venerdì 4 maggio 2012

l’Unità 4.5.12
La politica non può tacere
di Michele Prospero


Circolano tante prediche assurde rivolte alla politica affinché interiorizzi la regola del silenzio e lasci quindi ai bravi tecnici l’onere della decisione. Solo con l’astinenza dallo spazio pubblico, si dice, i partiti potranno forse ripresentarsi un giorno, ma con corpi assai leggeri (con leggi sulla loro vita interna, tagli dei costi, rinunce simboliche).
Questa grande illusione, di vedere nei partiti dei sorvegliati speciali che, solo dopo aver accettato una completa penitenza potranno d’incanto ricomparire e riacquisire, per grazia ricevuta, un loro ruolo accettabile, è semplicemente l’anticamera della crisi della democrazia.
Davvero i partiti che scelgono l’afonia, nella paurosa crisi che muta gli orizzonti di vita delle persone, potranno ripresentarsi tra un anno a chiedere il conto? I partiti hanno mostrato la loro responsabilità favorendo un arduo governo di tregua, ora devono controllarne l’agenda, impedire deragliamenti (come quello poi schivato sull’articolo 18). Altro che ritirarsi in clausura per poi incassare un plusvalore politico a Paese ormai risanato. Se passa l’idea per cui i tecnici salvano il Paese e i politici invece cospargono macerie solo aprendo la bocca, allora non c’è altra via che istituzionalizzare una dittatura commissaria. Il fatto è che ad accentuare la crisi, e non a risolverla, oggi è proprio la cattiva credenza per cui la tecnica (del rigore assoluto) va messa al riparo della politica (della crescita, della lotta al disagio sociale).
La crisi non è ancora giunta al suo apice. Dopo l’euforia per una riduzione dello spread, che faceva sorgere il mito del tecnico come salvagente, subito collocato al vertice delle preferenze registrate dai sondaggisti compiacenti, cala mestamente l’inquietudine e l’angoscia sulle sorti reali del Paese. È bastato che il vento della crisi tornasse a soffiare per far saltare tutto il velo delle ipocrisie, delle finzioni, dei sogni scambiati per realtà. Per questo, se i partiti si imponessero davvero la consegna del silenzio, sarebbe una catastrofe.
La crisi è anzitutto sociale e rinvia alla perdita di valore del lavoro, alla eclisse della produttività di imprese decotte per mancanza di investimenti tecnologici, allo sfascio delle politiche pubbliche per lo sviluppo e per la lotta contro le diseguaglianze estreme. I governi hanno finora fatto ricorso alla più classica delle politiche dei due tempi. Prima viene l’emergenza che, in nome del risanamento immediato dei conti, giustifica tagli, misure devastanti che riconducono il tenore di vita delle persone indietro di almeno trent’anni. Poi dovrebbe seguire una attenzione alla crescita. Ma con il prelievo fiscale salito in poche settimane di ben tre punti, con addizionali regionali e comunali che da due mesi decurtano circa il 10 per cento dello stipendio, con bollette alle stelle, con rincari del costo della vita che si verificano senza alcun contrasto, quale crescita potrà mai realizzarsi?
La divaricazione temporale tra rigore e crescita non ha mai funzionato. Il rigore poi è una parola ingannevole in un Paese nel cui spazio convivono due società ben differenziate: quella del lavoro, che paga tutto per tutti, e quella di una fetta ampia di benestanti che fugge dal fisco e non è neppure sfiorata dai sacrifici. Il rigore è nient’altro che la richiesta indecente al lavoro di accollarsi per intero i costi durissimi necessari per salvare il Paese. Per questo la crisi, da economica e sociale, sta diventando politica ossia crisi di legittimazione. E in ciò si nascondono le insidie peggiori. L’antipolitica, in tale congiuntura, non è solo una blasfema manifestazione che colpisce la sacralità della bella politica. È anche uno spettro che si aggira con un fare distruttivo.
Quando il tecnico, portato al potere in nome della competenza, non doma la crisi perché lo impedisce proprio la sua diagnosi rigorista, il richiamo alla complessità dei problemi non regge più e nella società si diffondono spirali incontrollabili di sfiducia per cui chiunque, anche il comico, il sindaco, il novello imprenditore può candidarsi a raccoglitore del disagio. Dopo il fallimento del tecnico, si prenota sempre il ciarlatano. Sulla base di quale presupposto un soggetto impoverito e sfiduciato dovrebbe comportarsi come un elettore razionale? La ragione in politica non è mai il punto di partenza scontato, è una difficile conquista che suppone azioni di forza reale.
Quando a una società umiliata da tagli, blocchi di stipendio, inflazione, arriveranno anche il salasso dell’Imu, l’aumento dell’Iva, molti paletti salteranno. E allora bisognerà fare attenzione ai sondaggi, non a quelli odierni, che non dicono nulla della prospettiva, perché la crisi solo ora comincia a mostrare il suo demoniaco volto. La pretesa di far rinascere il prestigio dei partiti con il silenzio dinanzi alla povertà sociale e con l’enfasi sulla regolazione della vita interna è del tutto vana. Prima che sia troppo tardi, la politica, se non vuole soccombere, deve riprendere in mano gli eventi e impedire che tagli, austerità, sacrifici, rigore diventino l’unica agenda pubblica. C’è bisogno che la voce del partito arrivi con forza nella società disperata che soffre, altrimenti è il crepuscolo, altro che rigenerazione di chi deve solo obbedir tacendo.

il Fatto 4.5.12
40 mila sprechi denunciati ma Bondi non li può toccare
Il garante della Privacy diffida dall’usare i dati arrivati dal web
di Carlo Tecce


Ha il suono di una filastrocca, ma può rendere l'idea: i tecnici convocano i tecnici per scovare gli sprechi, chiedono aiutano ai cittadini e sbattono contro un problema tecnico (e di legge). Perché l'operazione “segnala anche tu dove si buttano i soldi”, attraverso una paginetta su governo.it , inciampa quando finisce la propaganda: come la mettiamo con la privacy? Chi può maneggiare, e per quanto tempo e con quali garanzie, quelle 40 mi-la segnalazioni ricevute che palazzo Chigi declamava soltanto ieri sera? Tutti fermi, per il momento.
IL GARANTE Francesco Pizzetti ha inviato a Mario Monti una relazione urgente che soffoca l'entusiasmo: “L'informativa sui dati personali, a una prima analisi, non appare pienamente coerente con l'iniziativa. Vanno spiegate le finalità e le modalità”. Troppo fretta, maledetta fretta. La buca per le lettere è pronta, traboccante di segnalazioni, però nessuno può leggere: “Non possiamo ancora sfruttare questi suggerimenti che ci arrivano”, precisano da palazzo Chigi. L’errore è piuttosto banale, e l’Autorità per la privacy l’ha scoperto subito.
Il governo ha caricato sul proprio sito una griglia di testo identica a quella per inviare le famose domanda al presidente – critiche, richieste o complimenti – ma stavolta il contenuto è materia esplosiva: un cittadino, che si espone con nome e cognome, fa una denuncia precisa. Pizzetti riflette: “Non vogliamo ostacolare il governo, anzi apprezziamo le sue intenzioni, ma il cittadino che collabora deve sapere chi tratta i suoi dati personali, chi tutela l’anonimato, chi distrugge - e quando? - i messaggi”.
A palazzo Chigi, incassato l’avviso di Pizzetti, si limitano a contare quante volte il sistema elettronico segnala la posta in entrata. E basta. Protestano: “L’Autorità non ci ha risposto”. E Pizzetti ricambia: “Non ci hanno consultato”. Niente aiutino dei cittadini per il commissario Enrico Bondi, arruolato nel ruolo di tecnico che sussurra ai tecnici dove infilare le forbici.
L’EX MINISTRO Renato Brunetta, tanto per restare in tema, segnala al presidente Mario Monti che i siti per raccogliere proteste e proposte esistono già: “Se il premier avesse domandato al ministro Filippo Patroni Griffi (Funzione pubblica) un rapporto sulla capacità di ascolto del governo, quest'ultimo le avrebbe riferito che ci sono dei siti dai quali è possibile comunicare notizie anti-burocrazia e anti-spreco alla presidenza del Consiglio”. Palazzo Chigi, però, vuole di più: una struttura interna per tenere in ordine lo sfogatoio dei cittadini; un gruppo di tecnici che recupera dal nulla quei messaggi che fioccano con la velocità di uno al secondo (dice un comunicato celebrativo) e istruisce la squadra speciale anti-sprechi con Bondi al comando. C’è un piccolo particolare: oggi quelle lettere non si possono aprire.

La Stampa 4.5.12
Doria come Pisapia Il Pd rischia un’altra guerra intestina
«Il Pd rischia grosso I sondaggi ci danno al 23% Avevamo il 43%»
L’esponente di Sel potrebbe trionfare al primo turno
Dentro il partito di Bersani si riaprirà il capitolo alleanze
di Federico Geremicca


51,2% Il risultato della Vincenzi Cinque anni fa la candidata del centrosinistra vinse al primo turno con 158.432 voti 46% I voti di Doria alle primarie Il candidato indipendente di Sel ha sorpassato il sindaco uscente Marta Vicenzi (27,5%)

