giovedì 3 maggio 2012

Corriere della Sera 3.5.12
Heidegger, genio razzista impenitente
di Armando Torno

H eidegger è uno dei filosofi contemporanei di riferimento. Più di ogni altro suscita discussioni e continue prese di posizione. In Italia la traduzione degli scritti continua e un editore come Adelphi ha in catalogo una ventina dei suoi libri. Da poco sono usciti altri due titoli. Christian Marinotti ha pubblicato La storia dell'essere (pp. 206, 22), un volume che contiene pagine risalenti agli anni 1938-40; mentre Quodlibet ha appena edito la Fenomenologia dell'intuizione e dell'espressione (pp. 192, 24), vale a dire il corso del semestre estivo che il filosofo ha tenuto a Friburgo nel 1922. Ma c'è un terzo libro che riguarda Heidegger: è il volume che ha fatto discutere nel 2005 e che oggi esce tradotto anche in italiano. Si tratta del saggio di Emmanuel Faye, professore di filosofia moderna e contemporanea a Rouen, dal titolo Heidegger, l'introduzione del nazismo nella filosofia. Lo pubblica l'editrice «L'asino d'oro» di Roma ed è stato curato da Livia Profeti (pp. 544, 30). Della prefazione al testo italiano dello stesso Emmanuel Faye (da lui scritta lo scorso marzo), di una ventina di pagine, viene qui dato uno stralcio che ben illustra il contenuto del saggio. L'autore ribadisce tra l'altro, in questo suo contributo, il razzismo del celebre pensatore nei corsi dal 1927 al 1934; dedica un paragrafo all'«apologia dello sterminio nell'autunno del 1941», analizza le responsabilità dello stesso Heidegger per la diffusione del nazismo e si sofferma sulle lettere alla futura moglie Elfride. Sin dal 1916, sottolinea Faye, ci sono prove del suo antisemitismo. La curatrice, Livia Profeti, chiarisce nella sua nota le ragioni dell'edizione de «L'asino d'oro». Tra esse, ricorda, «si è voluto offrire ai lettori la possibilità di ritrovare facilmente quelle affermazioni razziste e pro-naziste anche nelle traduzioni italiane delle opere di Heidegger, dove spesso il loro reale significato è difficilmente riconoscibile». Nota, per esempio, che il termine Vernichtung è stato reso con annientamento; invece Zucht e Züchtung, già presenti in Nietzsche e da lui utilizzati in senso allegorico, sono stati intesi rispettivamente come ammaestramento e selezione, giacché in Heidegger «non c'è alcuna opposizione tra biologia ed educazione». Del saggio di Faye è stata tradotta la seconda edizione, uscita in Francia nel 2007. Le modifiche, per lo più riguardanti un aggiornamento inevitabile per le continue pubblicazioni di e su Heidegger, sono state concordate con l'autore, che a sua volta è intervenuto tra le edizioni del libro. Quella italiana, in particolare, ha tralasciato solo due paragrafi non riguardanti direttamente il filosofo tedesco. Non mancano comunque le pagine con osservazioni puntute su Carl Schmitt, Alfred Baeumler, Erik Wolff, Ernst Jünger.

Corriere della Sera 3.5.12
«Così pubblicò i suoi corsi per celebrare il nazismo»
Li fece inserire dopo il '53 nell'Opera integrale

di Emmanuel Faye

D opo la sconfitta del III Reich, una commissione di professori di Friburgo incaricata di giudicare i casi più gravi chiama Heidegger a rispondere dei «danni tremendi» causati all'università e del suo «antisemitismo». Gli sarà vietato di insegnare e di partecipare a qualsiasi attività universitaria, divieto che sarà mantenuto fino al 1951. La commissione seguì le raccomandazioni di Karl Jaspers, che aveva consigliato caldamente, visto in particolare il «modo di pensare heideggeriano non libero, dittatoriale e scarsamente comunicativo», di sospenderlo dall'insegnamento per alcuni anni, ma di favorire comunque il suo «lavoro». Ebbene, Heidegger si è molto abilmente servito di questa illusoria dissociazione tra insegnamento e «opera» per pubblicare i suoi corsi nazisti appunto per mezzo della sua «opera». Infatti, a partire dal 1953, egli ha iniziato a pubblicare i corsi e gli scritti in cui celebra il dominio e la «grandezza» del movimento nazionalsocialista. E una volta assicurata la propria fama ha programmato la pubblicazione, postuma, della sua «opera integrale» (Gesamtausgabe), includendovi i corsi più apertamente nazisti e reintegrando negli scritti degli anni 1930 e 1940 i passaggi dapprima soppressi perché giudicati troppo compromettenti. Che cosa nasconde questo doppio gioco? Qual è la sua strategia? Chi è dunque Heidegger veramente?
È necessario fare oggi piena luce su queste domande. È necessario anche rivalutare la sua responsabilità, non solo nell'adesione dei tedeschi a Hitler nel 1933, dove l'influenza dei discorsi del rettore Heidegger è accertata da lunga data, ma anche nella preparazione delle menti al processo che condurrà alla politica di espansione militare del nazismo e allo sterminio degli ebrei d'Europa (...).
Sappiamo da poco tempo con quale precocità si è espressa l'intensità del razzismo e dell'antisemitismo di Heidegger. Sin dal 1916, scrive alla fidanzata Elfride: «La giudaizzazione della nostra cultura e delle nostre università è in effetti spaventosa, e ritengo che la razza tedesca dovrebbe trovare sufficienti energie interiori per emergere». Lo stesso tema e lo stesso vocabolario si ritrovano nella penna di Hitler, che parla nel Mein Kampf delle «università giudaizzate». E le lettere di Heidegger a Elfride sono infarcite di odiose osservazioni antisemite, come ad esempio quando scrive, il 12 agosto 1920, che «gli ebrei e i profittatori sono ormai un'invasione», o quando, il 19 marzo 1933, deplora il fatto che Jaspers, un uomo «puro tedesco, con l'istinto più genuino, che sente la più alta sfida del nostro destino e individua i compiti, resti vincolato dalla moglie», che è ebrea. Prosegue poi rimproverando a Jaspers di pensare «in maniera troppo "legata all'essere umano"». Per Heidegger, dunque, essere «puro tedesco» implica rompere qualsiasi legame con gli ebrei, anche se si tratta della propria moglie, e respingere ogni riferimento all'umanità.
Tuttavia, invece che militare apertamente come Hitler alla testa di un partito, Heidegger prepara in modo sotterraneo la conquista delle menti. Sin dal 1922 predispone con la moglie Elfride il suo rifugio di Todtnauberg, in cui, dalla Hütte (capanna, baita) annidata tra le alture accanto a un ostello della gioventù, invita i suoi studenti a veglie e passeggiate, delegando a Elfride — come rivela la testimonianza di Günther Anders — il compito di attirarli nei movimenti giovanili nazionalsocialisti. Nel 1930 Elfride metterà il Mein Kampf di Hitler sul tavolo della Hütte, ordinando all'allievo di Heidegger, Herman Mörchen: «Lo devi leggere!». Ed è a Todtnauberg che, nell'ottobre del 1933, il rettore Heidegger organizza il suo primo campo di indottrinamento (con marcia da Friburgo in uniforme delle SA o delle SS), dove fa tenere corsi di dottrina razziale e procede egli stesso alla selezione dei più idonei.
Nel frattempo, Heidegger ha perseguito la sua ascesa universitaria: dopo aver corteggiato il filosofo Husserl, non esita a rompere con lui due mesi dopo aver ottenuto la sua cattedra a Friburgo. Nello stesso anno 1928 tenta invano di imporre, come proprio successore all'Università di Marburgo, Alfred Baeumler, suo compagno di strada nei primi anni del nazismo. Nel maggio del 1933 quest'ultimo, insieme a Goebbels, farà da maestro di cerimonia nel grande rogo di libri a Berlino.

l’Unità 3.5.12
Istat. Continua l’escalation di chi cerca invano un impiego. E tra gli under 25 molti lasciano gli studi
Sommerso: irregolare un’azienda controllata su due, scovati 31mila addetti totalmente in “nero”
Emergenza lavoro: è disoccupato il 36% dei giovani
Nuovo record di senza-lavoro in Italia. Il tasso di disoccupazione è al 9,8%, ma tra i giovani attivi siamo al 35,9%. Molti abbandonano studi e formazione per cercare qualsiasi impiego. Ed è boom del lavoro nero
di Massimo Franchi


Ogni mese un record. Negativo. Il tasso di disoccupazione in Italia continua ad aumentare. A marzo per la prima volta dal 1999 i disoccupati sono tornati a superare quota 2,5 milioni, raggiungendo il 9,8 % (più 0,2% rispetto a febbraio, più 1,7% nell’ultimo anno). Peggio di tutti stanno i giovani. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è pari al 35,9%, in aumento di 2 punti percentuali rispetto a febbraio. Come sottolinea l’Istat però, non è corretto sostenere che più di un giovane su tre è disoccupato. In realtà si tratta dei giovani attivi e cioè di coloro che cercano un lavoro, esclusi, ad esempio, tutti gli studenti: i disoccupati di età compresa tra i 15 e i 24 anni sono invece circa 600mila, il 10,3% della popolazione complessiva della stessa età.
Il dramma comunque rimane tutto. Perché quella dei giovani attivi senza lavoro (la fascia d’età 18-24 anni) è quella che in un mese peggiora la propria situazione di ben due punti percentuali. Un dato dovuto certamente dal colpire incessante della crisi che ha portato nelle ultime settimane molti giovani che prima non cercavano lavoro (in gran parte proprio perché studiavano o facevano corsi di formazione) a buttarsi a capofitto nelle ricerca di un’occupazione. Qualunque sia. Accanto a loro, denuncia l’Istat, ci sono casalinghe, mamme che erano rimaste a casa dopo la gravidanza e che non riescono più a far fronte alle spese con un solo stipendio, ma anche maschi adulti e anziani. E così di fianco agli 88 mila posti di lavoro persi a marzo 2012 rispetto ad un anno prima, ci sono circa 500mila persone che hanno iniziato solo quest’anno a cercare lavoro. E si tratta soprattutto di donne.
Se in Italia le cose vanno malissimo, in Grecia e Spagna siamo al vero allarme sociale. Se nell’Eurozona la disoccupazione è al 10,9% con quasi 25milioni di senza-lavoro, registra Eurostat, in Spagna siamo al 24,1% e in Grecia al 21,7%. Tra gli under 25 in Spagna siamo oltre la metà (51,1%), quasi raggiunta la Grecia (51,2%, dato però di gennaio) mentre il Portogallo (36,1%) è poco sopra l’Italia.
Intanto segnali preoccupanti arrivano dal ministero del Welfare che nel primo trimestre di quest’anno ha scovato 31.866 lavoratori irregolari di cui 10.527, ossia il 33%, totalmente in nero. In totale, sono state ispezionate 33.297 aziende e una su due è stata trovata in una situazione di irregolarità. Per 2.163 imprese è scattata la sospensione per l’utilizzo di personale in nero.
I SINDACATI: È EMERGENZA
Le reazioni dei sindacati sono allarmate. «È un dato drammatico, è per questo che non ci si può limitare a guardare questi dati e dire “era previsto”, come ho visto qualche ministro fare», attacca da Marghera il segretario generale Cgil Susanna Camusso. Per la Cgil poi «il dato reale della disoccupazione è ben più alto di quello formale e anche solo considerando una parte degli scoraggiati sale attorno al 13%, cioè ben più della media europea. Il raffronto con l’Europa è impietoso: l’aumento del 25% dei disoccupati nell’ultimo anno è causato dai dati italiani». I giovani della Cgil denunciano «una intera generazione è stata tagliata fuori dal lavoro e si troverà a pagare il conto di una crisi sempre più dura. Serve subito un piano di investimenti». Temi che saranno al centro della giornata di mobilitazione del 10 maggio, dal titolo “Precarietà: l’unico taglio giusto”.
Per il leader della Cisl Raffaele Bonanni «si sta creando una miscela esplosiva nel paese, tra aumento della disoccupazione, aumento delle tasse, blocco degli investimenti pubblici e privati».
Per Guglielmo Loy, segretario confederale Uil, «l’aumento del tasso di disoccupazione, soprattutto dei giovani, conferma l’idea che per creare posti di lavoro è necessaria una ripresa economica». I dati «dovrebbero spingere il governo a rivedere la nuova formulazione dell’articolo 18 e l’entrata in vigore del nuovo sistema di ammortizzatori», sottolinea Giovanni Centrella (Ugl).

