martedì 1 maggio 2012

l’Unità 1.5.12
Intervista a Susanna Camusso
«Ora basta con i tagli. Intervento pubblico per la ripresa del Paese»
Il segretario della Cgil: la manovra di Monti provocherà altri guai
C’è il rischio di una deriva sociale. La riforma del fisco a favore di lavoratori e pensionati
di Rinaldo Gianola


Susanna Camusso non ha dubbi: «La politica dei tagli del governo Monti ci porterà altri guai, l’idea che le riforme strutturali suscitino automaticamente il risanamento e lo sviluppo non sta in piedi. Aiutiamo il Paese, salviamo il lavoro, le imprese, ridiamo dignità all’intervento pubblico in economia. Lo ha fatto Obama in America, perché non possiamo farlo noi?». Il Primo Maggio, una delle nostre belle feste civili, arriva in un momento difficile: siamo al quarto anno di crisi, la disoccupazione continua a crescere, la spesa familiare raggiunge livelli record, aumentano le bollette e presto c’è l’Imu da pagare. La festa del lavoro è l’occasione per riflettere con il segretario della Cgil sulle condizioni della nostra Italia, sulla qualità della democrazia, sui valori politici, culturali e sociali in cui ancora si riconoscono i lavoratori, i pensionati, le famiglie che sopportano con responsabilità il peso dei sacrifici per salvare il Paese. Segretario Camusso, parliamo tanto di lavoro ma c’è la netta sensazione che abbia perso valore e importanza nella nostra società. È così? «In questi anni è passato un messaggio tutto politico che solo il denaro dà forza, solo i soldi, l’arricchimento individuale garantiscono il successo e per raggiungere questo obiettivo vanno bene le scorciatoie, le furbizie, le protezioni dei potenti, l’evasione fiscale. Chi lavora onestamente, il disoccupato, le donne e i giovani in difficoltà sono colpevolizzati da una “cultura” aberrante che nega la solidarietà, la giustizia sociale, l’aspirazione a diritti fondamentali. Il disvalore del lavoro rende più grave la crisi e accentua drammaticamente le diseguaglianze tra chi sta meglio e chi sta peggio».
Come ne usciamo?
«La Cgil combatte una battaglia perché sia chiaro che il modello economico adottato in Europa e che fa proseliti in Italia è sbagliato e ha fallito. Il neoliberismo ha determinato la crisi in America e noi l’abbiamo copiato, ne abbiamo fatto una versione un po’ raffazzonata che mina le basi dell’Unione Europa. Oggi aumentano pericolosamente la distanze e i conflitti tra i Paesi europei, anziché procedere verso un processo integrativo viene alimentato un disegno disgregativo dell’Europa. La signora Merkel ragiona come se le stessero rubando la merenda. Speriamo nella svolta in Francia. È ora di riscoprire il valore della vecchia mediazione tra capitale e condizioni di vita delle persone che ha consentito al Vecchio Continente di crescere e di vivere in pace. Questo impegno è ancora più urgente per il nostro Paese che ha bisogno di una riscossa morale per fronteggiare un degrado anche civile ormai insopportabile».
In questo degrado inserisce anche la violenza sulle donne?
«Certamente. La violenza che vediamo così chiaramente in questi giorni è il risultato di un deterioramento profondo della nostra convivenza, delle relazioni tra uomini e donne, in cui la stagione del berlusconismo ha avuto un ruolo decisivo. Il messaggio dell’egoismo individualista, del “liberi tutti”, che non ci sono regole da rispettare, è passato in profondità e non è casuale che le prime vittime siano le donne. Parallelamente a questi fenomeni drammatici c’è un’offensiva politica e sociale contro le donne, il diritto alla maternità e al lavoro».
A che cosa si riferisce?
«A interventi legislativi che danno il senso di una guerra alle donne. Siamo partiti dalle dimissioni “in bianco” e siamo arrivati a discutere dei costi della maternità responsabile, delle donne che non hanno la testa per il lavoro, che in un momento di crisi le donne possono stare a casa... Se rimetti in circolo queste idee crei le condizioni per avvelenare la società, per far vincere sempre il più furbo e il più forte. E le donne sono deboli, hanno bisogno della battaglia del movimento, del sindacato, della politica seria».
Non è arrivata l’ora di riscoprire l’intervento pubblico in economia?
«In Europa si sono salvate le banche con i soldi pubblici che, però, non si possono usare per il lavoro, per mantenere il tessuto industriale, per difendere quote di sviluppo. C’è una patologia che impedisce l’indispensabile svolta: è la teoria che il privato sia sempre meglio del pubblico, che l’assicurazione e la sanità privata siano i modelli da perseguire così si può smantellare il welfare statale. Poi ci troviamo i buchi di don Verzè e le curiose vicende di Formigoni».
Dopo quattro anni di crisi che cosa la preoccupa di più?
«La deriva sociale, il rischio che la rassegnazione e la paura spingano molti alla disperazione. Questi elementi, purtoppo, ci sono. Però vedo che la gente, i lavoratori, i disoccupati, gli esodati hanno voglia di lottare. Il sindacato mantiene la sua credibilità, la capacità di stare vicino alla gente che soffre. E la Cgil mantiene alta l’attenzione sui diritti, sulla condizioni di lavoro, sulla democrazia in fabbrica. Deve essere chiaro che non arretreremo sull’articolo 18».
Si nota una ripresa di collaborazione tra Cgil, Cisl e Uil. A che punto siamo? «Il movimento sindacale, pur con tutti i difetti, tiene un alto profilo di fronte all’emergenza. Con Cisl e Uil lavoriamo a livello nazionale e sul territorio per fronteggiare gli effetti della crisi. Penso che dovremo fare una proposta unitaria sul fisco al governo perché non è tollerabile che lavoratori e pensionati paghino il prezzo più alto. Noi della Cgil, poi, pensiamo che lo sciopero generale abbia ancora un valore».
Monti cambierà politica?
«Non mi pare. Però le persone intelligenti possono capire i problemi e le ansie di tanta gente, e possono cambiare idea».
Segretario, il suo primo ricordo della festa del lavoro?
«Il “mio” Primo Maggio nella memoria è Luciano Lama sul palco in piazza del Duomo a Milano che annuncia la liberazione di Saigon. Che felicità! Era il 1975, allora non c’era Internet».

La Stampa 1.5.12
Disoccupati record “In Italia sopra il 10%”
L’allarme Ilo: con i 250mila cassintegrati si superano le statistiche ufficiali
Circa 1,5 milioni di italiani non studia, non fa formazione e non cerca più un posto
La disoccupazione giovanile ha superato nettamente la soglia del 30%
È più che raddoppiata dall’inizio del 2008, quando la crisi finanziaria ha travolto l’economia reale
di Roberto Giovannini


Sempre meno offerte
Con gli imprenditori in crisi, in Italia diminuiscono le offerte dei posti di lavoro in quasi tutti i settori

Dati preoccupanti per un Primo Maggio in cui il lavoro per molti è un miraggio. Confermando sostanzialmente i recenti dati dell’Istat, ieri l’Ilo (l’Organizzazione internazionale del Lavoro, l’agenzia Onu che si occupa appunto del lavoro) ha diffuso il suo report. La scheda che illustra la situazione italiana evidenzia così un crollo del mercato del lavoro nel quarto trimestre del 2011.
Con un tasso di disoccupazione «ufficiale» che raggiunge quota 9,7% (pari a 2,1 milioni di persone che cercano e non trovano un impiego). Ma che considerando i 250mila lavoratori in cassa integrazione potrebbe anche superare la soglia del 10%. Scende anche il tasso di occupazione nella fascia 15-64 anni, al 56,9%.
In più, dice sempre il report Ilo, bisogna fare i conti con l’«allarmante» situazione dei cosiddetti Neet, ovvero le persone Not in Education, Employment or Training, cioè che non studiano, non lavorano e non sono neanche in formazione. Si tratta di quasi 1,5 milioni di italiani. Per quanto riguarda i giovani, la disoccupazione risulta pari al 32,6%, più che raddoppiata dall’inizio del 2008.
I lavoratori che non cercano più lavoro perché «scoraggiati» hanno raggiunto il 5% del totale della forza lavoro, mentre i disoccupati di lunga durata rappresentano il 51,1% dei disoccupati totali. «Seri problemi» esistono anche riguardo alla qualità dei posti di lavoro creati. Dall’inizio della crisi, la proporzione dell’occupazione a tempo determinato e a tempo parziale è aumentata fino a raggiungere rispettivamente il 13,4% e il 15,2% dell’occupazione totale.
Inoltre, il 50% del lavoro a tempo parziale e il 68% del lavoro a tempo determinato non è frutto della libera scelta dei lavoratori, ma è una condizione imposta dall’impossibilità di trovare un impiego migliore e più stabile. Nel suo rapporto generale l’Ilo non manca di sottolineare come le recenti misure di austerità rischino «di alimentare ulteriormente il ciclo di recessione e di rinviare ancora l’inizio della ripresa economica e il risanamento fiscale».
Infatti, la ripresa viene frenata dalla contrazione del consumo privato; e «tale contrazione è aggravata dal fatto che gli stipendi crescono meno velocemente rispetto all’inflazione». La priorità secondo l’agenzia Onu è quella di «trovare un equilibrio sostenibile tra risanamento fiscale e ripresa dell’occupazione. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, infine, nel 2012 la disoccupazione nel mondo colpirà 202 milioni di individui proprio a causa dei contraccolpi delle misure di austerità messe in atto in diversi paesi. Nel 2013 il tasso mondiale sarà del 6,3%.
Numeri allarmanti in un Primo Maggio pesantemente segnato da una crisi, iniziata nel 2008 e di cui, dopo più di quattro anni, non si vede la conclusione. «Sarà il primo maggio - dice il leader della Cgil Susanna Camusso - di un Paese in cui le persone sono sempre più preoccupate della disoccupazione, della difficoltà di reggere con il reddito a disposizione. Ma non c’è un declino ineluttabile, non ci rassegniamo».
Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni esprime preoccupazione per la «miscela esplosiva» che si sta creando. «La gente - spiega è stanca di fare sacrifici, senza un segnale altrettanto chiaro da parte delle istituzioni e della politica. Vogliamo un patto per la crescita in cui tutti facciano la propria parte per favorire il rilancio degli investimenti». «Il principale messaggio - conclude Luigi Angeletti, leader della Uil - è che bisogna ridurre le tasse sulle buste paga, lo strumento più importante per evitare l’acuirsi della recessione e quindi della perdita dei posti di lavoro».

Repubblica 1.5.12
Bersani scalda i motori in vista del 2013 "Pronto a governare con i miei ministri"


ROMA - Il centrosinistra scalda i motori in vista delle elezioni. A Palermo Pierluigi Bersani si dice «pronto a governare il Paese con ministri miei» e poi mette i paletti: «Bisogna partire dal centrosinistra di governo, ma non a tutti i costi perché nel passato abbiamo avuto qualche problema. Centrosinistra di governo vuol dire che oltre ad avere un programma in comune, se i gruppi parlamentari restano divisi, quando hanno un'opinione diversa, votano a maggioranza insieme».

l’Unità 1.5.12
La nostra resterà una Repubblica parlamentare
di Luciano Violante


Caro Direttore,
nella settimana prossima, dopo il voto per le elezioni amministrative, presso la commissione Affari costituzionali del Senato verrà conclusa la discussione generale sulla riforma costituzionale e verranno presentati gli emendamenti.
Si avvierà quindi la seconda fase del lavoro parlamentare destinata all’esame e al voto degli emendamenti e al voto sul testo finale. Dopo i ballottaggi, secondo il calendario approvato dalla Conferenza dei presidenti di gruppo, il testo andrà in Aula per la prima deliberazione del Senato. Riassumo lo stato dei lavori non solo per riconoscere il merito del Senato, ma anche perché é bene che la discussione pubblica su quelle proposte esca dalle secche delle contrapposizioni pregiudiziali e si misuri sui contenuti effettivi della riforma per correggerla e migliorarla. Le norme all’esame del Senato si limitano a correggere alcune disfunzioni cruciali del nostro ordinamento e sono quindi ben distanti dagli intenti delle grandi riforme del passato. In particolare si concentrano su ciò che appare oggi utile per dare autorevolezza al Parlamento e dignità al governo, all’interno del quadro costituzionale vigente. In sintesi: un forte governo e un forte Parlamento. In materia costituzionale ogni intervento è come un sasso nell’acqua, allarga i suoi effetti a tutto o quasi tutto l’ordinamento e quindi va valutato non solo per quello che dispone, ma anche per i suoi effetti sistemici. Perciò critiche, suggerimenti, correzioni non possono che essere benvenuti. Occorre però liberarsi da preconcetti e valutare ciò che davvero è proposto. Mi riferisco in particolare alla lettera di Diego Novelli, pubblicata su l’Unità del 29 aprile scorso, scritta anche a nome di molte importanti associazioni, dove accanto a giuste preoccupazioni e condivisibili obbiettivi si sollevano l’accusa della trasformazione della repubblica parlamentare in repubblica presidenziale. L’ accusa si fonda su dati non veri. Non è vero che il presidente del Consiglio nominerebbe e destituirebbe autonomamente i ministri.
Sia chiaro che lo fa anche il cancelliere tedesco e la Germania è una repubblica parlamentare. Ma la proposta dice una cosa diversa: il presidente del consiglio propone al presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri. Chi decide quindi è il Capo dello Stato, non il presidente del Consiglio. Il premier non ha il potere di sciogliere le Camere, come denuncia Novelli; ma se non ottiene la fiducia può chiedere lo scioglimento e lo scioglimento non può essere concesso se le Camere entro venti giorni, in seduta comune, indicano un nuovo presidente del consiglio dei ministri. Quindi la deliberazione decisiva, come in Germania, spetta sempre e comunque al Parlamento.
Non è vero, infine, che ci sia l’elezione diretta, di fatto, del premier. Basta leggere il testo delle proposte che è allegato alla seduta del 18 aprile della commissione presieduta dal senatore Vizzini, relatore del provvedimento.
Il testo è consultabile sul sito internet del Senato (www.senato.it).

Corriere 1.5.12
Amato: «Non solo forbici I partiti tornino a scuola»
La selezione, i cittadini e i principi della Carta
di Aldo Cazzullo


«Non dovete pensarmi mentre arrivo con i forbicioni in mano...». La notizia che Giuliano Amato si occuperà di fornire al governo «orientamenti» su come tagliare la spesa pubblica può ingenerare preoccupazioni: sin dal 1992, il professore ha fama di una certa severità al riguardo. «In realtà — spiega Amato — gli "orientamenti" non riguardano in generale le uscite dello Stato. Riguardano la legge che finalmente dovrà dare piena attuazione all'articolo 49 della Costituzione: Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
Che a scrivere la legge sui partiti sia chiamato un professore considerato come un giurista réserve de la République, potrebbe sembrare un crudele contrappasso per i partiti stessi. In realtà, Giuliano Amato è un politico a tutto tondo: socialista e riformista; fautore di un approccio specialistico ai problemi, ma anche della riscoperta dell'identità italiana come presidente dell'enciclopedia Treccani e del comitato per la celebrazione dei 150 anni, in continuità con l'insegnamento di Ciampi e Napolitano.
Dice Amato che la riforma dei partiti non passa solo attraverso la riduzione dei costi. Il Parlamento già se ne sta occupando; e il Parlamento è sovrano, «anche se è del tutto legittimo che il governo abbia un orientamento in materia». In ogni caso, non è solo questione di cifre, numeri, quantità. È il principio che va rivisto. «Se spendi 5 e pretendi che ti siano rimborsati 50, è evidente che c'è qualcosa che non va. Se il problema diventa su quali prodotti finanziari devono investire i partiti, è ancora più evidente che c'è qualcosa che non va».
Dovendo fornire «orientamenti» al governo, Amato si ripromette di studiare i meccanismi del passato e quelli vigenti negli altri Paesi. Non lavorerà da solo, ma avvalendosi della collaborazione dell'Isle, l'Istituto di documentazione e studi legislativi, che nel 1999 già produsse «due libroni» di approfondimenti sul tema, al termine di lavori coordinati dallo stesso Amato. Però alla fine la bussola non potrà che essere la Costituzione: «Si tratta di individuare le forme attraverso le quali i partiti consentono ai cittadini di partecipare alla vita politica», spiega Amato. Per cui il finanziamento — per quanto drasticamente ridotto — potrebbe non essere limitato alla sola campagna elettorale. Si può pensare alle manifestazioni. Alle scuole per selezionare e formare la classe dirigente, che un tempo funzionavano e ora non funzionano più. Si può pensare, soprattutto, a forme nuove di coinvolgimento dei cittadini. «Accade spesso che i partiti innalzino gazebo per raccogliere firme. Può essere più utile — sostiene Amato — farlo per aprire discussioni pubbliche su temi specifici, da cui possono venire indicazioni interessanti. L'ha già fatto la Regione Lazio, a proposito del servizio sanitario. Se chiedi a un cittadino se bisogna tagliare i posti letto, tenderà a rispondere di no. Ma quando al termine della discussione ci si rende conto che i posti letto costano moltissimo, e può essere conveniente sostituire la degenza con il day-hospital, l'orientamento cambia».
C'è poi la questione dei finanziamenti privati. È del tutto legittimo — dice Amato — che in una democrazia occidentale i partiti prevedano, per una parte delle loro entrate, una forma di autofinanziamento. Purché tutto sia disciplinato da regole chiare, per evitare le degenerazioni che portarono alla fine della Prima Repubblica. Al riguardo è interessante fare riferimento all'esperienza degli Stati Uniti, «dove la Corte Suprema ha ritenuto di annullare il tetto dei finanziamenti da parte delle società, per evitare di limitare il diritto di esprimere il proprio pensiero politico. Finendo però con il provocare una reazione di segno opposto, che arriva a consentire solo le donazioni da parte di persone fisiche, escludendo quelle da parte di persone giuridiche».
Inoltre, la nuova legge dovrebbe affrontare anche la questione del finanziamento dei sindacati, i quali — fa notare il professore — sinora hanno potuto godere di norme molto vantaggiose, che prevedono prelevamenti fissi dalla busta paga (e non da rinnovare di anno in anno); oltre ad altre forme di finanziamento, legate ai Caf e ai patronati, per le quali andrebbe forse verificata la reale corrispondenza con servizi realmente forniti agli iscritti. Certo, precisa Amato, il problema va affrontato «con grande cautela». È altrettanto certo, però, che se il professore avrà modo di lavorare nei tempi e nelle forme dovuti, anche questo suo ennesimo ritorno potrebbe lasciare traccia.