Spinte dal leggero vento di scirocco che arriva dal mare, le dieci sagome ondeggiano urtando - a volte - gli alti lampioni cui sono impiccate. Vestono tute bianche da lavoro, e non è un grandissimo spettacolo - in verità - vederle penzolare, cartelli al collo, giusto al centro di piazza Baracca: la stessa nella quale, corde e cartelli anche quella volta, i fascisti impiccarono alcuni partigiani. Era il 1943. «Equitalia ci strozza». «Dopo l’alluvione le nostre case valgono meno». «Le nostre fabbriche chiudono»... Le dieci sagome ondeggiano, la gente passa, le guarda, scuote la testa. Le hanno appese all’alba i commercianti di Sestri, uno dei quartieri genovesi più colpiti dall’alluvione. Non ce la fanno più, e non sono gli unici: a Genova e lontano da Genova.
Non c’è statistica, studio o convegno che non certifichi quello che i genovesi, purtroppo, sanno già da un po’: la città declina, si spegne, le Colombiadi, le grandi opere e la rinascita sono un ricordo - un sogno, anzi che la crisi ha triturato inesorabilmente, giorno dopo giorno. Oggi Genova è una città popolata da fantasmi. E da sagome che penzolano dai lampioni. Marco Doria, candidato sindaco del centrosinistra (e sicuro vincitore, forse già al primo turno, delle prossime elezioni) sa che non sono questioni che si possano risolvere tutte da Palazzo Tursi, residenza del Comune: «Infatti, non ho mai promesso rivoluzioni - ha ripetuto in tutta la campagna elettorale -. Mi limito a promettere serietà, e magari è il mio punto di forza».
Può essere. Anche se il suo punto di forza, in verità, è apparso e appare l’esser considerato un alieno precipitato nell’agone di una politica che la gente - anche nella «rossa Genova» - ormai proprio non sopporta più: come è accaduto giusto un anno fa a Pisapia, Zedda e De Magistris, diventati sindaci di grandi o grandissime città in barba a ogni pronostico. In barba, soprattutto, ai pronostici dei partiti. «È una cosa che ormai hanno capito tutti - annota Umberto La Rocca, direttore del Secolo XIX e naturalmente attento osservatore delle cose che accadono in città -. E infatti la prima cosa che colpisce di questa campagna elettorale è stato il tentativo di tutti i candidati di inabissare e nascondere i partiti schierati a loro sostegno».
La vittoria di Marco Doria a Genova riaprirà, forse, una discussione che - appunto l’estate scorsa - si stava facendo assai insidiosa per il Pd e per Bersani in particolare. Alla base c’era la constatazione, l’idea che il Pd fosse oggetto di una sorta di metamorfosi: da partito egemone del centrosinistra a «fornitore di consenso», portatore d’acqua per l’elezione di sindaci (a Milano, a Napoli e a Cagliari) provenienti dalla società civile o da altre file. O perfino da un’altra galassia, come Marco Doria a Genova. Qualcuno, naturalmente, tentò di trasferire quest’idea dalla periferia a Roma, cominciando a picconare l’ipotesi che dovesse essere necessariamente Pier Luigi Bersani il candidato premier del centrosinistra alle ipotetiche e future elezioni. Discussione delicata: poi è arrivato l’uragano-Monti, e tutti stanno rifacendo i loro conti...
Però Genova, oggi, è proprio come Milano, Napoli e Cagliari un anno fa: i candidati Pd travolti alle primarie, il partito diviso e in difficoltà, il voto per il nuovo sindaco considerato alla stregua di un «laboratorio». Volendo, per i democratici qui è ancora peggio, considerato che Marco Doria alle primarie ha letteralmente stracciato anche Marta Vincenzi, sindaco uscente e al primo mandato. Lei, naturalmente, se l’è presa moltissimo: fino al punto che potrebbe annunciare il suo voto, domenica, per un altro candidato. Ma onestamente - e detto senza cattiveria - c’è da chiedersi che carneficina sarebbe stata per il centrosinistraandare al voto con un candidato bocciato perfino dagli elettori della sua stessa parte...
Per Marco Doria, invece, la strada sembra tutta in discesa. I suoi maggiori competitori sono in gara per un posto al ballottaggio, ammesso che l’erede del «marchese rosso» non vinca al primo turno. Enrico Musso, finiano in campo per il Terzo polo, fu già battuto cinque anni fa (dalla Vincenzi, appunto) ; e Pierluigi Vinai - uomo dell’Opus Dei, gradito al cardinal Bagnasco - ha accettato l’offerta di candidatura del Pdl dopo che altri sei possibili competitori avevano ringraziato e detto no. Non un gran viatico, insomma: nonostante il sostegno esplicito di Claudio Scajola. Che per altro, con i tempi che corrono, non si capisce se è un vantaggio o una palla al piede.
Sergio Cofferati - ex sindaco di Bologna, tra l’altro, e da un po’ di anni «genovese adottivo» - pensa non sia un vantaggio. E pensa, soprattutto, che il rischio sia che anche «Genova la rossa» si allinei con le nuove abitudini italiane e veda una partecipazione al voto bassa come mai. «Qui sarebbe una novità, ma non me ne meraviglierei- dice -. Già alle primarie è andata come è andata: al voto poco più della metà di quanti vennero ai seggi cinque anni fa e poco meno della metà di quanti votarono per il nuovo segretario genovese del Pd. In più, i democratici rischiano grosso, considerato che i sondaggi ci danno al 23 per cento e alle ultime politiche avevamo il 43... ».
Il rischio per Bersani, insomma, è quello della solita vittoria di Pirro: a Palazzo Tursi Marco Doria - un outsider non proprio amico - e il Pd in calo verticale (come il Pdl, per altro). Era già accaduto a Milano, a Napoli e a Cagliari, un anno fa. E se accadesse anche a Genova, sai che scocciatura di nuovo tutti quei discorsi sul Pd portatore d’acqua a vantaggio dell’ultimo arrivato... Ma così è che va nel tempo del crepuscolo dei partiti.

il Fatto 4.5.12
Verona la nera. Quanti fascisti nella Lega di Tosi
Da Miglioranzi a Castellini frontman e sostenitore del sindaco
di Erminia della Frattina


Faccetta nera. Bandiere, gagliardetti, cellule foto-voltaiche e un sistema di videocamere collegate ad allarmi sonori perfettamente funzionanti, tutto intorno a una recinzione con fili reticolati in perfetto stile bellico. È l’attrezzatissimo campo paramilitare in cui si sono imbattuti per caso due amici che passeggiavano sulle colline veronesi settimana scorsa. La notizia è passata inosservata, ma sono le stesse colline su cui si sono concentrate le indagini sulla destra eversiva partite dalle stragi di Piazza Fontana e della Loggia, un’ombra di nazifascismo che la padanissima Verona non si è mai scrollata di dosso. Da Piazza Bra a Salò sono pochi chilometri in linea d’aria.
E infatti nessuno fa una piega in città se l’organizzatore della campagna elettorale dell’uscente sindaco Flavio Tosi, quello dei dissuasori nelle panchine, è Andrea Miglioranzi, già eletto nelle file della Fiamma Tricolore e con un passato nerissimo nel Fvs, il Fronte Veneto Skinhead (“fascista è per me un termine molto caro”).
Il frontman della campagna di Tosi, dai sondaggi dato vincente già domenica al primo turno, è anche il cantante dei Gesta Bellica, band di estrema destra che nel repertorio musicale vanta testi antisemiti, richiami alla razza pura e canzoni dedicate a Erich Priebke e Rudolf Hess. Una delle canzoni di punta, Feccia rossa, pianifica: “feccia rossa/nemica della civiltà/bestia senza umanità /la celtica croce vincerà” mentre 8 settembre 43 fa così: “una data senza perché/è giunta l’ora della viltà/un altro marchio di infamità/ma io sono camicia nera/nel mio cuore una fede sincera”. Miglioranzi, insediato da Tosi ai vertici dell’Istituto di storia della Resistenza, scelta che ha scatenato talmente tante proteste da costringerlo alle dimissioni, è stato anche condannato nel 1996 a tre mesi di carcere per istigazione all’odio razziale.
ROBA del passato, ragazzate da adolescenti? No. Basta andare nella pagina Facebook di Miglioranzi e, sotto la foto di Tosi che stringe la mano a Maroni, accorso ieri sera in città assieme a Salvini per la chiusura della campagna elettorale, c’è un video che si intitola “Croci celtiche, boia chi molla”. Il video racconta la sfilata dei sostenitori della Fiamma tricolore a Roma contro il governo Monti, una manciata di giorni fa. Di sottofondo la canzoncina: dammi una Guinness nera nera nera come noi. Quando Bossi, togliendosi qualche sassolino dalla scarpa, accusava Tosi di aver riempito la Lega di fascisti voleva pur dire qualcosa.
NELLA PADANA e demo-cristiana repubblica di Verona, dove il vescovo Zenti ha dichiarato pubblicamente il suo appoggio a Tosi e “a un leghismo di buonsenso”, la vocazione identitaria e xenofoba del Carroccio trova un sponda forte nella nuova destra antimondialista (un tempo si chiamavano nazi maoisti) del sito Italia sociale e del neo partito Progetto nazionale-Ritornare avanti fondato da Miglioranzi stesso (“è un’associazione culturale” ci dice) con annesso candidato - Massimo Piubello già presidente della commissione cultura - all’interno della lista civica di Tosi.
LA LIAISON. Tra il sindaco leghista e l’estrema destra però c’è anche un forte risvolto affaristico-commerciale. Il capogruppo del consiglio comunale uscente Miglioranzi è stato presidente della Veneto Exibition ora in liquidazione, azienda controllata per il 70% da Veronafiere e il 30% dalla finanziaria regionale Veneto Sviluppo. Miglioranzi, già cavaliere di Gerusalemme e del Santo sepolcro, ha da poco ricevuto l’onoreficenza a Cavaliere dell’ordine dell’aquila d’oro (la simbologia di destra ha sempre filato con draghi, castelli e cavalieri: il ritrovo del Fvs si chiama Ritorno a Camelot) dai Corpi sanitari internazionali, una sorta di associazione di volontariato con struttura organizzativa paramilitare; la sede del comando Prima divisione Nord Italia è stata inaugurata da Tosi un anno fa con tanto di taglio del nastro. Lo stemma dell’associazione è un gagliardetto con aquila, ali rigide e spiegate, che ricorda quello della Wermacht hitleriana con bandiera bianca rossa e nera nel petto, vedere sito internet per credere.
La stessa aquila campeggia nel gagliardetto, pardon, nel simbolo della Sicurint, società nata nel 2006 di cui Miglioranzi è uno dei soci principali. L’azienda, che vive di appalti pubblici ed è il principale sponsor dell’Hellas Verona, squadra a cui Tosi è tanto legato (per un periodo la società ha ottenuto l’appalto della sicurezza dello stadio Bentegodi, poi revocato) ha fatturato 150 milioni nel 2011. “Una progressione incredibile per un’azienda che ha solo sei anni di vita” dice Ma-rio Spezia, imprenditore candidato in una lista ambientalista. Il presidente di Sicurint è Michele Lodi del Movimento sociale Fiamma tricolore, cavaliere dell’Ordine di Malta vicino a Tosi nella foto dell’inaugurazione dei Corpi sanitari. Il cavalier Lodi è entrato nel 2010 nel cda della società Agsm distribuzione (luce e gas) controllata dal Comune, altra società sponsor dell’Hellas, per poi uscirne.
IN CASO di ballottaggio. Se Tosi dovesse andare al ballottaggio tra le liste che lo appoggeranno ce ne sono due, Forza Nuova e Identità scaligera, che ora sostengono come candidato sindaco Luca Castellini, un passato nella destra estrema. Il programma presentato da Castellini è apparentemente anti Tosi, ma con forti accenti xenofobi e contro l’immigrazione. Promette più sicurezza, controlli nelle scuole e per le strade, assegni familiari e lavoro solo agli italiani e, tocco di classe, propone una valuta locale che affianchi l’euro: Mcv, Moneta complementare veronese. Quanto vale? Un fiorino.

l’Unità 4.5.12
Elezioni e stranieri
Senza possibilità di voto migliaia di residenti
di Filippo Miraglia
, responsabile immigrazione Arci

Libertà è partecipazione», cantava Giorgio Gaber nel lontano 1972. E come definire realmente libera una società che inibisce a milioni di persone la forma di partecipazione per eccellenza in democrazia, il diritto al voto? L’argomento è stato fra l’altro al centro anche del recente confronto televisivo tra Sarkozy e Hollande. Su di esso i due candidati all’Eliseo hanno mostrato di avere idee chiare e distanti tra loro. In Italia agli stranieri non comunitari si chiede di assolvere giustamente a tutti i doveri che gravano sui cittadini italiani, compreso il pagamento delle imposte, contribuendo così alla fiscalità generale. Ma non c’è nessuna automatica simmetria col godimento di quei diritti che garantiscono la piena inclusione nel sistema democratico. Una evidente ingiustizia che, in occasione delle prossime elezioni amministrative, escluderà dal voto centinaia di migliaia di persone, tanto da indurre a chiedersi e non solo come semplice provocazione se nel nostro Paese sia davvero attuato il principio del suffragio universale. Considerando solo i comuni maggiori, una percentuale in taluni casi superiore al 10% di potenziali elettori (per esempio a Como, Parma, Verona e Piacenza, dove si arriva addirittura al 14,4%) non potrà votare perché priva della cittadinanza italiana. Si tratta di cittadini di origine straniera non comunitari, residenti regolarmente in quei comuni, spesso da anni, ai quali è impedito di concorrere alla scelta di chi dovrà amministrarli. In totale, considerando tutto il territorio italiano, ben il 5,3% della popolazione residente non può votare. Lo scorso 6 marzo la campagna «L’Italia sono anch’io» ha depositato alla Camera più di 100 mila firme di cittadine e cittadini italiani in calce ad una proposta di legge di iniziativa popolare (che ricalca il testo di un’analoga proposta presentata nel 2005 dall’Anci), perché venga riconosciuto il diritto di voto alle elezioni amministrative e regionali ai non comunitari residenti nel nostro paese da 5 anni.
Per denunciare questo vulnus democratico, stiamo distribuendo nei comuni interessati dalla consultazione un adesivo con la frase «Io non posso votare». Ancora per 5 anni, molte città saranno governate senza avvalersi del contributo di un pezzo sempre più importante di società. Un problema che dovrebbe vedere impegnate, per superarlo, le forze politiche democratiche con la consapevolezza che la questione non riguarda solo i diritti dei migranti, ma i principi fondativi del nostro sistema democratico. Sul tema del diritto di voto continueremo ad adoperarci perché si apra il più ampio dibattito pubblico.