La Stampa 3.5.12
Disoccupati al 9,8%. È l’ennesimo record
Due milioni e mezzo di senza lavoro: è il dato peggiore dal 2004
di Sandra Riccio


TORINO Ancora record per il tasso di disoccupazione: a marzo l’indice italiano dei senza lavoro ha raggiunto il 9,8%, quota che l’Istat non aveva mai registrato da quando l’istituto di statistica ha iniziato a mettere in fila le serie storiche mensili, ovvero dal gennaio 2004. Volendo andare più indietro bisogna passare all’epoca delle rilevazioni trimestrali per scoprire che quello ufficializzato ieri è il dato più alto da dodici anni. Ancora una volta, in testa ci sono i giovani: tra gli under 25 la disoccupazione sfiora il 36%. Si tratta di un massimo assoluto, il tasso maggiore almeno dal 1992, scopre chi va a rovistare nell’archivio dei dati Istat. Per uscire dalle percentuali e passare ai valori assoluti, il numero degli italiani che risultano in cerca di un posto a marzo è schizzato a due milioni e mezzo: sono 66 mila più di quelli registrati a febbraio e 476 mila più di un anno fa (+23,4%).
Numeri che Giorgio Napolitano ha tenuto in primo piano nel discorso per il primo maggio: ha invitato le forze politiche a «cooperare» per chiudere la riforma del lavoro ricordando «il presente duro» che l’Italia del lavoro sta vivendo e le «drammatiche difficoltà di troppe famiglie ed imprese» stanno vivendo. Bisogna quindi trovare soluzioni, ricordando che «la realtà non è più quella di un decennio fa e non può essere affrontata arroccandosi sulle conquiste del passato». Bisogna muoversi, insomma.
Le cifre dell’Istat, d’altra parte, fotografano anche una forte accelerazione della disoccupazione: l’escalation iniziata dopo l’estate non accenna a fermarsi, e i balzi in avanti (dal 9,6% di febbraio al 9,8% si marzo) toccano soprattutto le fasce più giovani (passati, invece, dal 33,9% al 35,9%). Il numero di 15-24enni interessati è di 600 mila unità, si tratta quindi quasi di un disoccupato su quattro. La spinta alla disoccupazione non arriva tanto dal calo degli occupati, che resta contenuto grazie alla permanenza sul lavoro dei più anziani obbligati ad aspettare ancora per la pensione, quanto dalla riduzione degli inattivi (-427 mila in un anno), costretti dalla crisi a cercare un impiego. Cercano lavoro perché le loro famiglie non riescono più a far quadrare il bilancio di casa.
Bisogna poi tenere presente che accanto al mercato del lavoro ufficiale c’è quello del sommerso, che rappresenta una vasta area ancora nascosta. Nei primi tre mesi del 2012 gli ispettori del ministero del Lavoro hanno ispezionato 33.297 aziende riscontrando irregolarità in 16.665, ossia nella metà e arrivando a scovare 31.866 lavoratori irregolari, un terzo dei quali totalmente in nero. E anche a voler allargare l’orizzonte per includere l’intera Europa la musica non cambia: a marzo nella zona euro il tasso ha ragginto il 10,9%, mentre nell’intera Ue si è stabilizzato al 10,2%, anche in questo caso il livello più alto da marzo 2001. In tutta l’Ue a 27 si contano così 24,8 milioni di senza lavoro, 5,5 milioni dei quali hanno meno di 25 anni. Ieri s’è fatto sentire il portavoce del commissario Ue all’Occupazione, Lazslo Andor: «I nuovi dati sulla disoccupazione sottolineano ancora una volta la portata estremamente seria del problema». Preoccupa anche l’inaspettato rialzo registrato in Germania ad aprile.
Preoccupati i sindacati: secondo il leader della Cisl Raffaele Bonanni «si sta creando una miscela esplosiva»; per la Cgil «il dato reale è ben più alto di quello formale» (la segretaria Susanna Camusso con riferimento ai giovani parla di «dramma»). Sulla stessa linea anche la Uil.

l’Unità 3.5.12
«Monti faccia di più ma niente imboscate»
Bersani ribadisce il sostegno al governo fino al 2013 ma chiede maggiore impegno per la crescita. Sull’Imu: «Una tassa molto pesante, andrà rivista» E polemizza con Tremonti: «È stato lui a cancellare la spending review»
di Simone Collini


Con il governo si discute, ma non si fanno imboscate. Noi ci comporteremo così». Alla fine di una giornata segnata anche dalla sconfitta del governo al Senato sulle pensioni d’oro dei manager pubblici, Pier Luigi Bersani ribadisce che per quel che riguarda il suo partito il sostegno a Monti è garantito fino alla primavera del 2013. Ma al tempo stesso, il leader del Pd lancia al governo alcuni messaggi piuttosto espliciti. Primo fra tutti, la necessità di impegnarsi in politiche per lo sviluppo perché ormai è chiaro, a livello europeo come a livello nazionale, che misure esclusivamente indirizzate verso la disciplina di bilancio e il rigore non sono sufficienti a superare la crisi. «Monti deve arrivare alla fine ma nel frattempo deve impegnarsi sulla crescita», dice negli stessi minuti in cui il presidente del Consiglio dice che per la crescita «non basterà poco tempo». Bersani sa che «crescita è una parola grossa», ma sa anche che il rischio di un avvitamento tra misure per il contenimento della spesa pubblica, recessione, necessità di ulteriori tagli, aggravio della recessione, è alta. «C’è un’emergenza e quindi si deve fare qualcosa subito per alleggerire questa recessione. E anche in questo senso servono un po’ di investimenti attraverso gli enti locali, che sono sempre stati per noi un meccanismo per dare una spinta. Non ne conosco altri che abbiano la stessa efficacia e la stessa rapidità». Una soluzione a cui guarda di buon occhio Bersani è una deroga al Patto di stabilità interno. Una richiesta che arriva anche dal fronte dei sindaci, con i quali il leader del Pd si schiera anche per quel che riguarda l’Imu.
Prima la mattina di fronte ai giornalisti della stampa estera, poi di nuovo la sera davanti alle telecamere di “Otto e mezzo”, Bersani critica la disobbedienza fiscale lanciata dalla Lega ma definisce l’Imu una tassa «molto pesante» che va rivista. «Noi abbiamo sempre proposto che fosse più leggera e affiancata da un’imposta personale sui grandi patrimoni immobiliari, che porterebbe più giustizia».
Nel giorno in cui l’Anci lancia una mobilitazione che terminerà il 24 a Venezia e in cui il ministro dell’Interno Cancellieri chiede ai sindaci di non dimenticare la «responsabilità» propria di chi veste al fascia tricolore, Bersani dice che l’Imu va «ricalibrata», che ai Comuni deve essere garantita l’autonomia fiscale e che i sindaci «non possono fare i gabellieri per conto dello Stato. Una posizione vicina a quella espressa dall’Anci e invece distante dalla campagna montata dal Pdl sull’Imu, perché se Alfano difende la scelta di aver cancellato l’Ici e a Monti risponde a distanza che rifarebbe esattamente la stessa cosa, Bersani obietta: «Alfano dica dove prende quei dieci miliardi. Se Alfano è d'accordo impostiamo subito una correzione per l’anno prossimo ma a parità di entrate per lo Stato».
Il Pdl rimane l’obiettivo polemico di Bersani, che ironizza sulle proposte di contenimento dei costi e tagli alle spese e diminuzione delle tasse di cui parlano Alfano e soci («sento dire che bsiogna abolire qui, abolire là, ma dov’erano? noi possiamo anche dire qualcosa che va e che non va del governo Monti, loro dovrebbero stare zitti») e ricorda che la spending review approvata dal governo Prodi è stata smantellata dal governo Berlusconi appena insediato. «Ho letto di Tremonti che ci spiega come fare la spending review. Ma la fece Padoa Schioppa e lui la buttò via con fare polemico».
Non polemizza invece col governo sulla scelta di nominare Giuliano Amato consigliere di Palazzo chigi per l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, anche se nel Pd c’è chi, come Stefano Fassina, confessa di «non aver capito il senso di queste nomine». Dice anzi Bersani che «il governo ha fatto un’iniziativa per rafforzare la sua azione e questo è positivo, ora vedremo cosa faranno e quale contributo daranno». Ma dice nel dettaglio, facendo capire come per il Pd valga la posizione assunta prima che Monti procedesse alle nuove nomine: «Noi abbiamo già presentato una nostra proposta di riforma di bilancio dei partiti, calendarizzata in Parlamento. Su quel punto si può andare avanti subito senza frapporre indugi».

il Fatto 3.5.12
Perché la spesa non scende mai
di Ugo Arrigo


TORINO Ancora record per il tasso di disoccupazione: a marzo l’indice italiano dei senza lavoro ha raggiunto il 9,8%, quota che l’Istat non aveva mai registrato da quando l’istituto di statistica ha iniziato a mettere in fila le serie storiche mensili, ovvero dal gennaio 2004. Volendo andare più indietro bisogna passare all’epoca delle rilevazioni trimestrali per scoprire che quello ufficializzato ieri è il dato più alto da dodici anni. Ancora una volta, in testa ci sono i giovani: tra gli under 25 la disoccupazione sfiora il 36%. Si tratta di un massimo assoluto, il tasso maggiore almeno dal 1992, scopre chi va a rovistare nell’archivio dei dati Istat. Per uscire dalle percentuali e passare ai valori assoluti, il numero degli italiani che risultano in cerca di un posto a marzo è schizzato a due milioni e mezzo: sono 66 mila più di quelli registrati a febbraio e 476 mila più di un anno fa (+23,4%).
Numeri che Giorgio Napolitano ha tenuto in primo piano nel discorso per il primo maggio: ha invitato le forze politiche a «cooperare» per chiudere la riforma del lavoro ricordando «il presente duro» che l’Italia del lavoro sta vivendo e le «drammatiche difficoltà di troppe famiglie ed imprese» stanno vivendo. Bisogna quindi trovare soluzioni, ricordando che «la realtà non è più quella di un decennio fa e non può essere affrontata arroccandosi sulle conquiste del passato». Bisogna muoversi, insomma.
Le cifre dell’Istat, d’altra parte, fotografano anche una forte accelerazione della disoccupazione: l’escalation iniziata dopo l’estate non accenna a fermarsi, e i balzi in avanti (dal 9,6% di febbraio al 9,8% si marzo) toccano soprattutto le fasce più giovani (passati, invece, dal 33,9% al 35,9%). Il numero di 15-24enni interessati è di 600 mila unità, si tratta quindi quasi di un disoccupato su quattro. La spinta alla disoccupazione non arriva tanto dal calo degli occupati, che resta contenuto grazie alla permanenza sul lavoro dei più anziani obbligati ad aspettare ancora per la pensione, quanto dalla riduzione degli inattivi (-427 mila in un anno), costretti dalla crisi a cercare un impiego. Cercano lavoro perché le loro famiglie non riescono più a far quadrare il bilancio di casa.
Bisogna poi tenere presente che accanto al mercato del lavoro ufficiale c’è quello del sommerso, che rappresenta una vasta area ancora nascosta. Nei primi tre mesi del 2012 gli ispettori del ministero del Lavoro hanno ispezionato 33.297 aziende riscontrando irregolarità in 16.665, ossia nella metà e arrivando a scovare 31.866 lavoratori irregolari, un terzo dei quali totalmente in nero. E anche a voler allargare l’orizzonte per includere l’intera Europa la musica non cambia: a marzo nella zona euro il tasso ha ragginto il 10,9%, mentre nell’intera Ue si è stabilizzato al 10,2%, anche in questo caso il livello più alto da marzo 2001. In tutta l’Ue a 27 si contano così 24,8 milioni di senza lavoro, 5,5 milioni dei quali hanno meno di 25 anni. Ieri s’è fatto sentire il portavoce del commissario Ue all’Occupazione, Lazslo Andor: «I nuovi dati sulla disoccupazione sottolineano ancora una volta la portata estremamente seria del problema». Preoccupa anche l’inaspettato rialzo registrato in Germania ad aprile.
Preoccupati i sindacati: secondo il leader della Cisl Raffaele Bonanni «si sta creando una miscela esplosiva»; per la Cgil «il dato reale è ben più alto di quello formale» (la segretaria Susanna Camusso con riferimento ai giovani parla di «dramma»). Sulla stessa linea anche la Uil. "Ancora una volta sono in testa i giovani Quasi quattro su dieci non trovano collocazione"

Repubblica 3.5.12
E per la scuola si profilano nuovi tagli
di Salvo Intravaia


Scuola ancora all´insegna del segno meno: meno sedi centrali e periferiche, meno istituzioni scolastiche, meno docenti "imboscati", meno dirigenti e probabilmente anche meno insegnanti. Con la spending review (revisione della spesa) la scuola pubblica italiana si appresta all´ennesimo taglio. Dopo la cura da cavallo imposta dal precedente governo, anche Monti chiede all´istruzione statale sacrifici per risanare i conti pubblici.
Sono quattro le leve che il governo conta di azionare per raschiare il fondo del barile: "snellimento della struttura centrale", "riorganizzazione della struttura territoriale", "razionalizzazione di distacchi e comandi" e "riequilibrio della rete scolastica regionale e della proporzione tra docenti e classi di alunni". Ma i sindacati frenano. «Eliminare gli sprechi è doveroso – dichiara Francesco Scrima, segretario generale della Cisl scuola – ma lo è altrettanto assicurare al Paese un servizio pubblico di qualità. La scuola ha pagato un prezzo salatissimo, difficile pensare che le si possa sottrarre ancora qualcosa». «Dal ministero – continua Scrima – assicurano che la revisione di spesa non comporterà alcuna riduzione del personale, ma vigileremo attentamente perché non restino parole contraddette dai fatti. Ci preoccupano molto, invece, le ipotesi di un accorpamento dei servizi amministrativi, specie se ciò significasse immaginare molte scuole facenti capo a un unico ufficio di segreteria. Mentre sulle supplenze è davvero difficile immaginare ulteriori risparmi». Il riferimento è al miliardo e 216 milioni di "spese correnti" – di cui fanno parte le supplenze brevi e le spese di funzionamento delle scuole – che il governo intende contrarre del 15%.
Ma andiamo con ordine. Lo "snellimento della struttura centrale" prevede la riduzione ad una soltanto delle due sedi – viale Trastevere e piazza Kennedy – del ministero: a rimanere dovrebbe essere soltanto la prima. Ma anche un maggiore utilizzo dei sistemi informatici disponibili e una riduzione degli organici dei dirigenti. Attualmente, sono 159 i posti vacanti di dirigente amministrativo di prima e seconda fascia, sui 371 previsti in totale (il 43 per cento). Il ministero conta di tagliarne una parte. E per ridurre ancora le spese prevede la "riduzione delle articolazioni provinciali": quelli che un tempo si chiamavano "provveditorati agli studi", trasferendone le relative funzioni alle scuole e agli Uffici scolastici regionali. Ma non solo. Per effetto della "razionalizzazione di distacchi e comandi" i 300 docenti comandati negli uffici periferici dell´amministrazione, presso enti e associazioni, con tutta probabilità, ritorneranno in classe ad insegnare. Il "riequilibrio della rete scolastica regionale" dovrebbe passare attraverso l´accorpamento delle oltre 500 istituzioni scolastiche ancora sottodimensionate – con meno di 600 alunni – mentre resta sibillino il "riequilibrio della proporzione tra docenti e classi di alunni", perché potrebbe nascondere un taglio al personale.

l’Unità 3.5.12
Un Paese antiviolenza
Donne al centro del Paese per fermare le violenze
La grande adesione all’appello contro il femminicidio è un ottimo segnale
Ma non basta: bisogna cambiare mentalità, politiche economiche e sociali
di Francesca Izzo