Corriere 1.5.12
Berlinguer: a noi più tagli che al Tg1, inaccettabile
di Paolo Conti


ROMA — Il Tg3 perde 800 mila euro su un budget di 7,5 milioni previsto per il 2012. Colpa della manovra Rai da 46 milioni di euro. Quando lo ha saputo il direttore Bianca Berlinguer?
«Abbiamo ricevuto una comunicazione in cui ci avvertivano che il budget del nostro Tg avrebbe perso 800 mila euro. Lo sappiamo tutti, alla Rai: è la conseguenza di una raccolta pubblicitaria inferiore al previsto, colpa della crisi».
E quindi avrà saputo che il Tg1, con un budget 2012 da 10,3 milioni, perde solo 200 mila euro...
«Ecco, nessuno in azienda mi ha spiegato questo particolare di non poco conto. L'ho scoperto leggendo il Corriere della Sera. Chiariamo subito un punto. Sono convinta che se un'azienda come la Rai attraversa una forte crisi economica, ciascuno è chiamato a ridurre costi e a fare i dovuti sacrifici. È nell'interesse di tutti che la tv pubblica ritrovi un equilibrio nei conti. Però i tagli devono essere equi, distribuiti con giustizia. Invece chi ha maggiori risorse ha un taglio inferiore e chi è più povero paga di più».
Nella riprevisione di bilancio voi avete -800 mila euro, il Tg1 -200 mila su 10.500 e il Tg2 -400 su 8.900. Il mondo al contrario...
«Io posso dire che non sono assolutamente d'accordo con questa scelta. Soprattutto perché la prima spiegazione arrivata dall'azienda mi sembra incredibile: l'anno scorso siamo riusciti a risparmiare 450 mila euro e così siamo ritenuti in grado di sopportare ulteriori tagli. Stiamo molto attenti alle trasferte, ai collegamenti più costosi che richiedono l'uso dei pullmini. Ripeto: tutti pronti a contribuire al risanamento ma mi sembra veramente ingiusto che chi sa risparmiare venga "premiato" con altri tagli».
Ha avuto occasione di parlarne con Lorenza Lei?
«Appena saputo, ho telefonato alla direzione generale per chiedere un appuntamento. I suoi collaboratori mi hanno assicurato che ci vedremo nei prossimi giorni».
Ha provato a darsi una spiegazione su questo contrasto tra i tagli del Tg1 e quello del Tg3?
«Non riesco a spiegarmelo. Sarei curiosa di capire in base a quali considerazioni e calcoli»
Intanto domani, mercoledì, c'è assemblea di redazione per discutere. Ovviamente c'è preoccupazione. Lei la condivide?
«Naturalmente sì, condivido pienamente i motivi di allarme della redazione, sono preoccupata quanto lo sono i miei redattori. Ho già fatto presente proprio ai vertici aziendali che ci sarebbe stata questa riunione. E che la loro inquietudine è anche la mia inquietudine, per ovvi motivi».
Qualcuno pensa addirittura che un taglio così forte al Tg3 possa nascondere motivi politici...
«È un'ipotesi che non voglio nemmeno prendere lontanamente in considerazione. D'altra parte il Tg3 ha sempre dato, e continua a dare, voce a tutti. Sfido chiunque a dimostrare che il nostro tg non sia pluralista»
Gli ascolti come vanno?
«In questi due anni siamo sempre andati bene. Nel marzo scorso c'è stata una leggera flessione ma generalizzata per tutti i tg, legata a un calo di interesse soprattutto per l'informazione di tipo politico. Ma ad aprile la flessione è già recuperata e chiudiamo in assoluto pareggio rispetto al 2011».
Cosa si aspetta dall'azienda, adesso?
«Che riveda le sue posizioni. Che operi i dovuti tagli ma equamente, con un criterio uguale per tutti»

Corriere 1.5.12
Il bus di Roma con la scritta «Onore al duce»
di Alessandro Capponi


ROMA — Un consigliere comunale mette l'episodio in rima: «Nel primo giorno di maggio/ nel dì in cui il lavoro è celebrato/ un lavoratore poco saggio/ forse smemorato/ confonde la Roma liberata/ con quella dal regime martoriata». La poesia di Giulio Pelonzi del Pd prosegue, ma nessuno se la prenderà se per sintetizzare il fatto si preferisce la prosa: è probabilmente il giorno della Liberazione dal fascismo, 25 aprile, oppure il 28, anniversario della morte di Benito Mussolini: di certo, sul display di un autobus di Roma compare, invece della destinazione della corsa, la scritta «onore al duce».
Nella foto — apparsa sui blog e da lì arrivata ovunque, anche in Campidoglio — sul riflesso del vetro anteriore si vede anche colui che scatta la foto, un uomo corpulento, pelato e con camicia di colore azzurro, lo stesso degli autisti: e di certo si vede il bus, listato a lutto. E mentre l'azienda dei trasporti (Atac) sembra a un passo dal responsabile, la politica litiga: il Pd cita lo scandalo di Parentopoli e accusa Alemanno di aver così «fatto entrare in Atac, senza concorso, centinaia di estremisti di destra», invece il Pdl minimizza, parla di polemiche «senza senso», di «chiacchiericcio» dell'opposizione. Il leader della Destra, Francesco Storace, è l'unico a sorriderne: «È apprezzabile il silenzio di Alemanno sull'episodio. In fondo, si tratta solamente di un camerAtac».
Di certo l'assessore alla Mobilità, Antonello Aurigemma del Pdl, è scuro in volto quando dice che «è un fatto grave, che non solo lede l'immagine dell'azienda del trasporto pubblico della Capitale, ma dell'intera città. È un gesto che non la rappresenta». Per l'autore, Aurigemma chiede «la più ferma applicazione dei provvedimenti disciplinari previsti». E subito l'azienda di trasporti romana annuncia «la sospensione immediata dell'autista, l'apertura di un procedimento disciplinare che può portare al licenziamento e, nel caso in cui gli avvocati individuassero delle ipotesi di reato, un'informativa per la Procura». Hanno già trovato la rimessa (è quella di Acilia, periferia sud della città) e, dicono, non sarà difficile risalire all'autore. Si vedrà. Di certo, a Roma, per tutto il giorno, la politica bisticcia.
Il Pd, con il segretario romano Marco Miccoli, accusa Alemanno: «Con lui lo scandalo Parentopoli ha portato all'assunzione in Atac, senza concorso, di migliaia di simpatizzanti ed estremisti di destra. Quella scritta non è altro che il risultato del malgoverno e della sciagurata e faziosa gestione con la quale questo sindaco ha fatto precipitare non solo le aziende comunali, ma tutta la città. Se i fascisti con Alemanno si sentono padroni di Roma (e anche dei suoi autobus), un motivo ci sarà...». Per il presidente della commissione Mobilità, Roberto Cantiani del Pdl, «è desolante vedere come l'opposizione brilli per un'altra polemica infondata e sgangherata. Non si comprende cosa può essere addebitato al sindaco. Assistiamo a un modo becero e miope di fare opposizione che di certo non fa altro che nauseare i cittadini costretti ad assistere a così tante polemiche senza né capo né coda». Il consigliere Dario Nanni, Pd, non solo annuncia «un'interrogazione», ma mette in relazione quest'episodio «con il grave allontanamento dall'aula Giulio Cesare da parte dei consiglieri del Pdl, pochi giorni fa, durante il minuto di raccoglimento per la scomparsa di Sasà Bentivegna, medaglia d'oro alla Resistenza». Il senatore Stefano Pedica (Idv) chiede che «Alemanno abbia il coraggio di condannare pubblicamente questo gesto», ma per alcuni esponenti Pdl non ce n'è bisogno visto che questi, per dirla con il vicepresidente della commissione Mobilità, Maurizio Berruti, sono «polveroni ignobili contro l'azienda e il sindaco, accuse che non sono solo astruse e bizzarre, ma semplicemente farneticanti». Per la Cgil, quest'episodio che accade nell'ultimo anno del mandato del sindaco, è una «conclusione da basso impero, che un po' fa tristezza e po' preoccupa». Su Twitter stravince l'ironia: «Non parlare al conDUCEnte», «bus mea lux», e «credere, obbedire, obliterare».

Corriere 1.5.12
«Deve mostrare le orecchie o niente carta d'identità»
Foto con il velo, non le rilasciano il documento
di Alessandra Coppola, Gianni Santucci


Il problema, alla fine, pare siano le orecchie: si devono vedere. Il Comune di Tortona, provincia di Alessandria, si appella (interpretando) a una disposizione del Viminale «del 5 dicembre 2005, che in materia di fotografie per documenti dispone che "entrambi i lati del viso devono essere mostrati chiaramente"». La signora Abidi può indossare l'hijab nell'immagine che comparirà sulla sua carta d'identità, ma deve rifare le tre fototessera, spiega un funzionario del Comune, con «orecchie visibili, radice capelli visibili». Curioso. Perché, nel resto d'Italia (a quanto risulta), quel «cavillo» non lo applica nessun altro ufficio dell'anagrafe. E a qualcuno viene spontanea una domanda: vale pure per le suore?
In quel caso no, per le religiose cattoliche si riconoscono le ragioni di culto, avrebbe risposto il funzionario di Tortona al rappresentante dell'Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali presso la Presidenza del Consiglio) che, dopo tre comunicazioni scritte, chiedeva spiegazioni al telefono. «È evidente che questa condotta è contraria non soltanto alle circolari e alla prassi del ministero — osserva Domenico Tambasco, avvocato della donna e legale dell'associazione Tribunale per i diritti dell'immigrato —, ma soprattutto viola l'articolo 19 della Costituzione che stabilisce il fondamentale principio della libertà religiosa. Il caso in questione sembra configurarsi come uno dei primi in Italia di discriminazione istituzionale per ragioni religiose. A questo punto presenteremo ricorso al Tribunale competente per il risarcimento dei danni, e per ottenere giudizialmente il rinnovo della carta di identità».
Riepiloghiamo. Cittadina polacca convertita all'Islam la signora Agata Bernadetta Abidi il 15 febbraio scorso perde la carta d'identità e va al comando dei Carabinieri di Tortona a sporgere denuncia. Il documento le serve urgentemente. «Ho una bambina appena nata — spiega — devo fare le carte per lei, la tessera sanitaria, ne ho bisogno». Benché sia molto distante, quel giorno stesso la signora si reca negli uffici dell'anagrafe. Compila i moduli, si mette in fila. Le fototessera ce le ha già, le ha usate per la patente e per il permesso di soggiorno. L'hijab verde come i suoi occhi era pure sulla carta d'identità smarrita, rilasciata dall'anagrafe di Mortara, provincia di Pavia, dove viveva fino a due anni fa.
«Non posso accettare foto con il velo», le dice l'impiegata. La signora Abidi è stupita, chiede spiegazioni. «Mi sono convertita all'Islam quando ho conosciuto mio marito, tunisino — racconta —. Dopo il matrimonio ho scelto di mettere il velo. Non ho mai avuto problemi di questo tipo, né a Mortara né a Tortona». Eppure.
«Parli con il mio superiore», continua infastidita l'impiegata, due sportelli più avanti. Un altro rifiuto: «L'uomo mi ha detto che era la legge a stabilirlo — ricorda Agata —, e che me l'avrebbe mostrata». La signora ci riprova una seconda volta, qualche giorno dopo. Identico copione.
La terza volta all'ufficio anagrafe l'accompagnano anche i figli e il marito, Fathi Abidi, che intanto si è documentato e (su suggerimento dell'avvocato) mostra al funzionario due circolari del Viminale in cui si spiega che «il turbante, il chador o anche il velo, come nel caso delle religiose, sono parte integrante degli indumenti abituali e concorrono, nel loro insieme, ad identificare chi li indossa, naturalmente purché mantenga il volto scoperto. Sono quindi ammesse, anche in base alla norma costituzionale che tutela la libertà di culto e di religione, le fotografie con il capo coperto da indumenti indossati purché, ad ogni modo, i tratti del viso siano ben visibili». Gli impiegati «non vogliono neanche leggere», dicono gli Abidi.
A questo punto, l'avvocato presenta denuncia all'Unar e chiede al Comune di rinnovare entro tre giorni il documento. Passano settimane, nessuna risposta da Tortona. Unar fa una nota scritta e due solleciti. Il 5 aprile arriva la replica che ribadisce il rifiuto e introduce la regole delle orecchie. Confermata anche al telefono. L'assessore con delega alle Pari opportunità, Emanuela Patta, manda all'Unar una lettera in cui si parla di «fraintendimento», ma la signora Abidi resta ancora senza documenti.

il Fatto 1.5.12
Gli estremisti del 25 aprile
risponde Furio Colombo


Caro Colombo, il presidente della Regione Lazio, Polverini, e il sindaco Alemanno non sono stati accolti alla celebrazione romana della Liberazione. Molti giornali hanno intitolato: “Hanno vinto gli estremisti”. Dunque adesso essere antifascisti vuol dire essere estremisti?
Umberto

CREDO CHE la titolazione, giustamente notata come paradossale da chi ci scrive, sia dovuta a quella ossessione di star lontani dalle grane che per 17 anni (gli anni di governo diretto e indiretto di Berlusconi) hanno gravato sul Paese, rendendolo ridicolo nel mondo. Lui andava e veniva con carichi di passeggere "under age" (sospette minorenni) sia da villa Certosa che da Arcore, con viaggi di Stato e scorta di polizia, e i grandi commentatori di prima pagina analizzavano ogni volta, minutamente, la crisi della sinistra a partire dalla Terza internazionale. Adesso il caso era semplice. I dirigenti dell'Anpi, l'associazione degli ex partigiani e dei più giovani che ne hanno preso il posto, hanno detto "fascisti no". Sarebbe come far sfilare a Washington le bandiere "confederali" di quella parte d'America, sconfitta e cancellata, che era in favore della schiavitù dei neri. La storia ha i suoi capitoli. Monarchia assoluta? Sconfitta, cancellata, chiusa, vietato celebrarla. Schiavitù? Condannata, abolita, sconfitta militarmente, espulsa dalle leggi, considerato reato ogni celebrazione, capitolo chiuso. Fascismo e nazismo? Hanno distrutto l'Europa e una parte dell'Asia, tentato fino alla fine lo sterminio del popolo ebreo, tentato di diffondere dottrine di sopraffazione e di morte, accumulato milioni di morti. Tutto il mondo democratico ha combattuto quei mali, tutto il mondo democratico ha vinto, tutto il mondo democratico non permette di rimetterlo in circolazione, benché criminali come Breivik siano ancora in giro e portino ancora morte. Volete che alla festa della lotta di liberazione contro il fascismo ci siano anche coloro che dal fascismo, e dai loro amici picchiatori ed eredi diretti del fascismo, non si sono mai allontanati? Sembra necessario e logico, ma anche giuridicamente corretto dire di no. È estremismo? Se lo è, si può rispondere con la frase di un importante uomo della destra americana negli anni Sessanta, il senatore Goldwater: “L'eccesso di amore per il proprio Paese non è vizio, è virtù”. Noi parliamo del Paese libero e democratico Italia e della sua Costituzione nata dalla Resistenza. Di questi tempi non sei mai partigiano abbastanza.

l’Unità 1.5.12
Intervista ad Alain Touraine
«La sfida di Hollande è la costruzione di un’Europa sociale»
Il sociologo «Per salvare l’eurozona è necessario colmare un vuoto politico:
gli elettori percepiscono l’Ue come strumento di un capitalismo speculativo»
di Umberto De Giovannangeli


L’orizzonte progettuale evocato da François Hollande è quello di una nuova sinistra riformista. È questo il primo elemento di fondo che emerge dalla campagna presidenziale del candidato socialista. L’altro, e non meno importante, è quello relativo alla posta in gioco, che va ben oltre i classici confini di un’alternanza di governo sinistra-destra, ricchi-poveri... La posta in gioco è la costruzione-salvataggio dell’Europa, e più precisamente dell’area euro». A sostenerlo è uno dei più autorevoli intellettuali di Francia: Alain Touraine. «In questa chiave europeista, il successo di Hollande rimarca Touraine sarebbe ancora più significativo se la nuova sinistra riformista e filo-Europa, oltre che in Francia, si affermasse anche in Italia e Germania, nelle elezioni del 2013. La combinazione di questi tre Paesi potrebbe avere un effetto trascinamento di altri e costruire un argine potente, e riequilibratore, alla finanza globale che gioca contro l’economia europea».
«François Hollande è l’unico candidato che nel suo progetto cerca di difendere e rafforzare l’integrazione europea e, insieme, la politica sociale della sinistra, in particolare verso i ceti più deboli. Questa è la grande sfida di Hollande: costruire un’Europa “sociale”, oltre il monetarismo. Il suo, a ben vedere, è un progetto che riprende e sviluppa l’idea di Europa che è stata di Jacques Delors. Bruxelles ha spesso dimostrato una cecità incredibile. Non c’è bisogno di essere un professore di economia per capire che una moneta comune ha senso solo se si basava su politiche fiscali nazionali, almeno coerenti. Il risultato di questo vuoto del progetto europeo è che molti elettori ancora percepiscono la costruzione dell’Europa come uno strumento di un capitalismo puramente speculativo».
Come superare questo orizzonte?
«Mi pare che il progetto-Hollande indichi con sufficiente nettezza i due pilastri. Il primo è la costruzione salvataggio dell’Europa, più precisamente l’area dell’euro. Il secondo è pilastro è più tipicamente sociale: Hollande prova a rimettere al centro dell’agire politico e di governo. una ridistribuzione del reddito nazionale a favore delle classi sociali che hanno perso molto terreno dal trionfo del neoliberismo nel 1970 e in particolare dall’inizio della crisi finanziaria, monetaria ed economica esplosa nel 2007. L’aumento delle disuguaglianze sociali rappresenta attualmente la più seria minaccia alla stabilità e alla coesione dell’Unione europea e dei suoi membri. E qui rientra in gioco l’Europa».
In che senso, professor Touraine?
«La crisi che, sia pur in termini e dimensioni diverse, ha investito la Grecia, il Portogallo, l’Italia, la Spagna, la stessa Francia, sta a dimostrare che la dimensione europea è decisiva, perché è a livello sovranazionale che si determina un controllo dell’economia. E a livello europeo che occorre riorientare la crescita. Le risposte fin qui fornite dai governi nazionali e dalle istituzioni europee, si muovo ancora dentro un orizzone angusto, limitato: quello della sopravvivenza».
Siamo dunque ancora all’«anno zero» di un’Europa che va oltre la sopravvivenza?
«Non sarei così tranchant. Nel 2011 sono stati ottenuti importanti risultati, ma ancora insufficienti. Il più importante è quello è quella che ha portato i tedeschi, nonostante la resistenza della Bundesbank, ad accettare non solo il salvataggio della Grecia, ma anche la politica avviata dalla Banca centrale europea guidata da Jean-Claude Trichet, politica sviluppata dal suo successore alla Bce, Mario Draghi».
Come rientra questo discorso sulle presidenziali francesi?
«I francesi hanno compreso di non essere al riparo dalla crisi. Avvertono il limite, oltre che gli squilibri sociali, provocati da una risposta che si fonda solo sull’austerità. La Francia ha bisogno di una ripresa della crescita, che è parte fondamentale dell’assoluta necessità di ridurre il peso del debito sovrano e del nostro deficit di bilancio. Sarà questo l’impegno prioritario nell’agenda presidenziale di Hollande: coniugare crescita e austerità, difendere l’Europa e al tempo stesso i lavoratori. Ma per vincere questa sfida, la Francia ha un bisogno vitale di una attiva e responsabile l’Europa così come i francesi hanno bisogno di una politica sociale a sinistra. Ad un livello ancora più alto, dobbiamo creare una nuova politica globale che combini l’aumento del tenore di vita nei Paesi emergenti e in quelli poveri, con una politica di re-industrializzazione della Francia che deve, come la Germania, esportare di più e prodotti più industriali per i Paesi in crescita: è bene ricordare che l’80% del commercio mondiale è costituito da prodotti industriali».
Possiamo guardare al dopo 6 maggio con ottimismo?
«Stiamo ancora attraversando un guado, le acque continuano ad essere agitate, ma alle spalle ci stiamo lasciando la stagione dominata dal potere degli speculatori. Il successo di François Hollande non risolverebbe tutto, è chiaro, ma renderebbe possibile una politica sia di giustizia che di crescita. Possiamo finalmente sbarazzarci dell’idea che siamo condannati al declino e la perdita di fiducia in noi stessi. Niente è risolto, ma il recupero è possibile. D’altro canto, è la prima volta nella storia della Quinta repubblica che un candidato  della sinistra è un convinto europeista. Hollande ha affermato più volte che dall’Eliseo porterà avanti una politica di sinistra ma anche una politica funzionale alla costruzione dell’Europa. Per questo l’ho votato. So bene che Hollande non è un uomo politico geniale, ma non è di questo che oggi abbiamo bisogno. Ciò che serve alla Francia, e all’Europa, è un politico in grado di scegliere le soluzioni buone e scartare quelle sbagliate. Se quest’uomo diventa presidente dellla Repubblica, è l’unico nelle condizioni di avere presa sia sull’Europa che sui lavoratori. Non è cosa da poco».
Lei ha affermato che il «sentimento più forte che avverto in Francia è l’«antisarkozismo».
«Si tratta di una crisi di rigetto. Lo detestano perché ha fatto promesse che non ha mantenuto. Sarkozy è il presidente che più di ogni altro ha indebitato la Francia. Nicolas Sarkozy è tutto, meno che un presidente: un uomo d’azione, un teatrante, un gran bugiardo. Adesso che uscirà di scena, andrà a fare soldi con i suoi amici ricchi».