La Stampa 4.5.12
Il processo a Don Seppia
Droga e violenza su minori. Prete condannato a 9 anni
Genova, in aula l’ultima disperata autodifesa: “Erano solo fantasie”
di Alessandra Pieracci


È stato condannato a 9 anni e sei mesi don Riccardo Seppia, l’ex parroco cinquantaduenne cocainomane che chiedeva allo spacciatore milanese di procuragli anche ragazzini giovanissimi dal collo tenero. Ma lui ieri, prima della sentenza, ha voluto proclamare la sua innocenza, chiedendo scusa solo per «la mia condotta morale, per i messaggi telefonici dal contenuto osceno e per il mio stile di vita non consono con il ministero sacerdotale».
Una pagina scritta di suo pugno, consegnata mesi fa all’avvocato Paolo Bonanni per una lettura rinviata all’ultima udienza del processo con rito abbreviato. «I gesti da me compiuti - ha detto l’ex parroco riferendosi a quella mano sul ginocchio, la pacca sul sedere e l’abbraccio a un quindicenne della parrocchia - non avevano implicazioni sessuali». Ne avevano però le conversazioni sui bambini «meglio se di famiglie con problemi» registrate dai carabinieri.
«L’abuso di droga mi ha portato a mandare messaggi irriferibili il cui contenuto non era legato a una volontà di mettere in opera quelle azioni ma si trattava di delirio e vanterie dettate dal consumo di stupefacenti» ha detto dietro le porte chiuse dell’aula l’imputato, rivolto al pm Stefano Puppo e al giudice Roberta Bossi. Nessuna scusa per il ragazzino o la famiglia (nessuno si è costituito parte civile), perché «non ho commesso reati».
«Ho desistito sempre dalle mie azioni» ha detto ancora, riferendosi a quando prendeva appuntamenti con un minorenne albanese salvo poi non presentarsi. «Ho avuto paura» spiegava al telefono all’amico con cui condivideva fantasie e cocaina, Emanuele Alfano, ex seminarista arrestato mentre stava per imbarcarsi come coupier di bordo.
Per il giudice, invece, don Seppia è colpevole di violenza sessuale, anche se di minor gravità, e di tentata induzione alla prostituzione (4 anni 2 mesi e 20 giorni), offerte plurime di droga (4 anni e 8 mesi e 26 mila euro) e cessione di cocaina (8 mesi e 2000 euro). Il pm Stefano Puppo aveva chiesto 11 anni e 8 mesi, il difensore l’assoluzione, tranne che per la cessione di droga. Jeans e giubbotto scuro, rasato, alto e imponente, l’ex parroco non ha più detto nulla. Soddisfatto il suo legale per il ridimensionamento delle imputazioni: presenterà appello.
Il caso di don Seppia era esploso l’anno scorso quando, dalle intercettazioni effettuate dai Nas di Milano per svelare un traffico di stupefacenti tra palestre e locali, erano emerse le rivoltanti conversazioni del prete genovese. Don Seppia era stato arrestato la sera del 13 maggio e il giorno successivo, nella chiesa di Santo Spirito di Sestri Ponente, il cardinale Angelo Bagnasco a sorpresa aveva portato un messaggio immediato ai fedeli, comunicando la sospensione del prete e parlando, in un’omelia dai toni forti, di vergogna e scandalo.
Ieri il presidente della Cei, che nei mesi scorsi si è recato a trovare don Seppia in carcere a Sanremo, ha preferito affidare ogni commento a don Silvio Grilli, direttore dell’Ufficio diocesano per le Comunicazioni Sociali: «Si rinnova il dolore per quanto accaduto, pensando innanzitutto a quanti ne sono stati vittima, in qualunque modo, e si rinnova il dolore per la comunità parrocchiale. E’ apprezzabile il fatto che prima della sentenza don Seppia abbia chiesto perdono».

La Stampa 4.5.12
Erano previste entro fine aprile
Linee guida anti pedofilia La Cei in ritardo sui piani
di Gia. Gal.


«Linee guida entro 12 mesi», aveva imposto con una circolare la Santa Sede il 3 maggio 2011. Quasi tutti gli episcopati si sono dotati per tempo di misure contro la pedofilia. In extremis, tra due settimane, i vescovi italiani voteranno le norme anti-abusi. Il 21 maggio, all’assemblea Cei, sarà discusso il «pacchetto» di provvedimenti e, salvo modifiche, il testo verrà inviato all’ex Sant’Uffizio per il «via libera». In pieno scandalo dei preti pedofili, un anno fa la Santa Sede aveva chiesto alle conferenze episcopali di affrontare «tempestivamente il problema», «rispettare la competenza fondamentale dei vescovi», dare «attenzione prioritaria alle vittime». Furono sollecitate «procedure chiare e coordinate» e «il dovere di collaborare con le autorità statali»(denuncia dei crimini alla magistratura). Dopo 12 mesi, ultima chiamata per la Cei.

Corriere 4.5.12
L'ex tesoriere: meglio che non parli, sono un vulcano
«È vero che ho firmato tutto io Ma chi mi ha detto di farlo?»
di Monica Guerzoni


ROMA — «Chi può pensare che io sia quel tremendo dottor Jekyll e Mister Hyde di cui è stato scritto? Davvero facciamo finta di non sapere come funzionano i partiti? È meglio che non parli, perché mi sento come un vulcano inesploso...». Alle nove di sera di una delle giornate più dure della sua vita il senatore Luigi Lusi, sulla cui testa pende una richiesta di arresto per aver fatto sparire 25 milioni di rimborsi pubblici dalle casse della Margherita, risponde al cellulare dalla sua villa di Genzano. E sfoga tutta la sua rabbia, la paura, la preoccupazione per il futuro della sua famiglia. «Questo provvedimento è abnorme, incredibile, inverosimile. È fuori dalla grazia di Dio, pieno com'è di cose non verificate. Dov'è il fatto nuovo che giustifica la richiesta di arresto? L'unico fatto nuovo è la qualificazione giuridica del reato di associazione a delinquere». E non è poco senatore, non crede? «Non mi aspettavo la richiesta di arresto. I domiciliari per mia moglie, poi... L'ha presa malissimo, è chiaro. Dove sarebbe il pericolo di fuga quando, per restare a disposizione dei giudici, abbiamo annullato le vacanze di Pasqua in Canada con tanto di volo prenotato?».
Un fiume in piena. O meglio, per usare le parole dell'ex tesoriere della Margherita, «un vulcano inesploso». Quella che lui sta contribuendo a scrivere è per Lusi «una pagina più grande, molto più grande» di quanto non si pensi. «Come si può credere che io per dodici anni abbia deciso, da solo, dove dovevano andare i soldi?». Era lei che firmava gli assegni, senatore Lusi. «Certo, la cosa migliore, sempre, è intestare tutto al tesoriere — si fa scudo —. È vero che ho firmato tutto quel che è uscito dalle casse della Margherita dal 2001 al 2011, ma chi mi ha detto di farlo? Questo è l'argomento. Penso che questo Paese non ha capito come funzionano i partiti. Funzionano con sistemi che spesso sono leciti e a volte, invece, sono border line. Il confine è labile e soggettivo. Se si decide che io ho fatto tutto in modo illecito e poi si chiede ad altri, tutti ascoltati in gran segreto, di confermare quel che io dico, dove lo trovi uno che conferma, con il clima di antipolitica che c'è?».
Dal primo momento dell'inchiesta Lusi si è assunto «tutte le responsabilità del tesoriere», al punto che sperava di chiudere la vicenda restituendo parte dei soldi e dei beni. Ma adesso che c'è la richiesta di arresto ha una gran voglia di convincere che lui non è «il mostro», o almeno che in questa brutta storia di soldi pubblici spariti lui non è l'unico su cui va puntato il dito. «Adesso mi sento come uno che è stato spremuto e gettato via dalla Margherita. Ma siamo sicuri che Rutelli, Bianco e Bocci, che sono il presidente, il presidente federale e il presidente del comitato di tesoreria, parlino a nome di tutta la Margherita? Anche chi sa, non confermerà mai le mie dichiarazioni».
Ricorda di aver dato a Rutelli «lealtà totale per decenni», ma non si aspetta sconti dagli amici di un tempo. «In questa fase di antipolitica tremenda — è la sua preoccupazione in queste ore — una risposta negativa alla richiesta di arresto verrebbe letta come una difesa della casta». La prospettiva del carcere le fa paura? «Non so come voteranno i senatori, ma certo sono molto preoccupato per la mia famiglia, per i miei figli. Vedo troppe cose strane. Perché i magistrati non hanno accolto nessuna delle richieste dei miei avvocati? Perché la Margherita si è opposta alla discovery dei conti? Cosa si sta cercando nei bilanci? Credono davvero che abbia potuto spendere 196 milioni da solo?».
Senatore Lusi, una bella fetta della torta è finita nei suoi conti correnti, in spese per il matrimonio e in immobili di sua proprietà. La casa di Genzano, quella di via Monserrato... «Nessuno può pensare che le disposizioni finanziarie fossero totalmente nelle mie mani, che fossi io solo a decidere tutto — si difende l'ex cassiere —. Chi dava gli input? Chi ha messo le persone nei cda per conto della Margherita? Io ai complotti non ho mai creduto, ma a leggere i documenti c'è da impazzire». I suoi avvocati, Luca Petrucci e Renato Archidiacono, hanno appreso «con stupore» le motivazioni del gip e dicono che «per il cittadino Luigi Lusi le regole sono state capovolte». Una tesi che il senatore spiega così: «In questo Paese c'è un problema molto serio di gestione del rapporto tra politica e magistratura. Tutto quel che ho detto ai magistrati è stato usato per dire che ho accusato altri. Io, purtroppo, faccio l'indagato e sto ragionando su quel che devo fare. Ma ci sarà un giudice a Berlino, prima o poi!».
Come andrà a finire, Lusi non sa o non vuole prevederlo. Spera nel segreto dell'urna e nel garantismo del Pdl, ma ha letto con angoscia le dichiarazioni di Bersani e Anna Finocchiaro sull'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e non sembra farsi troppe illusioni sull'epilogo. Smentisce di essersi dimesso solo mercoledì dalla Giunta per le immunità che dovrà valutare il suo caso e dice di aver presentato già il 7 febbraio «dimissioni irrevocabili» dall'organismo, sciogliendo il conflitto di interessi. Il presidente della Giunta è il democratico Marco Follini, il che non sembra tranquillizzarlo: «Io ho un buon rapporto con lui, ma lui non ha un buon rapporto con me...».

il Fatto 4.5.12
L’annuncio del governo
“Presto una legge sul diritto d’autore online”
di Federico Mello


Due giorni fa Agorà Digitale, associazione che si batte per la libertà di Internet, gridava vittoria. Dopo una lunga battaglia, festeggiava la decisione Agcom di non procedere all’approvazione del regolamento sul diritto d’autore visto da molti attivisti come “bavaglio alla Rete” – per l’occasione è stato anche organizzato una sorta di “party radiofonico, questo pomeriggio alle 15:30, sulle frequenze di Radio Radicale. Eppure la “festa” potrebbe non durare a lungo, forse addirittura meno di 24 ore. Il presidente Agcom, Corrado Calabrò, aveva chiarito mercoledì: “Finché il governo non adottera una specifica norma interpretativa, noi, almeno in questa consiliatura, non ci sentiremo tenuti alla deliberazione del regolamento”.
SARÀ STATA questa dichiarazione, saranno stati gli strali delle associazioni di categoria (la Fimi, associazione delle case discografiche, aveva parlato di “resa agli ultrà della pirateria”), neanche un giorno dopo Palazzo Chigi batte un colpo. “Il governo sta riflettendo su un disegno di legge” ha detto ieri il sottosegretario all’Editoria Paolo Peluffo in risposta a un’interpellanza di Fli e chiarendo come si sta muovendo l’esecutivo in materia di tutela del diritto d’autore”. Il ddl dovrebbe vedere la luce “all’interno del progetto più ampio che nel giro di poche settimane potrebbe essere elaborato in materia di produzione di meritocrazia. Al Parlamento verrà richiesto un approfondito dibattito”. Quale l’ipotesi studiata? In Francia la strada di Hadopi – taglio della connessione dopo tre volte che si è scoperti a scaricare contenuti protetti – non ha dato grossi risultati. E negli Usa, le leggi Sopa e Pipa – chiusura dei siti con contenuti protetti – sono state accantonate dopo una imponente mobilitazione online. “Non si tratterà – ha spiegato Peluffo –, come era stato anticipato impropriamente, di inibire l’accesso ai siti, ma di disattivare singoli prodotti piratati da parte di Agcom con un regolamento che dovrà adottare dopo l’eventuale approvazione della norma che sarà portata prima all’attenzione del Cdm e poi trasmessa al Parlamento”.
PER IL GOVERNO, la norma “non avrà alcun carattere repressivo e sarà accompagnata da politiche di diffusione e promozione dei contenuti”. Peluffo fa anche un ragionamento di scenario: “Ogni giorno sui social network vengono diffusi, commentati e trasferiti 2,5 milioni di articoli. Questo interesse pubblico va bilanciato con un secondo interesse pubblico: che continui a esistere una filiera di creazione del valore attraverso la produzione della conoscenza che conservi l’esistenza di un settore dell’editoria, del cinema, della musica, del design industriale di produzione nazionale. Questi due interessi pubblici, aggiunge, sono la base su cui all’interno del tavolo dell’agenda digitale, si è avviata da parte del governo una riflessione su come eventualmente regolamentare il settore”. Cosa si intenda per “prodotti piratati” presenti online, e se una norma come quella allo studio possa nascondere qualche rischio “censura”, si capirà nei prossimi giorni.

il Fatto 4.5.12
Chi vuole la giustizia su misura
di Gian Carlo Caselli


Esce oggi in libreria “Corretti e corrotti”, Gian Carlo Caselli dialoga con Marco Alloni (Aliberti). Ecco un estratto del libro.

