lunedì 30 aprile 2012

l’Unità 30.4.12
Il Pd «Tagli mirati, non alla scuola; meglio la patrimoniale»
Il Pdl «Non si tocchi la sicurezza». L’Idv: voto anticipato
Bersani: «La spesa sociale non si abbatte a colpi di mazza»
Bersani d’accordo sull’urgenza di intervenire sulla spesa pubblica ma dice no ai tagli alla scuola e chiede «razionalizzazione» nella pubblica amministrazione. Alla vigilia del Cdm i partiti mettono i paletti
di Maria Zegarelli


Sì ai tagli nella pubblica amministrazione purché siano mirati, purché ci si lasci alle spalle definitivamente l’approccio tremontiano della linearità e si attivi invece una fase di razionalizzazione di risorse e di strutture. Il segretario Pd Pier Luigi Bersani accoglie positivamente gli interventi annunciati dal ministro per i rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, ma avverte: basta con i tagli alla scuole, meglio insistere sulle spese della Difesa.
Dall’Idv Antonio Di Pietro torna a chiedere il voto e commenta: «Finalmente la smette di massacrare i cittadini e inizia a sforbiciare gli sprechi», ma anche l’ex magistrato mette paletti: «Una cosa è eliminare la marea di auto blu che ci costano un occhio della testa, un’altra dare il colpo di grazia a un’amministrazione della giustizia che è già in ginocchio», un conto è intervenire sulle spese militari, «come lo sciagurato acquisto dei caccia F-35», un conto «intervenire sugli effettivi delle forze dell’ordine o sulle loro dotazioni tecniche».
Per Italo Bocchino, Fli, tagliare solo cinque miliardi di spesa pubblica è niente altro che una «presa in giro del governo nei confronti degli italiani», mentre dal Pdl Maurizio Gasparri suona note da campagna elettorale: «In materia di spending review sosterremo con convinzione la lotta agli sprechi e alle spese inutili. Ma non consentiremo che lo Stato abbassi la guardia nella sicurezza e nel controllo del territorio».
IL CACCIAVITE
«Non siamo stati coinvolti dice Bersani nel corso di un’intervista a Sky Tg24 ma so che c’è la possibilità di alleggerire la spesa per quello che riguarda il modo di funzionare dello Stato, comunque sono sicuro che Giarda pensa di entrare con il cacciavite in queste meccanismi perché usare la mazza non va bene». Vero è, per il segretario, che «ci sono sprechi e punti di grande sofferenza ma la spesa pubblica italiana non è più alta della media». Il punto è un altro: si spende male e l’esempio più eclatante è la Difesa, dove ci sarebbe bisogno di «una grande ristrutturazione», di una razionalizzazione della spesa corrente e di quella del mantenimento. Insomma, non basta tagliare le spese per gli F35, «occorre pensare un nuovo modello di Difesa», dice Stefano Fassina, responsabile lavoro del Pd.
Ma la grande preoccupazione resta l’enorme pressione fiscale, ormai «insostenibile» per le famiglie e le imprese italiane, soprattutto ora che la crisi è entrata nella sua fase più acuta. Secondo il segretario Pd è soltanto attraverso un’intensificazione della lotta all’evasione che si può intervenire per alleggerire il carico fiscale, «altrimenti non ne usciamo». Il carico fiscale va riequilibrato, aggiunge, perché «c’è il problema di imprenditori che spendono troppo per il lavoratore ma lui mette in tasca molto poco». Con il passare dei mesi, gli italiani che pure si fidavano del governo e del premier Monti, oggi iniziano ad accusare i colpi delle misure adottate per portare l’Italia fuori dal rischio Grecia. Cala il consenso verso il governo e per i partiti che lo sostengono diventa sempre più difficile spiegare ai loro elettori che è necessario mandare giù la medicina amara. Per questo i segretari dei partiti che sostengono Monti nei giorni scorsi hanno chiesto misure per la crescita e per questo Bersani, anche di fronte alla spending review annunciata da Giarda, insiste su interventi con il «cacciavite» e non con la «mazza».
LA PATRIMONIALE
E al Pdl (ma anche alla Lega) che, in piena campagna elettorale e di fronte ai sondaggi spietati che arrivano nelle segreterie, tornano all’attacco dell’Imu non va bene, Bersani replica che il suo partito una proposta per renderla più leggera ce l’aveva: «Un’imposta personale sui grandi patrimoni immobiliari. Presi un po’ di soldi da lì si sarebbe potuta fare l’Imu più leggera». Un’ipotesi che nel Pdl solo a sentirla avvertono sintomi da orticaria. «Maroni era lìinsiste Bersani riferendosi alle minacce di sciopero fiscale avanzate dall’ex ministro dell’Interno e da Pisapia quando abbiamo fatto questa proposta. Erano tutti lì quelli che ora si lamentano. Poi su una cosa Pisapia ha ragione: bisogna creare un meccanismo per cui l’Imu rimane ai Comuni e lo Stato non trasferisce».

Corriere 30.4.12
Bersani: vicini all'accordo sul lavoro
Il leader pd: mancano 400 milioni. Alfano: il nodo sono le assunzioni
di R. Ba.


ROMA — È un ministro del Welfare dai toni distensivi, quello che ieri ha cercato di placare le polemiche sulla riforma del lavoro sollevate dal Pdl, a pochi giorni dalla ripresa del dibattito, previsto per mercoledì prossimo al Senato. «Il governo lavora perché l'Italia viva un po' meglio» ha detto Elsa Fornero. Il ministro, dopo aver precisato l'altro giorno che l'articolo 18 non è stato smantellato ma sono state tolte solo garanzie a pochi, ieri non ha voluto aggiungere altro sulla riforma. In attesa che il disegno di legge riprenda l'iter parlamentare, anche il leader del Pd, Pier Luigi Bersani, ha cercato di abbassare i toni che il Pdl ha provveduto ad alzare circa le modifiche apportabili al testo. Che invece, per Bersani, può essere chiuso «già la prossima settimana, a condizione che vengano introdotti ammortizzatori per i parasubordinati: 300-400 milioni di euro che noi sappiamo dove poter prendere».
Il ministro Fornero intanto si è concesso un ritorno nelle sue terre. Qui, durante una pausa del suo viaggio nel cuneese per l'asta del Barolo, si è augurata, con una battuta (riferita a una storia raccontata dal trasformista Arturo Brachetti), che la propria esperienza da ministro «non finisca con una fucilata». Fornero ha poi annunciato che trascorrerà il suo Primo maggio da ministro prima a Roma (al monumento dei Caduti sul lavoro all'Eur e al Quirinale), e nel pomeriggio a Torino, alla cerimonia in Prefettura per la consegna delle onorificenze ai lavoratori.
Intanto i sindacati preparano la manifestazione del Primo maggio, che vedrà al centro il tema della riforma. Il segretario della Uil, Luigi Angeletti, ieri si è detto d'accordo con le considerazioni di Fornero circa l'articolo 18 — cioè che «non è stato smantellato» — ma ha aggiunto che i sindacati non hanno fatto la riforma del lavoro «per ridurre un po' qualche garanzia: l'abbiamo fatta per ridurre la precarietà e avere un mercato del lavoro più dinamico che aiuti chi cerca un lavoro». Poi è tornato su uno dei suoi cavalli di battaglia: «L'unico modo per produrre occupazione in Italia è ridurre le tasse sulle buste paga». Non ha rinunciato alle critiche nemmeno ieri il leader della Cgil, Susanna Camusso, che è tornata a sottolineare come i tagli del governo «colpiscono anche il mondo del lavoro».
Su tutto aleggia il grande attivismo del Pdl sulla riforma. Ieri il segretario Angelino Alfano ha ribadito la volontà di sostenere le ragioni delle imprese affinché «non vengano appesantite le procedure che riguardano le assunzioni, per non rischiare di rallentare l'occupazione». Si tratta di capire fino a che punto le manovre del Pdl sulla riforma siano rivolte a modificarla e quanto invece si tratti di semplici polemiche elettoralistiche. Anche la Lega ieri è intervenuta sul delicato capitolo del lavoro che non c'è. «Come presidente della Regione Piemonte, sono molto preoccupato — ha affermato Roberto Cota —: le aziende chiudono perché la pressione fiscale ha raggiunto livelli insostenibili». Cota ha concluso dicendo che chiederà nei prossimi giorni un incontro al presidente del Consiglio «perché vorrei discutere di alcune cose concrete che, a mio avviso, si dovrebbero fare subito».

Corriere 30.4.12
Sei italiani su 10 contrari alle elezioni subito
Poca fiducia nel rinnovamento dei partiti: il 75% non crede alla «rivoluzione» Pdl
di Renato Mannheimer


C'è chi, negli ultimi giorni, ha accennato alla possibilità, peraltro subito smentita, di anticipare le elezioni politiche (previste alla naturale scadenza della legislatura nella primavera del 2013) al prossimo ottobre. L'elettorato è in maggioranza (60%) contrario. Anche se ben un cittadino su tre (35%), insoddisfatto del governo Monti, si dichiara invece favorevole a tenere le consultazioni già in autunno. Questa posizione è particolarmente diffusa nell'elettorato del Popolo della libertà, ove supera la metà (51%), data proprio la crescente ostilità nei confronti dell'esecutivo dei votanti per questo partito.
Benché sia comunque probabile che il governo di Mario Monti duri fino alla primavera del 2013, i partiti hanno iniziato a prepararsi in vista della scadenza elettorale, qualunque essa sia. Non a caso, nelle ultime settimane si sono evidenziati mutamenti significativi nell'offerta e nella proposta di diverse forze politiche. In questo quadro, Angelino Alfano e Silvio Berlusconi hanno annunciato, subito dopo le amministrative, quella che essi stessi hanno definito «la più grande rivoluzione nell'offerta dei partiti da molti anni a questa parte». Al tempo stesso, Pier Ferdinando Casini ha azzerato i vertici dell'Udc, in vista della formazione di una nuova, più ampia, forza politica che inglobi anche le altre componenti del centro e, se possibile, segmenti di elettorato dei due partiti maggiori. Nel centrosinistra, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha (finalmente) dichiarato di volere rinunciare alla metà del finanziamento pubblico, attenuando così l'impressione di una chiusura a mutamenti in questo senso, che sembrava emergere da alcune sue dichiarazioni precedenti.
I motivi di questa più incisiva (e, non a caso, contemporanea) iniziativa dei partiti nel tentare un miglioramento della loro immagine sono prevalentemente due:
— da un lato, il noto diffondersi dei sentimenti e degli atteggiamenti antipartitici (che non corrispondono necessariamente all'antipolitica), accentuatisi ancora negli ultimi giorni. Tanto che per i partiti tradizionali l'imperativo è ormai quello di rinnovarsi o di andare incontro ad un severo calo di consensi.
— dall'altro, l'inversione di tendenza nel sostegno popolare al governo Monti che ha visto, secondo tutti i sondaggi, una contrazione dei giudizi favorevoli. Dovuta probabilmente all'intensificarsi del peso della pressione fiscale e, al tempo stesso, al riaccendersi dello spread e alla percezione di una ancora insufficiente iniziativa sui tagli alla spesa pubblica e sui provvedimenti per lo sviluppo.
L'insieme di questi fenomeni ha notevolmente allargato lo spazio potenziale per forze politiche «nuove» (o, secondo alcuni, più semplicemente «rinnovate») che volessero presentarsi nell'arena elettorale. Tanto che oggi la percentuale di chi dichiara di essere «sul mercato», non sapendo che partito votare o essendo tentato dall'astensione, costituisce la maggioranza assoluta (57%).
Dalle prime analisi emerge però che nessuna delle iniziative annunciate ha riscontrato particolare successo e/o credibilità tra gli elettori. La proposta di Casini — alla quale, comunque, i sondaggi attribuiscono un vasto mercato potenziale, pari al 21% — suscita, nella maggioranza (63%) dell'elettorato, «indifferenza». Anche se poco più di un cittadino su cinque (20%) plaude alla decisione del Segretario dell'Udc e se, naturalmente, questo atteggiamento di consenso è condiviso dalla larghissima maggioranza (87%) dell'elettorato del suo stesso partito. In misura ancora maggiore, l'annuncio di Alfano e Berlusconi si scontra per ora con l'opinione di tre elettori su quattro (75%) che dichiarano di non credere a quanto comunicato dai due leader, mentre il restante 25% lo ritiene invece possibile. Anche in questo caso, naturalmente, il parere degli elettori del Pdl è diverso: costoro mostrano, nella loro maggioranza (70%), di avere fiducia in quanto enunciato. Ma anche qui il restante 30% si dimostra incredulo sulla possibilità di un effettivo rinnovamento del partito.
Insomma, i primi tentativi di rinnovamento dell'offerta politica si scontrano per ora con la perplessità diffusa dell'elettorato. Che forse si aspetta (ne ha parlato anche Sergio Fabbrini sul Sole 24 Ore, cui ha subito replicato Casini) non solo e non tanto un mero ridisegno del marketing o un mutamento delle sigle. Ma un più radicale e profondo ripensamento dei programmi e dei modi di agire delle forze politiche attuali.

Corriere 30.4.12
Intesa sulle riforme Asse tra Pdl e Pd: si vota nel 2013
Verso l'accordo sulla legge elettorale
di Paola Di Caro


ROMA — Sarà la moral suasion di Giorgio Napolitano, la consapevolezza che le urne oggi non servono a nessuno, la debolezza intrinseca di ciascun partito alle prese con rinnovamento interno e resistenze, e la paura di un futuro che si prospetta niente affatto radioso. Loro però preferiscono chiamarlo «senso di responsabilità», e sul no al voto anticipato Pier Luigi Bersani e Angelino Alfano scelgono di parlare la stessa lingua.
«Io non intendo vincere sulle macerie del mio Paese», scandisce il leader del Pd in un'intervista a Sky. «Bersani — dice di sé parlando in terza persona — è una persona seria, e noi non possiamo in questi mesi destabilizzare, perché siamo ancora lì, la crisi è ancora lì. Noi dobbiamo far girare le politiche in Ue, e Monti ha credibilità sufficiente per riuscire a farlo». Insomma, è la conclusione, «io non intendo vincere sulle macerie del mio Paese e così come tre anni fa dicevo che il governo Berlusconi ci stava raccontando un sacco di balle sulla crisi che non c'era, ora dico che in questi mesi non possiamo permetterci di destabilizzare. Piuttosto, costruiamo l'alternativa per la primavera prossima, per le politiche del 2013».
Parole che non restano isolate, perché dopo le rassicurazioni di Silvio Berlusconi al capo dello Stato sul sostegno leale e indiscusso del suo partito a Monti, il segretario del Pdl Alfano si esprime con nettezza: «Anche io escludo le elezioni anticipate. Non le abbiamo mai chieste e ormai si arriva a destinazione. Speriamo in questi mesi di far valere le nostre idee e la nostra idea principale è basta tasse». Se si aggiunge alla voce dei due leader quella di Pier Ferdinando Casini, che fin dal primo momento ha giurato fedeltà assoluta al governo fino alla fine, che punta su «un governo Monti anche dopo il 2013» anche perché «io e Berlusconi andiamo per strade diverse, pace e bene a lui e agli altri», e che si dice sicuro che si arriverà a fine legislatura, scossoni non dovrebbero essere previsti.
È un'ulteriore buona ragione per considerare con ottimismo il cammino delle riforme costituzionali e, contestualmente, della legge elettorale. L'idea condivisa dai leader di maggioranza è di partire con l'esame delle riforme costituzionali all'inizio di maggio, anche se il provvedimento deve essere ancora calendarizzato in commissione al Senato, per arrivare a votare in prima lettura in una camera la riforma entro la fine del mese. «L'accordo c'è — dicono dal Pd — se non accadono fatti nuovi e imprevisti i tempi per procedere ci sono».
A quel punto, una volta stabilito soprattutto il numero dei parlamentari (che da progetto dovrebbero diventare 500 alla Camera e 250 al Senato), si potrà partire con l'esame di una legge elettorale che, nelle sue grandi linee, vede d'accordo tutti i partiti maggiori.
Assicurano infatti dal Pdl e dal Pd che le resistenze interne sarebbero ormai superate, e comunque non sufficienti a far deragliare il treno. Nel Pdl il sì (con paletti), pronunciato da Ignazio La Russa alla legge che sposta la competizione dalle coalizioni ai partiti e attribuisce i seggi per metà in collegi uninominali e per metà su liste proporzionali bloccate, garantisce che non ci saranno rivolte interne, anche se c'è chi come Gianfranco Rotondi avverte che «con i collegi uninominali il Pdl farà la fine della Dc».
Nel Pd, la bozza che nella sua prima stesura ha preso il nome di Violante sembra aver messo d'accordo quasi tutti. Massimo D'Alema, che ne è stato uno sponsor della prima ora, all'Unità dice chiaramente che «la nuova legge elettorale semplifica il quadro politico e dà forza ai partiti, soprattutto quelli maggiori, e i governi si fanno attorno al partito che vince le elezioni», negando che le critiche degli ulivisti della prima ora (da Prodi a Parisi), secondo i quali con questa legge di impianto alla tedesca si fa un passo indietro verso i riti della Prima Repubblica, abbiano fondamento: «Se non volevamo un sistema elettorale che fosse fondato sui partiti, perché abbiamo creato il Pd? Allora dovevamo rimanere Ulivo trasformandolo in un grande comitato elettorale».
Se i veltroniani sono tutti convinti, netto è pure Enrico Letta, secondo il quale la prima esigenza oggi è «cancellare il Porcellum», e solo dopo si potrà pensare alle alleanze con le quali presentarsi alle elezioni del 2013. Alleanze che dovranno per forza essere diverse, perché «un sistema è finito, e quando lo dicevamo noi ci prendevano per pazzi», dice l'udc Ferdinando Adornato. Che, da saggio che si occupa della legge elettorale, è piuttosto ottimista: «Lo schema di accordo tra i partiti ormai c'è, se la volontà di tutti come sembra è confermata, la riforma costituzionale passerà a maggio e partirà il cammino della legge elettorale». Nonostante i dubbi delle opposizioni: «La legge che propone Alfano è una truffa, i cittadini non scelgono», protesta l'idv Massimo Donadi. E Francesco Storace è furioso: «Vogliono cancellare ogni traccia di destra, ma non ci riusciranno».

