domenica 29 aprile 2012

l’Unità 29.4.12
D’Alema: «Dalla crisi si esce a sinistra,
il nostro vero avversario è la sfiducia»
«Le responsabilità sono della destra liberista, ora misure per la crescita
Il governo Monti? Lo sosterremo responsabilmente per tutta la legislatura»
«Il partito della nazione? Siamo noi»
Intervista di Simone Collini


Seconda Repubblica. «Abbiamo fondato il partito a vocazione maggioritaria, il
Pd, per suparare la crisi di sistema. Potevamo tenerci l’Ulivo se non ci credevamo»

La transizione politica- «Casini vuol creare il partito della nazione. Un partito
della nazione c’è: siamo noi. Nel Pd si impegnino tutti a superare dispute inutili»

Il principale avversario non è il centrodestra ma la sfiducia dei cittadini. È un avversario sicuramente più insidioso del centrodestra, ormai del tutto privo di credibilità, in profonda crisi, scosso da divisioni interne e non in grado di presentare una proposta politica al Paese. C’è la sensazione di fare una campagna nel vuoto. Ci siamo noi e poi c’è un pesante senso di sfiducia». Crispino, Torremaggiore, Rodi Garganico, Apricena. In queste ore Massimo D’Alema fa la spola lungo le strade di Puglia per sostenere i candidati del centrosinistra alle amministrative. Comuni grandi e piccoli dove si sfidano anche dieci o più aspiranti alla carica di sindaco. «Dicono tutti che la politica fa schifo e poi si candidano in centinaia», ironizza. Ma il discorso è serio, vista la fase che sta attraversando il Paese: «Il rischio di una frammentazione e di una profonda confusione è fortissimo. E in questo quadro si congiungono anche due fattori molto preoccupanti, che si alimentano a vicenda: un grande malessere sociale e la sfiducia nella politica. Noi ci troviamo a rappresentare l’unica proposta politica in campo, l'unica ipotesi di governo».
Il Pd però è tutt’altro che immune da quel sentire e sostiene un governo che impone pesanti sacrifici: sicuri che stiate facendo ciò che va fatto? «L’Italia è un Paese dalla memoria corta. Le persone non possono dimenticare come siamo arrivati fin qui e perché si sono resi necessari questi sacrifici, di cui noi, volendo il governo Monti e appoggiandolo, giustamente ci siamo assunti la responsabilità. Quando dici che Berlusconi era al governo sei mesi fa le persone ti guardano come se stessi parlando di vicende del secolo scorso. No, va ricostruita la memoria. Anche insistendo sul fatto che se c’è un disprezzo per la politica giudicata come arraffa-potere, ciò non può riguardare il Pd, per il quale il discorso è esattamente l’opposto. Noi, in fondo, potevamo chiedere le elezioni, che avremmo ragionevolmente vinto. Invece, sostenendo il governo Monti, ci siamo assunti una grande responsabilità e nessun potere. È chiaro che questo ci pone in una posizione estremamente delicata, ci può rendere bersaglio del malessere sociale. Ed è grave che qualcuno pensi di aggredirci in questa fase, proprio nel momento in cui cerchiamo di salvare il Paese».
Ciò potrebbe far cambiare la vostra posizione verso il governo?
«No, questo ci spinge a sostenere il governo trasmettendogli la acutezza della crisi sociale e la necessità di costruire delle risposte adeguate, anche nell’immediato».
Ad esempio?
«Servono subito misure per la crescita, bisogna rendere flessibile il Patto di stabilità interno per consentire ai Comuni di realizzare opere, accelerare i pagamenti della Pubblica amministrazione alle imprese, premere sul sistema creditizio. Il rischio di un indebolimento della rete delle imprese, il susseguirsi di fallimenti, potrebbe portarci, nel momento della ripresa, a una debolezza della struttura economica del Paese. E poi il tema degli esodati, delle pensioni, non può essere lasciato irrisolto per troppo tempo. Così come il tema del lavoro e dell’articolo 18: in una situazione delicata come quella in cui ci troviamo non si possono fare passi indietro rispetto ai compromessi raggiunti».
Dice Berlusconi che il Pd, con lei in testa, vuole far cadere Monti e votare ad ottobre.
«Berlusconi cerca di attribuire ad altri l’obiettivo verso cui è incalzato dai suoi, che non reggono più. I problemi per il governo vengono dalle difficoltà in cui è il Pdl, che possono essere rese più acute da una sconfitta alle amministrative. Noi non abbiamo il disegno di far cadere il governo e votare ad ottobre. Nessuno ragionevolmente può prendersi la responsabilità di far cadere il governo. È un complotto che non esiste, anche se qualche velina è stata messa in giro. Ma ciò fa parte della disinformazione». Non vede il rischio che si possa fare a meno della politica, se l’esperienza dei tecnici avrà successo di fronte alla crisi, anche la prossima legislatura? «Si dice: la politica è responsabile della crisi, eliminiamo la politica così usciamo dalla crisi. Ma no, non è così. All’origine della crisi c’è la politica di destra, conservatrice, antisviluppo, subalterna ai mercati finanziari. E l’uscita dalla crisi è in un cambio di politica, quella che con espressione antica si definirebbe una svolta a sinistra. Il nostro compito è costruire una proposta per il Paese, che guardi non solo al piano nazionale. Infatti serve una correzione di indirizzo delle politiche Ue che vada in un senso più europeista, ma anche verso una netta svolta progressista sul terreno economico e sociale. Bisogna insistere su sviluppo, lavoro, contenimento della speculazione finanziaria e del predominio del capitalismo finanziario internazionale attraverso nuove regole e nuovi strumenti. Penso alla tassazione delle transazioni finanziarie, al ruolo attivo della Bce in chiave antispeculazione... Per far questo occorre una buona politica, non la sua rimozione. Come hanno dimostrato le elezioni francesi. La speranza di un nuovo scenario è arrivata dalla possibilità che la sinistra vada al governo, cioè da un cambiamento politico, non tecnico».
L’elezione di Hollande come potrebbe incidere sulle vicende italiane? «Sicuramente sarebbe un’opportunità anche per Monti, che potrebbe sperare di realizzare misure per la crescita in un contesto più favorevole rispetto a quello caratterizzato dal patto Merkel-Sarkozy».
La frase “i partiti a Monti” torna spesso: non c’è il rischio, per com’è oggi la situazione, che i partiti vengano percepiti come delle corporazioni?
«I partiti a Monti è una frase che contiene una falsificazione. In realtà all’interno della maggioranza arrivano molto spesso verso Monti sollecitazioni opposte, com’è normale per una fase di responsabilità nazionale. Sulla riforma del lavoro noi e il Pdl abbiamo posizioni diametralmente opposte. E allora non c’è il fronte dei partiti da una parte e Monti dall’altra. C’è Monti e poi ci sono destra e sinistra, che pongono a Monti problemi contrapposti».
E la crisi dei partiti, non sosterrà che si tratta di un’altra falsificazione? «Certamente c’è una grave crisi della politica e del rapporto tra politica e cittadini, ma non la definirei crisi dei partiti. Semmai è la crisi del sistema politico della seconda Repubblica, che non è fondato sui partiti ma sul personalismo e sul leaderismo. Dopo la crisi dei partiti, negli anni ‘90, c’è stato l’avvento di un ceto che ha occupato le istituzioni, molto spesso mosso dall’idea che la politica fosse un canale di promozione sociale. Ora che viene alla luce la fragilità di questo sistema bisogna stare attenti perché, se si fa un’analisi appropriata della situazione, si possono cercare i rimedi giusti. Altrimenti si rischia di arrivare a conclusioni che peggiorano il male. Quando si dice che la risposta consiste nel creare macchine elettorali al servizio del leader non ci si rende conto che è proprio quel che è stato fatto, e che è all’origine della crisi attuale. Si indica come rimedio il male».
La legge elettorale a cui lavorano Violante e deputati Pdl e Udc mette al centro i partiti anziché le alleanze ma, ha scritto Parisi su l'Unità, non permette ai cittadini di scegliere i governi.
«Al contrario, quella legge semplifica il quadro politico e dà forza ai partiti, soprattutto a quelli maggiori. E i governi si fanno attorno al partito che vince le elezioni. Esattamente come avviene in Germania, dove i cittadini hanno il potere di indicare da quali forze e candidati cancellieri essere governati. Inoltre, se si prevedesse, come noi proponiamo, la sfiducia costruttiva, non ci sarebbe instabilità né ritorno alla prima Repubblica. Quella legge può dar vita a governi di legislatura sicuramente meglio di quanto non sia riuscito a fare il sistema attuale, fondato sul voto alle coalizioni, che non ha dato stabilità, non ha ridotto la frammentazione ed è clamorosamente fallito. E poi, se volevamo un sistema elettorale che non fosse fondato sui partiti, perché abbiamo crea-
to il Pd? Allora dovevamo rimanere con l’Ulivo, trasformandolo in un grande comitato elettorale. È contraddittorio fondare un nuovo partito e poi battersi per una legge elettorale che non gli consente di presentarsi alle elezioni. Noi abbiamo dato vita al Pd per fare un salto di qualità e passare da un sistema fondato su coalizioni politico-elettorali a uno fondato su grandi partiti a vocazione maggioritaria. E questa operazione va completata con una legge elettorale che dia loro più forza, altrimenti non ha senso ciò che abbiamo fatto».
Secondo lei ha senso l’operazione di rinnovamento a cui lavora Casini? «Casini vuole creare il partito della nazione. Io direi che per ora un partito della nazione c’è, siamo noi. Non so se lui ne creerà un secondo, ma è un tentativo di cui capisco il significato. Tornando al Pd, vorrei che noi fossimo consapevoli del nostro ruolo, delle nostre responsabilità. È il momento di impegnarsi tutti per superare personalismi e dispute inutili. Questo richiede la crisi del Paese».

l’Unità 29.4.12
Senza riforme cittadini più deboli
di Gianclaudio Bressa


Caro direttore,
se depurata dalle venature polemiche, la risposta di Arturo Parisi a Luciano Violante, induce ad alcune necessarie riflessioni. A partire dalla pretesa alternatività, dentro il Pd, di due linee politiche per uscire dalla contraddizione in cui è finito il nostro sistema politico-istituzionale. Premesso che se ci siamo incartati la principale, anche se non esclusiva, responsabilità è da addebitare al Porcellum, che con il suo esorbitante e incondizionato premio di maggioranza ha prodotto due governi (Prodi e Berlusconi), talmente viziati da questo eccesso di delega da non essere stati in gradi di completare la legislatura. Montesquieau dice che una sola norma ha natura costituzionale intrinseca: la legge elettorale. E noi abbiamo sempre talmente preso sul serio Montesquieau che riteniamo necessario approvare la legge elettorale con una larga maggioranza parlamentare, perché le regole in democrazia si fanno insieme. Questa nostra scelta, sempre da tutti condivisa, oggi che si cerca di perseguirla, improvvisamente la chiamiamo inciucio? Mi pare questo un primo cedimento alla demagogia.
Secondo punto. Il presidente emerito della Corte costituzionale Enzo Cheli in un suo recentissimo scritto sostiene che la prima esigenza di una buona riforma elettorale sia quello di trovare il giusto punto di equilibrio tra rendimento e praticabilità. Posto che la proposta del Pd (doppio turno di collegio, con correzione proporzionale) piace solo a noi e quindi non ha i numeri per diventare legge, acconciarsi a un compromesso non è diabolico, è politico. Non a qualsiasi compromesso, è ovvio. La proposta di cui si sta discutendo (una legge proporzionale basata su collegi uninominali, con iniezioni di maggioritario per mantenere un assetto bipolare) non ci riporta alla prima
Repubblica. È basata sull’idea di una rappresentanza reale e vuole veicolare un bipolarismo politico reale e non forzoso, finto, frutto di una costrizione normativa elettorale. Scegliere i propri rappresentanti attraverso i partiti, come prevede l’art. 49 della Costituzione, non significa non scegliere il governo: significa superare l’idea del partito personale, dell’investitura carismatico populistica, significa fare i conti con l’uscita dall’era di Berlusconi. Dare rappresentanza agli interessi e tentare di comporli in programma di governo è quello che distingue una proposta politica da un’altra, un partito da un altro. È questa una risposta da specialisti attaccati al carro dell’interesse di un partito, oppure è la scelta democratica per definizione?
Terzo elemento di riflessione. Chi vuole (come Parisi) allargare il potere dei cittadini in nome dell’art. 49 e chi vuole (come Violante) invece il primato dei partiti. Quesito serio, ma mal posto in questi termini. L’art. 49 dice che i cittadini sono il soggetto principale della democrazia, e che il partito è la forma associata attraverso la quale essi concorrono a determinare la politica nazionale. Non pensa anche Parisi che questo sia il modo migliore per allargare il potere dei cittadini? E che per farlo davvero occorre garantire il principio costituzionale dell’eguaglianza del voto, per cui il finanziamento pubblico, come ricordava don Milani, è il principio costituzionale perché tutti si possano fare sentire in condizioni di parità, senza subire i condizionamenti del potere economico, privato o organizzato? L’autonomia dei partiti crea problemi. Il Pd lo sa ed è proprio per questo che in certi mondi è considerato un problema. Ma è anche per questo che oggi noi siamo il vero argine all’antipolitica, alla demagogia, alle scorciatoie e alle furbizie populiste, che si manifestano fuori, ma anche dentro, il nostro partito.

l’Unità 29.4.12
Il senso dei partiti
Elezione diretta e leaderismo generano partiti senza senso
I principi della «Economia dei sistemi politici» invalsi negli anni Novanta non aiutano quando una crisi di sistema impone domande più radicali
Chi ricostruirà lo Stato senza organizzazioni dotate di una propria visione?
di Giuseppe Vacca


L a cosiddetta antipolitica affonda le radici in una mentalità antica e molto radicata in Italia che si riassume in un pregiudizio di sfavore verso i partiti. Una diffidenza o una ostilità di principio non verso questo o quel partito, ma contro il concetto stesso del partito politico.
Nel passaggio da un assetto del sistema politico a un altro, conviene preoccuparsi non solo del discredito dei partiti attuali, ma anche delle visioni della politica che alimentano una nozione opportunistica dei partiti.
Fra il 1999 e il 2003 sono stato segretario regionale dei Ds in Puglia. Fra le ragioni che mi avevano mosso c’era il desiderio di osservare da vicino quali mutamenti del senso civico avessimo contribuito a generare con l’insieme delle nuove leggi elettorali (comunale, provinciale, regionale e nazionale) varate fra il 1993 e il 1994. Così sperimentai non solo che esse costituivano il principale incentivo alla «personalizzazione» della politica, ma anche che avevano contribuito a peggiorare radicalmente la percezione dei partiti. L’idea che un candidato estratto dalla «società civile» fosse più affidabile e più capace di un candidato espresso dal professionismo politico era ormai generalmente condivisa. Nel linguaggio degli hommes novi solo raramente si nominavano i partiti. Era molto più frequente sentir parlare di «contenitori», buoni o meno buoni secondo le possibilità di «candidarsi» (non di essere candidati) e di essere eletti. E candidarsi significava avere uno stock di voti da portare al «contenitore» prescelto grazie alle risorse personali (denaro, influenza professionale, visibilità mediatica...) spendibili per conquistare una posizione nelle istituzioni che le moltiplicasse. Presso gli elettori il mutamento si esprimeva nell’unica domanda schietta che rivolgevano ai candidati: «Se ti do il voto tu che mi dai»?
Questi comportamenti non erano nati con la «Seconda Repubblica», ma erano piuttosto l’ultimo approdo di una concezione della politica riflessa in una «scienza sociale» che porta il nome di «economia dei sistemi politici». Essa racconta che il partito politico si caratterizza per tre funzioni: raccogliere la domanda dei cittadini e trasmetterla alle istituzioni; consentire a chi ne ha la vocazione o l’interesse di intraprendere una carriera politica; selezionare la «classe di governo» e definirne la missione, vale a dire la capacità tecnica di perseguire l’equilibrio fra i gruppi sociali, gli aggregati territoriali, le organizzazioni d’interesse, i diversi valori propugnati dai singoli o dai corpi intermedi.
A datare dalla conquista del suffragio universale e dalla nascita dei partiti di massa quella «scienza politica» ha elaborato idee e concetti utili a classificare il funzionamento delle democrazie occidentali. Credo che lo schema citato descriva con efficacia i comportamenti e le relazioni fra eletti ed elettori, partiti e istituzioni negli stati sociali europei della seconda metà del Novecento. Ma che succede quando l’insieme di condizioni e di equilibri che avevano caratterizzato la relativa autonomia delle economie nazionali e l’affermazione dello Stato sociale si incrina o viene meno? Quando mutano i vincoli internazionali dell’economia e dello Stato? Che accade quando, per il fallimento delle classi dirigenti nell’adeguare la politica e l’economia del Paese alle nuove condizionalità della competizione internazionale (o dell’integrazione sovranazionale), crolla, com’è accaduto in Italia, l’impianto dell’intero sistema dei partiti?
In queste situazioni la concezione del partito proposta dalla «scienza politica» rivela i suoi limiti. Scomparsi i vecchi partiti, si pone il compito di costruirne dei nuovi e non è sufficiente preoccuparsi solo della loro efficacia nell’organizzare lo scambio fra la domanda e l’offerta di beni a servizi. Ricompare il problema della giustificazione storica della loro esistenza, delle motivazioni etiche e delle visioni generali del mondo di chi li fonda e di chi li segue, delle «grandi narrazioni» che motivano la partecipazione e trascendono l’orizzonte della carriera politica. Rinasce la domanda su come si formano le «volontà collettive» che mutano i rapporti di forza, ritorna l’interrogativo su quali siano le filosofie dotate di un’etica conforme, si ripropone il problema germinale della democrazia moderna, il problema della «connessione sentimentale» fra dirigenti e diretti, intellettuali e popolo. In altre parole, non si può più ignorare che i partiti nascono e si affermano in misura che esprimano un proprio punto di vista sul destino delle nazioni e siano in grado di formulare prospettive efficaci sulla dinamica delle relazioni fra la vita nazionale e quella internazionale.
Il problema italiano è questo. Lo era già alla fine della «Prima Repubblica» e lo è ancor più oggi che la «Seconda Repubblica» sembra ripiegare le vele. Tranne i Dulcamara dei «partiti personali», tutti sembrano convenire che non c’è democrazia senza partiti. Ma se il partito politico è quello che ci raccontano molti scienziati politici, chi mai rimetterà in piedi lo Stato e la nazione ch’esso presuppone? La sfida che abbiamo di fronte è più ardua. Il Pd, che mi pare il più propenso a raccoglierla, pone come suo fondamento programmatico la Costituzione. Non è una ovvietà. Come ha ricordato da ultimo Ernesto Galli Della Loggia, la Costituzione italiana è un grande progetto fondato su princìpi filosofici lungamente elaborati dalle culture democratiche dell’Europa contemporanea: la centralità della persona, il lavoro come fondamento morale della soggettività, il ripudio dell’equazione fra la politica e la guerra, la pari dignità dei generi, una nuova laicità, la solidarietà, la sussidiarietà, ecc. La sfida va oltre la fisiologia dello «scambio politico» e comprende la ricostruzione di un profilo fondamentale della nazione, quello della sua dignità.
Ma se la costruzione d’un nuovo sistema di partiti incrocia il tema della ricostruzione nazionale, conviene forse ricordare che il problema non risolto in Italia riguarda innanzi tutto la destra. Utilizzando un lessico forse inadeguato ma perspicuo, è dalla fine dell’età liberale che la borghesia italiana non riesce a creare un partito moderato di rango europeo e anche oggi la sua mancanza impedisce il riconoscimento reciproco della legittimazione a governare, cioè il raggiungimento d’una «democrazia compiuta». I sistemi di partito sono interdipendenti e dunque c’è un’ovvia simmetria tra le sfide che riguardano i gruppi sociali e le élite intellettuali a sinistra, a destra e al centro. Sarebbe quindi una gran cosa se i pensatori liberali s’impegnassero sul serio nello studio delle condizioni che rendano possibile anche in Italia la nascita d’un partito di governo della borghesia.

Corriere 29.4.12
Legge elettorale, intesa sul sistema spagnolo-tedesco
E Berlusconi: non mi candido al Colle

di Paola Di Caro

ROMA — L'idea è quella di presentare la bozza di intesa sulla legge elettorale subito dopo il primo turno delle amministrative, per consegnarla ai leader e al dibattito nei partiti. E l'optimum sarebbe — dicono i saggi al lavoro — cominciare ad esaminarla in Parlamento dopo l'approvazione in una delle due Camere della riforma costituzionale, a fine maggio.
Al di là delle liti pubbliche, il cammino della legge elettorale è molto più avanzato di quanto si pensi e il più felice sembra essere Silvio Berlusconi. È lui che, nell'ultima riunione con i vertici Pdl, ha dato l'okay perché si arrivi alla stretta sull'accordo che prevede un sistema spagnol-tedesco basato sulla competizione tra partiti e non più tra coalizioni, con correttivi in senso bipolare, ma che prevede che le maggioranze si formino in Parlamento più che nelle urne.
«Per cambiare davvero l'Italia occorre qualcosa di eccezionale, un accordo tra maggioranza e opposizione che, profittando di un comune sostegno a un governo di tecnici, realizzi quelle riforme che una parte politica da sola non può realizzare», è d'altra parte il desiderio dell'ex premier, affidato a un'intervista a Gente. Dove assicura anche che non è sua intenzione candidarsi per il Quirinale, perché il suo «impegno in politica» potrebbe «concludersi con il successo» di un grande cambiamento istituzionale. Insomma, il suo sarà un ruolo da padre nobile, è il messaggio, non da protagonista: quella di chi, ancora in questi giorni, non essendosi «mai pentito di aver sostenuto Monti» ritiene che la Grande Coalizione potrebbe essere la soluzione per l'Italia anche nella prossima legislatura.
E dunque, via libera ad una legge che nella sostanza i leader hanno già fatto propria, considerando — come fa Gaetano Quagliariello — che «l'intenzione non è quella di liquidare il bipolarismo ma di costruire il bipolarismo possibile». Quello di un Paese in cui «non ci sono più le vecchie coalizioni, ma nemmeno gli inciuci». Già, ma quali garanzie ci sono perché tutto non si risolva in quel ritorno alla prima Repubblica paventato da una parte del Pdl e da Prodi? Il premio di maggioranza attribuito al partito vincente — replicano i saggi—che garantisce al premier indicato, e solo a lui, di ricevere l'incarico di formare il governo pur non avendo già una maggioranza numerica ma dovendosela cercare in Parlamento.
La legge infatti prevede che i parlamentari vengano eletti per metà in collegi uninominali e per metà in liste bloccate. La soglia di esclusione sarebbe al 5%, il recupero dei resti avverrebbe nelle singole circoscrizioni, l'indicazione del premier sarebbe obbligata (l'idea è di non permettere che forze che si presentano separate sostengano lo stesso candidato) e per chi arriva primo c'è un premio che potrebbe attestarsi al 5% dei seggi, anche se le proposte oscillano tra il 2 e il 6%.
Si tratta insomma di un premio più simbolico che decisivo, un «premietto» che fa sì che chi vince non prende tutto. E questo renderà possibile (a meno di exploit di un partito che arrivi al 45%) o il formarsi di maggioranze con partiti minori affini (nel caso del Pd, Idv e Sel e del Pdl la Lega), o con un partito centrista (Pdl o Pd con l'Udc) o di una grande coalizione tra i due principali partiti oppure, come oggi, fra i maggiori tre. Ipotesi diversissime, che preoccupano i bipolaristi convinti dell'uno o dell'altro schieramento, nel Pdl soprattutto gli ex An. Ma La Russa, che con Quagliariello è delegato a scrivere la legge per il suo partito, fa opera di realismo: «Questo era l'unico impianto possibile per arrivare a un accordo, ma sia chiaro che noi su questi punti non arretriamo: servono collegi grandi, il premio al primo partito non può essere inferiore al 5% e nei collegi almeno il 50% devono essere attribuiti ai migliori perdenti». Tre nodi che dividono, e che toccherà ai segretari sciogliere.