Quando mi occupavo di terrorismo a Torino e indagavo sui delitti delle Brigate rosse e di Prima linea, ero accusato di essere un fascista. Mentre quando (avendo chiesto io – volontariamente – di andare a Palermo dopo la morte di Falcone e Borsellino) ho cominciato a indagare sulle connivenze fra mafia e politica, ecco che sono diventato un comunista! Insomma, vorrei un po’ capire anch’io come ho potuto cambiare a questo modo... senza accorgermene. Falcone e Borsellino. Anche a loro è toccato di vivere un’esperienza negativa, addirittura nel periodo d’oro del pool: quella appunto di essere etichettati in un certo modo e di veder così profondamente squalificato il proprio lavoro. E ciò quando cominciarono a occuparsi di livelli diversi dai mafiosi di strada, per passare (ricorrendone i presupposti in fatto e diritto) a imputati “eccellenti” nell’ambito dei rapporti fra mafia-politica-economia-affari-istituzioni (la cosiddetta “zona grigia”). Non dimentichiamo che Falcone veniva accusato, un giorno sì e un altro anche, di essere comunista pur non essendolo affatto. Ed è la stessa esperienza (vedersi affibbiate appartenenze fasulle ma delegittimanti) che abbiamo vissuto noi magistrati del pool che si è formato alla Procura di Palermo, dopo le stragi del 1992, per raccogliere la scomoda eredità di Falcone e Borsellino.
PER ATTACCARE il mio lavoro mi hanno dato prima del fascista e poi del comunista. Mi mancava, tuttavia, essere definito “mafioso”. Invece di recente è accaduto anche questo, sui muri di Torino e di altre città: perché la Procura oggi da me guidata applica la legge anche in Val di Susa, dove per mesi le forze dell’ordine comandate al presidio del cantiere del Tav sono state oggetto di “assalti” illegali di varia natura da parte di frange dei No Tav. Come se un magistrato, di fronte a un atto contrario alla legge si chieda prima chi lo abbia commesso e poi – a seconda delle sue simpatie – decida se agire o meno. E mi risulta che tirare massi e bombe carta sia ancora un atto contrario alla legge, persino nella sedicente “Libera Repubblica della Maddalena”: una porzione di territorio nazionale sottratta alla sovranità dello Stato italiano, con posti di blocco che impedivano l’ingresso a chiunque non fosse gradito, forze dell’ordine comprese. È il sintomo di una crisi culturale per cui la giurisdizione – ripetiamolo ancora una volta – non è più valutata sulla base della correttezza e del rigore, ma dell’utilità. Una crisi culturale che vent’anni di guasti di berlusconismo e non solo hanno elevato a sistema di pensiero diffuso.
(…) Se questione morale significa prevalere dell’interesse generale sull’interesse particolare, ecco che cancellare, nel senso di non avviare mai nessun accertamento e nessuna verifica di responsabilità politica e morale, allo scopo di salvare questo o quel compagno di cordata, corrisponde di fatto a rimuovere la questione morale. E così torniamo a quello specifico negativo del caso Italia che è: quasi mai dimissioni, neppure in casi che gridano vendetta; e scomparsa pressoché totale, nei programmi politici, di significativi accenni alla questione morale.
(…) Bobbio ha sempre insegnato – e credo che il suo insegnamento sia da considerare assolutamente imprescindibile – che non c’è corruzione (e io aggiungerei che non c’è collusione con la mafia) che possa pretendere una qualunque giustificazione politica. Perché, dice Bobbio, il tiranno resta tiranno e il corrotto resta corrotto (e io aggiungo: il colluso con la mafia resta colluso) quale che sia il consenso di cui gode, quale che sia l’appoggio elettorale che ha avuto e quale che sia il numero e la qualità delle sue comparsate televisive.
C’è poi un altro profilo che non possiamo dimenticare quando facciamo riferimento ai tentativi di delegittimazione dell’azione giudiziaria: l’accusa di “giustizialismo”.
GIUSTIZIALISMO è una parola che, nella sua vulgata corrente, viene impiegata per dire che uno, anziché fare giustizia, fa qualcosa contro. Qualcosa cioè che non è da ritenersi propriamente giusto, ma rappresenta un’ingiustizia mascherata da propositi di giustizia.
In Italia ormai si è persa la memoria dell’origine di tale parola: giustizialismo. Ma se noi prendiamo il vocabolario della lingua italiana, anche soltanto di sei o sette anni fa, ci accorgiamo che la parola “giustizialismo” la troviamo, sicuramente... ma guarda caso riguarda Perón! Riguarda insomma il peronismo, non certo la giustizia, né in Italia né in Argentina. Bisogna dunque prendere atto di questa intelligente, ma strumentalmente perfida, “invenzione” della parola giustizialismo applicata ai problemi della giustizia italiana. Utilizzata (ci risiamo...) per squalificare chi cerca di fare giustizia su strade che incrociano determinati interessi. Ogni qualvolta si vuole “meno giustizia” si sventola il cartellino rosso del giustizialismo. Direi che questo utilizzo improprio della parola è pertanto un altro degli aspetti inestricabilmente intrecciati con la questione morale.

il Fatto 4.5.12
Premi virtuali
Piazza Tahrir, il David invisibile (in Italia)
di Anna Maria Pasetti


Per uscire da questo tempo di crisi abbiamo bisogno di recuperare fiducia in noi stessi e negli altri. Mi auguro trovando le vie di rigenerazione della politica: il cinema, come la cultura, ci possono aiutare a ritrovare fiducia”. Belle parole quelle pronunciate davanti al consesso dei candidati ai David di Donatello 2012, dal presidente Napolitano. Peccato che le cose vadano all’incontrario nel nostro cine-settore, che politica e interessi di pochi tengono in ostaggio.
MA QUALE cinema terapeutico per il Paese dove i film migliori – tra cui proprio alcuni premiati col David – non vedono neppure l’ombra di una sala cinematografica? Immaginiamo che un vincitore dell’Oscar non abbia uscita nelle sale americane. Pura fantasia. E non solo perché negli States l’avvenuta distribuzione è la conditio sine qua non per la candidatura alla statuetta. Lo stesso dicasi in Francia con il César: una vera bestemmia. Ma tornando nel Belpaese scopriamo, invece, che neppure il massimo riconoscimento sia garante di una regolare cine-distribuzione. Un misfatto “normalmente surreale”, annoverano i virtuosi cineasti invisibili, e pericolosamente in crescita, aggiungiamo noi. Quest’anno la pietra dello scandalo s’intitola Tahrir Liberation Square, diretto e prodotto da Stefano Savona, insignito col David come migliore film documentario. Un’opera straordinaria di fattura e tematica (girato senza troupe e in presa diretta dentro la rivoluzionaria Piazza Tahrir de Il Cairo in quello storico gennaio 2011) che non solo ha partecipato a innumerevoli festival (in prima mondiale a Locarno 2011), ma ha siglato accordi per la regolare distribuzione in territori “civili” come Francia (15 copie, che non è poco per un doc), Canada, Germania, Portogallo, Israele, Russia e soprattutto gli Stati Uniti (da giugno a New York e altre città) e la Tunisia, diventando in quest’ultimo Paese il primo film su una delle Primavere Arabe girato da un non-arabo. Già, persino in Tunisia, dove è uscito il 25 gennaio scorso a un anno dai fatti di Tahrir. E in Italia? Tuttora senza distributore.
“Abbiamo contattato tutti i distributori italiani, sia a film pronto sia dopo la vittoria del David: nessuno ci ha risposto. Se non avremo offerte neppure per l’uscita homevideo dovremo arrangiarci noi... ”, dice rassegnato Savona, talentuoso cineasta-antropologo-archeologo siciliano da otto anni residente a Parigi. Ridondante chiedergli perché, “in Francia ci sono gli interlocutori per un tipo di cinema come questo, cosa che in Italia non esiste, almeno in termini di ‘sistema’.
CERTO, sopravvivono alcuni ‘illuminati’ sul mondo del documentario di qualità come Rai3, che mi ha co-prodotto e mandato in onda nella notte del 23 gennaio, e l’immancabile Fuori Orario”. Stasera, dopo la consegna del meritato David, Stefano Savona parteciperà a una proiezione romana di Tahrir in onore del premio: all’Apollo11 un cine-club resistente nel cuore capitolino e devoto al documentario. E sarà un unicum, come l’insieme di tutte le affollate serate “one shot” che questo film coraggioso si è guadagnato. Perché Savona, come tanti suoi colleghi attivi nell’ombra, è l’antitesi dell’autore seduto sugli allori: il richiamo della realtà che si fa Storia è prioritario, si parte e si gira, buttandosi nella mischia. E naturalmente si auto-produce. Un documentarista pluripremiato, duro e puro che con gli egiziani ha da anni stretto un patto di reciproca fiducia, come con tutti i suoi soggetti, dai curdi di Primavera in Kurdistan (2006, candidato al David) ai palestinesi di Piombo fuso (2009). Ma con gli italiani è impossibile “non si tratta di contatti umani” – dice – “ma quando proponi qualcosa ti rispondono ‘Che vuoi che ti dica? ’”. Forse, da oggi, che Napolitano auspica a un sano cinema riparatore del Malpaese. Che notoriamente prende distanza dal cinema “non fiction” come la peste, a meno che non si tratti di titoloni para-politici o su imprescindibili figure dell’immaginario collettivo. E paradossalmente girati in stile televisivo perché è ciò che meglio si adatta al mainstream odierno. “Non tira il mercato”, lamentano i distributori, trascurando il fatto che invece proprio il bistrattato documentario sia oggi un genere vivissimo, tecnicamente diversificato, intimamente rivoluzionario. Come Tahrir Liberation Square, che non è figlio di un David minore.