L ’adesione all’appello contro il femminicidio è un ottimo segnale. Ma bisogna fare di più: portare le donne al centro del Paese.
L ’accoglienza ampia e corale che sta ricevendo l’appello Mai più complici è di grande conforto. Migliaia di persone da tutta Italia e tante figure illustri della vita pubblica italiana hanno aderito. Particolarmente importante è la risposta che arriva dagli uomini che numerosi sottoscrivono un appello lanciato da donne ma essenzialmente rivolto a loro.
Un appello che li chiama in causa perché la violenza che si esercita contro le donne, sino alle incredibili cifre dei femminicidi, è cosa che li riguarda, che li interroga sulla difficoltà, se non rifiuto, che tanti, troppi giovani uomini mostrano ad accettare la libertà delle donne. Una incapacità, una inadeguatezza di misurarsi, di comprendere, anche di scontrarsi bandendo la violenza, con una donna che si sente e si pone come un soggetto consapevole di sé, desiderosa di essere signora del proprio destino.
Nello scarto tra una realtà femminile mutata e la permanenza di una mentalità che si aggrappa a fantasmi del passato, per trarre un surrogato di potere, si sprigiona la violenza, il ricorso all’arcaismo della forza bruta. È il segno di una fragilità che viene illusa e rafforzata da tante, troppe narrazioni che mostrano le donne come oggetti a disposizione del desiderio maschile.
Cambiare questo stato di cose richiede un lavoro di lunga lena e l’intervento di tutti, non sono sufficienti solo nuove leggi o inasprimenti delle pene. Bisogna agire su tanti fronti: dal governo al parlamento, dai media alla magistratura, alla polizia, alle agenzie educative laiche e religiose, al mondo dello sport per arrivare a colmare quello scarto tra una libertà femminile che si vuole affermare nel mondo e un mondo che resiste. Per vincere anche la vergogna e la paura che tanto spesso paralizzano la volontà delle donne vittime di violenza.
Noi di Se non ora quando? che abbiamo con altre promosso l’appello vogliamo, dalla nostra prospettiva di movimento organizzato di donne, contribuire a colmare quello iato. Vogliamo combattere la violenza che si scatena contro le donne non solo chiamando alla responsabilità civile l’opinione pubblica ma mettendo al centro della vita nazionale le donne. Mettere al centro dell’agenda di governo, per consentire alla società italiana di uscire dal cono d’ombra in cui si trova, le questioni che riguardano la loro drammatica mancanza di lavoro, la altrettanto drammatica difficoltà, per mancanza di servizi, di tenere assieme il lavoro, quando c’è, con la cura di bambini, anziani. Siamo consapevoli che è un’impresa gigantesca modificare l’asse su cui sinora si sono stabilite le compatibilità economiche, sociali e politiche e imporre come priorità il lavoro delle donne e un welfare post patriarcale. Solo le donne possono assumersi il carico e la responsabilità di spingere in questa direzione. Ma devono essere in condizioni di poterlo fare. Per questa ragione abbiamo detto, in ultimo in piazza l’11 dicembre dello scorso anno, che a governare e a fare le leggi siano donne e uomini alla pari.

l’Unità 3.5.12
Uomo uccide donna? Non fa notizia
di Margherita Hack


È in atto un movimento di rivolta delle donne contro la violenza alle donne. Una volta si diceva che se un cane morde un uomo non fa notizia. Oggi gli omicidi di donne commessi dai loro partner sono così diffusi che si dovrebbe dire che se una donna viene uccisa dal suo partner non fa notizia.
Giorni fa scrivevo che l’introduzione dell’Imu al posto dell’Ici è una delle solite riforma all’italiana, in cui si cambia il nome ma non la sostanza. Ora ho capito che non è così: mentre l’Ici andava tutta ai Comuni, l’Imu, oltre ad essere più alta, per metà andrà allo Stato. Ma c’è dell’altro. Se è vero quanto si legge, un pensionato o una vedova che non possono più stare nella loro abitazione e decidano di andare in una casa di riposo, dovranno pagare l’Imu sulla casa vuota come se fosse una seconda casa. Spero solo sia una notizia sbagliata.
Ho letto che Enrico Bondi, risanatore di Montedison e Parmalat, è stato incaricato di un compito molto più difficile dei precedenti: ridurre i costi dei ministeri. Auguri.
Fra poco cominceranno gli Europei di calcio. Il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, ha detto che non assisterà alle partite in Ucraina se non sarà lasciata libera Iulia Timoshenko, l’ex premier in carcere da mesi. Anche Angela Merkel ha detto che è pronta a cancellare la sua partecipazione. Non sarà il caso che anche l’Italia dica qualcosa per il rispetto dei diritti umani?
Gli stipendi dei lavoratori italiani risultano i più bassi d’Europa. Però gli stipendi dei vip italiani risultano i più alti d’Europa. Ad esempio, Michele Valenzise, ambasciatore italiano a Berlino prende 240.000 euro l’anno, mentre Merkel, cancelliera tedesca, 108.000. Antonio Manganelli, capo della polizia, ne prende 620.000, il capo dell’Fbi degli Stati Uniti 116.000. Qualcosa che non va...

l’Unità 3.5.12
Cannabis per fini terapeutici, la Toscana approva la legge
L’uso dei farmaci è già autorizzato in Italia, la nuova norma consente alle farmacie ospedaliere acquisti preventivi
Il voto contrario di Udc e Pdl (con l’eccezione di Marco Taradash) e l’astensione della Lega
di Jolanda Bufalini


«Con Alessia Ballini eravamo compagni di banco in consiglio regionale, conservo ancora il suo ultimo sms: “adesso sono accerchiata dai dottori, ci vediamo lunedì per lavorare alla nostra legge?». Enzo Brogi è contento, «vorrei mandarle un messaggio per dire “Alessia, ce l’abbiamo fatta”». Alessia è stata sindaco di San Piero a Sieve, Enzo sindaco di Cavriglia, «ci conoscevamo da allora, poi ci siamo trovati insieme consiglieri regionali». Alessia è morta di tumore il 2 febbraio 2011 e Enzo dedica all’amica l’approvazione della legge regionale sull’uso terapeutico della cannabis, ieri, con il voto favorevole della maggioranza, l’astensione della Lega Nord, il voto contrario dell’Udc e quello del Pdl, con l’eccezione del consigliere Marco Taradash che ha votato a favore.
Non c’è nulla di ideologico in questa legge, dice il consigliere Enzo Brogi che lavorava nel suo paese alla miniera di lignite e che è ancora dipendente Enel («faccio politica da tanto tempo ma mi piace il fatto di non dipendere, di avere un lavoro alternativo»). Le motivazioni dei gruppi che hanno espresso voto contrario sono state diverse, per Udc si tratta di “una legge manifesto” mentre il Pdl chiedeva tempo, ma «la legge era in ballo da un anno e mezzo».
Il testo approvato ieri dalla Regione Toscana riguarda l’uso dei cannabinoidi come farmaci antidolore. Non è una legalizzazione: tanto meno lo è delle droghe leggere. C’è una circolare ministeriale del 2007 (ministro Livia Turco) che autorizza la vendita dei farmaci cannabinoidi in Italia. È invece un tentativo di semplificare «per dare una mano a chi soffre», da oggi la Toscana «è più illuminata e più democratica», sorride. Alessia Ballini, quando era sotto chemio o radioterapia trovava sollievo, superava una nausea terribile, riusciva a mangiare, a superare l’inappetenza provocata dalle pesanti terapie. Spiega Brogi: «La procedura per ottenere il farmaco è molto complicata e lunghissima». Prescrizione medica, farmacia, autorizzazione del centro sostanze stupefacenti, importatore, ordine in Olanda o Canada (che sono i paesi produttori). Le regioni virtuose riescono a espletare la pratica in tre-quattro mesi, nelle altre sono sei-otto mesi. Ora in Toscana si sperimenterà una procedura più veloce, le farmacie ospedaliere (non saranno autorizzate ad acquistare i farmaci anche prima della singola richiesta, «ma sempre sotto rigorosa verifica medica». Quando in consiglio la leg-
ge è passata l’aula era gremita e c’è stato l’applauso.
I derivati della cannabis sono miorilassanti e utili nelle sindromi che provocano indurimento dei muscoli: distrofie, artriti, sclerosi. Ed sono efficaci anti-dolorifici nelle chemio e radioterapie e nei glaucomi.
Brogi spera che dalla nuova normativa deriveranno due altri effetti: «La diminuzione dell’uso degli oppiacei chimici, in primis la morfina» e la diffusione della consapevolezza che è possibile curarsi in modo legale: «Oggi c’è un centinaio di pazienti che utilizzano le procedure previste dalla legge, a fronte di 2000 e più persone che si approvvigionano al mercato nero o con l’autocoltivazione». Con i rischi legali e per la salute che ciò comporta, «il fumo mescolato al tabacco non è certo consigliato a chi ha un tumore, mentre il farmaco spray o inalato o preparato a infuso è molto più efficace».
Sul fronte delle reazioni si distingue Maurizio Gasparri: «Una vergogna, la droga uccide, quella legge è carta straccia, primo passo per la liberalizzazione delle droghe».
Giovanni Serpelloni, capo del Dipartimento nazionale politiche antidroga smentisce: «l’utilizzo dei farmaci a base di Thc (il principio attivo della cannabis) è già autorizzato in Italia anche se i medicinali sono costosi, la Regione Toscana è libera di erogarli tramite il Servizio sanitario nazionale». «Bisogna evitare ha aggiunto Serpelloni la demagogica interpretazione secondo cui se è giusto utilizzare questi farmaci vuol dire che si possono utilizzare altri derivati della cannabis per uso voluttuario». Sono due cose diverse, «i diritti dei malati ad avere terapie sicure, efficaci e disponibili vanno rispettati».

Corriere 3.5.12
Luigi Cancrini
«Più sani. Si evitano le sostanze non naturali»
di Al. Ar.


ROMA — Luigi Cancrini, psichiatra prestato anche alla politica — è stato assessore alla Sanità della Regione Lazio con una giunta di sinistra — , cosa pensa della legge approvata in Toscana sull'uso gratuito della cannabis terapeutica?
«Credo proprio di poter affermare che è una cosa giusta, utile, sostanzialmente sana».
In che senso vuole intendere?
«Penso che sia una buona cosa che il medico possa prescrivere un principio attivo naturale piuttosto che usare ed abusare di tanti psicofarmaci che ora vanno così di moda».
Quali sono gli effetti della cannabis per lei terapeutici?
«La cannabis ha un effetto leggermente euforizzante. Leggermente sedativo. E ha anche un'azione antinausea. Sono tuti quanti effetti molto utili per pazienti oncologici».
Ma non pensa che in circolazione esistano già farmaci che hanno questi effetti?
«Ce ne sono decine, se è per questo. Ma sono farmaci non naturali, più costosi e meno efficaci. In un mondo realistico la cannabis costa molto meno. Bisogna soltanto vincere un pregiudizio moralistico. Per questo io cito sempre uno studio del servizio sanitario inglese fatto nel 1910: una ricerca sull'uso endemico in India dell'hashish».
E cosa diceva questo studio?
«Al termine di un'indagine poderosa stabiliva l'innocuità dell'hashish».

il Fatto 3.5.12
Santa Romana Televisione
Il rapporto sulla secolarizzazione in Italia e il monopolio della chiesa cattolica
di Marco Politi


Straripante, dilagante, monopolizzante” è la presenza della Chiesa cattolica e del Vaticano nelle trasmissioni televisive italiane. Il VII Rapporto sulla secolarizzazione in Italia, curato dalla Cgil-Nuovi diritti e dalla Fondazione Critica liberale è arricchito quest’anno per la prima volta da un dossier su confessioni religiose e Tv, che testimonia la colonizzazione capillare che l’istituzione ecclesiastica attua nel sistema televisivo. Dall’analisi minuziosa del periodo-campione (settembre 2010 - agosto 2011) si ricava che in campo religioso regna praticamente solo un punto di vista: quello del Vaticano e della Chiesa cattolica intesa come vertice gerarchico. Minimale la presenza di ebrei, protestanti e musulmani. Nulla la testimonianza del pluralismo interno al cattolicesimo.
Nelle principali trasmissioni di attualità e approfondimento (Annozero, Ballarò, L’infedele, Matrix, Omnibus, Otto e mezzo, Porta a Porta, Report, Telecamere, Unomattina) sono apparsi nel periodo preso in esame 166 esponenti cattolici a fronte di 1 ortodosso, 4 ebrei, 2 buddisti, 6 musulmani. Raiuno manda in onda 233 trasmissioni religiose unicamente cattoliche, di cui nessuna dedicata a protestanti, ebrei o musulmani (che in Italia superano il milione e mezzo e comunque registrano comunità di cittadini di nazionalità italiana originaria che raggiungono ormai più di cinquantamila fedeli). Le trasmissioni di protestanti ed ebrei, confinate su Raidue, vanno in onda dopo l’una di notte la domenica con una replica il lunedì mattina. Orari proibitivi. In termini di ore – su Raiuno, Raidue, Raitre, Canale5, Italia1, Rete4, La7 – alla Chiesa cattolica toccano 291 ore, agli ebrei 36, ai protestanti 42. Ma essendoci le repliche, le trasmissioni reali dedicate all’ebraismo e al protestantesimo vanno dimezzate: diciotto ore all’ebraismo, ventuno al protestantesimo. Per puro caso nel periodo-campione c’è stato un piccolo programma dedicato all’Islam: 1 ora e quarantuno minuti.
Scrive Enzo Marzo, direttore di Critica liberale, che gli “italiani con i loro comportamenti dimostrano una crescente autonomia rispetto alle direttive delle gerarchie cattoliche”. Ma la Chiesa istituzionale – grazie all’acquiescenza delle forze politiche – reagisce occupando posizioni di potere mediatico nel sistema televisivo.
È EVIDENTE che sul piano delle notizie il Papa e il Vaticano – in forza del loro ruolo internazionale – abbiano una proiezione largamente maggiore della piccola comunità ebraica italiana o di quella valdese. Ma resta deformante e costituisce una manipolazione dell’offerta televisiva il fatto che la programmazione non mira minimamente a riflettere il grado di pluralismo e di varietà delle opinioni degli italiani in materia di religione, etica e valutazione delle posizioni dei soggetti confessionali. L’obiettivo è di presentare una “Italia cattolica”, che gli stessi dirigenti ecclesiastici cattolici sanno non esistere più.
I dati raccolti dall’Isimm (un centro di ricerca su media e multimedialità) sono spietati. Nei principali talk-show e programmi di attualità il tempo riservato a personaggi cattolici è di 7 ore e 23 minuti. Agli ortodossi trentanove secondi, agli ebrei 5,34 minuti, ai buddisti 1,35 secondi, ai musulmani 14 minuti e mezzo.
Uniche isole di pluralismo la trasmissione “Uomini e profeti” su Radiotre e, più cautamente, “Frontiere dello spirito” su Canale5. I tempi di notizia sono totalmente sbilanciati a favore di Vaticano e Chiesa cattolica. Si veda il Tg1 nel primo trimestre 2011: 1,56 ora al Vaticano, zero ai musulmani, 28 secondi agli ebrei, tre minuti a tutte le altre confessioni. Ma anche La7 appare sbilanciata: 34 minuti alla Chiesa cattolica e trentasette secondi a tutti gli altri.
PERSINO la fiction è monopolizzata. Nel periodo campione vi sono 268 fiction a soggetto cattolico contro 46 di altro genere religioso. Conclude il Rapporto: “La soppressione televisiva del pluralismo in materia di opinioni e sensibilità religiosa è una scelta politica consapevole”.