Corriere 1.5.12
Eliseo 2012
Perché il voto conta (anche per noi)
di Sergio Romano


Tutte le elezioni europee dei prossimi giorni e dei prossimi mesi — in Francia, in Grecia, nei Paesi Bassi — saranno italiane; e le elezioni italiane del 2013 (se non commetteremo l'errore di anticiparle) saranno contemporaneamente francesi, spagnole, tedesche. Intendo dire che non vi è elezione dell'Unione Europea, e soprattutto dell'Eurozona, che non abbia immediate ripercussioni su ogni suo membro. Non siamo uno Stato federale, ma il quadro europeo comincia a presentare qualche somiglianza con quello degli Stati Uniti dove il voto della California non può essere indifferente per il Texas o il Massachusetts.
Questa constatazione è particolarmente vera per i rapporti italo-francesi. Da sempre, e in particolare dalla nascita dello Stato unitario centocinquant'anni fa, le relazioni italo-francesi sono un complicato intreccio di ammirazione, invidia, paure e dispetti reciproci. L'Italia deve la sua unità anche alla Francia, ma Cavour morì, nel giugno 1861, senza la soddisfazione del riconoscimento che il nuovo Regno ancora attendeva dalla Francia di Napoleone III. La conquista francese della Tunisia, dove vivevano 30.000 italiani, fu per l'Italia un trauma nazionale. Francesco Crispi vedeva nei democratici e nei repubblicani una quinta colonna francese all'interno della società politica italiana. Per la Francia ogni iniziativa dell'Italia nel Mediterraneo e in Africa era una pericolosa invasione di campo da contrastare e sabotare con le armi della diplomazia. Dall'avvento di Mussolini al potere sino alla Seconda guerra mondiale, i governi di Parigi temettero che le Leghe (le associazioni di estrema destra sorte nella prima metà degli anni Trenta) fossero le avanguardie di un movimento fascista; mentre i fuoriusciti italiani in Francia erano per il regime l'arma segreta della III Repubblica contro il governo di Mussolini. Vi furono anche momenti di forte sintonia e collaborazione durante la Grande guerra, quando i due Paesi erano alleati, e dopo la Seconda guerra mondiale, quando a Roma e a Parigi i governi ruotavano intorno a due importanti partiti cattolici. Ma non appena De Gaulle tornò al potere, nel 1958, quasi tutti i partiti italiani, dalla Dc al Pci, sentirono odore di caserma e videro nella Quinta Repubblica l'anticamera di un regime autoritario. Potrei ricordare altri casi in cui Italia e Francia non furono sulla stessa lunghezza d'onda, ma il più interessante probabilmente è quello dei rapporti con la Libia. Quando Gheddafi cacciò gli italiani e Aldo Moro, ministro degli Esteri nei governi Rumor e Colombo, dovette affrontare momenti difficili, il governo francese vendette aerei Mirage a Tripoli. Più recentemente, quando l'Italia era il maggiore partner internazionale della Libia, la Francia ha dichiarato guerra a Gheddafi.
Ho sempre pensato che questa lunga lista di screzi e bisticci fosse il segno di una particolare affinità. La storia di ciascuna delle due nazioni è strettamente intrecciata con quella dell'altra. Le loro relazioni sono una lunga sequenza di furti reciproci. I due Paesi si sono scambiati, o rubati, grandi personalità della politica e della cultura, tesori d'arte, modelli artistici, politici, letterari e istituzionali. Esiste un laboratorio francese, a cui l'Italia ha largamente attinto, ma esiste anche un laboratorio italiano che può influenzare la vita politica e culturale francese. Ciascuno dei due Paesi, anche se preferisce non ammetterlo, sa che le scelte dell'altro possono attraversare la frontiera e contagiare, nel bene e nel male, la propria società. È questa la ragione per cui spero che non smettano di fare, quando vanno alle urne, scelte europee.

Corriere 1.5.12
Eliseo 2012
Sinistra, duello tra responsabili e radicali
l’ala estrema ha sempre avuto come obiettivo l’opposizione ai riformisti
di Jean Marie Colombani


L a Francia va a destra, il voto a sinistra: sarà anche questa, indubbiamente, una delle lezioni uscite dalle urne dell'ultima tornata elettorale presidenziale. Malgrado uno spostamento a destra della società francese, che si nota soprattutto nell'aumento dei voti a favore dell'estrema destra, è il candidato socialista ad avere le maggiori probabilità di vincere e di battere Nicolas Sarkozy.
Il presidente uscente, nella campagna per il ballottaggio, ha ripetuto gli stessi errori di Jacques Chirac nel 1988: è partito in quarta alla ricerca dei voti lepenisti, argomento che divide profondamente i francesi, mentre François Mitterrand si ergeva in veste di grande unificatore della nazione, atteggiamento assunto oggi da François Hollande. Quest'ultimo, come Mitterrand, ha capito che è inutile tentare di sommare la destra all'estrema destra, perché la Francia non è un paese livellato, bensì diversificato. L'elettorato francese non è omogeneo, ma decisamente eterogeneo. Ormai è difficile identificare una Francia di destra e una Francia di sinistra: in tutte le correnti si nota la ricomparsa di tematiche dominate dalla morale, e non pochi candidati si esprimono quasi fossero dei predicatori. Ma soprattutto c'è la crisi che si trascina dietro quelle pulsioni populiste che vanno diffondendosi in tutta Europa, in Olanda come in Finlandia, in Bulgaria come in Ungheria, in Austria e in Francia. In questo contesto la sinistra gode semplicemente del vantaggio di incarnare l'alternanza.
Ma di quale sinistra stiamo parlando? Quella in arrivo, nonostante Mélenchon, è decisamente socialdemocratica, e si incarna in François Hollande, egli stesso all'incrocio di due retaggi: da una parte, Jacques Delors, accanto al quale ha iniziato la sua carriera politica; e dall'altra Lionel Jospin, quando questi era primo ministro e Hollande segretario del Ps. E difatti per il quinquennio a venire — già segnato in partenza dalla gestione della crisi e dall'assoluta necessità di imboccare la strada verso il risanamento dei conti e il pareggio di bilancio — François Hollande propone uno schema rovesciato rispetto a quello della sinistra tradizionale. Un'inversione di marcia coraggiosa e impressionante, che consiste non nel distribuire benefici alle categorie che lo hanno portato al potere e che aspettano la spartizione, bensì nel chiedere loro di pazientare. Innanzitutto, dice Hollande, bisogna rilanciare la crescita economica, e solo quando questa sarà nuovamente ben avviata si potrà pensare a una certa ripartizione. La sinistra al potere in Francia ha sempre portato avanti grandi riforme emblematiche, anche se andava subito a scontrarsi contro il muro della realtà. Due anni per accontentare e da tre a cinque anni per tappare i buchi. 1936: le ferie pagate; 1981: in pensione a 60 anni; 1997: le 35 ore lavorative. Stavolta no.
Il programma di Hollande, che ben si addice a una sinistra responsabile, ha scavato però il baratro in cui è andato a cacciarsi Jean-Luc Mélenchon. Costui infatti, in campagna elettorale, ha ribadito i temi che erano, ieri, del partito comunista, e che oggi appartengono alla sinistra trotzkista, facendo leva su rancori e nostalgie di lotta di classe, con una fiscalità concepita come punizione («Gli svuoterò le tasche», tuonava Mélenchon parlando dei ricchi; e rivolgendosi ai banchieri li minacciava «Abbiamo i vostri indirizzi!»). Il suo sogno era quello di ritrovare una forza paragonabile a Georges Marchais nel 1981 (15 per cento). E' rimasto tremendamente deluso. Ad ogni modo, non c'è dubbio che, persino all'11 per cento, le intenzioni di Jean-Luc Mélenchon siano proprio quelle di fare l'opposizione di sinistra a François Hollande. La speranza invece di Hollande è di poter nuovamente separare il partito comunista da Mélenchon.
Il voto a Mélenchon è l'espressione di una tradizione che resta forte in Francia, quella di una sinistra radicale che, in fondo, non ha mai rinunciato alle sue finalità ultime, la rivoluzione, e si è sempre opposta alla sinistra riformista. Sarà importante, per Hollande, ristabilire nuovamente una separazione tra trotzkisti e comunisti, per non correre il rischio di dover affrontare, una volta eletto, tre opposizioni contemporaneamente: della destra, dell'estrema destra e della sinistra radicale.
La tradizione vuole che, una volta arrivati al potere in Francia, ci si congratuli dicendo «Finalmente cominciano le difficoltà!». Per François Hollande, bisognerà prendere l'espressione alla lettera.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere 1.5.12
Eliseo 2012
Destra, il fascismo non abita più qui
Ma il mix fra populismo e rivoluzione espone a rischi la democrazia francese
di Pierre Milza


Per chi osserva da parecchi decenni il posto che occupa la destra radicale e protestataria nel paesaggio politico francese, grande è la sorpresa nel constatare l'assenza quasi generale di riferimenti al «fascismo» nella campagna per le elezioni presidenziali del 2012. E questo non perché i diversi candidati e i loro sostenitori mediatici non abbiano usato e abusato della violenza verbale in un discorso la cui tematica si nutre dell'evocazione onnipresente dei «valori della Repubblica». Ma del fascismo, tante volte utilizzato per stigmatizzare a sinistra ogni supposta deriva dell'avversario di destra, non si parla più.
Eppure quante volte dopo la guerra si è evocato, al minimo fremito elettorale, il pericolo dell'arrivo al potere dei «fascisti»? Prendiamo un solo esempio: la designazione, nel 1958, del generale de Gaulle a capo dello Stato, considerata dai comunisti, e da una parte della sinistra, come il preludio di una fascistizzazione della Francia. De Gaulle ha potuto in seguito stabilire istituzioni di cui nessuno oggi contesta il carattere democratico, ha potuto porre fine alla guerra d'Algeria e poco mancava che venisse ucciso da un commando di estrema destra; e tuttavia per lunghi anni è stato il bersaglio, insieme con il movimento gollista e la V Repubblica, di una sinistra che si accaniva a presentarlo — e con quanta virulenza! — come un Mussolini francese.
Quello che sorprende di più è la difficoltà che molti nostri compatrioti hanno avuto a riconoscere che se il fascismo, stricto sensu, era effettivamente nato in Francia prima della Grande Guerra, non era riuscito ad attecchire, fosse solo per il fatto che probabilmente esisteva una differenza di natura tra l'ideologia fascista e i movimenti nazionalisti e autoritari che si erano sviluppati in Francia fra le due guerre. Siamo stati numerosi, in Francia, fra storici e politologi, a dirlo, e a sollevare al tempo stesso un'ondata di ingiurie e di sospetti.
In tali condizioni, come non rimanere sorpresi dal silenzio odierno? Si sarà capito che la mia domanda si applica principalmente al Front National di Marine Le Pen, di cui sappiamo che oggi rappresenta oltre il 18 per cento dei suffragi espressi e arriva in terza posizione fra i candidati alla presidenza della Repubblica. In altri tempi, l'ondata «blu marine» avrebbe mobilitato grandi folle sul tema dell'«antifascismo». Oggi non è certo così e forse non è inutile chiederci perché.
E' un effetto generazionale legato alla scomparsa di una classe d'età che ha conosciuto la guerra, l'occupazione tedesca e il regime del maresciallo Pétain? E' una preoccupazione legittima, da parte della sinistra socialdemocratica e della destra repubblicana, di non lasciarsi più intrappolare da un «antifascismo» che, fino a poco tempo fa, è stato uno strumento di mobilitazione degli elettori, e dei militanti? O ancora è il naufragio delle tesi nauseabonde sviluppate a partire dal 1945 dai sostenitori di un negazionismo con cui i dirigenti del Front National hanno spesso flirtato?
Probabilmente, è un pò di tutto questo. E c'è da aggiungere il cambiamento di leadership alla direzione del Front National e gli sforzi prodigati da Marine Le Pen per far dimenticare a chi l'ascolta le derive verbali di suo padre e nascondere, dietro a un discorso ultra-populista, la permanenza dei fondamentali del nazionalismo francese.
Ma è forse per questo che il rischio di una deriva fascistizzante della democrazia francese, finora piuttosto mitica, non esiste? Penso, al contrario, che probabilmente non sia mai stato così presente come oggi. E che occorra osservare con molta attenzione quello che accade dalle parti della sinistra populista e della potenza di una corrente, nuova nella storia delle destre in Francia, che fa chiaramente appello a riflessi rivoluzionari. Penso al Fronte di sinistra, il cui risultato alle presidenziali, sebbene sia stato meno importante di quanto annunciassero i sondaggi, è comunque un successo, e se i suoi attuali dirigenti non hanno molto a che vedere con il fascismo, il movimento che hanno creato può perfettamente sfuggire, un giorno all'altro, alla loro vigilanza. E alla nostra. La Storia ci ha insegnato che il fascismo era stato, ai suoi inizi, la ricerca di una sintesi fra nazionalismo e rivoluzione. Non dimentichiamo la lezione.
(Traduzione di Daniela Maggioni)

Corriere 1.5.12
Eliseo 2012
«L'euro non potrà reggere senza un'Europa federale Con Roma e Parigi al centro»
Secondo Attali, senza crescita la moneta unica è destinata a implodere «Parigi l'ha capito. E Monti sa che non bastano le politiche di mercato»
di Federico Fubini


Jacques Attali quasi scalpita per dire la sua. Consigliere per dieci anni di François Mitterrand all'Eliseo, presidente della commissione «per la liberazione della crescita» voluta da Nicolas Sarkozy e nella quale lui stesso invitò Mario Monti, autore di un libro del 2010 in cui prevedeva la crisi sul debito di Roma («Come finirà? L'ultima chance del debito pubblico», Fazi), Attali conosce troppo bene i legami fra Francia e Italia per pensare che il voto per l'Eliseo riguardi solo il suo Paese.
C'è una lezione che si fa sentire oltre i confini della République?
«Dall'intera stagione elettorale emerge la tendenza, molto forte in Europa, al rifiuto di politiche imperniate solo sull'austerità. Non è un'inclinazione francese, è un fenomeno esteso a molte aree d'Europa. Ed è comprensibile, perché senza una politica per la crescita l'euro è destinato a implodere».
Teme che troppa austerità possa distruggere la moneta unica?
«Senza una svolta per lo sviluppo, l'euro non può durare a lungo. Ma dobbiamo accettare l'idea che non ci sarà crescita senza federalismo europeo. Francesi, italiani, e tutti gli altri: siamo a un bivio, dobbiamo compiere scelte chiare. E in questo la dichiarazione di Mario Draghi (presidente della Banca centrale europea, ndr) per un patto di crescita va nella direzione giusta».
Dunque il voto alle estreme in Francia e la tendenza all'antipolitica in Italia non è contro l'Europa in astratto ma contro le scelte oggi praticate in Europa?
«Al primo turno delle presidenziali molti hanno votato contro l'euro così come esiste oggi. Questo non significa che sarebbero contro un'Europa più attenta alla crescita. L'alternativa è sempre più chiara: senza Europa federale non può esserci crescita e senza crescita l'euro non tiene. Non serve un'Europa ideologica, serve un'Europa della necessità. Nei prossimi cinque anni dobbiamo scegliere tra il federalismo europeo o sparizione della nostra moneta».
Intanto pare che nei nostri Paesi la Germania sia sempre più impopolare.
«Bisogna vedere quale Germania. La Germania è molteplice, ha accettato a Maastricht la condivisione della moneta, ora gli altri Paesi devono accettare di condividere con lei il controllo delle politiche di bilancio. Questo è stato capito a Berlino prima che altrove. La Germania comincia a rendersi conto che senza un passo politico in avanti l'euro sparirà e per ragioni storiche ha meno ego nazionale della Francia. Dunque si trova all'avanguardia nel poter accettare il federalismo europeo. Ma anche la Francia capisce che l'euro è in pericolo e questo favorirà un avanzamento».
Gli elettori restano riluttanti. Vede analogie fra chi vota Front national in Francia e chi vota Lega in Italia?
«Sì e no. La Francia è centralista, la sola identità è quella nazionale, dunque chi vota per Marine Le Pen risponde a una linea diversa da quella della Lega. Ma è vero che la composizione sociale dell'elettorato è simile. È una base rurale, operai, gente che si sente minacciata nel proprio modo di vivere».
Non teme che la riluttanza dei politici a parlare con franchezza sulla realtà dei problemi alimenti il populismo?
«Gli uomini politici non possono dire tutto, perché il loro obiettivo è di farsi eleggere. Ma non per questo devono insultare il futuro come alcuni di essi fanno. Abbiamo fatto dell'Europa il capro espiatorio, l'avversario ufficiale della crescita, l'Europa ormai è colpevole di tutto, da Schengen in poi. Questo vuol dire insultare il futuro».
Crede davvero a una congiuntura politica, in Francia come in Italia, che avvicini l'obiettivo di un federalismo europeo?
«In Italia le circostanze politiche sono completamente diverse rispetto alla Francia. Il presidente del Consiglio è il mio amico Mario Monti, e spero che lo resterà a lungo. Monti può dare un contributo importante a un'Europa federale, ma non solo per politiche della concorrenza. Servono anche politiche industriali, politiche sociali. Non si può fare l'Europa solo con politiche di apertura del mercato e sono sicuro che Mario Monti capisca questo aspetto».
Eppure sia l'Italia che la Francia hanno perso quote di mercato all'export. La competitività non è un problema?
«Assolutamente sì, è un elemento comune ai nostri due Paesi, anche se l'Italia ha perso meno competitività rispetto alla Francia. Lo si vede dall'avanzo che avete nel bilancio pubblico prima di pagare gli interessi. E lo si vede dalla bilancia delle partite correnti (al netto della bilancia energetica, ndr). Ma bisogna anche dire che l'euro è sopravvalutato. È per questo che serve una strategia industriale complessiva che coinvolga il settore dell'energia, le telecomunicazioni, la ricerca, l'economia verde, le piccole e medie imprese. Tutto questo non può succedere su scala nazionale. Va fatto su scala europea».
Perché lei è pessimista al punto da temere la fine dell'euro?
«Non sono pessimista. Penso che la storia vada assecondata e che si debba saperne recepire le lezioni».
Fra queste c'è anche l'idea di arrivare all'eurobond?
«Un'opzione possibile per l'eurobond è mettere in comune il debito pubblico. Poi c'è un tipo di eurobond più limitato, per eseguire progetti specifici. Sia l'uno che l'altro saranno sempre più necessari».
I francesi e gli italiani hanno accettato l'idea di lavorare di più e meglio, per crescere in un'economia competitiva?
«Lo hanno capito abbastanza bene, non penso che sia un problema. Gli europei lavorano, ciascuno secondo una propria cultura nazionale che è ovviamente diversa da Paese a Paese».
L'Italia sta introducendo una riforma del lavoro, in questo anticipando la Francia. Che ne pensa?
«Non possiamo pensare che una riforma sia convincente se a una revisione dei contratti non corrisponde l'introduzione o il rafforzamento della formazione per coloro che dovessero perdere il posto. E su questo non dirò altro».
Sul debito è più l'Italia sulla strada giusta o la Francia su quella sbagliata?
«Sono situazioni, ancora una volta, diverse. Il debito italiano è notevolmente più alto, ma l'Italia ha un avanzo di bilancio (pre-interessi, ndr). Da voi c'è stato un passato di lassismo fiscale, dunque avete più margine per intervenire. In Francia il debito è più basso, ma la dinamica è all'aumento. Per noi non sarà facile ma dovremo arrivare a un piano di risanamento. Sarà un tema che si porrà dopo le elezioni».