l’Unità 4.5.12
La svolta oltre la Francia
di Paolo Soldini


L ’appoggio di François Bayrou al candidato socialista Hollande ha un valore politico che va oltre le elezioni presidenziali. In una certa misura va oltre anche la Francia. Le tre ragioni indicate dall’esponente centrista per raccontare il suo «no» a Nicolas Sarkozy sono, certo, la spiegazione di un rifiuto netto, ma sono più che questo.
Delineano l’idea di uno schieramento, dalla sinistra al centro, che non vive solo nel dissenso contro la politica del presidente in carica, ma lascia intravedere qualcosa di più: una trama disegnata, per ora, più in difesa di valori che in indicazioni di soluzioni e scelte, ma comunque una trama.
Vediamo le tre ragioni del «no» di Bayrou. Primo: Sarkozy «è partito alla caccia dei voti dell’estrema destra» e in questo modo nega i fondamenti della visione del mondo della cultura centrista e cattolica. Secondo: il presidente attuale «ha l’ossessione delle frontiere». Vuole chiudere la Francia in una specie di autosufficienza del proprio egoismo. Terzo: Sarkozy «nega il progetto europeo cui non solo il centro e la sinistra ma anche la destra hanno lavorato per tanti anni».
È evidente che tutti e tre gli argomenti costituiscono un terreno sul quale la convergenza tra il centro moderato e la sinistra socialista è naturale, quasi ovvia. Il rifiuto del populismo che solletica i lati oscuri dell’animo della Francia profonda: la xenofobia, l’idea che gli altri, gli stranieri, debbano uniformarsi o essere cacciati. Un sentimento che ferisce un patrimonio di idee, di sensibilità, di atteggiamenti ed azioni largamente comune alle tradizioni socialista e cattolica. Chi c’era ricorda il bel discorso che Bayrou pronunciò all’assemblea del Ppe nel giugno del ’98 contro l’ammissione di Berlusconi nel partito europeo. Una rivendicazione della tradizione popolare e del pensiero politico cattolico, contro la demagogia dell’uomo «nuovo» e il meschino opportunismo di quasi tutti i partiti nazionali, solleticati dall’idea di inglobare un pezzo di politica italiana e di organizzazione (compresi, forse, dei soldi, secondo voci che non sono mai state smentite).
Il richiamo del presidente uscente alla disastrosa demagogia contro gli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone fa da trait d’union tra il capitolo delle politiche dell’immigrazione e il progetto europeo dell’integrazione e del progresso verso un Unione politica. Anche qui Bayrou indica implicitamente un terreno comune per il centro e la sinistra. Un terreno sul quale, in altri tempi, era schierata anche la destra, ma sul quale l’attuale capo della destra francese si è mosso con colpevole goffaggine, accecato da quel falso bagliore di grandeur che pensava lo illuminasse mentre risuscitava l’asse con la Germania e si offriva alle seduzioni politiche ed economiche di Frau Merkel, che gli suonava la musica per ballare. Proprio l’ottica della politica europea è la chiave migliore per valutare la scelta del centrista a favore di François Hollande. La sua decisione è legata al contesto francese, ma arriva come una conferma di un mutamento di orientamenti che si va facendo strada in tutta l’Europa stretta nella crisi dell’euro. Anche Bayrou si allinea con quanti ritengono che la strategia attuale, fondata su una supervalutazione dei vantaggi della disciplina di bilancio e sancita dal Fiscal compact, sia sciaguratamente inadeguata e avvicini il disastro, come ha sottolineato il candidato socialista nella parte forse più convincente del suo confronto televisivo con il presidente uscente.
Appoggiando Hollande il capo dei centristi francesi si schiera con un rinnovamento di pensiero politico e di dottrina economica che chiede una radicale inversione di rotta, a cominciare dalla formulazione, accanto al patto fiscale, di un patto per la crescita, dalla creazione di forme di condivisione del debito, dalla modifica del ruolo della Bce, da una strategia di investimenti che coinvolga la Banca europea e le istituzioni dell’Unione, da misure severe per la regolamentazione dei mercati finanziari. Lo fa dando voce e senso alla tradizione popolare e solidaristica del migliore cattolicesimo francese, ma l’indicazione vale ben al di là della Francia.

l’Unità 4.5.12
A colloquio con Jerôme Fourquet
«Ecco perché Francois ha vinto il duello tv»
Il sondaggista: «L’elemento di novità nel confronto è stata la capacità di affrontare temi europei»
di Anna Tito

Del faccia a faccia televisivo di ieri sera mi ha colpito un elemento di novità rispetto a tutti i precedenti: la discussione si è a più riprese spostata sui temi europei, sulla questione del debito e della crisi della zona euro, su Paesi quali la Germania, l’Italia, la Grecia o la Spagna, in particolare le politiche economiche, da prendere a esempio
o meno» spiega a l’Unità Jerôme Fourquet. Jerôme Fourquet lavora da quindici anni in uno dei maggiori istituti di sondaggi ed è responsabile dal 2005 del Dipartimento Opinioni e strategie d’impresa dell’Ifop Institut français d’opinion publique un’agenzia di sondaggi «storica», creata nel lontano 1938, divenuta leader nell’ambito dei sondaggi e che ha lanciato già un anno fa un sito Internet dedicato all’elezione presidenziale: www.ifopelections.com. Lui in particolare conduce studi sulla geografia e la sociologia elettorali. La sua prima notazione riguarda proprio questa dimensione internazionale della sfida tra i due candidati. Il leader socialista François Hollande e il presidente uscente Nicolas Sarkozy si sono confrontati su argomenti ultimamente tralasciati nella campagna elettorale, quali la disoccupazione in crescita e il potere d’acquisto che diminuisce, mentre finora sembrano aver vissuto immersi nell’ovatta.
«Infatti – conferma Fourquet ci si concentrava per lo più su bagattelle quali il costo della patente per i giovani, sulla data del pagamento delle pensioni, sui menù nelle mense scolastiche e cose così».
Il dibattito è stato aspro e vivace, non ha risparmiato accuse da una parte e dell’altra. Ma, avverte Fourquet, «sposterà poco o nulla le intenzioni di voto. Da quando esiste in Francia il duello televisivo, ovvero dal 1974, abbiamo verificato che impatta in maniera molto marginale sull’opinione pubblica. E a tre giorni dall’elezione Hollande rimane il favorito, con il 53%, contro lo sfidante Sarkozy che si assesta sul 47%».
Dopo quasi tre ore di confronto un record nella storia dei duelli televisivi presidenziali «l’attuale capo dello Stato è ben lungi dall’aver recuperato il divario con il rivale, fallendo nel suo tentativo di destabilizzarlo, in quanto l’altro non ha mai perso la calma, presentando i propri argomenti in maniera coerente, precisa e argomentata». Ha tenuto testa all’avversario «anche ricordandogli più volte il bilancio piuttosto negativo del suo quinquennio; la tattica di insistere sul cambiamento che verrà riportando l’altro al suo statuto di presidente uscente con tutti i suoi insuccessi, in politica ha sempre funzionato, se utilizzata con abilità».
Sarkozy è caduto appieno nella trappola: «Ha tentato di rivendicare la capacità di trattare con i Paesi europei e la difficoltà di gestire la crisi dell’Europa, e anche di sviare la discussione quando si è trattato del suo bilancio, ma il socialista non ha mai mancato di richiamarlo prontamente all’ordine». Quanto all’idea del cambiamento, «possiamo definirla un altro elemento di forza di Hollande – prosegue Fourquet – in questi mesi ha fatto leva sull’anti-sarkozysmo, ormai non poco diffuso anche per via della crisi, sull’idea di alternanza, tanto più che in Francia la destra è al potere da dieci anni, e ieri sera presentandosi come il candidato della giustizia, specie sociale e fiscale, ha punto sul vivo l’avversario». Per concludere, Fourquet anche analizzando l’impatto del duello televisivo ritiene «Hollande perfettamente in grado di insediarsi all’Eliseo e senza dubbio all’altezza della funzione che si appresta ad assumere».

l’Unità 4.5.12
Intervista a Elie Cohen
«Dopo il voto noi speriamo nell’effetto domino per l’Europa»
Il consigliere economico di Hollande: «Dalla Francia può arrivare la ricetta progressista capace di mettere fine al terrorismo delle speculazioni. Sarkò? È la caricatura di un rigorista»
di Umberto De Giovannangeli


Nicolas Sarkozy è la caricatura di un presidente “rigorista”. I dati lo inchiodano: sotto la sua presidenza, la Francia ha aumentato il debito pubblico come mai in passato. Quanto a François Hollande, la sua mission fondamentale da presidente sarà quella di coniugare rigore e crescita, facendo leva su quest’ultima per ridurre il debito pubblico fino ad arrivare al deficit zero nel 2017». A sostenerlo è Elie Cohen, consigliere economico di Hollande, direttore di ricerca al Cnrs e a Sciences Po. Il voto del 6 maggio non investe solo il futuro della Francia. «Non vi è dubbio che l’eventuale elezione di FrançoisHollande all’Eliseo sottolinea il professor Cohen potrebbe rappresentare una svolta per il destino dell’Europa intera».
Molto si discute sull’esito del faccia a faccia televisivo tra Sarkozy e Hollande. Qual è la sua valutazione?
«Il giudizio va legato ai caratteri di questa campagna presidenziale, che poco o nulla ha concesso ai colpi ad effetto mediatici, ad atteggiamenti istrionici, privilegiando i contenuti. I francesi sono preoccupati della crisi, inquieti per il loro futuro. A chi si candida alla massima carica politica e istituzionale del Paese, non chiedono effetti speciali ma proposte chiare, concrete, su come uscire dalla crisi. Su questo terreno, Hollande si è mostrato, anche nel dibattito televisivo, più efficace di Sarkozy».
In questa campagna presidenziale, il tema dell’Europa ha avuto un risalto come mai in passato.
«È vero, ed è un fatto di straordinaria importanza. L’opinione pubblica ha compreso che non esiste una via nazionale alla crescita. Al tempo stesso, non vi è dubbio che una presidenza Hollande potrebbe rappresentare una svolta per il destino dell’Europa stessa».
C’è chi descrive Hollande come un nemico del rigore in chiave europea. «Si tratta di una caricatura, peraltro malriuscita, di Hollande, del suo programma, del suo convinto europeismo. Ma essere per l’Europa non significa muoversi in continuità con la linea del “Merkozy”. In discussione non è l’Europa, ma quale Europa. Le istituzioni economiche internazionali, dalla Bce all’Fmi passando per l’Osce, sfruttando la crisi economica, spingono sull’acceleratore delle riforme di stampo liberista, in grado di annichilire quei diritti sociali conquistati nel secolo scorso dai popoli europei con anni di battaglie. Non è questa l’Europa di Hollande, e non lo è per chiunque guardi a questo grande tema con un punto di vista progressista. Un punto di vista progressista ispira, ad esempio, la determinazione di Hollande all’utilizzo per la crescita dei fondi strutturali inutilizzati dell’Europa e una maggiore una maggiore attenzione della Banca Europea degli Investimenti per la creazione di nuovi posti di lavoro. Alla politica conservatrice, non vi è ‘alternativa, in questo momento. Semplicemente perché nessun grande Paese ha una politica progressista. Ad oggi il continente è guidato da governi conservatori, da Merkel a Rajoy, da Sarkozy a Cameron, i quali attuano una politica di austerità e rigore. Questo stato di cose potrebbe finire con una eventuale vittoria di Hollande in Francia». Da dove nasce questa convinzione? «Dalla seconda economia europea potrebbe arrivare la ricetta progressista alla crisi. Un nuovo modello, una alternativa alle politiche di Merkel e soci, che hanno aggravato in questi anni la situazione finanziaria europea privilegiando l’egoismo invece della solidarietà e degli aiuti ai Paesi in difficoltà, aumentando quindi la gravità del problema. Provvedimenti discutibili varati recentemente, ad esempio il Fiscal compact, sono in grado di ridurre in ginocchio Paesi, come l’Italia, con un forte debito pubblico. Da Hollande potrebbe quindi partire un effetto domino in grado di ribaltare il tavolo degli schieramenti ed aiutare la sinistra europea a riemergere dall’oblio in cui è finita negli ultimi anni. E cosi i mercati sarebbero costretti a piegarsi alla nuova linea politica causando, forse, la fine del “terrorismo delle speculazioni”. Il manganello dello spread che piega i governi nazionali ai voleri dei poteri economici globali potrebbe attenuarsi restituendo la piena sovranità ai singoli Paesi. Ecco perché domenica non è in gioco solo il futuro della Francia ma dell’intera Europa. La vittoria di Hollande è indispensabile per poter sperare in una nuova fase politica ed economica nel vecchio continente. Una fase che tenga conto della solidarietà, dei diritti sociali e della dignità dei cittadini».