il Fatto 29.4.12
Dove Grillo trova il suo terreno
di Furio Colombo


Caro Pier Luigi Bersani, ho appena ascoltato la tua replica a Beppe Grillo e la trovo piena di ragionevoli argomenti (tranne il “non si permetta”, perché la nostra Costituzione non richiede autorizzazioni per la libera espressione di pensieri, per quanto esasperati). Caro Pier Luigi Bersani, ho appena ascoltato la tua replica a Beppe Grillo e la trovo piena di ragionevoli argomenti (tranne il “non si permetta”, perché la nostra Costituzione non richiede autorizzazioni per la libera espressione di pensieri, per quanto esasperati). Però ricorderai la domanda del “Giovane Holden” che è stata così importante per tanti ragazzi: “Dove vanno le anatre quando il lago gela? ” E dove vanno i cittadini quando gela la politica? Dove vanno quando si sentono tempestati di decisioni che vengono da mittenti che sono dietro la politica (interessi particolari) e cadono, come bombe a grappolo dentro la loro vita, cadono sui civili, come strani danni collaterali che nessuno spiega benché abbiano un’apparente dignità di decisioni di governo centrale o di governo locale?
IL FATTO È che sgombrare la scena dai partiti è sembrato utile, dato il momento. Ma nessuno si aspettava che, con mossa abile e imprevista tipica di certi thriller, i partiti usassero i cittadini come scudo umano, mettendoseli davanti ed esponendoli direttamente ai colpi con la buona ragione che adesso ciascuno deve fare la sua parte. Ti sarai accorto anche tu, Segretario, che di qui nasce un doppio gioco molto arrischiato. Da un lato i partiti non ci sono e non c’entrano. Dall’altro alcuni personaggi con veste partitica si sentono liberi di trattare decisioni che ritengono buone, anche se non si sa per chi e perché. Per chiarezza racconto una piccola storia. È come moltissime altre che, mentre parliamo, si moltiplicano. Riguarda un paesino toscano e la propongo alla tua attenzione perché c'entrano il Pd e le sue persone di governo locale. E c’entrano interessi privati. La piccola storia dimostra come è rapido, in questo vuoto della politica dovuto, lo sappiamo, al malaffare berlusconiano, il formarsi di un ponte fra esponente politico e interesse privato. Passa sopra i cittadini, che non hanno più un referente politico e un rappresentante eletto dei loro interessi. La località di cui ti sto parlando è bella, è nota, si chiama Capalbio, provincia di Grosseto. In Capalbio, oltre alla rocca, al paesaggio, agli ulivi, alle pecore e al mare, risiede la Sacra, una prosperosa, immensa azienda agricola di 1500 ettari che, per decenni, ha salvaguardato il paesaggio. Non più. Adesso vuole “fare profitto” e ha trovato una buona strada nel progetto di un impianto biomassa per la produzione di energia rinnovabile. Al nostro imprenditore privato fa comodo un terreno (acquistato con il falso, ma credibile pretesto di coltivare) in mezzo all'abitato di Capalbio Scalo, circondato di case, bambini, animali e colture di qualità, proprio di fronte al lago di Burano (una delle meraviglie locali) e al mare. Tutto viene (verrà) buttato all'aria, da ininterrotte emissioni di aria inquinata, cattivo odore, danno alle falde acquifere e scarico di ciò che si elimina dalla poltiglia maleodorante, che è la materia prima del biogas, nella laguna lago-mare. Ma per far funzionare il maleodorante impianto occorrono 1500 (mille e cinquecento) trattori con rimorchio che portino e riportino materia prima alla “fabbrica” del marcio, giorno e notte, avanti e indietro, per sempre. Il tutto su un'unica strada larga 5 metri, la sola che porti dal borgo al mare. Fine dell'agricoltura locale e fine del turismo. La ditta ha trovato subito un feeling con il presidente della provincia di Grosseto, certo Marras, (Pd) che in pochi giorni, a volte in poche ore, ha dato o trovato od ottenuto tutti i permessi, le autorizzazioni e i pareri favorevoli, comprese le Belle Arti. Ti interesserà notare che non solo in tutta l'area interessata, ma in tutta la zona, alta e bassa, vicina e lontana, di questo paese non si trova una sola persona (e non è mai stato esibito il nome di un solo cittadino) che abbia detto “sì” o “ma” o firmato qualcosa in favore del distruttivo impianto biomassa di cui stiamo parlando, e di cui nessuno (tranne l’imprenditore in cerca di profitto) ha bisogno. In migliaia hanno firmato “no”. Il rifiuto, che però nessuno, tranne il sindaco, ha mai ascoltato, è totale, netto, rabbioso, perché tutti conoscono il danno. Il Sindaco (Pd) circondato dai cittadini che affollano ogni volta a centinaia le sedute del Consiglio, ha scritto chiaro sul quotidiano regionale Il Tirreno la sua visione contraria. Proprio negli stessi giorni (29 marzo scorso) la Camera dei deputati aveva approvato una mozione a firma Bratti, Servodio, Mariani e molti altri deputati Pd, in cui si dice che “tra le criticità emerse nella diffusione delle bioenergia si sottolinea il conseguente incremento di mezzi pesanti e del relativo impatto ambientale (...) Occorre quindi che la governance delle regioni e delle province non permetta la concessione di autorizzazioni quando non sono presenti le corrette rassicurazioni per l'impatto ambientale (...) È auspicabile promuovere la realizzazione di impianti che siano compatibili con la salvaguardia delle produzioni agricole, specie quelle orientate alla qualità del prodotto (...) tenendo in adeguata considerazione l'impatto del traffico stradale sia per quanto riguarda le emissioni inquinanti e i problemi di congestione, sia per quanto riguarda l'inquinamento acustico”. Ma alle obiezioni competenti e rispettose di Nicola Caracciolo, presidente di Italia Nostra, e di Gianni Mattioli, docente di Fisica alla Sapienza e già ministro di Prodi, il Marras ha risposto con maleducato fastidio che “non sanno di che cosa parlano”.
E IL PROGETTO va avanti, schivando la politica, la legge, i cittadini, la mozione Pd appena approvata e il buon senso. Ora la domanda è questa: cosa credi che accadrebbe se Beppe Grillo decidesse nei prossimi giorni di incontrare i cittadini di Capalbio e di lasciargli dire ciò che finora non sono riusciti a dire a nessuno? E siamo sicuri che sia antipolitica riuscire finalmente a denunciare l'arbitrio del patto di ferro fra due sole persone-padrone, un presidente di Provincia, in apparenza Pd, e un potente imprenditore locale in cerca di profitto a danno e a spese di tutti (tutti) gli altri, agricoltori, abitanti, turisti, visitatori di un luogo noto in passato per la sua bellezza e non per il biogas? È una piccola storia che penso ti possa servire. In essa si vedono bene le cellule voraci degli interessi particolari che si mangiano ciò che resta della politica, mentre i cittadini assistono senza diritto e senza parola, mentre monta un’esasperazione sempre più difficile da controllare. Quando esplode, primo, domandarsi perché.

Corriere 29.4.12
Alleanze variabili e lotte fratricide: è un voto transgenico
Da Parma all'Aquila, fino al laboratorio Puglia Enrico Letta: «Sarà il trionfo dei ballottaggi»
di Monica Guerzoni


ROMA — Il «Mario Monti» di Pozzallo, 19.222 abitanti in provincia di Ragusa, si chiama Roberto Ammatuna e ha conquistato una certa notorietà anche oltre i confini del piccolo comune siciliano per aver messo insieme, nella stessa coalizione, il Partito democratico di Bersani e il Popolo della libertà di Berlusconi e Alfano.
L'alleanza anomala di Pozzallo, che per alcuni è un «inciucio» e per altri un lodevole modello di «salvezza comunale», riproduce su piccola scala le colonne portanti della coalizione che sostiene il governo nazionale. E può essere presa a simbolo di elezioni amministrative che sono lo specchio del travaglio dei partiti, dopo la fine del berlusconismo e in un'epoca di fortissime pulsioni antipolitiche.
Oltre nove milioni di italiani stanno per andare alle urne e dovranno fare i conti con geometrie variabili e alchimie politiche mai sperimentate prima. La frammentazione è tale che alcuni casi sembrano un inno al «famolo strano», mentre nelle grandi città è evidente il tentativo di testare soluzioni vincenti per le prossime elezioni politiche.
Si scopre così che post-comunisti ed ex fascisti possono stare sotto le stesse insegne, che pidiellini e leghisti non possono (al momento) ricongiungersi e che il neonato Terzo polo è già diviso. Casini, Fini e Rutelli sono riusciti a stringere un patto-a-tre soltanto in otto casi su ventisette. Il leader dell'Api ha scelto quasi ovunque il centrosinistra, ma a Verona si è schierato con il leghista Flavio Tosi. E pazienza se Fli e Udc hanno deciso di appoggiare Luigi Castelletti, candidato del Pdl.
È il trionfo della realpolitik, che spinge i partiti a cambiar pelle mandando in soffitta totem e pantheon e, in molti casi, costringe a superare antichi odi per stringere amicizie prima impensabili. Nella Parma commissariata, la camaleontica Udc corre da sola e un pezzo di Futuro e libertà sostiene Vincenzo Bernazzoli assieme a democratici, Idv e comunisti del Pdci. Finiani «rossi» e finiani «neri» litigano tra loro e i comunisti di Oliviero Diliberto sono furiosi contro il candidato sindaco, accusato di «imbarcare tutti» pur di conquistare la fascia tricolore.
La ricostruzione de L'Aquila straziata dal terremoto, invece, ha fatto soffrire l'Udc locale. Finché Casini, gran sperimentatore di alleanze antitetiche, ha scelto di appoggiare non il sindaco uscente Massimo Cialente del Pd, ma il candidato del centrodestra Giorgio De Matteis, ex scout ed ex pallavolista sostenuto anche dall'Udeur di Mastella e dall' Mpa di Lombardo.
Con il quadro nazionale destinato a modificarsi ancora è difficile azzardare previsioni in vista delle Politiche, eppure il risultato in alcune città-laboratorio avrà un valore di bussola per i partiti. Angelino Alfano, costretto in 23 città principali alla sfida solitaria, guarda con particolare attenzione al test di Gorizia, unico capoluogo dove resiste l'antica alleanza Pdl-Lega-Udc. Per il resto, Umberto Bossi ha tagliato i ponti e Casini ha stretto accordi con il Pdl solo in altre tre città, Verona, Palermo e Isernia.
Ma è Pier Luigi Bersani il leader che ha riposto in queste elezioni le maggiori aspettative. Lo schema preferito dai democratici sul piano locale è la cosiddetta foto di Vasto, cioè l'alleanza con Vendola e Di Pietro. In sedici capoluoghi, tra cui Genova, Verona, Lecce e Catanzaro, gli aspiranti sindaci democratici corrono nella formazione a tre punte, Pd-Sel-Idv. Ma forse il dato più interessante verrà ancora una volta dalla Puglia, che già in passato è stata laboratorio di nuove soluzioni politiche. A Lecce, infatti, i finiani si smarcano dal Terzo polo e, a Taranto, i centristi di Casini e quelli di Rutelli sostengono il sindaco uscente Ippazio Stefàno detto Ezio, comunista dichiarato. Sempre a Taranto, la coalizione di centrosinistra si allarga all' Udc e lo stesso accade a Brindisi, dove però Di Pietro (come a Carrara, Palermo, Trapani e Frosinone) ha scelto di correre senza alleati. «La mia previsione — azzarda il vicesegretario del Partito democratico, Enrico Letta — è che per la prima volta dopo vent'anni le amministrative si svolgeranno tutte al secondo turno. Vista la frammentazione del centrodestra, o vinciamo noi al primo colpo o si va al ballottaggio».
Uno dei dati simbolici più evidenti di queste elezioni, che qualcuno ha definito «transgeniche», è la solitudine di un Pdl rassegnato a un risultato non esaltante. «Nove milioni di elettori non sono tanti — ridimensiona la sfida Maurizio Lupi —. Per noi sono interessanti tre cose. Dimostrare che il Pdl tiene, convincere la Lega che al Nord non può vincere da sola, e far vedere a Casini che, se si sposta a sinistra, perde consensi». E ci sono città dove, andata in pezzi l'alleanza ufficiale, ha vinto la nostalgia. A Monza, Piacenza e Verona, per esempio, alcuni frondisti del Pdl hanno scelto di appoggiare la Lega. A costo di farsi cacciare dal partito.

l’Unità 29.4.12
Firenze, nasce «Alba» Primo dubbio: presentarsi alle urne?
Paul Ginsborg, Guido Viale, Luciano Gallino, Stefano Rodotà e altri hanno dato vita ieri a Firenze all’«Alleanza lavoro benicomuni ambiente», Alba, un nuovo soggetto politico «non partito» della sinistra.
di Osvaldo Sabato


La «cosa» di sinistra ha un nome e gli autori del manifesto «per un nuovo soggetto politico» auspicano che possa rappresentare una nuova alba per la politica italiana. Si chiamerà proprio Alba, acronimo di Alleanza lavoro benicomuni ambiente, il nuovo partito non partito nato dal manifesto firmato fra gli altri da professori e intellettuali come Paul Ginsborg, Paolo Cacciari, Luciano Gallino e Stefano Rodotà. Obiettivo: evitare il default della democrazia rappresentativa, quella che partendo dal basso dovrebbe condizionare le scelte dei partiti. Una situazione di scollamento, che per l’assessore napoletano della giunta De Magistris, Alberto Lucarelli, deve cambiare e di corsa. Il nome Alba, battezzato con un grande applauso, è stato deciso attraverso una votazione durante la prima assemblea nazionale del movimento che ha visto la partecipazione di quasi 1400 persone, più della metà non avevano aderito al manifesto. Oltre ad Alba erano stati messi in votazione altri tre possibili nomi: Lavoro e beni comuni, Italia bene comune, Alternativa democratica. Quest’ultimi tre bocciati. Con una nastro arancione al braccio chi parla ha sette minuti per dire la sua. Molti insistono sulla rottura con il modello novecentesco del partito, l’urgenza di nuove regole, una maggiore trasparenza, meno burocrazia, meno carrierismo. «Vogliamo essere un soggetto costituzionale che si candida ad essere protagonista nell'arena politica» spiega il politologo Marco Revelli. Parlano il giurista torinese Ugo Mattei, Paolo Cacciari, Gianni Rinaldini del direttivo della Cgil. Dice la sua anche il vendoliano Fratoianni. Fra il pubblico l'ex portavoce del Social forum genovese Marco Agnoletto. Si fa vedere anche Sergio Staino «sono venuto per capire quale sia il progetto ma francamente
non potrei dire di esserci riuscito». Ma Ginsborg incalza sulle nuove regole della politica? «Al massimo due legislature per i parlamentari. E poi: trasparenza non segretezza sui finanziamenti. Basta clientele. Ancora: semplicità non burocrazia, potere distribuito non accentrato, rotazione degli incarichi direttivi» sottolinea lo storico «il modello dei partiti che oggi abbiamo davanti è arrivato al capolinea» e «una delle priorità è quella di ricostruire l'unità della sinistra, ma dal basso». Insomma largo alle nuove forme di far politica giocando anche la carta del web, come dimostrano le 4200 adesioni al manifesto raccolte on line. Ad ascoltare c’è anche il senatore Pd Vincenzo Vita «ho sentito molti interventi che potrebbero tranquillamente svolgersi in un'assemblea del Pd, e lo dico senza nessuna polemica». Sui futuri rapporti con il nuovo soggetto politico, Vita sottolinea che «se prevale l'elemento del movimento, e non dell'ennesimo nuovo partito, allora è più facile». Il senatore del Pd ha tuttavia spiegato di aver «trovato eccessivi alcuni attacchi» al suo partito, espressi durante alcuni degli interventi durante l'assemblea. «Nell’arco di due legislature questo movimento può diventare la maggioranza del paese» azzarda Ugo Mattei, professore di diritto civile all’università di Torino. «Il Pd ci guarda poco: non ci temono, ma non ci sottovalutano, anche perché qui ci sono idee» osserva Ginsborg, rispondendo ai giornalisti, in merito alla possibilità che Alba partecipi con una propria lista alle elezioni politiche del 2013, lo storico inglese ma da anni trapiantato a Firenze per il momento preferisce «parlare di percorso». «Ci sono tra noi quelli più impazienti, che vogliono lanciare qualcosa per il 2013; e poi ci sono altri, come me, che vogliono prima rinsaldare la cultura e le basi dei circoli territoriali. Poi vediamo». «Non vedo molti giovani, ma senza di loro non si sopravvive, non c'è futuro» nota Ginsborg. Nel frattempo il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, propone una confederazione a sinistra «per non cancellare le singole differenze».

il Fatto 29.9.12
“Noi, la nuova alba della sinistra”
Ecco l’ultima sigla di Paul Ginsborg Più di mille in assemblea a Firenze
di Sandra Amurri


È sorta l’Alba (Alternativa lavoro beni comuni e ambiente). È il nome che la rete e gli oltre mille partecipanti al convegno di Firenze, ieri, hanno scelto per un movimento che non vuole essere un ennesimo partito per non evocare una parola divenuta sinonimo di esercizio del potere fine a se stesso. Ma di fatto, come spiega Ugo Mattei, docente di Diritto civile a Torino e uno dei promotori del referendum sull’acqua dello scorso anno, vuole diventare “un’organizzazione stabile con una posizione forte contro il neoliberismo, che dialoga con tutti”. Ma non con quei partiti, “come il Pd, per intendersi, che sostengono il governo Monti, in quanto pensiamo che questo governo tecnico sia una catastrofe, puro collaborazionismo con i poteri forti a discapito del Paese. Mentre si parla con la base del Pd, con Sel, con la Federazione della sinistra, con l’Idv, con i grillini ma non con Grillo e con il movimento No Tav, ovviamente, con la Fiom, con il movimento antimafia”.
RADICALITÀ nel combattere tutto ciò che è segreto come la mafia, appunto, contro la corruzione divenuta strutturale al sistema e nel difendere la trasparenza: “Tutti i passaggi della nostra elaborazione e della vita collettiva dovranno essere visibili, accessibili”, spiega Marco Revelli, uno dei promotori insieme a Stefano Rodotà, Paul Ginsborg, Luciano Gallino, Alberto Lucarelli e Ugo Mattei del manifesto per una democrazia partecipativa per i beni comuni. E la “centralità del lavoro, a cominciare dalla difesa dello Statuto dei lavoratori nella sua integralità. Si tratta di un cambio di paradigma nel modo di pensare le cose e di fare la politica. Nei programmi, nel metodo che diventa contenuto ma anche nel linguaggio che sappia parlare non ai già convinti, ai ‘nostri’ ma alla platea ampia e larghissima delle vittime dell’attuale modello economico e sociale, fallito e fallimentare, ma totalitario”, conclude Revelli. Alba ha una parola d’ordine: “Liberazione”. Liberare il Paese dal neoliberismo, da partiti che hanno tradito il loro compito primario sancito dalla Costituzione. “I Padri costituenti hanno sancito che i partiti dovessero ubbidire al volere del popolo sovrano, ma nell’eventualità che questo potesse non accadere avevano previsto che la parola sarebbe tornata ai cittadini con il referendum. Invece questi signori non solo non rispondono più al ruolo affidato loro dalla Costituzione ma contraddicono anche i risultati del referendum, oltrepassando i confini della democrazia”, spiega Mattei che si serve della metafora della catasta di legna che non brucia perché umida e che bisogna far tornare ad ardere. “Dobbiamo dare fuoco alla legna per scaldare gli animi, agitare le coscienze, strappare dall’isolamento chi subisce sulla propria pelle la negazione dei più elementari diritti, dobbiamo dar vita alla ribellione in tutte le sue forme: referendum, sciopero della fame, occupazione... ”. L’assemblea di Firenze ha eletto un comitato con il compito di preparare nei territori l’organizzazione di una due giorni programmatica che si terrà a fine giugno. Verrà affrontato anche il tema delle candidature? “Non è un tema all’ordine del giorno – spiega Mattei – bisognerà prima capire chi aderirà e come”. Tradotto vuol dire che i partiti esistenti come Sel, Idv e Federazione della sinistra dovranno decidere se abbandonare le loro sigle ed entrare nel nuovo partito, che si chiama Alba. “Noi ci siamo a dialogare, ad ascoltare senza rinunciare alle differenze, ma facendo sì che le differenze diventino un arricchimento”, dice Paolo Ferrero nel suo intervento che conclude ribadendo la sua appartenenza comunista.
DISPONIBILITÀ assicurata anche da Sel. Un futuro molto prossimo da costruire con “mitezza e fermezza”, dice lo storico Paul Ginsborg. La situazione del Paese è drammatica, è una situazione d’emergenza e “Alba vuole costruire un’alternativa resistente e programmatica su alcuni punti essenziali come la difesa dei diritti dei lavoratori”. La platea si infuoca quando Giorgio Airaudo della Fiom racconta che i lavoratori vivono una condizione di libertà vigilata e la politica non rappresenta più il mondo del lavoro. Ma c’è anche chi se ne va senza “particolare entusiasmo”, come Sergio Staino che commenta: “Sono venuto per capire quale sia il progetto, ma francamente non potrei dire di esserci riuscito”. Chissà se Alba riuscirà davvero ad illuminare un nuovo cammino della sinistra italiana verso il bene comune. Di certo l’obbiettivo è ambizioso e necessario, ma altrettanto complesso.

Corriere 29.4.12
Nencini apre alla casa riformista E gela Cicchitto: «Socialisti voi?»
di Erika Dellacasa


GENOVA — Centoventi anni fa a Genova, nella sala Sivori, i socialisti di Filippo Turati celebravano nel giro di poche ore la nascita del partito e la loro prima divisione: in giornata si consumò la rottura con gli anarchici e Turati con i suoi cambiò sede. Ieri nella stessa sala Sivori (ma quasi nulla rimane dell'originale), i socialisti che si sono affidati alla leadership nazionale di Riccardo Nencini hanno ricordato 120 anni di storia e annunciato una «ripartenza» che ha incassato le preziose parole del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. «Giustizia e solidarietà nella società — ha scritto il capo dello Stato, riferendosi ai valori del socialismo — equità e collaborazione internazionale sono esigenze imprescindibili di fronte alla grave crisi economica e sociale in atto». Napolitano ha riconosciuto non solo «la lunga e gloriosa tradizione politica» che da Turati è passata attraverso Nenni e Pertini, ma anche il ruolo che oggi i socialisti possono assumere dichiarando di «apprezzare la vostra volontà di concorrere attivamente alla vita politica e al confronto democratico». Se Vendola con linguaggio un po' funereo ha parlato, nel suo saluto, di «sepolture affrettate» del socialismo, Bersani ha elogiato le battaglie per i diritti civili e contrasto al populismo e insomma tutti sembrano aspettare i socialisti a braccia aperte.
Nencini, per parte sua, ha rilanciato la proposta di una casa dei riformisti guardando a Bersani e Vendola, un progetto per la verità senza nome («chiamiamolo Ugo, come Intini, basta che ci capiamo» ha scherzato) che sbarra il passo a Casini e alle «alleanze alfabetiche»: «Casini — profetizza Nencini — tornerà al centrodestra dopo queste amministrative, che credo saranno le ultime con i simboli dei partiti oggi conosciuti». E Nencini lascia fuori dalla porta (anzi, gli chiude le dita dentro) Fabrizio Cicchitto, che ieri ha voluto sottolineare come dopo Mani pulite «una parte molto significativa dell'elettorato e dei dirigenti socialisti» si è riconosciuta nel Pdl. «Socialisti nel Pdl? — ha ironizzato Nencini — certo, Gasparri e La Russa, Formigoni e Lupi, e anche Ciarrapico hanno tutti da vantare un noto passato socialista». Nessun dialogo su quel fronte.
Se, per ora, il Partito socialista italiano deve fare i conti con i suoi 23 mila iscritti (esattamente quanti ne ebbe il primo partito di Turati, 23 mila e 600: è un segno?), può però pensare in grande guardando all'Europa: Hollande, il «cane morto» come lo definì Sarkozy, affronta il 6 maggio il presidente uscente al ballottaggio, e l'ex ministro socialista spagnolo Carme Chacòn ha portato a Genova molto entusiasmo nonostante l'ammissione dei «gravi errori» del governo Zapatero.
«Un partito piccolo — dice Nencini — deve essere garibaldino, deve praticare l'eresia» e ha cominciato con l'annunciare che «con le nostre modeste forze, con i nostri due voti», voterà contro il governo Monti se questi non accoglierà la richiesta di maggiore equità, sgravi fiscali al lavoro e tassazione delle transazioni finanziarie e dei grandi patrimoni. Intanto, per la prima volta, il Psi è presente alle amministrative nelle grandi città con sue liste e suoi candidati, a Genova corre l'ex vicequestore Angela Burlando. Sul palco anche il candidato del centrosinistra Marco Doria, che si è dichiarato onorato «come genovese, come storico e come uomo di sinistra».

l’Unità 29.4.12
L’anniversario
Il Capo dello Stato scrive ai delegati riuniti per il 120 ̊ della nascita del Psi
Il messaggio «Il pensiero socialista costituisce un patrimonio di valori e di idee»
Napolitano: «Scelte di equità e solidarietà»
Al congresso socialista nella stessa sala Sivori di Genova dove 120 anni fa nacque il Psi, arriva il messaggio di Napolitano. Un invito a cercare le risposte di solidarietà, equità e giustizia per uscire dalla crisi
di Marcella Ciarnelli


Dalla crisi economica che soffoca l'Italia e l'Europa non si potrà uscire senza dare risposte alle esigenze di «giustizia e solidarietà nella società» e «di equità e collaborazione internazionale» che sono punti di riferimento «imprescindibili di fronte alla grave crisi» in atto e ai «mutamenti e alle tensioni del mondo d'oggi». Il presidente della Repubblica nel messaggio inviato al Psi che nella sala Sivori di Genova, la stessa dove nell'agosto del 1892 fu tenuto il primo congresso del partito, centoventi anni fa, segnala ancora una volta la necessità di lavorare, tutti insieme, per condurre l'Italia al di là di una crisi senza precedenti, che sta togliendo la speranza ai giovani, un preoccupazione costante per Napolitano, che un lavoro non ce l'hanno e sono sfiduciati, e a chi ce l'ha, e teme di perderlo, che sta impoverendo il Paese su cui pesano aumenti continui e nuove tasse.
GLORIOSA TRADIZIONE
«La vostra iniziativa, caro Riccardo ha scritto il Capo dello Stato al segretario del Psi, Nencini non rappresenta solo un contributo alla celebrazione di una lunga e gloriosa tradizione politica, intrecciata intimamente alla storia del nostro Paese, alle battaglie per il progresso economico e civile e alle conquiste democratiche e sociali» a cui il partito socialista nei suoi 120 anni di vita ha contribuito. «Il filone del pensiero socialista, profondamente radicato nel nostro continente, costituisce un patrimonio di valori e di idee la cui attualità è da approfondire in rapporto a sempre vive esigenze di giustizia e solidarietà nella società e di equità e collaborazione internazionale: esigenze e punti di riferimento imprescindibili anche di fronte alla grave crisi economica e sociale in atto e ai mutamenti e alle tensioni del mondo d'oggi».
Il presidente ha anche espresso l'apprezzamento per «la vostra volontà di concorrere attivamente alla vita politica e al confronto democratico».
Le parole di Napolitano, nel messaggio inviato ai socialisti, al cui congresso è arrivato anche il saluto del segretario del Pd Pier Luigi Bersani e del segretario di Sel, Nichi Vendola, ritornano sulla necessità che ci siano «solidarietà» e «giustizia» contro la crisi. I sacrifici sono stati fatti e gli italiani li hanno accettati e li stanno sopportando con grande senso di responsabilità come lo stesso premier Monti ci ha tenuto in più occasioni a sottolineare.
PENSARE ALLO SVILUPPO
Ma ora bisogna pensare allo sviluppo e alla crescita che possono realizzarsi solo attraverso atti concreti di cui si deve fare promotore il governo italiano anche in Europa. Perché se è vero che alcuni paesi della Ue stanno peggio degli altri, è anche veo che l'Unione deve collaborare all' individuazione degli strumenti necessari per portare fuori dal tunnel i membri in maggiore difficoltà.
Le risorse sono poche, ed esponenti autorevoli del governo ad ogni occasione si sbracciano a dire che i soldi da destinare alla crescita sono pochi. Bisognerà trovarli, senza chiedere altri sacrifici, poiché solo con lo sviluppo e la crescita si potrà ricominciare ad avere prospettive positive, anche se negli anni futuri.
AMPIO ACCORDO
Su questo punto sono in accordo tutti partiti della «strana» maggioranza parlamentare che regge il governo. Lo stesso ex premier Berlusconi lo ha confermato al presidente Napolitano nel corso dell'incontro di venerdì al Quirinale, assicurando il proprio sostegno all'esecutivo che pure dovrà cominciare a tenere in conto e misurarsi con le emergenze quotidiane del Paese.

l’Unità 29.4.12
Contro il femminicidio migliaia di firme «È una strage, ora basta»
All’appello delle donne risponde il web compatto. E moltissimi uomini
ai quali si chiede di non essere complici della mattanza. Aderiscono, tra gli altri, Camusso, Bersani, Finocchiaro, Saviano e il direttore dell’Unità Sardo
di Daniela Amenta


Telefono Rosa. «Il volontariato non può sostenere da solo questa battaglia»
I numeri dell’orrore. La violenza maschile in Italia è la prima causa di morte