Repubblica 1.5.12
Inghilterra, si è fermata anche la City
L’occasione giusta per una nuova politica di sinistra
di John Lloyd


All'improvviso in Europa la sinistra pare avere un'occasione per tornare a fare la differenza. François Hollande - uomo la cui mancanza di carisma è pressoché carismatica - è dato vittorioso al secondo turno delle elezioni francesi che si svolgeranno il 6 maggio. I piccoli partiti della sinistra hanno suggerito ai loro sostenitori di votare per lui: probabilmente lo farà il dieci per cento di coloro che finora hanno sostenuto François Bayrou. Anche alcuni elettori del Front National di Marine Le Pen che un tempo militavano a sinistra potrebbero tornare in campo con i socialisti. Un presidente di sinistra non cambierà subito la carta politica d'Europa, ma di sicuro rappresenterebbe un cambiamento di primaria importanza. Tutto ciò potrebbe preludere a un altro cambiamento nel Regno Unito. La settimana scorsa la Gran Bretagnaè precipitata un po' di più nella recessione - la cosiddetta "double dip" - facendo ritorno a un periodo nel quale, per sei mesi consecutivi, le entrate dello stato si contraggono.
(segue dalla copertina) Il primo ministro David Cameron e il Cancelliere George Osborne ancora una volta hanno sostenuto che il loro programma di austerità era indispensabile per far scendere il forte indebitamento del paese e mantenere bassi i tassi di interesse. La loro affermazione, tuttavia, questa volta è suonata meccanica, fiacca.
La coalizione dominata dai conservatori che governa oggi nel Regno Unito si trova alle prese con un clima molto difficile. A maggio festeggerà i due anni al governo, un arco di tempo troppo lungo per ricorrere ancora alla volta alla scusa - trita e ritrita da questo governo - che la situazione odierna è imputabile alle spese esorbitanti dei laburisti.
La quotidiana sceneggiata dell'Inchiesta Leveson sui comportamenti e sull'etica della stampa britannica ha anch'essa ripercussioni negative sul governo. Rupert Murdoch e suo figlio James questa settimana sono comparsi in tribunale per deporre e il secondo ha astutamente lasciato intendere che sia David Cameron sia il segretario della Cultura Jeremy Hunt dietro le quinte avevano aiutato i Murdoch nell'offerta avanzata per garantirsi la proprietà assoluta di BskyB, il redditizio network della televisione satellitare britannica. L'offerta si è poi arenata in un nulla di fatto a causa dello scandalo per le intercettazioni telefoniche.
La gente dimentica. Dubito però che questa sensazione di fastidio diminuisca, come è accaduto in passato. Alla base della fragile politica del Regno Unito e di altri stati europei, c'è l'impressione che il mondo intero e ogni singola nazione non saranno più in grado di offrire un alto standard di vita ai lavoratori, e che ciò che in buona parte ha continuato a essere vero quanto meno dagli anni Cinquanta in poi - ossia che in linea generale ogni generazione era più ricca e più dotata di comfort di quella che l'aveva preceduta - ormai non lo è più. E questa spiacevole sensazione pervade e affligge sia la destra sia la sinistra. Questa settimana è stato pubblicato a Londra un libro di Ferdinand Mount, conservatore di lungo corso che per anni ha scritto e diretto giornali e riviste di destra. Il libro si intitola" The New Few" ("I nuovi pochi") e deplora la situazione della Gran Bretagna, ormai radicalmente spaccata in due: da una partei poveri che non riescono a lavorare, dall'altra i ricchi - i "New Few" - che non se ne danno pensiero.
Questa medesima sensazione di disuguaglianza totale influenza molti voti in Francia - per il partito socialista di Hollande, per la coalizione di sinistra di Jean Luc Melenchone per il Front National di Marine Le Pen. Circa il 30 per cento degli elettori francesi si è espressa a favore di partiti che vorrebbero che la Francia uscisse dall'Unione Europea, fermasse l'immigrazione o quanto meno una partee che lo stato stimoli in modo radicale l'economia. Il presidente Nicolas Sarkozy ha presentato una versione stemperata di questi programmi.
Chiaramente, sulla Franciae sull'Europa intera incombe il pericolo dell'estremismo. Marine Le Pen ha convinto un quinto degli elettori ad accordarle la loro preferenza, ed è adesso una vera forza, specialmente a destra ma anche a sinistra. Ha trovato una voce populista e il successo che ha avuto convincerà altri a calcarne le ormee fare altrettanto.
Il populismo è una tentazione costante della politica. È doppiamente una tentazione, in quanto il politico sa blandire il suo pubblico, e gli dice che a conoscere la soluzione ai problemi che l'élite si rifiuta di affrontare è proprio la gente comune.
In Europa il populismo è una vera tentazione in questo momento. E la sinistra democratica dovrebbe trovare il proprio rilancio proprio contrastandolo. Non c'è una soluzione semplice per la crisi economica nella quale noi in Europa continuiamo ad annaspare. Nessun programma a disposizione dei governi la farà svanire nel nulla: gli stati europei hanno preso in prestito capitali per finanziare uno stile di vita che la maggior parte delle persone non può più permettersi, e adesso ne devono pagare le conseguenze. Ma poiché le nostre società sono così lacerate - divise da una parte in gruppi di cittadini insicuri e spaventati per vari motivi e dall'altra nei "New Few" che sono straricchi - governare significa adoperarsi per ricomporre queste enormi sperequazioni e cercare di ricorrere di nuovo a politiche in grado di riportare un po' di solidarietà nelle nostre società.
Alcune delle nazioni europee più importanti sono state governate - o lo sono tuttora - da politici che appartengono al novero dei "New Few". Il presidente (uscente?) francese adorava il mondo glamour della ricchezza e delle celebrità. L'Italia ha affidato per tre volte consecutive il mandato di governo a Silvio Berlusconi, uno degli uomini più ricchi d'Europa. David Cameron e George Osborne sono entrambi molto facoltosi.
A guidare la sinistra in questi paesi ci sono politici spesso accusati di essere privi di quel glamour per il quale andava famoso Sarkozy. Hollande è il contrario dell'uomo che intende sostituire.
Pierluigi Bersani è a uno stesso tempo riservato, semplice, comune. Ed Miliband ha i modi di un intellettuale sbarazzino. Eppure, proprio quel loro aspetto così poco vistoso potrebbe diventare il loro punto di forza. E la sinistra potrebbe tornare ad avere un'occasione.

l’Unità 1.5.12
Occupy Wall Street e la grande scommessa del primo maggio
Lavoro, diritto allo studio, immigrazione: oggi manifestazioni a New York, Seattle, Chicago, San Francisco
«Le nostre idee ormai sono sedimentate»
di Martino Mazzonis


Il primo maggio non è un giorno di festa negli Stati Uniti, il Labor Day è a settembre. Eppure oggi a New York, Chicago, San Francisco, nella California del Sud e Seattle sarà pieno di manifestazioni. Occupy Wall Street ha lanciato molto tempo fa questa giornata. Oggi sarà un buon test per capire se il seme lanciato nei mesi di occupazione nei giardini dello Zuccotti Park è cresciuto.
«Speriamo molto nel primo maggio, ma la questione cruciale è che questo movimento sembra essersi sedimentato», ci spiega Jeffrey, ventenne con gli occhialoni e la camicia a scacchi che studia Geografia alla New York University. Lui non era tra coloro che hanno dormito nelle tende di Zuccotti, ma è sempre andato alle manifestazioni. Era a Union square il 25 aprile, quando gli studenti hanno organizzato una marcia nel centro della città per protestare contro il costo degli studi. «In Europa è diverso, ma qui ci indebitiamo per andare all’università. Student loans, finanziamento per studenti lo chiamano, e per decenni ha funzionato: ti indebitavi, studiavi, poi trovavi lavoro grazie agli studi e ripagavi un po’ al mese. Oggi non sai se quel lavoro lo avrai e ormai ne parlano tutti gli stipendi non sono più quelli di una volta. Nel frattempo il costo degli studi è aumentato».
In questi giorni è in corso uno scontro tra Obama e i repubblicani su come ridurre il costo degli Student loans. Il presidente ha minacciato il veto su una misura che per congelare i tassi di interesse agli studenti tagliava a programmi di sanità pubblica. «La posizione di Obama è migliore, ma non è abbastanza. Un tempo le università non costavano così», sorride Jeffrey. A Union square gli studenti avevano inscenato un banchetto di miliardari che brindavano al debito degli studenti, che ha raggiunto complessivamente mille miliardi di dollari. Vestita da gran dama dei primi del ‘900, filo di perle, c’è anche Sarah, 27 anni. Più radicale del suo collega. Sta finendo un dottorato e sente che il giorno di cominciare a pagare sta per arrivare. «È un paradosso: indebitandoci per studiare arricchiamo Wall Street. Vestiti così e brindando è questo che stiamo cercando di rappresentare. Non è solo un problema di quanto costa, è il sistema: chi ha ridotto così il Paese fa anche soldi sui miei debiti di studio». Per Sarah vanno puniti più di quanto Obama non stia facendo. «Andrò a votare, un repubblicano alla Casa Bianca sarebbe una catastrofe per mille motivi. Ma noi qui dobbiamo spingere su Obama, è stato davvero troppo timido. Non sono tempi per esserlo, questi». Sullo sfondo si sta esibendo il reverendo Billy, della chiesa dello “Stop shopping”, un grande personaggio che guida il suo coro gospel davanti ai grandi magazzini nei giorni dei saldi e fa esorcismi alle casse dei negozi delle catene. Gli spirituals finiscono tra gli applausi.
Radicali e meno radicali, sindacati e studenti, militanti iper tecnologici con la maschera di V per Vendetta, sfileranno in mille modi oggi. Sul sito di Occupy sono molto corretti: ci sono gli appuntamenti autorizzati e quelli no. Gruppi più radicali compariranno e scompariranno per la città a cominciare dalla mattina. «Strike everywhere» da un appuntamento all’una del pomeriggio.
Sul loro sito c’è scritto: «Ci hanno detto di marciare tra due barriere, noi il primo maggio non marciamo, noi scioperiamo (strike, vuol dire sciopero e vuol dire colpire)». Dalla mattina, a Bryant Park ci sarà via vai, cibo, organizzazione, gruppi che partiranno per fare picchetti davanti alle banche, volantinare. Dalle due in poi da qui si marcerà verso Union square, dove si staranno radunando quelli della May Day Solidarity Coalition: sindacati, chiese, studenti, immigrati. Dopo un concerto e comizio, alle 5.30 la giornata finirà con una grande marcia verso Wall Street. Manhattan, con ogni probabilità sarà nel caos: sono previsti blocchi non autorizzati dei ponti e una critical mass di biciclette andrà in giro per l’isola.
Questo almeno nelle intenzioni. I gruppi organizzati sanno che ci sarà gente, ne porteranno in piazza e altre se ne aggregherà. Gli imprevisti invece dipendono da quanto il marchio radicale di Occupy sia ancora vivo. Ben, afroamericano membro del sindacato dei servizi Seiu, incontrato alla marcia del 99% Spring, pensa che «il tema delle diseguaglianze insopportabili di questo Paese abbia sfondato».
Lavora per una ditta di pulizie e trova intollerabile che si ragioni di tagli senza aumentare le tasse ai ricchi: «Abbiamo fatto bene ad aderire a questa mobilitazione di maggio. Più si parla di questi temi e più si sposta il discorso nella direzione giusta. In questa città c’è gente che con il mio salario di un anno ci paga la toilette del cane».
Ramon è di origini messicane, cappello da baseball dei Chicago Cubs calzato al rovescio e t-shirt nera, senza un filo di accento spagnolo. A lui premono i diritti degli immigrati. E pensa anche lui che comunque vada, «tutto questo ha cambiato le cose. Dovremo essere bravi a continuare a batterci con intelligenza. Serve una legge di riforma dell’immigrazione e serve più equità. A Washington non si sono occupati di queste cose. Troppi soldi dalle lobby, la politica non è in grado di prendere decisioni senza una spinta che le renda necessarie». Oggi a Manhattan e altrove provano a spingere.

Corriere 1.5.12
Soldi alle famiglie. L'Alta corte indiana contesta l'accordo
«Così l'Italia sfida le nostre leggi»
di Danilo Taino


La Corte suprema di New Delhi ha dato ieri segni di irritazione per quel che sta succedendo attorno al caso dei due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, accusati di avere sparato, lo scorso 15 febbraio, contro un peschereccio al largo delle coste dello Stato indiano del Kerala e di avere ucciso due pescatori. Durante un'udienza riunita per discutere il rilascio della Enrica Lexie, la nave a bordo della quale i militari italiani erano in missione antipirateria, due giudici hanno commentato pesantemente un accordo extragiudiziale raggiunto la settimana scorsa tra le famiglie dei due pescatori uccisi e la società proprietaria della Enrica Lexie e registrato senza obiezioni dall'Alta corte del Kerala.
«Ci amareggia il modo in cui si cerca di vanificare il procedimento legale indiano», hanno affermato inaspettatamente i due giudici. Che hanno aggiunto di considerare «non ammissibile» quel modo di procedere, di ritenerlo «una sfida» al sistema giudiziario indiano che «deve essere annullata». Presa di posizione non leggera che arriva dalla massima autorità giudiziaria del Paese e della quale tutti ora dovranno tenere conto: il governo del Kerala, infatti, ha subito deciso di ricorrere contro l'accordo. Quest'ultimo era stato raggiunto sulla base di un compromesso: la Dolphin Tankers, proprietaria della Enrica Lexie, si è impegnata a versare circa 140 mila euro a ciascuna delle famiglie dei due pescatori uccisi e 25 mila euro al proprietario del peschereccio; in cambio, i beneficiari hanno ritirato i casi giudiziari (civili) contro i due marò: i procedimenti penali non sono ovviamente toccati dall'accordo.
L'intervento della Corte suprema ha probabilmente lo scopo di respingere le possibili pressioni esterne al sistema giudiziario tese ad arrivare a una soluzione di compromesso su un caso che ha creato imbarazzi a Delhi e Roma. In sostanza, i giudici dicono che la legge indiana deve fare il suo corso, senza distrazioni. In questo, la Corte si dimostra in linea con i gruppi militanti di difesa dei pescatori del Kerala e dello Stato confinante del Tamil Nadu, che sabato scorso hanno organizzato una catena umana — secondo alcuni lunga 500 chilometri — proprio per chiedere che sulla sicurezza dei pescatori i governi locali e nazionali non scendano a compromessi. Negli ultimi tempi, molte imbarcazioni della zona sono state coinvolte in incidenti con navi commerciali, che a causa della pirateria hanno modificato le loro rotte: i morti si contano nell'ordine delle decine.
La stessa Corte suprema ha rinviato a oggi la decisione di rilasciare la Enrica Lexie, ferma al largo del porto di Kochi, nel Kerala, per permettere all'armatore di contattare il governo italiano e di chiedergli la garanzia scritta che i quattro marò ancora a bordo della nave tornino in India nel caso fossero necessarie altre loro testimonianze. Un altro tribunale ha intanto prolungato di 14 giorni la detenzione di Girone e Latorre nel carcere di Trivandrum.

il Fatto 1.5.12
I figli del machete
I bambini-soldato e l’eredità degli orrori tra Sierra Leone e Liberia
di Mimmo Lombezzi


Carichi di sabbia per aiutare i genitori nelle cave del sud, oppure di legna da portare per chilometri alle case o ai mercati. Lavorano a denti stretti, senza una paga, senza un lamento, senza tregua e sorridono sempre ai “pumui”, i bianchi, gli stranieri.

Guardando i bambini della Sierra Leone è difficile pensare che pochi anni fa – fra il 1991 e il 2001 – sia stato un esercito di ragazzini, dai 10 ai 15 anni, a devastare questo paese, lasciandosi dietro 50.000 cadaveri e un labirinto di rovine che inizia a Freetown, la capitale e finisce a Kaylahun, al confine con la Liberia.
Ed è a Kaylahun, che vediamo dei bambini giocare fra i muri di una casa bruciata. Sembra un relitto come altri, ma quando entriamo verrebbe voglia di scappare dopo pochi secondi. La chiamano “the slaughter house”. Dieci anni dopo, i graffiti di sangue lasciati dal machete sono ancora sui muri, assieme ai fantasmi di chi veniva condotto fra queste pareti per morire sgozzato. “Eravamo nella giungla e quando ti ordinavano di fare queste cose dovevi obbedire o ti avrebbero ucciso! Non mi nascondo anche io ho fatto queste cose. Abbiamo ucciso un sacco di gente: soldati, civili, anche donne, anche bambini. Con il ‘coutelas’, il machete, e il sangue schizzava fino al soffitto”.
Foday Amara, l'uomo che racconta senza reticenze, senza pudore, quello che ha fatto è un “ex-combattant”, che uccideva per conto del Ruf, il Fronte Unito Rivoluzionario, armata di adolescenti che per 10 anni ha devastato la Sierra Leone per impadronirsi delle sue miniere di diamanti. Il più grande giacimento del mondo. “Ricordo un ragazzo che si chiamava Sherif Kangei – dice Foday – L’ho ucciso proprio qui. Aveva rifiutato di trasportare dei carichi. Di obbedire agli ordini della rivoluzione... ”.
CINQUE ORE di auto più a sud, nel villaggio di “Mattru on the rail”, le uniche figure intere sono quelle dei bambini e dei loro pupazzi. Gli adulti sono stati tutti amputati. “Quando mi hanno catturato”, racconta Mamie Lebbie, una donna di 35 anni che stringe al petto un bimbo con l’unica mano che le hanno lasciato “mi dissero che mi avrebbero amputato e che avrebbero ucciso mio marito... Ed è quello che fecero. Lui fu picchiato a morte e a me hanno tagliato la mano destra. Erano dei ragazzini dai 10 ai 13 anni... ” .
Mc Luhan scrive che il mezzo è il messaggio. In Sierra Leone il mezzo era il machete e il messaggio ai civili era il potere della guerriglia sul territorio. “Dissero che lo avrebbero fatto anche se non gli avevamo fatto nulla – continua Mamie Lebbie – era un esempio, per mostrare che avevano preso la città e che era sotto il loro controllo”.
“Mi catturarono nel 1996 – racconta a Sallay Goba – mi tagliarono la mano destra e poi la sinistra. Mi dissero ‘quando andrai all'ospedale di’ a tutti che dio ti ha fatto questo! ’. Li pregai di uccidermi. Risposero: ‘Se avessimo voluto ucciderti avremmo fatto in un altro modo ’ e mi spinsero via dandomi un calcio nel sedere”.
“Tagliare le braccia - spiega Hassan Kamara un altro ex-ribelle - era un modo per mandare un messaggio: ‘Siamo ovunque. Possiamo arrivare in qualsiasi momento! ’”.
La ferocia del Fronte Rivoluzionario Unito è stata paragonata a quella di Pol Pot, ma la strategia del machete era un'operazione economica: tagliando le braccia di alcuni si riducevano in schiavitù quelle di tutti gli altri, costringendoli a lavorare sino allo sfinimento nelle miniere dei diamanti, “la più maneggevole di tutte le ricchezze” ha scritto Greg Campbel nel libro Diamanti di sangue “perché consentiva di riciclare il denaro sporco dei narcos, ma anche quello di Hezbollah e al Quaeda”.
Quando i ribelli hanno conquistato Kono e la regione delle miniere, la storia della Sierra Leone è tornata indietro di secoli. Nella terra degli schiavi liberati che diede il nome a Freetown, la schiavitù venne ripristinata di fatto, costringendo migliaia di persone a scavare nel fango dall'alba al tramonto. Chi sgarrava, chi cercava di nascondere una pietra per sé veniva bruciato vivo.
Il traffico di diamanti, controllato da signori della guerra liberiani come Charles Taylor, a tutto vantaggio di multinazionali come la De Beers, consentiva ai ribelli di comprare armi a volontà prolungando la guerra. Solo dopo anni di massacri sarebbe emerso anche in occidente che i diamanti che adornavano bellissime mani bianche, erano cristalli di sangue, ottenuti amputando poverissime mani nere, al punto che allo slogan “un diamante è per sempre”, qualcuno replicò che anche un’amputazione è “per sempre”.
QUANDO il problema venne sollevato dai giornalisti con Naomi Kampbell, che aveva accettato diamanti da Charles Taylor, la venere nera reagì travolgendo le telecamere. I civili che rifiutavano di arruolarsi o di collaborare con la guerriglia venivano uccisi o esposti al sole. Le donne venivano violentate. “Stupravamo ogni ragazza carina che trovavamo – racconta Foday Amara – se rifiutavano di arruolarsi, di farci da cuoche, le stupravamo e poi le mettevamo al sole. Venivano punite. Non gli davamo nulla da mangiare, e alcune sono morte”.
Fodai Sankoh, l’ex-caporale che, appoggiato da Gheddafi, aveva addestrato i ribelli a commettere qualsiasi crimine, meriterebbe di essere impiccato 100 volte, ma il diavolo se lo è portato via prima che finisse il suo processo. Prima di far iniettare cocaina nel cranio dei bambini-soldato, li drogava promettendo libertà e riforme radicali: “Mai più gli abitanti delle zone rurali faranno i taglialegna e i portatori di acqua per la zona urbana di Freetown” diceva “mai più schiavi e mai più padroni! ”.
Uno dei paradossi del Sierra Leone è che una guerra che usava metodi medievali come le amputazioni, si nutriva di rap e di miti guerrieri americani. I film di Rambo e di Van Damme sono stati per anni l'unico “supporto didattico”, di migliaia di adolescenti analfabeti che nel kalashnikov cercavano un'identità, un futuro o forse semplicemente un'occasione per esercitare un potere e un possesso. Si diventava soldati, cioè si ‘consumavano’ vite umane, per diventare finalmente consumatori. “Quando occupammo Freetown ho chiesto a un tizio di darmi il suo orologio – dice Foday Amara – ma ha rifiutato di consegnarmelo e allora gli ho tagliato il braccio. Ero un selvaggio, un combattente della giungla”.
Se il mito di Rambo drogava il coraggio dei bambini-soldato, la fame e la paura della morte facevano riemergere riti di sangue che sconfinavano nel cannibalismo. “Alcuni si coprivano di sangue umano per proteggersi dalle pallottole” spiega Mohammed Jusu che si occupa dei reinserimento degli ex-combattenti, “altri mangiavano carne umana. Non solo i ribelli, anche i ‘Kamajor’, cioè i membri delle società di caccia organizzati come difesa civile contro la guerriglia. Se uccidevano qualcuno ne usavano il sangue per fare dei riti magici”.
Sedato l’incendio della guerra civile con un dispiegamento colossale di caschi blu (17.000) è iniziata la cosiddetta “politica di riconciliazione nazionale”. Per domare i ribelli e convincerli a deporre le armi gli è stata donata una moto per ogni kalashnikov e oggi – in un paese in cui una bici è un lusso – li vedi sfrecciare accanto alle loro vittime costrette ad arrancare su protesi e stampelle senza nessun aiuto.