La Stampa 4.5.12
Les italiens a scuola di vittoria dal Ps
Tra i giovani del Pd che aiutano i colleghi francesi nella campagna elettorale: qui si può essere di sinistra
di Cesare Martinetti


Rendez-vous a place République alle 16, i giovani socialisti francesi incontrano i giovani del Pd italiano, mettono loro in mano i volantini e via che si parte per la «balade» sui grandi boulevards di Parigi. Siamo vicini al Cirque d’Hiver, il circo d’inverno, dove un paio di mesi fa è venuto Bersani a respirare l’aria di una sinistra che – forse – questa volta vince davvero con François Hollande. «S’è alzato un vento nuovo», disse quel giorno D’Alema accanto a Bersani.
Ecco qui adesso, questa sera, a due giorni dal voto francese, scopriamo che una pattuglia di giovani italiani del Pd è arrivata a «dare una mano», ma soprattutto ad annusare quel «vento», a respirare un’emozione che non conoscono, ad ascoltare un messaggio di sinistra-sinistra, piuttosto raro dalle nostre parti. Ci dice Fausto Raciti, il capo della pattuglia de «les italiens»: «Noi per anni abbiamo sentito discutere di questione morale, di giustizia, di barzellette, di olgettine... Qui si parla di politica, i militanti studiano i programmi dei candidati, gli elettori studiano e confrontano i programmi di ciascun candidato e i programmi sono molto diversi».
Non come da noi, sembra voler dire.
Raciti non è uno qualunque ma è il segretario nazionale dei giovani Pd, quello che una volta si chiamava Fgci, della quale fu segretari niente meno che D’Alema. È dunque un giovane (28 anni, viene da Catania) politicamente molto scafato. Non cade nel tranello di ammettere che sì, anche Bersani quand’è venuto a Paris ha detto cose molto più di sinistra di quelle che dice a Roma, ma insomma l’aria è quella: mentre in Italia tocca sostenere Monti, qui si può vedere François (Hollande) che duella con Sarkò su poveri e ricchi, giustizia sociale, aiuti ai giovani, investimento nella scuola.
E che duello, l’altra sera, in tv. Raciti e i suoi ragazzi erano in un bar di rue Montmartre insieme ai giovani del Ps. Tifo da stadio, raccontano, una partita vinta al primo affondo di Hollande che ha attaccato subito. La curva Ps-Pd è esplosa. E così via via, ad ogni scambio, la faccia scura di Sarkò, incredibilmente in difesa, inopinatamente umile nel promettere ai francesi che i suoi prossimi cinque anni sarebbero stati migliori di quelli passati: «Buuu, oheeee». Fino alla risata amara, per noi – loro – italiani quando il presidente francese ha disconosciuto qualunque amicizia o vicinanza politica con Berlusconi: «Non è mai stato del mio partito, Berlusconi è... berlusconosque... » Ridevano i francesi, un po’ meno gli italiani perché fa sempre male la caricatura dell’Italie. C’est la vie.
Qui son venuti in sessanta con Raciti e Roberta Capone, vicepresidente dell’Internazionale socialista dei giovani, napoletana, studentessa di giornalismo in Francia, a Grenoble (dove fa «molto freddo»), vivace e solare, per niente intimidita dalle grandeur sarkoziane (La «France forte»? Ma de che?), abbastanza autoironica da raccontare di essersi davvero sentita in imbarazzo quando i giovani francesi l’hanno portata in banlieue a far campagna elettorale e le hanno messo addosso la divisa da «hollandette»: un giubbotto rosso con il disegno del faccione di Hollande sulla schiena. Una «specie di grande preservativo», dice Raciti. Roberta è sincera: «Non metterei mai una cosa del genere con la faccia di Bersani»... Non capiterà.
Gli altri sessanta vengono da ogni parte d’Italia, la pattuglia più numerosa è quella campana, poi ci sono i laziali e i toscani. Volontari, ovvio, nessun funzionario di partito. Ognuno si paga le sue spese. Si dorme in ostello, 18-20 euro per notte. Si aspetta la festa di domenica sera, alla Bastiglia. Per intanto ci si vede in rue
Solferino, la storica sede del Ps che fu di Mitterrand, un palazzo che dà pur un frisson a chi è appassionato di politica come questi ragazzi che non hanno mai visto una «sinistra» (non un «centrosinistra») che vince.
Racconta Raciti che il rapporto tra francesi e italiani è nato quando sono venuti da Parigi a studiare le nostre «primarie». Era appena succeso il disastro Jospin, quello che da questa parti ancora si chiama «le choc du 1 avril», dieci anni fa giusti, quando il candidato socialista fu battuto al primo turno dal fascistone Le Pen. Raciti ci spiega in politichese che i francesi avevano difficoltà a «personalizzare» l’offerta politica e così furono attratti dalle prime primarie che da noi avevano rilegittimato Romano Prodi a sfidante di Berlusconi.
Il modello è piaciuto ed è stato importato. Ora Raciti e Capone ci raccontano di essere stati davvero sorpresi e anche ammirati dal modo in cui i francesi lo interpretano: si scannano nelle primarie, ma poi si compattano su chi vince: «Qui a Solferino i funzionari erano quasi tutti con la segretaria Martine Aubry, ma da quando Hollande ha vinto le primarie, come un sol uomo, marciano per lui».
Educare i militanti, istruire i candidati, convincere gli elettori a studiare. Vasto programma, si direbbe. E il sospetto che tutto questo non basti e che per vincere le elezioni si debba anche cambiare il popolo che vota.

Corriere 4.5.12
«Per una Francia diversa» Hollande canta Bella Ciao
Lo sfidante incassa anche il voto del centrista Bayrou
di Aldo Cazzullo


TOLOSA — «Credo alle forze dello spirito e resterò sempre con voi» aveva detto François Mitterrand ai francesi nell'ultimo discorso da presidente. Quando ieri pomeriggio, al tramonto, François Hollande ha citato «les forces de l'esprit», i 25 mila della Place du Capitol hanno compreso bene quel che intendeva. Non si è spinto a dire che Mitterrand era qui, a Tolosa, dove un tempo chiudeva le campagne presidenziali. Hollande si è limitato a un «forse...», agitando le braccia. Non ha evocato lo spirito dell'unico presidente socialista della Quinta Repubblica, ma ha lasciato che aleggiasse sulla «ville rose», scelta non a caso per il comizio finale. Un discorso da vincitore, se non fosse per la totale mancanza di carisma, riconfermata alla fine, quando si fa passare il tricolore e tenta di sventolarlo ma sbaglia il senso del vento, e la bandiera si affloscia mestamente su se stessa.
Tolosa è la città dove Voltaire scrisse il trattato sulla tolleranza, dove Vincent Auriol presidente socialista della Quarta Repubblica fece i suoi studi, dove Jean Jaurès insegnò all'università prima di essere assassinato in un caffè di Parigi da un interventista, il giorno prima che scoppiasse la Grande Guerra. E ieri c'era un'atmosfera da riunione di tutte le anime della sinistra: gli operai con i cartelli per boicottare la Lipton che chiude lo stabilimento e i dirigenti del Ps locale che prendono un tè in piazza nell'attesa del comizio, vecchi anarchici vestiti di nero e studenti ecologisti dell'università, i tricolori patriottici e le bandiere rosse della Cgt, il sindacato filocomunista.
«Evviva il comunismo e la libertà» lo comprendono anche i francesi; eppure è proprio con «Bandiera rossa» che l'orchestra «Grandes bouches» introduce Hollande. Stavolta è venuta anche Ségolène Royal, la madre dei suoi quattro figli, ma la tengono a distanza. Accanto al candidato c'è sempre la nuova compagna, Valérie Trierweiler, che una deputata di destra ha ribattezzato «Rottweiler», costringendo Sarkozy a scusarsi. E sul palco c'è, redivivo, Lionel Jospin, al primo comizio da quando dieci anni fa si ritirò dalla politica, la notte in cui fu eliminato al primo turno. Stasera la sua razionalità calvinista stona un poco, in una serata che è già di festa, dopo che François Bayrou ha annunciato il voto per Hollande, infliggendo al presidente un colpo che potrebbe essere fatale.
Sarkozy ha sempre scelto contesti solenni per i suoi comizi: Place de la Concorde, il Trocadéro. Hollande al contrario ha voluto scenari «umani»: il bosco di Vincennes a Parigi, il parco alla periferia di Bordeaux, ora a Tolosa la piazza del municipio, cuore del centro storico. Il tono — a parte la voce ormai stridula — è quello della vittoria, che Hollande vorrebbe «bella, grande, storica»: non solo la sconfitta di Sarkozy, ma «il sogno di una Francia diversa». Lancia uno slogan non originalissimo, «la nuova frontiera». Placa i «buuu» per la Merkel, «che ora comincia a parlare anche lei di crescita, così come il governatore della Banca centrale europea, che pure non è tra i nostri amici». Rivendica di aver vinto il dibattito di mercoledì sera: «Forse valeva davvero la pena farne un altro...». Soprattutto, chiude la campagna come l'ha cominciata, all'insegna di una «candidatura normale» e di una «presidenza normale».
Hollande promette alla Francia di rasserenarla, dopo cinque anni in cui Sarkozy l'ha tenuta in perenne tensione. «Non esistono due France, la Francia è una sola e io voglio riunirla, restituirle fiducia in se stessa e nell'avvenire». Tolosa è città occitana, quasi più spagnola che francese — i balconi di ferro battuto, i patios ombreggiati, le strade chiamate «carrièra», i Pirenei innevati all'orizzonte — e Hollande rimprovera a Sarkozy di aver offeso i vicini, saluta i socialisti catalani, dice di ricevere parecchi messaggi anche dall'Italia. Piange le vittime della strage antisemita compiuta da Mohamed Merah, ma denuncia anche lo spirito antimusulmano del presidente. Sotto il palco sorridono il sindaco di Parigi Bertrand Delanoë, l'ex segretario del partito comunista Robert Hue, i possibili primi ministri Michel Sapin e Jean-Marc Ayrault, e naturalmente Ségolène Royal, ancora molto amata dalla folla. Con Hollande hanno ripreso a parlarsi, lui le ha promesso la presidenza dell'Assemblea nazionale, ruolo di prestigio e soprattutto lontano dal governo.
Sarkozy non è mai nominato. Semmai, irriso: «In tv tutti hanno potuto vedere la sua modestia, la sua prudenza, la sua capacità di riconoscere gli errori...». Gli ultimi anni sono tratteggiati come un'epoca buia, di attentati all'indipendenza della magistratura e alla libertà di stampa, abusi di potere, disprezzo della gente semplice. Il profilo presidenziale che Hollande ritaglia per sé è agli antipodi: lui non vuol essere anche capo del governo e capo della maggioranza, non avrà la pretesa di prendere personalmente ogni decisione, di andare su tutti i palloni come un mediano ringhioso o un centravanti egoista; sarà un presidente in ascolto, «continuerò a visitare le fabbriche a rischio di chiusura, gli istituti per handicappati, le case di periferia dove non ci sono più ascensori, elettricità, acqua calda». «Una volta ho detto che amo les gens, la gente, e diffido dell'argent, il denaro. Alla fine della campagna, amo ancora di più i francesi, e continuo a diffidare del denaro».
Ora l'orchestra suona Bella Ciao. Gli studenti rientrano all'università, dove stasera c'è un reading di Dino Buzzati. Hollande si ferma a conversare con i giornalisti, assicura che con Bayrou non c'è stata alcuna trattativa e per lui non ci sarà un ministero. Poi si lascia baciare, abbracciare, fotografare dai militanti: il servizio d'ordine fatica ad aprirgli un varco verso la Renault nera, i militanti lo assedieranno a lungo nel cortile del municipio. Al suo fianco, Valérie saluta la folla con la mano. Tre passi indietro, Ségolène cerca una telecamera.

l’Unità 4.5.12
Intimidazioni La moglie dell’attivista cieco sarebbe stata picchiata
Clinton parla a Hu Jintao di diritti umani, senza citare il caso specifico
Pechino, il dissidente Chen: «Hillary, portami negli Usa»
di Martino Mazzonis