Cinquantaquattro con Vanessa dall'inizio dell'anno. Una media aberrante, tragica. Un mattatoio. Il mattatoio delle donne in Italia. Cinquantaquattro in quattro mesi. Massacrate, stuprate, violate, uccise. Uccise da uomini che conoscevano. L'Orco difficilmente è lo sconosciuto incontrato per strada o in Rete. E' in casa l'Orco, il Barbablù, l'assassino. È l'ex che non ci sta, è il fidanzato geloso, è il marito violento.
Sempre lo stesso rituale. Sempre le stesse vittime. Cambiano nomi, luoghi, situazioni, ma le vittime sono sempre le stesse. Hanno gli occhi scuri di Vanessa, 21 anni di Enna, i capelli chiari di Edyta massacrata il giorno di San Valentino a Modena, il sorriso di Stefania ammazzata dal fidanzato che «l' amava più della sua stessa vita».
Le donne hanno detto basta mille volte, un milione di volte. Sono scese in piazza, hanno trovato la chiave di lettura per il femminismo del terzo millennio grazie alle mobilitazioni di Se non ora quando, alla denuncia di Lorella Zanardo attraverso Il corpo delle donne, alle inchieste, alle manifestazioni. Eppure, eppure sembra non bastare mai. Per questo, dopo la morte assurda di Vanessa, parte un nuovo appello che chiede agli uomini di non essere complici di questa strage, e alle donne di tenere altissima l'attenzione. Serve, in questo nostro Paese, una rivoluzione che rimetta le donne al centro della comunità, restituendo loro rispetto e dignità.
Un appello lanciato da Snoq, Zanardo, Loredana Lipperini e che potete firmare anche sul nostro sito, unita.it. Hanno già aderito in migliaia. Dalla leader Cgil Susanna Camusso al segretario Pd Pier Luigi Bersani che su Twitter scrive: «Si uccidono le donne. Le uccidono i maschi. È ora di dirlo, di vergognarcene, di fare qualcosa per stroncare la barbarie». Migliaia di firme: da Roberto Saviano a Renata Polverini, da Beppe Vacca ad Anna Finocchiaro, da Vendola all’Idv, dal direttore dell'Unità Claudio Sardo al presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, che spiega: «Come uomo penso sia necessario impegnarmi affinché questa violenza persecutoria possa arrestarsi».
Una sequenza di nomi: lo stesso , lo stesso sgomento per commentare il femminicidio. Un neologismo, coniato nel 2009 per la condanna del Messico alla Corte interamericana dei diritti umani dopo morte di 500 donne e la scomparsa di altrettante a Ciudad Juarez. Dallo scorso otto marzo questa parola lugubre e drammatica è stata usata anche per il nostro Paese da Rashida Manjoo, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne. «È la prima causa di morte in Italia perledonnetrai16ei44anni».Il femminicidio indica «ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la donna in quanto donna». Psicologica, sociale, fisica, fino alla morte: una violenza continua che in Italia continua a mietere vittime per «fattori culturali», quando si considera la donna come un oggetto di proprietà e chiunque «padre, marito e figli» decidono della sua vita. «Con dati statistici che vanno dal 70% all’87% la violenza domestica risulta essere la forma di violenza più pervasiva che continua a colpire le donne italiane» ha detto Rashida Manjoo.
E intanto le donne continuano a morire. Solo il 10% ha la forza di denunciare molestie e abusi. Perché non è facile sfuggire allo stalking, alla violenza. Anzi, diventa un calvario se si hanno figli. Esistono, è vero, residenze protette ma sono poche, gestite con un residuo di fondi. Una piaga mostruosa lasciata in mano al volontariato, soprattutto. Per questo Maria Gabriella Moscatelli presidente di Telefono Rosa, la storica associazione contro la violenza sulle donne, ha scritto al premier «Chiediamo al governo di farsi carico di questa situazione intollerabile. Servono risorse economiche e una Commissione straordinaria per fronteggiare questa tragedia. Sono queste le due condizioni senza le quali nessuna azione può realmente portare a dei risultati». Per la presidente «è evidente che strumenti, risorse e azioni al momento in atto non siano sufficienti». Fondi, certo. E leggi. E impegno. Perché le donne non siano lasciate sole. Soprattutto serve una rivoluzione culturale. Ma bisogna fare in fretta. Subito.

Repubblica 29.4.12
I maschi padroni delle nostre vite
di Natalia Aspesi


E va bene, aderiamo all´appello; e poi? Siamo d´accordo, lo sono tutti, chissà, anche quell´uomo sconosciuto e adesso certo del suo equilibrio che magari tra mesi o anni strangolerà furibondo una moglie disubbidiente e in fuga. Ascoltate le donne di "Se non ora quando".
E su Twitter una valanga di femmine e maschi, il femminicidio riguarda la politica, è la politica che deve intervenire. Per impedire che in Italia le donne continuino a crepare per il solo fatto di essere donne: nel 2006 gli uomini ne hanno uccise 101, nel 2007 107, nel 2008 112, nel 2009 119, nel 2010 120, nel 2011 137; e nel 2012 le donne ammazzate sono già 54. Ammazzate soprattutto da mariti o ex mariti, da conviventi o ex conviventi, da innamorati respinti: il 70 % delle assassinate erano italiane, il 76 % degli assassini sono italiani.
Ma quanti articoli arrabbiati abbiamo scritto, quanti appelli sdegnati abbiamo firmato, ad ogni efferata, cieca, mortale vendetta di un uomo che ammazza la sua donna "per troppo amore", negli ultimi decenni? Quante volte il cronista, preso dall´idea che la passione giustifica tutto, ammanta le coltellate, le randellate, come sì certo era meglio che no, ma si sa, un uomo innamorato poverino, si acceca e chissà quanto era stato provocato. E giù il passato della morta, a scovarne, storie e possibili deviazioni, in più, meticolosa descrizione del povero cadavere, possibilmente con foto dei poveri resti. C´è una misteriosa, segreta abitudine italiana di considerare le donne come gran brave persone certo, con gli stessi diritti certo, ma diverse, nel senso di un po´ ambigue, e sempre un po´ colpevoli: dall´aver lasciato scuocere la pasta a volersene andare, sfuggendo, meglio tentando di sfuggire a un ordine, a una consuetudine, a una sudditanza, in qualche modo disubbidendo a un uomo che, proprio perché sempre più fragile e insicuro, spaventato da quella persona che lo giudica e gli si oppone o addirittura non ne vuole più sapere, sente il bisogno di prevaricare, di essere riconosciuto come maschio, quindi come padrone.
Guai a dirlo, ma è così: del resto il famoso delitto d´onore, pare impossibile, è stato cancellato dalla nostra legislazione solo nel 1981. E la legge che condannava alla galera la traditrice (ma non il traditore), è stata abrogata del tutto nel 1969. Quando, alla fine degli anni ´60, cominciarono i processi per stupro, perché finalmente le ragazze superando la vergogna personale e il disprezzo popolare, osavano denunciare il loro stupratore, bisognava sentire gli avvocati in difesa del ragazzone stupratore, come infierivano sulla "colpevole", chiedendo conto del passato della sua verginità, e che mutande portava, e perché non si era comportata come Maria Goretti, per non parlare delle mamme dei maschi "vittime" di quella sporcacciona, a lacrimare, a raccontarne l´indole pia e innocente. Certo il paese è cambiato, la giustizia pure, ma gli uomini e la loro idea di potere legata al sesso, meno: in guerra lo stupro di massa fa parte del conflitto, in pace la donna continua ad essere una preda: la ventenne rapita e torturata da omacci l´altra sera a Voghera, gli episodi milanesi di una madre violentata in un parco in pieno giorno, di ragazze palpeggiate in metropolitana, continuano la storia del corpo della donna disponibile al desiderio di qualunque maschio, come un oggetto tra l´altro senza valore, usabile, deteriorabile.
Anche qui, siamo nella tradizione: da ragazze, noi vecchiette di oggi, sapevamo che in tram saremmo state palpate, pizzicate, che una mano, ed altro, si sarebbero appiccicati al nostro sedere. Si diventava rosse e si stava zitte, e ci si rassegnava all´odiosa imposizione. E quando adolescenti tornando in pieno giorno da scuola, c´era sempre in un angolo un signore con la patta aperta, tanto così per mostrare con orgoglio le sue virtù virili? Anche lì zitte, come se in qualche modo fosse colpa nostra. Sono storie lontane, ormai ridicole, e fortunatamente oggi una palpata non richiesta viene denunciata, suscita l´indignazione di massa e uno stupratore rischia anni e anni di galera. A beccarlo naturalmente. Perché ciò che indigna di più della violenza misogina, e ovviamente ancor più della vita strappata a tante donne, è che troppo spesso non si trova il colpevole: il fidanzato? Forse. Il compagno? Potrebbe essere. L´ex marito? Chissà. Ci sono ammazzamenti di donne che rendono furibonda la televisione che mette in piedi a ogni ora dibattiti infuocati, presente anche il sospettato autore del delitto. Poi ci si stufa e non se ne parla più, né interessa sapere se poi il delinquente è stato trovato o se invece si è condannato un innocente.
Ai processi qualche volta ci si arriva, ma poi, come nel "delitto di via Poma", la condanna era ingiusta, il condannato innocente viene giustamente liberato, e intanto, ancora una volta resta impunito l´omicidio di una povera giovane bella ragazza di cui a fatica ormai ci ricordiamo il nome. Le donne ammazzate, diventando una notizia troppo frequente, finiscono col meritarsi ormai poche righe frettolose, oppure ne scrivono solo i giornali di provincia, a meno che la storia sia particolarmente efferata o se appunto qualcuno, donne, si stufa e si ribella. E propone un appello: certo che in tanti si aderisce all´appello affinché la strage finisca. Ma la domanda che per ora non ha risposta è: perché questa strage? Perché ancora è così difficile per un uomo, non necessariamente un criminale, sarebbero troppi, accettare la libertà della donna, l´integrità del suo corpo, la sua volontà, le sue scelte? Perché la sua difesa troppo spesso è solo la violenza? Perché? Ma se lo chiedono gli uomini, tutti quanti, anche i più irreprensibili, e generosi, e ahi! innamorati?

il Fatto 29.4.12
Vaticano, indagini di Fatto
di Marco Politi


Da cinque giorni è al lavoro la commissione cardinali-zia incaricata di indagare sui “Vatileaks”, la fuga di notizie che nei mesi scorsi – grazie ai documenti diffusi in massima parte dal Fatto – ha permesso di portare alla luce la questione della corruzione negli appalti in Vaticano, gli ostacoli alla trasparenza dello Ior, il tentativo del cardinale Bertone di decidere chi mettere nella stanza dei bottoni dell’Università Cattolica e del Policlinico Gemelli, il misterioso memorandum sulle minacce di morte a Benedetto XVI. La guida l’82enne cardinale opusdeino Juliano Herranz, grande elettore di Benedetto XVI al conclave del 2005 (nella sua villa di Grottaferrata si tenevano le riunioni del gruppo pro-ratzingeriano), già segretario personale di Escrivà de Balaguer, ex presidente del Consiglio pontificio per i Testi legislativi ed ex responsabile della commissione disciplinare della Curia. Un uomo di ferro. Ma la cosa curiosa è che la commissione cardinalizia (di cui fanno parte anche i cardinali Tomko e De Giorgi) ha il mandato di perseguire i monsignori, che hanno passato alla stampa i documenti, invece di cercare di scoprire i ladri. Rivolgendosi al Papa e al Segretario di Stato Bertone, mons.
CARLO MARIA Viganò (ex segretario del Governatorato, frettolosamente trasferito a Washington come nunzio l’anno scorso) ha posto questioni moltoprecise. NellasualetteraaBertone dell’8 maggio 2011 ha denunciato “sprechi e spese” che andavano contenuti, un furto avvenuto nelle ville pontificie che era stato taciuto sia alla Gendarmeria vaticana che alle autorità del Governatorato, “assunzioni arbitrarie a fini personali” nei Musei vaticani. Personalmente a Benedetto XVI mons. Viganò ha denunciato il 4 aprile 2011 la discutibile gestione finanziaria dei fondi dello Stato Città del Vaticano e la situazione allarmante della Direzione dei servizi tecnici (dello stato pontificio) “com-promessa da evidenti situazioni di corruzione: i lavori affidati sempre alle stesse ditte, a costi almeno doppi di quelli praticati fuori del Vaticano”. Tanto per fare un esempio eclatante – che nessuno in Segreteria di Stato ha mai tentato di smentire – Viganò citava le spese assurde del presepe natalizio. “Il presepe di piazza S. Pietro del 2009 era costato 550 mila euro, quello del 2010 300 mila euro”. Una prova eclatante di ruberie, impossibili senza singolari distrazioni curiali. Di questo dovrebbe occuparsi la commissione cardinalizia, se volesse rassicurare l’opinione pubblica e la massa dei fedeli interessati a una gestione vaticana dei soldi in maniera assolutamente trasparente.
Nel Palazzo apostolico replicano che il 4 febbraio 2012 la presidenza del Governatorato dello Stato Città del Vaticano ha reso noto un lungo comunicato per “dichiarare pubblicamente che le dette asserzioni (contenute nelle lettere di Viganò, ndr) sono frutto di valutazioni erronee o si basano su timori non suffragati da prove, anzi apertamente contraddetti dalle principali personalità invocate come testimoni”. Curioso documento, da cui risulta praticamente che Benedetto XVI avrebbe inviato come ambasciatore nella capitale della massima potenza mondiale un mitomane calunniatore, che diffonde accuse “non suffragate da prove”.
GIÀ ALL’EPOCA i diplomatici accreditati in Vaticano erano rimasti stupiti per un comunicato, pubblicato pochi giorni dopo che il portavoce papale Lombardi aveva sottolineato che l’invio di Viganò a Washington era “prova di indubitabile stima e fiducia da parte del Papa”. Ma soprattutto il comunicato vaticano sulla presunta infondatezza delle denunce di corruzione e malversazione, prodotte da Viganò, è stato redatto senza un confronto trasparente sui singoli episodi. Troppo facile prendersela con le “bocche della verità”. Chi ha consigliato il pontefice a istituire una commissione limitata alla fuga di notizie, deve avere trascurato che un’indagine una volta iniziata è un meccanismo incontrollabile. Perché a spalare, vengono spesso fuori le verità più scomode.

Corriere 29.4.12
Nel censimento l'esodo di un milione di immigrati
Il demografo: effetto-crisi, la maggior parte è tornata al Paese d'origine
di Fabrizio Caccia


ROMA — Che fine hanno fatto? «I conti non tornano, in effetti», osserva preoccupato il professor Gian Carlo Blangiardo, demografo della Fondazione Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) e professore all'università Milano-Bicocca. Sul suo tavolo i dati provvisori dell'ultimo censimento generale della popolazione — ottobre 2011 — secondo cui gli stranieri residenti in Italia sarebbero 3 milioni e 800 mila. Un bel numero, sicuramente, anzi un vero e proprio boom dell'immigrazione rispetto al dato del censimento 2001: un milione e 300 mila persone. Già, ma il professor Blangiardo ha davanti agli occhi anche la statistica del settembre 2011, appena un mese prima cioè della rilevazione dell'ottobre scorso. Una ricerca intitolata «La popolazione straniera residente in Italia», sempre dell'Istat, secondo cui però gli stranieri iscritti all'anagrafe ammonterebbero a 4 milioni e 570 mila. A cui poi andrebbero aggiunti i 397 mila regolari ma non residenti (fonte Caritas/Migrantes), cioè quelli muniti solo di un visto per motivi di lavoro, famiglia, studio. Totale: 4 milioni 968 mila. Rispetto ai 3 milioni e 800 mila appena censiti, dunque, ne manca più di un milione. Dove sono finiti? Che fine hanno fatto?
Il demografo dell'Ismu è cauto, i dati Istat sono ancora provvisori, ma la sua impressione è che la maggior parte di questo milione che manca all'appello se ne sia andata. Abbia lasciato cioè, anche solo temporaneamente, il nostro Paese. Un esodo clamoroso, insomma. Il motivo? La crisi economica, certo. Il crollo dell'offerta di lavoro e delle retribuzioni. «Qualcuno, scaduto il permesso, decaduto il titolo di soggiorno, si sarà pure nascosto, sarà diventato irregolare e quindi è chiaro che non si è fatto beccare dal censimento — ragiona il professore —. Ma il vero problema è che è fallito per moltissimi il progetto migratorio, non essendoci più condizioni di lavoro adeguate, penso alla crisi dell'edilizia per esempio, così tanti romeni, tanti albanesi, hanno preferito tornare indietro, rientrare in patria, pensando "poi si vedrà"...».
«Il nostro — continua Blangiardo — è un Paese di accoglienza, gli episodi di razzismo sono davvero isolati, eppoi i matti nel mondo ci sono ovunque, perciò non c'entra la xenofobia e non è neppure colpa di Monti se la crisi economica morde in questo modo. È chiaro però che tutti questi "missing" costituiscono un fenomeno allarmante».
Stefano Solari, direttore scientifico della Fondazione «Leone Moressa», istituto nato nel 2002 che sforna ogni anno statistiche interessanti legate alla presenza degli stranieri in Italia, condivide l'analisi cupa dello scienziato dell'Ismu: «Per fare un esempio — dice Solari — i polacchi si sono resi conto ormai di guadagnare molto meglio in patria che da noi. E anche tanti romeni, che avevano lasciato a casa le famiglie ed erano venuti in Italia in cerca di lavoro, hanno concluso che visto che qui c'è disoccupazione tanto vale fare marcia indietro e aspettare tempi migliori. Molti nordafricani, invece, hanno proseguito la strada verso il nord: la Francia, la Germania. Così se ne sono andati anche loro».
Attenzione, però. «Il censimento 2011 si è svolto un po' al risparmio — osserva Solari — perciò non è detto che proprio tutti gli stranieri siano stati raggiunti dai rilevatori dell'Istat...». «Non solo — nota Paolo Ciani, della Comunità di Sant'Egidio — Vanno considerati anche alcuni fattori specifici legati proprio all'immigrazione: per esempio, l'estrema mobilità. Nel senso che se uno straniero non trova più lavoro in un posto, logicamente se lo va a cercare altrove e dunque diventa difficile da rintracciare. Nelle grandi città, poi, è diffuso il fenomeno degli affitti irregolari, dei subaffitti, perciò alla fine in molti preferiscono non farsi censire...». La conferma diretta arriva da Bachcu, presidente dell'associazione dei bengalesi a Roma «Dhuumcatu», con quasi 9 mila iscritti: «Molti immigrati non hanno partecipato volutamente al censimento — dice Bachcu — Lo hanno fatto per paura, per evitare problemi con le Asl e i municipi di zona, perché spesso vivono in 10-12 dentro una stessa casa, in «nero», senza contratti d'affitto regolari. Però è anche vero che molti sono andati via: negli ultimi tre anni per colpa della crisi molti capifamiglia, di Paesi africani, asiatici, hanno rimandato a casa le mogli e i figli. Un terzo degli stranieri che manca all'appello, secondo me, è costituito da donne».
Marco Marcocci, studioso di migrant banking, cui ha dedicato un libro e poi anche un sito (www.migrantiebanche.it), dice che il fenomeno cominciò nel 2008 in America e ora si sta riproducendo fedelmente da noi: «Non c'è più lavoro, la gente così torna a casa, molti migranti che nel vecchio censimento del 2001 erano regolari ora son diventati clandestini. Nel 2011 per la prima volta da noi il flusso delle rimesse è calato, perché gli stranieri non riescono più a mettere i soldi da parte per spedirli in patria. Addirittura, in America, dove la crisi è stata davvero mortale, è successo che le famiglie del Messico, dell'Ecuador, del Perù, si son viste costrette a mandare loro dei soldi negli Usa per aiutare i propri congiunti anziché il contrario. Ecco, almeno questo speriamo che in Italia non succeda».

Corriere 29.4.12
«Quindici milioni di armi». L'Italia che ha paura
di Giusi Fasano


MILANO — Le rapine violente nelle ville, gli assalti ai negozi, i furti continui, gli agguati per strada e la sensazione crescente di insicurezza. Quanto basta per armare privati cittadini rassicurati dall'idea che una pistola, all'occorrenza, diventi un buon deterrente per il malintenzionato di turno.
Erano armati i due fratelli gioiellieri che ieri mattina a Roma, affrontati per strada da una banda di rapinatori, ne hanno ucciso uno e ferito gravemente un altro. Era armato il tabaccaio di Correzzola (vicino Padova) che nella notte fra mercoledì e giovedì ha premuto il grilletto e ha ucciso un ragazzo di vent'anni nella sua edicola-tabaccheria dopo averlo sorpreso con altri tre complici a rubare sigarette. Aveva una pistola anche l'orefice di Monte Urano (Fermo) che il 4 aprile sparò a Rosa Donzelli, 36 anni, rapinatrice morta mentre fuggiva con una borsa piena di gioielli. E questo per citare soltanto i casi più recenti.
Nel 2008 gli ultimi dati ufficiali diffusi dall'Eurispes: dieci milioni le armi detenute legalmente da privati cittadini e quattro milioni le famiglie che avevano in casa pistole o fucili (una su sei). Numeri già allora ritenuti molto sottostimati e difficili da verificare perché non esisteva (e non esiste ancora) un censimento preciso delle armi in circolazione sul territorio nazionale. Il sistema informatico «Space», nato per assemblare ogni genere di dati su armi ed esplosivi, funziona soltanto per alcune regioni e solo per gli aggiornamenti sui porti d'arma. Giovanni Aliquò, dirigente sindacale dell'Associazione funzionari di polizia, è convinto che oggi siano almeno 15-16 milioni le armi detenute dai privati nel nostro Paese e se le proporzioni fossero mantenute vorrebbe dire che le famiglie «armate» a questo punto sarebbero salite quantomeno a sei milioni. «Trovo sconcertante — protesta Aliquò — aver cancellato il catalogo nazionale delle armi», strumento che stabiliva quali armi e munizioni potessero finire nelle mani dei privati e a quali condizioni: è stato abolito con il decreto legge di dicembre sulle semplificazioni e la conseguenza diretta è che adesso è possibile che un incensurato abbia in casa o in negozio armi o munizionamenti con una «altissima capacità offensiva» che fino a dicembre non avrebbe potuto avere.
Ma se il calibro e la potenza dell'arma decidono la sorte della persona alla quale si spara, lo stesso può fare la mancanza di controllo di chi preme il grilletto.
«Il problema è il meccanismo della paura» valuta il criminologo clinico Guido Travaini. Avere l'accesso a un'arma mentre si è sotto attacco, dice, significa «annebbiare gli aspetti della mediazione» e «perdere l'aspetto della lucidità», «a meno che non si appartenga alle forze dell'ordine che sanno utilizzare l'arma come strumento di lavoro». I fratelli gioiellieri romani di ieri mattina, l'orefice che ha ucciso la rapinatrice o il tabaccaio del paesino del Padovano dove una famiglia su due ha un'arma in casa: nessuno di loro ha «la forma mentis adeguata rispetto all'utilizzo di uno strumento di per sé micidiale». E alla fine ha prevalso per tutti e tre quel «meccanismo della paura» che ha fatto premere il grilletto. Spiega Travaini: «È un'azione che spesso eccede rispetto alla volontà di chi la compie» e può essere legata a una «vittimizzazione diretta (sono già rimasto vittima di un'aggressione perciò ora mi difendo) o indiretta (le informazioni che ho mi dicono che i rapinatori delle ville sono violenti, stupratori, potenziali assassini, e quindi reagisco)». Cioè sparo.

il Fatto 29.4.12
I superstiti di Utoya
“Noi, Breivik e la strage al rallentatore”
di Gerald Trauffeter e Antje Windmann