l’Unità 30.4.12
Con il pendolarismo tra lavori saltuari a rischio le tutele sociali
La mancanza di occupazione stabile riduce le entrate necessarie a pagare i servizi essenziali. E le donne rinunciano sempre di più a cercare un lavoro Dopo la cura del rigore la politica dovrà dire che società vuole costruire
di Carlo Buttaroni


C’era una volta il lavoro stabile. Riflesso di una pienezza che copriva l’intero ciclo di vita degli italiani e paradigma di una società che faceva perno intorno alla fabbrica e all’ufficio. Ritmi scanditi, spazi organizzati, sincronie che comprendevano l’attività lavorativa vera e propria, ma anche la sfera personale, il tempo libero, le relazioni sociali, lo spazio dedicato alla famiglia.
Un sistema che corrispondeva a un modello di società fondata sul lavoro incastonato nella nostra Costituzione che formava un cittadino corrispondente a quel modello di organizzazione, integrando le imprese, i lavoratori, i partiti, i sindacati in un processo collettivo di governance sociale.
Oggi non è più così. Le trasformazioni del mercato del lavoro hanno progressivamente trascinato nella crisi anche quel modello. E con esso il sistema generale di garanzie e di protezione che su quell’organizzazione avevano preso forma: il sistema formativo, la sanità pubblica che si occupava di ridurre i rischi individuali derivanti da malattie, le pensioni di anzianità, garanzia di sicurezza economica dopo che si era smesso di lavorare.
Oggi le cose stanno drasticamente cambiando. E quest’anno il primo maggio segna, anche simbolicamente, lo spartiacque tra la «società del lavoro», centrata sulla stabilità, e la nuova «società dei lavori» che rispecchia l’instabilità economica, politica e sociale.
Le trasformazioni che hanno investito il mercato del lavoro hanno finito per coinvolgerne la qualità stessa. I contenuti sono diventati meno manipolativi e più cognitivi, le conoscenze richieste in genere polivalenti e le prospettive di carriera più discontinue. A livello macro la lista delle professioni si è allungata e si è frazionata, anche se non c’è stata un’ascesa della professionalità media quanto, piuttosto, una gamma più estesa di skill, resa necessaria dall’intreccio fra domande vecchie e nuove. E nel complesso mentre la natura della prestazione è cambiata in meglio, perché è diventata soggetta a minori vincoli e ha dato maggiore discrezionalità al lavoratore, i termini della prestazione sono cambiati in peggio, anche perché le forme di tutela tradizionale non sono riuscite a coprire impieghi più instabili e tragitti più discontinui.
Rapporti di lavoro meno subordinati e più autonomi, perfino nel mondo del lavoro dipendente; meno durevoli, data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo di quelli a tempo indeterminato; meno uniformi nell’ambito contrattuale, progressivamente diventato più circoscritto e assai più articolato. Situazione che ha visto il crescere di una forma di pendolarismo tra lavori saltuari, visti come una formazione dal basso, per molti versi funzionali alla discontinuità del lavoro.
Incombe un modo di lavorare che impone a tutti un ritmo teso, perfino concitato, poco importa se si è dipendenti o autonomi. E mentre nel secolo scorso i sociologi studiavano l’oppressione dovuta alla monotonia e alla ripetitività, adesso devono studiare l’ansia generata da variabilità e incertezze. Ieri il sintomo era la noia, oggi la frenesia. Ieri il problema era la rigidità, oggi la flessibilità e la precarietà.
Un lavoro che cambia, cresce ed evolve in fretta, ma senza riferimenti precisi. E che contiene molti aspetti ambigui: basta pensare al fatto che la fatica viene abbattuta ma gli infortuni continuano. E sotto questo punto di vista nel post-fordismo c’è ancora molto fordismo: il nuovo non ha soppresso il vecchio, dal quale del resto proviene.
Nel complesso la gabbia entro cui ha funzionato la società del lavoro dal dopoguerra alla fine del Novecento era forte e visibile, mentre la ragnatela entro cui si colloca la società dei lavori del nuovo millennio è fitta e impalpabile, un reticolo di snodi orizzontali, anziché un’intelaiatura di gerarchie verticali. Persino quote consistenti di assunzioni, oggi, passano attraverso reti informali attivate dai lavoratori stessi, dalle loro famiglie e dai loro conoscenti. E ciò rende più forti quei sistemi di relazione che Mark Granovetter ha definito «legami deboli», e più deboli quei sistemi che un tempo erano forti.
Modificandosi la composizione tecnica del mondo del lavoro, le tutele che dovevano preservare il lavoro stesso si sono ristrette al solo mondo del salariato tradizionale, tenendo fuori da qualsiasi concreta re-
te protettiva le nuove e variegate forme di lavoro autonomo subordinato e quelle dell’occupazione marginale e sommersa.
Anche il ruolo sociale della famiglia è entrato in crisi con il venire meno della centralità del lavoro stabile, perché non rappresenta più un soggetto di riferimento dell’intervento protettivo dello stato sociale. Una rottura i cui effetti si sono propagati nei territori socialmente prossimi. A cominciare dalla scuola, oggi non più considerata come un percorso propedeutico alla ricerca di un lavoro e come un investimento per aumentare le possibilità future di reddito.
La crisi del modello economico e sociale, fondato sulla centralità del lavoro stabile, si è alimentato dei caratteri specifici della società contemporanea, come la crescita della curva demografica in termini di età media, l’aumento della spesa sanitaria legata anch’essa all’invecchiamento della popolazione e alla cronicizzazione delle malattie, l’aumento dei fabbisogni sociali e dei relativi costi in termini di erogazione dei servizi.
E mentre crescono le esigenze, decresce la massa di lavoratori su cui esercitare la leva fiscale per finanziare i servizi, con una pressione ormai insostenibile che si concentra quasi esclusivamente sulla quota, in costante calo, dei lavoratori a tempo indeterminato e sui pensionati.
Fattori d’ordine strettamente finanziario si sommano, poi, a quelli di natura sociale. D’altra parte gli strumenti di protezione costituiscono gli aggregati più ampi delle voci di bilancio statale, racchiuse nel capitolo della «spesa pubblica», che sono state il principale strumento politico con cui i governi hanno tentato di bilanciare le storture prodotte dal funzionamento del mercato. La spesa pubblica, il cui obiettivo principale è stato quello di garantire l’equilibrio economico e sociale, ora non sembra più capace di rispondere ai crescenti bisogni sociali, alle crisi finanziarie e al divaricarsi della forbice tra spese ed entrate dello Stato.
Le tensioni che si aprono sui settori classici del welfare, a cominciare da quello del lavoro e da quello pensionistico, rappresentano il quadro di crisi. E l’urgenza di riforme che imprimano una direzione che permetta di uscire dal guado.
Il Premier Monti pochi giorni fa, ha detto che non è possibile pensare alla riproposizione di politiche keinesiane, orientate cioè alla spesa pubblica, per far ripartire il Paese. Un’affermazione che corrisponde a un’idea di società coerente con la riforma del mercato del lavoro presentata dal Governo. Una scelta che impone alle forze politiche di chiarire se il sistema di riforme di cui si discute esula da questioni di contingenza economica e vuole affermare un modello di società rispetto a un altro. I partiti devono dire con chiarezza da che parte stanno, perché i cittadini hanno il diritto di capire e di scegliere.
Sul tavolo non c’è solo una questione tecnica, ma una scelta che più politica non potrebbe essere, perché porta con sé la responsabilità di disegnare il futuro modello sociale. Ed è quindi ora che la politica torni in campo.

l’Unità 30.4.12
Il leaderismo alimenta l’antipolitica
Per sconfiggere il populismo liberista occorre rafforzare l’idea di un Pd plurale che abbia un’identità forte. Bisogna superare la Seconda Repubblica riconsegnando alla politica la centralità democratica
di Pietro Folena, Sergio Gentili, Carlo Ghezzi


I l bel voto francese per Hollande incoraggia tutte le forze che in Europa sono alternative alle destre liberiste, che con i tagli e la recessione hanno acutizzato la crisi. In Francia la politica e i partiti non si sono tirati indietro di fronte alla crisi ma hanno aperto un salutare confronto democratico, mentre l’antipolitica ha rafforzato le destre. In Italia, dopo circa sei mesi di governo tecnico, siamo invece sempre più impantanati, con politiche rigoriste e senza crescita, che dividono gli italiani, impoveriscono i lavoratori e i piccoli imprenditori e con un sistema politico fortemente discreditato. L’emergenza si è trasformata in pericolosa confusione caratterizzata dalla dannosa e non veritiera «strana maggioranza», che mescola i responsabili della crisi con chi si è battuto contro e ne vuole uscire con il cambiamento democratico.
Per stare con credibilità nella fase politica è necessario rimarcare la nostra diversità anche con una risposta eccezionale del Pd di fronte all’emergere in forme drammatiche di una nuova questione morale. Siamo di fronte a una nuova crisi di regime, più grave di quella del biennio 92-94. Si saldano in un miscuglio potenzialmente esplosivo crisi sociale e crisi politica, con rischi seri per la democrazia. Ogni tentativo da parte della sinistra di cavalcare l’antipolitica e il populismo sarebbe suicida. Ma sarebbe suicida anche pensare di difendere i partiti così come si sono venuti configurando nella Seconda Repubblica. Ha ragione da vendere chi ha detto che l’antipolitica è la forma che prende il potere finanziario messo alle corde, di fronte alle proprie responsabilità, dalla gravissima crisi che ha provocato nel mondo per imporre un’uscita a destra. Il compromesso democratico del ’900 non serve più agli spiriti animali del liberismo. A loro serve ora un potere monocratico e discrezionale.
E tuttavia il punto di forza dell’offensiva antipolitica sta nella natura che la politica ha preso nell’ultimo ventennio. Il pendant del liberismo e delle sue politiche è stato il leaderismo, con un processo di svuotamento dei partiti come luoghi di mediazione e di rappresentanza, trasformati in comitati elettorali, sempre più permeabili agli affari, al dominio finanziario, agli interessi personali. Se si vuole dare una risposta credibile all’antipolitica, i partiti devono liberarsi dal leaderismo e dalle sue conseguenze. Riflessioni provenienti da ambienti diversi, da quelle di Stefano Rodotà a quelle di Gustavo Zagrebelski, vanno in questa direzione. Il vantaggio del nostro partito, il Pd, è quello di non essere identificabile con un capo, o con un solo capo, e di fare del proprio aggettivo «democratico» un’identità forte. E l’iniziativa parlamentare di questi giorni, per applicare l’art.49 della Costituzione, a vincolare i partiti a procedure democratiche e il finanziamento ridotto rispetto a quello attuale al pieno e certificato rispetto di tali procedure, va giustamente in questa direzione.
Tuttavia il barocchismo delle primarie allargate a tutti quelli che vogliono votare, e non agli aderenti al Pd, anche per eleggere le cariche territoriali di partito, ha finito con lo svuotare l’organismo collettivo di un significato di ricerca della mediazione tra interessi sociali, posizioni culturali e etiche, punti di vista differenti. Il Pd appare come la confederazione di diversi capi, bloccata nei suoi equilibri perché obbligata a rispettare quelli che si formarono al momento della nascita del partito. È lo statuto del Pd che va rimesso in discussione. Cosa vuol dire essere democratici e fare della partecipazione un modo di essere alimentato attivamente ogni giorno? Vuol dire essere un partito plurale che dà garanzie effettive di pluralità (di genere, di generazione, di culture, di storie, di interessi) e che organizza in una libera competizione interna il confronto plurale. E vuol dire costruire su questa base un nuovo organismo collettivo, dal cui confronto coadiuvato da consultazioni democratiche con i circoli, anche usando le tecnologie digitali escano posizioni chiare, fatte proprie dal partito. Che sui temi del lavoro e dell’economia esistano, come si è visto, più anime una più sociale, l’altra più liberale non può voler dire che si paralizza il partito, o si mette il bavaglio a chi è in minoranza: ma che si organizza una dialettica fondata sul confronto e sull’ascolto, che permette poi di decidere e di dare battaglia.
Sulla riforma e la costruzione del partito si è stentato molto , anche negli ultimi anni. Ora, prima delle elezioni, occorre mettere mano con urgenza a questo tema. Il Pd deve diventare la forza che fa della lotta senza quartiere alla corruzione e al malaffare il proprio modo di essere, con una vigorosa iniziativa di autofinanziamento, con la rinuncia alla metà degli attuali rimborsi elettorali, con nuove regole che pretendano dai propri eletti e dai propri dirigenti comportamenti esemplari e sobri.
Il Laboratorio Politico che abbiamo promosso in questi mesi, e che si è già costituito in molte regioni, è uno strumento di partecipazione per rimboccarsi le maniche: non è una corrente ma una sorta di movimento per aiutare il Pd e la sinistra a dotarsi di strumenti efficaci. Ci sembra indispensabile ascoltare in una sede solenne i nostri iscritti, in un congresso tematico, sulla nuova questione morale o almeno una Conferenza di organizzazione che abbiano il mandato di modificare lo statuto e di definire un modo di essere del Pd profondamente rigenerato, rappresentativo delle forze sociali, aperto ai movimenti e ai giovani.

Corriere 30.4.12
Nel Pd scoppia il «caso Siena» Ex Margherita contro il sindaco
Bindi: dietro la rottura il cambio ai vertici di Monte dei Paschi
di Alessandro Trocino


ROMA — Un duello tra ex Ds e Margherita, sgradita eredità del passato. Una legittima ribellione di un gruppo di consiglieri di maggioranza contro un bilancio senza copertura finanziaria. Una ritorsione di un gruppo di potere — il partito-famiglia di un pd ex dc, Alberto Monaci — escluso dal nuovo assetto di potere del Monte dei Paschi. Sono molte le chiavi di lettura della guerra che si è scatenata a Siena, dove la maggioranza guidata dal sindaco ex diessino Franco Ceccuzzi è stata messa sotto dal voto contrario al bilancio consuntivo di sette consiglieri, sei dei quali ex margheritini. Uno scontro che rischia di riportare Siena alle urne, visto che il sindaco si ritiene «pugnalato alle spalle». Ma c'è anche un rilievo nazionale, visto che il deputato popolare Beppe Fioroni prende le difese del gruppo ribelle di Siena e addossa al sindaco la responsabilità dello scontro.
La versione dei sette dissidenti fa riferimento alla mancanza di 6,4 milioni nel bilancio. Buco causato dal fatto che la Fondazione del Monte dei Paschi di Siena non garantisce più gli 11,6 milioni attesi, ma solo 5,2. Di tutt'altro avviso la maggioranza del partito, che individua l'origine dello scontro nell'improvviso esautoramento dal Monte dei Paschi di quella parte di margheritini che fanno capo al presidente del consiglio regionale Alberto Monaci. E nella volontà di fare pressioni per mantenere almeno la presidenza della Fondazione nelle mani dell'ex della Margherita Gabriello Macini, in scadenza. Il sindaco Ceccuzzi (ex segretario provinciale dei Ds e deputato), ha rotto il quieto vivere e anni di tregua tra le due fazioni, decidendo per un profondo rinnovamento. Gli assetti di potere del cda della banca sono stati cambiati e si è aperta la porta ad Alessandro Profumo, nominato presidente, e a nuovi consiglieri. Una rivoluzione accolta con favore dalle Borse e stroncata dal consiglio comunale.
Da Roma hanno preso le difese del sindaco Maurizio Migliavacca e Vannino Chiti (ex ds), ma anche l'ex dl Antonello Giacomelli. Beppe Fioroni, invece, sta con i dissidenti: «Ci vuole senso di responsabilità da parte di tutti. A cominciare dal sindaco Ceccuzzi, che ha le maggiori responsabilità». Non si tratta affatto, nega Fioroni, di una guerra fratricida tra correnti, né di spartizione di potere nella banca: «Non c'entrano né la Margherita né i Ds, né la destra né la sinistra. Qui c'è un finanziamento da sei milioni che è incerto e un sindaco che ama la trasparenza e la legalità deve approvare uno strumento che ha la certezza della copertura. Va bene la discontinuità, ma non dalle leggi». Del resto, aggiunge, «abbiamo approvato una legge che prevede il pareggio di bilancio e non c'è fedeltà di partito che possa violare le regole». E se la questione non si risolve? «Eviterei le drammatizzazioni. Mi viene in mente la vicenda di Sansone e dei Filistei: a furia di tirare troppo la corda, finirono tutti sotto le macerie del tempio. In questo caso stiamo parlando di Siena. E onestamente non mi sentirei di farlo crollare, il tempio».
A capo del gruppo dei dissidenti c'è Alberto Monaci. Ex ras dc, entrò in possesso delle 14 stanze della dimora storica del partito pagando appena 570 milioni di lire. La moglie Anna Gioia, fisioterapista, è consigliere comunale dal 2004. Uno dei figli avuto dal primo matrimonio, Alessandro Pinciani, è vicepresidente della provincia di Siena. Il fratello Alfredo Monaci si aspettava una nomina nel cda, che non è arrivata.
Rosy Bindi — senese «ma di fuori le mura», come tiene a precisare —, della Margherita ha fatto parte ma certo non è mai stata vicina al partito-famiglia Monaci: «Penso che non sia una coincidenza che nel giorno in cui si è insediato il nuovo cda del Monte dei Paschi una parte della maggioranza abbia votato contro il bilancio. Io indagherei su questa coincidenza». La presidente del Pd ha già indagato: «Il sindaco ha finalmente scommesso su un cambiamento vero e questo non è stato accettato da quella parte del partito che ha contribuito a tenere la banca sotto un condizionamento dovuto a una spartizione del potere locale. Per questo ha reagito con una vera e propria ritorsione». Questione anche nazionale per il Pd? «Assolutamente no. Il gruppo che ha votato contro il bilancio ha caratteristiche non solo senesi ma familiari».
Si potrebbe discutere del «collateralismo» che lega Pd e Monte dei Paschi. E si potrebbe obiettare che la rivoluzione di Ceccuzzi non sia altro che la creazione di nuovi equilibri, sempre interni al Pd: «Non è così — dice la Bindi —. È vero che la politica non ha fatto bene alla banca in passato. Ma questa volta si è deciso nell'ottica della competenza e della qualità». Non sarebbe il caso di rinnovare il patto con il gruppo Monaci, fa capire la Bindi: «O si risolve la questione limpidamente o sono meglio le elezioni. Che rivinceremmo senza problemi».