Fino a ieri sembrava si fosse accontentato delle assicurazioni ottenute dai diplomatici Usa. Ma dopo l’incontro con la moglie e la visita in ospedale Chen ha detto che non si sente più sicuro in patria, vuole andarsene

Voglio lasciare la Cina per qualsiasi destinazione con la mia famiglia, mi sento molto insicuro, non posso dire perché. Prima volevo restare». Sono le poche frasi, dette al telefono con il quotidiano britannico The Guardian, da Chen Guangchen, dissidente sul cui destino si gioca in queste ore una partita molto delicata.
Sono momenti di gran nervosismo a Pechino, dove si svolgono, in parallelo, le trattative sul destino del dissidente cieco rifugiatosi nell'ambasciata Usa la scorsa settimana e un vertice bilaterale di grande importanza. Inutile dire che le due cose si sovrappongono: mentre Clinton e il presidente Hu tenevano i loro discorsi inaugurali, entrambi stavano pensando a Chen. Entrambi vogliono evitare una figuraccia interna e internazionale. Per un giorno sembrava un esercizio riuscito.
LE DICHIARAZIONI
In varie interviste telefoniche e ai funzionari dell'ambasciata Usa il dissidente cieco ha detto in maniera inequivocabile di voler lasciare il suo Paese. Possibilmente sull'aereo che riporterà Clinton a Washington opzione che appare improbabile, sarebbe un affronto tale da far precipitare le relazioni sino-americane. Chissà cosa ha fatto cambiare idea al 40enne che ha denunciato i soprusi dei funzionari locali della sua provincia nelle ore in cui è rimasto solo in ospedale dopo aver lasciato l'ambasciata Usa a Pechino. Di certo il racconto della moglie che dopo la sua fuga è stata interrogata e picchiata e l'assenza di personale americano con lui in ospedale lo hanno spaventato. Chen per ora non sembra intenzionato a chiedere asilo: «Vorrei andare a curarmi in America, poi sul futuro decideremo in futuro» ha detto a The Daily Beast.
L'ambasciatore Usa a Pechino, Gary Locke, di origini cinesi ha spiegato in un briefing alla stampa che «nella testa di Chen ci devono essere mille pensieri, sono momenti difficili. Quel che faremo è sederci con calma con lui e sua moglie per capire cosa vogliano davvero e poi vagliare tutte le opzioni possibili con loro». L’ambasciatore ha parlato al telefono con l’uomo e discusso di persona con sua moglie. Allo stato attuale le bocce sono ferme. Le autorità cinesi non parlano.
Tra una di firma accordi di cooperazione e un incontro, Hillary Clinton ha anche parlato di diritti umani. Nel suo discorso inaugurale del meeting il Segretario di Stato ha elogiato Pechino per la collaborazione sul nucleare iraniano e sulla Siria, spiegato quanto il dialogo stia migliorando e concluso dicendo: «I diritti umani fanno parte del nostro dialogo: gli Usa sollevano sempre questo tema perché ritengono che i governi debbano rispondere ai loro cittadini e alla legge. E che nessun Paese possa o debba negare questi diritti». La risposta di Hu è stata: rispettiamoci, impariamo a capirci ed evitiamo che le differenze ci impediscano di dialogare. Nessuno ha menzionato Chen. Non mentre si tratta. L’addetto stampa di Obama non ha aggiunto particolari, anzi, ma ha voluto sottolineare che i rapporti tra i due Paesi trascendono la questione dei diritti umani.
Tutti ribadiscono che nei giorni passati all’interno dell’ambasciata Usa l'avvocato autodidatta non ha mai detto di voler lasciare il Paese. «Se non avessimo trovato un accordo soddisfacente per lui con le autorità cinesi, era pronto a rimanere qui dentro per anni. E noi avevamo cominciato i preparativi per una sua permanenza» ha raccontato l'ambasciatore.
La prima svolta in questa vicenda è giunta quando Chen ha potuto parlare con la moglie, arrivata a Pechino. «Ho potuto sentire una parte della conversazione, lei gli chiedeva di raggiungerla in ospedale, di riunire la famiglia ha raccontato l'ambasciatore diceva che forse l'accordo non era esattamente quel che volevano ma era comunque una buona proposta. Occorre fare un passo alla volta, diceva la moglie». L’ambasciatore Locke ha infine sostenuto con grande forza che in nessun modo Chen è stato pressato perché accettasse l'accordo offerto da Pechino: libertà di lasciare il villaggio, borsa di studio per un'università di sua scelta, riunione con la famiglia e garanzia di essere lasciato in pace.
LA PAURA
Nelle dichiarazioni fatte al telefono, Chen sembra far capire che ha deciso di accettare per paura che la moglie fosse rispedita al suo villaggio e maltrattata. E perché i funzionari Usa lo spingevano ad accettare. La verità dev’essere un intreccio di tutte queste cose. I diplomatici con cui hanno trattato gli americani vengono dal ministero degli Esteri, ma decisioni delicate su dissidenti e diritti umani sono proprietà delle alte sfere del partito, che spesso rinnegano gli accordi presi dalla diplomazia su temi tanto delicati. Forse è per questo che Chen è fuggito dal suo villaggio a pochi giorni dall’arrivo di Clinton: spera che qualcuno parli direttamente con Hu.

La Stampa 4.5.12
L’ospite indesiderato mette in imbarazzo Obama
La Casa Bianca, temendo il flop del summit Clinton-Hu, è scesa a patti con i cinesi
di Maurizio Molinari


Il capo della diplomazia americana pur senza citare Chen ha affermato che «tutti i governi devono rispettare le aspirazioni dei loro cittadini»

La rocambolesca fuga di Chen Guangcheng, la trattativa segreta WashingtonPechino e l’irritazione del dissidente con gli Stati Uniti sono i tre momenti di una crisi che vede l’amministrazione Obama oscillare fra difesa dei diritti umani e Realpolitik con Pechino, trasmettendo in patria un’immagine di incertezza che non giova al presidente in piena corsa per la rielezione.
Quando, nella notte senza luna del 22 aprile, Chen fugge dalla casa nello Shandong dove vive con la moglie da quasi due anni in una condizione di prigionia, l’intesa fra Washington e attivisti per i diritti umani funziona in maniera perfetta. Il non vedente Chen salta i muri costruiti dalla polizia, attiva un cellulare fino a quel momento senza batteria per dare appuntamento a He Peirong, insegnante di inglese, che lo va a prendere in auto in un luogo prestabilito, accompagnandolo poi per oltre 480 km fino a Pechino dove in un parcheggio di periferia li aspetta un’auto dell’ambasciata americana, che riesce ad entrare nella sede diplomatica sfuggendo ai controlli dei servizi cinesi, accortisi di quanto sta avvenendo. Il successo di una fuga che evoca episodi avvenuti nella Berlino divisa durante la Guerra Fredda mette in evidenza l’esistenza e l’efficienza - di un network di legami clandestini fra dissidenti, diplomatici e Ong Usa come ChinaAid che coglie di sorpresa le autorità di Pechino e scatena l’euforia fra gli oppositori.
Ma da quando i portoni dell’ambasciata Usa si chiudono alle spalle di Chen, la situazione inizia a mutare. L’ambasciatore Gary Locke, tornato precipitosamente da Bali dove era in vacanza, incontra il dissidente per verificarne le intenzioni e riportare ordine nella sede diplomatica. Per due volte Locke, ex ministro di Obama, e Chen si parlano da soli. Poi Chen ha per interlocutore Harold Koh, consulente legale del Dipartimento di Stato per caso a Pechino, mentre da Washington arriva Kurt Campbell, vice per l’Asia di Hillary Clinton, per trattare con le autorità cinesi che minacciano di far saltare gli imminenti colloqui strategici di Hillary e Geithner. Il risultato della doppia trattativa è l’accordo che Locke lunedì sottopone all’avallo di Washington per chiudere la crisi: Chen lascia l’ambasciata, come chiesto da Pechino, è affidato ad un’equipe medica mista cinese-americana per curare le ferite al piede procuratesi durante la fuga e quindi si trasferirà con i famigliari a Tainjin, considerata più sicura perché vicina alla capitale e dunque possibile luogo di frequenti incontri con visitatori stranieri. La Casa Bianca dà luce verde all’accordo di Locke perché da un lato può vantare un risultato concreto per Chen, consentendogli di lasciare la casa-prigione nello Shandong, e dall’altro scongiura il corto circuito con Pechino che «resta un nostro partner strategico su più tavoli» come precisa il portavoce presidenziale Jay Carney. Ma l’apparente miracolo diplomatico di far coincidere rispetto dei diritti umani e la Realpolitik s’infrange appena Chen arriva in ospedale. Si trova infatti senza più americani intorno e ascolta dalla voce della moglie la descrizione delle violenze, fisiche e psicologiche, subite da parte delle autorità cinesi nelle ultime due settimane. Il dissidente si sente tradito e abbandonato dagli americani, e ancor più minacciato dai cinesi, e così decide di affidare alla «Cnn» l’appello a Obama di garantirgli asilo politico e a Hillary di portarlo via con sè quando il suo aereo a fine settimana lascerà Pechino per Washington. La Casa Bianca, presa in contropiede, affida a Locke il compito di rispondere a Chen spiegando che «è uscito da questa ambasciata di sua volontà e non ci ha chiesto asilo».
Ma il duello a distanza fra Locke e Chen è un boomerang politico in patria perché mette in risalto il disappunto del dissidente per quello che si presenta come un compromesso che premia la Realpolitik a scapito dei diritti umani. Tanto più che la Casa Bianca si spinge fino ad assicurare che «Chen vuole restare in Cina» in contraddizione con l’audio dell’intervista che la «Cnn» continua a trasmettere. E il rivale repubblicano per la Casa Bianca attacca: «Per Obama è il giorno della vergogna». L’epilogo della crisi tuttavia deve ancora essere scritto perché fino a quando la Clinton non decolla Chen può continuare a sperare.

Corriere 4.5.12
L'ipocrisia della guerra spacciata per pace
In Afghanistan combattiamo con onore in un conflitto già perduto