Corriere 3.5.12
Gli affari in Vaticano del socio di Belsito
«In un video il prete preleva la tangente»
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — C'è un video agli atti dell'inchiesta sulla Lega che rischia di mettere in imbarazzo il Vaticano. Nel filmato si vede un sacerdote che utilizza il bancomat dell'imprenditore Stefano Bonet, l'uomo che investì in Tanzania e a Cipro i soldi del Carroccio. E adesso è accusato di riciclaggio insieme al tesoriere Francesco Belsito. Secondo il pubblico ministero di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, titolare di quella parte di indagine che sta esplorando i rapporti con la 'ndrangheta, potrebbe trattarsi di «mazzette» pagate dallo stesso Bonet per ottenere appalti della Santa Sede. Una pista avvalorata dalle intercettazioni telefoniche durante le quali parla degli affari che sta chiudendo grazie ai rapporti con alti prelati e ai suoi legami con il parlamentare del Pdl Filippo Ascierto, ex maresciallo dei carabinieri e adesso impegnato nel settore della sicurezza. In particolare Bonet — come viene evidenziato nell'informativa degli investigatori della Dia — «partecipa a diversi incontri insieme a don Pino Esposito, con l'arcivescovo Zygmunt Zimoswki e altri soggetti. Hanno in atto trattative per vari progetti con le strutture sanitarie del Vaticano e per alcuni investimenti in Paesi dell'Est Europa da realizzare con la società "Polare"». In una conversazione captata e allegata agli atti, Bonet afferma: «Quello che stiamo facendo sul Vaticano, centoventitremila cliniche nel mondo sotto il controllo del Vaticano che oggi non controlla niente e ci dice facci l'Osservatorio sull'innovazione e da domani parte». Uno di questi incontri viene filmato dagli investigatori: alla riunione partecipa un cardinale. E poco dopo si vede don Pino Esposito che preleva soldi con un bancomat. Le verifiche hanno consentito di accertare che la scheda apparteneva proprio all'imprenditore. Prendono dunque diverse strade i controlli disposti sull'attività di Belsito e dei suoi soci. Una continua a puntare in Svizzera, in particolare a Lugano. Nel Canton Ticino si trova infatti la "Anexo Consulting Sagl", specializzata in «servizi aziendali di consulenza strategica». È la società che l'avvocato calabrese con studio a Milano Bruno Mafrici avrebbe messo a disposizione di Belsito quando il tesoriere gli manifestò l'intenzione di diversificare gli investimenti. E il sospetto del pubblico ministero è che la "Anexo" sia stata utilizzata sia dalla Lega, sia dalla criminalità organizzata che doveva riciclare denaro proveniente da attività illecita. Nei prossimi giorni da Reggio Calabria partirà una richiesta di rogatoria per le autorità elvetiche che solleciterà proprio l'autorizzazione a visionare la movimentazione finanziaria riconducibile al tesoriere della Lega e ad altri soggetti a lui collegati. Un gruppo di persone che svolgeva la propria attività soprattutto a Genova: tra loro Romolo Girardelli, il procacciatore d'affari della "cosca De Stefano" che con Belsito aveva aperto una società immobiliare con sede nel capoluogo ligure. Il pubblico ministero Lombardo sta cercando di individuare una cassetta di sicurezza, di cui si parla nelle intercettazioni telefoniche, dove sarebbero custoditi documenti utilizzati per le attività di dossieraggio. Una parte di questi atti segreti era custodita nei computer del tesoriere e sarebbe stata ottenuta attraverso intrusioni illegali nei siti di enti e istituzioni, ma anche aziende come Finmeccanica e Fincantieri.

Corriere 3.5.12
Il medico di Togliatti: «Io, candidato anti-Pd»
Mario Spallone, 95 anni, in corsa ad Avezzano: vincerò con l'aiuto di Padre Pio
di Fabrizio Roncone


AVEZZANO — «Eh, lo so: in questo Paese, l'Italia, il mio nome e il mio cognome continuano a sortire sempre un certo effetto... Comunque sì, è vero: mi candido a sindaco di Avezzano... E ora non stia qui a ricordarmi che ho quasi 95 anni: perché io tengo ancora la forza di una tigre, accidenti!».
Professor Mario Spallone, il medico personale di Palmiro Togliatti che...
«No no, aspetti, mio giovane amico. Non ricominci pure lei con la solita storia, perché sembra che io, in vita mia, abbia curato solo lui, il Migliore, e Nilde Iotti. Se permette...».
Continui.
«Beh, a parte Ciampi, che fu partigiano con me su queste montagne abruzzesi, mi presi cura anche di due capi di Stato, Leone e Pertini. Pertini era rimasto un ex muratore: tosto, istintivo. Al Quirinale ci andava il meno possibile. E la moglie credo che non ci abbia neppure mai messo piede. Comunque un personaggio straordinario, il mio amico Sandro: ad un certo punto aveva capito che quasi tutti i potenti italiani morivano a Villa Gina, una delle mie cliniche. Così pretese di essere avvertito sempre per primo: e io, per non sbagliare, e farlo stare più comodo quando veniva in visita, gli feci riservare pure un appartamento».
Devo chiederle per forza di quella volta che spararono a Togliatti.
«Alle 11,30 del 14 luglio 1948, un giovanotto di 24 anni, sul portone di Montecitorio, gli esplose contro tre colpi. Due andarono a segno: alla nuca e alla schiena. Togliatti fu operato dal grandissimo Pietro Valdoni, ma io ero lì, accanto. Ed è una balla che la rivoluzione non si fece perché Bartali vinse il Tour de France. Guardi, mi vengono ancora i brividi... Le sento come fosse adesso le parole di Togliatti... Mario, mi disse, noi potremo insorgere e prendere l'Italia in una settimana. Ma il lunedì successivo gli americani ci invaderebbero. Perciò devi dire ai compagni di stare calmi, di riporre i mitra. E avverti di questa mia decisione anche chi sai tu...».
Chi?
«Giulio Andreotti. Che stava lì, in corridoio, ad aspettare notizie, per poi riferirle a De Gasperi. Che era in apprensione sia per motivi politici, sia per ragioni personali: lui e Togliatti, infatti, si volevano molto bene».
Torniamo a questa sua candidatura.
«Ho già fatto il sindaco di Avezzano nel 1993 e per i dieci anni che seguirono: e questa cittadina l'ho trasformata in una bomboniera. Ora l'hanno ridotta a una vaccheria e...».
Chi le ha chiesto di candidarsi?
«I miei concittadini. Guido una lista civica, contro Pdl e centrosinistra».
Lei contro il centrosinistra?
«E certo! Io sono comunista, stalinista! Io non ho niente a che fare con quella robaccia del Pd! Io sto con quel galantuomo bolscevico di Oliviero Diliberto».
Però, in questa campagna elettorale, va dicendo che riceverà l'aiuto di Padre Pio.
«Embé?».
Uno stalinista che si raccomanda a Padre Pio?
«E certo! Padre Pio morì tra le mia braccia, e io sono suo figlio spirituale. E lui mi aiuterà a vincere queste elezioni. Lui può... Pensi che ero presente io, quando vide arrivare un giovane prete polacco... gli disse: "Guagliò, tu sarai Papa, e lo sarai nel sangue!". Era Wojtyla. Sì, sono stato un uomo fortunato...».
Anche potente, invidiato e, a volte, criticato. Come quando da Villa Gina evase Maurizio Abbatino, uno dei capi storici della Banda della Magliana. Dissero che lei...
«Una cretinata! Me lo mandò la Procura generale, gli detti la stanza 230. Altro, non so».
Sempre a Villa Gina, la storia degli aborti illegali. Arrestati suo figlio Ilio e suo fratello Marcello.
«Ma quali aborti illegali! Una mascalzonata, mi fecero! Una porcata bella e buona».

Corriere 3.5.12
Il diritto alla felicità, la confessione-denuncia di Concia
La deputata del Pd e l'incoraggiamento a rompere i tabù
di Paola Di Caro


È una storia d'amore. Di una scoperta. Di una battaglia. Di una discriminazione. È la storia di una bambina diversa. Di una provinciale che va in città. Della moglie prima di un uomo, poi di una donna. Di una lesbica. Ed è la storia di una comunista, femminista, diessina, democratica, mai omologata, rompiscatole, amica di donne di destra, contestata da donne di sinistra, unica parlamentare dichiaratamente omosessuale rappresentante nel Palazzo del mondo gay.
È questo e molto di più «La vera storia dei miei capelli bianchi - Quarant'anni di vita e di diritti negati» (in libreria l'8 maggio, Mondadori editore) biografia a tratti tenera, a tratti urticante, sempre spiazzante di Paola Concia, deputata del Pd, che si racconta senza reticenze a Maria Teresa Meli, giornalista del Corriere della Sera.
L'obiettivo del libro è dichiarato: questa storia vuole essere «un esempio per i giovani», un «incoraggiamento» a non compiere gli errori pur commessi dalla protagonista nel tentare di nascondere, soffocare, sacrificare il desiderio «omosessuale o eterosessuale che sia» in nome di convenzioni e tabù che pure questo Paese dovrà prima o poi superare. È un inno al diritto a «essere felici», anche se costa fatica e, nel caso della protagonista che è personaggio pubblico, critiche, perdite, isolamento. Effetti collaterali di un «coming out» che Paola Concia suggerisce anche agli altri ma non impone, facendo di un momento personale e intimo come il matrimonio con la sua compagna tedesca Ricarda un evento mediatico da condividere, perché il privato è pubblico se l'obiettivo è una liberazione, personale e collettiva.
Forte di una educazione tradizionale ma illuminata, la Concia — nata ad Avezzano da genitori militanti nell'Azione cattolica — racconta di un'infanzia serena ma di una diversità difficile da accettare, dei passi incerti, a partire da Giulia, la prima di una serie di passioni vissute con il senso di colpa, inadeguatezza e vergogna che ancora oggi rubano gioia di vivere e vita stessa a molti omosessuali (il 30% dei giovani suicidi sono gay e lesbiche).
È la prima parte del libro, quella più intensamente privata, dolente ma non lamentosa, perché per ogni amore c'è un passo verso l'impegno, per ogni errore (il matrimonio con un ragazzo, tentativo di uniformarsi a una realtà impossibile) una soluzione, per ogni perdita una scoperta, che trasforma la passione politica in impegno prima, lavoro poi.
E qui il libro scarta, e si fa assieme confessione e denuncia, analisi politica e rivelazioni. È nel 2008 che Veltroni decide di candidarla alle Politiche, in rappresentanza di quel mondo gay che accoglie con ben poco entusiasmo la scelta di una esponente fuori dal movimento omosessuale. Ma questo non basta per scoraggiare la neodeputata: d'altra parte, quando superi il confine di una presunta normalità baciandoti in strada con la tua compagna tra gli sguardi scandalizzati e le ingiurie di chi non tollera, davvero ci metti poco a prendere vie impreviste e mai battute. Come bussare alla porta dei tuoi avversari politici per dare forza alla tua battaglia per i diritti. Ecco allora la collaborazione con Mara Carfagna, ministro pdl per le Pari opportunità, per una legge sull'omofobia che pure non passerà, ecco l'amicizia con l'ex fascista (ora fli) Flavia Perina per andare nelle scuole a parlare di omosessualità, e perfino un dibattito acceso al centro sociale di destra Casa Pound.
Scelte controcorrente poco digerite nel movimento come nel Pd, partito al quale la Concia non risparmia critiche amare. Perché per un Veltroni che ti candida, un Ignazio Marino che porta avanti le tue battaglie sui diritti civili, c'è un mondo intero di cautele, di frenate, di freddezza, di diffidenza. Senza rancori ma senza sconti Concia cita l'immobilismo della Finocchiaro nella battaglia sui Pacs, le grandi liti con Rosi Bindi (e non solo) prima per le troppe ipocrisie sui Dico, poi per la cautela — o conservatorismo, omaggio al Vaticano, paura — con cui nel partito si discute di unioni gay. E ancora, c'è la critica a D'Alema per averla voluta usare come pedina ideale nel gioco politico impazzito per la segreteria regionale della Puglia, e la generale, delusa, gridata reprimenda a tutto il Parlamento ma alla sinistra di più per la mancanza di coraggio di chi potrebbe fare coming out e non lo fa (tra il 7 e il 9% i gay «velati» in Parlamento, come da media nazionale, secondo la Concia).
Critiche scomode, ma mai distruttive per una che la sua battaglia ha deciso di combatterla anche giocando da «Amici», o facendosi fotografare da Vanity Fair per il suo matrimonio in Germania. È l'immagine finale che chiude libro e storia, e il flash su lacrime e risate e torta panna e fragole ci consegna i ricordi normali di un giorno straordinario, ma ancora negato a troppi.