Corriere 30.4.12
Con «Alba» professori, No Tav e sindacalisti
di Andrea Garibaldi


ROMA — C'era più gente del previsto (1.500 persone), al PalaMandela di Firenze, e si è dovuta prendere una sala più grande. Ma «pochi erano i giovani», secondo lo stesso promotore dell'iniziativa, lo storico inglese-toscano Paul Ginsborg. Così, sabato, è nata «Alba», Alleanza lavoro beni comuni ambiente, nel nome del «referendum tradito» sull'acqua pubblica, della democrazia non circoscritta al Parlamento, contro il neo liberismo europeo incarnato da Monti, contro la riforma del lavoro. Alba osteggia gli odierni partiti ed è contro l'antipolitica. Un nuovo partito, insomma? Su questo già si discute. Ginsborg frena, vuol prima sviluppare i circoli territoriali, non è interessato a «una cosa da 2 per cento». Ma Marco Revelli, un passato in Lotta continua, storico del fordismo e della «cultura di destra», prevede anche la preparazione per le elezioni del 2013. Un applaudito intervento in questa direzione ha fatto Alberto Lucarelli, docente di Istituzioni di diritto pubblico a Napoli. Solo che Lucarelli, a Napoli, è anche assessore ai Beni comuni: non starà preparando il terreno al suo sindaco, de Magistris? Lucarelli ha lanciato una raccolta di firme contro l'obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione: entusiasmo in sala. Una sala con molti ex dei Girotondi. Non c'è però Nanni Moretti (e nemmeno viene evocato) e non c'è Pancho Pardi, senatore con Di Pietro. Poi, molti professori, come Ugo Mattei, che insegna diritto a San Francisco e a Torino, si è battuto per l'acqua pubblica e lavora con gli occupanti del teatro Valle a Roma. Per Mattei, il governo Monti è fascistoide: «Una reazione al successo popolare dei referendum». Fra i firmatari del manifesto di Alba, il sociologo Luciano Gallino, sostenitore di un'Agenzia pubblica per l'occupazione, lo storico dell'ambiente Piero Bevilacqua, il magistrato Livio Pepino, il giurista Luigi Ferrajoli, Paolo Cacciari, ex deputato di Rifondazione, Guido Viale, uno dei leader di Lotta continua, oggi studioso di riconversione e diverso sviluppo alternativo. E Stefano Rodotà, che si è espresso «per una organizzazione a rete», per carità non un partito «di reduci di tutte le battaglie perse a sinistra». E ancora, Giuliana Beltrame, consigliere comunale a Padova eletta con Rifondazione, Massimo Torelli, Sinistra plurale fiorentina, Andrea Bagni, che si occupa di Scuola pubblica, Nicoletta Pirotta, Iniziativa femminista europea. Ci sono i No Tav, come Claudio Giorno, Dario Fracchia e Sandro Plano. E la Fiom, con Gianni Rinaldini, segretario generale prima di Landini. L'intervento più calorosamente accolto, al PalaMandela, è stato quello di Giorgio Airaudo, leader Fiom a Torino e in Piemonte. Ad annusare l'aria, anche Nicola Fratoianni, assessore e consigliere di Vendola e Paolo Ferrero, segretario di ciò che resta di Rifondazione. E anche Vincenzo Vita, area sinistra del Pd: «Il mio partito — dice — dovrebbe guardare con attenzione a quest'area, magari anche accogliendo alcuni candidati».

l’Unità 30.4.12
L’uso della cocaina al posto dei diritti
di Bruno Ugolini


C ’è un fenomeno nuovo che incombe sul mercato del lavoro, quello che si vorrebbe riformare. È l’uso non di nuove relazioni industriali onde dare al lavoratore dignità, diritti, un ruolo da protagonista, bensì «stupefacenti per lavorare meglio». La cocaina al posto di contratti moderni. Un tema delicato affrontato in un dossier da Adapt, un’associazione fondata da Marco Biagi (www.adapt.it). Sostiene in uno dei saggi Mariagrazia Acampora: «incrociando dati giornalistici, medici e assicurativi ci si rende conto che il fenomeno dell’assunzione di stupefacenti da parte di lavoratori, al fine di rendere migliori prestazioni, di essere maggiormente competitivi o reggere difficili turni di lavoro, è sempre più rilevante». Non ci sono solo gli edili a cottimo che vedono, nel triangolo dell’edilizia (Milano, Bergamo, Brescia), un consumo di sostanze stupefacenti cresciuto, negli ultimi dieci anni, di quasi il 50%. Il fenomeno investe le più diverse categorie dagli autisti pubblici, ai manager, ai chirurghi.
Perché la rapida diffusione di tali sostanze? Osserva tra l’altro Giacomo Bianchi come per alcuni sociologi «in una società come quella attuale caratterizzata da continui cambiamenti, evoluzioni e accelerazioni sia tecnologiche che informatiche, l’individuo tende a utilizzare sostanze psicoattive per raggiungere un equilibrio interiore perennemente minacciato da questi fenomeni... ». Mancano spesso,inoltre,come sottolinea Sara Autieri, precise norme di controllo. Nascono così anche le più diverse interpretazioni ad esempio a proposito di infortuni. A chi va la responsabilità tra datore di lavoro e lavoratore? E il padrone è legittimato a licenziare il lavoratore una volta accertato l’utilizzo da parte di questi di droghe sul posto di lavoro? Il dossier presenta numerose casistiche, basate su sentenze, norme, leggi. Esiste anche la possibilità, una volta accertato l’uso di stupefacenti, di «finanziare il percorso riabilitativo del lavoratore per poi, al termine dello stesso ed in seguito alle dovute visite di accertamento, reinserirlo nella mansione originaria». È del resto, una problematica che non investe solo l’Italia. Sempre nel dossier di Adapt Alessandra Innesti spiega come l’Inghilterra goda di un primato in questo campo, soprattutto tra i professionisti. Mentre negli Stati Uniti, i consumatori maggiorenni di droghe illegali nel 2007 erano 17,4 milioni; di questi, 13,1 milioni, ovvero il 75,3%, erano lavoratori occupati part-time o full-time. Una percentuale salita al 77% nel 2009.
È un allarme per il mondo del lavoro. Testimonia come una corsa alla produttività spesso privata del consenso necessario spinga alla ricerca di mezzi individuali per sopravvivere.

Repubblica 30.4.12
Il Paese dei penultimi
di Ilvo Diamanti


La fine delle illusioni Due italiani su tre si sentono più poveri
"Ora ci basta un lavoro qualsiasi"
Nelle altre crisi, ancora puntavamo sui nostri vizi come sulle nostre virtù nazionali
Un anno fa, l´ottimismo era il credo dominante Adesso solo il 10% è soddisfatto
Il primo maggio, quest´anno, rischia di essere una festa triste per i protagonisti. I lavoratori. Ma anche il lavoro. Come fonte di reddito. Come riferimento dell´identità e come risorsa di promozione sociale. Il lavoro. Principio della Repubblica, sancito dalla Costituzione. Oggi è divenuto incerto. Insieme alla struttura sociale, di cui è base e fondamento.

L´Osservatorio su Capitale Sociale di Demos-Coop, infatti, rileva come oltre metà degli italiani (il 53%) percepisca la posizione sociale della propria famiglia "bassa" o "medio-bassa". Il che significa: oltre 11 punti in più rispetto a un anno fa. E soprattutto: quasi il doppio rispetto al 2006. Detto in altri termini, in pochi anni, l´Italia è divenuto un Paese di "ultimi". O, al massimo, di "penultimi". Dove il 37% delle persone insiste a considerarsi parte della "classe operaia" (e il 15% delle "classi popolari"). Anche se pare che gli operai non esistano più.
La fine del berlusconismo ha, dunque, decretato anche la fine della grande illusione. Che tutti gli italiani potessero diventare come Lui. Il Cavaliere. Con molta fortuna e altrettanta spregiudicatezza, un po´ di senso cinico al posto di quello civico. Gli italiani: un popolo di partite Iva e di imprenditori. Di ceti medi pronti a salire ancora nella scala sociale. Il "sogno italiano", interpretato per quasi un ventennio da Berlusconi, sembra finito in modo brusco. Perfino violento. Gli italiani che si sentono "ceto medio" sono, infatti, calati dal 60%, nel 2006, al 44% di oggi. Mentre il "mito dell´imprenditore" appare in rapido e profondo declino. Solo 2 italiani su dieci, per sé e i propri figli, ambiscono a un lavoro in proprio. Nel 2004 erano il 31%. Ancor meno, il 16%, sperano in una carriera da liberi professionisti. Un anno fa erano quasi il 23%.
Parallelamente, ha recuperato un grande appeal l´impiego pubblico. In testa alle aspirazioni del 34% degli italiani: 5 punti in più dell´anno scorso. È il mito del posto fisso che si fa largo e resiste. Nonostante che, nell´ultimo anno, solo il 30% delle persone dichiarino di aver lavorato "regolarmente tutti i mesi". O forse proprio per questo. Cioè: perché in un mondo instabile, la flessibilità, se è priva di prospettive e di tutela, sconfina nella precarietà. Alimenta incertezza. Per questo il 55% degli italiani si accontenterebbe di un lavoro di qualsiasi tipo, ma stabile. Non importa che piaccia, a condizione che sia sicuro.
Insieme al berlusconismo pare svanito anche il suo complemento psicologico: l´ottimismo. Fino a un anno fa, era l´ideologia del tempo. Un obbligo e un imperativo "nazionale". Dirsi pessimisti significava dichiararsi anti-italiani. E, quindi, (almeno un po´) comunisti.
Nel 2003, circa il 40% degli italiani si diceva soddisfatto della condizione economica personale e di quella del Paese. Oggi quelli che esprimono la medesima convinzione sono poco più del 10%. In confronto all´anno scorso: la metà.
D´altronde, nell´ultimo anno, il 45% degli italiani afferma di aver tirato avanti a fatica, con il proprio reddito, senza riuscire a metter da parte nulla. Oltre il 40% dichiara, anzi, di aver dovuto attingere ai propri risparmi oppure di aver fatto ricorso a prestiti. Insomma: di essersi impoverito. Non a caso, negli ultimi due anni, il 62% delle persone (intervistate da Demos-Coop) ritiene che la propria condizione economica sia "peggiorata".
Questo Paese, più che perduto, appare, dunque, popolato di "perdenti". Gli "ultimi", coloro che si sentono di posizione sociale bassa. I più colpiti dalla crisi. Insieme ai "penultimi", quelli che si dichiarano di classe medio-bassa. Il che significa, soprattutto, i lavoratori dipendenti privati, i pensionati, le casalinghe. La popolazione del Mezzogiorno.
Rispetto a qualche anno fa, il ritratto tracciato dall´Osservatorio di Demos-Coop descrive un altro Paese. Un Paese smarrito. Dove la maggioranza delle persone ritiene troppo rischioso investire nel futuro. Dove la fiducia negli altri è, ormai, una merce rara. Espressa da due persone su dieci. Dove, di conseguenza, ci si sente stranieri, perché il "prossimo" si è eclissato e gli "altri" ci appaiono minacciosi. Stranieri fra stranieri.
Da ciò la differenza sostanziale dalle altre crisi che abbiamo affrontato, nel dopoguerra. Ieri - e ancor più ieri l´altro - credevamo in noi stessi e investivamo nelle virtù, ma anche nei vizi, del nostro carattere nazionale. Il lavoro, la famiglia, il risparmio. L´arte di arrangiarsi. Eravamo sicuri che ce l´avremmo fatta, comunque. Noi, che quando il gioco si fa più duro, abbiamo sempre dato il meglio. In grado di utilizzare come una risorsa perfino la povertà di senso civico, alimentata da un sistema pubblico poco efficiente. O meglio: un segno coerente con la storia del nostro Paese. Dove la società è tradizionalmente più forte dello Stato. Ed è sempre stata capace di affrontare sfide ed emergenze, con mezzi leciti e talora illeciti. Attraverso l´economia formale e quella sommersa. Il lavoro ufficiale e quello nero. La pressione e l´evasione fiscale. Oggi questo modello sembra in seria difficoltà. Perché i suoi fondamenti e i suoi meccanismi rischiano di logorarsi. La famiglia e il familismo, il risparmio, il localismo: non garantiscono più le stesse "prestazioni" di una volta. L´arte di arrangiarsi: non appare più reattiva come prima. Siamo meno convinti che, comunque, "ce la faremo" da soli. Con o senza lo Stato. La stessa riluttanza verso le regole, la fuga nel sommerso: appaiono, sempre più, un costo e perfino un danno sociale. E suscitano, per questo, insofferenza. Non a caso quasi 6 italiani su 10 considerano l´evasione fiscale un comportamento deprecabile. D´altronde, i controlli a sorpresa condotti dalla Guardia di Finanza in alcuni contesti particolarmente visibili, con finalità esemplari e spettacolari, hanno registrato largo consenso, nella popolazione.
Ma, soprattutto, ci penalizza il deficit di futuro e di comunità. L´incapacità di vedere lontano, di costruire relazioni con gli altri. Nessuno come noi, in Europa, guarda con sfiducia il futuro delle giovani generazioni. Forse perché nessuno come noi, in Europa, è invecchiato tanto e tanto in fretta.
Così rischiamo di perderci. Perché la fiducia nello Stato, nel sistema pubblico e nella politica resta bassa. E, anzi, continua a calare. Ma le nostre tradizioni e le nostre istituzioni sociali non ci soccorrono più.

Repubblica 30.4.12
La crisi si è abbattuta sulla parte più debole della società italiana, che ora diffida della politica e detesta il governo Monti
L´esercito degli "ultimi" senza più certezze
Privi di serenità e garanzie, rinunciano ad ogni progetto impegnativo e sono destinati a rimpinguare le file degli astenuti quando si voterà
di Luigi Ceccarini


E´ diffusa, tra gli italiani, la sensazione di essere scivolati verso il basso della scala sociale. Ma c´è un aspetto ancor più drammatico che emerge quando approfondiamo i dati della 33 sima rilevazione dell´Osservatorio Demos-Coop, dedicato al lavoro e all´economia, in tempi difficili. A soffrire in misura maggiore di questa perdita di posizione sono coloro che già si percepivano ai margini della scala sociale. Si tratta degli "ultimi", persone già in affanno, che sono scivolati ulteriormente.
E´ una componente considerevole della società italiana: il 40% circa della popolazione. Ritengono che la loro famiglia appartenga ad una classe sociale bassa o medio-bassa e dichiarano che la situazione economica personale è peggiorata negli ultimi due anni. Tra di loro, afferma di vivere una situazione peggiore l´81%: quasi tutti. In prevalenza donne; persone di età centrale (45-64 anni), con bassa scolarizzazione; residenti nel Sud, operai e lavoratori autonomi, oltre a categorie fuori dal mercato del lavoro (casalinghe, disoccupati e pensionati). Hanno recentemente vissuto in famiglia esperienze difficili in rapporto al lavoro e all´economia, e si caratterizzano per avere opinioni un po´ diverse dalla media degli italiani. Nelle loro famiglie, infatti, più che nelle altre, nel corso dell´ultimo anno vi sono persone che hanno perso il lavoro, sono finite in mobilità, in cassa integrazione. Oppure, è stato loro ridotto l´orario lavorativo (quindi lo stipendio). Più frequentemente della media hanno cercato un´occupazione, senza trovarla.
Per tirare avanti hanno eroso i risparmi e/o chiesto prestiti, nel 57% dei casi, contro il 42% del dato generale. Gli "ultimi", attualmente occupati, hanno lavorato meno regolarmente degli altri cittadini e sono più stressati dall´idea di avere un posto a rischio; lo ritengono sicuro solo nel 48% dei casi. Per questo nella loro personale agenda politica spicca come priorità il problema disoccupazione. Fanno registrare una maggiore aspirazione ad un lavoro pubblico, che tradisce una diffusa domanda di sicurezza. E sono più disposti a fare un lavoro che non piace, purché dia loro garanzie (62% contro il 55%). Dunque, gli "ultimi" sono fortemente angosciati da un sentimento di incertezza nel futuro, personale e delle loro famiglie. Tanto che non sono disposti a fare progetti di vita impegnativi, perché considerati troppo a rischio (69% contro il 59%). Questo sentimento di incertezza si riflette sugli orientamenti di tipo sociale e politico. Mina la fiducia interpersonale: sono più diffidenti verso gli altri (77% contro il 73%). E meno integrati politicamente: i livelli di interesse per la politica sono più bassi. Fanno poi registrare una maggiore difficoltà ad identificarsi in un partito o nelle posizioni ideologiche di sinistra, centro o destra. Inoltre, il grado di insoddisfazione verso il premier Monti è più elevato della media: segna il 70% degli "ultimi".