Il processo a Anders Breivik in corso a Oslo costringe i superstiti del massacro di Utoya a rivivere quelle drammatiche esperienze. Adrian Pracon, 22 anni, di Breivik ha intravisto solo gli stivali un attimo prima che arrivasse il colpo: “I ricordi sono stranissimi. È come se tutto fosse accaduto al rallentatore”. Eppure ha deciso di tornare a Utoya con la sorella per farle vedere il luogo in cui ha rischiato di morire.
Il 22 luglio 2011, Adrian vide i suoi compagni cadere a terra, uno dopo l’altro. Poi si accorse che l’assassino si stava avvicinando: “Era talmente vicino che sentivo il calore emanato dalla canna del fucile”. Adrian ha i capelli castani e mossi ed è figlio di immigrati polacchi. Sua sorella Katarina, seduta accanto a lui sull’auto che ci conduce al porto, ascolta con visibile emozione. Sul traghetto per Utoya ci sono dozzine di giovani con la giacca a vento rossa. L’Auf, l’organizzazione giovanile del Partito laburista norvegese, ha organizzato un incontro con i superstiti e le loro famiglie.
SEMBRA una gita scolastica di inizio primavera: i volontari dell’Auf vendono i biglietti del traghetto, i giovani parlano ad alta voce e scattano foto con il cellulare. Molti ridono. La gita a Utoya è una forma di terapia il cui scopo è quello di aiutare i giovani scampati miracolosamente alla morte a elaborare quelle ore terribili e il segno che hanno lasciato. L’idea di queste gite è venuta al settantunenne psicologo Gronvold Bugge e rientra nel quadro di un più vasto programma finanziato dalle istituzioni pubbliche per assistere superstiti e familiari. Non bisogna dimenticare che questa esperienza ha colpito in prevalenza degli adolescenti: “L’età più difficile per superare traumi di questa natura” dice Bugge. “La psiche è ancora in fase di evoluzione e la personalità non è ancora definita”. Ciascuno affronta la tragedia a suo modo. Il ventitreenne Simen Braenden Mortensen era la guardia che fece salire a bordo del traghetto Breivik travestito da poliziotto. Mortensen fa l’assistente sociale e non riesce a darsi pace: “Anche se razionalmente so che chiunque si sarebbe comportato come me, mi porto addosso un terribile senso di colpa”. Poi c’è la diciannovenne Caroline Winge che ha chiesto di poter frequentare un poligono di tiro della polizia per abituarsi ai colpi di arma da fuoco. O il trentaduenne Khalid Taleb Ahmed che prende psicofarmaci per togliersi dagli occhi l’immagine del fratello, Ismail, disteso in terra con i capelli sporchi di sangue.
Marte Fevang Smith, 18 anni, è seduta sul traghetto accanto alla madre, Monica. È una ragazza bellissima, bionda a dai luminosi occhi azzurri. Sua madre ci dice che l’estate scorsa stava cominciando a “sbocciare” quando fu colpita da una proiettile alla testa. È viva per miracolo. Durante gran parte del viaggio Marte se ne sta in silenzio. Si sente al sicuro solo a casa tra i suoi dvd, i suoi abiti e i suoi libri. La sola idea di salire su un autobus affollato la terrorizza. Un tempo le piaceva ballare, ma adesso quasi non sopporta più la musica che un tempo amava. La sua migliore amica Maria, le è morta accanto. Mar-te non ha avuto ancora la forza di riprendere la scuola. Ci ha provato all’inizio dell’anno, ma non ce l’ha fatta. Per ora lavora un paio di volte la settimana non lontano da casa.
ALCUNI SINTOMI sono comuni a tutti; ad esempio, rumori di tutti i giorni come una porta che sbatte possono far tornare alla mente emozioni legate all’esperienza traumatica. Nella fase acuta post-traumatica, spiega la dottoressa Renate Bugge, è normale che si abbiano solo ricordi frammentari, confusi: “Il cervello non riesce a mettere immediatamente gli eventi in ordine cronologico e a creare una distanza tra l’esperienza di allora e quanto accade nel presente”. In altre parole nella mente di Marte, come in quella di molti altri, tutto è diventato un confuso miscuglio di immagini da incubo: le piccole rane viste quella mattina vicino al campeggio, gli spari e le urla, il letto d’ospedale, un telegiornale che parlava del numero delle vittime. In queste condizioni il suo cervello non è in grado di svolgere compiti complessi. Per questa ragione la scuola consiglia ai ragazzi di farsi aiutare da uno psicologo.
Sulle prime Marte ha tentato di uscirne con le sue forze. Ha aperto un blog e ha cominciato a scrivere, ma ha finito per arrendersi. Il terapista che la segue sta tentando un trattamento insolito chiamato “de-sensibilizzazione e riprogrammazione del movimento oculare”. Al paziente si chiede di ricordare le scene traumatiche mentre il terapista muove un oggetto dinanzi agli occhi e chiede al paziente di seguire l’oggetto con lo sguardo. Sebbene non si sappia ancora perché, sembra che il trattamento funzioni. Sono stati curati in questo modo anche molti soldati reduci dall’Afghanistan.
A FEBBRAIO Marte ha guardato per la prima volta Breivik negli occhi. Quando è entrato in aula, Brevik ha lanciato uno sguardo a Marte e agli altri superstiti. Marte è rimasta colpita dalla vocina stridula e dall’atteggiamento che le è sembrato immaturo. Prima della fine dell’udienza Marte è svenuta. “Non voglio più vederlo. Quando dovrò testimoniare lui – come ha chiesto il mio avvocato – uscirà dall’aula”.
Adrian Pracon ha buone probabilità di superare il trauma. Mentre scende dal traghetto è visibilmente emozionato. Mostra alla sorella la roccia sulla quale era disteso. Pracon in Norvegia è diventato abbastanza famoso grazie al libro “Il cuore sulla roccia” scritto da Erik Moller Solheim sulla base della sua testimonianza. I primi mesi sono stati duri e Adrian era molto depresso. “Ma durante le lunghe conversazioni con Erik gli episodi confusi che affollavano la mia mente hanno cominciato ad andare al loro posto come le tessere di un mosaico”, ricorda.
Una cosa hanno in comune tutti i superstiti: il senso di colpa. Perché non sono morto anche io? Adrian se lo chiede continuamente e non sa darsi una risposta.
©2012, DerSpiegel – distribuito da The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 29.4.12
Intervista a Jack Lang
«Hollande come Obama In gioco la politica di un intero continente»
L’ex ministro alla Cultura «Le sue parole chiave sono equità, giustizia sociale
e scuola: François non confonde immagine e sostanza, è uomo di riconciliazione E sono certo che saprà dare corpo ad un’ Europa che non sia schiava dei mercati»
di Umberto De Giovannangeli


Prospettive. «Il ciclo conservatore si sta chiudendo. Potremo finalmente aprirci ad una
visione non solo economicista del mondo»

Di una cosa si dice certo: se François Hollande conquisterà l’Eliseo il 6 maggio, innescherà un benefico effetto domini che investirà altri Paesi europei chiamati alle urne nel 2013: Italia in testa. Quella di Jack Lang 73 anni, ex ministro della Cultura nell’era Mitterrand, uno dei padri nobili della sinistra francese, oggi parlamentare e consigliere speciale di Hollande più che una speranza è una «previsione ponderata. Fondata su diversi segnali che indicano come il ciclo conservatore si stia esaurendo e che è possibile costruire un’Europa che scommette sulla crescita e quindi sul futuro». Questa convinzione fa da filo conduttore dell’intervista concessa a l’Unità da Lang. «A rafforzare la mia convinzione che Hollande uscirà vincente dal ballottaggio – rimarca Lang, indicato da molti analisti e conoscitori degli equilibri interni al Ps come futuro ministro dell’Education nationale o della Culture se il candidato socialista diverrà Presidente non sono solo i sondaggi, che lo danno in vantaggio di otto-dieci punti, ma il vuoto politico che si è aperto attorno a Sarkozy, il disagio sempre più marcato e manifesto di tanti esponenti dello stesso Ump (il partito di Sarkozy, ndr) espressione di quella destra moderata, repubblicana, che non accetta la deriva “lepenista” che Sarkò sta avendo in questi giorni, rincorrendo Marine Le Pen sul suo terreno, quello dell’ossessione-immigrati, della Francia minacciata dall’orda maghrebina... Ma sulla paura e la demonizzazione dell’altro da sé, non si costruisce nulla di buono. Per questo attendo con fiducia il 6 maggio...».
Gli ultimi sondaggi danno Hollande in netto vantaggio su Sarkozy nel ballottaggio del 6 maggio. La partita è vinta?
«Piano con l’entusiasmo. Dobbiamo batterci fino in fondo, senza subire una ubriacatura da sondaggi. Detto questo, va però aggiunto che tanti segnali, e non solo i sondaggi, indicano che il vento sta spirando nella direzione giusta: quella del cambiamento».
“Le changement c’est maintenant” (Il cambiamento è ora). È lo slogan della campagna di Hollande. Qual è, a suo avviso, il segno prevalente di questo cambiamento, quali le sue parole-chiave?
«Equità. Giustizia sociale. Parole che fanno parte del bagaglio ideale, dei principi fondanti della sinistra, valori che rappresentano quel fil rouge che lega l’esperienza presidenziale di Mitterrand a quella delineata oggi da Hollande. Da questo punto di vista, sono convinto che il suo programma possa contribuire a migliorare la giustizia sociale e fiscale, ma anche la reindustrializzazione della Francia e il mondo, decisivo, dell’istruzione».
Lei ha sostenuto Hollande: c’è chi per questo l’ha accusata di ingratitudine verso Sarkozy che l’aveva nominato suo inviato speciale per la Corea del Nord...
«Nessuna ingratitudine. Quella era una missione di Stato che non ha mai avuto come contropartita un sostegno a Sarkozy; né lui, è giusto sottolinearlo, lo ha mai preteso. A
quel tempo avevo apprezzato lo spirito di ouverture mostrato da Sarkozy, che andava oltre le barriere ideologiche. Ma quella, purtroppo, si è rivelata una breve parentesi, a cui è succeduta la sua deriva a destra. Da quel momento, le nostre strade si sono separate, senza mai più incontrarsi».
Da Sarkozy a Hollande. In molti lo hanno definito un politico «grigio», il «trionfo della normalità».
«Ben venga la normalità se è sinonimo di rigore, serietà, di una politica che non scade a cabaret, non confonde immagine e sostanza, con la seconda ancellare della prima. Quanto a Hollande, lui è, al tempo stesso, un uomo di azione e di riconciliazione. Riforme e pacificazione: è la formula giusta per voltare pagina dopo una presidenza Sarkozy che ha prodotto scontri e lacerazioni. Mi lasci aggiungere che conosco molto bene e da molto tempo Hollande: non fatevi ingannare dall’apparenza. Dietro il suo aspetto tranquillo, si cela un carattere forte, determinato. François è un uomo energico».
Qual è un punto del suo programma che è stato sottovalutato nell’analisi dei media e che invece lei ritiene di particolare importanza? «L’investimento sull’istruzione. Di Hollande apprezzo la sua visione della scuola e della cultura. Per me, la scuola è la priorità, e Hollande condivide appieno questa affermazione. La condivide e ciò che più conta, l’ha tradotta in proposte concrete, facendone parte fondamentale del suo programma presidenziale: penso, ad esempio, all’assunzione, in cinque anni, di 60mila insegnanti: è l’”esercito del sapere” su cui fondare il futuro della Francia e la sua competitività nel mondo globalizzato. Mi lasci aggiungere che l’idea di un programma pluriennale di reclutamento degli insegnanti l’avevo praticata quando ero ministro dell’Education nationale nel governo Jospin, e il fatto che Hollande l’abbia recepita è per me motivo di orgoglio e di speranza».
Per le sue proposte sugli insegnanti, Hollande è stato tacciato di irresponsabilità dall’Ump...
«Puntare sulla scuola, sulla qualità dell’istruzione pubblica, è una virtù e non un peccato. È un investimento e non una spesa improduttiva. Vede, le accuse dell’Ump sono le stesse che i Repubblicani americani hanno scagliato contro Barack Obama. “Devi scegliere tra arricchire i miliardari o arricchire la scuola”, è stata la sua risposta. Come Obama, anche noi abbiamo scelto la scuola. E un discorso analogo può essere fatto per la sanità e la casa».
A proposito del presidente americano. Quando ancora non era certo, ufficiale, che il candidato democratico sarebbe diventato il nuovo presidente degli Stati Uniti, lei dichiarò che «in Europa ci vorrebbe uno come lui». Hollande può esserlo?
«La comune visione sull’importanza della scuola e dell’istruzione pubblica, dà conto di un’assonanza importante tra i due. Hollande, come Obama, ha compreso l’importanza di parlare al cuore e all’intelligenza delle nuove generazioni. Ma ciò che più conta, è che una vittoria di Hollande darebbe corpo e anima a un’Europa non schiava dei mercati e di un’austerità assolutizzata; un’Europa che punta sulla crescita e che mostra maggiore coraggio e determinazione nel perseguire la via dell’integrazione politica». Quale indicazione la sinistra e i progressisti europei dovrebbero trarre da una vittoria di François Hollande il 6 maggio?
«Indicazioni e speranze: il ciclo conservatore si sta chiudendo se, come credo e mi auguro, dopo la Francia, le forze progressiste vinceranno le elezioni del 2013 in Italia e in Germania. E poi c’è un’indicazione più generale, che investe la definizione di un punto di vista progressista sul presente e sul futuro: è possibile, oltre che auspicabile, non rinchiudersi in una visione economicista del mondo».

l’Unità 29.4.12
La convention del partito che nei sondaggi supera l’11% dei voti a danno dei Verdi e della Fdp
Lacerati al loro interno per le infiltrazioni neonaziste, i pirati stentano a darsi un’organizzazione
Quei «Piraten» anti-sistema sull’orlo di una crisi di nervi
Trionfatore di tutti i sondaggi, tanto da fare tremare l’establishment, il partito dei pirati tedeschi ha tenuto ieri la sua convention nazionale. Senza risolvere il problema di fondo: che farsene di tutto questo successo?
di Roberto Brunelli


La piratessa sorride d’un sorriso smagliante. «Ora votiamo una segreteria fichissima, va bene?». Ha 24 anni, Marina Weisband, ed è forse la personalità politica più fotografata della Germania, dopo Frau Merkel, beninteso. È il suo discorso d’addio alla convention del suo partito, i Pirati, che in una manciata di mesi ha messo sottosopra il paesaggio politico della Repubblica federale.
Prima il risultato trionfante a Berlino, poi il bis nel Saarland, ora i sondaggi, secondo cui il 12% dei tedeschi voterebbe sin d’ora i Piraten, collocandoli ad un soffio dai Verdi e ad una distanza siderale dai liberali, gli alleati della signora Merkel, precipitati nei bassifondi dei consensi. Addirittura il 30%, ossai un elettore su tre, è «potenzialmente» disposto a votarli in futuro.
Quasi tutti, in Germania, sono convinti che i Piraten riusciranno ad entrare nel Bundestag alle elezioni dell’anno prossimo. Risultato: l’establishment politico, sin dalla capitale giù giù fino al Land più remoto, è sull’orlo di una crisi di nervi. Il problema, però è che anche loro, i pirati, sembrano esserlo.
«Irrazionali e incompetenti», grida la grande stampa, mentre dai piani alti della politica arrivano insperati attestati di stima. «Un fenomeno interessante», ha detto l’altro giorno la cancelliera Merkel. «Arricchisono lo spettro politico, anche se non sappiamo ancora come si evolverà». Il deputato socialemocratico Thomas Oppermann, invece, afferma che i Piraten sono «i nuovi e migliori liberali», ai quali a suo avviso spetta la missione di far sloggiare i «veri» liberali della Fdp e i «compagni» della Linke dai parlamenti regionali dello Schleswig Holstein e del Nordreno-Westfalia, dove si vota il 6 e il 13 maggio. Sul Reno sono dati all’11%, davanti agli ecologisti, bloccati al 10%. Aperture anche da Sarah Wagenknecht, vicecapo della Linke e compagna di Oskar Lafontaine: «Sarebbe meraviglioso se i Piraten diventassero un combattivo partito di sinistra, come il nostro».
Corteggiamenti o pii desideri, quel che è certo è che i Pirati tedeschi non sanno nemmeno loro esattamente chi e cosa sono. La superpiratessa Marina Weisband, che ha da poco deciso di lasciare ogni incarico dirigenziale «per motivi personali» ma che è ancora l’unica vera star delpartito, ieri alla convention di Neumünster ha detto che «ci sparano addosso perché finalmente ci prendono sul serio: è così che funziona la politica, le cose nuove vengono sempre messe a distanza». Il problema è che i Pirati stessi talvolta si chiedono se sono capaci di governare, o se non altro, di fare politico di primo piano: hanno fatto molto scalpore i sospetti di infiltrazioni neonaziste nel partito, legate al fatto che il partito è sostanzialmente privo di una rigida organizzazione interna, infiltrazioni ancor più paradossali se si pensa che buona parte dei voti intercettati dai Pirati provengono dalle file della Linke e dei Verdi.
Certo, per gli eroi della nuova «politica 2.0» arrivano vagonate di voti giovanili nonché una notevolissima fetta dall’armata del non-voto, per loro natura evanescenti: fatto sta che le polemiche sulle contaminazioni dell’estrema destra hanno messo a durissima prova la stessa tenuta dei vertici del partito. Le accuse e le riprovazioni sono state reciproche e talvolta anche feroci, dopo che alcuni corsari, a vario titolo, se ne sono usciti con dichiarazioni negazioniste o similari. Fortunatamente, ieri al grande happening dei pirati è stata votata quasi all’unanimità una risoluzione secondo cui «l’Olocausto è una parte indiscutibile del passato. Relativizzarlo o negarlo sotto il paravento della libertà d’opinione è contrario ai principi basilari del partito». Applausi scroscianti. Liberatori, forse.
POLITICA 2.0
Ovviamente ieri i flash dei fotografi e le telecamere erano per Marina Weisband, nonostante che nuovo segretario del partito sia stato nominato il quarantunenne Bernd Schlömer, responsabile della politica di difesa, eletto con il 66% al posto di Sebastian Nerz. «Merdoso culto della personalità», grida un Pirata dalle prime file rivolto alla bella Marina. «La pubertà dei Piraten andrà avanti per un bel po’», scriveva ieri lo Spiegel on line. La base si oppone ogni tentativo di rendere più strutturata l’organizzazione del partito. Una direzione che duri due anni invece che uno? Bocciata. Una specie di giunta, che lavori parallelamente e completi la segreteria? «Troppi apparati di potere, sarebbe politica 1.0», spiega il pirata Martin Haase tra gli applausi.
I pirati non si fanno domare tanto facilmente. Tanto che tecnicamente a Neumünster non ci sono nemmeno i delegati: alla convention possono partecipare tutti gli iscritti. E ogni iscritto può elaborare proposte e metterle ai voti. Il bello è che se gli chiedi se sono pronti a incarichi di governo, certo loro non dicono di no. L’oramai ex segretario Sebastian Nerz ha dichiarato che è un’«opzione aperta, se abbiamo l’occasione di imporre i nostri contenuti». Che non sono tanto chiari, per la verità, a parte il no alla censura su Internet, la massima apertura sui diritti civili, la lotta alla povertà e la trasformazione del sistema politico in open source. Ma non importa. I pirati vanno là dove batte il cuore.

l’Unità 29.4.12
Rifugiato nell’ambasciata Usa, arrestato l’amico Hu che lo ha aiutato
Washington tace e aspetta l’arrivo in Cina giovedì di Hillary Clinton
Tensione tra Pechino e l’America per la fuga del dissidente cieco
Il dissidente cieco Chen pare proprio si sia rifugiato nell’ambasciata Usa a Pechino ma Washington tace e attende il vertice con Hillary Clinton giovedì. Retate di dissidenti tra cui Hu Jia per un’intervista alla Bbc

di Martino Mazzonis

Non ci sono conferme né smentite ufficiali ma restano pochi dubbi sul fatto che Chen Guangcheng, l'avvocato dissidente cieco, abbia trovato rifugio presso l’ambasciata Usa a Pechino. Così assicura ChinaAid, un gruppo pro diritti umani con sede in Texas. Sarebbe stato picchiato di recente, nonostante Chen oltre sia non vedente a causua di una malattia ereditaria che lo menoma fortemente. Non solo. Si viene a sapere che Hu Jia uno dei dissidenti cinesi più importantiè stato convocato ieri dalla polizia di Pechino dopo aver dichiarato alla Bbc di aver incontrato Chen Guangcheng «nelle ultime 72 ore» e di ritenere che si trovi nell'ambasciata americana. L’allarme viene da un messaggio su Twitter della moglie di Hu, Zeng Jinyan.
TUTTI COINVOLTI NELLA FUGA
La fuga dell'avvocato autodidatta che denunciò le sterilizzazioni e gli aborti forzati nello Shandong, la provincia dove vive, era programmata da tempo e arriva come un fulmine sui rapporti sino-americani. Giovedì prossimo infatti una delegazione composta da Hillary Clinton e dal Segretario al Tesoro Timothy Geithner giungerà a Pechino per un vertice bilaterale. La fuga di Chen diventa ora un test su come prendono forma le relazioni tra i due più importanti Paesi del mondo.
Pechino sembra furuibonda. Il fatto che un dissidente cieco sia in grado di eludere la sorveglianza e percorrere più di 500 chilometri senza che nessuno se ne sia accorto è segnale che la sicurezza interna non funziona come dovrebbe. Parenti e sostenitori di Chen sono stati prelevati nelle loro case, interrogati, molti di loro sono agli arresti. Si ha notizia del fratello maggiore del dissidente Chen Kegui e di suo figlio Chen Guangfu, il cui arresto deve essere stato concitato e violento. In una telefonata registrata da una blogger cinese residente all'estero si sente il nipote raccontare dell'ingresso del capo villaggio Zhang Jian in casa per prelevare suo padre. Il ragazzo ha difeso se stesso e la madre dalle guardie con un coltello. Più tardi è stato arrestato anche lui. Così come un cugino e suo figlio, prelevati dalla loro casa, stessa sorte toccata agli attivisti per i diritti umani He Peirong e Gao Yushan. Sembra di capire che tutti abbiano una parte nel piano di fuga.
La situazione è complicata per la rilevanza internazionale del caso e per la quantità di questioni aperte tra Cina e Stati Uniti. Nelle ultime settimane Pechino e Washington hanno molto discusso di Siria, Iran e Corea del Nord, crisi aperte sulle quali la Cina ha una parola importante da dire. Non solo per il diritto di veto in Consiglio di sicurezza Onu ma per i legami economici e politici che mantiene con tutti questi Paesi. Su ciascun fronte la posizione cinese è sembrata meno rigida che nel recente passato e il vertice di giovedì è dunque un passaggio importante. Più complicata ancora la partita economica, ma su questa l’interesse a negoziare è più pressante: la crisi colpisce tutti, anche Pechino.
Per tutte queste ragioni non si levano voci ufficiali sulla fuga. L'obbiettivo deve essere quello di trovare una soluzione che non lasci ferite aperte. Obama no può certo consegnare Chen alle autorità, mentre Pechino sa di avere per le mani un brutto problema. Chen ha scontato la sua pena in carcere ma dal 2010 viene tenuto in custodia in casa, «detenzione morbida», la chiamano. Nessuno riesce ad avvicinarlo. Ci sono guardie e agenti in borghese attorno alla sua casa e violenze su di lui e sulla famiglia, come ha denunciato lo stesso Chen in un video postato su internet poco dopo la fuga. La denuncia è un appello al premier Wen Jiabao, la faccia sorridente di Pechino: «Chi è che ci perseguita si chiede Chen nel video Chen Le autorità locali o sono ordini dall'alto? E se non è Pechino a decidere, allora si apra un'inchiesta sui funzionari della provincia». Il dissidente prova così a mettere pressione sulle autorità. Come ha detto al telefono Hu Jia, presente al momento della registrazione del video, la scelta di fuggire adesso è dettata da un ragionamento. Chen «crede che questo sia un periodo di grandi cambiamenti, mi ha detto di non voler chiedere asilo politico, ma continuare a battersi qui in Cina». Moglie e figlio, però rimarrebbero alla mercé delle autorità.
A ottobre si rinnovano i vertici e l’establishment cinese è ancora scosso per la defenestrazione di Bo Xilai. Diverse voci interne hanno spiegato che la caduta di Bo ha aperto spazi per l’avvio di un dibattito su riforme costituzionali. Wen sembra intenzionato a premere sull’acceleratore. La fuga e l’appello sono quindi un tentativo di inserirsi nel dibattito politico: nel video Chen parla di funzionari che ignorano la legge e fa i nomi.
Il fatto che Chen non sembri intenzionato chiedere asilo è un bene per le relazioni sino-americane. Washington e Pechino potranno provare a contrattare una via di uscita, che dovrà necessariamente implicare un allentamento della pressione sulla famiglia Chen. L’agenda di Clinton, già fitta, dovrà trovare spazio anche per il dissidente cieco.

il Fatto 29.4.12
La Cina di oggi e lo spettro di Mao
La scrittrice Jung Chang: c’è più libertà economica, ma la repressione continua
di Andrea Valdambrini


Londra. La Cina è cambiata dai tempi di Mao. Ma il ricordo del terrore di quegli anni, assieme alla paura che il Grande Timoniere possa proiettare ancora un’ombra sinistra sulla Cina di oggi, rimangono vive nella memoria. E permettono di capire meglio anche gli sviluppi più recenti della politica a Pechino. Il dissidente cieco Chen Guangcheng, è appena sfuggito agli arresti domiciliari ed è ora a Pechino protetto dagli americani. Non s’è ancora spenta l’eco dell’estromissione dal potere di Bo Xilai, già influente membro del Politburo. “Un neo-maoista e un corrotto. Bene sia stato deposto”, dice la scrittrice Jung Chang, incontrata al Royal Festival Hall di Londra. “Un tale revival del Grande Timoniere non sarebbe stato possibile solo pochi anni fa. Ma dopo le Olimpiadi il clima è cambiato”.
MAO lei lo conosceva bene. Chang è andata via dal Sichuan nel lontano ’78, con un biglietto di sola andata destinazione Oxford. In Gran Bretagna, il Paese che da allora le ha dato asilo, ha scritto “Cigni selvaggi”, la storia della sua famiglia attraverso i racconti della nonna e della madre, che compone gli estremi di un viaggio che spazia dalla Lunga Marcia fino a Tienammen. Pubblicato ormai 21 anni fa e poi tradotto in più di 30 lingue, l’autobiografia di Chang è stato un enorme successo (10 milioni di copie vendute nel mondo), ma rimane al bando nel suo Paese.
“Avete visto cosa è successo quando è morto Kim Il Sung, in Corea? Avete visto la gente piangere davvero? I coreani si contorcevano, ma non era vero cordoglio. Così è stato per Mao”. Le chiediamo se c’è una relazione tra quegli anni terribili e oggi. “La Cina di oggi è molto diversa”, afferma cautamente la scrittrice. “Le condizioni economiche sono molto migliorate, progressi ne sono stati fatti”. Negli anni ’50 il leader comunista si trovò a fronteggiare una carestia che portò alla morte di circa 40 milioni di cinesi. Gli storici hanno sottolineato più tardi le responsabilità del Grande Timoniere nel gestire la situazione. La stessa Chang, coautrice nel 2005 con il marito, lo storico britannico Jon Hallyday, della monumentale biografia “Mao, the Unknown Story” (Mao, la storia sconosciuta) ha puntato il dito contro le responsabilità dell’allora presidente cinese, che avrebbe persino favorito il sorgere e lo svilupparsi della carestia. “Era un autocrate, voleva che tutti gli altri fossero spogliati di tutto quello che possedevano”. Per governare usava non solo il terrore messo in atto durante la Rivoluzione Culturale (“incitava alla violenza ovunque. Ricordo un insegnante di inglese picchiato dai suoi stessi studenti solo per essere un insegnante di inglese”), ma è arrivato ad affamare volontariamente il suo popolo.
Progressi a parte, quando si viene alla libertà di espressione, Chang stavolta replica laconica: “Non ho fiducia nel futuro”. L’ombra di Mao sarà pure dissolta, ma il dispotismo incarnato dal Grande Timoniere ha preso dopo di lui forme solo diversamente distruttive.