La Stampa 1.5.12
Cina e Stati Uniti trattano sulla sorte del dissidente Chen
L’avvocato cieco sotto protezione Usa Obama: i diritti umani sono una priorità
di Maurizio Molinari


Washington e Pechino stanno trattando in segreto un compromesso sulla sorte del dissidente Chen Guangchen per scongiurare la più grave crisi nei rapporti bilaterali dal massacro di Tiananmen. «Sono al corrente degli articoli di stampa su tale vicenda ma non dirò nulla in proposito» si limita ad affermare il presidente americano Barack Obama durante la conferenza stampa alla Casa Bianca con il premier giapponese Yoshihiko Noda, mentre la portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, ripete per nove volte durante il briefing quotidiano «Non ho nulla da dire su questo». Il riserbo è massimo perché nella notte fra domenica e lunedì a Pechino è giunto a sorpresa Kurt Campbell, vice di Hillary Clinton per l’Asia al Dipartimento di Stato, per cercare una soluzione in extremis alla crisi innescata dalla scomparsa di Chen.
Il dissidente, privo della vista, era agli arresti domiciliari a causa delle critiche al governo comunista per la politica di sterilizzazione forzata delle donne tesa a obbligare ogni famiglia ad avere al massimo un figlio. Chen ha lasciato gli arresti domiciliari sorprendendo la sicurezza cinese e si trova sotto protezione americana a Pechino, nella sede dell’ambasciata o dentro un’abitazione privata. Per Christopher Johnson, che ha guidato il Dipartimento Cina della Cia, è la «crisi più seria fra Washington e Pechino dalla strage di Tiananmen del 1989» e la fase di maggiore difficoltà dall’incidente del 2001 sull’isola di Hainan, quando i jet cinesi obbligarono un aereo spia Usa ad atterrare detenendo l’equipaggio.
Ad avvalorare tale lettura c’è il fatto che il braccio di ferro sulla sorte di Chen coincide con l’atteso arrivo in Cina di Hillary Clinton e del ministro del Tesoro Tim Geithner per dare vita ai periodici «colloqui strategici» su dispute commerciali, Iran e Nordcorea. «Senza un’intesa nelle prossime ore i colloqui rischiano» afferma una fonte diplomatica, esprimendo «attesa per una decisione cinese». Bob Fu, attivista del gruppo ChinaAid che si batte per i diritti umani in Cina e sarebbe coinvolto nella fuga del dissidente, assicura che «la trattativa segreta punta a consentire l’asilo in America per Chen prima dei colloqui bilaterali a Pechino» ovvero nelle prossime 36 ore. Per ChinaAid, di base in Texas, «entrambe le parti vogliono risolvere la vicenda con una soluzione di basso profilo».
Obama è davanti a un difficile bivio perché l’alternativa è fra la crisi con Pechino e una marcia indietro sul dissidente che lo esporrebbe a gravi rischi nel bel mezzo della campagna per la rielezione. Non a caso lo sfidante repubblicano Mitt Romney incalza: «La Casa Bianca non abbandoni Chen». Ecco perché, nella conferenza stampa, Obama aggiunge: «Durante ogni colloquio con i leader cinesi si è sempre parlato dei diritti umani, noi siamo convinti che il loro rispetto rende la Cina una nazione più forte, e non più debole». Il messaggio a Pechino è esplicito: un compromesso sull’asilo del dissidente rafforzerebbe i rapporti con Washington. Resta da vedere cosa Pechino otterrebbe in cambio. Il prolungarsi della trattativa spinge Human Rights Watch in China a porre sul tavolo un’altra questione: «Bisogna ottenere garanzie anche per i famigliari del dissidente, altrimenti saranno loro a pagare».

La Stampa 1.5.12
“Il governo cinese non può più soffocare le voci del dissenso”
L’analista Bequelin: ora le informazioni corrono
di Ilaria Maria Sala


L’artista dissidente Ai Weiwei è stato incarcerato per qualche settimana lo scorso anno e poi rilasciato È accusato di evasione fiscale

Una vicenda imbarazzante che mette in mostra l’evidente divario che c’è fra l’élite e il popolo, fra chi detiene il potere e chi ne subisce gli effetti. É l’opinione di Nicholas Bequelin, ricercatore sulla Cina per Human Rights Watch, sul caso dell’avvocato Chen, l’ennesimo di un dissidente il cui nome e la cui storia supera i confini cinesi.
Dunque professor Bequelin, che effetti ha la notizia della fuga di Chen Guangcheng?
«Anche se è censurata in Cina, è molto imbarazzante per il Partito Comunista, trattandosi di una storia di importanza internazionale. Mette in mostra l’enorme divario che esiste fra la retorica altisonante sulla Cina come “Paese governato dalla legge” e la realtà. La dirigenza cinese affronta due episodi molto scomodi, che indicano tutto quello che non va, tanto in alto – con la moglie di un membro del Politburo implicata in un omicidio dopo aver cercato di far uscire dal Paese ingenti somme di denaro – che in basso, con un avvocato povero e cieco che si batte per i diritti umani.
I cittadini sanno ciò che avviene?
«Chen Guangcheng non è noto a tutti, ma è conosciuto da una massa critica di persone che sono ora furiose per quello che ha dovuto subire. É visto come un simbolo dei problemi che affliggono la Cina. E malgrado la forza dell’apparato di sicurezza, le sfide al potere sono sempre più frequenti e il governo sembra sempre colto alla sprovvista. La reazione è una maggior repressione, ma questa si scontra con la crescita della consapevolezza dei cittadini, grazie anche a Internet. Prima i dissidenti che avevano il coraggio di sfidare il governo erano una manciata, oggi il circolo si è ingrandito – penso ad Ai Weiwei, appoggiato da centinaia di persone comuni, all’appello per una “rivoluzione dei gelsomini”, alla Carta 08 con migliaia di firme, e via dicendo – e ciò rende il controllo più difficile.
Quali le ripercussioni?
«Nel caso di Chen, si tratta di una storia amara, gli attivisti sono riusciti a liberarlo ma potrebbero pagare caro. Il controllo è più difficile, e l’unico deterrente è una soppressione del dissenso più violenta. Così tornano sentenze di più di dieci anni di reclusione per i dissidenti, un utilizzo sproporzionato della forza in Tibet e nello Xinjiang, una censura molto pesante sui media e su Internet, il ricorso a metodi illegali come far scomparire chi critica il governo, la tortura e i domiciliari».
Siamo a una situazione di stallo, con due forze che si oppongono senza possibilità di risoluzione?
«Il governo e il Partito rifiutano di ridare energia alla riforma legislativa, e questo porta a circa 500 manifestazioni di protesta al giorno. Questo, nell’anno in cui non sarebbe dovuto succedere nulla ora che la leadership prepara la transizione di potere più delicata da Tiananmen ad oggi. Invece, ecco due clamorose sfide al Partito, davanti agli occhi di tutti. Non significa certo che il Partito stia per perdere il potere, ma che la richiesta per riforme significative cresce ogni giorno di più. Malgrado ciò, il Partito non mostra l’intenzione di riformarsi, di aprirsi. Una delle forze del regime è sempre stata quella di controllare le informazioni. La rivoluzione nelle comunicazioni sta rendendo ogni giorno più difficile questo controllo, erodendo la legittimità del governo cinese.

La Stampa 1.5.12
Israele alza una barriera al confine con il Libano


L’esercito israeliano ha iniziato a costruire una nuova barriera di separazione che si estenderà per alcuni chilometri al confine con il Libano. «I lavori - stando a un portavoce - sono portati avanti in coordinamento con l’Unifil (la forza di interposizione Onu schierata nel sud del Libano proprio al confine con Israele, ndr) e con l’esercito libanese. Il muro ha l’obiettivo di evitare tensioni al confine». La radio pubblica israeliana ha fatto sapere che la barriera sarà alta diversi metri ed è stata progettata con l’intento di proteggere l’insediamento israeliano di Metulla da razzi provenienti dal territorio libanese. Dovrebbe essere terminata fra qualche mese. Israele aveva annunciato il progetto di una barriera di protezione al confine con il Libano in gennaio, aggiungendo che il nuovo muro avrebbe protetto gli insediamenti più recenti di Metulla dagli spari che partono dalla cittadina libanese di Kfar Kila. Quella con il Libano sarà la quarta barriera costruita da Israele con i territori confinanti: lo Stato ebraico ha già innalzato muri con la Striscia di Gaza, in Cisgiordania e - da ultimo al confine con l’Egitto per il timore degli sviluppi politici nel dopo-Mubarak.

Corriere 1.5.12
Cultura Il diffamatore di Gramsci che fu arruolato dal Pci
La vicenda torbida e ambigua di Ezio Taddei
di Paolo Mieli


