla sua fedina penale». L’idoneità psico-fisica è prevista «ma è stata demandata a regolamenti ministeriali che non sono mai stati fatti». Ma il punto vero, quello per cui anche l’Adamo si batte, è quello di «mettere in comunicazione la pubblica sicurezza con il sistema sanitario nazionale». A cosa servirebbe? A sapere, ad esempio, in tempo reale se chi chiede un porto d’armi non abbia solo «la fedina penale pulita ma non sia mai stato sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio». Oggi questa comunicazione non c’è. E chissà se mai ci sarà.
Anche perché in pochi hanno intenzione di andare contro alla potente industria bellica in Italia. Da anni siamo stabilmente ai primi posti nella classifica mondiale dei produttori: si stima che ogni anno si producano oltre 629.152 armi, in proporzione una ogni 10 persone. Il giro d’affari complessivo supera i 2 miliardi di euro tra produzione e indotto (abbigliamento, oggettistica, accessori), con oltre 5mila addetti.
Perché porre un freno a tutto questo?

La Stampa 27.4.12
La vittima, di origine moldava, aveva 20 anni
Uccide un rapinatore. Zaia: “Ha fatto bene”
Tragedia a Padova Per il tabaccaio scatta l’accusa di omicidio volontario
di Massimo Guerretta


Ha sentito un boato in piena notte, è sceso da casa e ha visto il negozio in balia dei ladri. Così Franco Birolo, 45 anni, non ci ha pensato due volte: ha estratto la pistola e ha sparato. Ha ucciso il bandito che gli stava svuotando la tabaccheria, portandogli via oltre al denaro anche le ultime sicurezze. E ora è indagato per omicidio volontario, mentre il governatore Zaia lo difende a spron battuto: «Ha fatto bene, è legittima difesa».
E' accaduto a Civè di Correzzola, provincia di Padova. Alle 2 di notte Birolo, che abita al piano sopra del negozio, è stato svegliato dai rumori provenienti dalla tabaccheria. Quattro uomini hanno sfondato la vetrina del negozio con un’auto, una Fiat Punto rubata. Tutto accade in un paio di minuti. «Chiama il 112, fai presto», ha detto il tabaccaio alla moglie Tamara prima di prendere il coraggio a due mani e scendere in negozio, da una porta comunicante. Sapeva che si sarebbe trovato di fronte ai malviventi. Erano almeno in quattro. Quando l'hanno visto, due sono scappati, il terzo l'ha aggredito. La collutazione è stata fatale a un 20enne moldavo: il tabaccaio ha fatto fuoco e l'ha colpito con un colpo di pistola. Il proiettile ha colpito il ladro al petto ed è uscito dalla schiena: uno sparo mortale.
Birolo è restato lucido nonostante l'aggressione, riuscendo a bloccare un quarto uomo. La moglie, scesa per vedere cosa stava accadendo, lo aiuta a legarlo mentre arrivano i carabinieri. Che poi lo arrestano, scoprendo che il giovane colpito dallo sparo è già morto. Il tabaccaio ha mostrato l'arma ai militari - una semiautomatica Glock calibro 9 regolarmente denunciata – poi ha raccontato la propria verità in caserma. Il magistrato, nella tarda mattinata di ieri, gli fa notificare l'avviso di garanzia: Franco Birolo resta libero, ma il suo nome risulta iscritto nel registro degli indagati con l'ipotesi di omicidio volontario.
«E' brutto da dire, ma non ci resta che sparare», lo difendono i commercianti della zona. E, ancor più, lo difende il governatore del Veneto Luca Zaia, che lo giustifica e lo sostiene. «Ora basta con l'insicurezza. C'è la crisi per tante famiglie che lavorano – spiega – e in questo caso il tabaccaio si è trovato di fronte a chi gli voleva portar via il lavoro, i risparmi, le risorse. Ci si sente costantemente minacciati, per questo la reazione è giustificata e a mio avviso è assolutamente di legittima difesa. E' responsabile solo di aver difeso l'attività con la quale dava da vivere alla sua famiglia».

l’Unità 27.4.12
Riflettori sui Cie
Quegli stranieri trattati peggio dei carcerati
di Marco Pacciotti
, coordinatore Forum immigrazione del Pd

Q uando un anno fa il governo Berlusconi decise di prevedere la possibilità di «trattenimento» fino a 18 mesi dei migranti nei Cie Centri di identificazione ed espulsione , come Forum Immigrazione del Pd lanciammo l’appello «Fuori gli innocenti dal carcere». Sostenuti da l’Unità raccogliemmo migliaia di firme di tante persone indignate. In quell’occasione promuovemmo insieme ad altre organizzazioni la campagna «LasciateCIEntrare» in cui denunciavamo una circolare amministrativa che impediva l’accesso a queste strutture alla stampa, negando de facto ai cittadini italiani di essere informati correttamente. L’aberrazione di un atto amministrativo che negava un diritto costituzionale era solo l’ennesimo provvedimento liberticida e illiberale di quel
governo sul fronte dei migranti.
A distanza di quasi un anno e con un governo diverso da quello di allora, la campagna riparte. Dal 23 al 28 aprile visiteremo con deputati e senatori diversi Cie, per riproporre all’attenzione dell’opinione pubblica e del Parlamento una realtà poco conosciuta. I Cie purtroppo continuano ad essere luoghi nei quali alcuni diritti umani e civili sono sospesi. L’uso della parola «trattenimento» in riferimento ai migranti presenti in questi luoghi è da interpretare, nella realtà dei fatti, come detenzione. Basti pensare che alle persone «trattenute» non è consentito di uscire, né di circolare liberamente all’interno della struttura. Una pesante limitazione della propria libertà alla quale si somma la consapevolezza di non aver commesso reati contro persone o patrimonio.
Una condizione frustrante, quella di essere innocenti ma carcerati. A rendere ancor meno tollerabile questa situazione, sono le minori garanzie rispetto a quelle riconosciute alla popolazione carceraria propriamente detta: si è detenuti senza aver avuto un processo con relativa condanna; l’assistenza legale e quella sanitaria sono spesso carenti rispetto agli standard carcerari; senza dimenticare che non sono concesse visite esterne di amici o parenti. Un Cie dovrebbe sulla carta servire a «trattenere» un cittadino straniero irregolare ai fini della sua identificazione e della sua eventuale espulsione. Il tutto in tempi brevi e in condizioni rispettose della sua dignità umana e dei suoi diritti. Attualmente, si trovano in queste strutture tipologie di migranti diverse da quelle previste. Fra questi, molti potrebbero aver diritto allo status di rifugiato o, come nel caso delle donne vittime di tratta o di violenze, dovrebbero essere accolte in strutture protette di ben altra natura. A questi si aggiungono anche i minori, che non dovrebbero neanche passare in questi luoghi. Infine esistono casi assurdi ma reali, di ragazzi nati o cresciuti in Italia che a causa della perdita di lavoro dei genitori finiscono reclusi come fossero migranti entrati clandestinamente in quella che invece è la loro patria adottiva. Se tante vicende sono state conosciute e molti singoli casi risolti è per merito dell’importante lavoro di assistenza legale svolto dalle organizzazioni per i diritti umani e da tante associazioni di volontariato.
Con questa campagna richiameremo l’attenzione delle istituzioni su questo tema con l’obiettivo di arrivare al superamento dei Cie. Come Forum Immigrazione riteniamo che bisognerà arrivare a una nuova Legge che chiuda l’era della Bossi-Fini e che abolisca il «pacchetto» sicurezza Maroni, che istituendo il reato di clandestinità ha contribuito a riempire di persone senza colpe i Cie, rendendoli carceri extra ordinem.

il Fatto 27.4.12
Karim e gli altri, tunisini scomparsi sulla rotta di Lampedusa
Una donna lotta per sapere che fine hanno fatto decine di suoi connazionali, molti dei quali sbarcati sicuramente in Italia
di Enrico Fierro