La Stampa 29.4.12
Shanghai, il mercato per trovar marito alle figlie “avanzate”
Padri e madri sono angosciati dalle over-25 emancipate es ingle Appuntamento al parco, appendono un foglietto e aspettano
di Ilaria Maria Sala


Speranze al vento Decine di fogli sui fili tesi fra gli alberi: sono tutti annunci di donne dove sono elencati l’età, l’altezza, il peso, la zona di origine, il tipo di lavoro e, soprattutto, se si possiede una casa

1,34 miliardi la popolazione cinese ufficiale nel 2010 (ma si stima che un altro mezzo miliardo non sia registrato all’anagrafe). La popolazione comincerà a decrescere solo dal 2050 18,8% celibi/nubili È la quota di popolazione che dopo i 15 anni non è sposata. Il 72,4% è al primo matrimonio l’1,8% al secondo lo 0,9% è divorziato 48,7% donne La disparità tra i generi in Cina è rovesciata rispetto al resto del mondo Alla nascita ci sono 118 maschi ogni 100 cento femmine (in occidente sono 105) L’agenzia matrimoniale Tre uomini intorno un banchetto dove, pagando l’equivalente di un euro, si registra il nome e si ottiene un foglio dove scrivere i dati e il filo per appenderlo a un albero 48,2% laureate Le ragazze sono quasi la metà sia nelle università sia nelle scuole superiori. Nei test delle selezioni sono decisamente più brave dei maschi: sono il 63% dei promossi

Lavoro e solitudine Pollo fritto per un pranzo veloce, poi si torna in ufficio: le donne sono il 45% degli occupati

Trattative Una madre decanta le qualità della figlia a un uomo che potrebbe essere interessato. Spesso la ragazza non sa che sua madre si è attivata per accasarla. «Non mi avrebbe mai dato il permesso», dice questa signora (Foto Ilaria Maria Sala) 30 anni È l’età limite: dopo per la società si è «shengnu» e si è divise nelle categorie «combattente» e «rassegnata»

Cerchi marito? » chiede con tutta serietà un signore sessantenne, avvicinandosi senza nessuna timidezza. In qualunque altro posto la domanda sarebbe inopportuna, ma qui non ci si può stupire: siamo all’angolo nord del Parco del Popolo, a Shanghai, dove ogni sabato e domenica pomeriggio dall’una alle cinque si tiene quello che è soprannominato «il mercato dei matrimoni». I partecipanti sono centinaia, indifferenti alle condizioni meteorologiche. Dei piccoli banchetti consentono di registrarsi con una miniagenzia e per poco più di un euro appendere un foglio con sopra quello che si vuol far sapere al possibile partner: l’età, l’altezza, a volte anche il peso, se si è già stati sposati, da che parte della Cina si proviene, che lavoro si fa e per che salario, se si possiede una casa. Le mini-agenzie consistono in semplici tavoli, che forniscono spago per attaccare il foglio e la possibilità di laminare la propria richiesta e renderla più resistente alle intemperie. Poi ci sono quelli che fanno da sé: appendono i dati vitali su un ombrello, o passeggiano studiando gli altri avventori del parco, pronti a scambiarsi numeri di telefono e fotografie, che mostrano cauti, un po’ timidi, con molto affetto e inquietudine per la persona che vi è raffigurata.
Perché al mercato dei matrimoni quasi nessuno sta cercando per sé: il fine settimana, infatti, il parco è frequentato da ansiosi genitori di ragazzi, e soprattutto ragazze, in età da marito ma con la testa altrove, che vengono così aiutati - quasi sempre senza esserne al corrente - a convolare a nozze al più presto. «Mia figlia ha già venticinque anni! - sospira la signora Cai, un donnone allegro con una permanente indiavolata -. Sta per diventare un “avanzo”, e io cerco di darmi da fare per lei. Non sa che sono qui, però, non mi avrebbe mai dato il permesso». E sorride come una bambina che ha appena fatto una marachella. Un signore che passa e l’ascolta dice che non c’è da meravigliarsi se la situazione è questa: «La colpa, è della politica del figlio unico, così a Shanghai ci sono troppe donne, e mancano gli uomini. In campagna è l’opposto, ci sono milioni di uomini in più, ma un contadino chi se lo sposa? Qui i cartelli sono quasi tutti di donne, non è per niente facile», sospira, mostrando un’inquietudine che sembra eccessiva: sua figlia, in fondo, ha 27 anni. «Appunto! - esclama lui, - non è più giovane. Non è mica come da voi, qui in Cina».
E non ha torto: la pressione sociale nei confronti delle ragazze non sposate ha raggiunto livelli allarmanti, e chi non ha ancora la fede al dito allo scadere dei 25 anni viene messa alle strette dai familiari, dagli amici e dai colleghi, per non parlare dei media nazionali. «Diventi un avanzo! », ripetono tutti, ormai con nonchalance, come se fosse una parola neutra. Il termine «shengnu» in cinese, letteralmente «donna avanzata», è atroce come in ogni altra lingua, eppure viene utilizzato senza imbarazzo. Anche dalla Federazione nazionale delle Donne cinesi, un gruppo para-governativo che in teoria dovrebbe difendere i diritti delle donne ma che diffonde invece senza batter ciglio l’imperativo per le ragazze: spicciarsi, lasciar perdere le pretese eccessive, non pensare troppo alla carriera, e darsi da fare a trovar marito. In un sondaggio pubblicato qualche tempo fa, che ha fatto un certo scalpore, la Federazione chiedeva «Che tipo di donna-avanzo sei? » elencando categorie che, a seconda delle età (dai 25 ai 35), prevedevano la shengnu che combatte», «la shengnu che deve trionfare assolutamente», e quella che è disperata.
Alcune «rare» voci si sono levate per criticare questo modo di definire le donne, ma nessuna di queste sembra aver raggiunto il Parco del Popolo a Shanghai: a 30 anni, una donna che non è ancora né madre né sposa, dice il signor Zhang: «non ha più tempo. Rischia di restare sola per sempre, e di lasciare i suoi genitori senza nipoti». Una prospettiva amara, paventata come il peggior dei destini possibili, frutto di un modificarsi inarrestabile e rapidissimo della società: «Oggi tutti lavorano così tanto che non hanno tempo per cercarsi un partner, e noi genitori cerchiamo di aiutare un po’, poi diciamo ai figli che abbiamo incontrato un ex collega, o un amico di un amico, che ha un simpatico ragazzo o ragazza e perché non vi incontrate? A volte ne nasce qualcosa di positivo, e questo è tutto quello che conta», dice Zhang, pur senza smettere l’espressione inquieta.
Anche in questo affollato parco si vede fino a che punto i cambiamenti innescati trent’anni fa dalla riforme economiche abbiano scompaginato tutto: il coniuge non si incontra più nell’ambito del lavoro assegnato dal Partito o nel corso delle campagne politiche in matrimonio benedetto dall’unità di lavoro che presiedeva a tutte le scelte personali. Né esistono più le unioni combinate da sensali indaffarati di un tempo, o il ritmo lento dei primi anni dall’inizio dell’apertura cinese. Nel frattempo le aspirazioni, tanto materiali che romantiche, sono cresciute, i nuovi ideali ribaditi con sicurezza da ragazzi e ragazze globalizzati da Internet e dai social media hanno rivoluzionato le relazioni, portando a una comprensibile confusione.
Per la generazione dei cinquantasessantenni presenti al Parco del Popolo si tratta di incertezze sconsiderate, che non tengono conto del rapido passare degli anni, e così, con quel tranquillo impicciarsi degli affari altrui che era del tutto normale nella Cina della loro generazione, prendono in mano il problema come se a cercare moglie, e soprattutto marito, fossero loro.
A vedere la folla che si assiepa per leggere i volantini appesi in fila, i numeri di telefono che vengono copiati e scambiati, le fotografie di figli e figlie tirate fuori dalle buste, mostrate e rimesse via gelosamente, viene da pensare che tutti questi genitori così pronti a occuparsi dei dettagli più privati della vita dei loro ragazzi, un fine settimana dopo l’altro, qualcuno di adatto potrebbero anche trovarlo. Zhou Dan, un avvocato di Shanghai che si occupa spesso di divorzi, non ha dubbi: «Davanti a me si presentano solo le coppie che ormai non vanno più d’accordo, ma a Shanghai le storie iniziate al Parco del Popolo sono moltissime. E per la maggior parte, direi che funzionino».

La Stampa 29.4.12
Aborti selettivi
La politica del figlio unico


A partire dal 1979 la Cina, che viveva un fortissimo incremento demografico (30 milioni di abitanti in più ogni anno) incominciò la politica del figlio unico nell’ambito della Pianificazione Familiare. In quegli anni i due terzi dei cinesi avevano meno di trent’anni e la generazione del baby boom nata negli Anni 50 e 60 entrava nell’età riproduttiva. Occorreva prevenire un’incontrollabile esplosione demografica, così fu introdotta la regola del figlio unico e furono stabiliti gli obiettivi di crescita nazionale: nel 2000 la popolazione avrebbe raggiunto 1,27 miliardi (previsione azzeccata: erano 1.242.612.226) e sarebbe stata raggiunta la crescita zero (obiettivo mancato). Dal primo settembre 2002 la politica di pianificazione familiare è legge nazionale. La regola del figlio unico ha però spinto molte famiglie a soddisfare la preferenza per un figlio maschio – considerato l’unico in grado di portare avanti la stirpe - con pratiche illegali di aborto selettivo. Questo ha creato e consolidato nel tempo una grande sproporzione tra il numero di neonati di sesso maschile e femminile.

Repubblica 29.4.12
“Preferisco la prigione". Cina, ti accuso
di Liu Xiaobo


"La Cina vive in una bolla di ricchezza costruita sul sangue di vittime innocenti". Ecco per la prima volta le riflessioni che hanno portato in carcere il premio Nobel E il motivo per cui le ha scritte: "Non posso fare altrimenti, così come il contadino non può fare a meno di andare nei campi" Il boia Ideali e gioventù schiacciati sotto le cinghie arrugginite di un carro armato Solo l´elmetto d´acciaio del boia brilla di luminosi bagliori La memoria L´insoddisfazione gonfia di colpa fa sprofondare nel cuore della memoria il momento del tradimento nascondendo la giustizia
Trentuno dicembre 1999, vigilia di un nuovo millennio. A Pechino tutti erano indaffarati a preparare i festeggiamenti. Un amico telefonò da fuori gridando che i mercati erano talmente gremiti di folla che pareva imminente un qualche disastro. Un altro telefonò per invitare me e mia moglie Liu Xia a bere qualcosa e a giocare a carte, ma avevamo già accettato un precedente invito. Saremmo andati a casa di due professori dell´Università Renmin, Ding Zilin e Jiang Peikun. Forse, inconsciamente, mia moglie e io avevamo deciso di dedicare la vigilia del nuovo millennio alle anime dei defunti del Quattro Giugno. Insieme a quella famigliola di tre persone - i professori Ding e Jiang e loro figlia (il figlio diciassettenne, Jiang Jielian, fu una delle vittime della repressione in piazza Tiananmen il 4 giugno 1989, ndr) - consumammo una cena molto semplice. Dopo aver chiacchierato un po´ ed esserci raccontati le ultime novità, all´improvviso l´atmosfera si fece seria. Ciascuno di noi se ne rimase seduto, intento a pensare a qualcosa di allegro di cui parlare, ma nonostante ci sforzassimo tra i nostri comuni ricordi e le circostanze avverse non riuscimmo a farci venire in mente veramente nulla da dire che potesse rallegrarci o quanto meno svagarci dandoci un momento di letizia. Quando giunse l´ora di accomiatarci, Ding e Jiang ci consegnarono la relazione scritta sulle tribolazioni da loro a lungo patite, intitolata Seeking Justice for the Witnessed Massacre (Alla ricerca della giustizia per il massacro al quale abbiamo assistito), contenente un elenco di 155 vittime del Quattro Giugno e le testimonianze dei sopravvissuti. Poi mi esortarono più volte, «per piacere e ancora per piacere», a prendermi cura di Liu Xia. Lungo il tragitto che ci riportava verso casa, mia moglie e io restammo in silenzio. Avvicinandoci al nostro indirizzo, scoprimmo che la strada era stata chiusa e che le macchine non potevano transitarvi. Un poliziotto che col volto tirato dirigeva il traffico con gesti bruschi inaspettatamente mi informò: «Eh, questa notte sull´altare appena costruito del Monumento cinese al Nuovo Millennio si recita un altro atto della farsa "assilla-il-popolo-e-prosciuga-le-casse-del-tesoro!"».
E aggiunse: «E vuole il caso che questa strada porti proprio lì». In Cina il Ventesimo secolo non si è concluso il 31 dicembre 1999 ma il primo ottobre, giorno del cinquantesimo anniversario del Partito comunista al governo. Con la corruzione che dilaga sempre e in ogni dove, e con le contestazioni della popolazione che stanno per tracimare, che senso può mai avere sprecare cento miliardi di yuan per mettere in scena le sontuose celebrazioni di un´ennesima puntata della farsa "assilla-il-popolo-e-prosciuga-le-casse-del-tesoro!"? Quella grandiosa cerimonia per il cinquantesimo anniversario è soltanto un´esternazione del culto della personalità per camuffare sotto le apparenze di un preteso benessere la paura e l´ansia provate dal governo. La Cina deve ancora oggi affrontare il processo di presa di coscienza e pentimento, e non fa altro che accentuare la sua appariscente bolla di ricchezza abbinata a un gretto servilismo.
Figli di puttana È molto difficile farsi un´idea di quanto abbiano patito in questi cinquant´anni i cinesi, e malgrado ciò mai nessuno al potere, neppure una volta, si è sognato di dire alla popolazione: «Mi dispiace». Possiamo ancora salvarci? Di fronte a un potere che spudoratamente aggredisce il midollo stesso delle nostre ossa, la memoria è un campo grigio pallido. Usare i termini «amnesia», «malinconia», e altre definizioni circostanziate credo che sia un grande spreco, un´enorme mancanza di riguardo per le anime dimenticate dei defunti. Se scavo a fondo nei meandri del mio vocabolario mentale, non sono capace di trovare una parola più adatta e non ho alternative: non mi resta che ricorrere alla beffarda definizione di «bestemmia nazionale» di Lu Xun (il fondatore della lingua cinese moderna, ndr) e gridare ad alta voce «Figli di puttana! ».
Tutti colpevoli Nei dieci anni che sono trascorsi dal Quattro Giugno spesso mi sono sentito ossessionato da un senso di colpa. Quando mi trovavo nella prigione di Qincheng ho tradito il sangue delle anime defunte scrivendo una confessione. Dopo essere stato rilasciato, avevo ancora una certa reputazione, una certa fama, e ho ricevuto fin troppe attenzioni. Ma le vittime ordinarie, quelle senza nome che tuttora si trovano in prigione, che cosa hanno ricevuto? Ogniqualvolta ci penso, non sopporto di indagare nelle pieghe più profonde della mia coscienza. Ci sono troppe debolezze alle quali far fronte, troppo egoismo, troppe menzogne spudorate. Per troppo tempo ormai ci siamo piegati verso la lama delle baionette della menzogna, della spudoratezza, dell´egoismo, della debolezza, così da aver perduto sia la memoria sia il tempo. Una vita intontita, incessante, interminabile, che inizia da zero e a zero finisce: quali capacità possiamo attribuire alla nostra potente nazione? Nessuna. E che cosa ci resta, dunque? In questo Paese perfino i deserti sono colpevoli. Sì, i deserti con il loro sconfinato nulla, la loro desolazione: è questo ciò che ci rimane? Anch´io mangio ciambelle di sangue umano cotte al vapore, al massimo creo abbellimenti, ornamenti contro un sistema anti-umano. Arrestato e poi rilasciato, rilasciato e poi arrestato, e non so quando questo gioco finirà mai, né so se ho fatto davvero qualcosa di concreto per le anime dei defunti e per essere in grado di permettermi di rammentare con cuore puro e con la coscienza pulita.
La farfalla e la fiamma La cosa che vorrei di più è poter utilizzare la resistenza e la prigionia come forme di redenzione per cercare di rendere pienamente conto a me stesso delle mie stesse convinzioni, dei miei ideali - anche se questo provoca ferite profonde e dolorose alla mia famiglia. La prigione per me e per gli attivisti che si adoperano contro un sistema autoritario non dovrebbe essere motivo di vanto, ma un onore indispensabile. C´è poco da fare, se non resistere. E nella misura in cui la resistenza è una scelta, la prigionia è semplicemente parte di questa scelta: l´inevitabile vocazione dei traditori di uno stato totalitario, proprio come un contadino deve recarsi nei campi o uno studente deve leggere libri. E nella misura in cui resistenza è scegliere di scendere all´inferno, non ci si deve lamentare poi dell´oscurità. E benché io pensi che vi sia un muro indistruttibile sopra di me, devo nondimeno impiegare tutte le forze di cui dispongo per abbatterlo, e la ferita alla testa dalla quale zampilla il sangue è una ferita che mi autoinfliggo. Non è possibile prendersela con nessuno. Non si può addossare a nessuno la colpa, solo sopportare la ferita. Chi mai ti ha costretto a volare di proposito come una farfalla intorno a una fiamma, invece di girarle al largo?
La prigione della mia famiglia Nella quotidianità è raro che io mi preoccupi delle persone che mi vivono accanto. Di solito mi preoccupo di astrazioni sublimi, quali la giustizia, i diritti umani, la libertà. Sfrutto la mia famiglia per sentirmi al sicuro mentre contemplo con il cuore in subbuglio e il corpo palpitante gli errori quotidiani del mondo. Nei tre anni che sono rimasto in carcere mia moglie ha effettuato trentotto viaggi da Pechino a Dalian per farmi visita, e in diciotto di questi non è neppure riuscita a tollerare di vedermi: ha semplicemente lasciato alcune cose per me e si è precipitata a casa, da sola. Intrappolata in una gelida solitudine, incapace di mantenere la benché minima vita privata essendo continuamente seguita, pedinata e spiata, ha incessantemente atteso, ha incessantemente lottato, con quella tenacia che fa incanutire i capelli nel corso di una sola notte. Io sono punito dalla dittatura con la prigionia. Io punisco la mia famiglia costruendo intorno ai loro cuori una prigione immateriale. Spesso mi è intollerabile ripensare alla strada della resistenza che ho scelto e intrapreso, disseminata com´è dei sacrifici che la mia famiglia è stata costretta a fare. In tali ricorrenti circostanze mi irrito profondamente con me stesso, al punto da sentirmi colpevole in modo quanto mai ripugnante. Le vittime e gli ipocriti È una forma particolare di crudeltà totalitaristica quella nella quale lo spargimento di sangue resta invisibile. Da quando negli anni Cinquanta ebbe inizio la riforma agraria ("soppressione degli antirivoluzionari", "ri-conformazione ideologica", "purghe controrivoluzionarie", "trasformazione socialista dell´industria e dei commerci"), agli anni Sessanta e Settanta (il "movimento per le quattro pulizie", il "movimento per l´educazione socialista", la "Rivoluzione culturale", la "critica al vento deviazionistico di destra per ribaltare i verdetti"), e poi ancora per tutti gli Ottanta e i Novanta (la "Campagna per l´inquinamento antispirituale", la "Campagna per l´antiliberalizzazione", il "Movimento del Quattro Giugno", la "soppressione del partito democratico e di tutti gli altri dissidenti politici", la "repressione del Falun Gong e di tutte le organizzazioni non-governative"), sono trascorsi cinquant´anni: la Cina è cresciuta in maniera smisurata, arrivando ad avere una popolazione di 1,9 miliardi di abitanti e ciò nonostante è pressoché impossibile trovare anche solo una famiglia integra. La Moglie e il Marito sono divisi. Il Padre e il Figlio sono diventati nemici. Gli amici si sono traditi vicendevolmente. In questa fetta di mondo così tante vittime innocenti sono state condannate e dileggiate dalla cosiddetta "abnegazione" dei politici di carriera. E i vincitori non hanno mai detto a coloro che hanno reso vittime (compresi i loro stessi familiari): «Mi dispiace». I loro animi sono del tutto in pace ed esenti da angoscia (al massimo assumono una parvenza di senso di colpa e di rimorso). Al contrario, trasformano le vittime in un capitale remunerativo per sé soli. E sulle loro facce ipocrite incollano un altro strato di oro.
I complici della dittatura «Madre patria» è una parola grande, vuota, che ha già assunto un aspetto sospetto, e per noi qui il patriottismo è diventato per lo più l´ultimo rifugio delle canaglie. Non sono mai stato uno che si informa della razza o del bagaglio etnico di una persona, bensì uno che chiede se la vita che egli vive ha dignità, diritti civili, libertà, amore, bellezza. Tempo fa avevo fatto una dichiarazione eccessiva sui «trecento anni di colonizzazione» (necessari alla Cina per potersi trasformare in senso democratico, ndr). Oggi propendo maggiormente per una «occidentalizzazione di vasta portata», e dicendo «occidentalizzazione» intendo umanizzazione, ovvero trattare le persone come esseri umani e in spirito di uguaglianza. E questo perché in Cina, nel passato e ancora oggi, il governo non ha mai trattato i suoi cittadini come esseri umani. La cosiddetta «intellighenzia» cinese è in buona parte complice della dittatura. I vivi dovrebbero veramente chiudere la bocca e lasciare che a parlare siano i sepolcri: lasciamo che le anime dei defunti insegnino ai vivi che cosa significa morire. Che cosa significhi essere morti ancora vivi. Traduzione Anna Bissanti ©, Graywolf (Ha collaborato Gabriele Pantucci)

Repubblica 29.4.12
Il piccolo uomo che smascherò la "filosofia dei porci"
di Renata Pisu


E’ capitato in Cina, nel Paese che nel 2020 dovrà diventare la massima potenza economica mondiale. Un uomo, Liu Xiaobo, è stato condannato a undici anni di carcere duro per aver chiesto al governo alcune riforme democratiche in un documento noto come Charta 08, ispirato alla Charta 77 di Praga. Ancora oggi in Cina parlare di diritti umani equivale a una «istigazione alla sovversione». Così è capitato che Liu Xiaobo, il più in vista tra i firmatari del documento di Pechino, fosse sbattuto in prigione, per un anno in attesa di processo e poi sottoposto a un processo farsa. Ma è capitato anche che gli fosse conferito, nel 2010, il Premio Nobel per la Pace e l´immagine della sua sedia vuota alla cerimonia di Oslo è memento di una vergogna e di una sconfitta, a ben pensarci non soltanto cinese. Quando ha saputo del premio, Liu ha voluto dedicarlo alle anime dei defunti di Tiananmen - c´era anche lui in piazza nel giugno del 1989 - dove capitò qualcosa che, stando alla versione ufficiale, non capitò perché «non vi fu repressione, non vi furono morti». Anche allora Liu fu arrestato, venne poi rilasciato e arrestato di nuovo.
Nelle pagine inedite che qui presentiamo, e ora pubblicate in America (June Fourth Elegies, per Graywolf), si rincorrono pensieri e poesie di questo intellettuale che non ha mai negato i progressi compiuti dal suo Paese ma che non intende rinunciare alla facoltà di critica. E soprattutto denuncia il sommo delitto, quello della cancellazione della memoria, per cui nessuno dei governanti si è mai sognato di dire ai governati «mi dispiace». Di che dovrebbero dispiacersi se non è successo niente? E allora Liu, in questi scritti che celebrano il primo decennale del massacro del 4 giugno trascorso con la moglie Liu Xia (oggi agli arresti domiciliari. Ma perché?) in casa della professoressa Ding Zilin il cui figlio diciassettenne da Tiananmen non fece mai ritorno, trova conforto soltanto in una bestemmia, ta madi, «tua madre», che per strano che possa sembrare suona assai foneticamente simile alla nostra bestemmia nazionale. Ai governanti Liu dice «figli di puttana». Può dire di peggio? Certo, chiamarli porci. Lo ha fatto in un saggio intitolato La filosofia del porco dove spiega che quando si pone al centro lo sviluppo dell´economia che può avvenire soltanto nella stabilità, e si nega qualsiasi sussulto e perciò l´esistenza stessa della storia e della memoria, i porci si addormentano, grati che i loro bisogni primari, mangiare e copulare, siano garantiti. Scrive Liu che questa filosofia domina oggi in Cina, un paese dove «tutti hanno il coraggio di sfidare senza vergogna la morale ma nessuno ha il coraggio di sfidare la realtà senza vergogna».
Il compianto Vaclav Havel, la cui Charta del 1977 ha ispirato Liu Xiaobo, ha scritto: «Caro professore, sono convinto che se l´opinione pubblica del mondo intero continuerà a interessarsi alla vostra sorte, il governo cinese sarà costretto a liberare voi e tutti gli altri prigionieri politici». Ma se non capitano fatti che non potranno più essere negati, Liu Xiaobo dovrà aspettare. Infatti uscirà di prigione a sessantacinque anni, nel 2020, quando è assai probabile che la Cina avrà conquistato lo scettro di prima potenza economica mondiale, purché continui a praticare la filosofia del porco.