La Stampa 3.5.12
Quei diritti che l’Italia non assicura
di Vladimiro Zagrebelsky


Oggi il presidente della Corte Europea dei diritti dell’uomo arriverà in Italia Contro il nostro Paese ci sono migliaia di ricorsi su temi scottanti a cominciare dalla durata dei processi per continuare con le condizioni dei detenuti. Le visite che il presidente della Corte europea dei diritti dell'uomo periodicamente svolge in ciascuno dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa non hanno né lo stile, né il contenuto di una ispezione. Tuttavia non si tratta solo di tener contatti protocollari e di cortesia. Non saranno quindi privi di interesse gli incontri che il presidente della Corte - che è il giudice britannico Nicolas Bratza - e il giudice italiano Guido Raimondi avranno oggi con il Presidente della Repubblica e la ministra della Giustizia. Sarà l’occasione per fare il punto.
L’Italia ha più di un problema quanto all’obbligo di riconoscimento e protezione dei diritti e delle libertà assicurati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, assunto con la ratifica nel 1955. Prima fra tutte la questione dell’inefficienza del sistema giudiziario, nelle sue componenti di complesse norme procedurali, utilizzazione delle risorse a disposizione, attività della magistratura, incidenza dell’imponente avvocatura italiana. Sono ormai quasi trent’anni che la Corte segnala il grave problema, con le condanne dell’Italia per la violazione del diritto delle parti alla ragionevole durata dei procedimenti. Nessun decisivo passo verso la soluzione è stato fino ad ora compiuto, mentre addirittura da qualche tempo l’Italia si espone a nuove violazioni della Convenzione ritardando in ogni modo il pagamento delle somme che le Corti di appello assegnano ai ricorrenti per riparare la violazione del loro diritto. La massa dei ricorsi alla Corte di Strasburgo è tale da avere ormai portato un consistente intralcio al normale funzionamento della Corte e quindi del sistema europeo di protezione dei diritti fondamentali, che sul ruolo della Corte si fonda.
Un altro fronte si è recentemente aperto e riguarda le condizioni dei detenuti, che per il sovraffollamento delle carceri sono spesso tali da poter essere qualificate come trattamento inumano e degradante. Sono ormai centinaia i ricorsi presentati alla Corte da altrettanti detenuti italiani.
Entrambi i temi, urgenti e ineludibili, sono ben presenti alle autorità e ai cittadini italiani. Essi hanno anche un risvolto di responsabilità dello Stato, che incide sulla sua credibilità internazionale.
In recente passato, il governo precedente aveva dato luogo a vive proteste da parte del Consiglio d’Europa per le ripetute violazioni degli obblighi derivanti dai provvedimenti della Corte. Con comportamenti inusitati da parte di uno Stato europeo, sono state ignorate le disposizioni della Corte di non espellere determinate persone in Tunisia ove sarebbero state esposte a serio rischio di torture. Si trattava, è vero, di condannati in Italia per attività di sostegno a reti terroristiche, ma il divieto di tortura, nella cultura europea, garantisce tutti ed è inderogabile. Quelle violazioni commesse dall’Italia e sanzionate dalla Corte europea sono passate qui incredibilmente quasi sotto silenzio, ma a livello europeo hanno fatto molto male alla reputazione dell’Italia.
L’occasione della visita e degli incontri in Italia consentirà al presidente Bratza di discutere e chiarire anche l’esito della recente conferenza di Brighton, in cui i governi dei paesi membri del Consiglio d’Europa hanno indicato la necessità di riforma del sistema, per permettere alla Corte di svolgere efficacemente il suo ruolo. Ora la massa di ricorsi (oltre 50.000 all’anno) schiaccia le strutture della Corte, ritardandone oltre misura le decisioni. La conferenza, oltre ad indicare una serie di modifiche procedurali e a dar atto della necessità di elaborare più profonde riforme destinate ad assicurare l’efficienza del sistema a lungo termine, ha affrontato un tema molto delicato. Il Regno Unito, organizzatore della conferenza, spingeva perché si inserisse nella Convenzione una disposizione che obbligasse la Corte a riconoscere agli Stati un ampio margine di valutazione nazionale nell’adempiere ai loro obblighi. In molte ipotesi - ma non quando si tratta di diritti inderogabili, come quello alla libertà personale o il divieto di tortura o trattamenti inumani o degradanti - un margine di apprezzamento nazionale è riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte. Ma l’intenzione del Regno Unito era di andare ben oltre, in una misura che avrebbe finito per vanificare il controllo europeo che la Corte svolge a garanzia dei diritti dei singoli. Il tentativo non è andato a buon fine. Pare che il richiamo al margine di apprezzamento nazionale troverà posto in qualche modo nel Preambolo della Convenzione. Competerà comunque alla Corte di elaborare la propria giurisprudenza in proposito, senza cedere agli interessi dei governi a scapito della protezione dei singoli. L’indipendenza della Corte e la sua natura strettamente giudiziaria sono il pilastro della costruzione europea del sistema di difesa dei diritti individuali. Di ciò ha parlato a Brighton il presidente della Corte, ricordando che non c'è tutela dei diritti se non c’è la possibilità di accesso a un giudice la cui indipendenza non sia messa in crisi o appannata dalle pressioni dei governi. C’è motivo di credere che su questo il presidente della Corte riceverà assicurazioni da parte dei suoi interlocutori italiani.

l’Unità 3.5.12
Cosa ci insegna il voto francese
La sperata vittoria di Hollande sarebbe una boccata d’ossigeno per l’Europa e per il nostro Paese
che ha bisogno dell’esempio di una politica ancora in campo, di nuovo appassionata all’etica
di Barbara Pollastrini


La trepidazione cresce per un week-end elettorale importante per noi e caldissimo per l’Europa. A Parigi la partita non è chiusa ma il vento continua a gonfiare la vela di chi vuole una svolta e nel confronto televisivo la “forza tranquilla” di Hollande ha trasmesso coraggio. Ciò che non regge più è la strategia di un’Europa che scarica la crisi sul lavoro e sui diritti. Sulla vita di persone esasperate da una recessione che le sole politiche di austerità non sono in grado di aggredire. Adesso si capisce meglio l’insistenza con cui Bersani ha chiesto di seguire la bussola dell’equità e della crescita.
Ora a noi viene chiesto di spiegare cosa intendiamo quando diciamo che siamo leali verso il governo ma che «dopo Monti torna la politica». Penso ci aiuti il fatto che milioni di francesi torneranno a votare sapendo che la scelta è tra due alternative. Una destra incalzata da quel Front National da cui Sarkozy ha preso a prestito il repertorio più odioso. E una sinistra larga, incarnata dal candidato socialista. Destra e sinistra contrapposte nel duello sulla frontiera di un’Europa dove crescono pulsioni temibili (davvero serve ricordare che il nostro continente è stato anche il luogo di tragedie indicibili?). Parliamo di conservatori e progressisti, tutt’altro che roba vecchia. Dopo il ballottaggio in Francia e le nostre amministrative si scioglieranno molti nodi.
I progetti nel campo dei moderati prenderanno forma, magari con un’operazione di maquillage. Ma la vera domanda riguarda noi ed è se tra un anno potrà bastare la continuità con il governo che sosteniamo per rispondere alla richiesta di «un’altra politica». La risposta europea alla crisi e l’urgenza di ridare prestigio e moralità alla politica ci dicono di No. Allora sta al Pd impegnare il mondo della sinistra di governo e del solidarismo. Federare le risorse diffuse per una ricostruzione civile e sociale dell’Italia intera, come dimostra il triste tramonto di Formigoni. Dobbiamo farlo sapendo che fuori da noi nei movimenti, in un elettorato deluso ma non demotivato si stende una prateria che non si sente rappresentata.
Energie e virtù che la crisi non ha divorato. Il mondo del lavoro, della cultura non rassegnata, dell’impresa che sta nelle regole, del volontariato e dei giovani.
E soprattutto le donne che sanno bene come solo una crescita fondata sull’uguaglianza e sul riconoscimento dei meriti può garantire una restituzione di diritti e opportunità. Insomma la prova è una rigenerazione delle classi dirigenti che faccia da ponte tra la società più esigente, una politica più appassionata all’etica e un governo per il bene e i beni comuni. Solo così l’alleanza tra progressisti e moderati può dare all’Italia ciò che merita. Uscendo dalla logica della contrapposizione tra “politica” e “tecnica” e da quell’ideologia “neocentrista” annunciata come il nuovo ma che rischia di rinnovare il trasformismo senza cambiare nulla negli assetti e nel potere.
La realtà è che i cittadini riscoprono la politica quando possono determinare una svolta, com’è accaduto con Pisapia, coi referendum e come sta avvenendo nelle gare aperte in tanti comuni. A conferma che un antidoto alla disistima verso i partiti è una partecipazione che decide anche delle coalizioni che governeranno. Il voto premia la politica che non teme di prendere parte, che si parli di giustizia fiscale o di lavoro. Vorrà pure dire qualcosa che Hollande e Obama prima di lui non hanno esitato sui temi dei diritti umani e civili come leva di cittadinanza e crescita.
Ecco perché vorrei dire a Beppe Fioroni che il nostro errore non è stato un mancato sostegno a Bayrou. O l’aver pensato che la laicità «riguardasse le coppie di fatto, la procreazione assistita e i temi eticamente sensibili», cose che, a suo parere, ci avrebbero condotto a una frontiera depurata dai valori. Direi che è avvenuto l’opposto. È stato il non aver mai sciolto questi e altri nodi che ci ha sospinto verso un limbo dove la politica si è ridotta troppe volte a mero esercizio del potere smarrendo la sua radice profonda che è nel costruire su ogni tema mediazioni sagge in grado di espandere la dignità della persona e un’etica pubblica condivisa. E allora non si tratta di copiare le ricette di altri, ma di essere finalmente noi stessi nel rispetto della Costituzione e dell’identità dell’Europa migliore e solidale.

Corriere 3.5.12
I progressisti europei sperano in Parigi per ribaltare la «visione liberista»
di D. Ta.


ROMA — Sembra che la politica partitica stia entrando a vele spiegate nella crisi finanziaria europea. Esaltata dalla speranza della sinistra in una vittoria di François Hollande, domenica prossima, a Parigi. Il punto l'ha riassunto ieri Massimo D'Alema, quando — nel corso di una conferenza organizzata dalla Fondazione Italianieuropei — ha detto che «tutta la costruzione europea è stata realizzata da una visione liberista» delle destre. Il dibattito del momento sull'alternativa tra austerità e crescita prende così vecchi toni conosciuti: l'austerità e le riforme strutturali volute dal Berlin Consensus sono di destra, le misure per la crescita della domanda sono di sinistra.
L'idea di base che prevale nelle sinistre europee — alcuni think tank progressisti erano presenti ieri al dibattito voluto da D'Alema — è che le politiche di risanamento dei bilanci pubblici e le riforme di struttura volute da Angela Merkel non solo non funzionano ma stanno uccidendo l'economia. Fin qui, poco di nuovo. Ciò che oggi mette le ali ai progressisti è però la possibile vittoria di Hollande in Francia: il punto di svolta che potrebbe segnare sia una nuova spinta verso politiche più keynesiane di spesa pubblica, sia un cambiamento di potere nel Vecchio Continente. A dare forza e contenuti a questa posizione è arrivato dagli Stati Uniti Joseph Stiglitz, economista Premio Nobel che ha portato nella discussione una serie di proposte per passare dal dominio dell'austerità alla politica di stimolo della domanda.
Stiglitz propone cinque punti chiave, su cui lavorare. La Germania — dice — «ha lo spazio di bilancio per stimolare la sua domanda interna e per aumentare i salari, il che aiuterebbe le economie vicine». Una combinazione di tasse e di spese — aggiunge — andrebbero nella stessa direzione: per esempio un prelievo fiscale maggiore sui ricchi e investimenti in settori come l'educazione avrebbero un effetto positivo sulla crescita. Poi, Eurobond finalizzati a progetti di sviluppo, «azioni europee comuni che diminuiscano i costi di finanziamento per i Paesi più indebitati». La Banca europea per gli investimenti dovrebbe prendere a sua volta iniziative di sviluppo che attrarrebbero anche investimenti privati. In più, Stiglitz sottolinea che politiche di redistribuzione dei redditi in senso egualitario aiutano l'economia a crescere: «La redistribuzione che ha penalizzato le fasce più basse della società ha fatto calare la domanda. Solo i governi possono correggere questa situazione, e fare aumentare la domanda, attraverso una chiara agenda di iniziative sociali». Per le sinistre riunite ieri e oggi a Roma, però, il cambio di stagione deve essere politico, a Parigi, domenica prossima.

Corriere 3.5.12
Il nuovo leader dei socialisti e democratici europei
«Se vince la sinistra un'altra governance per l'Unione Europea»
Swoboda: sarà la fine del direttorio
di Paolo Valentino


ROMA — «Ci possono essere differenze tra le forze della sinistra in Europa, ma non c'è dubbio che con François Hollande abbiamo in comune la ricerca di una via europea, dove anche i mercati finanziari accettino un cambio di politica, più orientata alla crescita. Certo, bisognerà negoziare con la Germania e gli altri Paesi. Inoltre io penso che una vittoria di Hollande potrà innescare una nuova governance dell'Europa: non più il direttorio del tandem Merkel-Sarkozy, dove in realtà è la Cancelliera a dettare i termini, ma una leadership per lo sviluppo economico più equilibrata e accettabile per tutti, cioè un quartetto di cui facciano parte anche Italia e Polonia».
Hannes Swoboda è il neopresidente dell'Alleanza dei socialisti e democratici al Parlamento europeo. Ieri era a Roma per partecipare al convegno «Oltre l'austerità: politiche alternative per l'occupazione e la crescita», organizzato dalla Fondazione Italianieuropei.
«La crisi — spiega Swoboda al Corriere — apre una possibilità per le forze democratiche e di sinistra. Quando la gente comincia a notare che le misure in atto non servono allo scopo e che le vie nazionali non portano da alcuna parte, allora torna a guardare alle nostre posizioni, quelle di un'Europa della crescita e dell'occupazione».
Ma, è l'obiezione comune, può l'Europa permettersi di stimolare la crescita, se molti Paesi sono ancora lontani dalla stabilità finanziaria? «Il problema — replica Swoboda — è che l'Europa non può continuare sulla strada attuale. L'austerità da sola non avrà successo. Non si tratta di ricominciare a spendere. La crescita non significa deficit più alti, ma più bassi sia pure nel medio periodo. E non significa che rifiutiamo la disciplina di bilancio, i tagli e le riforme necessarie. Ma in primo luogo tutto dev'essere socialmente equilibrato. Le parti sociali, per primi i sindacati, devono essere coinvolte. E occorre trovare le risorse per i nuovi investimenti».
E dove trovarle? «Quattro strade: bisogna andare insieme sul mercato dei capitali, come dice lo stesso Mario Monti, per spuntare migliori tassi di interesse. Chiamiamoli come vogliamo, saranno una sorta di eurobond, ma sono uno strumento necessario. Secondo, occorre una forma di tassazione sulle transazioni finanziarie. Terzo, una lotta congiunta e mirata all'evasione fiscale: 1.000 miliardi di euro mancano dai bilanci nazionali dell'Ue a causa dell'evasione. Infine, nuove linee di credito della Bei. Questi strumenti ci darebbero lo spazio di manovra del quale abbiamo bisogno per rilanciare investimenti e crescita».
Resta il problema, per la sinistra, di colmare il deficit democratico dell'Europa. «I politici devono dimostrare di essere capaci di sciogliere i nodi principali della crisi. Perché dovrei aver fiducia in loro se non lo fanno e invocano sempre i mercati, per dire che non c'è alternativa? Guadagnare margini di autonomia e di manovra rispetto ai mercati finanziari sarebbe già un progresso enorme sul terreno della legittimazione democratica. Poi bisognerebbe anche tornare al metodo comunitario, al Parlamento europeo e alla Commissione: il fiscal compact è stata una deviazione da questo corso. E ci ha fatto perdere molto tempo».