Repubblica 30.4.12
Il governo dei tagli investa sulla scuola
di Chiara Saraceno


Dopo molti annunci, sta finalmente partendo la spending review. Ottimo se porterà a ridurre sprechi e a razionalizzare le spese. Se si passa dall´analisi della efficienza della spesa a quella delle priorità, tuttavia, le cose sono un po´ più complesse. L´individuazione di che cosa è necessario mantenere, che cosa rafforzare e che cosa si può tagliare, richiede una valutazione delle finalità della spesa stessa. Da questo punto di vista non può non destare preoccupazione il fatto che ancora una volta si guardi alla scuola, già sottoposta a successive, radicali, cure dimagranti, come ad un comparto ove si può ancora operare qualche sostanzioso risparmio. Sono certa che anche qui molte cose possono essere ulteriormente razionalizzate, in particolare per quanto riguarda gli acquisti di arredi e materiali di consumo. Anche se ormai le risorse per acquistare alcunché sono ridotte al lumicino e in molti casi i genitori si fanno carico anche della carta igienica. Forse, in alcuni distretti scolastici si può lavorare ulteriormente alla razionalizzazione della distribuzione degli insegnanti, anche se gli interventi degli anni scorsi hanno già portato in diverse classi ad un rapporto insegnante-allievi al limite della efficacia didattica. Ma ogni euro risparmiato con queste razionalizzazioni va re-investito per rendere le scuole italiane più sicure e più efficaci dal punto di vista didattico. La scuola italiana richiede più, non meno investimenti.
Non dimentichiamo che abbiamo un patrimonio edilizio tra i più fatiscenti e in molti casi pericolosi e al di fuori di ogni norma di sicurezza. Tutti i giorni migliaia di bambini e ragazzi entrano in edifici che mettono a rischio la loro incolumità. Mancano troppo spesso laboratori e aule informatiche. Le lingue straniere, soprattutto nelle scuole elementari (ma ahimè spesso anche alle medie) sono insegnate da docenti che non hanno mai ricevuto una preparazione specifica e spesso conoscono poco più di un imparaticcio della lingua che dovrebbero insegnare. Mancano insegnanti di sostegno per i ragazzini con difficoltà. Nonostante la crescente presenza di bambini e ragazzi stranieri non solo per cittadinanza, ma per lingua, mancano docenti specializzati in italiano come seconda lingua. Al Politecnico di Milano si pensa di abbandonare l´italiano per l´inglese (magari quello maccheronico dei docenti italiani). Ma in molte scuole di base l´apprendimento dell´italiano è una conquista faticosa e non sempre raggiungibile per chi, non solo straniero, non ha alle spalle dei genitori in grado sia di fornire le basi e competenze cognitive di partenza, sia di integrare ciò che la scuola da sola non può dare, stante lo scarto tra bisogni e risorse. Le scuole dei quartieri più poveri e degradati, specialmente nel Mezzogiorno, dove l´investimento di tempo, intelligenza, progettazione, cooperazione dovrebbe essere maggiore, sono lasciate troppo spesso alla disponibilità e iniziativa volontaria degli insegnanti, per altro lì come altrove pagati poco e spesso umiliati da un discorso pubblico che sembra considerarli puri parassiti. Si rafforzano così, invece di compensarle, le disuguaglianze di partenza.
Forse la sostituzione dei libri con l´iPad, cara al ministro Profumo, può attendere un po´ in un Paese in cui non solo in troppe case il libro è un oggetto estraneo, ma la scuola è sperimentata come un ambiente affollato e insicuro, non come un luogo attraente e stimolante. Ciò che non può attendere, perché siamo già troppo in ritardo, è una concezione di scuola non solo come spesa, ma come la prima forma di investimento nelle nuove generazioni e il primo diritto di cittadinanza cui queste hanno accesso: strumento essenziale perché sviluppino appieno le proprie competenze di essere umani e cittadini.
In una delle sue molte esternazioni la ministra Fornero ha rimproverato quei genitori che si preoccupano più di risparmiare per acquistare casa ai propri figli che di investire per farli studiare. Sarebbe opportuno che le condizioni in cui studiano le nuove generazioni, quindi la qualità della scuola, divenisse anche la priorità del governo e il criterio che guida la spending review.

Repubblica 30.4.12
I tempi in cui i ladri erano appesi alle croci
di Mario Pirani


Negli ultimi tempi le tangenti non soddisfano più. Vi si aggiunge la richiesta di lingotti d´oro, pietre preziose, qualche appartamento d´incerta origine, o anche beni "minori" ma egualmente fruibili per parenti di scarsa volontà, figli svogliati e altro, aspiranti a tesi di laurea rilasciate da università fasulle, meglio se fornite di qualche timbro internazionale. È così accaduto che un giudice dell´Alta Corte, nel corso del recente provvedimento sull´illecito appalto del palazzo dei Marescialli di Firenze, si sia imbattuto in una subdola richiesta di un funzionario che ambiva ricevere una croce di cavalierato quale riconoscimento aggiuntivo per i suoi servigi sottobanco. Il magistrato, colto e spiritoso, ne fu molto divertito, ricordando una sarcastica quartina ottocentesca dello sfortunato giornalista Felice Cavallotti che, polemizzando con gli artefici del fallimento della Banca Romana, scrisse:
In tempi men leggiadri e più feroci,
i ladri li appendevano alle croci,
in tempi men feroci e più leggiadri,
si appendono le croci in petto ai ladri.
Le battute di spirito non furono però di buon auspicio. Qualche tempo dopo Cavallotti, infatti, cadde trafitto al 33° duello della sua vita. Peccato. Se questi scontri cavallereschi, ancorché perigliosi, fossero ancora in uso tutt´oggi, potrebbe anche darsi che molti inutili processi ci sarebbero risparmiati a vantaggio di qualche sentenza eseguita di mano propria e più rapidamente.
Allontanandoci dal paradosso per affrontare le caratteristiche proprie della corruzione, val la pena ripercorrere le vicende in proposito degli Stati americani, ristampate sovente in questo periodo. Lo storico C.Hove scrive in proposito: «Il Wisconsin era un vassallo degli interessi ferroviari, forestali ed elettorali che attraverso il complesso dei funzionari federali nominava ed eleggeva governatori, senatori e rappresentanti al Congresso, questi a loro volta usavano il potere per arricchire i loro sostenitori».
Una visione meno drastica della lotta alla criminalità la si evince dall´andamento da questa assunto negli Stati Uniti dell´ultimo decennio dell´Ottocento e del primo decennio del Novecento. L´argomento è stato ampiamente trattato in un convegno dell´Ambrosianeum, dove è stato approfondito il tema delle grandi ricchezze accumulate (poderosi trust, ferrovie, petrolio, ma anche grandi ineguaglianze, grandi miserie, grandi abusi di potere). Su tutto questo dominava una enorme rete corruttiva (v. Storia degli Stati Uniti di Nevisi e Comminger, Einaudi, Torino 1961). «È difficile stabilire se fossero più corrotte le amministrazioni statali o quelle municipali. Parlamenti statali e Consigli municipali potevano concedere preziose franchigie in servizi di pubblica autorità, aggiudicare ricchi contratti, il pagamento non sempre prendeva la forma di corruzione esplicita, esso poteva manifestarsi sotto veste di carriera nel campo politico». Gli interventi al convegno a cura di M.Vitale ed M. Garzonio sono avvincenti come uno sceneggiato televisivo, sia che affrontino le sconfitte che le vittorie: «La politica era un commercio per privilegiati, pochi stimavano possibile un altro sistema e nessuno sfidava il governo dell´oligarchia che distribuiva le cariche, la stampa era indifferente e controllata». Un vigoroso movimento riformista divenne finalmente efficace quando si saldò con l´azione politica di giovani e brillanti leader, da Wilson a T. Roosevelt, che puntarono sul piano locale prima che occuparsi di Washington. Molte azioni si riferivano alla democratizzazione della macchina politica, (voto segreto, referendum, leggi contro la corruzione e per il suffragio femminile.) Fu un periodo di riforme e rivolte in quasi tutti i domini della vita americana.
Il discorso può essere non del tutto lontano dal caso italiano. In proposito vorremmo concludere queste osservazioni sulla corruzione citando un recente discorso di Piero Grasso, Procuratore generale antimafia: «Il metodo mafioso, anche quando non c´è la mafia, è diventato purtroppo un metodo diffuso nella nostra società. C´è un sistema basato su un principio di amicizie strumentali, relazioni informali che lasciano poco spazio a forme democratiche di libero mercato. Alla luce di rapporti amicali si prendono decisioni, si fanno affari, s´intrecciano conoscenze che sono funzionali a questo sistema».

l’Unità 30.4.12
Cresce la mobilitazione contro il femminicidio «Ora una nuova legge»
Continuano ad arrivare firme all’appello lanciato dal movimento “Se non ora quando”. L’ex ministro Pollastrini: «Subito un piano del governo»
Di Pietro: «La politica fermi questa barbarie». Ieri l’ultimo caso a Roma
di Maria Zanchi


Per un puro caso, o forse per disperazione, ieri un’altra donna non ha allungato la lunga lista delle vittime per mano di un uomo, spesso quello che si sceglie come marito o compagno. Il caso è molto simile a tanti altri. Una lite familiare. La città è Roma ma potrebbe essere ovunque visto che il femminicidio è la prima causa di morte in Italia per le donne tra i 16 e i 44 anni. Un marito, ubriaco, che si sfoga sulla propria moglie la colpisce ripetutamente fino a farla crollare a terra. Come aveva fatto altre volte, sostengono chi li conosceva. Solo che questa volta il finale è diverso. Per caso, ma più per disperazione, si diceva, il padre della ragazza, malato, ha cercato di intervenire per calmare gli animi e far terminare la violenta lite. Poi ha afferrato il coltello e ha colpito l’uomo, un 49enne peruviano, al petto provocandogli un’emorragia fatale.
L’epilogo diverso ma storia molto troppo simile a tante altre. E proprio contro questa mattanza che il movimento di «Se non ora quando» hanno lanciato un appello, che potete firmare anche sul nostro sito, unita.it. Hanno già aderito in migliaia e le firme aumentano di ora in ora. Dalla leader Cgil Susanna Camusso, a Roberto Saviano, al segretario Pd Pier Luigi Bersani che su Twitter ha scritto: «Si uccidono le donne. Le uccidono i maschi. È ora di dirlo, di vergognarcene, di fare qualcosa per stroncare la barbarie».
«È giusto gridare insieme basta. È salutare che si uniscano gli uomini di buona volontà e dicano» ha detto ieri l’ex ministra per le Pari opportunità Barbara Pollastrini, che ha aderito all’appello di Snoq. «Ma poi? Sono anni che riempiamo strade, piazze e convegni contro la violenza», prosegue l’esponente del Pd. «Chiediamo quindi subito al governo e alle ministre di presentare il piano d’azione contro molestie e violenza. Alle donne, sulle pensioni, è stato chiesto molto: l’esecutivo restituisca qualcosa almeno in termini di sicurezza e diritti umani. Servono risorse da stanziare per la prevenzione, per centri e case di accoglienza, per la tutela delle vittime. È indispensabile la celerità dei processi e la certezza della pena. E, certo, cultura, civismo e educazione al rispetto sono antidoti fondamentali».
«Aderisco all’appello di Se non ora quando per una mobilitazione che metta sotto gli occhi anche di chi non vuol vedere, la silenziosa strage di donne uccise da quelli che consideravano i loro uomini» ha fatto sapere Rosa Villecco Calipari, vicepresidente dei deputati Pd. « Credo che ognuna e ognuno per la nostra parte, oltre alla mobilitazione, possiamo fare qualcosa in più. Dal rendere noti i dati di femminicidi e violenze con rilevazioni oggettive, dal finanziare i centri che sostengono le donne, dal raccontare ogni giorno su tutti i media quel che succede tra le mura domestiche, dal legiferare perchè questi crimini siano puniti senza attenuanti di sorta».
«Dall’inizio dell’anno ha spiegato il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, in una nota 54 donne sono state uccise dai loro compagni, mariti o ex conviventi. Una vergogna nazionale, una mattanza inaccettabile. La violenza sulle donne è un atto criminale, indegno di qualsiasi Paese civile. Per questo, aderisco con convinzione all’appello Mai più complici: è tempo che la politica si impegni seriamente per fermare questa barbarie».
Serve una nuova legge e serve subito. Intanto le donne continuano a morire. Solo il 10% ha la forza di denunciare molestie e abusi.

Corriere 30.4.12
Non chiamatelo più un «femminicidio»
di Isabella Bossi Fedrigotti


Sono sempre più frequenti gli assassini dentro la famiglia le cui vittime sono mogli, fidanzate, compagne, uccise dai partner. Delitti che si sentono definire, per una certa ansia di precisione, «femminicidi»: parola che rischia di ottenere un effetto opposto a quello che si propone, che finisce per farli intendere come chiusi in una categoria, meno gravi dei normali omicidi.
Ci piace essere chiamate femmine? Non tanto. Probabilmente, perché, magari erroneamente, abbiamo l'impressione di sentire in quel termine una vaga intenzione di svilimento, se non di disprezzo. Del resto — sebbene la parola alle nostre orecchie italiane suoni inevitabilmente un po' più nobile — è facile pensare che neppure gli uomini siano molto contenti di sentirsi definire maschi, sorta di timbro per distinguere un capo di bestiame.
Di conseguenza piace poco il termine «femminicidio» che si sta diffondendo, impiegato sempre più di frequente perché sempre più frequenti sono gli atti che vuole definire: gli assassini nella famiglia, cioè, le cui vittime sono mogli, fidanzate, compagne, sia ex che ancora in essere, ammazzate dai partner per gelosia, per vendetta o anche per quello che qualcuno immancabilmente si affretta a definire «troppo amore». Delitti in preoccupante crescita, un anno dopo l'altro. Difficoltà economiche, disoccupazione o dequalificazione professionale non possono che essere benzina sul fuoco di un carattere tendenzialmente aggressivo o, anche, soltanto difficile, diffidente, insicuro. Affamato di possesso.
Delitti che da qualche tempo si sentono definire, per una certa ansia di precisione, femminicidi. Questo rischia di farli subito intendere come minori, meno gravi dei normali omicidi. Uxoricidi si chiamano nel codice, ma uxor è la moglie, non la fidanzata, l'ex fidanzata, la convivente o la ex convivente, categorie che, quanto a rischi mortali, non hanno nulla da invidiare a quelli delle legittime consorti: per loro, dunque, è stato inventato il nuovo termine. Ma le parole contano, ed è pericoloso usarle con leggerezza perché possono modificare la percezione.
Felice la lingua tedesca, si vorrebbe dire, che per uomini, donne e anche bambini possiede il termine Mensch che, pur contenendo il resto di una radice maschile, indica la profondissima essenza umana.

Repubblica 30.4.12
Quelle donne bruciate per emulazione in Argentina
di Concita De Gregorio


Wanda e le altre, arse vive dai mariti così l´uxoricidio scatena l´emulazione
La follia di una rockstar e i delitti che sconvolgono l´Argentina
Due anni fa il batterista della band maledetta Callejeros dà fuoco alla moglie. Da allora a Buenos Aires si contano almeno quindici casi simili
Il gruppo di Vazquez era stato già protagonista di una tragedia: un incendio prima di un concerto aveva provocato la morte di 194 persone

SI IMITANO. Si esaltano, si sentono dannati e onnipotenti. Dispongono della vita e della morte, accendono il fuoco e appiccano il rogo: bruciano le donne. Ragazzine, adolescenti incinte, giovani madri. Fanno come ha fatto il loro eroe, il cantante maledetto del gruppo rock di successo. Anche loro, come lui. Ti do fuoco, ti guardo bruciare. Succede a Buenos Aires, e nessuno ne parla perché non fanno notizia storie così. Delitti domestici, roba ordinaria. Questa è una storia lontana, una storia argentina. Ma è una storia esemplare. Perché mentre di nuovo, in Italia, come un fiume carsico riemerge l´allarme per quello che si chiama femminicidio ed è il frutto del malamore, la trappola assurda e mortale a cui le donne si sottomettono scambiando la violenza e il senso del possesso per amore, laggiù lontano oltre l´oceano una sequenza di roghi ci dice qualcos´altro. Che si può uccidere per somigliare a un eroe della musica dannata, che se nessuno ferma la spirale e la chiama per nome, la nomina per quello che è, diventa quasi un gioco. Un videogame, una sfida. Sono almeno quindici, forse di più, le donne bruciate a Buenos Aires. «Sì è vero. Da noi le donne le bruciano», conferma Fernando Iglesias, deputato e scrittore. «È diventata una moda. Da quando il batterista dei Callejeros, quel gruppo rock famosissimo anche per la tragedia dell´incendio in discoteca, insomma da quando Eduardo Vazquez ha bruciato la sua donna, un paio d´anni fa, è scattata l´emulazione».
Hanno cominciato subito dopo di lui, i ragazzini, a dar fuoco alle fidanzate. Non hanno più smesso. Le bruciano in cucina, di solito». Come in cucina, ma che dici? «In cucina, sì. E di mattina. È appena uscita una statistica: più spesso di mercoledì, più spesso di mattina dopo le 11. In casa, in città, qui a Buenos Aires. In prevalenza ragazze fra i 15 e i 25 anni. Però non ne parla nessuno, lì da voi nel Primo Mondo: seguo le rassegne ma non ho visto niente. Eppure è un contagio spaventoso. Il fuoco, poi: primordiale. Troppi casi analoghi, stesse modalità, torce umane, l´ultimo delitto un paio di mesi fa. Il processo è in corso adesso. Danno la colpa a lei, alla morta». La colpa di cosa? «Di essersi bruciata da sola. Ci puoi credere?».
No, non ci posso credere. Non ci posso credere e le voglio ascoltare con le mie orecchie, vedere coi miei occhi le testimonianze di chi, al processo, dice che Maria Aldana Torchielli, 17 anni - diciassette, un´adolescente pallida - il 15 febbraio di quest´anno, durante una lite, si è cosparsa da sola di alcol. Quello per disinfettare le ferite e per pulire i pavimenti, l´alcol rosa nei bottiglioni di plastica. Che se lo è rovesciato sui genitali, in testa, sui piedi e sul seno e che - da sola, da sola - ha annunciato al suo irascibile ragazzo, Juan Gabriel Franco, 23 anni: mi do fuoco. Che lo ha fatto perché era «instabile e gelosa», testimoniano in aula i conoscenti per la soddisfazione della famiglia di lui. Troppo gelosa. Lui ha cercato di salvarla, aggiungono, infatti ha le mani e le braccia ustionate. Ma lei voleva morire: è stata lei ad uccidersi. Anche i due poliziotti che sono intervenuti per primi nell´appartamento, due misere stanze, hanno detto sotto giuramento che prima di perdere conoscenza Aldana ha sussurrato loro: sono stata io. Sono gli unici due testimoni, i poliziotti. A parte Juan Gabriel, naturalmente, che però è anche accusato dell´omicidio per cui diciamo che è di parte. Aldana è arrivata in ospedale in coma, non ha mai ripreso conoscenza. Aveva ferite gravissime al volto, al collo, al torace, all´addome, i genitali erano carbonizzati, le mani e i piedi disciolti. La famiglia del ragazzo è presente in aula. Lei lo provocava, dicono, era gelosissima. Lo minacciava. Però lui è qui, lei è morta, risponde Myriam la madre di Aldana: era mia figlia, ripete come un´ossessione. Era mia figlia. Lui è qui e lei è morta. «La famiglia di quell´uomo mi ride in faccia, mi guarda negli occhi e ride. Ma io non mi arrendo, non mi lascio intimidire. Io so che l´ha ammazzata, lei aveva paura. Devo essere forte perché Aldana ha molte sorelle. Wanda Taddei è con me».
Ecco, Wanda Taddei. La giovane donna uccisa dal batterista dei Callejeros, Eduardo Vazquez. Un idolo, lui: amato dai giovani e circondato da un´aura di dannazione. Adorato perché dannato. Una storia che ricorda da vicino quella di Bertrand Cantat, il leader dei Noir Desir assassino di Marie Trintignant, figlia del grande attore. Questa però, la storia di Eduardo Vazquez, non è solo una storia di violenza: è una storia nera di fuoco. Il fuoco omicida e purificatore, dicono i siti deliranti a cui gli adolescenti si ispirano per bruciare le loro ragazzine. Conviene riassumerla nella sua tragica insensatezza.
I Callejeros sono il gruppo rock sulla cresta dell´onda che deve esibirsi il 30 dicembre 2004 nella grande discoteca Cromagnon, in calle Bartolomeo Mitre, Buenos Aires. Arrivano a migliaia. Poco prima del concerto qualcuno lancia un petardo. Prende fuoco un telone, poi un altro, poi tutto. Le porte sono chiuse dall´esterno. Nel rogo, in pieno centro città, muoiono 194 persone. Sono quasi tutti ragazzi fra 17 e 23 anni. 1432 sono i feriti gravi e gravissimi. Alla vigilia di Capodanno sparisce una generazione. La tragedia di Cromagnon dà via a un processo infinito, nessuno sembra responsabile. La strada, calle Mitre, viene chiusa e diventa un mausoleo a cielo aperto. I Callejeros - alcuni di loro hanno perso nell´incendio i genitori e gli amici - sono considerati i responsabili per così dire morali. Diventano il simbolo della distruzione e della morte nel fuoco. Ci sarà un referendum popolare, anni dopo, per decidere se possano tornare ad esibirsi. Non accadrà. Non suoneranno, da quel giorno, mai più. Nessuno li vuole. I componenti della band si disperdono, si perdono. Nascono siti e gruppi che ne adorano l´assenza e la maledizione. Sei anni dopo il batterista ritrova la sua fiamma di gioventù, Wanda Taddei, e la porta a vivere con sé. La ragazza aveva 15 anni quando si erano incontrati la prima volta, ma la famiglia di lei li aveva divisi: lui è un violento, ubriaco, drogato. Non fa per te, te lo vieto: le disse allora il padre. Questa volta però lei è una donna. Ha un matrimonio alle spalle e due figli maschi. Vuole Eduardo, il suo amato aguzzino: va a vivere con lui. Il 10 febbraio 2010 lui la brucia, durante una lite: la cosparge di alcol e le dà fuoco. I bambini, Juan Manuel e Facundo, sono rintanati in uno sgabuzzino. «Ci sentivamo sempre più sicuri nello sgabuzzino», dirà Facundo al processo. «Eduardo picchiava sempre la mamma». Siamo a febbraio, da allora è un rosario di delitti.
Il primo - identico - sei mesi dopo. Fatima Guadalupe Catan, 24 anni, incinta, bruciata viva in casa dal fidanzato. Poi Dora Coronel, 26 anni. A dicembre Alejandra Rodriguez. Madre di una bimba di 4 anni, bruciata in cucina con l´alcol. Subito dopo Norma Rivas, 22 anni, tre figli: con la nafta, questa volta. A gennaio del 2011 Ivana Correa, 23 anni. A marzo muore Mayra Ascona, 30, incinta. Bruciata in casa dal marito. Tutti casi isolati, nessun allarme, nessuno che metta in fila la sequenza. Fino a febbraio di quest´anno, quando la madre di Aldana, la diciassettenne morta dopo dieci giorni di coma, va in tv e dice nello strazio: sarò forte per le sue sorelle, le sorelle di Aldana mia figlia e di Wanda Taddei.
C´è una superstite, si chiama Corina Fernandez. Dice: «Cadi in una rete di paura e non ce la fai ad andartene. Quando dici me ne vado è allora che ti ammazzano». Il femminicidio col fuoco è oggi in Argentina al quarto posto nelle classifiche di morte, che dicono così: 1) proiettili. 2) pugnale e coltello. 3) botte. 4) fuoco. Una ragazza su dieci muore bruciata. Seguono: strangolata, sgozzata, asfissiata, uccisa col martello, bastonata, affogata. Di solito per mano del convivente o dell´ex. Di solito in casa. Elena Highton de Nolasco, giudice della Corte Suprema, afferma avvilita che «non possiamo mettere un poliziotto accanto ad ogni donna che denuncia». Corina, che si è salvata per caso, aveva denunciato il compagno 80 volte. Ottanta. «Ora lo hanno condannato a sei anni, e io ho i giorni contati. Quando esce di sicuro mi ammazza». Mi brucia, dicono ormai le donne argentine. È diventato sinonimo. Quando esce mi brucia.