Ho il diritto di sapere che fine ha fatto mio figlio. Ditemi se è vivo, dove si trova, come posso aiutarlo. E se è morto non abbiate pietà di me: ditemi tutta la verità, anche la più terribile per un padre. Almeno io e sua madre potremo piangere e non farci distruggere dalla speranza”. L'uomo che ci racconta la sua odissea del dolore ci pianta in asso nel mezzo di Piazza della Repubblica a Roma e si allontana per nascondere le lacrime che gli rompono la voce. Suo figlio è un desaparecido del mare, uno dei 1822 disperati morti tra le onde del Canale di Sicilia nel solo 2011, anno delle primavere arabe e della grande fuga verso l'Europa. Abbiamo visto le foto di suo figlio Karim Mbarki, una è un fotogramma tratto dal Tg5 e fissa il ragazzo seduto sul bordo di un gozzo tunisino di pochi metri dove sono stipati un centinaio di migranti. “È lui, questo è Karim”. La barca sta attraccando a un molo, forse quello di Lampedusa, il ragazzo ha gli occhi spalancati su quel pizzo d'Europa. Accanto a lui altri quattordici ragazzi di Tunisi, tutti del quartiere El Kabaria. Quella è l'ultima immagine, da allora, 29 marzo 2011, di Karim non si hanno più notizie. “Mi hanno detto – ci racconta il padre – che dopo lo sbarco lo portarono nel centro di Manduria, sulla terraferma, in Puglia, da allora solo silenzio”.
Nackchi Amhed il 14 marzo 2011 decise di lasciare la Tunisia e di tentare la fortuna in Italia. Andò a Sfax, uno dei porti da dove partono le barche dei migranti. “Con me c'era anche mio fratello, sulla mia barca eravamo già in 47 e non c'era posto per lui. Implorai lo scafista di farlo salire su un'altra imbarcazione. In mare, di notte, la vedevo la sua barca, era davanti a me. Quando arrivammo a scorgere le prime luci di Lampedusa, i militari italiani ci dissero di dirigerci verso il porto. Ma la barca di mio fratello si fermò, cambiò direzione e puntò verso Mazara del Vallo. Erano le 11 di sera del 15 marzo 2011 e quel maledetto scafista decise di fare altre ore di mare per non farsi prendere dai poliziotti italiani. Era ricercato. Vedevo la barca di mio fratello allontanarsi, ero disperato, sapevo che da quel momento sarebbe stato solo. Non potevo più aiutarlo. È stata l'ultima volta che l'ho visto, solo dopo ho saputo che dalla barca chiamò nostra sorella col cellulare. Poi basta: quelle sono le ultime notizie che abbiamo di lui”. Nackchi ci mostra le foto di suo fratello-fantasma. Il volto è quello di un ragazzo di 25 anni, allegro, pieno di una vita che voleva rendere migliore.
LA FAMIGLIA di Ahmedben Hassine, 25 anni, si è sempre opposta al regime del dittatore Ben Alì e della sua voracissima tribù di familiari, notabili e cortigiani. Hassine, ingegnere tessile, fin dai tempi dell'università è un attivista politico. Viene arrestato e torturato dai miliziani di Ben Alì. “Gli hanno distrutto la vita”, racconta il fratello. “Per questo anche noi familiari lo convincemmo a fuggire e a tentare di arrivare in Europa”. Il 9 novembre 2010 il giovane ingegnere tessile, insieme con altri cinque attivisti dell'opposizione della zona di Biserta, si imbarca su un fuoribordo di sei metri, il 13 arrivano sulla costa di Lampedusa, qui vengono identificati e poi trasferiti a Porto Empedocle. “Una nostra amica italiana – continua il fratello – è andata a cercarlo, la polizia italiana non le ha dato notizie. In compenso l'hanno fermata e identificata. Io sono stato arrestato dalla polizia tunisina. Sono certo che mio fratello è vivo, ma nessuna autorità è in grado di darci notizie precise. Le ultime cose che sappiamo di lui sono di mesi fa, quando ci hanno detto che era stato portato nel carcere di Caltanissetta. Da allora è il buio più completo”.
Storie di disperazione che Rebeh Kraiem, tunisina di Kerouan immigrata in Italia, ha messo insieme in un dossier e che sono al centro della sua battaglia. “Le famiglie di questi ragazzi sono disperate – ci dice – e hanno il diritto di sapere. Lo scorso 19 aprile nel quartiere di El Kabaria una mamma si è data fuoco per protesta perché da mesi chiede notizie sulla sorte del figlio partito suunabarcaperLampedusa”. Re-beh ha raccolto foto e storie dei desaparecido, dopo mesi di sit-in sotto l'ambasciata tunisina e i consolati di Palermo e Roma ha avuto le impronte digitali degli scomparsi. “Tutti quelli che erano su una barca con 47 persone e su un'altra che ne portava 67. Vogliamo che le autorità italiane si sveglino e ci diano risposte perché non è possibile che in un Paese civile come l'Italia si possa sparire così”. Quando chiediamo a Rebeh se l'ambasciata tunisina la sta aiutando, ci risponde con una smorfia: “Ci hanno respinto. Le vostre facce non ci piacciono, questo ci hanno detto”.
I FAMILIARI dei desaparecido non sono soli, ieri l'Arci ha presentato una denuncia contro ignoti per la scomparsa di 270 migranti, sottolineando la mancanza di risposte delle autorità tunisine e di quelle italiane. Intanto Rebeh srotola il suo striscione di protesta in Piazza della Repubblica. A terra espone le foto degli scomparsi. Ahmed, Karim, Abel... spariti nel mare di un'Europa indifferente.

La Stampa 27.4.12
Norvegia, il killer si difende al processo
Breivik: “Non sono folle i matti sono gli psichiatri”
Ha promesso che i suoi seguaci compiranno presto nuove stragi
di Francesco Saverio Alonzo


STOCCOLMA Continuando nella sua tattica offensiva, il pluriomicida norvegese Anders Behrin Breivik è riuscito a mettere sul banco degli imputati, anche se non proprio materialmente, i quattro psichiatri che si sono pronunciati sul suo stato mentale. Erano seduti davanti a lui, mentre chiedeva ai giudici, agli avvocati e al pubblico in aula come si potessero prendere sul serio i rapporti stilati rispettivamente dalla coppia Torgeir Husby e Synne Soerheim (che lo aveva definito affetto da paranoia schizofrenica) e da quella formata da Terje Terrissen e Agnar Aspaas (che lo aveva invece trovato sano di mente). Riferendosi ai primi due, Breivik ha detto, enfaticamente, che non era lui, ma i suoi cosiddetti esaminatori specializzati in psichiatria legale ad «essere mentalmente instabili».
Mentre il killer si infervorava, descrivendo particolari quali la scelta del companatico da mettere nel panino che aveva portato con sè all’isola di Utöya all’operazione di plastica facciale alla quale si era sottoposto a riprova di avere agito con fredda determinazione, i quattro psichiatri violentemente attaccati hanno fatto scena muta, non riuscendo a rispondere a nessuna delle accuse. Breivik ha poi accusato Husby e Soerheim di aver stilato un «rapporto politico» composto «all’80% di menzogne» e la direzione del carcere di avergli somministrato, a sua insaputa, psicofarmaci dannosi. E infine ha promesso di aver lasciato dei seguaci in libertà: «Ci saranno nuovi attacchi, nuove stragi, che saranno compiute da due dei “Cavalieri templari” di cui gli investigatori non sono riusciti a trovare traccia su Internet. Io ho i loro nomi e quando essi avranno agito in nome della crociata da me iniziata, voglio vedere che cosa dirà la polizia a sua discolpa».

La Stampa 27.4.12
Se fossimo tutti un po’ norvegesi
di Massimo Gramellini


John Belushi odiava due cose: la musica country e i nazisti dell’Illinois. Ma cosa succede quando un nazista odia la musica country? Che anche noi fan dei Blues Brothers siamo chiamati a una scelta doverosa e ci schieriamo con la nenia dei cowboy. Se poi siamo di Oslo e fuori piove, apriamo l’ombrello e scendiamo in piazza in quarantamila per cantarla a squarciagola. Alla faccia del nazista. Il quale aveva appena dichiarato che con quella canzone le maestre norvegesi lavano il cervello ai bambini. Soltanto il suo, purtroppo, è rimasto refrattario a qualsiasi detersivo.
La canzone si intitola «Barn av regnbuen», «Bambini dell’arcobaleno», ed è il rifacimento in scandinavo stretto di «Rainbow race», cantilena folk strimpellata alla chitarra dall’americano Pete Seeger nei primi Anni Settanta. Il ritornello parla di fratellanza, di distese verdeggianti, e non fa male a nessuno, se non a chi è già abituato a farsene parecchio da solo. Anders Breivik, per esempio, lo stragista di Utoya che ha imputato all'innocuo motivetto nientemeno che il deterioramento in chiave marxista della gioventù norvegese. I messaggi semplici e solari agiscono sulle menti ottenebrate dal razzismo come una cartina da tornasole. Portano a galla la rabbia di chi ha talmente paura della sensibilità umana da considerarla una dimostrazione di debolezza.
In tribunale Breivik ha insultato la canzone e l’infanzia dei connazionali. E ancora una volta è venuta fuori la civiltà di quel popolo poco battuto dal sole, che ha saputo asciugare il sangue di Utoya senza macchiare il vestito lindo della sua democrazia e si permette il lusso di trattare un reo confesso come un crocerista, ospitandolo in una cella grossa come uno stand dell’Ikea. I norvegesi avrebbero potuto reagire alla provocazione di Breivik con il silenzio. Oppure con il furore, portando in piazza i familiari delle vittime per ritorcere addosso a quell’uomo il livore seminato dai suoi atti. Invece si sono ritrovati pacificamente in quarantamila per cantargli la loro canzone. Ricordando al mondo che è anche per merito di quella nenia, imparata a memoria negli asili, se sono cresciuti così tolleranti e intimamente connessi con l'ambiente che li circonda.
Perciò oggi siamo tutti un po’ norvegesi, compresi noi rockettari stonati. Anzi, soprattutto noi, che ci offriamo volontari per inciderla su un disco da far ascoltare a Breivik in cuffia, fino alla fine dei suoi giorni.

Corriere 27.4.12
«Mein Kampf» nelle Scuole tedesche
Ma è inutile commentare la follia
di Giovanni Belardelli


Il governo regionale della Baviera ha deciso di ripubblicare nel 2015 Mein Kampf di Adolf Hitler, anche per evitare che lo scadere dei diritti (che dal 1945 sono detenuti dal Land tedesco) possa favorire il moltiplicarsi di edizioni prive di un commento critico. La decisione, in realtà, accoglie una richiesta inizialmente avanzata anche dalla comunità ebraica tedesca. L'aspetto più significativo sta nel fatto che viene così a cadere quel divieto alla ripubblicazione in Germania del testo hitleriano che, in vigore dalla fine della guerra, ha spesso suscitato perplessità. Si tratta infatti di un divieto non solo poco efficace, potendosi scaricare il libro da Internet, ma anche potenzialmente controproducente poiché rischia di attribuire alla lettura del Mein Kampf il carattere (e per qualcuno il valore) di un atto trasgressivo.
Del resto in Francia, durante la Seconda guerra mondiale, furono le autorità tedesche di occupazione a vietare la pubblicazione del libro (infarcito di espressioni d'odio antifrancese), mentre il Comitato di liberazione nazionale, riparato ad Algeri, ne pubblicò un'edizione integrale. È stato calcolato che in Germania, alla caduta del Terzo Reich, erano state diffuse 12 milioni e mezzo di copie del libro: una cifra enorme, anche se certamente molti dei possessori si erano limitati a sfogliarlo. Nel Mein Kampf si ritrovano i contenuti di fondo dell'ideologia hitleriana, a cominciare dall'onnipresente tema antisemita (nel libro la parola più citata, perfino più di «Germania», è «ebrei»). Dunque, farlo leggere come documento della follia ideologica (e poi pratica) di Hitler appare senz'altro una decisione opportuna.
Semmai, lascia perplessi non certo l'intenzione di far precedere il testo dall'introduzione di uno storico, bensì la volontà di inserire anche il commento e la contestazione di ogni affermazione che meriti d'essere commentata e contestata. Col rischio di esiti paradossali, come osservava già nel 2009 uno scrittore ebreo tedesco, Rafael Seligmann, che intervistato su questo punto (A. Vitkine, Mein Kampf. Histoire d'un livre, Flammarion, p. 230) aveva risposto: «Quando Hitler afferma che gli ebrei sono inferiori e che bisogna eliminarli, che commento bisognerà aggiungere? Che è falso?».