Corriere 3.5.12
«Nuova tassa sui ricchi, non mi sono pentito. Più sacrifici per tutti»
Sapin, l'economista che dà la linea ai socialisti
di Stefano Montefiori


PARIGI — In Europa c'è chi considera una possibile presidenza socialista come il ritorno a un'irresponsabile spesa pubblica, altri come l'atteso passaggio alla crescita. Perché non bisogna avere paura di François Hollande all'Eliseo, se sarà eletto?
«La scelta di Hollande di rinegoziare il trattato di stabilità è sempre più condivisa, non spaventa più nessuno. Va riconosciuto che è stato Hollande a spostare le linee del dibattito, a imporre in Europa il tema dell'equilibrio necessario tra disciplina budgetaria e crescita delle economie».
Michel Sapin, 59 anni, è amico di François Hollande da 35. Al servizio militare, Michel era il compagno di stanza che aiutava François a mettere ordine nell'armadio per evitare le punizioni; poi i due sono stati compagni di corso all'Ena, con Ségolène Royal e Dominique de Villepin. Più di recente, Michel ha scelto François come testimone al suo secondo matrimonio (con la giornalista Valérie de Senneville) il 17 dicembre scorso, e soprattutto l'ex ministro dell'Economia più giovane della V Repubblica (1992-1993) aiuta il favorito all'Eliseo a mettere a punto le misure anticrisi, illustrate anche nel duello tv di ieri. Michel Sapin è il responsabile del programma presidenziale, e in caso di vittoria è destinato ai posti di premier, ministro dell'Economia o segretario generale dell'Eliseo.
Voi socialisti siete sospettati di aprire la strada a una nuova era di spese pubbliche.
«È falso, perché né io né François Hollande pensiamo che si possa rilanciare l'economia come nel 2008 e nel 2009, ossia con un aumento della spesa pubblica. Puntiamo invece su investimenti, ricerca, nuove tecnologie e creazione di posti di lavoro. Si chiama crescita attraverso l'offerta, una crescita sana, di medio-lungo termine».
Si parla di un Piano Marshall europeo.
«È vero, sono in corso nuove riflessioni sugli strumenti di questa crescita sana, che non può essere sostenuta da altro debito. Non servirebbe a niente trasferire una parte dei nostri deficit verso l'Europa; invece la Bei (Banca europea per gli investimenti) potrebbe in futuro giocare un grande ruolo. E il Meccanismo di stabilità dovrà finanziare nuovi investimenti; non generiche opere pubbliche, non bisogna certo fare ponti per il piacere di fare ponti...».
Che pensa delle aperture di Mario Draghi in direzione della crescita?
«Ci hanno fatto piacere, anche se abbiamo ruoli diversi, Hollande non è candidato alla presidenza della Bce... Rispettiamo l'indipendenza della Bce e non chiediamo certo una rivoluzione del suo statuto. Quello che domandiamo è che l'espressione politica dei governi, la Commissione, sia strutturata abbastanza da dialogare con la Bce. Tocca agli Stati, ai governi, alla Commissione, fare proposte».
Se Sarkozy lascerà l'Eliseo, la cancelliera Merkel perderà il suo interlocutore di riferimento di questi anni. Quali conseguenze per l'asse franco-tedesco?
«Una politica europea seria è possibile solo se Francia e Germania discutono da pari a pari. Ma dovremo sempre essere aperti agli altri. Non c'è niente di peggio che un direttorio Francia-Germania. "Merkozy" è stata una disgrazia: non funziona e non è corretto, per i contenuti e per i metodi. L'Europa ha bisogno dei grandi Paesi fondatori, in particolare dell'Italia. Sono certo che avremo rapporti ottimi con Mario Monti».
Non ha paura che Merkel sia tentata di fondare una nuova relazione privilegiata con Monti, mettendo in un angolo Hollande?
«Sarei felice di vedere l'Italia parte integrante di una nuova Europa multilaterale. Allo stesso tempo, chi può immaginare che l'Europa rinnovata possa funzionare se Francia e Germania non riescono a lavorare bene insieme? Tutto passa attraverso il motore franco-tedesco, capace però di coinvolgere altri, in particolare l'Italia. Solo così l'Europa potrà cavarsela».
Dopo la primavera araba, una primavera europea? Prevarrà il rinnovamento o la rivolta?
«Se la primavera europea non rimetterà in moto le nostre economie e non ridurrà la disoccupazione, allora prenderà il volto del caos sociale. Le politiche scelte finora sono semplicemente impossibili da mettere in atto. Perché ostinarsi?».
Questa posizione è accusata di fare paura ai mercati.
«Accade sempre meno, perché abbiamo avuto modo di spiegare quali sono le nostre reali posizioni. Mesi fa si dava troppo ascolto a quel che Nicolas Sarkozy diceva di noi. Meglio non starlo troppo a sentire, in generale».
L'«Economist» ha messo Hollande in copertina definendolo «piuttosto pericoloso».
«Non sono d'accordo con gli amici inglesi, le semplificazioni andrebbero evitate. I mercati e i governi sono più intelligenti della destra francese, che oggi si sta un po' perdendo e che vorrebbe trascinare con sè la Francia intera».
Hollande si è scagliato contro la finanza, e ha fatto scalpore la promessa di tassare del 75% la parte di reddito superiore al milione di euro l'anno. Siete i nemici dei ricchi?
«Conosco molti ricchi che vorrebbero guadagnare più di un milione di euro l'anno e pagare quella tassa... Non sono pentito della proposta, riguarda solo 3 o 4.000 persone, è una misura più di coesione sociale che di politica economica. Un modo di dire ai francesi che il momento è difficile per tutti, e che anche i più fortunati contribuiscono».
Michel Rocard e François Mitterrand sono stati i due grandi rivali della sinistra. Lei è vicino al primo, Hollande si richiama al secondo. Non si sente in contraddizione?
«No, perché Hollande ammira Mitterrand come politico, ma la sua formazione economica è vicina a Rocard, alla deuxième gauche più moderna e aperta. Non è un caso che l'altro maestro di Hollande sia Jacques Delors, anche lui vicino a Mitterrand ma con un'impostazione economica rocardiana. Hollande rappresenta un'ottima sintesi tra le due anime della sinistra di governo francese, per questo mi sento a mio agio accanto a lui».
Si parla di lei per poltrone importanti, da premier a ministro dell'Economia. Ha una preferenza?
«Troppo presto. Per ora spero solo nella vittoria di domenica».

il Fatto 3.5.12
Al voto domenica. Conservatori e socialisti in picchiata
Grecia, i nazisti di “Alba radiosa” adesso fanno paura
di Piero Benetazzo


Atene. Quello che maggiormente stupisce è una campagna elettorale silenziosa in un Paese dall’intensa passione politica: rari i poster sui muri, di fatto aboliti i grandi raduni, appuntamenti immancabili per inneggiare alla propria lealtà politica. I due grandi partiti – i socialisti dl Pasok e i conservatori di Nuova Democrazia – che per decenni hanno monopolizzato voti e aspirazioni sono di fatto crollati sotto una crisi economica senza precedenti. La loro credibilità è allo stremo. I sondaggisti registrano solo rabbia, disperazione e paura. Costa Panagopoulos – dell’istituto Alco – sostiene di non aver mai vissuto un periodo di così intensa instabilità politica e sociale: “Sono saltati tutti i punti di riferimento, tutto quello che avevamo progettato per il futuro non esiste più”.
I POLITICI tradizionali non si vedono più in pubblico, le loro segreterie non ne anticipano gli impegni, le loro campagne elettorali sono quassi clandestine, in televisione, nel chiuso di teatri e delle sale dei grande alberghi. Uscire all’aperto significa spesso insulti, lancio di yogurt e tafferugli. E in questo improvviso vuoto politico si sono inseriti velocemente schieramenti e partitini di destra e di sinistra, tutti contro l’austerità, i tedeschi, le cospirazioni dei banchieri: forse non offrono un futuro, ma soddissfano un intenso bisogno collettivo di punizione e di riscatto. Messi tutti insieme – dicono i sondaggi – potrebbero addirittura formare un governo, un paradosso suggerito solo dal gusto dell’assurdo, ma che indica comunque il crollo di un sistema politico. Il più baldanzoso e “Alba radiosa”, uno schieramento che non nasconde la sua ispirazione nazista. Il suo logo ricorda la svastica, nella sua sede centrale - vicino alla stazione - vendono il Mein Kampf e ritratti di Hitler, e i suoi membri esibiscono spesso il saluto nazista. Un gruppo senza nessuna tradizione in un Paese fiero della sua eroica resistenza antinazista, più che altro una “curiosità” che – alle elezioni del 2009 – era sparito sotto uno 0,23%. Oggi si potrebbe persino spingere – prevedono i sondaggi – fino al 9%. Li abbiamo incontrati alla periferia di Atene, nel quartiere operaio di Bournasi: tutti in maglietta nera, ben palestrati, le teste accuratamente rasate: euforici ed eccitati in un grande bar – forse nel ricordo delle birrerie bavaresi – ad applaudire gli slogan schematici e violenti dei loro leader: “Bisogna espellere tutti gli immigrati, sono tutti illegali, sigillare i confini con le mine, i sottomarini, le forze armate e punire severamente i greci che danno loro lavoro”. Le misure di austerità? nella spazzatura. I banchieri internazionali? Solo gangster. “Dicono che ricordiamo i nazisti? – si scalda il loro portavoce Ilias Panagiotaros – Noi siamo patrioti, la Grecia appartiene solo ai greci”. È uno slogan che ritroviamo, a caratteri cubitali, davanti alla grande chiesa ortodossa di Agios Pantelimonas, un quartiere con una forte presenza di immigrati. Gli edifici ben disegnati, ma molti negozi hanno chiuso, tutti esibiscono sconti che arrivano al 70%, molti appartamenti sono orami vuoti. È il terreno tipico di reclutamento di “Alba radiosa”: il quartiere di una classe media declassata, accerchiata ed impaurita da una improvvisa povertà e dalla tensione con gli immigranti. “Alba radiosa” offre buoni pasto, vestiti, ma soprattutto guardie del corpo che accompagnano donne e vecchi in banca e nei supermercati e perlustrano il quartiere quando – presto alla sera – le porte si chiudono e diventa deserto. Stravoula, una vivace vecchietta, dice che li ha mandati Dio per “entrare in Parlamento e restaurare l’ordine”, ma molti non li amano: “Sono utili – ammette Anastasios Tzimas nel suo desolato negozio di chincaglieria – ma sono l’espressione della nostra disperazione”.
COMUNQUE vada a finire l’irruzione di “Alba radiosa” nel dibattito politico ha ridato visibilità ad un problema molto sentito e finora ufficialmente “dimenticato”: il forte afflusso di immigrati – 500 mila negli ultimi 3 anni – che nelle facili frontiere greche, vedono la porta verso l’Europa. “Alba Radiosa” non è comunque l’unico partito a sfruttare il vuoto di potere creato dal discredito delle elites politiche dominanti: i sondaggi dicono che dall’altra parte, ai mille volti dell’estrema sinistra potrebbe andare addirittura un 30% dei voti, ma sono partiti divisi, incapaci persino di sfilare insieme nella manifestazione del primo maggio. E dunque la Grecia si avvia alle elezioni divisa, con la metà Paese che non accetta più le ulteriori misure di austerità volute dall’Europa. Un Paese impoverito, confuso e politicamente frammentato che promette un futuro di ingovernabilità e tensioni sociali. E i commenti di molti analisti vanno verso la lontana Repubblica di Weimar con i suoi fantasmi, le sue disgrazie.