Il primo ad accorgersi che tra Antonio Gramsci e il Partito comunista d'Italia era accaduto qualcosa di anomalo fu Benito Mussolini. Un articolo non firmato, dal titolo Altarini, uscì sul «Popolo d'Italia» il 31 dicembre 1937 (appena otto mesi dopo la morte dell'ex segretario del Partito comunista), per rilanciare, con sorprendente risalto, le indiscrezioni sui dissidi che avevano contrapposto Gramsci ai suoi compagni. Indiscrezioni comparse pochi giorni prima, a firma di Ezio Taddei, sull'«Adunata dei refrattari», un settimanale anarchico stampato a New York.
Taddei — un oppositore al regime fascista, in rapporto, dopo qualche anno di carcere, con uomini del regime stesso (nelle persone di Arturo Musco e Vincenzo Bellavia) — in quell'articolo sul foglio anarchico aveva trattato Gramsci con toni sprezzanti, enfatizzando i privilegi di cui avrebbe goduto in prigione (gli sarebbe stato concesso di «sgranocchiare gli amaretti che gli piacevano tanto» e di nutrirsi «di pasticcini» mentre gli altri reclusi «crepavano di fame»). Ma soprattutto aveva rivelato — accennando alla testimonianza di un celebre militante incarcerato, Athos Lisa — l'ostilità nei suoi confronti da parte degli altri detenuti comunisti. Per di più Taddei aveva fatto esplicito riferimento alla disistima che il leader sardo nutriva per Ruggero Grieco, suo successore — a metà anni Trenta — alla guida del Partito comunista («Gramsci ha sputacchiato Grieco per gelosia»).
Effettivamente, come sarebbe venuto alla luce oltre trent'anni dopo, Gramsci ce l'aveva eccome con Grieco; ma non «per gelosia», bensì a causa di una lettera inviatagli da quest'ultimo nel febbraio del 1928. Una lettera incredibilmente esplicita nell'indicare in lui il capo dei comunisti italiani, e perciò considerata dal fondatore dell'«Unità» strumento di una manovra provocatoria ai suoi danni. In una missiva del dicembre 1932, Gramsci riferì che il giudice istruttore, dopo avergli fatto vedere quello scritto di Grieco, gli aveva detto «testualmente»: «Onorevole Gramsci, ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera».
È di qui, da questa strana missiva di Grieco, che davvero sembra essere stata vergata per mettere in difficoltà Gramsci (tant'è che è stata addirittura avanzata l'ipotesi che potesse trattarsi di un falso), zeppa tra l'altro di «contraddizioni, anacronismi e nonsense», che prende le mosse Luciano Canfora per un importante libro in uscita il 9 maggio, Gramsci in carcere e il fascismo, edito da Salerno (pp. 304, 14). «A che titolo e investito da chi», si domanda Canfora, «Grieco si mette a scrivere quelle lettere (ce ne sono altre due, una a Mauro Scoccimarro e una a Umberto Terracini, ndr), in quel modo ammiccante e imprudente?». Lo stile di Grieco, aggiunge lo storico, «è un unicum rispetto alle comunicazioni epistolari "di partito", specie in quegli anni». Quanto al contenuto, le «lezioncine di politica» impartite da Grieco a Gramsci «sono a dir poco risibili». È un libro, questo di Canfora, destinato a fare riflettere come e forse più di molti altri saggi che nelle ultime settimane hanno riacceso le luci (e le discussioni) sul capo più famoso dei comunisti italiani.
Gli scritti di cui stiamo parlando sono fondamentalmente quattro. Primo quello di Franco Lo Piparo, I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli), nel quale si ipotizza che Palmiro Togliatti abbia fatto sparire uno dei trenta quaderni scritti da Gramsci in carcere: quello in cui, secondo Lo Piparo, sarebbe stato evidente il distacco di Gramsci dal «comunismo come si andava realizzando e — tendiamo a pensare — dal comunismo tout court». Ipotesi che secondo un grande studioso dei Quaderni, Gianni Francioni, è «destituita di ogni fondamento». Ma che, a detta di Lo Piparo, sarebbe corroborata dalla lettura tra le righe di una curiosa lettera scritta da Gramsci il 27 febbraio del 1933 alla cognata Tatiana (Tania) Schucht, lettera che contiene queste parole di possibile allusione al suo ripudio dell'esperienza comunista: «Certe volte ho pensato che tutta la mia vita fosse un grande (grande per me) errore, un dirizzone». Strana lettera, effettivamente, che fu scritta e spedita, dal carcere di Turi, il giorno successivo ad un colloquio di Gramsci con la sorella della moglie, quella Tania che sapeva di dover incontrare nuovamente, nello stesso parlatorio, di lì a poche ore, molto prima cioè che il suo scritto potesse giungere a destinazione. Come se Gramsci avesse voluto mettere quelle cose nero su bianco, di modo che potessero essere lette non già soltanto dalla cognata (a cui presumibilmente le aveva appena dette e poco dopo le avrebbe ridette a voce), ma soprattutto a Parigi e a Mosca dai suoi compagni di partito.
Il secondo saggio che ha avuto risonanza (anche in seguito a un pubblico elogio ricevuto da Roberto Saviano) è stato quello di Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubbettino). Orsini ha sostenuto che valori riformisti e democratici possono essere accreditati esclusivamente al leader socialista Filippo Turati. E non a Gramsci. Soltanto Turati ha detto a chiare lettere che il pluralismo dei partiti è a fondamento della libertà, che l'educazione al socialismo coincide con l'educazione alla tolleranza e al rispetto degli avversari politici, che i socialisti devono condannare la violenza sotto il profilo etico-politico, che il diritto all'eresia è il pilastro del socialismo, che i socialisti non sono i detentori unici della verità, che si può imparare anche dagli avversari politici. Gramsci — del quale pure Orsini apprezza l'evoluzione quale si evince dalle pagine scritte in carcere — no. Il leader sardo educava a chiamare gli avversari politici «porci», «scatarri», «stracci di sangue mestruato», «pulitori di cessi» («e queste espressioni», precisa Orsini, «non erano rivolte ai fascisti, come qualcuno ha scritto, bensì ai riformisti e ai moderati»). Lo storico torinese Angelo d'Orsi (sulla «Stampa») ha stroncato i libri di Lo Piparo e di Orsini, scritti — a suo dire — «per regolare i conti del presente», e ha deriso anche la benevola recensione di Saviano, uno scrittore, a suo dire, «del tutto ignaro tanto di Gramsci, quanto di Turati».
Terzo saggio che ha provocato polemiche è stato quello di Dario Biocca su «Nuova Storia Contemporanea»: Casa Passarge: Gramsci a Roma. In esso Biocca fa notare che tra il 1924 e il 1926 Gramsci abitò nella capitale, in via Morgagni, dove fu ospite del villino dei coniugi tedeschi Clara e George Philipp Passarge, il cui figlio Mario era amico del futuro capo della polizia Carmine Senise. Lo stesso Mario Passarge, dopo l'avvento del nazismo, si sarebbe trasferito a Berlino per lavorare negli uffici dello spionaggio. Strano, effettivamente, che il leader comunista, in anni successivi alla marcia su Roma, abbia scelto di prendere dimora proprio in quella casa e che in seguito sia rimasto affezionato a quella famiglia, nonostante fossero evidenti le compromissioni di Mario Passarge con il fascismo e con il nazismo. Poi Biocca si è spinto oltre e ha parlato di un «ravvedimento» implicito nella richiesta di Gramsci di essere liberato dal carcere: «Era», ha scritto, «il 1934 e nessun dirigente comunista aveva (né avrebbe) ottenuto la libertà condizionale senza fornire prove di sottomissione». Va tenuto a mente — ha proseguito Biocca — che, sotto il regime fascista, «non un militante o dirigente comunista beneficiò della libertà condizionale se non dopo la puntigliosa verifica del suo ravvedimento». Neanche uno. O meglio, secondo quello che è stato scritto fin qui in tutti i libri sull'argomento, l'incredibile eccezione sarebbe stata fatta per una sola persona: Antonio Gramsci, appunto. Il che, sempre secondo Biocca, avrebbe dell'assurdo. Apriti cielo. Immediatamente è sceso in campo Bruno Gravagnuolo con una serie di documentati articoli (sull'«Unità») che contraddicevano quel che Biocca aveva scritto in merito al «ravvedimento». Poi il presidente dell'International Gramsci Society, Joseph Buttigieg, che (su «Repubblica») ha definito quelle di Biocca nient'altro che «supposizioni e illazioni»: «Biocca», ha scritto Buttigieg, «non riesce a trovare un solo documento» che comprovi il «ravvedimento gramsciano»; e, del resto, «perché Mussolini avrebbe nascosto il ravvedimento del suo nemico? Non sarebbe stato logico utilizzarlo sul piano della propaganda, essendo Gramsci un caso internazionale?». Obiezione sensata.
Quarto libro di questa copiosa messe di pubblicazioni è quello di Giuseppe Vacca: Vita e pensieri di Antonio Gramsci (1926-1937), edito da Einaudi. Vacca avanza l'ipotesi che la lettera di Grieco di cui si è detto all'inizio avesse ricevuto l'avallo di Giulia, la moglie di Gramsci nonché sorella di Tania. Questo spiegherebbe perché «quando Gramsci decise di rivolgere personalmente la sua denuncia al partito, affermasse che tra i suoi "condannatori" c'era stata, "inconsciamente", anche Giulia». Giulia poi, pentita, nel marzo del 1939 (due anni dopo la morte del marito) aveva puntato l'indice contro Togliatti, accusandolo di aver sabotato la liberazione di Gramsci, nel senso che aveva indotto la direzione del partito a compiere atti tali da renderla di fatto impossibile. Ma, scrive Vacca sulla scia di una sapiente esegesi dei documenti compiuta da Silvio Pons, tali sospetti «appaiono infondati». Togliatti «non aveva bisogno di sabotare tentativi di liberazione che, in realtà, non furono mai compiuti seriamente dall'unico attore che poteva intraprenderli, vale a dire il governo sovietico». A tenere Gramsci in carcere, prosegue Vacca, «ci pensava già Mussolini e la sua liberazione non aveva mai configurato l'oggetto di un interesse statale sovietico; non si vede, quindi, che cosa Togliatti avrebbe potuto aggiungere di suo». Eppure...
Luciano Canfora torna alla lettera di Grieco del febbraio 1928. Lettera che Gramsci definisce «eccessivamente compromettente», «criminale», causa del fallimento di ogni possibile trattativa per la sua liberazione, anzi scritta apposta perché gli fosse inflitto un aggravamento della pena. Ai vertici del Partito comunista il caso fu subito affrontato, sia pure nel più assoluto riserbo imposto dall'esilio e dalla clandestinità. Poi, però, per anni e anni di questa epistola non viene fatto trapelare nulla. Così come, per anni e anni, nulla si è saputo delle indispettite reazioni di Gramsci, di cui non c'è traccia nella prima edizione delle Lettere dal carcere (Einaudi) del 1947. Non vengono pubblicati gli scritti gramsciani del 1932 e del 1933, nei quali, in riferimento alla lettera di Grieco, ci si domandava: «Si tratta di un atto scellerato, o di una leggerezza irresponsabile? È difficile dirlo. Può darsi l'uno e l'altro caso insieme; può darsi che chi scrisse fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere». «La mia impressione», proseguiva l'illustre recluso nel carcere di Turi, «è di essere tenuto da parte, di rappresentare, per così dire, una "pratica burocratica" da emarginare e nulla di più». E ancora: «Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto, di cui il Tribunale speciale non è stato che l'indicazione esterna e materiale, che ha compilato l'atto legale di condanna. Devo dire che tra questi "condannatori" c'è stata anche Iulca (la moglie Giulia di cui si è detto, ndr), credo, anzi sono fermamente persuaso, inconsciamente... ma c'è una serie di altre persone meno inconsce. Questa è almeno la mia persuasione, ormai ferreamente ancorata perché l'unica che spieghi una serie di fatti successivi e congruenti tra loro».
Togliatti — destinatario delle parole allusive — conosceva il testo di queste lettere. Ma, finché visse, fu «dosatore accorto e reticente della verità intorno alla vicenda» e non ritenne di renderle pubbliche. Anzi, vietò a Camilla Ravera e a Piero Sraffa di mostrare a chicchessia alcune copie delle lettere che erano rimaste in loro possesso. Neanche in Duemila pagine, Gramsci un uomo (Il Saggiatore) curato nel 1964 — poco prima che Togliatti morisse — da Niccolò Gallo e Giansiro Ferrata, sotto la supervisione di Mario Alicata, fu fatto cenno a quelle parole. Canfora la definisce «una capillare opera di censura». Poi, man mano che quegli scritti vengono alla luce, nei testi ufficiali si usa la formula «lettere che non sono state ancora recuperate» o «che sono state appena recuperate». «La scorrettezza», sottolinea Canfora, «è consistita nell'adoperare indiscriminatamente tale formuletta sia per le lettere che davvero fu faticoso ottenere dai familiari, sia per quelle di cui si era preferito per opportunità politica fornire solo una selezione». Dieci mesi dopo la morte del segretario del Pci (agosto 1964) verrà data alle stampe, da Einaudi, una nuova edizione delle Lettere dal carcere, a cura di Sergio Caprioglio ed Elsa Fubini, nella quale (sorpresa!) i curatori riferiscono dell'esistenza di «una strana lettera firmata Ruggero», lasciando cadere — come se si trattasse di una supposizione — «forse si tratta di Ruggero Grieco» (la circostanza che il gruppo dirigente del Pci aveva affrontato il caso Grieco-Gramsci anche con i sovietici già alla fine degli anni Trenta, rende quel «forse» del tutto stravagante).
Finalmente, nel 1968, la lettera di Grieco (scritta quarant'anni prima) fu «scoperta» da Paolo Spriano, storico ufficiale del Pci, e pubblicata su «Rinascita» con indicazioni archivistiche che Canfora definisce «a dir poco reticenti». Nel 1977, Spriano riproporrà, in Gramsci in carcere e il partito (Einaudi), la storia di quella lettera, «purtroppo», scrive Canfora, «da lui edita in modo difettoso». Solo l'ultima edizione delle Lettere, quella curata da Aldo Natoli e Chiara Daniele nel 1999 (dieci anni dopo la fine del comunismo) è a detta di Canfora filologicamente impeccabile: «Una base finalmente scientifica per gli studiosi».
Ma perché Grieco aveva scritto quelle cose nel 1928? Canfora avanza la «dolorosa ipotesi» che Grieco abbia agito da «provocatore» e che Spriano, storico «ufficiale» del Pci, avendo scoperto che le foto delle «famigerate» lettere dello stesso Grieco erano conservate in una busta della Divisione affari generali e riservati di Pubblica sicurezza, «abbia preferito tacere in quale modo le avesse trovate». Canfora riprende poi le confidenze fatte da un altro dirigente comunista dell'epoca, Giuseppe Berti, a Dante Corneli e da questi riferite in Lo stalinismo in Italia e nell'emigrazione antifascista (Tipografia Ferrante, Tivoli): in esse veniva avanzato il sospetto che Grieco potesse essere una «spia fascista». Lo stesso dubbio manifestato, qualche tempo prima, da Pietro Secchia, il quale aveva accusato Grieco di aver fallito nel compito di portare in salvo Gramsci, affidando la missione a Luca Osteria, smascherato poi, nel 1929, come una spia dell'Ovra. Canfora esorta poi a riflettere sulla circostanza che la posizione giudiziaria di Grieco fu «sbrigativamente stralciata dai giudici romani al termine dell'istruttoria con decisione... di dieci giorni dopo la famigerata lettera». E sul fatto che gli fu poi comminata una pena inferiore a quella che (confrontandola con le condanne agli altri dirigenti comunisti) ci si sarebbe potuti attendere. Dopo la morte di suo cognato, Tania, insospettita da tutto ciò, rifiutò di incontrare Grieco e nutrì diffidenza nei confronti di Piero Sraffa, amico sì di Gramsci ma prima ancora «leale» al partito e anche a Grieco.
Strano personaggio, Grieco, che tra il 1935 e il 1937 fu temporaneamente successore di Palmiro Togliatti alla guida del Pci. Grieco ha un ruolo importante nella storia del Pci per il suo clamoroso «Appello ai fratelli in camicia nera» pubblicato su «Lo Stato Operaio» nell'agosto del 1936 con la firma apocrifa di Togliatti e di tutti i principali dirigenti comunisti. Proclama in cui si esaltavano il valore e l'eroismo con cui gli italiani avevano combattuto nella guerra d'Etiopia e si esortavano i militanti del Pci a far fronte comune con i fascisti. Nell'Appello si affermava che i comunisti facevano «proprio il programma fascista del 1919», definito «un programma di libertà». «Fascisti della vecchia guardia, giovani fascisti», si poteva leggere in quel testo, «noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi e a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919». Grieco non fu solo in quell'operazione. Nel corso di una riunione del Pci a Parigi in quello stesso agosto del 1936, un altro importante dirigente del partito, Mario Montagnana (cognato di Togliatti), fu ancora più esplicito: «Noi dobbiamo avere il coraggio di dire che non ci proponiamo di abbattere il fascismo... vogliamo oggi migliorare il fascismo perché non possiamo fare di più». E Giuseppe Di Vittorio scrisse una pubblica «Lettera ad un gerarca sindacale fascista» per domandargli: «Fra comunisti e fascisti in buona fede, esistono delle possibilità di lavoro comune, per il benessere del popolo italiano e per la marcia progressiva del nostro paese?» Da quel momento la parola d'ordine «Via Mussolini!» fu sostituita dai comunisti italiani con «Via i pescicani!»; come nemici, al posto dei fascisti, vennero identificati Donegani, Pirelli, Morpurgo, Agnelli, Giacinto Motta, Volpi, Orti, Rebaudengo, Parisi, Borletti; fu redatto un programma che prevedeva un prelievo straordinario sui patrimoni eccedenti il milione di lire, la confisca di tutti gli utili superiori al 6 per cento, l'obbligo ai personaggi di cui si è detto di «restituire il denaro rubato sulle sofferenze del popolo»; si proponeva che «i miliardi tolti ai pescicani» fossero usati per «dare pane e lavoro ai disoccupati» e per «pagare le indennità ai combattenti d'Africa».
In quei mesi nessun dirigente comunista si dissociò pubblicamente da quelle parole. Ma, anni dopo, Berti riferì che, in privato, Togliatti aveva definito quel manifesto «una coglioneria»; il collettivo dei comunisti confinati a Ventotene fece pervenire al partito, per vie segrete, proteste e critiche; Pietro Secchia ne parlò, in seguito, come di un'«assurdità inaudita». In un libro pubblicato qualche anno fa da Marsilio, Un partito non stalinista, il figlio di Ruggero Grieco, Bruno, ha riproposto quel documento come la prova di un tentativo di suo padre (che, pure, nel 1940 aveva fatto autocritica per quella presa di posizione) di sottrarre il Pci all'egemonia staliniana. Ma Canfora definisce tale tesi «inconsistente». E accusa Spriano di non aver reso chiari, nel terzo volume della Storia del Pci (Einaudi), i termini di quella strana storia. Spriano — secondo Canfora — «con la sua peraltro consueta felpatezza» avrebbe deliberatamente rinunciato a spiegare al lettore cosa era davvero accaduto 35 anni prima.
A questo punto Canfora fa osservare che «i tempi del disvelamento, che paiono non a torto intollerabili dal punto di vista della ricerca storica» sono «comprensibili in un'ottica tutta politica». Dopodiché azzarda un'ipotesi clamorosa: «Non è a priori inverosimile pensare», scrive, «che negli anni dei governi immediatamente postbellici, o quando Grieco stesso era alto commissario aggiunto all'epurazione, le foto delle lettere a Gramsci, Scoccimarro e Terracini siano state prelevate, magari dagli incartamenti di uno dei processi in cui Grieco era imputato, e acquisite agli archivi della Direzione del Pci». Quelle lettere scottavano: Gramsci, ricordiamolo, definiva «criminale» l'operato di Grieco e il giudice istruttore Enrico Macis gli aveva detto che i dirigenti del Pci erano stati i suoi pugnalatori. Poi, dopo che erano rimaste sepolte per decenni negli archivi del Pci, al momento di renderle pubbliche, «si provvide a riporle in un fondo di polizia onde presentarle al pubblico (come fece Spriano nel 1968, ndr) a Ferragosto con un commento che affermasse, subito in apertura, che "finalmente" quelle lettere "dissipavano" un'ombra che lo stesso Gramsci aveva gettato sull'episodio». Si può dire che furono «scoperte» più o meno dalle stesse persone che le avevano nascoste in quell'archivio, e la cosa fu fatta in piena estate per offrire — nella distrazione generale — una versione oltremodo tranquillizzante di quel che tra la fine degli anni Venti e l'inizio dei Trenta aveva terremotato il vertice del Pci. «Si spiegherebbe così», prosegue Canfora, «anche perché mai questo sia l'unico documento di cui, in tutta la carriera di storiografo, Spriano non ha mai fornito le esatte coordinate archivistiche». «Beninteso», mette poi le mani avanti, «è soltanto un'ipotesi, ma appare, a tutt'oggi, come quella in grado di dar conto dell'insieme dei dati disponibili e delle molte anomalie altrimenti inspiegabili».
Ma non è tutto. Il libro di Canfora ci esorta a soffermarci su un interessante parallelo tra quel che accadde in occasione delle morti di Grieco (1955), ex capo sia pure solo per un biennio dei comunisti italiani, e di quel Taddei (1956) di cui all'inizio, grande calunniatore, negli anni Trenta, di Gramsci e di altri dirigenti del Pci tra cui Giorgio Amendola. Nel luglio del 1955, quando muore Grieco, «Rinascita» ne dà notizia «con parole piuttosto rituali», molto meno calorose di quelle dedicate a un leader del Psi, Rodolfo Morandi, scomparso in quegli stessi giorni. La rivista annuncia che a Grieco sarà dedicato «ampio spazio nei prossimi numeri». Il che però non accade. «Rinascita» avverte poi il lettore che in un successivo fascicolo sarebbe comparso un saggio di Emilio Sereni dedicato a Grieco. Ma anche questo annuncio non avrà seguito. Sarà Giorgio Amendola, dopo la morte di Togliatti, a ripescare Grieco scrivendo, nel 1966, la prefazione a una raccolta di suoi scritti.
Diverso il trattamento riservato a Taddei. Questi, all'inizio degli anni Quaranta, rese, negli Stati Uniti, una testimonianza a favore di Vittorio Vidali coinvolto in un'oscura vicenda. E il Pci gli dimostrò da quel momento la propria gratitudine. Ad occuparsi di lui, spalancandogli le porte del partito, fu un dirigente della vecchia guardia: Ambrogio Donini. Canfora fa notare che Donini elogiò Taddei e parlò di lui in questi termini: «La sua curiosa opinione era che il nostro compagno (Gramsci, ndr) godesse di troppi privilegi». Curiosa opinione? «Colpisce», scrive Canfora, «la leggerezza con cui viene minimizzata la posizione assunta da Taddei contro Gramsci». Donini gli diede una mano a pubblicare un romanzo di Taddei scrivendone la prefazione che attestò «il suo arruolamento ed il suo ravvedimento». Poi mentre Grieco scivolava nell'ombra, a Taddei veniva riservata la luce di benevoli riflettori. Taddei adesso, più che un politico, si sentiva scrittore. E grazie all'intercessione del Pci, gli venne concessa «una gratificazione non da poco», quella di pubblicare un nuovo libro, Rotaia, per i tipi di Einaudi. Dalla metà degli anni Quaranta gli si consentirà di dare alle stampe volumi di argomento saggistico nei quali Taddei «con un cinismo che non conosce imbarazzi», scrive Canfora, trasformava «in eroi coloro (i capi comunisti, ndr) che aveva minuziosamente descritto pochi mesi prima come canaglie, assassini e parassiti superpagati». Infine alla sua morte, nel '56, sarà il direttore dell'«Unità», Pietro Ingrao, a scrivere l'impegnativo necrologico di quella strana figura di ex anarchico: «La sua milizia nelle file del Partito comunista ci è cara anche come un segno di questo inarrestabile processo che dalle ribellioni disperate di ieri ha fatto nascere un grande movimento rinnovatore». Curiosi destini incrociati all'ombra di Antonio Gramsci. E di Benito Mussolini.

Repubblica 1.5.12
Il barbaro che verrà
La comunicazione infinita, in cui tutto perde valore
di Massimo Cacciari


Siamo ormai forse irrimediabilmente assuefatti a intendere "barbaro" come espressione massima dell'inimicus - dell'hostis cui sarà sempre, per principio, impossibile attribuire il carattere dell'hospes. Barbaro non è solo il nostro nemico, ma il nemico del genere umano. Rude, feroce come una fiera intrattabile, impossibile da "addomesticare" - con lui l'unica pace consiste nel distruggerlo. Di conseguenza, per "salvarci" dai suoi appetiti, e conseguire il fine della sua necessaria eliminazione, ogni mezzo risulterà lecito. Il rapporto col barbaro è quello amico-nemico allo stato puro, in qualche modo addirittura pre-politico. La storia consente di vedere con meravigliosa regolarità quanto il ricorso a questo schema possa diventare un'arma di straordinaria efficacia nel condurre la guerra contro il proprio nemico, nel giustificarla in termini assoluti, oltre ogni calcolo costi-benefici, nel non riconoscere all'avversario alcuna dignità.
Non occorre, tuttavia, grande scienza per sapere che questa idea del barbaro nonè affatto originaria. Il termine, non omerico, si applica eminentemente alla lingua. L'equivalente sanscrito di barbaros significa semplicemente balbus, balbulus, designa, cioè, una persona che parla come fosse balbuziente. Non che sia impossibile intenderlo, ma la sua lingua ci suona simile alla pronuncia di chi sia affetto da balbuzie. Se invece si congettura che il termine provenga dall'area sumericoaccadica, anche in questo caso non si riscontra alcun riferimento ad idee di inumana ferocia: bar - non indica che lo straniero o il confinante, e perciò, di nuovo, colui che semplicemente parla una lingua diversa dalla nostra.
La separazione mortale col barbaro inizia ad affacciarsi solo in seguito alle guerre persiane. Ma basta gettare un'occhiata sui Persiani eschilei per comprendere come questa separazione sia vissuta in chiave culturale e politica, non certo nel senso di una lotta tra civiltà e inciviltà, tanto meno tra umano e bestiale. Che cosa contraddistingue la grande, nobile potenza del "barbaro" impero dei Medi? Quale è il suo dèmone? E' il senso dell' illimite: illimitate terre, sconfinate distese come quelle del mare aperto, illimitati eserciti, illimitato potere del loro Re. Nulla di articolato. Non un'armonia che è composta di distinti, e anche contraddittori, elementi, ma unità in-forme. Non un logos, che raccoglie in sé diverse voci, e in cui ogni parola assume il proprio senso grazie alla sua connessione alle altre, ma un Comando che mette a tacere ogni colloquio, ogni dialettica.
Non per nobiltà di sangue, non per coraggio, non per grandezza di opere e gesta, Europa si oppone a Asia, ma per questo: per la potenza con cui determina ogni astratta unità, per la misura che sa conferire ad ogni elemento, per la esattezza con cui il suo linguaggio si rapporta alla cosa. Anche il Greco conosce l'illimite - ma è l'illimite da cui provengono i cosmi, gli ordini, le forme e la bellezza, alla fine, che possiamo ammirare e dobbiamo conoscere.
Barbaro è "far grumo", unificare senza saper distinguere, o distinguere confusamente senza saper vedere il "comune" che rende possibile la stessa differenza. Barbara è una moltitudine che non sappia farsi polis. Barbara l'idea di un divenire infinito, illimite dove tutto si eguaglia nell'essere semprenuovo, o nell'esser sempre-altro, in cui F sia, cioè, impossibile scorgere un ordine, un senso, una legge. Barbara una lingua che non sia in se stessa colloquio, che non consenta ad ognuno di cercare in essa un proprio idioma, di ricavare dal grembo dei suoi possibili, e restando in tale matrice, la propria espressione, la propria parola. Vorrei dire: barbara una lingua che non custodisca in sé l'energia poetica che si cela in ognuno.
La barbarie così intesa cessa, allora, di apparire come l'astrattamente altro della "civiltà". Barbarie è un possibile sempre "aperto" del nostro essere civile. O, ben più drammaticamente, come Vico insegna, non vi è né origine, né termine della civiltà che non siano barbarie. Trarre dalle miniere indistinte della fantasia, delle superstizioni, delle rappresentazioni, delle passioni - più abissalmente ancora: dalla lingua muta dei segni e dei gesti del corpo, dall' infanzia del corpo - l' arma del logos, è fatica immensa, labor immane compiuto nella sua storia dall'animale uomo. Ma il termine di questa fatica non è affatto assicurato una volta per sempre. Anzi, all'opposto, proprio la scienza è costretta, per Vico, a riconoscere il necessario ricorso della barbarie. Che non significa ritorno dell'uguale, ripetizione dello stesso. La barbarie in cui tramonta, e proprio al culmine della sua raffinatezza intellettuale, il mondo greco-romano (il fiore non è compiuto fino a quando non appassisce, ci ricorda la saggezza orientale), quella nordico-germanica, attraverso cui si universalizza l'Annuncio cristiano, ha significato e destino completamente diversi rispetto a quella da cui si era distaccato l'arcipelago delle poleis, di cui l'ultima, e la più potente, fu Roma. Così quella "barbarie della riflessione" che Vico vedeva avanzare in seno alle civilissime monarchie, dove "l'Europa cristiana sfolgora di tanta umanità", non ha certo il carattere di quella alto-medievale, del suo "tormento infinito", della sua "tremenda passione", quando il barbaro stesso poteva raffigurarsi come il Crocefisso (Hegel).
L'infinito, l'informe della barbarie avvenire non saranno più né quelli di tale tormento, né quelli dell'impero superbo di un Gran Re su terre e mari. La barbarie futura sarà forse piuttosto la confusione che nasce dal crollo dell'idea stessa di impero, dal disincanto su ogni possibile "res publica mondiale", e dalla complementare, universale sottomissione alle "leggi" del mercato e dello scambio, coronate in leggi di natura. Sarà l'assenza di forma derivante dall'equivalenza universale di ogni ente in quanto merce. Sarà la barbarie della pretesa di comunicare illimitatamente, l'apoteosi dell'idea che sia comunicare il rumore del parlarsi-informarsi all'interno di uno spazio che, per propria natura, conferisce eguale "valore" a ogni parola. Se comunicare ha il limite della forma del colloquio - dove ciascuno nella lingua comune cerca di scavare il proprio idioma -, nella barbarie avvenire, invece, il "semplice" di una sola Lingua dirà la "verità" di tutti. Ed è destino che debba essere, allora, accademicamente-scientificamente riconosciuto soltanto chi interpreti Dante "balbettando" in americano.