l’Unità 27.4.12
L’altra gauche e Hollande «Vogliamo uscire con lui dall’incubo sarkoziano»
Sostegno al socialista per scongiurare la deriva lepenista della Francia
Ma senza «annacquare le differenze» sui temi del lavoro e dei diritti. Parlano il segretario Pcf Pierre Laurent, Ignacio Ramonet, lo storico Emmanuel Todd
di Umberto De Giovannangeli


Le due gauches alla prova dell’unità. Unite nella differenza. Unite per evitare che all’Eliseo torni un «Sarkozy lepenista». Senza rinunciare alla propria alterità rispetto alla «sinistra morbida» di François Hollande. Il ballottaggio visto dalla gauche radicale. «Il 6 maggio può essere il giorno della grande disfatta della destra: di quella liberista, del rigore a senso unico, della mattanza sociale, e della destra razzista, xenofoba di Marine Le Pen. Per questo ho rivolto un appello a tutte le donne e gli uomini che al primo turno hanno sostenuto le ragioni del Front de Gauche, di votare per il candidato socialista, Hollande. Per tutte quelle e tutti quelli che amano il nostro Paese, che in questi cinque anni hanno duramente sofferto per la politica di Nicolas Sarkozy nel vedere come questa ha indebolito, impoverito, rovinato la Francia i risultati del primo turno delle elezioni presidenziali suonano come un appello a mettere tutto l'impegno possibile per battere il presidente uscente».
Parole chiare, indicazioni importanti sono quelle di Pierre Laurent, segretario generale del Pcf, uno dei leader del Front de Gauche. «A nome del Partito comunista francese ho fatto appello alla più larga e forte unione possibile di tutta la sinistra, di tutto il nostro popolo, per battere Nicolas Sarkozy, votando per il candidato socialista Francois Hollande. La sconfitta del presidente uscente dovrà essere ampia, chiara e netta, e noi metteremo tutte le nostre forze per concretizzarla», ribadisce a l’Unità il leader del Pcf. «La destra e l’estrema destra non passeranno – aggiunge deciso -. La Francia non merita altri cinque anni all'insegna di questo incubo». Le considerazioni di Laurent confermano quanto emerge dai sondaggi successivi al voto del 22 aprile: oltre i quattro quinti degli elettori di Jean-Luc Mélenchon (il numero uno del Front de Gauche, 11,10%, 3.887.639 voti al primo turno)) non ha dubbi sul voto ad Hollande.
Un sostegno che non vuol dire fare compromessi sui punti cardine del programma della guache radicale, in particolare nel campo economico e sociale: aumento del salario minimo da 1.100 a 1.700 euro, ripristino dell'autorizzazione amministrativa ai licenziamenti, rimborso al 100% di tutte le spese mediche e farmaceutiche, pensione a 60 anni, regolarizzazione di tutti gli immigrati irregolari, confisca totale della quota di reddito superiore a 360mila euro, raddoppio della spesa pubblica per la ricerca. «Scegliere Hollande al ballottaggio non significa annacquare le differenza e scendere a compromessi che alterino un punto di vista di radicale alterità rispetto alla stato di cose esistente o un cedimento al pensiero unico», riflette Ignacio Ramonet, ex direttore di Le Monde diplomatique, uno dei mille intellettuali francesi che hanno sottoscritto un appello al voto per Melénchon. «L’alternativa fra l’austerità e la vita si pone. O ci pieghiamo davanti al bisogno del capitale di ingrandirsi e lasciamo la mano all’oligarchia, oppure prendiamo un’altra strada, restauriamo l’implicazione popolare e i suoi valori di giustizia sociale e di uguaglianza. Ogni compromesso non è in sé da rigettare. Ma l’ora non è ancora quella del compromesso, questa è l’ora del confronto e dello scontro di progetti, di visioni. Anche se questo non impedisce di scegliere il 6 maggio per “il male minore”: Francois Hollande», rimarca l’ex-vice sindaco di Parigi e femminista Clémentine Autain.
«Il sarkozyismo è l'affermazione di un nuovo “valore” della disuguaglianza, estraneo alla cultura francese, e la individuazione di capri espiatori (immigrati, giovani, disoccupati) come responsabili della crisi», afferma Emmanuel Todd, tra i più autorevoli storici e sociologi francesi. «Scegliere la diseguaglianza come elemento fondante della destra libera lo spazio per una sinistra che riafferma il principio di uguaglianza. L'uguaglianza è il cuore della cultura francese, uno scontro tra uguaglianza e diseguaglianza è equivalente a uno scontro tra normalità e patologia». «Certo sottolinea ancora lo storico le proposte del Ps alla crisi sono ancora troppo legate ad una vecchia cultura industrialista, tuttavia, l'allineamento con il rigore tedesco sostenuto dalla Ump (il partito di Sarkozy, ndr), oltre che colpire pesantemente i ceti più poveri e la classe media, è garanzia di una lunga depressione. La crisi richiede risposte nuove che non è realistico fare in campagna elettorale. La chiave è scegliere le migliori proposte in campo per i loro valori e le forze sociali che rappresentano. Ecco perché preferisco Hollande, che è tornato al principio di uguaglianza contro Sarkozy che sempre più tende nella sua rincorsa all’elettorato del Front National di Marine Le Pen a rappresentare una destra autoritaria e xenofoba; una destra che fa della disuguaglianza un principio fondante della propria identità e del proprio programma di governo».
Un voto utile al ballottaggio. È quello prospettato anche dalla candidata dei «Verts» (Verdi) alle presidenziali, Eva Joly (2,26%, 791.050 voti): «Non posso che ripeterle dice Joly a l’Unità quanto ho affermato in campagna elettorale e subito dopo la chiusura delle urne: intendo fare il possibile per far uscire la Francia dal sarkozysmo». E questo impegno si traduce oggi in una indicazione chiara: il 6 maggio al voto, per François Hollande.

il Fatto 27.4.12
Gli ebrei francesi stregati da Le Pen


Michel Thooris, un ex membro del Crif, il Consiglio nazionale delle organizzazioni ebraiche francesi, all’indomani della strage di Tolosa, il 19 marzo scorso, decise di candidarsi al Parlamento con il Front National, dichiarando al quotidiano Haaretz: “Se sei un ebreo, votare per Marine Le Pen è naturale. Combatte il crimine e l’islamismo: il che significa che protegge gli ebrei. Il Front National è cambiato e gli ebrei lo sanno”. Il corteggiamento della comunità ebraica francese – la più grande d’Europa – da parte della leader del Front National era iniziato da mesi, risultando evidente quando, circa 6 mesi fa, spedì il suo compagno, Louis Aliot – vice-presidente del Fronte Nazionale – in Israele “per incontrare gli ebrei francesi espatriati interessati a conoscere in modo approfondito il programma del Fn”.
ALIOT in quell’occasione, dichiarò che sono sempre più numerosi gli ebrei di nazionalità francese attratti dalla nostra causa, prova che l’immagine di partito antisemita attribuito al Fn è del tutto falsa”. Non la pensa così la comunità ebraica mondiale e neanche buona parte di quella francese che non dimentica le orribili parole di Jean Marie Le Pen sulla Shoah: “I forni nei campi di concentramento sono un dettaglio della storia”. Il dibattito sullo sdoganamento del Fn si accese lo scorso anno, dopo che la radio della comunità (Radio J), invitò Marine Le Pen a parlare in diretta. Inondata dalle critiche, la redazione ritirò l’invito.
POCO tempo dopo Michael Ciardi, che non era d’accordo su quel boicottaggio, fondò l’Unione dei francesi ebrei (Ufj), un’associazione che sostiene il Fn perché “Marine Le Pen è l’unica a voler davvero contrastare l’immigrazione incontrollata e le sue disastrose conseguenze”, scrisse sul sito, prendendosela quindi con “i sedicenti rappresentanti della comunità ebraica che denigrano gli ebrei che votano Le Pen, definendoli peggiori della polizia ebraica nei ghetti. Ma se in certi quartieri gli ebrei non osano portare la kippah e le prediche di fuoco ascoltate in certe moschee francesi sono intrise di un antisemitismo che credevamo scomparso, la colpa non è certo di Marine Le Pen”. Richard Prasquier, presidente del Crif, ha ammesso che il Fn è riuscito nel suo intento, anche se non è possibile avere percentuali precise perché i risultati non suddividono l’elettorato sulla base della religione e della razza. L’87% degli ebrei francesi che vivono in Israele, ha votato per Sarkozy. (rob. zun.)

La Stampa 27.4.12
Papà, figlie e nipote: il Front National è sempre più un affare di famiglia
Divorzi ed eredità milionarie nel partito di Le Pen, che ora candida la 22enne Marion
di Alberto Mattioli