Corriere 3.5.12
Atene, il voto della sfiducia e del rancore
di Antonio Ferrari


La Grecia è un Paese oppresso dai debiti e da un'amministrazione corrotta e obsoleta, che sopravvive grazie ai prestiti delle potenze europee». Non è il doloroso bollettino di questo arduo 2012, alla vigilia delle drammatiche elezioni politiche anticipate che si terranno domenica 6 maggio. Questo commento lapidario non si riferisce a oggi e neppure a ieri, ma ad un passato ellenico più lontano, descritto in un libro del 1858. L'autore, lo studioso e giornalista francese Edmond About, che visse per molti anni ad Atene, nel volume La Grèce contemporaine sostiene, senza alcun dubbio, che il «Paese è in bancarotta sin dal giorno della sua nascita». About, noto non per il suo sarcasmo nei confronti del Paese che lo ospitava, pagò care le sue spietate critiche. Il suo dissacrante libro venne a lungo bandito dalle librerie greche. Tuttavia, la feroce analisi dell'autore francese non era soltanto frutto di un pregiudizio. Anzi, certe affermazioni sembrano confermare l'immagine della Grecia del terzo millennio: impoverita, spaventata, prostrata, raggirata, derisa, e attraversata da un impetuoso ciclone di devastante pessimismo. Il numero dei suicidi è impressionante in un Paese che spesso si era nutrito di contagiosa allegria.
La Grecia va a votare pur sapendo che il risultato delle urne non migliorerà la situazione, anzi quasi sicuramente la peggiorerà. Però, come hanno sostenuto tutti gli osservatori più attenti, sarebbe stato impossibile prolungare l'agonia e privare la gente del diritto di scegliere, e di esprimere democraticamente la propria volontà. Il governo semitecnico guidato dall'ex vicepresidente della Bce Lucas Papademos, ha raccolto per mesi le spoglie di un disastro politico-economico e ha fatto l'impossibile per contenere la devastazione provocata dalla crisi. Ora, dopo quasi cinque anni di recessione, la Grecia si affida alle urne senza sapere che cosa scegliere. O meglio, desiderosa di punire i grandi partiti, il centrosinistra Pasok e il centrodestra Nuova Democrazia, e di premiare gli estremi (a sinistra come a destra), oppure di gonfiare il fronte dell'astensione.
In verità negli ultimi giorni, in un Paese da sempre politicizzato, si avverte un modesto controesodo verso i partiti più grandi. Troppo modesto però per ribaltare i sondaggi, i quali sostengono che neppure se Nuova Democrazia e Pasok, da sempre avversari, si alleassero in una «grande coalizione», avrebbero i numeri per formare da soli il governo. Un governo che, comunque vadano le cose, dovrà continuare nella linea dei sacrifici più amari per evitare la bancarotta. Un governo che dovrà riconquistare la fiducia dei connazionali, che già stanno sperimentando — soprattutto a Salonicco e a Volos — la diffusione di alcune improvvisate «valute locali» per bypassare l'euro e procedere a un mercato di scambi, che navigano tra merci varie, cibo e servizi.
Nella sinistra radicale, prima beneficiaria di un diffuso rancore nei confronti della soffocante austerità, i partiti sono addirittura tre, i dogmatici comunisti del Kke, i più moderati del Syriza, e i democratici di sinistra Dimar, che attira i consensi dei socialisti delusi. Scenario quasi analogo nell'estrema destra, dove si confrontano gli ultranazionalisti del Laos, i duri del movimento Greci Indipendenti, e i fanatici, violenti e nostalgici di Alba d'Oro, che si richiamano, anche nella gestualità, al tragico passato della Germania di Hitler. Otto partiti quasi sicuri, quindi, e altri due possibili pretendenti cambieranno comunque la geografia politica dell'Assemblea. In piazza, durante la campagna elettorale, sono andati soltanto i leader dei partiti dell'opposizione radicale. Gli altri, temendo violente contestazioni, hanno preferito qualche apparizione in teatri o circoli chiusi e molta rassicurante televisione. Sembra quasi, quello di domenica prossima, un voto di transizione. Infatti, c'è già chi si prepara per nuove elezioni fra pochi mesi.

La Stampa 3.5.12
L’oppositore riconsegnato ai cinesi. Appello a Obama: «Voglio andare via»
Chen: “Abbandonato dagli americani”
di Ilaria Maria Sala


Ieri pomeriggio, quando il dissidente cinese cieco, Chen Guangcheng, ha lasciato l’Ambasciata americana a Pechino diretto verso l’ospedale Chaoyang, sembrava prossimo il lieto fine: gli Stati Uniti, che gli avevano offerto asilo insieme alla famiglia, avevano preso atto del suo desiderio di restare in patria e si erano dunque premurati di ottenere solide garanzie da parte del governo cinese sulla sua incolumità. Inoltre Washington aveva ottenuto che Chen potesse coronare il suo sogno, ovvero andare all’Università e compiere gli studi di giurisprudenza che prima aveva portato avanti da autodidatta (in quanto disabile, infatti, Chen non aveva potuto frequentare l’università), in un «luogo sicuro», e non nello Shandong delle sue persecuzioni. Poi, con il trascorrere delle ore, questo scenario inaspettatamente roseo, si è ingarbugliato e le speranze si sono trasformate in accuse e pentimenti.
Hillary Clinton, a Pechino per il dialogo bilaterale semestrale su sicurezza ed economia, ha dichiarato che la fuoriuscita di Chen dall’ambasciata «è stata fatta onorando i suoi desideri e i nostri valori», ma con il passare delle ore l’impianto ottimistico costruito dalcapo della diplomazie Usa si è sfaldato. L’attivista si trova ancora nell’ospedale Chaoyang dove chi ha cercato di andarlo a trovare è stato respinto, ufficialmente perché non si è in orario di visite. Chen è stato raggiunto telefonicamente sia dall’agenzia di stampa Usa «Ap» sia dalla tv britannica «Channel 4», e dall’avvocato Teng Biao: a tutti ha detto di essere andato all’ospedale perché questo era l’accordo fra Washington e Pechino, e che le assicurazioni fatte agli americani sulla sua incolumità sembravano valide. Poi, però, sono arrivate le minacce alla sua famiglia, e Chen non si è più sentito al sicuro. Ha raccontato a «Channel 4»: «Sono venuto qui perché questi erano i patti, e volevo assicurarmi della salvezza della mia famiglia. Ma una banda di gangster si è impossessata della nostra casa, mangia alla nostra tavola, e siede nelle nostre stanze, agitando dei grossi bastoni. Ha fatto diventare casa nostra una prigione, con sette telecamere e barriere elettriche tutt’intorno».
«Ora il mio desiderio è di poter lasciare la Cina con la mia famiglia per potermi riposare un po’. Sono sette anni che non abbiamo una domenica», ha raccontato a Channel 4. Aggiungendo che nessun funzionario americano era presente in ospedale di fianco a lui, malgrado le promesse fatte, frase dapprima sibillina ma poi ribadita con ben altri toni alla «Cnn» alla quale ha detto di «sentirsi abbandonato dagli americani» e di «temere ora per la sua vita».
D’altronde poco prima della confessione alla «Cnn», la produttrice del programma di «Channel 4», Bessie Du, aveva precisato che Chen al telefono «era confuso e stava piangendo».
Teng Biao, che ha parlato sei volte con Chen nel giro di poche ore, ha detto: «Ho sentito che la sua posizione stava cambiando in modo rapido, e che ora vuole lasciare la Cina».
Nel frattempo, il Web cinese reagiva agli avvenimenti: con crescente rabbia nei confronti dell’America, che avrebbe abbandonato un uomo che ha moltissimi sostenitori in Cina, ed è considerato un eroe. Mentre Chen - secondo il suo avvocato si diceva, dal suo letto in ospedale, pentito di non aver approfittato dell’offerta Usa di lasciare il Paese.
A complicare la situazione del dissidente sono le notizie, o meglio le non-notizie, che provengono dal fronte dei suoi familiari. Del nipote e del fratello del dissidente cieco infatti, insieme a He Peirong, l’attivista per i diritti umani di Nanchino che ha condotto Chen a Pechino Chen, si sono perse le tracce proprio dal giorno della fuga.

La Stampa 3.5.12
Cina e Usa alla prova delle libertà
di Lucia Annunziata


Dai baci alle accuse, dai festeggiamenti ai sospetti, dai brindisi alla virtù che si afferma al caos delle doppie versioni: gli Stati Uniti sono inciampati ieri in Cina in un confuso incidente di percorso che rischia di esporre al sospetto di incompetenza o superficialità il vertice stesso della diplomazia di Washington. E non è assolutamente un caso che materia dell’inciampo siano, ancora una volta, i diritti umani, l’eterno terreno di frizione fra gli Stati Uniti e la Cina.
Il Segretario di Stato Hillary Clinton è arrivata ieri nella capitale cinese insieme al ministro del Tesoro, Timothy F. Geithner, per un giro di colloqui importantissimi su Iran, Corea del Nord, Siria, e su accordi per rilanciare l’economia mondiale. Ma, come sempre più spesso avviene, la questione dei diritti umani ha preso il sopravvento su ogni negoziato. Una settimana fa, infatti, un dissidente cinese molto famoso, l’avvocato cieco Chen Guangcheng, che dal 2005 conduce una battaglia contro l’aborto, si è rifugiato nell’ambasciata americana, sfuggendo agli arresti domiciliari cui è costretto da anni. Il caso è diventato così troppo grave per essere evitato, il rifugio concesso dall’ambasciata troppo coinvolgente per essere gestito dai soliti canali diplomatici. Gli osservatori attendevano dunque con attenzione l’arrivo del Segretario di Stato per vedere come gli Usa avrebbero gestito questa ennesima frizione con la Cina sul gravoso tema delle violazione dei diritti umani. Hillary non ha smentito i suoi metodi decisionisti ed è intervenuta direttamente sul governo di Pechino, ottenendo che l’avvocato potesse tornare a casa e continuare in futuro la sua battaglia civile in tutta libertà, sotto tutela degli americani.
Chen è stato liberato e portato, sotto gli occhi di tutti, all’ospedale cittadino. Fra Hillary e l’uomo ci sarebbe anche stata una telefonata conclusasi, secondo i testimoni con un «vorrei baciarla» di Chen al Segretario Usa.
La crisi si è chiusa così in maniera spettacolare, visibile, e indiscutibile. Con un accordo del tutto nuovo (di solito i dissidenti vengono buttati fuori dal Paese, se liberati) valutato come un incredibile passo avanti da parte della Cina. Ma la narrativa pubblica è durata poche ore. Il tempo di arrivare in ospedale e l’avvocato Chen Guangcheng ha sostenuto che non esiste accordo sulla sua permanenza in Cina e che gli Stati Uniti lo hanno lasciato solo di fronte alle minacce di morte ricevute appena fuori dall’ambasciata. Gli Usa hanno replicato gelidi che «rimanere in Cina, per continuare la battaglia e cambiare le cose» è sempre stata la linea del dissidente.
In verità, dubbi sulla soluzione trovata erano filtrati fin dall’inizio. Ci si chiedeva soprattutto come fosse stato possibile che la Cina lasciasse a un dissidente libertà di azione nel Paese. E ci si chiedeva come potessero gli americani farsi garanti di diritti su cui chiaramente non avrebbero avuto nessun controllo.
Il contrasto ha assunto alla fine toni amari. Le smentite reciproche hanno dato la sensazione di una vicenda provocata da superficialità e incompetenza. O, forse, da un gioco delle parti portato all’estremo, da un errore di calcolo finito male, fra due potenze impegnate da anni in un doppio binario di relazioni, fra bisogno reciproco e obblighi politici.

Corriere 3.5.12
Nella lunga «primavera» del Cairo torna il sangue, non le speranze
di Franco Venturini


In Egitto si muore, come ai primi tempi di una «primavera» che non è mai finita e il cui sbocco, oltre ad interessarci, dovrebbe anche preoccuparci. Ieri le vittime sono state venti secondo alcune fonti, trenta secondo altre, ma quel che più colpisce è che mentre gli uccisi erano sicuramente salafiti non è nota l'identità degli aggressori: poliziotti e militari in abiti civili, come sostengono i partecipanti a una dimostrazione che proprio contro i militari era rivolta, oppure islamisti di diversa tendenza decisi a regolare i conti con i «fratelli» a suon di bombe molotov e di kalashnikov? Il fatto che si possa anche soltanto ipotizzare uno scontro di tale violenza tra islamisti diversamente radicali serve a dare la misura della brutta piega che ha preso la transizione egiziana. E questa volta, anche quando la protesta torna a piazza Tahrir, non c'è più come agli albori della «primavera» l'alone elettrizzante della Storia in movimento: piuttosto, la vigilia delle elezioni presidenziali si è trasformata in durissima lotta di potere. E l'Italia, immersa com'è nel Mediterraneo, corre il doppio rischio di trovarsi di fronte un Egitto permanentemente instabile oppure controllato da un islamismo estremista. La marcia di avvicinamento alle prime elezioni presidenziali del dopo Mubarak, in programma per il 23 e 24 maggio, si svolge all'insegna del caos e dell'incertezza. Il Parlamento, dove la somma degli islamisti controlla più del 60 per cento dei seggi, si è autosospeso per protestare contro il governo sostenuto dai militari. Il generale Tantawi, capo della giunta di transizione, ha assicurato che abbandonerà il potere se la sera del 24 maggio uno dei candidati avrà vinto le elezioni al primo turno. Ma al momento una vittoria al primo turno appare poco probabile (e qui si arriva al punto cruciale) in seguito all'esclusione dei principali candidati decisa dalla commissione elettorale. Gli estremisti salafiti avevano un loro candidato: escluso, perché a quanto pare sua madre aveva la cittadinanza americana. Un candidato lo avevano, nella persona del più accettabile Khairat al-Shater, anche i Fratelli musulmani: escluso, perché aveva trascorso non pochi anni nelle galere di Mubarak. Un candidato ufficioso lo esprimevano i militari (forse per una calcolata provocazione) nella figura certo poco opportuna del capo dei servizi segreti di Mubarak, Omar Suleiman: escluso, per non aver raccolto tutte le firme che servivano. In corsa sono così rimasti due moderati, l'ex capo della Lega araba Amr Moussa e l'islamista dissidente Aboul Fotouh, assieme al candidato della venticinquesima ora dei Fratelli musulmani, Mohamed Morsi. Il quale vuole l'applicazione rigida della sharia, l'esclusione delle donne dalle alte cariche pubbliche, e considera gli israeliani «assassini e vampiri». Con loro, nei panni del figurante, l'ultimo premier di Mubarak, Ahmed Shafik. In apparenza il ventaglio delle possibilità si è spostato verso il centro, e infatti nei primi sondaggi Amr Moussa arriva in testa. Ma il vero braccio di ferro che la commissione elettorale rischia di aver trasferito dalle urne alle piazze si svolge tra gli islamisti, maggioritari in Parlamento e decisi a farsi valere nella scrittura di quella nuova Costituzione che fisserà gli equilibri di potere. Così, il semisconosciuto Morsi accentua il suo fondamentalismo per non lasciare troppo spazio ai salafiti orfani di Hazem Abou Ismail. E i salafiti gli restituiscono la cortesia annunciando addirittura che voteranno per l'odiato Fotouh, sapendolo ancor più odiato dai Fratelli musulmani che lo cacciarono dai loro ranghi. La corsa alla legittimazione islamista rischia in definitiva di spostare l'Egitto su posizioni antioccidentali e antiisraeliane, con l'aiuto di una situazione economica ogni giorno più grave. E il contrappeso, alla faccia della «primavera», può venire soltanto dai militari. Ma quanto siano uniti al loro interno i militari, è cosa sulla quale sarebbe imprudente scommettere. Il risultato di un simile rompicapo è che con ogni probabilità, più della persona eletta Presidente, a contare saranno le strategie di intesa o di contrapposizione tra le principali forze del Paese: si andrà a un «compromesso storico» (oggi in crisi, ma collaudato nei mesi scorsi) tra Fratelli musulmani e militari, oppure prevarrà uno scontro come suggeriscono le polemiche più recenti? E i salafiti rimasti senza candidato e sicuramente invisi ai militari, si accoderanno ai Fratelli musulmani o faranno loro la guerra come forse è accaduto ieri al Cairo? Oppure ancora si defileranno, staranno alla finestra e lasceranno che siano gli altri a logorarsi, pronti a subentrare? Per l'Italia è il momento di un dialogo difficile quanto necessario, opportunamente avviato con la visita di Mario Monti al Cairo. Ma occorre anche tenere la guardia alta nei confronti delle possibili derive islamiste, e comprendere che a soffiare sull'estremismo è soprattutto la delusione dei giovani davanti a una congiuntura economica che continua a peggiorare. Servono aiuti mirati. E bisogna riuscire a convincere i nordeuropei che il destino dell'Egitto non è soltanto un problema dei soliti «meridionali».