Repubblica 30.4.12
L’ombra francese che scuote l’Unione
di Bernard Guetta


Non è più la stessa Francia. Nel bene e nel male sarà una nuova Francia a eleggere, domenica 6 maggio, il suo prossimo presidente, una Francia che ha rotto i ponti con il Novecento per entrare nel XXI secolo, una Francia dove i socialisti non affondano più le radici nella storia del movimento operaio, dove l´estrema destra ha ritrovato un posto perso dopo la guerra, dove i destini dell´Europa, la battaglia paneuropea sulle politiche e il futuro dell´Unione, hanno dominato il dibattito.
Quasi sotterranee, queste evoluzioni sono talmente nuove e profonde che perfino i francesi le vivono senza percepirle appieno, ma prendiamo François Hollande: l´uomo che con ogni probabilità diverrà il primo presidente di sinistra dopo François Mitterrand non ha niente a che vedere con la genealogia del socialismo francese. Figlio della piccola borghesia di provincia, un padre molto a destra, una madre che per generosità tendeva dall´altro lato, è cresciuto sulle terre dell´Ovest cattolico che avevano sconvolto la sociologia politica francese, spostandosi da destra a sinistra negli Anni ´70.
Non solo Hollande è l´incarnazione di questa rottura storica, non solo il suo socialismo non è marxista bensì cristiano, ma egli si è fatto le ossa politicamente negli Anni 80, nel cuore di un potere mitterrandiano il cui stampo non era l´utopia rivoluzionaria. Non c´è bisogno di ricordare a questo figlio spirituale di Jacques Delors che la politica è l´arte del possibile, perché lui è un realista, nato nel realismo, e ha sempre saputo che con le casse vuote non si fa niente.
In questa Francia dove il ricordo del 1789 era rimasto tanto vivo che la sinistra non poteva dirsi tale senza promettere la rivoluzione, François Hollande è il primo dirigente socialista a presentarsi come socialdemocratico, uomo del compromesso permanente fra capitale e lavoro. Calmo, tranquillo, molto più caustico che lirico, incarna la rottura, tanto più netta poiché il suo partito oggi pesca soprattutto fra la piccola e media borghesia urbana, tollerante e modernista ma molto più sociale che socialista.
Non ci sono più ostacoli ideologici allo sviluppo di un´azione comune delle sinistre europee. È l´aspetto positivo di questa normalizzazione della Francia, di questa europeizzazione di cui l´altro segno è assai meno piacevole.
Dalla Liberazione in poi l´estrema destra francese era marchiata d´infamia. Aveva a tal punto collaborato con l´occupante nazista che perfino i suoi sostenitori non osavano più richiamarsi a essa. Il collaborazionismo e Vichy erano rimasti un´onta nazionale, tanto che perfino la destra non voleva più dirsi di destra e serrava le fila, a denti stretti, dietro il gollismo, una forza ispirata all´idea della «grandeur francese» più che al conservatorismo e al denaro. Questa destra contribuiva alla peculiarità della Francia, ma anche lì si è voltato pagina.
Già nel 2007, Nicolas Sarkozy aveva esortato la destra a liberarsi dei «complessi» e si era fatto beffe di tutti i principi fondanti del gollismo, decantando i pregi del liberismo e l´amore per gli Stati Uniti. Fu un segnale chiaro e forte alla vera destra, tanto che gli elettori del Fronte nazionale si riversarono in massa su di lui, e l´estrema destra ha continuato a prosperare, legittimata da Sarkozy, dalla sua difesa della «identità francese» e dagli attacchi contro l´immigrazione.
Il risultato è che il Fronte nazionale è il terzo partito di Francia, e i suoi elettori, il 6 maggio, decideranno il ballottaggio; Sarkozy li insegue più che mai, riprendendo le parole e gli argomenti di Marine Le Pen. Tutto lo scacchiere francese è sottosopra e, se la destra uscisse sconfitta duramente come prevedono i sondaggi, c´è il rischio che si riaggreghi intorno a un Fronte nazionale che ora aspira a governare.
Come nel resto dell´Unione, l´estrema destra è risorta in Francia e si alimenta, come dappertutto, della paura della globalizzazione e del rifiuto dell´immigrazione, del rigetto dell´Europa e della nostalgia delle frontiere nazionali. L´aria è impregnata dei fetori degli Anni 30, ma la Francia si sta europeizzando tanto a destra quanto a sinistra, e l´evoluzione si vede dall´importanza che hanno assunto i temi europei.
In questa campagna Sarkozy aveva puntato sull´approvazione del fiscal compact per rimontare lo svantaggio. L´elettorato si era disamorato di lui, perché si era inimicato la sinistra e aveva deluso le destre, ma aveva creduto di poter sfruttare questo patto di rigore, che aveva restituito fiducia nell´euro, per presentarsi come uomo di Stato, salvatore dell´Europa e della moneta unica.
È questa la carta che aveva giocato inizialmente, e quando Hollande ha annunciato che in caso di vittoria pretenderà la rinegoziazione dell´accordo, che non lo firmerà senza misure per il rilancio dell´economia, Sarkozy crede d´aver trovato l´errore che gli avrebbe mandato al tappeto la sinistra. Si fa vedere al fianco di Angela Merkel, "investire" da lei come dirigente responsabile che impedirà a quel socialista irresponsabile di precipitare di nuovo l´Unione nella tempesta: ma non ha fatto i conti con l´opinione pubblica.
La posizione di Hollande non ha scioccato i francesi; anzi, li ha sedotti perché essi hanno apprezzato il suo «no» al rigore venuto da Bruxelles, e il fatto che lui, europeo convinto, entusiasta e orgoglioso, sposi la collera montante contro istituzioni diventate imperscrutabili, e politiche comuni ridotte, come in Grecia, a sempre più austerità. Hollande ha interpretato talmente bene l´opinione pubblica francese che Sarkozy si è in fretta trasformato in fustigatore dell´Europa, e infatti l´Europa e le sue politiche sono l´argomento più dibattuto in questa campagna nazionale.
Non è soltanto che la Francia si sia europeizzata. È successo qualcosa di ancora più affascinante e significativo: la campagna presidenziale francese ha rimescolato le carte in tutto il resto dell´Unione, proprio come il Texas o la California possono annunciare una svolta nella politica degli Stati Uniti d´America. Di colpo, tutta l´Europa parla della necessità di coniugare le misure per la riduzione del debito e la politica di rilancio dell´economia. Ora keynesiani e liberali si affrontano in tutta Europa sugli strumenti di questo rilancio, inaugurando un braccio di ferro cpaneuropeo di cui solo le elezioni in Francia, Germania e Italia potranno determinare il risultato.
Tutto succede, insomma, come se i dibattiti di uno degli Stati dell´Unione, la Francia, avessero influenzato tutti gli altri, come se l´Europa fosse già diventata un insieme politico, come se gli Stati Uniti d´Europa già esistessero. Ne siamo ben lontani, ma è verso questo orizzonte che la Francia e le sue presidenziali hanno fatto avanzare l´Unione.
(traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 30.4.12
Generazione H. Con i socialisti ma senza ideologie
di Anais Ginori


Hadrien il più ispirato, parla di una finestra aperta sulla speranza. Lina si affida a concetti semplici come quelli di tolleranza, rispetto, giustizia. Sébastien vuole rompere la maledizione del 2002. Florence ascolta tutti in silenzio, poi ha un sussulto. «Tra una settimana non ci sarà l´alba di un mondo migliore, ma almeno qualcosa cambierà». Esterno giorno, Parigi bagnata di pioggia, previsioni di maltempo fino a domenica, proprio come nel 1981, quando venne eletto il primo e finora unico presidente socialista della Quinta repubblica. Intorno a un tavolo della brasserie Rostand, a pochi passi dalla Sorbona, quattro giovani militanti socialisti discutono di questa nuova vigilia elettorale. Età compresa tra i 19 e i 28 anni, sono un piccolo campione di quella massa d´urto giovanile che facendo campagna in ogni modo, nei mercatini, sul web, in licei e università, è diventata il segreto meglio custodito dell´ascesa di François Hollande.
Speranza è davvero la parola chiave, ribadisce Hadrien. «Perché siamo la generazione a cui non è promesso un futuro migliore dei nostri padri». Lina si stringe nella giacchetta blu. «Vogliamo l´esatto contrario di questo presidente che ha pensato solo ai ricchi, attizzando l´odio, la violenza, le divisioni» dice ricordando gli insulti ai giovani di banlieue, la caccia ai rom, ai sans papiers. «E tanto basta». Sébastien, il più vecchio della compagnia, ricorda con orrore un´altra domenica di maggio, la sua prima volta al seggio. Nel 2002 il suo battesimo politico fu il voto obbligato a Jacques Chirac contro Jean-Marie Le Pen, dopo che il socialista Lionel Jospin era stato eliminato al primo turno. «Questa volta, se permettete, tentiamo di essere protagonisti, non più comparse».
Una gauche con i piedi per terra. Post-ideologica e pragmatica. Al posto dei sogni, la Generazione H si accontenta di difendere qualche certezza. Le parole d´ordine sono posto fisso, diritto alla casa, allo studio. L´idea tutta francese del servizio pubblico ora «minacciata dal neoliberismo anglosassone». Hadrien, Sébastien, Lina e Florence non hanno ancora un lavoro ma già pensano alla pensione, sono scesi in piazza con i sindacati contro qualsiasi ipotesi di riforma. Né indignati, né rassegnati. Credono nei partiti e non a caso si rispecchiano in un uomo di apparato. Davanti a un caffè, si chiamano camarade, compagni, amano cantare la Marsigliese alla fine dei comizi «perché non è un inno della destra». Leggono poco i giornali, s´informano sul web, ascoltano la radio e non vedono la televisione. Conoscono solo l´euro, hanno studiato viaggiando con l´Erasmus, non si ricordano di quando c´erano le frontiere europee. Prima di Schengen, una vita fa.
Non hanno mai visto la sinistra al potere, l´ultimo governo socialista se n´è andato nel 2002. E ora si ritrovano in casa un improbabile eroe a sorpresa, al quale neppure loro credevano. «Invece ho scoperto che Hollande il carisma ce l´ha - racconta Lina - mi ha fatto venire la pelle d´oca durante il suo discorso d´investitura». Sul megaschermo scorreva un video. Quasi due secoli di socialismo, dalle lotte operaie alla resistenza, da Jean Jaurès fino a François Mitterrand. «Mi ha fatto piangere» ricorda Hadrien. Un ritorno alle origini. Tra questi ragazzi è ferma la convinzione che il Ps non abbia bisogno di «terze o quarte vie» all´inglese, non debba guardare alle socialdemocrazie scandinave. Niente contaminazioni, solo la rivendicazione della propria tradizione.
Mitterrand aveva fatto dell´abolizione della pena di morte la sua misura-simbolo. Hollande invece ha messo proprio i giovani al centro del programma. Un insieme di promesse che saranno difficili da realizzare in un paese in cui un ragazzo su quattro sotto ai 25 anni è disoccupato, gli studi non aprono più le porte nel mondo del lavoro, il famoso "ascensore sociale" si è rotto. «Ma almeno - spiega Hadrien - ha avuto il coraggio di dire che l´austerità ci porta contro un muro e in Europa adesso stanno cominciando a capirlo». Florence incarna una crisi di rigetto. Per lei non c´è neppure bisogno di mettere in fila gli argomenti politici. «Tutte le persone che cerco di convincere mi rispondono già che voteranno socialista. Basta che Sarkozy dégage, se ne vada». Hadrien sorride, e racconta di avere amato ogni momento delle notti trascorse ad affiggere i manifesti di Hollande sopra a quelli del presidente uscente. «Che soddisfazione». Sarkò, il presidente giovanilista più odiato dai giovani, come testimoniano le analisi sul voto del primo turno.
Certe volte l´unione è fatta anche dal nemico comune. L´antisarkozismo ha segnato, nel bene o nel male, la generazione che domenica prossima va a votare. Ci sono diverse gradazioni di sinistra in questo quartetto più eterogeneo di quel che possa apparire. Florence si definisce «femminista» nonostante la giovane età. «Sarkozy ha osato dire che potrebbe servire il consenso dei genitori per prendere la pillola. Un´assurdità». Più che davanti all´Eliseo, questi ragazzi la sera del 6 maggio sperano di ritrovarsi alla Bastiglia, come accadde nel 1981. Sébastien ha chiesto alla madre, insegnante e gauchiste, di raccontare i suoi ricordi. Poi l´ha bloccata. «Ora tocca a noi avere il nostro momento indimenticabile». Hadrien, Lina, Sébastien e Florence ripetono spesso la parola "progresso". Ma oggi combattono una battaglia di posizione, per mantenere i diritti acquisiti, le conquiste del passato. L´isola che non c´è dei giovani hollandisti si chiama status quo, conservare quel che c´è. Almeno quello.