Insieme Jean-Marie e Marine Le Pen: il primo, storico leader e fondatore del Front National dal 1972, ha lasciato il posto alla figlia nel gennaio del 2011 31,5% IlcollegiodellababyLePen La studentessa 22enne Marion Le Pen, nella foto con il nonno Jean-Marie, è candidata alle legislative di giugno nel collegio di Carpentras, dove la zia Marine ha ottenuto il 31,5% dei voti al primo turno delle elezioni presidenziali
Meglio di Bossi e del Trota. La famiglia Le Pen è già alla terza generazione. La notizia è che Marion Le Pen, nipote di Jean-Marie, dunque anche di Marine, rispettivamente nonno e zia, correrà per l’Assemblée national alle prossime politiche di giugno. Marion Le PenMaréchal ha 22 anni, studia legge, è bionda, carina e candidata del Front national a Carpentras, nel Sud, nel collegio dove zia Marine, alle presidenziali, ha preso il 31,5%, addirittura più che nel Pas-deCalais, nel Nord, dove si candiderà lei. Il patriarca Jean-Marie, 83 anni, ha solennemente incaricato Marion di «lavare l’affronto» fatto al Fn proprio a Carpentras. Qui, nel ’90, il cimitero ebraico fu selvaggiamente profanato. Il partito fu preso di mira nelle proteste e ci restò finché, anni dopo, quattro neonazisti senza legami con il Fn confessarono.
Resta la curiosa gestione familiare del terzo partito francese, una specie di proprietà privata della famiglia Le Pen, con contorno di freudismi, dissensi, gelosie e litigi. In effetti, rispetto ai Le Pen, gli Atridi sembrano i Cesaroni. Il padre del partito, Jean-Marie, ne è stato anche il padrone assoluto finché, l’anno scorso, non ha finalmente deciso di farsi da parte incoronando Marine, terza delle figlie della prima moglie, Pierrette Lalanne. Un giorno del 1984, Pierrette scappò da casa (che è poi il castello di Montretout, vicino a Saint-Cloud) insieme al biografo del marito. Il cataclismatico divorzio che ne seguì fu praticamente discusso sui giornali, in particolare su «Playboy» dove la polposa Pierrette posò coperta solo da un grembiulino. Le figlie non le hanno parlato per quindici anni, poi maman si è pentita, è tornataalcastelloeoggiè, parola di Marine, «una nonna ammirabile». Nel frattempo però papà si era risposato con la ricca e liftatissima divorziata Jany Paschos, mezza greca e mezza olandese, altro che «preferenza nazionale». Jany si è illustrata bollando la figliastra Marine come «troppo ambiziosa». Risposta dell’interessata: «Jany nella vita non ha mai fatto niente».
Marine è la più piccola. La primogenita, Marie-Caroline, ha sposato Philippe Olivier, ovviamente un cacicco del Fn. Però quando, nel ’98, Bruno Mégret lo spaccò con una clamorosa scissione, Olivier lo seguì. Da allora Jean-Marie rifiuta di vedere sia la figlia che il genero. L’altra figlia, Yann, grande amica, consigliera ed eminenza grigia di Marine, ha sposato un altro ex boss del Fn, Samuel Maréchal, con cui ha fatto tre figli (fra cui Marion) prima di divorziare e che lui si risposasse con la nipote, di colore, di un ex presidente ivoriano.
E Marine? Finora ha collezionato due mariti e tre figli, ma adesso sta con un terzo compagno, Louis Aliot, a sua volta divorziato con due figli, che guarda caso fa il dirigente del Fn e anzi adesso ne è diventato il numero due. È soprannominato «Loulou la purge», Lulù la purga, perché Marine l’ha incaricato di ripulire il partito dai nostalgici troppo vistosi.
Tutto in famiglia, come si vede. Marine adora suo padre, dice che è «l’uomo della sua vita» (mentre mamma Pierrette spiega che lei è «il clone» di lui), ma in pubblico non lo chiama mai «papà», sempre «Le Pen». E pare che non siano sempre d’accordo. In questa versione di ultradestra di Dynasty, non possono certo mancare i soldi. E qui è subito mistero. Il Front national è povero perché, a causa del sistema maggioritario, ha molti voti ma pochi eletti. Secondo l’ultimo bilancio certificato, il budget è di 4,5 milioni di euro, bazzecole rispetto ai 55 del Ps e ai 50 dell’Ump. Per la campagna, Marine ha speso 8 milioni di euro, che le verranno rimborsati dallo Stato. È l’unica a far pagare l’ingresso ai comizi, 5 euro a testa esclusi giovani, pensionati e disoccupati. I Le Pen, però, sono ricchissimi. Come lo siano diventati è molto chiacchierato, perché negli Anni Sessanta Jean-Marie, che èdi famiglia povera, campava grazie alla sua casa discografica, la Serp, specializzata nei discorsi di Hitler e di Mussolini (ma anche di Stalin o di Léon Blum, ha sempre obiettato lui). Poi, un bel giorno, cioè bello per Le Pen e brutto per lui, un ricchissimo militante, Hubert Lambert, morì lasciandogli un grasso patrimonio e Montretout. I parenti del de cuius fecero causa e la persero. Di recente, invece, Marine ha querelato la candidata dei Verdi, Eva Joly, che aveva parlato delle origini «poco chiare» della fortuna di famiglia. E i giudici le hanno dato torto, almeno in primo grado, quindi le ombre restano. Pazienza. Non sarà questo a fermare Marine, ormai così in ascesa da avere già l’erede designata: Marion.

il Fatto e The Independent 27.4.12
Sayef e i bambini di Falluya nell’ospedale degli orrori
Dopo le bombe Usa nascono centinaia di malformati
di Robert Fisk


Fallujah (Iraq) Per il piccolo Sayef non ci sarà primavera araba. Giace su una coperta rossa distesa sul pavimento, di tanto in tanto piagnucola, la sua testa è enorme, è cieco e paralitico. I genitori dicono che sorride quando gli altri bambini vanno a fargli visita. Ma non saprà mai nulla del mondo che lo circonda e non potrà godere delle libertà del nuovo Medio Oriente. Vive in una prigione destinata a rimanere chiusa per sempre.
Le famiglie di Fallujah i cui bambini sono venuti al mondo, come dicono i medici, “con anomalie congenite” non gradiscono la visita di estranei e considerano la condizione dei loro figli una vergogna. In realtà queste atrocità sono la diretta conseguenza dei bombardamenti americani del 2004 e del 2007. A lungo gli americani hanno negato l’impiego di bombe al fosforo e solo dopo molte insistenze hanno ammesso di averle usate solo nel 2007 contro alcuni edifici. Dinanzi a casa di Sayef montano la guardia due poliziotti armati e altri due ci seguono in casa. “Penso che mio figlio sia nato così a causa delle bombe al fosforo”, mi dice il padre di Sayef. “So di molti altri casi di difetti congeniti. Deve esserci una ragione”. Dagli studi clinici emerge che dal 2004 a Fallujah c’è stato un significativo incremento della mortalità infantile e dei casi di cancro. Nascono mal-formati il 15% dei bambini. Una percentuale impressionante. “Mio figlio si detesta”, dice Mohamed. “Muove solo le mani e dobbiamo nutrirlo con il biberon”.
MOHAMED prende le gambe inerti del bimbo e le muove in alto e in basso delicatamente: “Quando è nato lo abbiamo portato a Baghdad dove lo hanno visitato i migliori neurochirurghi del Paese. Lo hanno sottoposto a due interventi, ma il primo non è riuscito perfettamente”. Mohamed e la moglie hanno anche due figlie, nate prima dei bombardamenti. Le bambine sono in perfette condizioni di salute. Mentre parliamo, Mohamed non smette mai di guardare il piccolo Sayef, poi lo prende in braccio. “Ogni volta che guardo mio figlio, mi sento morire dentro”, mi dice piangendo. Gli chiedo di chi sia la colpa di questo calvario. Mi aspetto una tirata contro gli americani, il governo iracheno o magari il ministero della Salute. Mohamed, invece, resta qualche minuto in silenzio poi con un filo di voce dice: “Chiedo solo l’aiuto di Dio. Non mi aspetto l’aiuto di nessuno”. All’altro capo della città c’è l’Ospedale generale di Fallujah, un vero teatro degli orrori. Nadhem Shokr al Hadidi mi riceve nel suo ufficio e mi mostra una serie di foto di bambini nati morti: un bimbo con una bocca enorme e deforme, un altro bambino con un solo occhio gigantesco come un Ciclope, un altro ancora che ha solo metà della testa e infine una piccola creatura che ha metà braccio destro, non ha la gamba sinistra né i genitali.
MENTRE guardiamo le foto entra una dottoressa: “In tutta la mia carriera non avevo mai visto nulla del genere”, dice con voce sommessa. “Molti li ho fatti nascere io”, aggiunge quasi fosse una colpa. Le foto sono tremende. L’emozione e il dolore nel guardarle quasi intollerabili. E tuttavia c’è nei medici di Fallujah un atteggiamento che faccio fatica a capire. Di queste deformità ormai si sa tutto, ma non sono state adottate misure per effettuare una diagnosi prenatale. Me lo fa osservare una ostetrica irachena che ha studiato in Gran Bretagna e che, con i suoi risparmi ha comprato un macchinario che consente di individuare le anomalie congenite nel feto. “Sono andata al ministero della Salute”, mi racconta. “Mi hanno detto che avevano istituito una apposita commissione. Ho parlato con la commissione. Ho scritto, ho implorato. Non mi hanno nemmeno risposto”.
Mi colpisce l’onestà intellettuale dei medici dell’ospedale di Fallujah, che mi invitano a non tirare conclusioni affrettate. Mentre sullo schermo passa un’altra foto, l’ostetrica mi dice: “Questo bambino l’ho fatto nascere io. Non credo c’entrino le bombe americane. I genitori erano parenti stretti. Credo fosse questo il problema”. La dottoressa Sa-mira Allani, seduta al mio fianco, commenta le foto: “In realtà sono tutte anomalie piuttosto comuni, ma è allarmante il numero”. Ci alziamo e la dottoressa mi porta nella sala dell’incubatrice dove – grazie al permesso dei genitori – posso vedere il piccolo Zeid Mohamed che ha appena 24 giorni di vita. Suo padre è un agente di polizia. Sono sposati da tre anni. Il piccolo Zeid ha solo quattro dita per mano.
I genitori addolorati fanno domande, chiedono risposte. Invano. Né gli iracheni né gli americani né gli inglesi né le Ong sembrano disposti ad aiutarli. Anche questo muro di gomma è un aspetto della tragedia di Fallujah. Uno dei medici mi dice che l’unico aiuto concreto lo hanno ricevuto dal dottor Kypros Nicolaides, direttore del reparto di medicina prenatale del King’s College Hospital. Gli telefono.
È furibondo: “L’aspetto criminale di questa tragedia è che, all’epoca della guerra, americani e inglesi non si presero nemmeno la briga di spendere qualche migliaio di dollari per comprare qualche computer e tenere il conto dei morti. Secondo Lancet i caduti furono 600 mila. Ora in Iraq il numero delle anomalie congenite è abnorme. Sarebbero necessari studi epidemiologici, ma nessuno si muove”.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Repubblica 27.4.12
Bo Xilai lo scandalo che cambierà la Cina
di Timothy Garton Ash