Repubblica 1.5.12
Un libro di Baudini e il rapporto con l'Altro sui social network
Il dio personale di Facebook
di Stefano Bartezzaghi


L'ipotesi può apparire spericolata, ma viene fuori che forse persino gli autori televisivi hanno un'anima. Prendiamo Dario E. Baudini: ha studiato i linguaggi dei mass media alla Cattolica di Milano, con Gianfranco Bettetini; sempre alla Cattolica è stato assistente di Aldo Grasso, quindi è diventato autore e anche ideatore di diversi programmi (fra gli altri: Mai dire tv, Target, Quelli che il calcio, Galatea, Glob ). Ora ha scritto un libro, e come se scrivere un libro non fosse già un indizio per la ricerca di una redenzione, questo libro ha per protagonista Dio, in veste di interlocutore ( Io sono. Dio fra i miei amici di Facebook, Excelsior 1881, pagg. 142, euro 12,50).
Quello di Baudini non è né un dio fosco di tormenti testoriani ma neppure imbranato e satirizzato come il Trino di Altan. È casomai un Dio pop e sornione, che legge i giornali e i siti giusti, e con cui Baudini si sente in sufficiente confidenza per sottoporlo persino al Questionario cosiddetto di Proust. È certamente in linea con quel Dio personale, con cui ognuno decide di comunicare a modo proprio e senza troppe mediazioni ecclesiali, di cui ci parlano le ricerche sociologiche raccontate di recente da Elena Dusi e commentate da Vito Mancuso. Baudini mette in scena l'autore televisivo Baudini che riceve una richiesta di amicizia su Facebook dall'avatar «Io Sono». I due si scrivono in chate Io Sono si dimostra a conoscenza dei più intimi dettagli della vita di Baudini, certificando di essere davvero quel che il suo nome dice, ovvero l'Essere per antonomasia. Sta cercando un autore tv perché deve rinnovare il proprio testamento, quelli che noi chiamiamo «i Dieci Comandamenti» (e che per lui sono consigli). Baudini deve fare da Mosè, ma invece che di portare a valle due pietroni incisi, gli è richiesto di trovare formule per esprimere la volontà del suo (in due sensi) Autore. Dal dialogo informale fra i due «I. Io sono il Signore... » diventerà: «I. Io ci sono.
Poi fate un po' come volete» «II. Non nominare... » diventa: «II. Non mi date sempre la colpa di tutto quel che succede» eccetera.
L'idea che l'autore tv sia innanzitutto un ghostwriter, che interpreta i gusti, i desideri, le idee di qualcun altro (o Altro che sia) è implicita, ma non è la minore intuizione del libro di Baudini. Libro che non ha intenzioni davvero teologiche, e neppure letterarie, essendo programmaticamente discorsivo e andante nello stile. Ma proprio per questo il buffo dialogo fra Dio e l'autore può entrare a sua volta in dialogo con un lettore che, in fondo in fondo, qualche curiosità nei confronti della religione ce l'abbia ancora.
Pensiamo a quanta religione bazzichi la tv, e quanta tv (più o meno ipocritamente) renda l'attenzione. Non che sia un fenomeno recente, o limitato all'Italia, per quanto sia il panorama nazionale ad annoverare o aver annoverato figure come Ettore Bernabei (potentissimo direttore generale Rai, capo di un'attrezzata dinastia massmediale, in tarda età produttore privato di serie kolossal di argomento biblico) o i fratelli Agnes (Biagio alla guida della Rai e Mario a quella dell' Osservatore Romano ).
Un elenco di notizie o pettegolezzi è potenzialmente sterminato, a partire dal primo amministratore delegato della Rai dall'esordio della TV, il piissimo Filiberto Guala, divenuto prima frate trappista e poi, a quasi sessant'anni, sacerdote dopo la scadenza del suo mandato; o una scelta poco meno radicale compiuta, in ambito però protestante, dalla vivace soubrette Lola Falana sino ai più recenti casi di Claudia Koll e Paolo Brosio. Per non considerare poi il tritume di dichiarazioni accorate, icone di Padre Pio sfoderate, croci pendenti tra calvari siliconati, sino ai segni devozionali alternati alle bestemmie sui campi di calcio. È quella galassia di spiritualità più o meno telegenica che il rapper Frankie hi-nrg mc da tempo ha riunito sotto la pittoresca etichetta di «religione catodica».
Non sono solo pettegolezzi. Dalla Pentecoste al broadcast, da Controriforma e gesuitismo ai pionieri della massmediologia Marshall McLuhane Walter J. Ong (entrambi cattolici, il secondo prete gesuita), il filone massmediale della Chiesa è determinante non solo per la Chiesa stessa ma anche per la massmediologia. Ma la disseminazione avviene sempre dall'alto al basso e quindi intercetta e dialoga solo sino a un certo punto quell'idea di Dio come amico che Baudini ha messo in opera, usando il semplice artificio narrativo e confidenziale di Facebook.
Meglio il Dio come «valore» di riferimento per l'alto lobbysmo che influenza i parlamenti (ma soprattutto uno, il nostro)? O quello, non più immaginario, che chattando alla buona riparla di temi come la vita dopo la morte, l'esistenza del bene e del male, il libero arbitrio, il rapporto con il peccato? A ognuno la sua scelta, ma sono questi ultimi i temi che da sempre fanno desiderare, immaginare o postulare l'esistenza di qualcun Altro, o qualcos'altro.

Corriere 1.5.12
Che disgrazia amare un tiranno
di Giuseppe Galasso


Nessun grand'uomo, si dice, è davvero grande per il suo cameriere, ma Hegel diceva che la meschinità è del cameriere, incapace di elevarsi al livello dei grandi. Che dietro ogni grand'uomo vi sia sempre una donna, o anche una grande donna, è, invece, un detto ancor più noto e poco contestato; ed è forse a esso che si è ispirata Diane Ducret per il suo Le donne dei dittatori (Garzanti, pp. 408, € 22,60).
Vi si vede, in primo luogo, che intorno o dietro i dittatori del XX secolo di donne non ce n'è mai una sola, bensì una folla. Sorprende, però, ancora di più la ripetitività di queste vicende. Si tratti del cupo e cattolicissimo Salazar, o del materialista e brutale Stalin, o del complessato e ossessivo Hitler, o dello sbrigativo e compulsivo Mussolini, o di capi dal duro profilo di un Lenin o di un Mao Zedong, o di un piuttosto volgare mestatore come Ceausescu, o dell'incredibile «napoleone africano» Bokassa, la storia è sempre la stessa. Ingenue fanciulle e donne meno giovani o navigatrici di lungo corso cadono nella rete del loro grand'uomo o vi si precipitano da sé, per restarvi poi a lungo o anche per sparirne subito. Quelle che restano vivono una favola bella solo ai loro occhi, in cui si perdono dall'inizio alla fine. Tutte appaiono vittime di una cattura mediatica, che non è, però, quella dei media, bensì quella di un'immagine che si sente nell'aria o si coglie al primo contatto. Alcune tendono addirittura a prendere il posto del loro uomo, come, con Mao, la terribile Jiang Qing, quella della «banda dei quattro», e come l'incontenibile Ceausescu. Le più si accontentano di povere e sporadiche elemosine di incontri o di una strumentalizzazione da autentico «usa e getta». Alcune si suicidano, come Geli Raubal, nipote-amante di Hitler, o la Allilueva, moglie di Stalin. Altre muoiono per il loro uomo, come la Kaihui di Mao, o lo seguono sino all'epilogo fatale: Clara Petacci, Eva Braun, Elena (in realtà, Lenuta) Ceausescu. C'è chi impazzisce, come la povera Ida Dalser, alla quale Mussolini rovinò senza pietà anche il figlio nato dalla loro relazione, Albino. Qualcuna fa da musa ispiratrice o da Pigmalione del dittatore, come la Sarfatti per Mussolini.
V'è di tutto, insomma (ma non il femminismo e la causa delle donne, come in più casi qui si afferma). La Ducret ha, invero, il buon gusto di non entrare mai nelle alcove o giacigli occasionali dei suoi «eroi», ma ci dice abbastanza per farci un'idea della natura e dell'andamento sia delle non rare storie d'amore vere e proprie, sia degli incontri che a Roma venivano chiamati «sveltine». Ma si può trarre un succo complessivo da queste vicende che giustifichi la fatica dell'autrice e ne legittimi il libro?
È difficile dirlo. Difficile perché quello fra il dittatore onnipotente e le sue tante donne è un caso dell'infinita varietà di rapporti fra uomo e donna, che non viene sperimentato solo al livello della potenza dittatoriale. I dittatori nella vita sociale sono innumerevoli, a ogni livello. Non tutti possono fare quel che può fare, magari per capriccio, chi può usare mezzi che vanno dai poteri pubblici, compresi polizia e tribunali, a mezzi finanziari ragguardevoli e a possibilità non comuni di tenere segreti i propri incontri. Ma violenze, servitù psicologica o fisica, riduzioni alla disperazione, ossessioni del sesso, meschinità di camere da letto o di anticamere, sadismi e masochismi, inganni, così come amori totali, passioni inestinguibili, nobili sacrifici e fedeltà, e quant'altro può esservi fra uomo e donna, non sono un privilegio del XX secolo e dei dittatori. Pur con gli enormi progressi della condizione femminile, sono una realtà della vita vissuta di quest'epoca a ogni livello sociale. E, in varie forme, sono stati una realtà di ogni tempo. Cambierà nel futuro?
È vero che Hitler riteneva decisiva per la conquista del potere quella delle donne. Ma certo non pensava che fossero la seduzione e il rapporto con quelle che gli stavano intorno a permettere questa conquista. Bastava, come oggi in pieno regime mediatico, per l'immagine politica del capo, mostrarsi con una compagna esemplare al suo fianco, e Hitler si risparmiava anche questo.
Superfluo allora un libro come questo? Direi di no. La Ducret sa scrivere. La sua galleria di persone e situazioni fuori del comune è un'utile cronaca di fatti che continuano a polarizzare studi e curiosità, anche perché le storie narrate hanno fatto parte della nostra esperienza contemporanea. Vederle al di là della porta che ce ne precluse l'effettiva realtà è più che leggere più o meno mediocri romanzi.

La Stampa 1.5.12
Se il “credere” diventa una banalità
di Gian Enrico Rusconi


Sono rimasto colpito da due grandi manifesti collocati a poche centinaia di metri l’uno dall’altro non lontano da casa mia. «Io credo nel fotovoltaico» è il loro messaggio. Un manifesto mostra una donna vestita di nero, evidentemente islamica, con le mani atteggiate a preghiera. L’altro rappresenta di spalle un sacerdote in abiti sacri che tiene in mano un crocifisso. Anche per lui vale la scritta «Io credo nel fotovoltaico».
E’ nata forse una nuova chiesa, targata www.heliosimpianti.it? No, evidentemente. E’ una spiritosa trovata dei pubblicitari «creativi» (si chiamano così...). Che cosa non fanno oggi per «bucare» il flusso della comunicazione! Chissà se hanno fatto anche una terza versione del manifesto: un operaio metalmeccanico che tiene le mani sul Capitale di Carlo Marx o forse più realisticamente oggi sull’art. 18. Anche lui potrebbe credere nel fotovoltaico.
Dobbiamo ridere? No. Proviamo a fare qualche riflessione.
Il mio primo impulso è stato quello vedere in quella pubblicità una mancanza di rispetto verso le religioni, evocate in par condicio - la cristiana e l’islamica. Ma poi ho pensato che l’ufficio legale della Helios si è già premunito in anticipo contro questa obiezione, dicendo che nella pubblicità sono rappresentati due esponenti o fedeli delle religioni che semplicemente dichiarano di credere anche nel voltaico. Anzi, in fondo «sono tecnologicamente avanzati» - aggiungerebbe l’astuto avvocato. L’offerta è super partes, è ecumenica, è universalistica,
In effetti il trucco è giocato tutto sulla parola e sul concetto di «credere», che ha perso ogni rigore e pregnanza ma ha guadagnato in estensione. Si crede o si ha fede nei dogmi religiosi, nella democrazia, in un partito o nella Padania, si crede nel proprio coniuge ecc. E’ una parola inflazionata ma tenace come quella di popolo (il popolo italiano, il popolo dell’Iva, il popolo della Juve ecc.). Perché non credere anche nel fotovoltaico?
Naturalmente la forza della parola «credere» dipende (in modo subliminale) dal riferimento religioso. Non a caso il «credere» e il «non credere» si riferiscono innanzitutto ai contenuti di fede. E’ l’utilizzo più nobile ma più equivoco. Suggerisce infatti che qualcuno che «crede» ha qualcosa in più (sottovoce si intendono «i valori») di qualcun altro che «non crede».
Naturalmente è una colossale sciocchezza, ma funziona. Tant’è vero che persino per promuovere il «fotovoltaico» è più semplice e tentante far ricorso al credere che all’argomentare.
Ma non voglio esagerare oltre nell’esegesi di una comunicazione pubblicitaria che magari passerà inosservata per i più, tanto è denso il flusso informativo che ci investe. Qualche lettore può anche mettersi a ridere per quanto sto scrivendo.
Sarà un mio vizio professionale, ma prendo sul serio le parole. Soprattutto quando mettono in gioco «fede» o «credo», esibiti come punti fermi di certezza in un mondo di incertezze. Una forza che per associazione va oltre il campo religioso e interessa tutti gli ambiti della vita.
Il discorso non è semplice, lo so. Ma i creativi della pubblicità hanno intuito che giocando sulle ambiguità e sulle assonanze della parola «io credo» possono vendere anche qualcosa, come il fotovoltaico, che viceversa richiederebbe ragionamenti ben più articolati e ragionati.

La Stampa 1.5.12
Soldaten, i ciarlieri carnefici di Hitler
Dalle tecniche di sterminio degli ebrei alle stragi di civili, agli stupri di massa
In un libro le conversazioni dei soldati tedeschi prigionieri degli Alleati: si raccontano gli orrori della guerra, con pochi dubbi e qualche ironia
di Giorgio Boatti


Un catalogo degli orrori. Un repertorio di crudeltà che va ben al di là della ferocia insita in ogni guerra. Soldaten, il libro in uscita da Garzanti, con cui lo storico Sonke Neitzel e lo psicologo sociale Harald Welzer ricostruiscono il mondo interiore dei soldati di Hitler, non è lettura per palati fini. O per sensibilità delicate.
Per oltre quattrocento pagine i due studiosi attingono alla montagna di verbali - desecretati dagli archivi inglesi e americani - che riportano le intercettazioni delle conversazioni tra combattenti tedeschi, detenuti nei campi di prigionia di Trent Park e Wilton Park nel Regno Unito e di Fort Hunt negli Usa.
I verbali sono il frutto del lavoro della rete dei Secret Interrogation Center allestiti da Londra già all’inizio della guerra e dei Joint Interrogation Centre resi operanti dagli americani a partire dall’estate del 1941. Sul milione di prigionieri caduti in mano alleata sono circa 10.000 i militari tedeschi e 563 gli italiani (su questi ultimi, in Soldaten, emerge piuttosto poco) trasferiti, dopo opportuna selezione, in questi luoghi di detenzione speciale. L’obiettivo non è raccogliere prove per punire azioni criminali, ma fornire all’intelligence alleata materiale prezioso sull’avversario che si sta ancora fronteggiando. Quella che si effettua è una sorta di vivisezione operata su una significativa campionatura del grande corpo delle armate di Berlino. Ne emergono schegge taglienti, impietosi reperti di una guerra senza regole che viene esposta con una schiettezza che nessun interrogatorio potrebbe mai afferrare.
Ikamaraden, ignari - o, forse, in alcuni casi, incuranti - di essere intercettati dalle «cimici» installate nelle baracche di questi campi speciali, si raccontano l’un l’altro quella che per loro, alla fine, è stata solo la pratica quotidiana del mestiere di soldati di Hitler. Nelle oltre 150.000 pagine dei documenti vagliati dai due studiosi prendono corpo, attraverso le voci dei diretti protagonisti, i dettagli più raccapriccianti del secondo conflitto mondiale: dalle modalità operative dello sterminio degli ebrei alle esecuzioni dei prigionieri, dalle stragi di ostaggi civili alla pratica dello stupro di massa nelle terre occupate. Sino alle «battute di caccia» con cui carnefici volontari, in un caso persino gli appartenenti a una banda musicale inviata ad allietare le truppe al fronte, chiedono di «sparare assieme» ai reparti «specializzati» nell’eliminazione di ebrei e partigiani.
Tutto accade come fosse la cosa più scontata e normale. In Soldaten si spiega come questi siano i frutti maturati in Germania in poco più di sei anni, dall’avvento di Hitler nel 1933 allo scoppio della guerra - della convinta adesione della maggioranza della società tedesca al mito della «razza eletta». Le riserve e gli interrogativi, quando ci sono, si rifugiano in privatissimi ambiti. Nella vita pubblica la comunità dei prescelti esige degli esclusi: gli ebrei, i matti, gli zingari, gli oppositori. Nei confronti di questi, già in tempo di pace, una condotta collettiva e individuale sempre più disumana diventa la norma. Questo indurrà l’uomo della strada, il padre di famiglia esemplare - una volta rivestito nell’uniforme - a convivere con ogni efferatezza.
Ancora una volta la Storia dimostra che non conta l’irrealtà di una situazione quanto il fatto che chi vi è immerso la possa percepire come reale.
Come dice il sociologo americano William I. Thomas, anche i fatti immaginari - ad esempio il «complotto ebraico» da estirpare per salvare la Germania - finiscono con l’avere conseguenze reali: l’infinito sgranarsi di brutalità e crimini rievocato, senza rimorsi né dubbi, nelle intercettazioni di Soldaten, ne è la prova. Secondo lo storico Wolfram Setter furono poco più di un centinaio i casi di «Rettungswiderstand», ovvero di resistenza agli ordini finalizzata a salvare vittime. Cento su oltre 17 milioni di soldati inquadrati nella Wehrmacht nel corso dei sei anni di guerra. Tutti gli altri si adeguarono. Da volonterosi carnefici, da zelanti complici o da obbedienti comparse marciarono compatti sino in fondo al baratro. Facendo tacere ogni compassione e umanità.