La Stampa 30.4.12
Convertiti all’Islam. L’esercito di italiani che prega Allah
Tra bisogno di spiritualità e nuove paure, cresce il numero di chi abbraccia questa religione. Ma al di là dei fatti di cronaca, chi sono i protagonisti di questa rivoluzione silenziosa?
di Francesca Paci


11 SETTEMBRE 2011 Chi ha abbracciato il Corano prima di quella data è visto con meno pregiudizi
1.500.000 musulmani in Italia. In Italia si stima in un milione e mezzo circa il numero dei musulmani; la religione di Allah è la seconda in Italia. La professione di fede: «Attesto che non vi è altro Dio all’infuori di Allah e che Maometto è il suo Profeta»
50.000 quelli che hanno scelto Maometto. Il mensile Polizia Moderna ha studiato il fenomeno degli «emiri dagli occhi blu», in sonno in America ed Europa. In Italia la galassia dei convertiti è composta da cinquantamila persone
L’ADESIONE I giovani si avvicinano tramite Internet o grazie alle amicizie multietniche"

Chi sono gli italiani che hanno abbracciato l’islam? Privilegiano il legame con la propria terra o l'appartenenza alla Umma, la grande famiglia del Profeta? Frequentano la moschea per elevare l’anima o si occupano di politica? La storia dell’operaio convertito Andrea Campione, arrestato dalla Digos di Cagliari con l’accusa di coordinare una rete jihadista a cui sarebbero legati un professore sardo e una coppia italo-marocchina di Brescia, pone all’opinione pubblica italiana questioni che gli Stati Uniti affrontano ormai quotidianamente da quando, tra le avanguardie dello scontro delle civiltà, trovarono l’agguerritissimo connazionale John Walker Lindh, il talebano Johnny.
Secondo l’inchiesta pubblicata sull’ultimo numero del mensile Polizia Moderna il fenomeno dei cosiddetti «emiri dagli occhi blu» in sonno nelle sale di preghiera americane o europee non risparmia le nostre città, dove, già da una decina d’anni, al Qaeda e affini sfiderebbero l’incipiente declino reclutando tra i convertiti, giovani uomini votati all’odio antioccidentale e soprattutto donne alla ricerca del riscatto per l’emancipazione mancata.
Eppure, lontano dagli spot deformanti della cronaca nera, l’islam italiano è una realtà sempre più significativa sia dal punto di vista numerico (con un milione e mezzo di fedeli è la seconda religione del Paese) che culturale. Se diventare musulmano è semplice (basta pronunciare davanti a testimoni musulmani la frase «Ashhadu an la Ilaha illa Allah, Ashhadu anna Muhammad rasulu Allah», attesto che non vi è altro Dio all’infuori di Allah e che Maometto è il suo Profeta) tradurlo nella routine di una comunità segnata dagli attentati di New York, Madrid, Londra, è meno scontato. E mentre i convertiti di prima generazione beneficiano dell’amnistia sociale concessa a scelte di gran lunga precedenti all’11 settembre 2001, i nuovi destano paure e sospetti.
«C’è uno scollamento tra i musulmani italiani di ieri e quelli di oggi che non si limita a come vengono percepiti» nota l’islamologo Stefano Allievi, autore del saggio «La guerra delle moschee». Il ribaltamento della formula «il privato è politico» nella versione post-moderna «il politico è privato» riguarda anche la religione: «I vecchi portavano il peso delle conversioni intellettuali e vi trasferivano il retaggio dell’impegno collettivo degli Anni 70. Venivano dall’estrema sinistra, come Piccardo, o dall’estrema destra sublimata nelle letture di Guénon e Evola. I giovani sono diversi, più soggettivisti, si limitano alla moschea, accedono all’islam via Internet o attraverso i coetanei stranieri incontrati nelle periferie della società multietnica».
L’Italia che cambia è anche nei volti dei circa 50 mila convertiti all’islam, una galassia che spazia dalla velatissima moglie del famigerato imam di Carmagnola Barbara Aisha Farina, icona dell’integralismo al femminile, al raffinato intellettuale Ahmad Giampiero Vincenzo, dal cattolico deluso dalla deriva modernista della Chiesa al neofita del Corano appassionatosi per amore d’una bella straniera, da chi si pone mille domande spirituali a chi non se ne pone nessuna accecato com’è dal fanatismo.

Il grafico. “Nel misticismo dei sufi ho trovato la sacralità che non c’è altrove”
Ho incontra to il Corano con la mediazione intellettuale di René Guenon» racconta il grafico trentasettenne Younus Abd al-Nur Distefano. L’interesse risale a quando era studente e non sentendosi «pacificato» leggeva testi di agnosticismo, filosofia indù, «robaccia occultista». Finché partecipò a un convegno su Guenon e sull’islam organizzato dalla Coreis, la Comunità religiosa islamica italiana: «Era il settembre 2001 e sull’incontro gravavano le ombre degli attentati alle Torri Gemelle. Eppure mi appassionai». Dopo un anno di studio approfondito del cristianesimo inizia il percorso di conversione e nel 2003 è un musulmano, di scuola sufista, precisa, la corrente più mistica e spirituale dell’islam che tanto poco piace ai fondamentalisti.
Lui, d’altronde, fa dottrina di tolleranza: ha sposato una ragazza cristiana che ha poi riavvicinato alla chiesa («riconosco le altre religioni anche se trovo nell’islam particolare fedeltà al sacro»), frequenta senza problemi le spiagge occidentali («Siamo fedeli all’islam ma i tempi cambiano»), non trascorre il tempo libero in moschea ma dividendosi tra la gatta Cipolla, le partite della Sampdoria e la lettura di libri come «Questioni siciliane» di Ibn Sabin. Ricorda che all’inizio i genitori, siciliani, contestavano la sua scelta: «Un giorno in cui mio padre borbottava gli dissi per sdrammatizzare che guardando la latitudine il Padreterno doveva aver pensato che fossimo saraceni».

Il pensionato. “Illuminato nel deserto Ho lasciato il comunismo per una religione tollerante”

Era un comunista doc Domenico Buffarini, passato dal Psi al Psiup al Pci e cresciuto leggendo Kant, Voltaire, il giovane Marx. Interessato alla politica, al lavoro alla Coreco, alla massoneria e alle minoranze oppresse come gli indiani d’America, argomento sui cui ha scritto 8 libri. Poi, la notte del 27 agosto 1981, nel deserto dell’Arizona, diretto ai musei di Tucson, s’inginocchiò sotto la volta stellata: «In mezzo al cielo c’era la mezzaluna. Sapevo qualcosa sull’islam perché avevo seguito la rivoluzione algerina, mi aveva colpito Arafat quando aveva affermato che i palestinesi erano gli indiani d’America del XX secolo. Ma quella notte, quando uno dei pastori battisti che erano con me disse che in un momento simile di 1440 anni prima Maometto aveva ricevuto il Corano, fui sconvolto. All’islam non ci si converte, si avverte, e io ero predisposto».
Inizia a leggere la Bibbia, poi il Corano: nel 2007, a 69 anni, la professione di fede nella moschea di Vicenza. All’islam, racconta oggi, è «tornato» per via politica: «Allah non ha fondato chiese, esclude santi e miracoli, parla di religione rivelata attraverso la ragione ed espressa con la tolleranza». Non accetta chi obietta con la jihad e al Qaeda: «L’11 settembre è un delitto contro l’umanità, un atto all’insegna di quel fascismo che i musulmani hanno imparato dal colonialismo. L’Occidente confonde l’islam con la disgrazia politica dei popoli che la praticano». Per questo Domenico Abdullah Buffarini giudica il dibattito sull’islam politico «scadente» e si sottrae.

La Stampa 30.4.12
L’avanzata dell’Islam nero
di Domenico Quirico


L’ Islam avanza, penetra, si insinua, conquista, rosicchia l’Africa nera, quella un tempo degli animismi e dei missionari cristiani, ha ormai scavalcato la linea del fronte che corre, sinuosamente, lungo il sedicesimo parallelo, dal Senegal islamizzato al novantacinque per cento alla Somalia degli shebab. Avanza, ahimè, con il terrorismo i massacri i kalashnikov: autobombe esplodono a Kampala e a Nouakchott, Timbuctu è loro, conquistata come, dall’altro capo del continente, Mogadiscio. È il nuovo paese della guerra, «dar al-harb»; in attesa che diventi, purificato col fuoco, «dar al–islam», pezzo di crosta terrestre sotto la quale la lava sta bollendo, pronta all’eruzione. L’ Occidente distratto non si è accorto di questo assalto, gli oppone ascari locali, corrotti e incapaci, si batte per procura, pagando vilmente etiopici e kenioti.
Ma l’Islam seduce anche con il denaro, la carità, le scuole coraniche, le moschee nuove di zecca, i centri che distribuiscono cibo e aiuti. Aggioga con il terrore, e con la forza della fede, il ricatto della necessità, la tentazione dell’ordine e della sopravvivenza. Gli africani diventano musulmani per disperazione odio seduzione speranza, seguono i profeti armati salafiti, ma anche le soavi promesse di pace dei marabutti. L’Islam nero: minaccia, ma anche travolgente tentazione della spiritualità, per il riconoscibile dolore di ogni giorno, la vita come sappiamo viene sofferta e vissuta. Si impone attraverso un nuovo sincretismo, nato dall’andirivieni degli emigranti, e dei loro figli, tra i quartieri sensibili delle città europee e i villaggi più disgraziati della brousse, della savana, del deserto. Modernizzazione islamista da un lato (sì, non è un paradosso), e riscoperta delle radici dall’altro, sono il filo e l’ordito di un nuovo inedito tessuto identitario.
Agli inizi degli Anni Ottanta un maestro di scuola coranica, Muhamadu Marwa, proclamò una repubblica islamica a Kano nel Nord della Nigeria, popolato di «mahdis», di messaggeri divini. Ai giovani disperati dell’esodo rurale, arrivati in città in cerca di un futuro, spiegava che chiunque porta un orologio, gira in bicicletta o in auto, e manda i bambini nelle scuole di Stato è un infedele, merita la punizione. Nonostante la feroce repressione (o forse è stata la causa?) trenta anni dopo quelle terre sono infeudate ai boko haram («l’educazione occidentale è un peccato»), i talebani d’Africa. E in quegli Stati del Nord è in vigore la sharia. Ha ben fermentato la lezione di quel maestro.
In Niger lo Stato ha privatizzato l’istruzione: mandare i bambini nelle scuole private costa troppo per la maggior parte della popolazione. L’unica alternativa alla strada sono le scuole coraniche: gratuite. Così i fedeli aumentano, gli imam si fregano le mani soddisfatti.
In tutto il Sahel l’appello alla moralizzazione della vita pubblica, che incanta e fanatizza le masse disperate, principali vittime degli abusi e della corruzione di queste società guaste, sfocia nella rivendicazione di Stati islamici, arbitri di un modo di vita che non si potrebbe concepire senza la moralità. La «charia», feroce ma implacabile, riporta l’ordine e la pace laddove i signori della guerra e le tribù comandavano. Da Mogadiscio a Gaò. L’Islam è uno straordinario filo di sicurezza spirituale, un ordine strutturante, una etica e una estetica di vita, trasforma le superstizioni in misticismo e rappresenta una scuola di universalità per 300 milioni di africani, il quaranta per cento della popolazione del continente. Più di quanti vivono in tutti i Paesi arabi riuniti.
L’islam è ricco, più dell’Occidente dei tiepidi postcolonialismi. La ricerca della «zakaat», l’elemosina prescritta dal Corano, ingrossa i ranghi della Organizzazione della conferenza islamica e trasforma gli Stati dell’Africa nera in mendicanti dei «fratelli arabi», Gheddafi, i sauditi, gli Emirati. Ma anche Al Qaeda. Con o senza fondi religiosi, semplicemente facendo forza sul risentimento contro gli occidentali colonialisti, arroganti e predatori, i fondamentalismi avanzano a Sud del Sahara. Tra i ventidue terroristi più ricercati del dopo undici settembre c’erano dodici africani. Nelle periferia di Dakar e di Abuja, di Khartum, potevi vedere le magliette con l’effigie di Bin Laden, il vendicatore.
Che cosa abbiamo opposto noi, Occidente, a tutto questo? Il fondamentalismo delle sette protestanti americane, il capital-cristianesimo che cerca di comprare le anime mettendo a libro paga i presidenti-dittatori. Alla interminabile ripetizione della fatiscenza, all’enorme pressione della povertà che scorre, si ramifica e si estende in tutto il continente come l’acqua alluvionale abbiamo proposto non l’immedesimazione con i sofferenti ma la predicazione del liberismo: che profitta soprattutto a noi. In questo mondo di miseria e di perdite l’uomo ha fame di fede e di irrazionalità. Ma il capitalismo non è un credo e non è un magnete. E’ solo un modo di vita a cui noi, solo noi, abbiamo fatto l’abitudine.

Corriere 30.4.12
Un nuovo scacchiere per la galassia jihadista
di Guido Olimpio


WASHINGTON — I qaedisti, veri o affiliati, scelgono di colpire il «nemico vicino». Definizione che indica il governo o il regime in carica ma che in Africa si traduce nella caccia ai cristiani. Le bombe di Boko Haram in Nigeria, l'attacco con le granate in Kenya, le continue minacce contro chi professa una fede diversa fanno parte di una strategia duplice. La prima è quella della «pulizia religiosa». I talebani d'Africa, così sono stati soprannominati gli estremisti di Boko Haram, vogliono eliminare qualsiasi presenza cristiana in Nigeria. E non solo.
Lo hanno detto e ora provano a mantenere la promessa. Azioni più limitate nel quadrante Sud-Est (Kenya, Somalia), ma anche qui i missionari o simboli della Chiesa sono dei bersagli.
Nell'anniversario della morte di Osama Bin Laden, lo scacchiere africano conferma tutta la sua pericolosità. Grandi territori, confini porosi, armi in quantità (e non solo quelle prelevate negli arsenali libici) ne fanno l'arena ideale dove i qaedisti possono lanciare la controffensiva. La vecchia Al Qaeda aveva già deciso di farlo negli anni '90 (Somalia), poi si è concentrata in altre regioni. Ma l'idea è rimasta e ricorre spesso nella propaganda jihadista.
Alcuni gruppi non sono molto sofisticati e la preparazione ideologica, a volte, appare posticcia. Ma ciò che conta sono gli effetti: la lunga stringa di attacchi di Boko Haram contro le chiese ne è la conferma drammatica. Saranno pure dei mezzi banditi o criminali travestiti da terroristi, tuttavia rappresentano una minaccia pericolosa.
E sono già evidenti i collegamenti con quello che rischia di diventare un Afghanistan nel cuore del Sahel. La gigantesca area nel nord del Mali dove la travolgente rivolta tuareg ha contribuito a creare un vuoto subito riempito dai militanti. I qaedisti, fino a pochi mesi fa, erano delle ombre sfuggenti lungo le piste del deserto. Oggi si fanno vedere nelle città liberate. E la «sezione» algerina di Al Qaeda conta tra le sue file dozzine di africani. Usando poi i vincoli familiari con clan locali ha messo radici. E grazie ai riscatti ottenuti con i rapimenti degli occidentali — ricordiamo che Rossella Urru è ancora nello loro mani — può comprarsi il silenzio o l'alleanza. Un patto rafforzato dalla presenza della fazione tuareg islamista Ansar Dine. I guerriglieri, dopo aver dichiarato (e smentito) di voler imporre la Sharia (legge islamica) hanno iniziato a distruggere statue e documenti antichi a Timbuktu. Un gesto che ricorda quello dei talebani a Bamiyan. E non è certo un buon segnale.

Corriere 30.4.12
Se il sogno atomico di Teheran divide i servizi segreti e i politici di Israele
di Francesco Battistini


Il premier è un bugiardo e anche quello che gli siede vicino ve lo raccomando… Che accadrebbe in una politica normale, Italia a parte, se l'ex capo dei servizi segreti dicesse che non c'è da fidarsi del governo per il quale ha appena finito di lavorare? O si chiamerebbe il governo a risponderne. O si chiamerebbe l'ex spia a spiegarsi. In Israele, né l'una né l'altra cosa.
Yuval Diskin, già numero uno della sicurezza interna dello Shin Bet, s'è abbandonato a frasi del tipo: «Il premier Bibi Netanyahu e il ministro della Difesa, Barak, stanno ingannando il pubblico sulla questione dell'atomica iraniana»; «non mi fido d'una leadership che prende decisioni su sensazioni messianiche e deve condurci a una guerra con l'Iran»; «presentano al pubblico un'immagine falsata: se Israele agirà, l'Iran non avrà l'atomica. Molti esperti, invece, dicono che proprio un attacco israeliano accelererà la corsa nucleare e le darà legittimità internazionale». Detta la scomoda verità, se di verità si tratta, questo Diskin ora sembra il giudice Pott d'un famoso romanzo di Pitigrilli. Quello che finisce commiserato da tutti e ricordato solo come un brillante clown: «Che buffone — liquidano dal governo —, è un frustrato che vuole solo entrare in politica…».
Un pagliaccio, l'uomo che fermò i kamikaze dell'ultima intifada? Troppo facile. «Diskin sarà anche un teppista — scrive un giornale israeliano —, ma dice la verità». A inquietare di più, è che le sue parole sono le stesse già pronunciate da altri uomini di Netanyahu: l'ex capo di Stato maggiore Ashkenazi, l'ex capo del Mossad, Dagan, l'ex capo degli 007 militari Yadlin, l'ex consigliere alla sicurezza del governo, Arad… Tutti militari, mica politicanti. L'ultimo sondaggio certifica che, si votasse domani, Bibi non avrebbe rivali. Le ultime dichiarazioni dicono che, fallissero le sanzioni, Bibi attaccherebbe subito Teheran. Le ultime informazioni parlano di 200 bombardieri pronti a decollare in ogni istante. Forse anche noi, non solo gli israeliani, dovremmo cominciare a interrogarci sulle opinioni d'un clown.