PECHINO. MA CHE succede in Cina? La domanda è tra le più interessanti al momento e rispondere è davvero difficile. Considerati i fatti ufficialmente accertati e le ipotesi plausibili il caso Bo Xilai ha i connotati di un thriller politico, ma affonda le sue radici nel bizzarro sistema di capitalismo leninista emerso in Cina negli ultimi trent'anni, che non ha precedenti nella storia. I possibili cambiamenti che questo scandalo indurrà in quel sistema influiranno sul futuro mondiale ben più della realtà di Washington, Mosca, New Delhi o Bruxelles. Nella residenza blindata dei vertici del partito comunista, accanto all'antica città proibita, il fantasma di Hegel si è fuso con quello di Robert Ludlum. Nessuno sa cosa stia realmente succedendo entro quelle mura, ma al di fuori lo schema è chiaro. A Pechino non si parla altro che di Bo. Prima o poi il suo nome salta fuori, con una scossa elettrica, qualunque sia l'argomento di conversazione. Come ha fatto suo figlio, Bo Guagua a entrare a Oxford? Studiava o faceva il playboy? Neil Heywood, il misterioso uomo d'affari britannico, era in realtà una spia? La moglie di Bo, Gu Kailai, aveva una relazione con lui? Cosa c'è dietro? Poi si passa alle confidenze a mezza voce. Più fonti attendibili hanno confermato, ad esempio, la vicenda romanzesca che ha avuto come protagonista Wang Lijun, l'ex capo della polizia di Chongqing, rifugiatosi nel consolato Usa di Chengdu temendo per la propria vita, pronto a svelare gli scheletri nell'armadio del suo capo. Bo ha inviato da Chongqing un manipolo paramilitare per ricondurlo al suo triste destino, ma si è trovato davanti le truppe di Pechino, chiamate dagli americani.
Se però un cinese qualsiasi cerca in rete anche solo il cognome "Bo" su Sina Weibo, popolarissimo sito di microblogging, troverà questo messaggio: «Nel rispetto delle disposizioni di legge i risultati di ricerca per Bo non sono disponibili». I media ufficiali esortano alla stabilità nazionale, sociale e ideologica sotto la guida saggia e coesa del partito. I Bo non erano altro che mele marce in un frutteto sano. Ora affronteranno tutto il rigore e l'imparzialità dello stato di diritto cinese.
Il quotidiano in lingua inglese China Daily ha dato grande risalto a un rassicurante comunicato dell'agenzia di stampa governativa Xinhua secondo cui «la polizia municipale di Chongqing si è impegnata ad assicurare maggiore protezione agli stranieri» dopo la morte di Heywood - probabile omicidio, di cui sono sospettati la signora Bo e un certo Zhang Xiaojun, «un attendente in servizio a casa Bo». Ma non c'è da preoccuparsi, perché nel 2010 solo 1,5 visitatori su 10mila hanno denunciato furti e violenze nella metropoli. E le forze dell'ordine sono intervenute prontamente. «In ottobre ad esempio la polizia ha recuperato in giornata una Nikon rubata a uno studente dello Zimbabwe».
Niente paura quindi, cari uomini d'affari britannici. Non solo non sarete ammazzati per ordine della moglie di un membro del Politburo, ma la polizia vi restituirà prontamente la macchina fotografica.
Accanto all'aspetto macabro e intrigante, ma anche tragicoe doloroso, (pensiamo ai familiari di Heywood), la vicenda ha anche un risvolto più ampioe importante, comunque collegato. Può essere che un crimine così orribile, se di crimine si tratta, avrebbe comunque minato l'ascesa politica di Bo. Certo è che si va a collocare nel contesto della competizione ideologica e di schieramento in seno alle strutture di potere di partito, statali e militari cinesi nella corsa alla transizione politica in cui Bo era discusso candidato a uno dei nove seggi del comitato permanente. E certo è che le macabre, sensazionali e ormai ben note circostanze della sua fine politica influenzeranno l'esito della transizione, sia in termini di protagonisti che di programmi.
Finora la propaganda ufficiale si è curata di distinguere tra la persona di Bo e il cosiddetto modello Chongqing, con i suoi slogan criptomaoisti contro la criminalitàe inneggianti alle masse e le rivendicazioni populiste di pensioni, casa e lavoro per tutti.
È comprensibile, dato che molti vertici del partito, tra cui il futuro presidente Xi Jinping, lo decantavano fino a poco tempo fa e il relativo programma previdenziale e di edilizia popolare resterà probabilmente in parte inserito nel quadro composito della politica del paese.
Secondo un'ipotesi ottimistica questo evento imprevisto finirà per rafforzare le tesi di chi - come l'attuale premier Wen Jiabao e il suo successore Li Keqiang - pensa che alla Cina non serva inneggiare alle masse ma continuare sulla via delle riforme economiche, giuridiche e politiche. Le riforme si rendono necessarie per tutta una serie di motivi, dal calo della crescita economica (dal 9% all'8%, e forse si arriverà al 7%), passando per le ineguaglianze, il divario rurale-urbano e l'invecchiamento della popolazione, fino alla proliferazione metastatica della corruzione ai massimi livelli (testimoniata dal lussuoso stile di vita champagne-maoista della famiglia Bo), la necessità di innovazione e le crescenti aspettative dei giovani istruiti che si connettono a Weibo.
A sorprendermi, nel corso di questa mia visita in Cina, è che questo stato d'animo è diffuso non solo nei soliti ambienti, quello accademico liberale e tra gli economisti che teorizzano il mercato libero, tra gli scrittori e gli studenti, ma anche in contesti inattesi, come la scuola centrale del partito comunista cinese e addirittura l'emittente nazionale cinese Cctv.
Non scommetterei su un esito del genere. La cautela, il consenso e gli interessi personali remano contro, per via degli intrecci tra potere politico e potere economico a livello familiaree di clan esemplificati dai Bo, e perché alcuni ex leader come Jiang Zemin (e presto Hu Jintao), manterranno la loro influenza dietro le quinte, o, come dice la meravigliosa antica espressione cinese, "dietro la tenda di bambù". Ma l'affare Bo avrà ripercussioni tali da incidere sui vertici del partito, spingendoli a passi decisivi sia per recuperare un'immagine appannata, che al fine di realizzare, nel più lungo periodo, iniziative che gran parte dei cinesi possano assimilare al progresso.
Se ciò dovesse accadere (e il condizionale è d'obbligo), se la misteriosa e tragica morte di un oscuro uomo d'affari britannico dovesse portare a una maggiore stabilità in Cinae di conseguenza a un mondo più sicuro, sarebbe proprio uno straordinario esempio della legge delle conseguenze involontarie. (Traduzione di Emilia Benghi)

Corriere 27.4.12
La visita lampo di Grilli e le richieste di Pechino
di m.d.c.


La visita lampo del viceministro dell'Economia a Pechino è servita a consolidare la fiducia della Cina per l'Italia ma non ancora a portare a casa promesse circostanziate di investimenti o acquisizioni di bond. Vittorio Grilli, che ieri sera era già ripartito per Hangzhou e Shanghai, ha riscontrato nei suoi interlocutori «attenzione e un atteggiamento positivo. Più che di interventi specifici si è parlato del processo di apertura dell'Italia», dove «tutti gli investimenti sono benvenuti». Nella capitale il viceministro ha incontrato l'amministratore delegato del fondo sovrano cinese Cic, Gao Xiqing, e Yi Gang, il vicegovernatore della banca centrale responsabile della Safe, l'agenzia di gestione delle riserve e degli investimenti valutari e finanziari. Non è ancora il momento di intervenire, da parte cinese, riferisce Grilli. «Si tratta di grossi investitori che guardano a opportunità cospicue. C'è una questione di dimensione, per un Paese come il nostro dove il più delle imprese non sono l'obiettivo ovvio di fondi sovrani che cercano interventi di taglia grande. Il problema delle nostre piccole e medie imprese è che sono brave ad affrontare i mercati europeo e americano, meno abituate alla Cina». Eppure Grilli, che da direttore generale del Tesoro era stato nella Repubblica Popolare e in altre piazze asiatiche lo scorso agosto, segnala il cambiamento di atteggiamento da parte della Cina, sulla cui crescita «non si possono nutrire dubbi». Da parte di Pechino «la richiesta ovvia — aggiunge — è che si proceda: il loro messaggio è un "bravi, bene, continuate così"». Il viceministro spiega la cautela della controparte dicendo che «si tratta di gestori di risorse nazionali, senza atteggiamenti speculativi. Ogni mossa è basata sulla convenienza finanziaria». Nonostante il forte legame Cina-Germania, spazio per l'Italia Grilli ne vede. Occorre la consapevolezza che «più ci facciamo conoscere meglio è». Ed è per questo che il mini-tour cinese di Grilli prosegue al sud, dove oltre a vedere potenziali investitori cinesi si collegherà in «conference call», complice il fuso orario, con altri attori finanziari di Singapore, Thailandia e Malaysia.