l’Unità 1.5.12
Rousseau, il piacere dell’eguaglianza
A trecento anni dalla nascita del ginevrino dalla vita spericolata e virtuosa Un pensatore decisivo per le origini della sinistra che vide le alienazioni della società di massa, anticipò il romanticismo e inventò la sovranità popolare
di Bruno Gravagnuolo


Jean-Jacques Rousseau compirà trecento anni il 28 giugno. E festeggiamenti e maledizioni sono già cominciate. Come nella vita del ginevrino, sempre in bilico tra devozioni e ripulse. Usciamo da giochini mediatici e luoghi comuni. Per esempio: Hollande a sinistra è con Rousseau, Sarkozy a destra è con Hobbes. Parola della rivista Philosophie. Oppure: Rousseau virtuista, moralista, pericoloso, «giustizialista». Secondo la vulgata di Corrado Ocone su La Lettura del 15 aprile. Cominciamo da qualcos’altro: da Jean-Jacques e dal suo «problema», come direbbe Ernst Cassirer. Problema di una certa «soggettività», che diventa il teatro interiore di un dramma storico più vasto: la modernità di massa. Che può stritolare o emancipare individui e popoli.
Presto detta la cifra biografica del ginevrino. Orfano di una madre bibliofila morta nel concepirlo e allievo di un padre calvinista e orologiaio. Che lo abbandona dopo una rissa. Girovago e mantenuto, da nobili e gran dame, sue amanti. Prima fra tutte Madame de Warenne, la sua «maman». Incisore, segretario, operista, lacché, copista di partiture. C’è stato chi come Robert Darnton ha ipotizzato che Il nipote di Rameau, dissipato parente del musicista allora in voga, e ispiratore del dialogo di Diderot, fosse Rousseau stesso. I conti tornano. Diderot fu sponsor di Jean-Jacques, e lo conobbe da parassita e da profeta. La musica, copiata o composta c’è. Rousseau scrisse tre opere, tra cui le Le Muse galanti, rappresentata in casa di Madame di Epinay, altra sua amante. Ma più che altro torna una «dialettica». Quella scoperta da Hegel, recensore del libro di Diderot nella Fenomenologia dello spirito: coscienza libertina e coscienza virtuosa. Nichilismo e morale. Dissoluzione e volontà.
Ma a un certo punto Jean Jacques «si decide». E, folgorato nel 1750 da un concorso dell’Accademia di Digione, scende in guerra contro il Progresso, i Lumi, l’Enciclopedia. E attacca l’ineguaglianza e il dispotismo, l’educazione falsa. Il dissipato, sempre amato da influenti protettori, è diventato un Licurgo dell’Etica. Ma qual è il cuore del problema in questa Etica immaginaria che risana le piaghe del mondo assieme a quelle di Jean-Jacques? Eccolo: autenticità del soggetto umano, e ricostruzione (romantica) della natura umana divisa da orgoglio, ineguaglianza e proprietà. Qui la chiave. Per Rousseau la politica, al tempo moderno, è l’unica psico-terapia in grado di arginare l’infelicità. Terapia psicologica, non a caso. Non solo perché in Rousseau c’è una psico-pedagogia per raddrizzare le storture dell’anima e creare buoni cittadini. Non solo perché tra Confessioni e Réveries praticherà l’autoanalisi tesa all’«autenticità» e alla «trasparenza» del soggetto. Ma perché nell’era del dispotismo, segnato da nuove ineguaglianze proprietarie, la politica è l’unica salvazione. Per ripristinare l’unità infranta dall’«amor proprio» e dal prometeismo alienato, che ha lacerato il sentimentalismo dell’«amor di sé», entro il quale il genere umano viveva nell’equilibrio della compassione per l’altro.
C’è qui una chiara lezione calvinista. Quella del peccato originale che si svela nella perversione dell’ego ritorta nell’onnipotenza autosufficiente. Fino ad asservire l’altro in una smisurata libido manipolatoria. Dopo il crollo dell’unità senza colpa del genere umano e della sintonia tra simili con la natura benefica. E l’inizio della tecnica e delle arti, esercizi di arricchimento e vanità.
Ricomporre quella unità, infranta da catastrofi, disubbidienze e usurpazioni, è impossibile per Rousseau (come scrive nel Discorso sull’ineguaglianza). E però residua un dovere: ricomporre la frattura almeno artificialmente. Almeno nella volontà etica pungolata dalla «mancanza originaria». Come? Con un contratto. Un artificio sociale in forma di protesi razionale. Insomma, una specie di regno dei fini in terra, assiso su un vulcano fatto di potenziale e latente regressione verso l’egotismo connaturato alla natura umana. È una giustificazione per fede quella di Rousseau, dove l’atto di fede sta nel tramutare la perfettibilità umana (pericolosa e arrogante) in virtù mediana dell’accordo politico giusto. Che ripristini la trasparenza, l’immediatezza della compassione e la gioia del rispecchiarsi nell’inerme: per elevarlo e farne un cittadino libero. Fare Contratto sociale è lavare il peccato originale. E consacrare, con una teologia politica, l’ecclesia dei cittadini all’unico modo di venerare Dio. Con una comunità civile. Dove l’eucarestia risanatrice è lì presente e reale, nella Volontà generale e nell’Io comune.
Dunque, ecco un patto dove «ciascuno unendosi a tutti non obbedisce che a se stesso e resti tanto libero come prima». C’è la persona giusnaturalista in quel patto, e gli averi. E nondimeno solo il patto li riconosce, arrogandosi il diritto politico di revocarli. Non più diritti imprescrittibili e sanciti a valle dal patto, come in Locke. E neanche la soggezione perenne al sovrano, una volta conferitogli l’assenso nel contratto. L’idea è un’altra. È il moto quieto e continuo della Volontà indivisa che si esercita in comune e non si smembra. Si autorappresenta e non si cede, se non come delega tecnica, revocabile a maggioranza. Niente corpi intermedi. Niente fazioni, «partiti» o associazioni. Niente arricchimenti di troppo, poiché libera per Jean-Jacques è quella società dove nessuno è tanto ricco da poter compare la libertà di un altro, o tanto povero da doverla venderla. Per inciso: splendido slogan per la sinistra, anche oggi! Come è splendida l’analisi, che nel Contratto Rousseau svolge su opulenti e pezzenti. I primi sono i fautori della tirannide, i secondi coloro dai quali provengono i tiranni. Perchè gli uni comprano, e gli altri vendono... Sicché Rousseau analista della diseguaglianza, che l’incipiente capitalismo cova all’ombra dell’Antico Regime. E Rousseau riformatore d’anime in forma politica. Altra intuizione: la società moderna seduce e «aliena», con scintillio di lusso e di denaro. Ed è esposta a demagoghi e involuzioni autoritarie, se il cittadino si estranea dal civismo.
Ma c’è dell’altro. Jean-Jacques fu un profeta egualitario, che per paradosso ha alimentato i suoi nemici: uomini e movimenti dispotici. Bandire infatti fazioni e corpi intermedi, genera sempre un vortice fatale. Tra «stato, movimento e popolo» polarizzato sul tiranno carismatico che si fa scudo dell’emergenza. Ed è così che nella storia la dittatura, «provvisoria e commissaria», diviene «sovrana» (Carl Schmitt). Nei totalitarismi di destra e sinistra. Sull’onda dell’«azione diretta» contro rappresentanza e partiti. Dai giacobini, ai reazionari comunitari, al soviettismo. Passando per populismi e fascismi. Risolutiva a riguardo l’analisi sul Terrore giacobino del solito Hegel: la Volontà generale per palesarsi senza corpi intermedi, ha bisogno di complotti da stroncare e pericoli da sventare. Di mobilitazione e guerra civile, fino all’autodistruzione. Ecco allora ciò che deve essere chiaro: gli eredi perversi Rousseau sono all’oggi i fanatici del «partito personale». Tra presidenzialismo, antipolitica e dintorni. Eredi inconsapevoli o cinici. Che rimuovono un dato: quella di Rousseau era pur sempre una democrazia civica ed egualitaria, all’alba della democrazia, con tutta la carica selvaggia del grido lancinante contro l’ingiustizia. In conclusione perciò, tanti auguri Jean-Jacques! Non hai colpa per come ti hanno usato: contro te stesso. Perciò, onde evitare malintesi, di destra o di sinistra, promettiamo di difenderti. Ma anche di maneggiarti con cura.

Corriere 1.5.12
«Kafka, il mio rebus tra le note»
Silvia Colasanti: una sfida sonora rappresentare La metamorfosi
di Giuseppina Manin


Risvegliarsi un mattino e ritrovarsi trasformato in un enorme insetto immondo… Il celebre incubo di Kafka, incipit di uno dei racconti più emblematici del 900, metafora della repulsione per il «diverso». Da emarginare, occultare, spazzar via. Come accade al povero Gregor Samsa, protagonista di quella favola nerissima che è «La metamorfosi».
Silvia Colasanti: è anche il titolo della sua opera. Curioso e rischioso averla scelta per il suo esordio al Maggio…
«Amo le sfide. E l'idea di cimentarmi con quel mondo surreale, di tramutarlo a mia volta in qualcos'altro, mi ha subito tentata», confessa la compositrice trentasettenne romana.
Lei è anche il primo autore donna a cui l'Ente lirico fiorentino abbia mai commissionato un'opera...
«Paolo Arcà, il direttore artistico, che conosceva i miei lavori precedenti, mi ha chiesto di pensare a un soggetto in sintonia con il tema di quest'anno, la Mitteleuropa. L'apologo di Kafka, traboccante di tanti spunti così attuali, mi è parso perfetto. Poi ho avuto la fortuna di avere un artista come Pier'Alli a firmare libretto, regia, scene e costumi. Abbiamo lavorato fianco a fianco, in un fitto scambio di idee musicali e teatrali».
Il problema compositivo più arduo?
«Come rappresentare musicalmente il protagonista. Ibrido tra uomo e animale, la sua voce deve comprendere quei due mondi, evocare l'idea di una mostruosità e dar corpo a tante sonorità distorte. Un personaggio multiplo, polifonico».
Come comparirà in scena?
«Gregor avrà diverse incarnazioni, fisiche e sonore. Archi, fiati e percussioni, gli strumenti impegnati con l'Orchestra e il Coro del Maggio diretti da Marco Angius. A interpretarlo, un attore, un mimo, e soprattutto il coro».
Si vedrà la sua metamorfosi?
«Come nel racconto, anche qui apparirà già trasformato, ma visibile solo alla fine del primo atto... Insetto, ma per niente realistico. Lo stesso Kafka raccomandò al suo editore di non mettere in copertina nessun disegno esplicito. E poi le metamorfosi di questa storia sono tante...».
In che senso?
«Gregor cambia solo esteriormente. Dentro il guscio d'insetto la sua anima resta uguale. Sensibile e sofferente, pronta a risvegliarsi in tutta la sua umanità al suono di un violino. Quello che invece muta davvero è lo sguardo degli altri, persino dei suoi cari, su di lui. Se la sua è una trasformazione improvvisa e spettacolare, quella di chi lo circonda è progressiva e insidiosa. Alla fine i veri mostri sono loro».
L'umanità, avverte Kafka, spesso si nasconde dove meno appare. E il potere della bellezza, nel caso la musica, è di rendere visibile l'invisibile.
«La musica è un dono straordinario. Ascoltarla, eseguirla, comporla, è sempre un gran privilegio. Per me, la vera passione della mia vita».
Non deve esser stato facile affermarsi come compositrice. In Italia un mestiere arduo per chiunque. Figurarsi per una donna...
«Quando andavo al Conservatorio di Santa Cecilia ero l'unica allieva al corso di composizione... E ancora adesso mi pare sia così. Però non ho mai incontrato particolari difficoltà. Ho fatto i miei studi, mi sono perfezionata con maestri come Corghi, Vacchi, Rihm, Dusapin, ho partecipato a vari concorsi, molti li ho vinti, ho scritto brani sinfonici e opere per il teatro musicale... La mia femminilità non è mai stata un handicap. Forse siamo noi donne a crearci per prime delle remore».
In quanto tempo compone un'opera?
«Per “La metamorfosi” ci ho messo 9 mesi».
Il tempo di una gravidanza...
«Tempo reale, visto che l'ho composta proprio mentre ero incinta. L'opera l'ho terminata lo scorso dicembre, Antonio, mio figlio, è nato a gennaio. Una doppia gestazione, entrambe bellissime. La trasformazione del racconto l'ho vissuta anch'io, sul mio corpo, dentro di me. Ma fortunatamente in modo molto più lieto e sereno».

Corriere 1.5.12
E Vespucci creò il mito americano
Descrizioni fantasiose che accesero duchi, artisti, cartografi
di Miguel Rojas Mix


Miguel Rojas Mix, scrittore e accademico cileno, terrà il 4 maggio (ore 11) a Firenze presso l'Aula Magna del Rettorato dell'Università una lectio magistralis (così come Alberto Arbasino) su «L'America immaginaria: la rappresentazione di un continente da Vespucci a Milo Manara»

Quando Colombo scoprì l'America, il Vecchio Mondo non aveva alcuna immagine del Nuovo. Solo dei limiti del mondo conosciuto, di quell'oltre frontiera che la fantasia, da Omero in poi, aveva popolato di mostri e di pericoli. Mostri che incarnavano la paura dell'ignoto. L'Europa conosceva i Barbari dalle Guerre Persiane. Erano l'altro, la diversità. Ma non aveva un'idea chiara degli esseri primitivi... a parte Adamo ed Eva espulsi dal Paradiso o l'irsuto villano medievale che viveva cacciando donzelle, l'homo sylvestris, o semplicemente il Ciclope, colui che Euripide definiva come «uomo senza agora», ovvero senza vita né politica né sociale.
Fu così che l'Europa, fin dai primi anni della scoperta, scaricò tutte le sue fantasie sul Nuovo Mondo. «Gli uomini erano azzurri e avevano la testa quadrata», era il modo in cui Johannes de Sacro Busto descriveva in Sphaera Mundi, 1498, l'uomo americano che l'Europa aveva appena «scoperto».: «...Quando nell'anno del Signore 1491, il nostro Grande Re Ferdinando di Spagna inviò esperti navigatori nell'Occidente Equatoriale a cercare nuove isole, questi navigatori a loro volta, dopo circa quattro mesi, dissero che avevano trovato molte isole all'Equatore, o vicino ad esso, e a riprova di ciò portavano molti generi di uccelli prelibati, varie spezie aromatiche ed oro; portavano con sé anche alcuni uomini da queste regioni. questi uomini non erano alti, però erano ben formati, ridevano di gusto e avevano una buona disposizione d'animo, fiduciosi e docili, di notevole intelligenza, di colore azzurro e con la testa quadrata. Agli spagnoli sembravano stranissimi» (Sphaera Mundi, 1498).
Cronisti e cartografi abbondarono in immagini fantastiche e teratologie cartografiche. Certo è che le lettere di Amerigo Vespucci, i testi, le stampe che le illustrano e la diffusione che ebbero, lo rendono il più famoso fondatore di questa immagine fantastica e semi utopistica del Mundus Novus (1505): «Hanno la pelle quasi rossa. Vivono tutti insieme senza un re o un capo di nessun genere. Si sposano con la prima che trovano e non si attengono ad alcuna legge. Si divorano a vicenda. Usano salare la carne umana ed appenderla fuori dalle case allo scopo di essiccarla. Raggiungono l'età di centocinquanta anni e raramente si ammalano». Una stampa dell'edizione tedesca della Lettera a Pier Soderini mostra una femmina della costa del Brasile che assesta un colpo a un marinaio che cercava di insediare un gruppo di donne. Nei suoi testi Vespucci dice di aver visto giganti cannibali nell'isola vicina a quelle che sarebbero le coste venezuelane.
Antonello Gerbi, altro grande fiorentino, erudito e intelligente, che guidò i nostri passi sulla strada della comprensione dell'America, commenta brevemente: «Amerigo Vespucci si diverte a parlare di giganti e gigantesse del Nuovo Continente» . L'idea dell'amazzone cannibale fu un mito della teratologia americana che ebbe ripercussioni su noti artisti. Senza dubbio sul Bosco. Come poteva non interessarsi il Bosco a un testo che entrava in una realtà trasfigurandola in fantasia?Un esempio è il suo bozzetto della gigantessa che tiene in bocca un marinaio, riferimento diretto a Vespucci. Ci sono immagini che coniano concetti. Un esempio è dato dall'idea della barbarie. Un'altra illustrazione alla lettera di Soderini ce lo mostra con evidenza:è la vista di una popolazione nuda che prepara una cena cannibale, mentre, tra i commensali, un uomo orina copiosamente senza alcun pudore.
Per comprendere i concetti marginali che creano queste immagini occorre leggerle nel loro contesto sociale. Vespucci scrive in un'epoca e in una società rinascimentale, dove l'ideale civile dei costumi era stabilito dal Cortigiano di Baldassare da Castiglione, che esecrava il comportamento selvaggio.
Sarà Montaigne ad opporsi a questa idea di barbarie. Fondatore dell'antropologia moderna e dell'interculturalità, scrive in Les Canibals a proposito dell'antropofagia: «Chiamiamo barbarie ciò che non fa parte dei nostri costumi» (chacun appelle barbarie ce qui n'est pas de son usage). Aveva ragione. Vespucci lo ribadisce quando commenta che i brasiliani si meravigliavano del fatto che gli europei uccidessero i loro nemici senza poi mangiarseli.
Ma, oltre ad alimentare le fantasie sul Mundus Novus, è giusto riconoscere ad Amerigo il merito intellettuale di aver scoperto che si trattava di un Nuovo Mondo. Fu il Fiorentino che, di ritorno dal suo Quarto Viaggio (se lo fece) in una lettera indirizzata a Lorenzo de' Medici, stampata nel 1504, annuncia che ha appena scoperto un quarto continente. «Giungemmo in una nuova terra, che scoprimmo essere terra ferma. Arrivai alla parte degli Antipodi, che secondo la mia navigazione è la quarta parte del mondo. Riconoscemmo che quella terra non era un'isola bensì un continente». Nella stessa lettera chiama queste terre Mundus Novus. È vero che il primo ad utilizzare il nome Mundus Novus è stato Pietro Martire d'Anghiera in una lettera al cardinale Sforza del 1493, ma fu Vespucci che gli dette il senso di Quarta Parte della Terra, ovvero di un nuovo continente. E furono i canonici di Saint-Die, nella Lorena, più la buona sorte del fiorentino, quelli che immortalarono il suo nome in una geografia che da allora comprende l'intero pianeta. Nel 1507 i monaci stavano preparando una nuova edizione della Geografia di Tolomeo, quando arrivò al monastero un frate che veniva da Friburgo, di professione cartografo, Martin Waldseemüller. Allo stesso tempo, cadde in mano del duca Renato II un esemplare della lettera di Amerigo a Soderini, con una mappa nella quale erano disegnate le regioni scoperte. Affascinato da ciò, ordinò ai monaci di abbandonare Tolomeo per dedicarsi in pieno alla stampa e alla traduzione in latino della lettera. Waldseemüller venne incaricato di confezionare una mappa in cui figurasse il Nuovo Mondo. Era una geografia inedita che annunciava al mondo la conoscenza di un altro continente. Alla fine del testo si leggeva: «Ora che una quarta parte è stata scoperta da Americus Vesputius non vedo ragione alcuna per non chiamarla America, vale a dire Terra di Americus».