La Stampa 29.4.12
Iran, la democrazia non può attendere
Incontro con Sahar Delijani, torinese d’adozione che nel romanzo d’esordio (il più conteso alla Fiera di Londra) racconta il dramma del suo Paese sotto il regime dei mullah
di Tonia Mastrobuoni


“Volevo parlare del fatto che noi figli dei prigionieri politici siamo cresciuti con l’ombra dei nostri genitori che hanno speso la loro giovinezza in carcere». Sahar Delijani intreccia le lunghe dita affusolate, lo sguardo si incupisce. La scrittrice iraniana è reduce dal Salone del libro di Londra dove il suo esordio è stato uno degli eventi più sensazionali della fiera. Tra i bene informati è rimbalzata la voce su un libro «incredibilmente potente e triste», come ha riassunto il direttore editoriale di Orion, Jon Wood. Tanto che si mormora che per aggiudicarsi Children of the Jacaranda Tree – in Italia uscirà nel 2013 per Rizzoli – gli editori internazionali abbiano sborsato cifre considerevoli, nell’ordine dei sei zeri.
Abbiamo incontrato Sahar a Torino, dove vive da anni con il marito italiano. La prima cosa che colpisce, oltre alla bellezza, è l’età. La scrittrice cresciuta negli Stati Uniti ha appena 28 anni; doveva essere in fasce quando si svolsero gli eventi terribili che racconta nel libro. L’urgenza di scrivere, di romanzare episodi drammatici tratti dalla parabola khomeinista, un fiume carsico che riemergeva continuamente nei racconti della sua famiglia, le è venuto tre anni fa. «Il libro – dice - è nato da un racconto breve, che adesso è un capitolo del libro, in cui si parla delle esecuzioni del 1988. Ma pian piano ho capito che quando scrivevo tornavo sempre su questo tema, che mi risucchiava. Così ho pensato di scrivere un romanzo. Ho costruito delle storie indipendenti ma che piano piano si incrociano».
Teheran, 1988. In quel fatidico anno la rivoluzione khomeinista perfeziona la sua sanguinosa involuzione da «rivoluzione del popolo», come sottolinea più volte con fierezza anche la scrittrice, a dittatura teocratica. Al termine della lunga guerra con l’Iraq migliaia di studenti che un decennio prima avevano rovesciato lo scià sognando la repubblica ma spianando la strada ai mullah vengono perseguitati, imprigionati e uccisi. In galera finirono per anni anche i genitori di Sahar.
Dopo un’infanzia e un’adolescenza di aneddoti spezzati dal dolore che le venivano raccontati dal padre e dalla madre ma anche da altri ex prigionieri politici, lei ha voluto unire i puntini, completare il mosaico. «Il fatto è che in particolare a mia madre non piace molto parlare del carcere. Ogni volta le vengono gli incubi e quindi anche io non insisto troppo. Però a un certo punto ho capito che dovevo parlarne io, che dovevo raccontare di questo periodo ancora pieno di buchi neri. Da un lato volevo rievocare le persone che hanno fatto quella rivoluzione e che volevano la fine della monarchia, ma che poi l’hanno vista trasformata in un’altra cosa. Dall’altro lato trovo sconcertante che ancora oggi non si sappia con precisione neanche quante persone siano state giustiziate: 4.000? 12.000? Molti sono finiti nelle fosse comuni, ed è una tragedia di cui non si parla mai. E tutti fanno finta che non sia mai successo; è questo che volevo denunciare».
Children of Jacaranda Tree racconta cinque storie che partono dagli eventi dell’88 ma che si snodano sino alla «rivoluzione verde» del 2009, che ha visto nuovamente milioni di giovani scendere in piazza per mesi e mesi per chiedere la fine del regime dei mullah. Nella storia – almeno, nelle scarne anticipazioni che ne concedono gli editori - si scorgono vicende molto simili a quelle vissute da vicino dall’autrice – una donna che partorisce in galera; un’altra che rinuncia alla propria vita per accudire i bambini della sorella finita in carcere; una terza che ha perso i figli brutalmente assassinati durante la rivoluzione e si prende cura dei nipoti; poi c’è la storia degli esuli orfani che si ritrovano a Teheran e infine il racconto di una coppia che subisce le conseguenze delle persecuzioni degli anni 80 e che deve fare i conti con la figlia che nel 2009 vuole sapere la verità sui suoi genitori. «Ci sono le storie come quelle dei miei genitori, ma anche le zie e le nonne che ci crebbero, in quegli anni. È la mia storia e al tempo stesso la storia di un popolo», annuisce.
Rispetto a quegli anni ma anche alle delusioni che ne sono scaturite Sahar, però, ha una certezza granitica. Aggrotta le sopracciglia, scuote la testa, decisa. «Mi chiede se i miei genitori si sono mai pentiti di aver fatto la rivoluzione? No, mai». Anzi, i moti del 2009 l’hanno convinta che «c’è un’energia immensa nel mio paese, che non vedo da nessun’altra parte. In Europa i giovani mi sembrano molto più disorientati, in Iran c’è una grande speranza, nonostante le delusioni. E del resto, ogni paese ha i suoi tempi per arrivare alla democrazia». La Persia ha una storia millenaria, può aspettare? «No - sorride – non voglio dire questo, non credo che ci vorrà così tanto tempo».
Quello che la scrittrice sa è che ogni volta che torna in Iran è felice: «Uno degli intenti del libro è anche restituire l’immagine di un paese che non è fatto solo di burqa. Nelle famiglie, nelle case si vive molto liberamente. I giovani sono intelligenti, colti, aperti». Del resto, i genitori decisero di emigrare negli Stati Uniti portandosi dietro Sahar e i suoi fratelli soltanto nel 1998, quando lei era adolescente. Nonostante tutto, la madre voleva essere certa che i figli avrebbero parlato il farsi. «Mi ricordo benissimo la scuola, le gare di scacchi, i giochi, ero felice. Certo, non mi piaceva l’ora di religione. Ma a quale bambino piace l’ora di religione? ».

l’Unità 29.4.12
Hegel: la logica del mondo globale
200 anni dall’uscita della «Summa speculativa» del filosofo. Opera in apparenza «astratta», in realtà nella mente dell’autore una chiave universale per pensare l’unità concreta del sistema economico mondiale di allora
di Massimo Adinolfi


Chi se la sente di celebrare Hegel? Chi se la sente di celebrare la Scienza della Logica, il cui primo volume, la «Dottrina dell’essere», compie oggi duecento anni? Primo e in certo modo ultimo, dal momento che Hegel ne cominciò la revisione poco prima di morire, così che rimane di fatto il suo testamento filosofico. Ma chi affiderebbe oggi il proprio lascito spirituale a un’opera che pretende, nientemeno, di esporre il regno della verità, ovvero: «Dio com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito». Diciamolo francamente: nessuno. Da un bel po’ di anni i filosofi, e non solo loro, si sono così abituati all’idea che di verità supreme non c’è modo di stabilirne che accettano di buon grado di lasciare ad altri saperi, per esempio alla scienza, le indagini intorno ai fondamenti ultimi della vita o dell’universo, e si accontentano o di un conciliante relativismo, oppure di affermare piccole verità intorno a oggetti di formato quotidiano montagne, ciabatte o cacciaviti tutto il resto essendo abbandonato al mutevole gioco delle individualissime opinioni.
Hegel, invece, no. Eppure in quel lontano 1812 accadevano nel mondo fatti di tale portata, che non era mica così facile orientarsi nel pensiero: figuriamoci fare dell’idea assoluta l’unico contenuto della filosofia! Napoleone, per esempio, aveva sistemato il fratello Giuseppe sul trono di Spagna, e aveva avviato i preparativi per l’invasione della Russia. Le cose gli andarono male su entrambi i fronti: in Russia l’armata francese fu disfatta, da Madrid Giuseppe fu cacciato. «L’anima del mondo a cavallo» così Hegel aveva definito l’imperatore apparso nel 1806 per le vie della sua città, Jena cominciava a claudicare un po’, e però il filosofo ne continuava a vedere, a ragione, il significato storico-universale.
E questo è un primo, ottimo motivo per non trascurare l’anniversario. Con Hegel, la filosofia si fa definitivamente consapevole della sua responsabilità pubblica. Hegel è il primo filosofo che interroga sistematicamente la posizione della filosofia e del sapere in generale rispetto al mondo. Prima di lui, i filosofi potevano trascurare di considerare da quale tribuna parlassero: collocati in quale angolo di mondo, parlando quale lingua, appartenendo a quale tradizione e anche, perché no?, vivendo e lavorando dentro quale sistema economico e politico. Tutte domande che solo con Hegel diventano ineludibili: se Cartesio e Kant avevano scoperto in filosofia il soggetto, Hegel ne ha arricchito, e di molto, il profilo. Il soggetto non è più un distaccato osservatore della natura, ma un uomo immerso nel mondo, che porta su di sé la responsabilità di condurre non solo i suoi privati pensieri, ma l’intera sua epoca al concetto, cioè ad un sapere razionale libero.
POLITICA E SOCIETÀ CIVILE
Che c’entra però la Scienza della logica, uno potrebbe dire? Questa è piuttosto materia della filosofia politica. E in effetti è nei famosi, anzi famigerati, Lineamenti di filosofia del diritto che Hegel formula espressamente questo problema: la collocazione della filosofia nella realtà. Siccome però la realtà nel frattempo era cambiata e l’ordine era stato restaurato: Napoleone era finito a Sant’Elena e la tempesta gallica era passata, eccolo tromboneggiare dalla più ambita cattedra tedesca di filosofia, a Berlino, contro l’assurda pretesa di ciascuno di dire la propria su questo e su quello, e soprattutto sullo Stato.
Questa è lo Hegel dipinto come illiberale quando in Europa, dopo la sua morte, torna a soffiare forte il vento della rivoluzione: prima liberale, poi democratica e socialista. Lo Hegel dello Stato etico, dello Stato totalitario: da giovane credente negli ideali della rivoluzione francese, nella maturità fervido fiancheggiatore della polizia prussiana. Il giudizio sullo Hegel politico resta, in effetti, controverso, ma va riconosciuto che nel suo sistema non si trovano né l’idea di una sfera pre-politica di diritti fondamentali, né la concezione liberale della separazione dei poteri, né il principio democratico del suffragio universale. Non si trovano, insomma, i lemmi fondamentali del lessico politico contemporaneo.
Poi però uno entra nelle pagine hegeliane, e vi trova ad esempio una coscienza acuta dell’insufficienza del gioco spontaneo degli interessi a comporre l’unità politica fondamentale che non è affatto inutile rimeditare. Trova le pagine sulla società civile, sulle quali nei decenni scorsi si interrogava tanta parte dell’intellettualità di sinistra in Italia e non solo (da Biagio De Giovanni a Giacomo Marramao a Roberto Racinaro, per fare solo qualche nome) e si accorge nuovamente che gli anatemi liberali passano di molto a lato dei nostri problemi attuali. Se la lasci fare, diceva Hegel, la società civile forma pochi sempre più ricchi da una parte, e molti sempre più poveri dall’altra: non un problema da poco, e non un problema che più non ci riguardi. Problema che Hegel voleva mettere nel pensiero (e ricomporre grazie allo Stato). Non dunque risolverlo solo in teoria, lasciando in pratica le cose come stanno. Al contrario (al contrario anche di quanto pensava Marx), per Hegel si trattava di dare ai pensieri un posto nel mondo. E farlo in forza dell’idea che senza pensieri, senza un’unità di senso, il mondo non si tiene, e che il solo urto delle forze economiche non basta a fare un mondo.
LA LIBERTÀ, UNA CONQUISTA
I pensieri, a loro volta non provengono solo dalla testa delle persone, ma dal mondo stesso. Certo, l’individualismo resiste all’idea che i pensieri vanno raccolti non semplicemente dalle parole di ciascuno, ma nelle cose e tra le cose: costituiscono, diceva Hegel, l’automovimento della cosa stessa. Ma prendete pure tutte le prudenze del caso e prendetele, invero, assieme allo stesso Hegel, il quale sapeva bene che il mondo cristiano-borghese aveva ormai introiettato definitivamente il valore infinito della soggettività come non vedere che i pensieri sono contenuti rappresi negli oggetti del mondo, nei libri come nelle automobili, nelle leggi come nei computer? La Scienza della Logica non modula in fondo che quest’unico pensiero. E quanto sarebbe salutare se qualche filosofo lo coltivasse ancora, invece di tirare i remi in barca e rassegnarsi a dar forma alle proprie personali idiosincrasie.
Alla fine, cosa insegna infatti la Scienza della Logica? Che la libertà anche per il pensiero è una conquista, una conquista assoluta. «Assoluto» vuol dire infatti solo «assolto», sciolto cioè da vincoli e legacci che il mondo, quando ne subiamo la logica, ci impone. Pensare liberamente è possibile non fuggendo via nei propri privatissimi pensieri, ma immettendosi nel mondo e dopo averlo tutto pensato, tutto portato al concetto. E, a pensarci, la prima liberazione, quella del singolo individuo, è roba di pochi; l’altra, invece, è roba che non può non investire i molti, anzi potenzialmente tutti.

l’Unità 29.4.12
Le «Dottrine»
Il primo tentativo di mettere il mondo nei pensieri


Il primo volume della «Scienza della Logica», la «Dottrina dell’essere», appare nel 1812. Negli anni successivi Hegel scrive la «Dottrina dell’essenza» (1813) e la «Dottrina del concetto» (1816). In Italia la «Scienza della Logica» appare la prima volta da Laterza nel 1923-24 grazie alla storica traduzione di Arturo Moni, per impulso di Benedetto Croce. L’evoluzione delle idee politiche di Hegel è stata da sempre oggetto di accanite dispute: rivoluzionario da giovane, conservatore negli anni della maturità, con Napoleone prima, con la polizia prussiana poi. Ma, al di là delle sue posizioni contingenti, Hegel resta un pensatore del primato della politica e dello Stato, e della sua irriducibilità all’economia e alla società. Ben lungi dall’essere il luogo della soluzione di ogni problematicità, la «Scienza della Logica» di Hegel rappresentava il primo tentativo di mettere il mondo nei pensieri, ma anche i pensieri nel mondo. Non vi si trovano solo astratte categorie logiche, ma anche pezzi del mondo reale, di cui era compito della filosofia penetrare la ragione. «È un segreto di Pulcinella che nessun interprete di Hegel sia in grado di spiegare, parola per parola, una sola pagina dei suoi scritti», ha detto un fine studioso hegeliano, Theodore Haering. Eppure, la «Scienza della Logica »costituisce, insieme al «Sofista» di Platone o alla «Critica della ragion pura» di Kant, una delle pietre miliari della filosofia occidentale.

Corriere La Lettura 29.4.12
La pace igiene del mondo
È falso che la guerra sia il motore del progresso anche se gli storici la privilegiano nei loro studi
di Ennio Caretto


Non è la guerra, ma la pace, l'autentica molla del progresso tecnologico umano. Lo sostiene lo storico inglese John Gittings, già autore di importanti lavori sulla Cina, in un libro che sta facendo parecchio rumore in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Editorialista di politica estera del quotidiano britannico «The Guardian» dal 1983 al 2003, oggi alla Oxford International Encyclopedia of Peace, Gittings è fautore di un diverso revisionismo storico, propedeutico a un nuovo, pacifico ordine globale. Nel saggio The Glorious Art of Peace. From the Iliad to Iraq («La gloriosa arte della pace. Dall'Iliade all'Iraq», Oxford University Press), Gittings non contesta solo che la matrice della scienza e della tecnologia sia soprattutto bellica. Afferma anche che, rivisitando i millenni della storia, vi si trovano le direttive, più che mai valide ai nostri giorni, per un mondo in pace, prospero e giusto.
Come è giunto a queste conclusioni?
«Ho sempre creduto che la pace sia la condizione umana ultima e la più favorevole al progresso. Da giovane, feci parte del movimento antinucleare e pacifista di Bertrand Russell. Ma con il passare del tempo mi resi conto che in prevalenza gli storici scrivono di guerre. Se visitiamo Foyles a Londra, la più grande libreria al mondo, troviamo 280 scaffali di libri sulle guerre, ma meno di uno sulla pace, sebbene alcuni libri dove si parla anche di pace siano sparsi in altri 40 scaffali».
E in questi libri sulle guerre si sostiene che esse sono all'origine delle maggiori scoperte scientifiche e tecnologiche?
«Di solito sì. È la "teoria del carro", secondo cui l'invenzione del carro da guerra trasformò l'età del bronzo, come la scoperta dell'energia nucleare ha trasformato la nostra. Ma se è vero che le guerre promuovono scoperte, è ancora più vero che la pace ne promuove di più, e sovente di più importanti. È la "teoria del palo", alla quale aderisco, secondo cui la pace è il requisito per la crescita culturale della società».
Perché è chiamata così?
«La dottrina prende il nome dal palo imperniato con contrappeso e secchio, inventato in Mesopotamia per estrarre acqua dai pozzi, più o meno contemporaneamente al carro da guerra. Una scoperta che fu decisiva per l'irrigazione dei campi e lo sviluppo agricolo. Non dimentichiamo che nei millenni la maggior parte dell'umanità non ha conosciuto guerre. Purtroppo in prevalenza gli storici tralasciano di raccontarlo».
Per quali ragioni?
«Sostanzialmente per due motivi. Le guerre appaiono più affascinanti della pace alla maggioranza degli storici: per alcuni di loro anzi, la pace è soltanto una parentesi tra le guerre. Inoltre la lettura che essi danno di eventi o movimenti cruciali è almeno in parte errata, rispecchia una sorte di pregiudizio. Si prenda Charles Darwin. Lo si considera il teorico della sopravvivenza dei più forti, il cosiddetto darwinismo sociale. Ma Darwin disse che, progredendo, l'umanità passerà dalla competizione alla cooperazione».
Lei ritiene errata anche la lettura di Omero, Shakespeare e Tolstoj come cantori della guerra, per citare qualcuno dei grandi su cui si è soffermato?
«È una lettura unilaterale. Prendiamo lo storico greco Tucidide. È giudicato favorevole alla guerra. Ma in lui non mancano gli auspici di pace. Anche Omero lascia intravedere alternative alla guerra. A un certo punto i soldati greci abbandonano l'assedio di Troia, equivocando sul discorso di Agamennone, e soltanto gli dèi riescono a fermarli. Sullo scudo di Achille sono raffigurate scene agresti e di danza. Lo stesso si può dire di Shakespeare. In Russia la censura vietò la pubblicazione dei racconti di guerra di Tolstoj in quanto il romanziere si chiedeva perché i soldati si uccidano l'un l'altro».
Il pacifismo non è un fenomeno recente?
«No. All'epoca delle guerre in Cina, Confucio sedeva nella casa del tè, vicino all'ingresso nella città, dando consigli ai governanti su come ottenere o preservare la pace. Sono molte e autorevoli le voci levatesi contro la guerra nel corso dei millenni, ma vennero spesso soffocate. Si dice che la storia sia scritta dai vincitori. Io penso che sia scritta anche dai belligeranti».
Lei dà particolare rilievo all'insegnamento di Erasmo da Rotterdam, l'apostolo dell'umanesimo cristiano.
«Nel libro contrappongo Erasmo a Machiavelli. Tutti conoscono Il Principe e Dell'arte della guerra di Machiavelli: per generali e governanti furono quasi dei manuali, per qualcuno lo sono ancora. Ma pochi conoscono L'educazione del principe cristiano di Erasmo, che è quasi un trattato pacifista. Tornando a Foyles: espone più edizioni di Machiavelli e nessuna copia del libro di Erasmo, che denuncia i costi delle guerre, proponendo negoziati e mediazioni di pace. Per fortuna Erasmo influì sull'Illuminismo e sui filosofi a lui successivi».
Lei è convinto che il passato ci fornisca direttive di pace?
«Sì. L'insegnamento di Erasmo è utile. Se approfondissimo i pro e i contro a lungo termine delle guerre, ne eviteremmo molte. Tipico è il caso della guerra in Iraq: chi l'avrebbe cominciata, se ne avesse saputo in anticipo il costo? Idem per i negoziati di pace: va accettato il principio che per raggiungerla bisogna rinunciare a qualcosa. Un fattore importante è anche la pubblica opinione, che un tempo non aveva il peso di oggi. In retrospettiva, il merito della riduzione degli armamenti nucleari è anche suo».
Questo insegnamento non ci ha però risparmiato due guerre mondiali né la Guerra Fredda.
«Abbiamo perso grandi occasioni di pace perché siamo stati incapaci di assorbire la lezione della storia. Ci chiediamo ancora perché scoppiò la Prima guerra mondiale, di cui ricorrerà presto il centenario. Equivochiamo sugli anni Trenta, che inizialmente furono costruttivi, non distruttivi. Non ammettiamo che la Guerra Fredda fosse prevenibile. Ci chiediamo perché non siamo riusciti a creare un nuovo ordine mondiale negli anni Novanta, dopo il crollo del Muro di Berlino e dell'Urss. Dobbiamo cambiare».
Non pecca di ottimismo suggerendo nel suo libro che il secolo attuale può essere contraddistinto dalla pace?
«Il XX secolo è stato un secolo di sangue, circa 80 anni di guerre su 100. Abbiamo i mezzi per evitare che lo sia anche il XXI. Non m'illudo che si risolvano tutti i problemi. Siamo nell'età della globalizzazione e la situazione è complessa. Le soluzioni devono essere globali. Non si tratta soltanto di impedire che scoppino guerre, ma anche di ridurre la povertà e le disuguaglianze, di proteggere l'ambiente. Scienza e tecnologia non bastano».
Ci vuole una rivoluzione culturale?
«In un certo senso sì, anche se non uso questa espressione. Ci vogliono meno strumentalizzazioni da parte del potere, meno machismo intellettuale da parte degli storici, più collaborazione internazionale, più enfasi nelle scuole e sui media sui dividendi della pace, che ultimamente ci siamo lasciati sfuggire. Alle tv, quando si discute di Afghanistan, si invitano solo esperti di guerre, non esperti di pace. È un errore».

Corriere La Lettura 29.4.12
Essere vaghi ci rende più evoluti
Biologia, diritto, web: l'imprecisione aiuta la creatività Lascia aperte le porte della conoscenza e dà motivazioni
di Antonio Sgobba


«I confini della ricerca scientifica sono quasi sempre immersi nella nebbia». Lo scriveva Francis Crick nella sua autobiografia. La frase può sorprendere chi pensa alla scienza come al regno dell'esattezza e della precisione. Associare le idee di «confini» e «nebbia» crea una delle situazioni più vaghe che possiamo immaginare. Dove tracciamo il confine di un banco di nebbia? In quale punto inizia e in quale finisce? Ma con la vaghezza bisogna fare i conti, gli scienziati lo sanno. Se lo stesso Crick e James Watson avessero dato una definizione precisa di gene, molto probabilmente la biologia molecolare non avrebbe fatto i progressi che ha fatto grazie alla loro scoperta — ancora oggi la comunità scientifica non è concorde sulla definizione di «gene». Allo stesso modo, se il giovane Charles Darwin avesse avuto ben chiari i confini della nozione di «specie», la sua teoria dell'evoluzione non avrebbe visto la luce.
«La scienza non si fonda su basi bianche o nere. Bisogna imparare a ragionare secondo gradazioni di grigio» è la tesi dell'esperto di vaghezza Kees van Deemter, autore di Not Exactly: In Praise of Vagueness (pubblicato due anni fa da Oxford University Press, in uscita in queste settimane in una nuova edizione ebook e paperback). «Se guardiamo a molti concetti scientifici con la lente di ingrandimento ci imbattiamo nella vaghezza», scrive van Deemter proprio a proposto dell'idea di «specie». I biologi continuano a cercare confini netti per le distinzioni tra specie, senza raggiungere un accordo. Secondo la definizione in uso due animali appartengono alla stessa specie se è possibile ibridarli, se possono generare prole fertile. Ma questa definizione contempla casi borderline. Si prenda la Salamandra Ensatina. Questo anfibio tipico della California ha sei sottospecie. La sottospecie A si ibrida con la B, la B con la C, ma alla fine della catena la A non si ibrida con la F. Nonostante casi indefiniti come questo, la nozione viene comunque usata dalla comunità scientifica.
Ma con la vaghezza abbiamo a che fare tutti nella vita quotidiana. Alto, basso, magro, grasso, calvo, obeso, povero. Ci serviamo di continuo di predicati come questi. «Descrivere il mondo in termini discreti è un'utile finzione. La logica classica è discreta, impone dicotomie», sostiene van Deemter. Mentre per definire con precisione la vaghezza è necessario occuparsi dei casi borderline. È uno dei punti di partenza di Vaghezza: Confini, cumuli, paradossi, saggio appena pubblicato da Laterza di Sebastiano Moruzzi, ricercatore del dipartimento di Discipline della comunicazione dell'Università di Bologna. Il libro di Moruzzi è un'introduzione alle teorie filosofiche della vaghezza. È un aspetto del linguaggio? Della nostra conoscenza della realtà? O della realtà stessa? Per risolvere questi rompicapo è necessario servirsi delle cosiddette logiche non classiche. Fuzzy logic e teorie supervalutazioniste, ovvero linguaggi che si servono di più valori di verità, quando «vero» e «falso» non bastano. «La vaghezza ci impone innanzitutto una modestia epistemica su noi stessi comportando una professione di ignoranza su quale sia la portata effettiva delle nostre capacità cognitive», scrive Moruzzi.
Forse questo è il modo per liberarsi di quella che Richard Dawkins definisce «tirannia della mente discontinua», ovvero il pensiero secondo categorie discrete, per avvicinarsi a quell'idea di continuum metafisico su cui torna così spesso David Foster Wallace nell'intervista pubblicata in Come diventare se stessi. Certo, difendere la vaghezza può essere difficile in un'epoca che chiede informazioni precise. Essere vaghi risulta come essere poco chiari, elusivi, sfuggenti. Pigri, addirittura. «Eppure alle volte l'esattezza è pericolosa, limita le possibilità, tarpa l'immaginazione. Vaghezza vuol dire tenere la porta aperta, ricordarsi che non conosciamo la risposta, che possiamo ancora fare meglio, che possiamo ancora fallire», scrive Jonah Lehrer autore di Imagine: how creativity works (Houghton Mifflin Harcourt, 2012). Nell'impresa si sono cimentati anche due studiosi delle università dello Utah e di Stanford, Himanshu Mishra e Baba Shiv, in una ricerca pubblicata nei mesi scorsi dalla rivista «Psychological science». Lo studio mostra i benefici a livello cognitivo dell'inarticolato e del vago, illustrando i problemi provocati dall'eccesso di precisione. Supponiamo che vogliate fare una dieta, decidete di perdere 5 chili. Dopo qualche giorno vi pesate: avete perso solo 4 chili. «Rappresenta un progresso, ma siete delusi. Sarete demotivati e abbandonerete la dieta», scrivono Mishra e Shiv. Il problema sta nell'esattezza della scala, che rende impossibile ignorare gli insuccessi. «Se l'informazione fosse più vaga, potremmo dare un'interpretazione più generosa dei dati», scrivono gli studiosi. I benefici motivazionali erano sottolineati anche da uno studio di Catherine Clement della Easter Kentucky University: per aumentare la nostra capacita di risolvere problemi complessi è meglio usare verbi generici.
In ambito giuridico considerazioni sulla stessa linea si trovano nell'Oxford Handbook of Language and Law, di prossima uscita. Ralf Poscher, autore di uno dei saggi raccolti, arriva alla conclusione che «la vaghezza non è un pericolo per il diritto. Il vantaggio maggiore è nella riduzione dei costi di decisione». Se le conclusioni di psicologi e giuristi lasciano perplessi, si può tornare alla nostra vita quotidiana online e alla riflessione dell'informatico van Deemter: «Stiamo andando verso il web semantico, in cui le rappresentazioni formali sono simboliche. La sfida è rappresentare cose vaghe o gradabili, concetti come una casa "per tutte le tasche" o monumenti "antichi"». I rischi arrivano quando ci si sposta nel discorso politico: «Lì ci possono essere manipolazioni e si sfocia nell'ambiguità». E i confini tra sana vaghezza e pericolosa ambiguità non sono così netti.