Corriere 3.5.12
Barenboim cancellato in Qatar. Niente concerti per «motivi politici»
di Pierluigi Panza


I concerti di Daniel Barenboim che erano in programma a Doha fino a domani sono saltati. Il Qatar ha infatti disdetto «Il festival della musica e del dialogo» per opportunità di ordine politico. Il bidirettore musicale della Staatsoper di Berlino e della Scala di Milano, di origine ebraica, aveva in programma di dirigere la sua West-Eastern Divan Orchestra. Ma non è stato possibile. Una disdetta molto controversa: «Evidentemente — scrive la Bild — non si vogliono surriscaldare gli umori antiisraeliani». Diversi media arabi, riporta infatti il tabloid tedesco citando il portale israeliano di Ynews, nei giorni scorsi hanno «dissentito» dall'iniziativa, sostenendo che «non è il tempo di ricevere israeliani e direttori sionisti». La portavoce del direttore d'orchestra ha cercato di ridimensionare il caso, negando che vi sia una relazione diretta fra la disdetta del festival e la persona di Barenboim. Ma il fatto è emblematico.
La West-Eastern Divan Orchestra fu fondata da Barenboim con lo studioso di origine palestinese Edward Said a Weimar, nel 1999. Un bel gesto da parte di Barenboim, poiché le tesi espresse da Said nel suo Orientalismi (1978), sono discutibili (e discusse): la cultura maschile e bianca dell'Europa sette-ottocentesca avrebbe elaborato scientemente un modello culturale teso al dominio del mondo musulmano. I due dettero vita a questa compagine che, unica nel suo genere, unisce giovani palestinesi e israeliani (questi maggioritari) allo scopo di fare della musica un'opportunità di dialogo. Nonostante alcuni limiti propagandistici dell'iniziativa, il gesto è andato nella direzione della ricerca della pace tra i popoli. Tanto che a Stoccolma si vocifera di un possibile Nobel a Barenboim.
La scelta di Doha di ospitare la Diwan e poi rinunciarvi è un grave campanello di allarme. Ma l'Occidente globalista e politically-correct dovrebbe — se crede veramente nella Pace — avere il coraggio di ospitare nei suoi cartelloni anche compagini e direttori arabi, facendo fare un passo indietro ai soliti noti (e ai loro protetti).

Sette del Corriere 3.5.12
In un anno in Usa 16 milioni di porto d’armi in più

qui


il Fatto 3.5.12
La politica abbandona cinema Roma
di Malcom Pagani


Appello. Centocinquanta firme. Bertolucci e Bellocchio. Gli attori e i produttori. Mezzo cinema italiano. Toni spuri. Tra il ventennio, l’emergenza democratica e l’affanno di sistema: “Abbiamo salutato con grande entusiasmo la nomina di Müller al Festival di Roma, per questi motivi ci rivolgiamo agli uomini politici e agli amministratori affinché possa essere messo nelle condizioni di garantire lo svolgimento della prossima edizione”. Un grammo di Shakespeare, poi, per illustrare il dilemma tra essere, non essere o morire: “Una replica, non richiesta, di ‘Tanto rumore per nulla’ sarebbe, a questo punto, insostenibile. E condurrebbe alla morte dell'evento”. Il grido di dolore a favore della manifestazione che nessuno vuole davvero e in molti fanno finta di desiderare è solo il finale, triste e solitario, proiettato sul tramonto della politica culturale di una città gestita come una bocciofila di provincia. C’era una volta, protetto dalle volte di Renzo Piano, il regno cinèphile di Walter Veltroni. Troppo costoso (15 milioni di euro) e vicino all’omologo veneziano. Sprovvisto di un mercato, disertato dai romani, utilizzato per passerelle elettorali tra flash e tappeti rossi. Inutile, in una parola, nonostante gli sforzi anche creativi di qualche selezionatore. Caduto il centrosinistra, in pieno omaggio a un equivoco mecenatismo tradotto in spoil system, era stato il turno di Polverini e Alemanno.
REGIONE E COMUNE soci fondatori decisi a riprendersi il proscenio, il nome di Müller in vetrina, l’eliminazione fisica delle barriere architettoniche. Defenestrata la precedente direttrice Piera Detassis e atteso il lento scollamento dalla poltrona della bianca sciarpa di Gianluigi Rondi, ultimo giapponese in quota Letta saldamente ancorato alla religione moltiplicatoria degli incarichi (non escluso ovviamente quello di presidente del Festival) sembrava che, pur in ritardo, con la nomina di Müller il più fosse stato fatto. Illusione ottica. Perché pani e pesci si possono evocare, ma le casse non si riempiono con i proclami. Così mentre Müller (ancora senza contratto) progettava spostamenti di date, tensostrutture davanti al Maxxi, allargamenti a Massenzio e première di Tarantino, nel Cda del Festival (gente sgomenta, esautorata dalle sue prerogative) si aspettava Godot. Invano. L’entusiasmo iniziale di Polverini e quello più trattenuto di Alemanno erano trasmutati in terrore. Due milioni e mezzo di buco di bilancio. Soldi che rimettere in circolo a un passo dalle elezioni sarebbe stato impopolare. Così la Regione dopo aver tentato di monetizzare maldestramente il colpo d’immagine, si è buttata sul situazionismo. Facendo finta di passare timidamente per caso: “Confortante l’appello pro-Müller” nella velata speranza che l’ammanco venisse coperto dalla Bnl di Abete e dagli sponsor. Un caos nel caos dove a oggi non è stato neanche approvato lo straccio di un piano di spesa, nonostante il Presidente designato Paolo Ferrari (ex Warner) chiamato a recitare da vaso di coccio si mostri ottimista: “Venerdì sarà approvato il bilancio”. Nel lecito dubbio di essersi esposti al ridicolo, i protagonisti hanno deciso di spingere fino in fondo il pedale. Müller con l’appello a suo favore, i cineasti gridando tardivamente “fuori la politica dalle sale”, Polverini abbaiando alla luna.
IERI URLAVA “O Müller o morte” con il Pd sulle barricate a denunciare il Golpe. Oggi colma il silenzio di imbarazzi mentre la sinistra incensa Müller. Un delirio. Che l’incontro tra il sinologo e l’ex sindacalista dell’Ugl potesse non finire in trionfo era prevedibile. Che il Festival rischiasse il default e Müller carezzasse l’idea di ribaltare il tavolo e andarsene, meno. Ora, mentre il panorama è una distesa di veti e ricatti incrociati e Cannes e Berlino ridono, gli sviluppi restano imprevedibili. Polverini e Alemanno vorrebbero fuggire, ma non possono. Müller che saprebbe come fare non dimentica Venezia, la rimpiange e maledice abbracci anticipati e improvvide interviste natalizie. I romani hanno altri problemi, ma si stavano affezionando allo show dentro lo show. Da domani, con lo schermo vuoto, potrebbero ricorrere a Flaiano. “Coraggio, il meglio è passato”.

Repubblica 3.5.12
Intelligenti si diventa ecco la ginnastica che allena la mente
Gli scienziati: test ed esercizi possono migliorare il "QI"
La "working memory" è la parte biologicamente determinata, non culturale
di Angelo Aquaro


NEW YORK Anche Einstein, nel suo piccolo, aveva torto? "La differenza tra il genio e la stupidità" diceva l´immenso Albert "è che il genio ha i suoi limiti". Contrordine maestro: non solo il genio potrebbe non avere più limiti ma geni possiamo diventarlo tutti. Anche noi stupidi. E per farlo basterebbe affidarsi a piccoli esercizi quotidiani. Sì, la ginnastica della mente. Gli addominali per la pancia e i test per il QI: il quoziente di intelligenza. Sarebbe tutta questione di allenamento.
Intendiamoci: qui non si parla dell´intelligenza intesa come apprendimento. Gli psicologi la chiamano "intelligenza cristallizzata". Ma la definizione coniata da Raymond Cattell giusto cinquant´anni fa rischia di essere fuorviante: perché non è cristallizzata una volta per sempre ma al contrario "cristallizza" le conoscenze che per tutta la vita non smettiamo di accumulare. Che siano nozioni: quanti pianeti ci sono nel nostro sistema solare. Che siano azioni: saper andare in bicicletta. No, è l´altra intelligenza - identificata sempre da Cattell - quella che finora ci ha intrigato di più: l´intelligenza fluida. L´intelligenza fluida è quella che ci permette di "capire".
Cioè di amministrare le informazioni che accumuliamo. L´intelligenza fluida è quella che coglie il senso delle cose: anche di quelle apprese con l´intelligenza cristallizzata. Per tanto, troppo tempo gli scienziati hanno cercato non solo di misurare l´intelligenza - cristallizzata e fluida - con i temibili test di Qi: ma anche di misurare gli eventuali miglioramenti. Finora invano. L´intelligenza cristallizzata funziona grazie alla memoria cosiddetta a lungo termine: ricordo dunque imparo. L´intelligenza fluida si basa invece sulla cosiddetta "working memory". Ed è questa la memoria che ci rende quello che siamo: umani. Diversi insomma dalle specie a noi simili come quelle degli altri primati. Per questo la "working memory" non potrebbe migliorare. «L´intelligenza fluida non è culturale» spiega al New York Times Randall Engle della Georgia Tech School of Psychology. «È quasi certamente la parte biologicamente determinata: controllata dalla corteccia prefrontale». E così, ci piaccia o no, in nome del determinismo biologico saremmo condannati alla nostra intelligenza più o meno mediocre.
Ma il mondo della scienza è adesso scosso dalle scoperte che hanno spinto proprio il New York Times a dedicare un numero speciale del suo magazine all´ipotesi di due studiosi svizzeri. Negli ultimi cinque anni Suzanne Jaeggi e Marin Buschkuehl avrebbero infatti provato che anche la "working memory" si può migliorare: proprio allenandosi sullo stesso tipo di test che misurano il nostro QI. Basterebbero addirittura dai 15 ai 25 minuti di allenamento al giorno, cinque giorni alla settimana: e le migliorie sarebbero già visibili dopo la quarta settimana di test. I nuovi esperimenti sembrano funzionare soprattutto con i ragazzi: e qui la nuova ipotesi incrocia la vecchia - perché finora si è sempre sospettato che l´intelligenza fluida raggiungesse il suo culmine e smettesse di crescere proprio alla fine dell´adolescenza.
Tutti più intelligenti con venti minuti di test in più? Gli stessi scienziati che stanno cambiando la nostra concezione dell´intelligenza non sono così stupidi da crederlo. Ci sono due ma. Il primo è l´eterno nemico di ogni sforzo d´apprendimento e miglioramento: la noia. E nulla è così noioso come un test d´intelligenza: al punto che gli studiosi, per ottenere risultati concreti tra i più giovani, hanno dovuto approntare un sistema di premi e gratificazioni. Il secondo ci riporta ai limiti di ogni allenamento. «Se vai a correre per un mese» ricorda lo stesso Jaeggi «migliori il tuo fisico. Ma sentirai il benessere per il resto della tua vita? Probabilmente no». Parafrasando il vecchio Einstein, davvero allora la stupidità non avrebbe limiti: tirandosi indietro perfino di fronte alla fatica di diventare genio.

Repubblica 3.5.12
L’annuncio del governo britannico per le ricerche fatte con fondi pubblici
Gratis sul web i lavori scientifici grazie al fondatore di Wikipedia
di Elena Dusi


La guerra degli scienziati contro le riviste scientifiche e i loro esosi abbonamenti ha arruolato anche Wikipedia. Il governo britannico ha chiesto al fondatore dell´enciclopedia sul web, Jimmy Wales, di pubblicare gratuitamente tutti gli articoli scientifici ottenuti con i soldi dei contribuenti inglesi. È l´ultima offensiva della campagna battezzata "Primavera dell´Accademia", partita a gennaio dal blog del matematico di Cambridge Timothy Gowers. Da allora, 11mila scienziati di tutto il mondo hanno aderito all´appello di boicottare la casa editrice Elsevier, la più grande del settore, che riceve gratuitamente gli articoli dagli scienziati per poi imporre per le sue riviste abbonamenti che vanno dai 20 ai 40mila dollari.
Gli scienziati della Primavera dell´Accademia, attraverso il blog www. thecostofknowledge. com, si impegnano a non fornire articoli, consulenza né lavoro editoriale alla Elsevier, accusata nel 2011 di aver accumulato profitti per 2,1 miliardi di dollari (con un margine del 36% sui ricavi) sulle spalle della scienza finanziata dal denaro pubblico. Oltre ai singoli scienziati, al boicottaggio si sono uniti il Wellcome Trust di Londra e l´università di Harvard. Mark Walport, presidente del Wellcome Trust (il più grande finanziatore di ricerca medica nel mondo dopo la fondazione Gates) ha annunciato il lancio di una nuova rivista online completamente gratuita: eLife. Harvard ha invitato il suo staff a pubblicare tutte le ricerche gratis sul sito dell´università. Il gigante di Boston spende ogni anno 3,75 milioni di dollari solo in riviste scientifiche.
«Ma andare avanti così non è possibile» ha scritto il governo dell´ateneo nel suo appello ai ricercatori. Il business dell´editoria scientifica tocca i 10 miliardi di dollari, con 25mila riviste specialistiche e 1,5 milioni di articoli ogni anno. Solo il 20% dei quali, prima della Primavera dell´accademia, poteva essere letto senza pagare.