Repubblica 30.4.12
Come salvare la primavera egiziana
"La rivoluzione si trova di fronte a un pericolo reale e sta a noi la scelta. O continuiamo a dividerci oppure superiamo le differenze"
di Ala Al-Aswani


Immaginate di non andar d´accordo con il vostro vicino di casa perché parla spesso di principi, salvo poi ignorarli quando sono in gioco i suoi interessi personali. Sviluppate alla fine una tale avversione da non voler avere più niente a che fare con lui. Una notte, però, scoppia un incendio nel palazzo, le fiamme si diffondono dappertutto, e il vicino bussa alla porta: chiede aiuto per spegnere l´incendio. Cosa fareste? Gli direste "Non voglio avere niente a che fare con te, nemmeno se a bruciare è l´intero palazzo con dentro i tuoi e i miei figli"? Oppure, vista la gravità della situazione, vi unireste al vicino di casa per spegnere l´incendio, salvare il palazzo e la gente che lo abita? La scelta giusta è ovvia.
L´analogia sintetizza cosa succede oggi in Egitto: il palazzo rappresenta il Paese, e la Fratellanza Musulmana è il vicino che ha dato la precedenza ai suoi interessi personali rispetto ai suoi doveri, e che ci ha deluso tante volte. Sono i Fratelli Musulmani, assieme al Consiglio Militare Supremo, i responsabili del vicolo cieco da cui stiamo tentando di uscire. Si sono alleati con i militari per servire i propri interessi, e a pagare è stata la rivoluzione. Poi hanno scoperto che tutti i loro ricavi politici erano stati erosi, perché il consiglio militare voleva usarli come marionette. Sono dunque entrati in rotta di collisione con i militari, ritornando nei ranghi della rivoluzione, e scendendo di nuovo a piazza Tahrir per chiederne le dimissioni.
Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo riunire le forze, e creare di nuovo un fronte compatto e unito come nei primi giorni della rivoluzione? Oppure qualsiasi forma di collaborazione è destinata a finire allo stesso modo, con la Fratellanza che abbandona i principi solo per servire i propri interessi politici? Sin da quando Mubarak è stato deposto, per 14 mesi il consiglio militare è riuscito a ostacolare il cambiamento, e gli egiziani sono stati vittima di una campagna orchestrata per svuotare di significato la rivoluzione e farla abortire. Il nostro dovere nazionale, dunque, ci obbliga a salvarla, obiettivo che si può raggiungere solo attraverso le seguenti mosse.
Anzitutto, i Fratelli Musulmani devono scusarsi per i gravi errori commessi e per averci trascinato in questo disastro. Devono anche fornire prove serie delle loro buone intenzioni creando un reale consenso nella commissione costituzionale, che soddisfi tutte le differenti opinioni presenti e che dia alla legge fondamentale reale legittimità. Come contropartita, le forze rivoluzionarie non islamiste devono subito accettare le scuse dei Fratelli Musulmani, e assieme a loro ripristinare l´unità, requisito fondamentale per salvare la rivoluzione.
In secondo luogo, dobbiamo tutti imparare ad andar d´accordo con chi non la pensa come noi, e a rispettare i suoi diritti. Liberali e sinistra debbono imparare che i Fratelli Musulmani e i salafiti non sono un pugno di fascisti reazionari. E, di contro, i Fratelli Musulmani e i salafiti debbono capire che non possono assumere solo su di sé l´intera responsabilità per l´Egitto, anche se sono la maggioranza, e che non potranno mai cambiare il carattere del Paese per farne un nuovo Afghanistan o un´altra Arabia Saudita.
Terzo, tutti i segnali indicano che le elezioni presidenziali non saranno né libere né corrette. Senza regole certe che assicurino trasparenza, uguali opportunità e lo stato di diritto, le presidenziali diverranno solo un´altra trappola per la rivoluzione, e saremo tutti noi a pagarne il prezzo.
Da ultimo, il consiglio militare usa ancora tutti i mezzi tipici dell´era Mubarak per controllare gli eventi. Sull´altro fronte, le forze rivoluzionarie, se unite, avrebbero per la prima volta due strumenti a loro disposizione: Piazza Tahrir e il Parlamento. Piazza Tahrir è l´assemblea generale del popolo egiziano che ha fatto la rivoluzione e che può sempre imporre la sua volontà. Anche il Parlamento può diventare uno strumento importante per difendere la Thawra e raggiungerne gli obiettivi.
La rivoluzione si trova dunque di fronte a un pericolo reale, e sta a noi la scelta. O continuiamo a dividerci, tra reciproche accuse e insulti, mentre il regime di Mubarak, Dio non voglia, riesce a distruggere la rivoluzione una volta per tutte, oppure superiamo le nostre differenze, e ci uniamo ora per raggiungere gli obiettivi per i quali migliaia di egiziani hanno pagato il prezzo del proprio sangue. La rivoluzione continuerà sino a quando l´Egitto sarà libero dal dispotismo, e, se Dio vuole, trionferà. L´unica soluzione è la democrazia.
Copyright © Ala Al-Aswany, 2012 (traduzione di Paola Caridi)

La Stampa 30.4.12
Varsavia 1943 la rivolta del Ghetto minuto per minuto
Tradotto il resoconto scritto subito dopo la guerra dal vice comandante degli insorti Marek Edelman
di Marco Belpoliti


Morto tre anni fa Marek Edelman nacque il 1o gennaio 1920 a Varsavia, dove è morto il 2 ottobre 2009. Dopo avere militato giovanissimo nella Unione generale dei lavoratori ebrei, con l’occupazione della Polonia da parte dei nazisti divenne comandante in seconda (numero uno era Mordechaj Anielewicz) della Zob, l’Organizzazione ebraica di combattimento

Dieci maggio 1943, ore 10 del mattino, in via Prosta, angolo via Twarda, a Varsavia, si aprono i tombini ed esce, armi in pugno, un manipolo di ebrei. Sono i sopravvissuti della Zob, la formazione armata della resistenza, che hanno ingaggiato con i tedeschi un violento conflitto armato durato quasi un mese, dal 19 aprile, e che ora, dopo aver attraversato carponi le fogne della città, immersi nel fango e nella melma, sbucano all’aperto, fuori dal Ghetto e salgono su un camion e s’allontanano. Il Ghetto brucia implacabilmente mentre gli ultimi due gruppi di combattenti resistono fino a metà giugno. Le truppe tedesche radono al suolo le case e uccidono tutti i sopravissuti. L’insurrezione del Ghetto ha mostrato a tutto il mondo che le vittoriose armate hitleriane non sono affatto tali, e che alcune centinaia di uomini possono tenere in scacco l’esercito tedesco e infliggergli consistenti perdite.
La storia di questo episodio, diventato uno dei simboli della Seconda Guerra mondiale, è raccontata, subito dopo la fine del conflitto, in un piccolo libro redatto dal vicecomandante degli insorti, Marek Edelman: Il ghetto di Varsavia lotta, uscito in Polonia nel 1946 e ora tradotto, a cura di W. Goldkorn, dalla Giuntina (pp. 113, € 12), una delle prime testimonianze sulla deportazione e lo sterminio ebraico. Come ricorda nella sua prefazione, un vero e proprio racconto sul racconto, Wlodeck Goldkorn, quando il ventiseienne resistente ebreo polacco pubblica in patria il suo resoconto non esiste neppure la parola Shoah o Olocausto, e il tema dello sterminio non ha ancora trovato i suoi studiosi e le stesse testimonianze sull’evento sono appena agli inizi. Un altro ventenne, Primo Levi, pubblicherà un anno dopo, nel 1947, il suo resoconto della deportazione ad Auschwitz-Monowitz.
Lo stile di Edelman è secco, cadenzato; il racconto, ricco di dettagli, è intessuto di orgoglio ed eroismo. La scelta del tempo presente quale tempo della narrazione mostra come Edelman, figura leggendaria della storia polacca del XX secolo, viva fino in fondo l’attualità perenne di quelle vicende, ed esprima la volontà di perpetuarne la memoria in modo attivo. Il susseguirsi dei fatti è scandito quasi minuto per minuto; lo sguardo del narratore cronachista medievale, essenziale e puntuto – si sposta nei vari punti del Ghetto, entra nel bunker del comando in via Mila 18 (è appena ri-uscito in edizione italiana l’ampio romanzo di Leon Uris, ebreo americano, Mila 18, ed. Gallucci, pp. 868, 19,70, il primo racconto romanzato della vicenda, del 1961), poi sale nelle soffitte, entra nelle case, attraversa le strade; afferra nomi e cognomi dei resistenti, dei feriti, dei morti, per salvarne la memoria. Veloce e istantaneo possiede il ritmo di una cavalcata, con il susseguirsi di scontri a fuoco, azioni, storie minime e minute nel grande affresco del Ghetto, che è storia comune e insieme individuale.
Edelman aveva ben identificato già nel 1946 la tecnica con cui i tedeschi avevano irretito i Consigli ebraici su cui poi s’appunterà l’attenzione problematica di Hannah Arendt nel corso del processo di Eichmann a Gerusalemme, rivelando nel resoconto della lotta il collaborazionismo di una parte degli ebrei polacchi. Scrive: «L’istinto di autoconservazione porta la psiche umana a pensare che l’importante è salvare la propria pelle, anche a costo della vita altrui». La cosa terribile, spiega, è che nessuno, anche in presenza di testimonianze Edelman e i suoi compagni stampano giornali ciclostilati distribuiti ogni giorno -, crede che la deportazione sia la morte. La tecnica dei nazisti di dividere la popolazione in due schieramenti finisce col produrre una situazione in cui «degli ebrei porteranno altri ebrei verso la morte, pur di salvaguardare la propria vita». Parole che sono state a lungo ignorate sino a quando la Arendt, nel 1963 con La banalità del male, e poi Levi, nel 1986 con I sommersi e i salvati, hanno posto il problema della «zona grigia».
Il libro contiene inoltre una storia nella storia, quella che Goldkorn, cronista fedele di Edelman, ci racconta nell’introduzione. Il vicecomandante, eroe della resistenza, non solo verso i nazisti, ma anche contro il regime autoritario e oppressivo istituito dopo il 1945, arrestato, perseguitato fino alla caduta del regime comunista, è avvolto non solo dalla luce radiosa della lotta, ma anche da piccole ombre che Goldkorn racconta con grande delicatezza e precisione, e che finiscono col renderlo ancor più interessante e vero. Come la stessa storia della fuga dal Ghetto attraverso le fogne, con gli uomini lasciati indietro, il rifiuto di portare in salvo con sé le prostitute ebree che avevano accudito feriti e combattenti, con le versioni sempre mutevoli degli episodi.
Una storia politica, scrive il curatore, e perciò sempre in marcia assieme a noi, ma anche una storia umana dalle molte sfaccettature come quella di Wiera Gran, cantante di cabaret nel recinto chiuso di Varsavia, emblematica per quanto riguarda l’uso e la sostanza della memoria. Wiera la cui vita è raccontata da un bellissimo e inquietante libro della scrittrice polacca Agata Tusznska, Wiera Gran, l’accusata, appena tradotto per Einaudi (pp. 316, € 20) è una donna affascinante dalla voce meravigliosa che ammalia gli ascoltatori. Fuggita dal Ghetto, verrà inseguita tutta la vita dalla nomea di collaborazionista che le rovinerà la carriera in Israele e in Europa. Dopo aver cantato con Aznavour e Brel, Wiera, perseguitata dalle voci senza prove, finisce paranoica e folle a Parigi, dove muore nel 2007. Nessuno, neppure Edelman che sapeva, l’ha mai scagionata da quelle infamie. La memoria cambia, dice Goldkorn, e noi con lei. Per questo il suo esercizio, come ci aveva avvisati Levi, è complesso e incerto.

Corriere 30.4.12
Contrastata storia dei gesuiti. Troppo bravi per essere amati
risponde Sergio Romano


Ho appena finito di leggere Credere e conoscere, una discussione tra il cardinale Carlo Maria Martini e il senatore Ignazio Marino, discussione su tematiche alquanto controverse quali l'eutanasia, l'omosessualità, l'inizio della vita ecc. Ho sempre ammirato il cardinale Martini per le sue opinioni liberali, forse troppo liberali per la Chiesa. È mai stata presa in considerazione la sua candidatura al Papato? C'è mai stato un Papa di origine gesuita? Perché chiamano il capo dei gesuiti il «Papa Nero»?
Franca Arena

Cara Signora,
Non sono storico della Chiesa e sono certo che lei avrebbe avuto maggiori informazioni se si fosse indirizzata alla rubrica di corrispondenza di un periodico cattolico (L'Avvenire, Famiglia Cristiana) o, meglio ancora, al nostro collaboratore cardinale Carlo Maria Martini. Ma la sua lettera mi ha incuriosito e ho consultato il sito ufficiale dei gesuiti italiani (Gesuiti.it) dove ho trovato la risposta data a un lettore che aveva fatto una domanda molto simile a quella che lei mi ha rivolto. Eccola:
«Ufficialmente non vi è nessuna regola che proibisca l'elezione di un Papa gesuita. Prova ne sia che padre Martini e padre Bergoglio, cardinali gesuiti, hanno raccolto un certo numero di voti in conclave. Tuttavia, S. Ignazio raccomandava ai suoi di declinare ogni dignità ecclesiastica, quindi a maggior ragione quella di Papa! Pertanto, in caso remoto di elezione di un gesuita, è da supporre che l'eletto non accetti la carica. Comunque, avendo già noi gesuiti il "papa nero" (il nostro generale) è assai improbabile che mai avremo anche un Papa "bianco"».
L'autore della risposta accenna ironicamente all'espressione con cui è stato spesso definito il generale della Compagnia di Gesù, ma non ne spiega le ragioni. Suppongo che la definizione risalga agli anni in cui la Compagnia fu sciolta e cacciata dal Portogallo (1759), dalla Francia (1764), dalla Spagna e dal Regno delle Due Sicilie (1767), e finalmente soppressa dalla Chiesa romana durante il papato di Clemente XIV nel 1773. Vi fu un lungo momento, quindi, durante il quale i gesuiti spiacevano sia ai maggiori Stati europei sia a larghi settori della Chiesa. Avevano fama di essere intraprendenti, insinuanti, maestri nell'arte di aggirare e d'ingannare con le loro capziose argomentazioni. La Compagna sopravvisse clandestinamente, fu ricostituita da Pio VII nel 1814, divenne la migliore alleata del papato contro i moti nazionali del 1848 e fu di conseguenza la bestia nera dei liberali, dei massoni e di tutti i partiti laici degli Stati europei. Furono queste, probabilmente, le ragioni per cui l'espressione «papa nero» ebbe grande popolarità fino al Novecento.
Ma era giustificata per certi aspetti anche dall'abito del suo generale. Ero al Quirinale quando Giuseppe Saragat, presidente della Repubblica, dette un ricevimento in occasione della chiusura del Concilio Vaticano nel dicembre 1965. Le sale del palazzo si riempirono di vescovi, cardinali, patriarchi, abati mitrati, monsignori segreti e sacerdoti di rito orientale in un tripudio di calze viola, berrette rosse, barbe bianche, anelli di viola ametista e croci di lucido argento. Mentre ammiravo quella straordinaria fiera delle vanità religiose vidi entrare nella sala una figura alta e magra, avvolta in una tonaca nera, che creava intorno alla sua persona una piccola isola di deferente silenzio. Era Pedro Arrupe, ventottesimo generale della Compagnia, miracolosamente sopravvissuto al bombardamento atomico di Hiroshima il 6 agosto 1945.

Repubblica 30.4.12
Un pugno per sempre
di Emanuela Audisio


Mi piaceva il nuoto. Mio padre mi disse: i neri non vanno in piscina. Restai deluso, poi capii. Non ci volevano. Se non eri bianco, ti toccava la porta di servizio
Quando lo hanno eletto, tutti volevano sentire la mia storia. Solo che non profumava. Adesso la stanno facendo pagare a lui. La crisi economica è arrivata con Bush, ma pare che sia colpa sua
Malcolm X è su un francobollo, Luther King su una tazza di McDonald, Ali sulle cartoline, io e Smith sulle magliette. Ci hanno ucciso e siamo merce da 20 dollari?
Lo mandarono da noi a trattare. Parlava come ammaestrato. Non ci vidi più, gli dissi: se lei avesse alzato di più la testa nel ‘36, noi non avremmo avuto bisogno di questo ‘68
Sul ring gli misero una bandierina tra le mani, quando capì che la folla lo applaudiva la alzò sempre di più. Lui era l´eroe, noi i traditori. Ma quando rimasi senza un cent, capì e mi aiutò
Lì ho rialzato il pugno Ho spiegato a quei ragazzi che io sono loro Mio figlio è militare, gli dicono che sono stato un traditore. Ecco io non ce la faccio a dire che le cose sono cambiate
Ai Giochi di Mexico ‘68, terzo nei 200 metri, alzò sul podio il suo pugno avvolto in un guanto nero insieme con l´amico Tommie Smith, il vincitore. Contro la discriminazione razziale negli Usa. Quarantaquattro anni dopo, lo sprinter di Harlem è ancora arrabbiato: "Sono stato lasciato solo, ero infetto. Ce la fecero pagare. Ma a volte i rompiscatole fanno la storia"