Corriere La Lettura 29.4.12
I miscredenti riflettono di più
Secondo una ricerca canadese, le persone religiose tendono a dare risposte impulsive e sbagliate alle domande trabocchetto
di Massimo Piattelli Palmarini


Senza anticipare ancora la ragione per cui chiedo quello che sto per chiedere, invito il lettore o la lettrice a rispondere alle tre domandine seguenti. Prima domandina. Una racchetta e una pallina da ping-pong costano, insieme, un euro e 10 centesimi. La racchetta costa 1 euro in più della pallina. Quanto costa la pallina? Seconda domandina. Ci sono cinque macchine che producono cinque congegni in cinque minuti. Quanto tempo occorrerà a cento di quelle macchine per produrre cento di quei congegni? Terza e ultima. In un lago ci sono delle ninfee che raddoppiano la loro superficie ogni giorno. Le ninfee impiegheranno quarantotto giorni a coprire tutto il lago. Quanti giorni impiegheranno a coprire metà del lago? Scagli la prima pietra chi non ha risposto 10 centesimi alla prima domanda, cento minuti alla seconda e ventiquattro giorni alla terza. Possiamo essere certi che, anche coloro (una minoranza) che hanno poi trovato la risposta giusta, hanno di getto, sulle prime, pensato proprio a queste risposte, sbagliate ma molto invitanti. La stragrande maggioranza dei molti soggetti cui sono state poste queste domande, escogitate dal cognitivista americano Shane Frederick, hanno proprio risposto così. E lo hanno fatto di getto, in pochi secondi. Meno del 20 per cento in media degli studenti delle migliori università americane hanno risposto diversamente, dando cioè le risposte giuste. Le quali sono, nell'ordine: 5 centesimi alla prima domanda, cinque minuti alla seconda e 47 giorni alla terza. Prese in blocco, queste domande sono diventate famose, io stesso le ho presentate sul «Corriere della Sera» quando vennero pubblicate, qualche anno fa. Vanno sotto il nome di «Test di riflessione cognitiva» (Cognitive Reflection Tests in inglese, Crt in sigla nel gergo della professione) e se ne è fatto un gran parlare dal 2005 ad oggi. La parola chiave qui è «riflessione», che ben si sposa a quello che gli psicologi chiamano «stile analitico di pensiero». Nell'ultimo numero della rivista specializzata «Cognition», cinque psicologi canadesi dell'Università di Waterloo, Gordon Pennycook, James Allan Cheyne, Paul Seli, Derek J. Koehler e Jonathan A. Fugelsang, riportano una stretta correlazione che sussiste, a detta loro, tra le credenze religiose e la tendenza a dare le risposte impulsive, ma errate, a queste tre domande. Cifre alla mano e con una batteria imponente di verifiche statistiche, questi psicologi sostengono che il 55 per cento di coloro che danno le tre risposte rapide, intuitive ed errate, credono all'esistenza di un Dio come persona, mentre solo il 15 per cento di coloro che danno le tre risposte giuste (sempre dopo un po' di riflessione) sono credenti.
Oltre alle tre domandine, questi psicologi hanno somministrato ai loro soggetti (circa cinquecento, metà donne e metà uomini) anche altri test, tutti volti a sondare la predisposizione a uno stile di ragionamento analitico. Detto molto semplicemente, coloro che hanno una spontanea tendenza a verificare sempre tutto prima di credere e a vagliare bene quanto viene affermato, sono restii ad abbracciare una religione, a credere a fenomeni sovrannaturali, ad essere incuriositi dalle manifestazioni cosiddette paranormali. L'articolo dei cinque studiosi, fresco di stampa, prolunga una nutrita serie di ricerche psicologiche e cognitive sulle radici delle credenze religiose. Per esempio, lo psicologo e antropologo franco-americano Scott Atran, in un suo saggio del 2004, significativamente intitolato In God We Trust («Crediamo in Dio»), ha sondato le radici evoluzionistiche delle credenze religiose, allineandole, in sostanza, ai processi di base della cognizione umana. Altri psicologi sono della stessa opinione. Paul Bloom dell'Università di Yale, ha cercato queste radici nell'innocuo animismo spontaneo dei bimbi, i quali attribuiscono serenamente intenzioni, desideri e volontà ai pupazzi, alle marionette e perfino al vento e alle nuvole. Il sociologo californiano Phil Zuckerman, invece, è tra coloro che hanno dato colpi sia al cerchio (condannando le perversioni alle quali possono portare le religioni) sia alla botte (strigliando gli atei per la loro ingiustificata arroganza). Vi sono, poi, le semplici, neutrali statistiche. Stando ai suoi accurati calcoli, Zuckerman conclude che, nel vasto mondo, circa il 90 per cento delle persone nutre credenze di tipo religioso. Un attento sondaggio del 2002 di un ente federale americano, la National Science Foundation, aveva rivelato che il 40 per cento degli americani crede ai fantasmi, alle guarigioni mediante spiritualità e alla percezione extra-corporea. Un dato, questo, poco rassicurante. Le conclusioni dei cinque psicologi canadesi sono per un certo verso baldanzose e forse irritanti. Affermano che coloro che sono più colti e pensano forte e dritto tendono a non essere religiosi. (Ma consideriamo che si tratta di una maggioranza di solo un 55 per cento). Per un altro, sono prudenti, in quanto sottolineano, testualmente «l'idea semplice, ma possente, che due persone in tutto simili per sesso, età, abilità cognitive, livello di scolarità, ideologia politica, e livello di impegno religioso possono benissimo sviluppare credenze molto diverse sul mondo, se queste due persone sono molto diverse nella loro tendenza a pensare in modo analitico». Nello studio appena pubblicato e in studi precedenti sono anche emerse interessanti differenze tra gli uomini e le donne (si noti, nella media). Le donne sono più intuitive, più religiose e più inclini a credere a fenomeni sovrannaturali, anche quando sono brave in matematica, ma gli uomini sono più propensi ad improvvisare delle risposte errate. Errate e, si noti bene, non intuitive. Emerge a chiare lettere da questa ricerca e da altre simili che la credenza religiosa è una tela di fondo, una tendenza primaria, dalla quale si esce solo in un secondo tempo, attraverso la posata riflessione e una dose di scetticismo. Se questo sia o meno un «sano» scetticismo, checché ne dicano questi psicologi, va lasciato giudicare a ciascuno di noi.

Corriere La Lettura 29.4.12
Gli uomini preferiscono (non sempre) le rosse
di Chiara Lalli

Gli uomini preferiscono le rosse? Di certo pare che preferiscano le donne in rosso. E tra le ragioni c'è la credenza che una donna vestita di rosso sia sessualmente più disponibile. Una ricerca condotta su ragazzi dai 18 ai 21 anni e pubblicata sul «Journal of Social Psychology», Il colore e l'attrattività femminile: quando le donne vestite di rosso sono percepite come più attive sessualmente, conferma questa predilezione e l'effetto del rosso sulla percezione maschile. I ricercatori della Université de Bretagne-Sud, in Francia, hanno mostrato alcune fotografie agli studenti che hanno partecipato all'esperimento: per 30 secondi hanno osservato l'immagine della stessa donna che indossava un top rosso, poi blu, verde e infine bianco. Poi è stato chiesto loro di valutarne il fascino e la probabilità che la donna facesse l'amore con un uomo al primo appuntamento.
La versione in rosso della ragazza è stata giudicata la più attraente, quella in verde invece la meno desiderabile. Sempre il rosso segnalerebbe la maggiore disponibilità sessuale. Se indossi qualcosa di rosso, questo il pensiero degli osservatori, sarai con maggiore probabilità più disinibita sessualmente, mentre il bianco si piazza all'ultimo posto. E sembra prevedibile: il bianco è il colore della castità.
Poco importa quale sia il tipo di vestito indossato, se provocante o casto: in passato altre ricerche avevano lasciato trapelare il potere seduttivo del rosso anche solo usato come sfondo delle immagini delle donne mostrate.
Il rosso è un colore associato da sempre alla passione, alla lussuria e all'amore romantico. Sono state ipotizzate anche spiegazioni evolutive del fascino che il rosso esercita sugli animali umani: in molti primati femmine durante il periodo di fertilità l'area intorno ai genitali diventa di un colore porpora acceso, verosimilmente per attrarre i maschi. Cosa ci dice questo sulle nostre reazioni?
L'analogia con le altre specie deve tener conto di un risultato sorprendente. È curioso infatti che gli uomini non preferiscano i genitali femminili più rossi, anzi sono decisamente attratti dal rosa pallido secondo uno studio uscito di recente su «Plos One» (www.plosone.org): Il rosso non è un segnale attraente nei genitali femminili degli esseri umani. La preferenza verso il rosa potrebbe essere spiegata in base all'associazione alla giovinezza, a una condizione salutare e all'assenza di una gravidanza in corso. Circa le cause dell'avversione al rosso potrebbero essere avanzate diverse ipotesi, tutte in un modo o nell'altro collegate alla diffusa repulsione verso il sangue. Che i colori siano segnali fondamentali è indubbio: questi risultati aprono la strada a nuove ricerche sul perché il rosso sia un segnale potente e correlato all'attrazione sessuale.

Corriere La Lettura 29.4.12
I cinque disturbi dei dittatori
Fred Coolidge ha analizzato i disordini mentali di Hitler, Saddam e Kim Jong-il. Sadici, narcisisti, privi di empatia, paranoidi e schizoidi. Ora sta lavorando su Mugabe e Castro
di Anna Meldolesi


Si può ridere dei tiranni? Una risposta arriverà dai botteghini americani a metà maggio, con l'uscita del film The dictator, scritto e interpretato da Sacha Baron Cohen. Questa volta l'attore di Borat è una specie di Gheddafi redivivo che attraversa New York a dorso di dromedario: «Sua Eccellenza, il Colonnello Generale Dottor Aladeen, Presidente democratico a vita, Comandante invincibile e trionfante, Capo oftalmologo, Brillante genio dell'umanità, Eccellente nuotatore anche a farfalla, Amatissimo oppressore e Rude protettore del prezioso e sacrificabile popolo di Wadiya». Troppe personalità? Per la psichiatria i despoti sono ancora un enigma: «Credono di essere degli eroi ma calpestano i diritti degli altri. Come possono essere così immuni all'autocritica senza perdere del tutto i contatti con la realtà?», ci dice lo studioso più in vista, Fred Coolidge dell'Università di Colorado Springs. Le sue ricerche rivelano una confluenza di cinque disordini della personalità. «Sono narcisisti, sadici, privi di empatia (antisociali), paranoidi (ipersensibili alle minacce percepite) e schizoidi (emozionalmente freddi)», spiega alla «Lettura». Ma non sono tutti uguali. Quando nel 1939 Carl Gustav Jung incontra Hitler e Mussolini a Berlino, riporta impressioni opposte sui due alleati. Il tedesco non ha mai riso, è sempre stato di malumore. Sembrava asessuato e inumano, animato da un solo proposito: instaurare il mitologico Terzo Reich. A Jung ispirava paura. Mussolini in confronto gli era sembrato «un uomo originale», dotato di «energia e calore».
Oltre settant'anni dopo cosa abbiamo capito? Probabilmente i servizi segreti occidentali hanno nel cassetto i profili di tutti i leader delle aree calde del mondo, ma si tratta di documenti classificati. Gli studi pubblicati, invece, si contano sulla punta delle dita. Insieme a Dan Segal, Coolidge ha lavorato su Hitler, Saddam Hussein e Kim Jong-il, confrontando la personalità dei tre despoti in Behavioral Sciences of Terrorism and Political Aggression. All'apparenza si tratta di personaggi molto distanti. Il nordcoreano, che è scomparso da poco, si è sempre nascosto dietro una cortina di segretezza, tanto che recentemente il figlio ed erede Kim Jong-un ha destato scalpore mostrandosi in televisione dopo il flop missilistico. L'iracheno, invece, non era un modello di discrezione. Si dice, ad esempio, che sia stato lui a dirigere i ghostwriter che hanno scritto Zabibah and the King, il romanzo rosa-allegorico di cui lo stesso Saddam sarebbe protagonista. Un tiranno freddo e uno caldo? In un certo senso sì, ma le differenze superficiali possono ingannare. L'oppressore di Bagdad e il Caro Leader di Pyongyang erano più simili di quanto si potrebbe immaginare: il tratto più spiccato per entrambi è il sadismo. Hitler no, in lui prevale la dimensione paranoide. Ad accomunare tutti e tre ci sono le tendenze schizofreniche e i pensieri aberranti.
E i dittatori viventi? Coolidge ci rivela che sta lavorando sul più longevo degli africani, l'ottantottenne Robert Mugabe, su sollecitazione di uno studente dello Zimbabwe. «Sono cresciuto a Miami e ho visitato Cuba, so quanto i cubani odino Fidel Castro. Il prossimo sarà lui, seguito dal venezuelano Hugo Chávez». Le domande a cui rispondere sono tante: esistono differenze rilevanti fra dittatori di destra e di sinistra? Peculiarità geografiche? Cos'hanno in comune un rivoluzionario del XX secolo e un «caudillo pop» del XXI? Per provare a rispondere, occorrono collaboratori scientificamente affidabili, vicinissimi ai dittatori, disponibili a lavorare nell'anonimato seguendo le classificazioni del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali.
Per la scienza, insomma, la tirannia è un oggetto di studio difficile. La cronaca, invece, è ricca di rivelazioni. Come il premio scientifico sotto gli auspici dell'Unesco, che il padrone della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang vuole intitolarsi a suon di milioni. Mausolei e statue, evidentemente, non bastano più. O come i gusti musicali di Bashar al-Assad che, secondo le rivelazioni del «Guardian», includono «I'm sexy and I know it»: una hit che non sfigurerebbe nel film di Baron Cohen. Purtroppo però il sangue versato in Siria è vero e il tiranno di Damasco non fa ridere.

Corriere La Lettura 29.4.12
La terza ipotesi su Gesù
Da oltre due secoli i filologi passano al setaccio i Vangeli senza risultati condivisi E recenti ricerche presentano il Nazareno come guaritore, filosofo o gay
di Marco Rizzi


Nel 1983 Rinaldo Fabris, sacerdote e biblista, pubblicava Gesù di Nazareth. Storia e interpretazione, per illustrare i risultati sin lì raggiunti dalla ricerca accademica sulla figura di Gesù, dopo che nel 1976 lo straordinario successo del libro di Vittorio Messori, Ipotesi su Gesù, aveva mostrato al grande pubblico italiano un approccio a Cristo e al cristianesimo delle origini più complesso e storicamente avvertito. A trent'anni di distanza, Fabris ha profondamente rivisto e aggiornato quel volume, modificandone il titolo in Gesù il «Nazareno»; ancora una volta, il tentativo di proporre una sintesi in equilibrio tra ricerca storica e tradizione cattolica fa seguito al caso editoriale (e polemico) del volume-intervista di Corrado Augias a Mauro Pesce, Inchiesta su Gesù. Chi era l'uomo che ha cambiato il mondo, apparso nel 2006, che aveva sottoposto ai lettori italiani gli esiti della «Third Quest», la cosiddetta «terza ricerca» sul Gesù storico.
Il tentativo di ricostruire l'effettivo profilo storico di Gesù, al di là di quanto insegnato dalle varie Chiese, ha inizio nel 1774, quando il filosofo e drammaturgo illuminista Gotthold Ephraim Lessing pubblica un'opera dal titolo Frammenti dell'Anonimo di Wolfenbüttel, in realtà scritta da Hermann Reimarus, un teologo radicalmente razionalista. Dall'analisi dei testi evangelici, questi ricavava che Gesù era un rivoluzionario; la sua morte, ordinata dai romani, aveva spiazzato i seguaci che, per mantenerne viva la memoria, avevano diffuso la leggenda della resurrezione. La sfida alle Chiese era ormai lanciata. La raccolsero gli esponenti della teologia accademica tedesca, o «teologia liberale», così detta perché praticata nell'istituzione erede delle facoltà di «arti liberali» dell'università medievale. Nel clima dello storicismo e positivismo ottocentesco, i teologi liberali si impegnarono nella ricostruzione di un profilo della personalità individuale di Gesù e del suo messaggio a partire dall'analisi filologica dei testi del cristianesimo primitivo, soprattutto, ma non solo, i Vangeli canonici; il loro ottimismo sulla possibilità di una tale ricerca venne però messo radicalmente in discussione all'inizio del Novecento da Albert Schweitzer: analizzando quanto scritto da Reimarus in poi, mise in luce come la presunta oggettività dell'analisi storica in realtà venisse piegata agli interessi e alle precomprensioni, teologiche e non, di ciascun ricercatore. Da qui la sua decisione di abbandonare l'attività accademica, per dedicarsi alla cura del lebbrosi in Africa, in nome di quel principio di amore e di solidarietà universale che in qualche modo costituiva il lascito effettivo di Cristo, che, sulle orme della teologia liberale, anch'egli considerava l'esempio dell'uomo morale. Nel contesto cattolico, l'analogo tentativo di legittimare l'indagine storica su Gesù e le origini cristiane venne travolto dalla condanna del più generale movimento di riconciliazione tra cattolicesimo e progresso culturale e scientifico, noto come modernismo.
La definitiva conclusione della prima fase della ricerca sul Gesù storico venne sancita dal maggiore esegeta del XX secolo, Rudolf Bultmann. A suo parere, ciò che i Vangeli e le altre fonti antiche raccontano, non è il Gesù della storia, bensì il Gesù della fede, cioè l'immagine, teologica ed esistenziale, che di lui si sono costruiti i suoi seguaci a partire dalla convinzione che fosse il Messia risorto. Da qui la necessità di ricostruire il contesto vitale (Sitz im Leben) in cui le comunità fissarono ogni singola affermazione confluita nei Vangeli: la preghiera, l'esortazione morale, la speculazione teologica e così via. In questo modo si approntarono raffinati strumenti analitici e filologici che permettono di scomporre il testo di ogni versetto evangelico in unità minori e di individuare le intenzioni e le modalità espressive di ciascuna di esse. Parallelamente, nei medesimi anni tra le due guerre, Karl Barth e la teologia dialettica che da lui prese avvio ribadivano, in polemica con la teologia liberale, l'assoluta inconciliabilità tra Dio e la storia, sottolineando la discontinuità rispetto all'orizzonte umano che la fede comporta.
Paradossalmente, furono proprio gli allievi di Bultmann a smentire il maestro e a dare l'avvio alla seconda fase della ricerca. In forza degli strumenti analitici sin lì elaborati, si individuarono degli elementi che, non rientrando nell'orizzonte proprio del giudaismo contemporaneo a Gesù, né in quello successivo delle prime comunità, non potevano che essere ricondotti a lui; se così non fosse stato, non si sarebbero conservati parole o gesti che non hanno avuto seguito nella tradizione cristiana o che potevano addirittura risultare fonte di imbarazzo per i primi cristiani (ad esempio i rimproveri ai discepoli o alcune espressioni enigmatiche, considerati ipsissima verba Iesu, «proprio le parole di Gesù»). Anche in questo caso, ne sono emersi strumenti analitici e storico-critici che hanno permesso di affinare molto le metodologie di indagine, portandole a livelli che non hanno nulla da invidiare alle altre discipline, che anzi spesso se ne appropriano.
Con la «Third Quest» si è assistito ad un profondo cambio di orizzonti. Sviluppatasi negli Stati Uniti e solo di riflesso in Europa, lontana da precipui interessi confessionali e dalle rigidità accademiche delle tradizioni di scuola, l'indagine sul Gesù storico ha allargato lo spettro delle fonti utilizzate, considerando del tutto equivalenti a questo fine gli scritti del Nuovo Testamento e ogni altra fonte cristiana o giudaica a ridosso del periodo in cui visse Gesù. Soprattutto, questo nuovo dossier viene indagato non solo con i tradizionali strumenti storico-filologici, bensì anche con strumenti derivati dall'antropologia, dalla sociologia storica e dalla psicologia sociale; e viene indagato da studiosi, spesso non cristiani, per lo più liberi da precomprensioni teologiche. In questo modo, il personaggio Gesù e i suoi primi seguaci vengono collocati in un contesto storico ben più ampio, fatto non solo di avvenimenti, bensì anche di pratiche sociali, di orizzonti valoriali, di dinamiche di gruppo. Il risultato è apparentemente paradossale, ma del tutto in linea con le tendenze più recenti del progresso scientifico, in cui all'approfondirsi dello specialismo si affianca la ricerca — spesso disperata — di una teoria unificante. Assistiamo al moltiplicarsi delle immagini di Gesù proposte dalla terza ricerca: da quelle più tradizionali del predicatore escatologico itinerante o del riformatore religioso, a quelle del maestro filosofico ellenistico o del mago e taumaturgo, sino al Gesù queer («marginale», «spostato»), quando non esplicitamente gay, tutte ben argomentate e dotate di poderosi apparati documentari.
Il più grande pensatore dell'antichità cristiana, Origene, diceva che gli apostoli vedevano in Cristo l'umanità con gli occhi del corpo, la divinità con quelli della fede. Così, se solo la fede può ancora permettere di vedere in Gesù il Figlio di Dio, la ricerca sul Gesù storico è oggi uno specchio in frantumi in cui si riflettono, senza comporsi, i diversi volti di un'umanità altrettanto differenziata e dispersa, ma proprio per questo ancora affascinata da lui, perché capace di accoglierli tutti.

Repubblica 29.4.12
Archeo Tech
Se Indiana Jones finisce sul satellite
di Carlo Alberto Bucci


Infrarossi, onde elettromagnetiche, antenne ad alta frequenza, sistemi "remote sensing" Sono gli strumenti che hanno fatto scoprire tesori come la domus di Traiano e il tempio di Quirino Pala e pennellini ancora non vanno in soffitta, ma già in Egitto e in Siria...

Per l´archeologo, come per il contadino, la terra è e rimane bassa. Ruspa, pala, cazzuola e ginocchia nella polvere per riportare alla luce i resti del passato, un frammento di storia che dia senso al presente. Ma il tempo che precede e segue l´atto fondativo dello scavo stratigrafico sta diventando sempre più lo spazio della scienza e della tecnologia. È la rivoluzione del remote sensing, la diagnostica non invasiva. La possibilità di stanare arcaiche forme di vita senza dover praticare solchi nel terreno arriva dal cielo. Attraverso lo sguardo dei satelliti. Ma anche tramite l´occhio ravvicinato del Georadar con cui i geologi, come rabdomanti, scandagliano la terra. Ci pensano poi gli archeologi esperti di informatica a trasformare quelle tracce luminose in piante architettoniche. E a innalzare muri, colonne e timpani virtuali: come hanno fatto Franz Humer e i tecnici dell´istituto Ludwig Boltzmann che hanno ricreato la scuola dei gladiatori di Carnuntum senza sollevare nemmeno una zolla, solo partendo dalle tracce rivelate nel 1996 dal Georadar a quaranta chilometri da Vienna. In una ricostruzione in 3D che in futuro potrebbe restituirci, laddove non si può o vuole far lavorare la pala, l´immagine fedele dell´antichità che dorme sotto i nostri piedi.
L´egittologa Sarah Parcak dell´università dell´Alabama ha sfruttato foto captate dal satellite Landsat in Egitto e, lungo le rive del Nilo, leggendo i cambiamenti morfologici del terreno e della vegetazione, ha individuato le forme geometriche di quelle che potrebbero essere 17 piramidi, mille sepolcri, tremila siti sconosciuti. Tutto ancora sotto la sabbia del deserto. E in una terra tormentata dal dopo Mubarak dove non è il tempo adesso di mettersi a fare gli Indiana Jones. Come è la Siria, dove Jason Ur e Bjoern Menze della Harvard University, Massachusetts, hanno mappato grazie ai satelliti 14mila insediamenti umani scandagliando 23mila chilometri quadrati nel nord del disgraziato Paese. Bisognerà aspettare che finisca la carneficina prima di passare dall´archeologia dallo spazio alle campagne di terra.
Più facile è la vita a Durazzo, in Albania. Qui la missione archeologica guidata da Daniele Malfitana, direttore dell´Istituto per i beni archeologici e i monumenti (Ibam) del Cnr, e dall´albanese Eduar Shehi, ha messo in evidenza i resti di una domus romana del II-III secolo dopo Cristo, con tanto di peristilio e di ambienti absidati, sepolta sotto i palazzoni della città moderna e qualche metro di prato di un giardinetto scampato al boom edilizio. L´hanno stanata grazie alla lettura dei dati incrociati forniti dalle foto aeree scattate negli anni Venti e da quelle dei satelliti spia americani dei Sessanta. Le ipotesi che arrivavano dal cielo e dagli archivi, sono state poi confermate dalle prospezioni eseguite questa primavera con il Georadar. «Ora non ci resta che iniziare il lavoro di scavo archeologico per riportare alla luce ciò che resta della villa ma all´interno di un cantiere che sarà sempre più multidisciplinare» spiega l´archeologo Malfitana.
Ingegnere con laurea in restauro è invece Nicola Masini, anche lui dell´Ibam, e autore, con Rosa Lasaponara, del libro Satellite Remote Sensing, a New Tool for Archaeology (Springer, 2012) che sarà presentato l´8 maggio al Cnr a Roma. I sensori applicati sui satelliti come Quickbird, Geo Eye o World View offrono immagini ad alta risoluzione della terra, immortalando da lassù oggetti fino a 50 centimetri: quelli più piccoli sono prerogativa dei satelliti militari, e inaccessibili. Masini preferisce però l´occhio a infrarosso termico di Aster. «Ha una visione più completa anche se a una risoluzione inferiore che gli permette di acquisire più canali spettrali. È come se fosse miope, ma vede meglio» scherza lo studioso che usa Aster per studiare il complesso sistema degli acquedotti a Nasca. «In Perù impiegheremo anche il telerilevamento del Sar che è meno usato in ambito archeologico ma che sfrutta il radar». Il Synthetic Aperture Radar, una sorta di Georadar inviato nello spazio, permette infatti di andare a vedere anche oltre la vegetazione, fin dentro quasi la terra. Che è il posto dove porta abitualmente a spasso il suo Gpr (Ground Penetrating Radar) Salvatore Piro dell´Istituto per le tecnologie applicate ai beni culturali (Itabc) del Cnr.
Le onde elettromagnetiche inviate nel sottosuolo con l´antenna e l´analisi delle riflessioni che subiscono incontrando anomalie geofisiche gli hanno permesso di rilevare le forme della domus di Traiano ad Arcinazzo, di scoprire le strutture antiche alla base del Palatino ma anche di stimare il rischio geologico del colle dei re. Piro, con Maria Cristina Capanna, ha portato inoltre Andrea Carandini a saltare di gioia sul Colle: il libro Cercando Quirino (Einaudi, 2007) spiega come dall´indagine col Georadar sia saltata fuori la traccia di una pianta rettangolare, l´orma colorata che confermerebbe la presenza del tempio di Quirino sotto i giardini del palazzo presidenziale.
Il Georadar non è infallibile. Con un´antenna ad alta frequenza (500 MHz) riconosce oggetti più grandi di 15 centimetri solo fino a 3,5 metri. Per scendere a 6,5 metri - la quota di Roma antica - bisogna abbassare la frequenza a 70 MHz, ma così ciò che è più piccolo di 40 centimetri il raggio lo ignora. E poi c´è l´acqua salata: in riva al mare il Georadar non serve. Se consideriamo inoltre che non distingue un muro in granito da un banco della stessa natura, una statua da un sasso, capiamo perché «lo scavo resta il momento insostituibile dell´archeologia, tuttavia - aggiunge Piro - la tecnologia delle prospezioni negli ultimi quindici anni ha fatto passi da gigante e per il futuro l´integrazione di tutti i metodi geofisici (Georadar, Magnetico e Geolettrico) ci potrà permettere di stabilire geometria e stato di conservazione del reperto individuato. E magari rappresentare in terza dimensione con il computer, come si fa con il laser scanner su ciò che è emerso, i tesori del sottosuolo».
Per immaginare come sarà il futuro basta vedere i rilievi al laser scanner che Monica Cola della Mcm ha realizzato misurando centimetro per centimetro i muri della villa dei Quintili sull´Appia, la domus imperiale scoperta adesso anche da Woody Allen per il suo film su Roma. O la nuvola di punti laser che i tecnici chiamati dalla direzione del museo di palazzo Massimo hanno "sparato" in faccia allo splendido Pugilatore bronzeo, secondo una robotica che permette di restituire a tutto tondo le meraviglie dell´antichità senza dover più ricorrere ai polverosi, e dannosi, calchi in gesso.