il Fatto 27.4.12
Tutti pazzi per Gramsci
di Angelo d’Orsi


The Gramscian Moment è il titolo di un recente libro del britannico Peter Thomas vincitore del Premio internazionale Sormani. E di autentico “momento gramsciano” si deve parlare, gettando lo sguardo ben oltre le frontiere. Ma sarebbe un errore ritenere che questo momento sia cominciato tra il 2011 e i primi mesi del 2012, quando un’autentica profluvie di libri, richiamati più o meno correttamente dai media, si è abbattuta nelle librerie italiane, e l’alluvione continua.
La Gramsci-Renaissance data dal 2007, quando si celebrarono, in una misura e con una intensità mai viste, i 70 anni dalla morte. Fu un anno eccezionale, con convegni che cominciarono in Australia e percorsero il globo, toccando decine di Paesi. E, mentre cominciavano a uscire a stampa i primi volumi dell’Edizione Nazionale degli Scritti, si presentava, anche grazie al lavoro nel-l’ambito di quella impresa gigantesca, e a quello svolto per la Bibliografia Gramsciana Ragionata (BGR) e per il Dizionario Gramsciano, una nuova generazione di studiosi, che a Gramsci guardava con occhi freschi, non condizionata dai dibattiti del passato. Qualcuno disse: finalmente si potrà semplicemente leggere Gramsci come “un classico”. Ma così non è e così in fondo non può essere. Antonio Gramsci fu e rimase un rivoluzionario e un comunista fino all’ultimo suo giorno – che cadde esattamente 75 anni or sono, in una clinica romana dopo un decennio di detenzione e patimenti inenarrabili – il 27 aprile 1937. Ma fu anche un pensatore, sicuramente il più profondo e originale pensatore dell’Italia del Novecento; ma anche uno dei più stimolanti analisti del “moderno”: storico e storiografo, filosofo e pedagogista, teorico della lingua e della letteratura, scienziato politico. E, last but not least, uno scrittore impareggiabile, che nelle sue lettere ha toccato altissimi vertici di umanità e di multiforme capacità letteraria.
SONO QUESTE le ragioni della rinascita di attenzione a Gramsci, oggi uno degli autori italiani di ogni epoca più tradotti e studiati nel mondo? Indubbiamente. Ma come testimoniano le polemiche ricorrenti, scatenate da sedicenti nuove interpretazioni o pretese “rivelazioni”, non si discute solo in merito al teorico e lo scrittore, ma sempre comunque sui connotati politici della sua opera teorica e pratica: dei risultati che ebbe quando egli era un giovane giornalista del Partito socialista, o quando divenne direttore del settimanale poi quotidiano L’Ordine Nuovo, colonna del Partito comunista, fondatore de l’Unità, fino a quando giunse, dopo un’aspra battaglia interna, a prendere la guida del Partito, poco prima dell’arresto nel novembre ’26. Di quei tempi fu la rottura con Togliatti, su cui poi tanta speculazione si fece. Il dissenso nasceva dalla differente valutazione, positiva per Togliatti, critica e preoccupata per Gramsci, delle lotte interne al Partito sovietico.
È la vicenda della lettera da Gramsci scritta per i compagni russi e affidata a Togliatti, che, d’accordo con Bucharin non la consegnò, suscitando l’aspra reprimenda di Gramsci e una greve risposta di Togliatti. Fu quello, dell’ottobre ’26, l’ultimo contatto fra i due, che non ebbero più modo di parlarsi. Del resto mentre Gramsci cominciava il suo calvario, Togliatti vestì i panni di dirigente dell’Internazionale Comunista, condividendone responsabilità, anche se non fu mai un piatto esecutore degli ordini di Stalin, spesso anzi cercando di portare avanti una linea di riserva. Ma certo fu completamente dentro quella storia, da cui Gramsci invece fu escluso. E non come qualcuno ha scritto, scioccamente, perché “per sua fortuna” era in carcere, ma perché il suo comunismo, su cui continuò a riflettere, era oggettivamente diverso. E lo era stato fin dal suo affacciarsi alla Torino industriale, dove conobbe gli operai, “uomini di carne ed ossa”, quando mise l’accento sul fattore umano e quello culturale. E cominciò a elaborare un socialismo che ne tenesse conto. Doveva essere un movimento di liberazione il socialismo, di uomini (e donne: la sua attenzione all’altra metà del cielo fu costante), non sostituire un’oppressione ad un’altra. Quel socialismo era umanistico, e tale rimase anche dopo la trasformazione in comunismo. Ma l’umanesimo gli giungeva non solo dal contatto diretto con i proletari, ma dalla stessa attenzione alla cultura. E anche quando, nei primi anni Venti, la bolscevizzazione toccò tanto il Pcd’I, quanto lo stesso Gramsci, egli non perse lo zoccolo duro, umanistico e insieme critico, della propria concezione di comunismo. Perciò, quando crollò il Muro, nel 1989, trascinando sotto le macerie la quasi totalità della tradizione marxista, Gramsci non solo si salvò, ma ne emerse come un trionfatore.
ERA IL PORTATORE di un altro socialismo possibile. Sconfitto politicamente, in una determinata fase storica, ma non filosoficamente ed eticamente. Dunque, il momento gramsciano, sia nel livello alto degli studi, sia in quello basso, talora infimo, e persino volgare, di polemiche spicciole, e infondate, magari ammantate di scientificità, non accenna a finire: perché dietro l’analista acuto e sofferto della sconfitta della rivoluzione in Occidente, nella lunga meditazione carceraria, emerge il teorico di un’altra rivoluzione possibile, magari attraverso gli strumenti culturali, capaci di sostituire al dominio fondato sulla coercizione l’egemonia basata sul consenso. E il suo motto fondamentale rimane pur sempre il primo dei tre che campeggiano sulla testata de L’Ordine Nuovo: “Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”

Sette del Corriere 27.4.12
La controversa figura del padre del Pci
Gramsci il “totalitario”
L’autore dei Quaderni dal carcere è tornato al centro del dibattito culturale
attraverso nuovi libri a lui dedicati, testi inediti e reinterpretazioni
Come quella di un sociologo che scrive a Sette per puntare il dito sul filosofo
descritto come pedagogo violento e intollerante
di Alessandro Orsini

qui

l’Unità 27.4.12
La fabbrica dei libri
Non calano biblioteche e usato
di Maria Serena Palieri


Mancano 13 giorni all’apertura di un Salone internazionale del Libro che darà una raffigurazione plastica della crisi: per mortalità aumentata delle piccole imprese, vita media più breve delle neonate, ardimentose politiche dei grandi gruppi. Ieri l’Aie annuncia il titolo del convegno che terrà al Lingotto: «Una tempesta perfetta?» (Sala Blu venerdì 11 ore 10). L’industria editoriale in tutto l’Occidente è scossa da due eventi: crisi economica da un lato, avvento dell’e-book dall’altro. Sul primo piano, da noi, ecco le cifre: consumi pro-capite -6,3%, reddito disponibile -12,3%, produzione mensile di novità pubblicate –28,8% tra marzo 2011 e febbraio 2012, lettura di libri tra 2011 e 2010 -2,7%.
Sul secondo piano: tablet venduti +100,2%, lettori di e-book da 350mila dell’ultimo trimestre 2010 a 1,1milioni del 2011. Significa che, in corsa, gli editori devono passare dalla politica perseguita da più di essi di quanti non si creda del «pubblico, un titolo su 10 ce la farà e mi ricompenserà degli altri» a una programmazione selettiva; e intanto risintonizzarsi sul versante dei lettori digitali, che possono comprare libri 24 ore su 24, e che, forse, non vogliono il libro classico ma lo vogliono con le «app»... Fare l’editore di questi tempi è roba da infarto.
Ma c’è un dato in più: il mercato dell’usato intanto cresce, come ha spiegato ad Affariitaliani.it Edoardo Scioscia, direttore del Libraccio. Significa che non è tanto l’amor per il libro di carta a decrescere, quanto la possibilità di acquisto. Sì, le nuove generazioni dividono il tempo libero tra più mezzi: libro, internet, social network ecc... Però sarebbe il caso di fare un giro nel più tradizionale dei luoghi di lettura, per capire come vanno davvero le cose: le biblioteche pubbliche. Il prestito, negli ultimi tempi, com’è andato? Non sarà cresciuto?

Corriere 27.4.12
Il Salone dei 25 anni sfida il grande freddo
di Cristina Taglietti


TORINO — Un compleanno importante, 25 anni, che cade in un momento difficile per l'economia, con l'editoria provata dalla crisi e un 2012 che si è aperto con segno negativo (le novità editoriali pubblicate in Italia evidenziano un -28,8% tra marzo 2011 e febbraio 2012, secondo uno dei dati che verranno presentati dall'Aie). Eppure il Salone del libro di Torino, ha detto ieri alla conferenza stampa di presentazione il suo presidente, Rolando Picchioni, rifiuta l'immagine di una manifestazione «in cassa integrazione», rincantucciata «in attesa che passi la nottata». In ogni caso i costi e i finanziamenti sono stati un argomento all'ordine del giorno, a cominciare dagli appelli che Picchioni, da politico consumato, ha rivolto alle istituzioni e, mettendo un punto alle polemiche dei giorni scorsi, soprattutto a Régis Faure, neodirettore generale di Gl Events, la società francese proprietaria degli spazi della fiera che avrebbe applicato «onerosi costi di servizio» (precisamente 240 mila euro) per l'uso del padiglione Oval la scorsa edizione.
Di finanziamenti ha parlato anche l'assessore alla cultura della Regione Michele Coppola annunciando che lunedì scorso il consiglio regionale del Piemonte ha approvato l'articolo 5 che decide di destinare il 30% del gettito derivante dall'addizionale Irpef alle attività culturali e turistiche. Per quanto riguarda i contenuti, il Salone, ha spiegato il direttore Ernesto Ferrero, festeggia le nozze d'argento con il suo pubblico con un tema quanto mai caldo, «Primavera digitale», che ci vede di fronte a una vera e propria rivoluzione che sta sconvolgendo l'editoria; con il raddoppio dei Paesi ospiti — Spagna e Romania — e una parata di star italiane e internazionali, da Javier Cercas a Ildefonso Falcones a Enrique Vila-Matas, da Norman Manea a Hans Magnus Enzensberger, da Elizabeth Strout a Patrick McGrath, da Luis Sepúlveda a Christopher Paolini, da Claudio Magris a Alessandro Baricco, da Niccolò Ammaniti a Gianrico Carofiglio a Mauro Corona. Il Salone, che quest'anno avrà come madrina Maria Giulia Castagnone, direttore editoriale di Piemme, punta molto anche sui romanzi trasformati in spettacolo come quelli proposti da Aldo Cazzullo, Davide Enia, Donato Carrisi e sui temi di cui discute la società civile. Si parlerà di mafia, di etica, di ambiente, di democrazia e antipolitica e se ne parlerà anche con i ragazzi e gli adolescenti al Bookstock Village. Per la prima volta sbarcano al Salone, in particolare a Book to the Future, l'area interamente dedicata all'editoria digitale, alcuni dei più importanti player internazionali: amazon, Nokia e Sony, mentre continua l'esperienza di Lingua Madre, il laboratorio di meticciato, organizzato con la regione Piemonte, che ridisegna, attraverso i suoi ospiti, la mappa delle culture mondiali.
I 25 anni del Salone saranno festeggiati anche con la mostra La città visibile. Torino 1988-2012, ideata con il Circolo dei lettori e curata da Luca Beatrice. Saranno esposti i 25 oggetti simbolo della capitale sabauda nell'ultimo quarto di secolo: dai loghi del Salone alla sentenza Thyssen, dall'mp3 al motore «common rail», dalla torcia olimpica alle Superga tricolori.