È l´altro pugno. Quello sinistro. È lui che disse a Tommie: «Bring the gloves». Smith e Carlos. I guanti neri del ‘68. Quelli che sfondarono il cielo di Città del Messico. John arrivò terzo: si mise la maglia nera, i calzettoni scuri, si slacciò la tuta, abbassò la testa. Alzò il braccio, come Tommie, solo più piegato e da un gradino più basso. L´inno americano suonò, quei pugni lo smascherarono. Non era la terra dei liberi, ma degli schiavi. Carlos aveva 23 anni, oggi ne ha 67. Il ragazzo a cui non piaceva il mondo com´era, oggi è supervisor in una high school di Palm Springs dove si entra passando nel metal-detector. Ha i capelli bianchi, la rabbia è sempre nera. Dice: «Mi sento un sopravvissuto. Per anni nessuno mi ha voluto parlare o avere contatti con me. Sono stato lasciato solo, ero infetto. Poi hanno eletto Obama e tutti volevano sentire la mia storia. Solo che non profumava, non era bella».
Lei veniva da Harlem.
«Sì. Da una famiglia di lavoratori. Mia madre era infermiera notturna, mio padre calzolaio. Aveva combattuto nella I guerra mondiale, l´esercito l´aveva trattato come una merda. Così diceva lui. Harlem era viva e violenta. Al Savoy ci venivano a cantare Armstrong e Ella Fitzgerald e nel quartiere la droga, «King Kong», circolava come acqua dai rubinetti. Però i miei mi facevano rigare dritto, avevo anche due fratelli e una sorella. Correvo veloce, facevo a pugni, mi piaceva Robin Hood, ma il giorno in cui mamma mi beccò a casa con una scorta di marijuana furono dolori. Scelsi lo sport sbagliato, mi piaceva il nuoto, volevo attraversare la Manica, chiesi a mio padre quanti neri avessero vinto alle Olimpiadi».
E lui?
«Rispose: nessuno, figlio mio. I neri non vanno in piscina. Restai deluso, poi capii: i neri non possono andare in piscina. Non ci volevano, lo ricordava anche Harry Belafonte: poteva cantare ed esibirsi, ma sempre entrando dal retro. Se non eri bianco ti toccava la porta di servizio».
Però ora c´è Obama.
«Infatti gliela stanno facendo pagare. La crisi è arrivata con Bush, ma pare che sia lui il responsabile del brutto momento dell´economia, mentre è Bush che ci ha portato sul lastrico. Di cosa vuole che sia contento: Malcom X è su un francobollo, il dottor King è su una tazza di McDonald, Ali è sulle cartoline, io e Smith siamo sulle magliette. La cultura pop ci vende con lo slogan: la rivolta degli atleti neri. Atleti? Eravamo persone. Volevamo dignità e rispetto per tutti. Non solo per gli atleti. Non mi fa schifo la commercializzazione, ma la mancanza di informazione e di conoscenza sulle ragioni di quel gesto. Ci hanno ammazzato e ora siamo una merce da 20 dollari? Non solo mi rubano l´immagine, ma anche la storia dietro».
Sempre arrabbiato?
«Molto. Ribollo, anche 44 anni dopo. Mi dicono di stare calmo che adesso i neri nello sport sono miliardari e guadagnano bene. Ma a me cosa frega? Io vorrei che i neri studiassero, si laureassero di più, che andassero all´università perché c´è chi crede nella loro educazione. Invece c´è chi li illude che lo sport è l´unica scorciatoia possibile, anche se spesso non trovano né una carriera né un diploma. E li chiamano campioni questi che vanno a Londra? Giocano sì, corrono come cavalli bendati, obbedienti al padrone, zitti, per paura di perdere la paga. Mai uno sguardo sulla società, stanno al loro posto, non disturbano lo spettacolo. A parte rare eccezioni: ho ammirato Steve Nash, campione di basket bianco, che si è schierato con i Suns contro la legge razziale sull´immigrazione, ma per il resto da Jordan a Bryant è una pena. E Ozzie Guillen, manager dei Marlins, che a Miami ha dovuto chiedere perdono per aver detto che ammirava Castro? Credevo che in America ci fosse diritto alla libertà di parola. Invece ha dovuto inginocchiarsi e prostrarsi e l´hanno anche sospeso. Ha fatto il bambino cattivo. Ve li immaginate Rosa Parks scusarsi perché sull´autobus voleva restare seduta o Muhammad Ali chiedere perdono per le sue parole contro i bianchi. Ha mai visto qualcuno con la testa schiacciata sotto un piede, chiedere: scusi, per favore, mi può liberare da questo peso?».
Lo sport non fa politica: ve lo dissero anche nel ‘68.
«Nel ‘68 eravamo parte di un movimento che doveva boicottare i Giochi per sensibilizzare l´opinione pubblica. Votammo. Ma un sacco di atleti iniziarono a dire: mia madre ci tiene tanto a vedermi ai Giochi, la mia scuola anche. Insomma, alla fine fecero marcia indietro. Erano le prime Olimpiadi a colori, trasmesse in tutto il mondo. Io e Tommie ci mettemmo in testa di fare comunque qualcosa».
La moglie di Smith comprò i guanti.
«Sì. Lui si mise anche una sciarpetta nera e io una maglia per coprire la scritta Usa. E Peter Norman, l´australiano, una spilla di solidarietà. Non mi aspettavo niente di buono, per quello il mio braccio è un po´ piegato, ero pronto a difendermi da un´aggressione».
Vi diedero dei comunisti.
«Venivo dal ghetto di Harlem, vedevo arrivare Fred Astaire a teatro e con il mio gruppo lo accoglievo con un balletto. Lui mi regalava un dollaro d´argento. È stato il primo a darmi una lezione di vita con la parole: voi fate sempre qualcosa per far divertire il pubblico. Da ragazzo a scuola avevo guidato uno sciopero contro il vitto: ci davano pollo alla salmonella. E io avevo sentito parlare Malcom X».
Vi rovinarono la vita.
«Questo sì. Ce la giurarono. Ci dissero che avevamo finito di vivere. Brundage, presidente del Cio, aveva simpatie naziste. Mandarono Jesse Owens nello spogliatoio a trattare. Jesse arrivò e disse: cosa significano questi guanti neri? non sapete che i calzettoni tirati così alti fanno male alla circolazione? Parlava come se fosse stato ammaestrato. Non ci vidi più e gli dissi: forse signor Owens se lei avesse alzato più la testa nel ‘36, noi non avremmo avuto bisogno di questo ‘68».
Era pur sempre Owens, 4 ori a Berlino.
«Sì, certo, ma al rientro dai Giochi aveva dovuto correre contro un cavallo per guadagnare due lire. L´atleta migliore del mondo ridotto a fare un numero da circo? Owens per me era un eroe, gli avrei perdonato tutto e l´ho fatto, anche perché l´ho incontrato anni dopo in lacrime. Era stato dimenticato in un parcheggio alle tre di notte da gente che lo aveva richiesto come ospite e poi senza nemmeno dargli da mangiare l´aveva abbandonato lì al freddo. Se ne era finalmente accorto anche lui, confessò: per loro sono un fantoccio, mi portano alla presentazioni e poi mi fanno sparire, non ho altra visibilità, avessi fatto di più nel ‘36 vi avrei evitato il ‘68. Alla fine l´ha detto. Mentre Bob Beamon mi mise subito in guardia: ti sei rovinato, ora sei fregato, non troverai più una casa».
Ma fu solidale con la vostra protesta.
«Un po´. Ma non si può essere solo un po´ incinta. Ci sono volte in cui o sei dentro o sei fuori. Non quasi dentro. Dico questo: Bob nella finale del lungo ci arrivò all´ultimo salto. Fu a un passo dall´eliminazione. Lo aiutai, lo consigliai: Bob hai visto come fanno gli aeroplani a volare? Prendono velocità. La tua rincorsa fa schifo, è troppo lenta, non andrai da nessuna parte, allenati con noi, vai veloce, aiutati con le braccia e salta. Lo fece e fu record. Non lo sentii più».
E poi ci fu Foreman che alzò le bandierine a stelle e strisce.
«Pappy Gault, il nostro ct della boxe, ci invitò a vedere le finali. Non ci andammo, per un sesto senso, forse. Foreman che era sconosciuto, vinse, gli misero una bandierina tra le mani, l´agitò prima bassa, appena capì che la folla applaudiva l´alzò sempre di più. Ecco il vero eroe che amava il suo paese e non un traditore come Carlos e Smith. I neri tornavano a essere obbedienti e patriottici, l´incubo era finito. God bless America».
Foreman però fu tra i pochi ad aiutarla.
«Sì, lo ricordo anche nel libro scritto con David Zirin, "The John Carlos Story". Quando ero depresso, abbandonato, senza un centesimo, George fu il solo che capì e mi regalò dei soldi. Un altro aiuto venne da Ted Kennedy che mi scrisse una lettera molto commovente».
Nessun altro?
«No. Quando lavoravo al porto di Los Angeles incontrai Rosi Grier, ex giocatore di football, che mi chiese cosa facessi lì. Risposi che avevo una famiglia da mantenere, avrei pulito anche i cessi. Mi scrisse di contattare un numero, mi rispose Tom Bradley, il sindaco di Los Angeles, che cercò di aiutarmi».
Lei fu spiato e controllato.
«Sì, dall´Fbi. Eravamo sovversivi. Inviarono foto di donne a mia moglie dicendo che erano mie amanti. Non voglio dire che fossi un santo, ma nemmeno uno che saltava da una femmina all´altra. Avevamo figli, mi ero ridotto a dare fuoco ai mobili per riscaldare la casa, ma mia moglie Kim diventò paranoica, entrò in depressione, ci separammo. E quattro anni dopo, nel ‘77, si uccise».
Nel 2006 lei volò in Australia per l´addio a Norman.
«Portammo la sua bara con Tommie. Era un ragazzo meraviglioso, un ottimo sprinter, eppure tornato nel suo paese, fecero sentire anche lui un reietto. A nulla servirono le sue lacrime, gli tolsero l´atletica, lo esclusero dalla squadra. Pagava per una spilletta, per il suo senso sociale. Peter iniziò a bere, ad avere problemi, ai Giochi del 2000 a Sydney nemmeno lo chiamarono. Non faceva più parte della famiglia, solo un brutto fantasma. Ricordo che in quei giorni era morto anche Steve Irwin il documentarista australiano sulla natura. Possibile che un uomo che aveva amato gli animali meritasse affetto e un altro come Peter che aveva amato gli uomini invece no?».
Lei ha rialzato il pugno ad Occupy Wall Street?
«Sì. Ho spiegato a quei ragazzi che io sono loro. Bisogna continuare a lottare: per le nuove generazioni. Sa cosa hanno detto a mio figlio che è nell´esercito? Tu, Carlos, sei figlio di un traditore. Senza fare una piega lui ha risposto: se non fosse per mio padre io oggi non sarei qui. Ecco io non ce la faccio a dire che le cose sono cambiate».
Niente yes we can?
«I can´t. Non posso dimenticare. Non ci aiutò nessuno allora. Ora mi chiamano e fanno gli amici, anche Beamon. Ma dov´erano quando bruciavamo all´inferno? Però una soddisfazione ce l´ho. Dicevano fossi solo un attaccabrighe, ma quasi mezzo secolo dopo il mio nome dice ancora qualcosa. Ai rompiscatole capita di fare la storia».

Repubblica 30.4.12
Processo all’America
Gli scrittori accusano "Così ha perso la sua anima"
di Angelo Aquaro


Il "New York Times" ha chiesto ad Amis, Atwood e Doctorow la loro opinione sullo stato della nazione Il responso è impietoso: abusi di potere, scarsa attenzione ai diritti civili e insensibilità ecologica

NEW YORK Processo all´America. Da Martin Amis a Margaret Atwood passando per E.L. Doctorow: le menti migliori della nostra generazione lanciano un urlo dal Nuovo al Vecchio Mondo. Anzi: l´urlo di Mrs. Atwood raggiunge nientedimeno che l´iperspazio per essere raccolto dai marziani caduti sulla Terra. Si tratta di tre meravigliosi racconti che il New York Times ha commissionato per l´annuale riunione del Pen, la convention degli scrittori: qual è l´immagine che, oggi, l´America dà di se stessa?
Bella domanda. Prendete per esempio Martin Amis. Uno penserebbe: l´America di Barack Obama non è la dimostrazione che a un secolo e mezzo dalla guerra civile finalmente s´è lasciata alle spalle l´incubo della segregazione? Macché. «Tutti noi che crediamo nell´eguaglianza civile abbiamo improvvisamente bisogno di essere rassicurati. Mi riferisco naturalmente al caso di Trayvon Martin. Mettete anche da parte, per il momento, quel capolavoro di legge che è Stand Your Ground (che mette alla pari la parola di un killer con quella della sua vittima da sempre senza parole) e rispondete invece alla mia domanda. È possibile, nel 2012, confessare l´omicidio di un ragazzo di 17 anni bianco e disarmato senza essere automaticamente arrestato? Liberate la mia mente confusa, e rispondetemi di sì». La risposta, naturalmente, è no.
Direte: ok, Martin Amis, il maestro de L´informazione e Territori londinesi è pur sempre un americano d´adozione, inglese di nascita, e si sa che i signori del Vecchio Mondo guardano da sempre al Nuovo con lo snobismo di venti secoli di civiltà in più. Sbagliato. Sentite infatti che cosa ha da dire un americano doc come E. L. Doctorow. Altro che l´eccezionalismo americano. «Per conquistare il non-eccezionalismo, quell´ideale politico che renderebbe gli Stati Uniti indistinguibili dagli impoveriti, tradizionalmente antidemocratici, brutali o catatonici stati del resto del mondo, seguite le seguenti istruzioni», sentenzia ironicamente lo scrittore di Ragtime. E giù, novello Swift, eccolo squadernare in "quattro fasi" la sua modestra proposta. Fase uno: «Se siete un giudice della corte suprema, ignorate il primo sacramento di ogni democrazia e sospendete il conteggio dei voti in una competizione presidenziale. E nominate un candidato a vostra scelta». Ecco dunque il peccato originale: la sentenza che diede torto ad Al Gore permettendo la prima elezione di George W. Bush causa dei mali a venire. E infatti. «Fase due. Stabilite che anche le corporation, non meno che gli esseri umani, hanno diritto per il Primo Emendamento di esprimere i loro punti di vista». È il peccato numero due che rischia di infestare già le elezioni in corso: dove i miliardi delle corporation che votano repubblicano rischiano di contare più dei voti del popolo per Obama. Non basta: «Fase tre. Promuovete leggi che proibiscono la contrattazione collettiva». Altro che satira: è cronaca dell´America quotidiana. Come quella descritta nella fase quattro «Se siete un giudice della Corte Suprema, stabilite che la polizia ha il diritto di perquisire e mettere in arresto chiunque».
Sì, il futuro da Grande Fratello disgnato da Doctorow è già qui: l´America è dunque senza scampo? L´immaginifico racconto di Margaret Atwood possiede quantomeno la grazia dell´ironia gentile. La scrittrice canadese descrive l´incontro con i marziani caduti sulla Terra per studiare l´America: «Ha davvero un sapore diverso dagli altri? È o non è il centro del mondo culturale?». «L´America è sempre stata diversa dall´Europa essendo nata come società religiosa e utopistica. Alcuni l´hanno vista come un mondo dei sogni dove tu puoi essere quello che vuoi, altri come un miraggio che ti richiama, ti spolpa e ti delude. Alcuni come una mecca per gli imprenditori creativi, altri come una oligarchia di corporation». E poi, ai marziani che cercano la traduzione su Google, chiedono di un sorso di Coca e naturalmente vogliono farsi fotografare su Instagram, la scrittrice propone la lettura del libro che spiegherebbe questo mistero chiamato America: Moby Dick. E i marziani capiscono al volo la metafora dell´autrice de L´anno del diluvio: fervente ambientalista. «Moby Dick racconta dell´idustria del petrolio. I proprietari del Pequod sono ipocriti rapaci e bacchettoni. Il business sarebbe ammazzare le balene e trasformarle in prodotti energetici. L´amministratore delegato del Pequod, Achab, è un megalomane che vuole annichilire la natura. La natura è sibolicamente rappresentata da una grande balena bianca. Il narratore, Ismaele, rappresenta i giornalisti: e il suo ruolo è mettere in guardia l´America, facendo sapere che è controllata da psicotici che la distruggeranno, perché odiano la natura e non afferrano il fatto che senza di essa moriranno». Che meravigliosa metafora. E il finale ancora di più. «Ok», dicono i marziani, «quando torneremo su Marte apriremo un club del libro americano. Vorremmo leggere David Foster Wallace, Edith Warthon e Raymond Carver e tanti altri. Lei ci vorrà raggiungere in video?». «Sarà un piacere», conclude Mrs. Atwood. «Ogni lettore è amico mio».
Soprattutto questi marziani del New York Times che si ostinano a chiedere - nell´America che cerca ancora se stessa - di cosa parliamo quando parliamo d´America.

Repubblica 30.4.12
Un inedito di John Rawls sull´Almanacco di Micromega
Così i popoli diversi possono vivere in pace
Negli Stati Uniti, a differenza che in Europa, esiste un linguaggio politico unico e una completa disponibilità dei cittadini verso lo Stato federale
di John Rawls


Dunque, il liberalismo politico così come interpretato nella mia opera Il diritto dei popoli lascia agli elettori ed alle loro argomentazioni filosofiche la possibilità di selezionare quale concezione liberale debba essere adottata per la loro unione. Ci troviamo qui dinanzi alla presenza di una divisione del lavoro tra Il diritto dei popoli, da una parte, che fornisce uno schema di formulazione delle norme di diritto internazionale e della prassi politica e, dall´altra, delle decisioni di cittadini liberi ed eguali in società liberali.
Personalmente non ritengo che questa divisione dei compiti, una volta compresa correttamente, risulti poco generosa. È vero che non favorisce alcuna particolare concezione liberale, poiché non ha i caratteri di una dottrina filosofica completa; il suo scopo è tuttavia quello di fornire norme internazionali di condotta per una società dei popoli ragionevole nella quale siano sempre presenti considerevoli differenze di opinione religiosa e filosofica.
Per un popolo liberale il requisito del possesso di un´unica lingua, storia e cultura comune, nonché di una consapevolezza storica condivisa, rappresenta una circostanza rara, se mai pienamente realizzata.
Le conquiste e l´immigrazione hanno causato la mescolanza di gruppi culturalmente diversi e caratterizzati da una memoria storica differenziata, oggi inseriti all´interno del territorio della maggior parte dei governi liberal-democratici contemporanei. Nonostante ciò, Il diritto dei popoli ha inizio con un caso standard – ovvero con quelle nazioni che J.S. Mill ha descritto adoperando il concetto di nazionalità in senso stretto. Forse, se prendiamo le mosse da questo caso standard, saremo poi in grado di elaborare princìpi politici per contesti più difficili. Ad ogni modo, una semplice presentazione che consideri restrittivamente come nazioni soltanto i popoli liberali non merita di essere liquidata in modo sommario. In una materia così complessa come quella di Il diritto dei popoli dobbiamo iniziare con modelli abbastanza semplici e vedere quanto lontano ci conducono.
Un elemento che c´incoraggia a procedere in questa direzione consiste nell´osservare che all´interno di un sistema liberale ragionevolmente giusto è possibile, a mio avviso, far convergere altrettanto ragionevoli interessi e bisogni culturali collettivi con la diversità di background etnici e nazionali.
Procederemo in base all´assunzione secondo cui i princìpi politici propri di un regime costituzionale ragionevolmente giusto ci permettono di affrontare, se non tutti, almeno un ampio numero di casi. Vi saranno senz´altro eccezioni e tenteremo di affrontarle ogni qual volta queste emergeranno.
Un punto sul quale gli europei dovrebbero interrogarsi riguarda, se mi si concede di azzardare un suggerimento, quanto lontano vogliono che si proceda con la loro unificazione. Mi sembra che molto sarebbe perduto se l´Unione europea diventasse un´unione federale come quella degli Stati Uniti. In quest´ultimo caso, infatti, esiste un linguaggio condiviso del discorso politico e una completa disponibilità a passare da una all´altra forma di Stato. Inoltre, non sussiste un conflitto tra un ampio e libero mercato comprendente tutta l´Europa, da una parte, e dall´altra i singoli Stati-nazione, ciascuno con le proprie istituzioni, memorie storiche, e forme e tradizioni di politica sociale.
Sicuramente questi elementi sono di grande valore per i cittadini di tali paesi, poiché danno senso alle loro vite. Un ampio mercato aperto che includa tutta Europa rappresenta l´obiettivo delle grandi banche e della classe capitalista, il cui principale obiettivo è semplicemente quello di realizzare il più alto profitto. L´idea di crescita economica progressiva e indeterminata caratterizza perfettamente questa classe. Quando parlano di redistribuzione, lo fanno di solito in termini di redistribuzione a gocciolamento.
Il risultato a lungo termine di questa politica economica – già in atto negli Stati Uniti – conduce a una società civile travolta da un consumismo senza senso. Non posso credere che ciò è quanto desiderate. Come vedi non mi piace la globalizzazione che le banche e i capitalisti stanno affermando. Accetto l´idea di Mill sullo Stato stazionario così come viene descritto nel la sua opera Principi di Economia Politica (1848). Non m´illudo che questo un giorno accadrà ma che sia – anche se non subito – almeno possibile, e che perciò trovi posto nella mia definizione di utopia realistica.