Repubblica 29.4.12
Il grande show della storia
Non esiste più la "torre d´avorio" dello studioso

Invece i media hanno portato una sorta di democratizzazione del sapere
di Giovanni De Luna


Dai segreti dei Maya a quelli dei Kennedy, hanno molto successo i programmi con effetti speciali che raccontano il passato

Affari di famiglia" sembra la riedizione del Portobello di Enzo Tortora. «Benvenuti nel negozio più famoso degli Stati Uniti, dove si comprano e si vendono oggetti il cui valore è stabilito dalla storia che raccontano», recita il sito della trasmissione che va in onda su History. Nel negozio della famiglia Harrison si scambia di tutto: armi, chitarre, gioielli, cianfrusaglie assortite tra le quali si possono trovare anche documenti significativi come, ad esempio, l´epistolario della famiglia Kennedy. Per tutti il prezzo viene fissato dalla loro capacità di presentarsi come "oggetti storici". Ne deriva, per lo spettatore, una visione della storia che somiglia molto alla visita in un bazar, nel quale acquistare cimeli, reliquie, curiosità che il mercato ha trasformato in merci.
Su elementi come questo, History ha costruito un modello narrativo che spiega molto dei successi e degli indici di ascolto che premiano i tre canali tematici (a History si sono aggiunti History+1 e History HD) prodotti dalla Fox e disponibili nella piattaforma Sky. Gli altri si possono agevolmente desumere dai titoli delle varie rubriche che ne affollano il palinsesto. Si comincia con la "Caccia ai mostri" e si prosegue con quella "ai tesori" "agli Ufo". Poi arrivano in ordine sparso, "I segreti svelati", "Antiche invenzioni", "Alla ricerca della mummia perduta". Alla fine, è come essere coinvolti in una sorta di tour archeologico con scoperte sensazionali, siti misteriosi, enigmi da risolvere: in Grecia si insegue l´oscurità dell´oracolo della morte, in Messico quello della scienza dell´occulto che i Maya praticavano nelle profondità di caverne sommerse. Si riporta alla luce la lancia che ferì il costato di Cristo, si raccontano gli incontri ravvicinati con Big foot, un "uomo delle nevi" americano. Segreti e scoperte che sono in grado di svelare il mistero.
Anche nei musei ("Una notte al museo") si scava nei loro archivi polverosi, nei sotterranei dove giacciono collezioni e reperti dimenticati. Il tutto in una dimensione claustrofobica, in cui la storia come disciplina diventa come una stampella su cui appoggiare il sensazionalismo del giornalismo investigativo o il coinvolgimento emotivo degli spettacoli di intrattenimento. E dal mondo del giornalismo e da quello spettacolo i canali tematici di History mutuano anche le strategie di comunicazione. Per quanto riguarda in particolare l´archeologia, i programmi possono contare su vere e proprie star che attirano l´attenzione dello spettatore più sulla loro personalità che sulle loro scoperte. È così per esempio per Zahy Hawass, l´archeologo egiziano che si offre alle telecamere proponendosi come un personaggio, burbero, autoritario, narcisista: boccia e promuove i suoi giovani ricercatori, li apostrofa bruscamente ("càmbiati i vestiti") , ne espelle una perché ha urinato sul pavimento di una piramide e, nello steso tempo, spiega in tono professorale le caratteristiche della mummia che sta per essere dissepolta, proponendosi come la figura di una guida/maestro che permette agli spettatori di vivere esperienze altrimenti impossibili.
Altra tecnica narrativa molto diffusa è quella della ricostruzione filmata di ambienti e personaggi dell´antichità, messe in scena sontuose, con comparse in costume, interni domestici perfettamente ricostruiti, una grande attenzione agli oggetti di vita quotidiana, alle fogge degli abiti, alla fattura delle armi, con una voce fuori campo che spiega e informa.
È un modello replicato con successo anche per la geografia e per i programmi sugli animali (sui canali di Discovery Channel), che in Italia ha trovato interpreti di indubbia efficacia come Piero Angela ("Quark", nato nel 1981 per la divulgazione scientifica, ha dato inizio a un filone inesauribile), Alberto Angela ("Ulisse. Il piacere della scoperta" in onda su Rai Tre dal 2000) e Valerio Massimo Manfredi, che con i suoi "Stargate-Linea di confine" (su La 7 dal 2003 al 2005) e "Impero" (2008, sempre su La7), è forse quello che più da vicino ricalca l´impostazione del modello originario.
Per quanto riguarda la storia contemporanea, in Italia, a partire dal 2003 (anno del suo debutto sugli schermi nazionali), History ha cominciato a produrre una serie di trasmissioni sulla storia italiana ("Storia della Prima Repubblica", "La guerra degli italiani"…) inserendosi in uno spazio già affollato da numerosi e importanti altri esempi, a partire dai filmati sul fascismo di Nicola Caracciolo negli anni 80 per arrivare fino ad oggi, con i vari programmi curati da Giovanni Minoli.
In questo senso, e tornando a History, molto numerosi sono i titoli dedicati a Hitler, al nazismo e ai suoi "misteri" ("Gli apostoli del nazismo", "Hitler e i suoi Indiana Jones", "I falsari di Hitler", "I fantasmi del Terzo Reich", "L´aereo segreto di Hitler", "La scienza segreta di Hitler"), ma la stessa impostazione si ritrova puntuale anche nel modo in cui si propongono i temi religiosi: "I misteri di Fatima", "Le ultime verità sulla Sindone", "Dio esiste, verità tra scienza e fede"…
Quali sentimenti del passato è in grado di suscitare questo tipo di storia? L´impressione è che si tratti di un invito alla fruizione turistica del passato in grado di annullarne lo spessore e la complessità fino a ridurlo a un oggetto pronto per l´"usa e getta" del consumo più spinto. Le immagini che rimbalzano da quei programmi ci restituiscono un tempo diafano, sottile, appiattito sull´istante e finiscono per impoverire il senso del tempo che è il cuore della storia.
Non stupisce quindi che da parte degli storici di mestiere ci sia stata una marcata diffidenza verso la storia televisiva. Pure, le torri d´avorio in cui si rinchiudeva la storiografia accademica sembrano oggi vacillare; il successo dei modelli di divulgazione messi a punto dalla televisione non può lasciare indifferente un mondo, come quello della scuola e dell´università, che oggi fa un´enorme fatica a trasmettere conoscenza storica. Nell´insieme dei discorsi sul passato che alimenta il dibattito culturale, quelli proposti dalla televisione, grazie al loro pubblico (enormemente superiore a quello raggiungibile dai libri, dai saggi e dalle riviste specializzate), contribuiscono a una sorta di complessiva democratizzazione del sapere storico. Già agli inizi degli anni 80, il dibattito avviato dalla prestigiosa rivista "History Workshop", pur condannando la storia televisiva (accusata di essere troppo poco critica, incentrata sull´individuo più che sui movimenti collettivi) le riconosceva la capacità di apportare nuove e originali conoscenze e di utilizzare in modo efficace fonti inedite, immagini di archivio, testimonianze, documenti.
Da allora si sono fatti molti passi in avanti. La vecchia ripartizione di compiti tra lo storico consulente e il regista narratore è stata in larga parte superata. Non più compartimenti stagni, con le emozioni da una parte e la conoscenza dall´altra, ma una nuova consapevolezza sul ruolo degli storici, la loro disponibilità a introdurre elementi di complessità interpretativa all´interno delle esigenze divulgative dei programmi televisivi. Sta progressivamente affiorando, in particolare sui canali tematici della Rai, un altro modello incardinato su questi elementi: la scelta di un argomento nei cui confronti le immagini televisive non siano un "riempitivo" allettante ma documenti storici utili, se non indispensabili, per la comprensione (e il racconto) di quel tema; un commento parlato rispettoso dell´importanza filologica delle immagini; l´onesta ammissione che quella che si propone non è "la verità", ma tutto quanto i risultati di quella ricerca sono in grado di proporre "come verità".
I due modelli si sfidano, si intrecciano, si scambiano; e quanto a enigmi e misteri, la storia degli anni 70 italiani è lì a testimoniare come sia difficile tenerli nettamente separati.
(L´autore è uno storico e insegna all´università di Torino. Il suo ultimo libro è "La Repubblica del dolore" pubblicato da Feltrinelli)

Repubblica 29.4.12
"Il fascino di eroi e condottieri è anche un rifugio dal presente"
di Raffaella De Sactis


Alessandro Laterza spiega la fortuna della materia anche nell´era digitale
Dagli incontri con migliaia di spettatori a una quota notevole di vendite in libreria

Nell´eterno presente digitale la storia non scala certo le classifiche, ma si assicura il dieci per cento del complicato mercato della saggistica. Sarà anche per questo che le case editrici non trascurano il campo. In cima alla lista c´è Mondadori, per la quale i libri di storia rappresentano il venti per cento delle copie vendute, subito dopo c´è Laterza, con una percentuale del dieci. La casa editrice barese nasceva d´altra parte all´inizio del Novecento sotto l´ala protettrice di Benedetto Croce, che fin dai primi incontri aveva consigliato al fondatore Giovanni di astenersi "dall´accettare letteratura amena" puntando a coltivare "cose gravi". Oggi le sfide dell´ultima generazione Laterza vanno ancora in quella direzione. Il successo delle Lezioni di storia, una serie di incontri che dal 2006 hanno coinvolto a Roma una media di diecimila persone a edizione ne è la prova. Tanto che le conferenze sono state portate anche a Milano, Genova, Firenze e Torino. Alessandro Laterza, amministratore delegato della casa editrice e responsabile del catalogo scolastico, analizza il fenomeno.
Perché la storia piace tanto?
«Il tipo di interesse verso la storia è mutato nel tempo. Nel Sessantotto e nei primi anni Settanta era legato soprattutto a una spinta politica. Oggi di fronte all´urto di trasformazioni fuori dal nostro controllo, la storia rappresenta un´opportunità per capire, ma può diventare anche un rifugio».
Si riscopre il passato nell´era dei social network.
«In realtà non c´è contraddizione. I cosiddetti lettori forti, coloro che leggono tra i dieci e i dodici libri l´anno, sono gli stessi che usano Facebook, comprano i giornali, frequentano i festival culturali. Sono quattro milioni di persone che hanno accesso a ogni tipo di informazione culturale. Ma c´è un mare di gente che non legge, non usa il computer, non si informa. Il punto è: come la conquistiamo?».
I libri di storia che vanno meglio sono quelli più narrativi.
«Quando, nel 1959, uscì la prima edizione della Storia d´Italia di Denis Mack Smith suscitò un certo scalpore. Si disse che era un libro che si leggeva troppo agevolmente. E´ sempre lo stesso problema. Sembra che andare incontro al lettore sia un´operazione equivoca».
Come se per essere credibili bisognasse essere per forza essere noiosi…
«La capacità di narrare era un elemento a cui teneva molto Vito Laterza: gli interessava che persone competenti dal punto di vista scientifico sviluppassero anche l´attitudine a raccontare. Che non significa solamente divulgare, ma non presentare in maniera ingessata la propria materia. Alessandro Barbero ha trovato la chiave delle battaglie per parlare della storia di un periodo. I suoi libri su Lepanto, Waterloo e Adrianopoli hanno venduto sulle 20 copie a volume. E sono andati benissimo il Giulio Cesare di Luciano Canfora e Bella e perduta, sull´Italia del Risorgimento, di Lucio Villari».
La sfida riguarda anche i manuali per la scuola?
«Certo, oggi come ieri. Il famoso testo di Storia moderna di Rosario Villari, uscito nel 1969, ha cambiato la sensibilità dell´insegnamento della storia, introducendo l´attenzione alla storia economica e sociale. Anche in quel caso il rinnovamento dei contenuti si combinava alla capacità narrativa. Fu un´importante operazione culturale».
E come venne recepita?
«La prima tiratura era stata di 5 mila copie. Già l´anno successivo se ne ristamparono 15 mila e poi è diventato un long seller straordinario».
I libri scolastici si avviano ad essere digitali. Pensa che il nuovo mezzo influirà sul modo di raccontare la storia?
«Sarà interessante vedere come reagirà il mondo editoriale. Il digitale può diventare un´opportunità per un´ampia possibilità di approfondimento. Abbiamo fatto un accordo con la casa Encyclomedia Publisher, che ha creato un´enciclopedia online diretta da Umberto Eco, con migliaia di immagini e voci d´autore. I nostri volumi avranno un codice per dare la possibilità di accedere per un anno a questo grande repertorio multimediale».
Insomma, dopo gli architetti e i filosofi saranno gli storici le nuove star?
«Il tipo di successo di cui parliamo non è alimentato dal bestseller di turno. Lo storico non ha la riconoscibilità del grande giallista, ma può contare su un´attenzione che si misura nel tempo». 

Repubblica 29.4.12
Così la psicoanalisi va lontano da Freud
di Luciana Sica

Da Freud alla psicoanalisi contemporanea di Morris Eagle, Cortina, pagg 380, euro 37

Quando si dice psicoanalisi, inevitabilmente si pensa a Freud. Ma negli ultimi quarant´anni sono comparse teorie decisamente innovative che sembrano non solo distaccarsi, ma rompere con i principi classici del caposcuola... Questo libro punta allora a individuare la traiettoria che dal sistema freudiano porta alle visioni contemporanee. Tutt´altro che un manuale pratico, è una guida eccellente per chi vuole saperne di più sugli sviluppi straordinari che ci sono stati, sulle diverse posizioni che si fronteggiano e a volte si contrastano. Il lettore tenderà a chiedersi: c´è o no una continuità tra Freud e la psicoanalisi contemporanea? Cosa si può salvare e cosa si deve scartare? Eagle, analista di Los Angeles e grande teorico della disciplina fondata dal maestro viennese, non esclude una "parziale integrazione" tra il pensiero classico e quello assai più variegato di oggi. L´autore - che non trascura le ricerche empiriche e accademiche - fa parte della redazione di Psicoterapia e Scienze Umane, ed è stato il condirettore della rivista, Paolo Migone, a curare questo saggio così preciso ed equilibrato.

Repubblica 29.4.12
Susan Sontag
Perché la nostra estetica è paralizzata dalla bellezza
I pensieri della grande scrittrice tra politica, amore e psicoanalisi


Susan Sontag ha 31 anni quando si apre questo secondo volume dei suoi diari, di cui pubblichiamo alcuni estratti. Con uno degli aforismi di cui queste 500 pagine traboccano, osserva che "una delle principali funzioni (sociali) d´un diario è quella d´essere letto furtivamente da altre persone". In realtà questi scritti non provengono dal tradizionale volume rilegato che il diarista tiene nel cassetto. Sono dispersi in taccuini d´appunti che la perseveranza di suo figlio, David Rieff, ha raccolto aggiungendovi soltanto note brevissime come nomi o piccoli dettagli. Sono pagine ricche di penetranti osservazioni psicologiche sulla nostra civiltà, sulla politica, sulle sofferenze della sua vita sentimentale. Leggiamo della sua rottura con la commediografa cubana Maria Irene Fornes che la fa sentire "congelata, paralizzata". E poi c´è la passione per Carlotta del Pezzo, un´aristocratica italiana. A lei, oltre che al figlio David, è dedicato L´Amante del Vulcano che Mondadori pubblicò nel 1995. Trenta pagine di diario sono riservate a lei (indicata semplicemente come C). La Sontag la analizza e si analizza: atteggiamenti e intenzioni.
Tra le esplorazioni sentimentali ci sono anche le note sul figlio David ed il grande valore che ha il loro rapporto. Nella primavera del 1968 c´è il suo viaggio nel Nord Vietnam in guerra con gli Stati Uniti: pubblicato in un saggio del 1969. Non ci sono riferimenti al cancro che la colpì la prima volta nel 1976. Ci sono momenti toccanti come quando in lacrime, a Venezia al mattino prestissimo entra in San Marco semideserta e lei – di discendenza ebraica anche se mai praticante religiosa – segue la Messa e prende la Comunione. Abbondano le liste: dei libri che ha letto e di quelli che deve leggere, come pure dei film e di quelli che possono essere spunti di libri futuri. Con molti rimpianti per qualche talento che pensa di aver perduto.
Gabriele Pantucci

19/8/64 odorato è la più grande area sensoriale del cervello e anche la più primitiva. Molto potente ma poco articolata – non ci si può fare niente (si può solo nominare) Tutta accenti, niente sintassi. L´odorare offre la consapevolezza di una sensazione da cui il pensiero è sciacquato via (a differenza dell´udire e del guardare) Osmologia, contrapposta a logologia.
10/9/64 L´estetica moderna è paralizzata dalla dipendenza dal concetto di bellezza. Come se l´arte "riguardasse" la bellezza – come la scienza "riguardasse" la verità!
3/10/64 Un uomo pensa prima di agire. Un altro pensa dopo aver agito. Ciascuno dei due è convinto che l´altro pensi troppo.
1/11/64 Da scrittrice, tollero l´errore, la prestazione insufficiente, il fallimento. Che importa allora se a volte fallisco, se un racconto o un saggio non sono all´altezza- A volte le cose vanno davvero bene, l´opera funziona. E ciò mi basta.
E´ proprio questo l´atteggiamento che non riesco ad avere rispetto al sesso. Non tollero l´errore, il fallimento, – perciò sono ansiosa fin dall´inizio, ed è probabile che io fallisca. Perché non ho fiducia che a volte (senza bisogno di forzare) il sesso funzionerà.
16/7/65 Parigi Non telefono mai a nessuno; potendo evitarlo, non chiederei mai a qualcuno che esca dal mio appartamento di imbucare una lettera per me.
Non mi fido che qualcuno faccia le cose al posto mio – voglio fare tutto da sola, o se mai lascio che qualcuno agisca al mio posto in una qualche faccenda, mi rassegno (in anticipo) all´idea che non la farà bene o che non la porterà a termine.
6/9/65 Tangeri Per un anno (avevo 15 anni) ho portato sempre con me, in tasca, le Meditazioni di Marco Aurelio. Avevo una tale paura di morire – e soltanto quel libro riusciva a darmi conforto, una certa forza d´animo. Volevo averlo addosso, poterlo toccare, al momento della mia morte. 20/11/65 Funzione della noia. Positiva e negativa. Arthur Schopenhauer, il primo scrittore importante a parlare di noia (nei Saggi), la considera, insieme al dolore, uno dei mali gemelli della vita (il dolore per i non abbienti, la noia per gli abbienti – è questione di ricchezza).
La gente dice "è noioso" – come se si trattasse di un metro di giudizio definitivo sull´interesse di qualcosa, e nessuna opera d´arte avesse il diritto di annoiarci.
Ma la maggior parte dell´arte più interessante del nostro tempo è noiosa, Jasper Johns è noioso. Beckett è noioso, Robbe-Grillet è noioso. Ecc, ecc.
Forse oggi l´arte deve essere noiosa. (Il che ovviamente non significa che l´arte noiosa sia per forza la migliore – ovviamente).
Non dovremmo più aspettarci che l´arte riesca a intrattenerci o a distrarci. Perlomeno, non la grande arte.
La noia è una funzione della nostra attenzione. Stiamo imparando nuove forme di attenzione – privilegiando, ad esempio, l´orecchio rispetto all´occhio – ma finché ci muoveremo all´interno di un vecchio modello di attenzione continueremo a trovare X noioso… ad esempio quando prestiamo ascolto al senso di qualcosa piuttosto che al suo suono (essendo troppo orientati verso il messaggio). Forse, se dopo la ripetizione prolungata di una sola frase o di un certo tipo di linguaggio o di immagine – in un testo scritto o in un brano musicale o in un film – dovremmo chiederci se stiamo utilizzando il giusto modello di attenzione. O se stiamo, forse, utilizzando un solo giusto modello di attenzione, quando dovremmo invece utilizzarne due simultaneamente, in modo da bilanciare il carico (tra senso e suono, ad esempio). 26/11/65 Il benefattore come riflessione su Cartesio. Me n´ero dimenticata! Fino a quando, oggi, non me ne ha parlato Burt Dreyfus (un amico di S. S.) – perché ho passato gli ultimi 7 anni della mia vita con degli illetterati, e mi ci sono talmente abituata che non mi azzardo neanche più a parlare di qualcosa che preveda una qualche familiarità con i libri.
Trovo la psicoanalisi umiliante (tra le altre cose) ; è la mia banalità che mi imbarazza. Mi sento sminuita. E´ questo uno dei motivi per cui trovo preoccupante il fatto che si tratti di una relazione "professionale" e non "privata".
La conoscenza ha a che fare con la coscienza incarnata (non soltanto con la coscienza) – è questa la grande questione trascurata dalla fenomenologia da Cartesio e Kant fino a Husserl e Heidegger – Sartre e Merleau-Ponty hanno cominciato ad affrontarla.
29/11/65 Il vantaggio di dire "è bella" di un´opera d´arte è che quando lo si dice non si sta dicendo niente.
4/1/66 Sono attratta dai demoni, da quel che di demoniaco c´è nella gente. Solo da quello? Ultimamente, sì. Dalla follia, ma solo dalla follia incandescente e anticonformista: da persone che possiedono un generatore tutto loro. Philip Rieff, (l´ex marito di S. S.) era folle, e Irene e Jasper – e quella ragazza del Living Theatre, Diane Gregory, al laboratorio teatrale di Joe Chaikin ieri sera. Gli occhi neri, grandi e brucianti, le labbra socchiuse il vestito trapuntato, lungo fino a terra – La follia di Sallie Sears, (critico letterario americano e amica di S. S.) era respingente – perché la sua sensibilità, così limitante e remissiva, prendeva la forma della dipendenza. David non è precoce né creativo come ero io da bambina, e questo lo infastidisce. Mette a confronto com´ero io a nove anni e com´era lui alla stessa età, com´ero io a tredici anni e come è lui adesso. Io gli dico che non deve per forza essere così brillante. Lui ha altre soddisfazioni.
8/8/66 In America la religione è tutt´uno con il comportamento. Si smette di andare in chiesa o in sinagoga per via dei divieti o del peso eccessivo del rituale, non (come in Europa) a causa di una crisi di fede. Perciò, un uomo del Midwest che ha smesso di andare in chiesa quando da giovane è arrivato a New York, può benissimo mandare i figli alla scuola di catechismo dopo essersi sposato e trasferito a Long Island. Gli basta scoprire che la chiesa protestante di Long Island non gli chiede di smettere di bere e di fumare come aveva fatto quella nello Iowa…
10/2/70 Non ho tutte le alternative che pensavo di avere – ne ho, di fatto, soltanto due: sradicare il mio sentimento, dirle (a Carlotta) di andare al diavolo – o jouer le jeu. Naturalmente sceglierò la seconda. L´età dell´innocenza è passata. Questa non è la fine della storia – solo l´inizio della Fase Tre. La Fase Uno è stata luglio-agosto: passione, speranza, desiderio. La Fase Due va dal mio ritorno a New York il 2 settembre fino alla settimana scorsa a Parigi: desiderio sempre più vivo, ossessione, sofferenza, paralisi nel lavoro, magica castità, innocenza (ancora), gioia nel sentirsi amata, attesa paziente che cominci la nostra vita insieme.
17/2/70 A proposito del suo telegramma: "Parigi sembra così lontana". – Devo capire che quella di Parigi non è stata affatto un´esperienza positiva per C. Lo è stata per me: per quanto dolorosa, ero comunque insieme a lei.
L´importanza, per C., dell´idea di essere "civili". Essere civili significa sapersi controllare, saper essere allegri e affabili anche quando si è disperati. La capacità di ridere al telefono con un conoscente quando si è nel bel mezzo di una grande sofferenza personale è per lei "civile" – in me provoca invece ansia e dissociazione. Essere civili significa tenere separate le cose – stati d´animo diversi con ciascuno, modi diversi di manifestare e rivelare se stessi – ferma restando la regola di essere gradevoli e di buona compagnia.
26/4/70 L´immenso valore che David ha nella mia vita: qualcuno che posso amare con incondizionata fiducia – perché so che la relazione è autentica (la società la garantisce e io la costruisco) – perché io l´ho scelto, perché lui mi ama (di questo non ho mai dubitato): la mia unica esperienza di amore, di generosità, di premura.
21/4/71 Soffro per la mancanza di stimoli intellettuali. Ho esagerato, nel reagire contro l´ambiente accademico in cui da giovane ero totalmente immersa. È stata una esagerazione. Poi, a partire da Harriet, l´esagerazione è stata equivalente, ma di segno opposto. Si è fatta sempre più estrema, al punto che negli ultimi anni ho passato quasi tutto il mio tempo con persone dalle menti mediocri. Per quanto mi piacessero (perché erano più calorose, più sensuali, più sensibili, più esperte del "mondo") non mi stimolavano. Pensavo sempre meno. La mia mente è diventata pigra, passiva. Ho guadagnato molto ma ho anche pagato un prezzo altissimo. E quel prezzo adesso mi umilia. Molti libri mi risultano difficili da leggere! (Soprattutto la filosofia). Scrivo male, con difficoltà.
19/7/75 L´arte ufficiale nei paesi comunisti è, oggettivamente, fascista. (per esempio gli alberghi e i palazzi della cultura dell´era Staliniana, il film cinese di propaganda maoista, L´oriente è rosso, ecc).
E la visione sentimentale del passato voluta dal fascismo, allora? I nazisti fecero di Wagner la loro musica ufficiale; Marinetti disprezzava Wagner.
La società comunista ideale è totalmente didattica (l´intera società è una scuola) ; qualunque considerazione è governata da un´idea morale. La società fascista ideale è totalmente estetica (l´intera società è un teatro) ; qualunque considerazione è governata da un´idea estetica.
24/5/78 Venezia Venezia mi fa piangere. Da sola, passeggiando in piazza San Marco di mattina presto. Sono entrata nella basilica, mi sono seduta tra i cinque o sei fedeli presenti, ho assistito alla messa, e ho fatto la comunione.
6/5/80 Sì, un saggio sul pensiero aforistico! Un´altra fine, una chiusura. "Note su Note."
Con un´epigrafe (1943) di Canetti: "Leggendo i grandi autori di aforismi si ha l´impressione che si conoscano tutti bene fra loro".
Viene da chiedersi perché. Può essere che la letteratura aforistica ci insegni l´unicità della saggezza (così come l´antropologia ci insegna la diversità della cultura)? La saggezza del pessimismo. O dovremmo piuttosto concludere che la forma dell´aforisma, del pensiero abbreviato, condensato o irregolare sia una voce storicamente connotata che, nel momento stesso in cui viene fatta propria, suggerisce inevitabilmente determinati atteggiamenti; che sia il veicolo di una tematica condivisa?
La tematica tradizionale dell´aforista: l´ipocrisia della società, la vanità dei desideri umani, la superficialità e la falsità delle donne; gli inganni dell´amore; i piaceri ( e la necessità) della solitudine; e la complessità dei propri processi mentali. Tutti i grandi aforisti si battono per farsi carico del peso del pessimismo, della disillusione – alcuni con più leggerezza (con meno ferocia) di altri. (traduzione di Paolo Dilonardo) © 2012 by David Rieff