Repubblica 27.4.12
Meno fondi e meno spazi, ma tanti incontri sul futuro del libro
Il Salone di Torino in tempo di crisi
di Massimo Novelli


È il Salone del Libro al tempo della crisi, quello presentato ieri al Teatro Regio di Torino, che dal 10 al 14 maggio celebrerà al Lingotto la sua venticinquesima edizione con i nuovi linguaggi digitali a fungere da tema portante e la Romania e la Spagna in veste di nazioni in passerella. La crisi, però, c'è e si vede, non soltanto perché gli organizzatori della kermesse chiederanno a Mario Monti, che di recessione se ne intende, di venire a inaugurarlo. Rolando Picchioni, presidente della fondazione che la promuove, non vuole sentire parlare di una fiera in cassa integrazionee dice: «Ho sempre preferito guardare avanti; la battaglia è più che mai difendere l'idea che il libro deve essere una commodity, un presidio di prima necessità». Ma le cifre sembrano smentirlo.
Intanto la Fondazione per il libro, la musica e la cultura ha già preso atto che di soldi non ce ne saranno troppi. Il Comune di Torino, il maggiore finanziatore pubblico, taglierà il venti per cento, passando da un milione di euro a 800 mila.
La riduzione dei fondi porta, tra le altre cose, a rinunciare al grande spazio espositivo dell'Oval, troppo costoso, che l'anno scorso aveva o s p i t a t o l a mostra «L'Italia dei Libri». E i numeri forniti sempre ieri dall'Associazione Italiana Editori (AIE) sul mercato editoriale, non fanno altro che rafforzare l'idea di un Salone dimagrito. Si va dal 28,8 per cento in meno nella produzione italiana di novità librarie, fra il marzo del 2011 e il febbraio scorso, alla diminuzione della lettura, dal 2010 al 2011, del 2,7 per cento. In compenso crescono i lettori di e-book, che sono passati dai 350 mila dell'ultimo trimestre del 2010 a 1,1 milioni del 2011.
Anche per queste ragioni la «Primavera digitale» è il logo e il denominatore comune della Librolandia 2012, che vedrà il debutto, nello spazio del «Book to The Future»», di tre big, o player come si dice, del calibro di Amazon, Nokia e Trekstor, oltre a varare lo sbarco del Salone stesso su Twitter. Nonostante tutto ciò, la manifestazione di Torino snocciola, pure stavolta, un programma di tutto rispetto, dove peraltro, incredibile ma vero, tra i 1200 editori presenti se ne annoverano una cinquantina di nuovi. Gli ospiti di maggiore fama, attesi a maggio, sono una marea. Tra gli stranieri si va da Tahar Ben Jelloun a Henning Mankell, da Hans Magnus Enzesberger ad Amitav Ghosh, da Patrick McGrath a Luis Sepúlveda e a Elizabeth Strout, senza scordare i romeni come Norman Manea e gli spagnoli & catalani, un esercito composto da Javier Cercas, Pérez-Reverte, Savater, Vila-Matas, Almudena Grandes, Rosa Montero, la Giménez-Bartlett. Se una mostra celebra i 25 oggetti che hanno segnato la storia di Torino, dalla sentenza giudiziaria per il rogo della Thyssen alla torcia olimpica del 2006, il cartellone degli scrittori italiani ne contempla decinee decine. Nel mare magnum spiccano i ricordi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, un'iniziativa di «Trame di memoria», il festival dei libri sulle mafie; e le lezioni magistrali di Claudio Magris, di Alessandro Baricco, di Raffaele La Capria, oltre ai dialoghi sul futuro della democrazia nell'era dell'antipolitica fra Stefano Rodotà e Carlo Galli, e quello fra Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky. È annunciato infine l'arrivo di Roberto Saviano e di Fabio Fazio, forse all'Auditorium del Lingotto, che in quei giorni saranno comunque alle ex Ogr (Officine Ferroviarie) torinesi per il loro programma televisivo in diretta.

il Fatto 27.4.12
Marco Paolini ha portato su La7 la storia di Galileo e della matematica
Il teatro dei numeri
di Luigi Galella


Alza l'asticella Marco Paolini. Come quei campioni che provano la misura record, nello stupore di chi li osserva ammirato, e volano su in alto: il corpo più leggero dell'aria. Temerariamente, una lezione di fisica in tv: “ITIS Galileo” (La7, mercoledì 25 aprile, 21.15). Didattica teatrale della scienza dei numeri e della natura, nel passaggio drammatico fra la vecchia e la nuova concezione del mondo. Quattrocento anni fa. Non proprio, come si dice, sulla notizia. Ma è l'inattualità che rende preziosa la cultura. Chi avesse perso lo spettacolo potrebbe sempre dire, come un ragazzo svogliato e un po’ ottuso: “Tanto, a che serve ‘a matematica! ” Chi al contrario lo avesse guardato si sentirebbe più ricco e più curioso: di capire, di approfondire. “Non esistono vie regie per la matematica”: sembra che così Euclide abbia risposto polemicamente al sovrano d'Egitto, che voleva educarsi alla scienza del maestro, facilmente: non ci sono canali privilegiati per questa disciplina. Paolini sfida la massima, nel tono e nel linguaggio. Che si abbassano per comunicare la materia ostica a un pubblico ampio. Il tema non è di carattere politico o ideologico, non sono in gioco il celebre processo a Galileo e l'abiura conseguente, ma i fondamenti stessi della conoscenza. In termini professorali: la relazione fra il pensiero razionalistico-deduttivo di estrazione aristotelica e quello induttivo-sperimentale, galileiano. La rivoluzione, quella vera. Che nasce dalla diffidenza, dalla spregiudicatezza e dallo spirito d'osservazione. Uno spettacolo “artigiano e partigiano”, sotto 1400 metri di roccia, nei laboratori del Gran Sasso: i più grandi del mondo, per lo studio delle particelle più piccole. Un solo esempio, fra i tanti, della tecnica utilizzata. Per spiegare il travaglio del rapporto fra il vecchio e il nuovo modo di concepire la conoscenza, l'autore e interprete descrive un insegnante di anatomia, in un bozzetto caricaturale, che spiega il corpo umano utilizzando le tavole dei Greci, avendo sotto di sé un cadavere dissezionato. E di fronte all’evidenza di un organo che si riscontra in una posizione diversa rispetto a quella indicata dai testi, ne deduce che “quel corpo è deforme”. “Il libro è la verità e la realtà per cortesia si adegui”.
È l’Ipse dixit utilizzato a proposito del Maestro. Prima Pitagora e poi Aristotele. L'ha detto lui. Quindi ha un valore sacro, inviolabile. È il principio d'autorità che ha retto la storia del pensiero occidentale per secoli. E che è sempre dietro l'angolo, se ci si impigrisce. Come dichiara ironicamente Paolini: “Ma chi l'ha mai letto Galileo! ”
Forse è così. Ma nel recente passato no. Risale agli anni Sessanta una polemica tra Cassola e Calvino. Quest'ultimo aveva osato dichiarare Galileo il più grande scrittore italiano. Cassola rispose piccato: e Dante? Una “querelle” letteraria sul valore della poesia dantesca in rapporto alla prosa galileiana. Oggi nel clima di ilare disimpegno si è portati quasi a ostentare la noia verso gli autori “alti”. E forse anche contro questa deriva molto a la page lavora Paolini. Che ha l'abilità di rendere leggeri i pesi, liberandoli dalla gravità. Non dal senso. E nemmeno dallo share: un prodigioso 5.73 per cento.

il Fatto 27.4.12
Severino: i blog vanno regolamentati


Non solo intercettazioni. Hanno scatenato un putiferio anche le dichiarazioni riguardanti il mondo dei blog del ministro della Giustizia Paola Severino, ieri, al festival del giornalismo di Perugia. “Il blog – le parole del ministro – ha una diffusione non controllata e non controllabile”. Ecco perché, “questo mondo va regolamentato e pur nella spontaneità che ne rappresenta la caratteristica non può trasformarsi in arbitrio”. Alla domanda se il governo stia pensando di intervenire sull’obbligo di rettifica per i blog, il ministro ha risposto: “È molto difficile. Proprio per questo credo che le mie parole vadano colte non come polemica o bavaglio. Mi rivolgo ai blogger direttamente dicendo: sappiate che quello che fate agli altri potrebbe essere fatto a voi. Quindi autoregolamentatevi e autodisciplinatevi perché allora quello dei blog diventerà un mondo veramente utile per la crescita sociale del nostro e di altri Paesi”. Pd e Italia dei Valori replicano a stretto giro: siamo contrari a qualsiasi limitazione della libertà di espressione su Internet.

Corriere 27.4.12
Se la scienza scopre che si diventa adulti soltanto a 24 anni
L'adolescente ha il «diritto all'immaturità»
di Fulvio Scaparro


«A che età si diventa adulti?». Recenti ricerche sugli adolescenti pubblicate su The Lancet tentano di dare una risposta alla domanda. Secondo i ricercatori il nostro cervello non si sviluppa del tutto fino all'età di ventiquattro anni e solo dopo questa età possiamo ragionevolmente ritenere che si possa entrare nell'età adulta.
Recenti ricerche sugli adolescenti pubblicate in The Lancet tentano di dare una risposta alla domanda «A che età si diventa adulti?». I ricercatori non si riferiscono alle apparenti certezze della maturità giuridica: un'età per il sesso, una per guidare l'auto, una per bere alcolici, un'altra ancora per votare e così via. Ma la domanda alla quale tentano di rispondere si riferisce alla maturità naturale e la loro risposta non è quella che convenzionalmente indicava nella pubertà l'inizio dell'adolescenza e attorno ai vent'anni l'ingresso nell'età adulta. Secondo i ricercatori il nostro cervello non si sviluppa del tutto fino all'età di ventiquattro anni e solo dopo questa età possiamo ragionevolmente ritenere che si possa entrare nell'età adulta. Prima il cervello degli adolescenti non sarebbe sufficientemente attrezzato per valutare appieno le conseguenze dei comportamenti. Questo spiegherebbe la sottovalutazione dei rischi, degli effetti dell'abuso di alcolici, di droghe ecc... che in molti ritengono «tipicamente adolescenziale».
Non conterei troppo sulla convinzione che l'ingresso nell'età adulta comporti quel tanto di saggezza ed equilibrio che serve a vivere nel mondo senza far troppi danni a noi stessi e al prossimo. Se però le ricerche saranno confermate è senz'altro utile sapere che il cervello degli adolescenti ha tempi di maturazione più lunghi di quelli finora ipotizzati. Si pensi, ad esempio, all'apporto che queste ricerche possono fornire quando si valuta la eventuale discordanza tra l'incapacità legale di agire e la capacità naturale del soggetto minorenne.
Il fatto è che è del tutto discutibile che «adulto» sia sinonimo di «maturo» e «adolescente» sia sinonimo di «immaturo», almeno finché non ci chiediamo «maturo o immaturo per cosa?». Io definisco la maturazione come il processo di acquisizione della capacità di separarsi da esperienze precedenti senza che questo impedisca al soggetto di stabilire nuove relazioni, alla ricerca di nuovi e più soddisfacenti equilibri. La precarietà di ogni equilibrio raggiunto rende continua la ricerca, relative e provvisorie le diverse tappe raggiunte, le diverse maturità, fisiche, affettive, cognitive, morali e sociali. Siamo sempre più o meno maturi per affrontare certe prove e contemporaneamente più o meno immaturi per altre.
Secondo questa definizione, da uno stato fusionale in cui il neonato è ancora soggetto pienamente e sanamente immaturo, nel corso dello sviluppo si afferma con sempre maggiore evidenza la capacità di separarsi e stabilire nuove relazioni. La nostra maturità è messa alla prova ogni giorno.
Il bambino e l'adolescente soffrono se essi stessi o altri confondono il processo, la maturazione, con una o più delle sue tappe, le diverse maturità che vengono via via raggiunte a livelli e in tempi differenti da individuo a individuo. Soffrono se percepiscono, o altri percepiscono, il loro processo di maturazione come privo o carente di caratteristiche essenziali quali il movimento, l'orientamento e la regressione, se in altre parole scambiano, o altri scambiano, un fotogramma con l'intero film della loro vita.
In altri termini, al bambino e all'adolescente va riconosciuto il diritto all'immaturità, totale all'inizio dell'esistenza, ma anche quello al riconoscimento di tempi personali di maturazione che non procede mai senza arresti e regressioni.
Arthur Koestler in Buio a mezzogiorno faceva dire a un suo personaggio, in risposta a chi gli chiedeva a quale età era diventato adulto, che sono le esperienze che ci fanno maturare: «Se vuoi veramente sapere, sono diventato uomo a diciassette anni, quando fui mandato in esilio per la prima volta».

l’Unità 27.4.12
La nostra storia non cancella le altre storie
La polemica sulle radici cristiane. Maurizio Bettini contesta che si possa definire una comunità attraverso la «tradizione». Ma evocare il passato non vuol dire imporlo. E soprattutto non è con un rifiuto che si affronta la modernità
La laicità. Se riteniamo che sia in pericolo difendiamola attraverso la politica
di Alessandra Tarquini


Qual è il ruolo della tradizione nella storia di un popolo? La domanda,che ha suscitato l’interesse di generazioni di studiosi, trova oggi risposta in un breve ma impegnativo volume: Contro le radici. Tradizione, identità, memoria del filologo Maurizio Bettini, pubblicato dal Mulino.
Bettini non crede sia possibile definire una comunità attraverso la tradizione: ai politici che hanno proposto di inserire nel preambolo della Costituzione europea un riferimento alle radici cristiane del vecchio continente; agli autori del manifesto della scuola leghista Bosina in cui si legge che «gli uomini sono come gli alberi», «se non hanno radici, sono foglie al vento»; a Marcello Pera, più volte ricordato perché esponente di un mondo che rifiuta il multiculturalismo e trova la forza della sua identità nella tradizione, Bettini contesta la stessa idea di«radici». Per questo suggerisce di rappresentare la tradizione come un fiume nel quale confluiscono diversi affluenti, invece di utilizzare la metafora botanica delle radici che rimanda alla terra, e quindi esprime l’idea del fondamento. Nel volume, con molteplici citazioni tratte dalle sue competenze di filologo classico, e con un richiamo agli studi sulla memoria collettiva di Maurice Halbwachs, Bettini ricorda che la tradizione si costruisce attraverso una continua selezione della memoria. In questo senso è scorretto e pericoloso immaginarla come un dato stabilito una volta per sempre e invocato per definire l’identità di un gruppo sociale.
Ora qual è la ragione di questo suo timore? Bettini pensa che noi italiani abbiamo un rapporto patologico col nostro passato. Incapaci di emanciparci dalla cultura che ci ha preceduti, negli ultimi anni stiamo assistendo al riaprirsi del confronto fra cultura laica e cultura cattolica e ad un ritorno, nella società contemporanea, della spiritualità. In realtà non spiega perché la rinascita della religione potrebbe costituire un problema e presenta come universalmente acquisite considerazioni storiografiche che fanno parte di interminabili dibattiti. Iniziamo dalla teoria della «tradizione inventata», proposta dallo storico inglese Eric Hobsbawm nel 1983 e ripresa da Bettini in Contro le radici: secondo Hobsbawm molte «tradizioni che ci appaiano, o si pretendono, antiche hanno spesso un'origine piuttosto recente e talvolta sono inventate di sana pianta» per rispondere a tempi di crisi e per accrescere la legittimità dell’oggetto della tradizione. Per esempio, nel XIX secolo le nazioni moderne hanno proiettato la loro presenza nel passato per giustificare la propria esistenza.
È un’ipotesi interpretativa molto nota, ma non è l’unica che ci aiuta capire il ruolo delle tradizioni e dei miti politici nella modernità. Nel 1975 lo storico tedesco George Mosse scrisse che dal XIX secolo, per sottrarsi alle angosce determinate dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione e dall’erosione dei valori cristiani, in un mondo divenuto anonimo perché sempre più alienante, la politica moderna si espresse nei termini di una religione laica e nazionalista, attraverso una liturgia dotata di un apparato di miti, di riti e di simboli. Secondo Mosse, dunque, la questione non era, e non è, se i miti prodotti dalla politica sono veri o falsi, e tanto meno se sono creati a tavolino da solerti inventori di ideologie. La questione è che la politica della modernità, quella nata dalla rivoluzione industriale, ha coinvolto élite e masse popolari proprio in quanto religione, e quindi credenza capace di garantire identità e salvezza a tutti coloro che la celebrano. È quella che Mosse definì «nazionalizzazione delle masse».
PERCORSO VERSO IL FUTURO
E, in effetti, proprio la modernità, nominata addirittura nella copertina del libro di Bettini come una realtà che si sviluppa contro le derive tradizionaliste, è decisamente assente dalle pagine che compongono il volume. O meglio, la modernità che traspare dal suo ragionamento è un percorso verso il futuro che si dipana emancipandosi dalla spiritualità, dal passato e ovviamente dalla religione. Se non suonasse provocatorio verrebbe da dire che questa riflessione appartiene ad una «tradizione» le cui «radici» affondano nel terreno della storia del nostro Paese: una tradizione tenuta in vita da quegli intellettuali che hanno considerato l’Italia un Paese diverso dal mondo moderno e civilizzato. Arretrati, retorici, piccolo borghesi, cattolici, illiberali, e infine pure fascisti, non siamo e non saremo mai come gli altri europei. Eppure, di fronte alle religioni politiche del 900, alla novità rappresentata dai regimi totalitari, alla trasformazione della politica in una fede che ambisce a garantire senso all’esistenza, non c’è bisogno di scomodare nessun autorevole studioso per ricordare che non esiste soltanto una modernità buona, democratica, razionalista e laica.
Forse, allora,i diritti delle minoranze non saranno tutelati negando l’esistenza delle tradizioni o magari considerandole espressioni primitive. Se pensiamo che la laicità dello Stato sia in pericolo, come sostiene Bettini, difendiamola politicamente e culturalmente. L’abbiamo fatto con le battaglie per i diritti civili e dovremmo continuare a farlo di fronte alle nuove grandi questioni poste dallo sviluppo scientifico e da una società multietnica: dal cosiddetto testamento biologico, alla necessità di garantire la neutralità confessionale ai numerosi bambini non cattolici che frequentano le scuole pubbliche. Potremmo mostrare che evocare il passato non significa necessariamente imporre la propria storia a chi ne ha una diversa.

l’Unità 27.4.12
Opera per Pasolini
poeta civile contro la barbarie di massa
Il poema musicale ideato da Gianni Borgna è andato in scena il 25 Aprile all’Auditorium Parco della Musica
di Bruno Gravagnuolo


E se provassimo a leggere Pasolini, e a «sentirlo», come la colonna sonora poetica del nostro dopoguerra? Come un Omero degli ultimi? In fondo è stato ben più che un irregolare, ma un pensiero. Un’interpretazione civile della nostra storia, che arriva a lambire anche l’oggi con le sue forme di barbarie. Era questa l’intenzione poetica di Gianni Borgna che il 25 aprile, è tornato nel «suo» Auditorium da autore. Col suo autore d’elezione, Pasolini appunto, aspro miscuglio di politica e impolitica, trasgressione e tradizione, che fu elemento formativo di un certa generazione di giovani comunisti romani degli anni 70.
Borgna, che è uno dei massimi studiosi del poeta friulano, si è inventato proprio per il giorno della Liberazione uno spettacolo in suo onore: Il poeta delle ceneri. In gremita Sala Sinopoli al Parco della Musica. Fatto di testi, canzoni, echi, brani da Edipo Re e da Orgia, scritti corsari. E poi di immagini dall’Idroscalo e sterpaglie disseminate di lapidi poetiche, dove il degrado torna a inghiottire il poeta assassinato. Voce tonante sullo sfondo di Cosimo Cinieri, già compagno d’arme di Carmelo Bene nella Gerdameria salentina. E regia di Irma Palazzo, con un ensemble musicale diretto al piano da Domenico Virgilio. E un angelo caravaggesco cantatore in mezzo: Gianni de Feo. Sullo sfondo una serigrafia wahroliana intermittente, firmata Max Ciogli, e una quinta teatrale «poverista», con stracci e tende al vento, costruita da Giancarlino Benedetti.
VERSI, PROFEZIE, INVETTIVE
Insomma recital sincopato e spettacolo musicale, meritevole di repliche. Tessuto con versi, profezie e invettive di Pasolini. Con le sue ossessioni. Una prima di tutto: il degrado antropologico e di massa della società italiana, proprio dal boom economico in poi. E dunque, la fine di ogni epos rivoluzionario e anche di ogni identità comunitaria, proprio a partire dalla colonizzazzione operata dai consumi. «Destra divina» sub specie di populismo decadente? Nostalgia romantica di aedi del popolo, per riprendere la querelle operaista e modernista di Asor Rosa? Forse anche questo c’è, in Pierpaolo Pasolini. Autore però che inscrive la sua poesia civile in un netto registro di sinistra e di emancipazione delle classi subalterne. Ma poi, oltre alla creatività dei registri Masaccio, Masolino, il decadentismo, il simbolismo, la linguistica, il «tragico» e la cinematografia una cosa si sente bene in Pasolini. Specie oggi. E cioè: le ferite di una storia nazionale degenerata in Kitsch violento e amorale. In assenza della civitas e nel segno dell’egotismo di massa cinico e «acquisitivo». Perciò per capire dove siamo oggi, è inevitabile tornare all’Idroscalo.