di Fabio Mini

Della guerra si colgono in genere gli aspetti eroici o drammatici. Ma la guerra non è solo potenza: «è anche inganno sottile, nascosto, come a sua volta è l'inganno della politica che deve dettare le condizioni della guerra e fissarne gli scopi». «Perché siamo così ipocriti sulla guerra?» è la domanda posta dal generale di corpo d'armata Fabio Mini nel suo ultimo libro, edito da Chiarelettere, da oggi in libreria. Mini, 69 anni, è stato capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa che, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando interforze delle operazioni nei Balcani. Dall'ottobre 2002 all'ottobre 2003 è stato comandante della forza internazionale di pace a guida Nato in Kosovo (Kfor). Ormai è deciso: staremo in Afghanistan anche dopo il 2014, dopo il previsto ritiro dei soldati americani. Non si tratta di combattere il terrorismo globale tra le montagne afgane: non ci crede più nessuno. Ufficialmente dobbiamo addestrare le forze militari e di polizia afghane a badare alla sicurezza del loro paese. Visto che questo pacifico e interminabile compito è anche lo stesso che da dieci anni maschera la nostra partecipazione alla guerra in Afghanistan, viene il sospetto che sia un pretesto per continuarla. È una guerra che stiamo combattendo con onore al fianco degli americani fingendo di non vedere che l'hanno già perduta. Sono stati sconfitti sul campo di battaglia nel 2003 quando dovettero coinvolgere la Nato per l'incapacità di gestire la violenza dei talebani e la corruzione del governo che avevano instaurato. Sono sconfitti ogni giorno sul campo dell'etica militare per l'incapacità di gestire l'eccesso di potenza, la frustrazione e i comportamenti degli squilibrati.
Viene il sospetto che ancora una volta si ricorra all'ipocrisia per giustificare interventi armati decisi da altri scambiando la coesione con la piaggeria. Così staremo all'infinito in Afghanistan, come in Iraq, in Libano e nei Balcani. È dal 1984 che un nostro contingente non rientra avendo concluso la missione affidata. Nel 1994 i nostri soldati e quelli di mezzo mondo si ritirarono dalla Somalia lasciandola in condizioni peggiori di quelle iniziali. Da allora abbiamo preso parte a tutte le guerre mistificate limitandoci ad avvicendare i contingenti senza mai fare un bilancio oggettivo sui risultati, sulle strategie e sui sacrifici compiuti. L'ipocrisia delle operazioni umanitarie, dell'assistenza militare, della costruzione di nuove nazioni e dell'esportazione della democrazia si è affiancata a quella della guerra e molte volte l'ha sostituita. La minaccia della guerra si è trasformata in «minaccia della pace» e molti guardano ad essa come ad una catastrofe che incombe sui grassi interessi che la guerra garantisce ai soggetti pubblici e privati uniti più o meno saldamente in cosche, cricche, bande. Inoltre la pace mette a nudo più ancora della guerra le carenze politiche, d'idee, strategie, autonomia e dignità nazionale. Per questo è diventata una minaccia per i profittatori, i mediocri e i banditi costringendoli a spostare sulla pace l'ipocrisia della guerra. Il processo è stato paradossalmente favorito dalla nuova e generalizzata consapevolezza della sicurezza umana. La guerra è intrisa d'ipocrisia: nasce dai pretesti, quasi sempre basati su menzogne, e si conduce con l'inganno politico, strategico ed operativo. Ma mentre sul piano strategico e tattico l'inganno è rivolto al nemico, su quello politico prende di mira anche le proprie istituzioni ed i propri eserciti. La guerra è ipocrita negli scopi quando si affida alla retorica ed invece tratta concretamente d'interessi, di affari. L'ipocrisia della guerra è un'arte con i suoi esponenti geniali, mediocri e meschini; nasconde il gusto quasi lascivo di chi ordina la guerra e perfino di chi la combatte; ed infine serve a far diventare accettabile e normale tutto ciò che succede in guerra: dall'eroismo alla nefandezza. Per millenni l'ipocrisia ha servito la guerra con diligenza e tuttavia non è riuscita a eliminare i limiti derivanti dalla sua eccezionalità e dalla sua transitorietà. La prima ne ritardava l'avvio subordinandolo a una situazione che rendesse necessario il ricorso alla forza come ultima risorsa. La seconda, la transitorietà, poneva un limite alla durata dei conflitti fino a renderli illegittimi se artificiosamente prolungati. Nel tentativo di eludere tali vincoli i fautori politici, industriali e militari della guerra si sono inventati pretesti inverosimili per renderla «preventiva» e interminabile, per trarre il massimo dei profitti e dell'eccitazione dalla sua costosa e sanguinosa «normalità». Una tale distorsione della guerra ha provocato quella reazione emotiva in favore dell'etica e dell'umanità che caratterizza il nostro tempo. Forse per la prima volta nella storia la sicurezza è stata percepita in funzione e non in sostituzione dei diritti dell'uomo, della sua salute materiale e ideale, della sua dignità. All'improvviso la guerra è parsa insufficiente a soddisfare le ambizioni e le velleità politiche, a placare gli appetiti degli approfittatori e a coprire le deficienze strategiche, strutturali e operative. E allora l'ipocrisia ha reso permanente la guerra cambiandone il nome, agendo sulla pace, sulla democrazia e sulla libertà che rendono tutto più facile: le ragioni della pace e della solidarietà e le spese per conseguirle non devono essere razionali, eccezionali, limitate e neppure giustificate o sostenibili. Le forze sono composte soltanto di eroi e non necessariamente militari. La vittoria sul campo, quella che portava alla cessazione delle ostilità e della violenza, può finalmente essere evitata. O uccisa.

il Fatto 4.5.12
Tymoshenko: una causa giusta?
di Bruno Tinti


Non ci sono informazioni attendibili sull’innocenza o la colpevolezza di Yulia Tymoshenko. Quello che si sa di lei restituisce la storia di una donna ricca e potente, imprenditrice in un settore strategico, quello del gas e delle risorse energetiche. Sembra che sia stata anche spregiudicata negli affari: nel 2001, già più di 10 anni fa, ci furono accuse contro di lei per falsificazione di documenti e importazione illegale di metano; venne addirittura arrestata. Aveva amici chiacchierati, anche loro condannati per corruzione e altri reati tipici dei potenti dell’economia. Entrò in politica sfruttando la sua ricchezza, le sue relazioni nel mondo degli affari e della politica e una corte personale costruita attraverso la rete delle sue aziende. Fin dai primi processi si difese secondo un copione standard, sempre utilizzato fino ad oggi: persecuzione giudiziaria utilizzata come strumento di lotta politica. Insomma, una versione femminile (molto carina) di B. La differenza, per quanto mi riguarda (ma – temo – per quanto riguarda la maggior parte delle persone che oggi si occupano di lei), è che dei suoi processi, dei reati che è accusata di aver commesso, dei suoi conflitti di interessi, della presunta strumentalizzazione della giustizia ucraina a fini politici, non so assolutamente nulla. Sono convinto che nessuno di quelli che oggi protestano conosce un solo atto dei numerosi processi cui è stata sottoposta; insomma nessuno è in grado di sapere se davvero, in Ucraina, si è realizzata una perversione dell’amministrazione della giustizia che si sarebbe piegata ai loschi fini dei suoi avversari politici. Mentre molti di noi conoscono bene, alcuni addirittura approfonditamente, i processi di B., le sue leggi ad personam utilizzate per guadagnarsi assoluzioni e prescrizioni, la perversione della politica piegata alla sterilizzazione del controllo di legalità. Per questo sono perplesso sulla crociata in favore di Tymoshenko. Siamo sicuri che sia una guerra giusta? Oppure siamo come i cittadini di Roma che si preparavano a bruciare Roma dopo l’uccisione di Cesare? “Dunque amici andate a fare ciò che non sapete”, dice Antonio ai Romani (Shakespeare, Giulio Cesare). La politica europea sa cosa sta facendo? Oppure sta strumentalizzando, questa volta davvero, la vicenda per ragioni politiche ed economiche, perché preferisce Tymoshenko a Yanukovic il suo rivale? Non lo so, veramente. Ma non sono sicuro che sia una buona idea contestare i provvedimenti giudiziari di un Paese straniero “a priori”, dando per scontato che i giudici di quel Paese si siano fatti corrompere dal loro governo. Quando ci hanno negato l’estradizione di Battisti sostenendo che i Tribunali italiani non gli avevano garantito un processo giusto mi sono molto arrabbiato. A meno che non ci si limiti alla protesta per i maltrattamenti. Le fotografie di Yulia Tymoshenko sono prova evidente di percosse brutali, in particolare pugni sull’addome e sullo stomaco. E la versione ufficiale ucraina è ridicola: “Lesioni auto inferte” (attenzione: non “montaggio fotografico”); mi ricorda gli arrestati che arrivavano in udienza con la faccia tumefatta dopo essere “caduti dalle scale”. Ecco, per questo sì che bisogna protestare. Ma è una questione da Amnesty International, non da cancellerie o ministeri degli Esteri. Se ci si indigna a livello di vertice politico per i pugni dati a Tymoshenko, cosa si dovrebbe fare per i detenuti cinesi o coreani?

Repubblica 4.5.12
Anticipiamo l’ultimo saggio di Ben Jelloun dedicato alle rivoluzioni arabe
Le storie dei ragazzi della Primavera
di Tahar Ben Jelloun


Le rivolte cominciano con un ragazzo che si dà fuoco in Tunisia e continuano oggi con tutti quelli che vengono massacrati in Siria

Hamzah al-Khatib fu uomo a tredici anni. È morto portando con sé quella luce che è frutto di coraggio e dignità. Come ha scritto l´editorialista Abu Dib nel quotidiano libanese L´Orient-Le Jour (2 giugno 2011) «per la Siria, Hamazh non è stato torturato; solo ucciso un po´».
Arrestato il 29 aprile a Deraa per aver cantato "abbasso il regime", è stato torturato con scariche elettriche, ustionato ai piedi, ai gomiti e alle ginocchia. Gli è stato tagliato il sesso, lacerato il viso e poi è stato finito da tre proiettili, di cui uno in pieno petto. È stato restituito alla famiglia il 31 maggio. Contemporaneamente il padre è stato arrestato e costretto ad accusare pubblicamente i salafiti di aver torturato il figlio. Il corpo, ormai diventato violaceo, era in decomposizione ma i segni delle torture rimanevano visibili.
Coloro che hanno fatto tutto ciò sono dei topi, neanche dei lupi, solo dei topi di carogne, in preda ad allucinazioni… Le loro notti saranno popolate da fantasmi di ragazzini, leggeri come le farfalle che si appoggiano sui vetri inseguendo una luce. Sono certo che dormono bene e sognano. La brutalità criminale conserva e apre delle prospettive per nuove sedute di tortura e di morte. Sono cresciuti nel sugo nauseabondo del partito Baats, l´ideologia totalitaria del regime.
Il viso paffuto di questo ragazzino è sulla stampa; il suo corpo a pezzi è nei video in internet. Quattro altri bambini hanno subito torture analoghe. Io non so quanti anni abbiano i figli di Bashar al-Assad. Sembra che li abbia fatti andare all´estero. Fa bene a proteggerli. Non ha tempo di occuparsene. Ma cosa importa. Che dei servizi di Stato torturino a morte un ragazzino la dice lunga sulla sua umanità, sulla sua visione del mondo e del potere. Spero che un giorno i suoi discendenti si ricordino del piccolo Hamzah. Il regime siriano sa rispondere alla protesta pacifica solo con le armi e con questa forma viziata di barbarie. Più di 1200 morti dall´inizio delle manifestazioni. Discreditato, illegittimo, il regime di Damasco sarà prima o poi giudicato per i suoi crimini contro l´umanità. Nel frattempo, semina il terrore, ma la cosa straordinaria è il coraggio magnifico del popolo siriano, che scende in strada più volte a settimana, sapendo che sarà accolto solo da raffiche di mitra. Per molto tempo ci hanno fatto credere che questo popolo fosse fatto di spie e informatori. Per molto tempo sono stati evocati gli anni di piombo, in cui il minimo sospetto di opposizione veniva ridotto al silenzio definitivo. Ecco che la "primavera araba" ci fa scoprire un popolo di persone coraggiose, un popolo responsabile.
Il Libano conosce meglio di qualunque altro Stato questo regime. Sa di cosa è capace. Da quando le truppe siriane hanno dovuto lasciare il Libano (nel 2005) il paese vive sotto la minaccia permanente di attentati. Proprio nel giugno 2011, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, commemora a Beirut il ventiduesimo anniversario della morte dell´ayatollah Khomeini portando il suo sostegno al regime di Damasco "«vittima di un progetto di spartizione americano-israeliano». Così Hamzah era una spia al servizio di un progetto di complotto! Era un furbetto che metteva a rischio la sicurezza dello Stato. Un ragazzino che minacciava il regime! Anche i suoi compagni. L´intero popolo siriano che chiede a Bashar al-Assad di andarsene non fa che seguire le indicazioni dell´America e di Israele. Ventidue milioni di siriani, tutti a complottare, tutti traditori della patria. È vero che il regime funziona da quarantadue anni grazie a un sistema di spionaggio particolarmente efficace e crudele. Uno stato di polizia, che non tarderà a crollare. Ciò che ne uscirà sarà comunque meglio di questo regime ereditato di padre in figlio grazie al sacrificio di migliaia di morti a Hama nel 1982 e che fa fatica anche nella primavera di oggi a estirpare quest´erba velenosa.
Ero a Beirut la settimana scorsa per il sesto anniversario dell´uccisione dello scrittore e giornalista libanese Samir Kassir. Scriveva delle verità che non piacevano a Damasco. La sua morte non ha fatto sparire le sue idee, il suo umanesimo, la sua passione per il proprio paese. Il Libano vive sotto tensione. Attanagliato fra la Siria e Israele, resiste. Ovunque, l´esercito militare. Ma la vita continua con ottimismo, con vigilanza, e il popolo che ha attraversato diverse guerre si aspetta da un momento all´altro una provocazione da parte della Siria per sviare l´attenzione della stampa (i giornalisti stranieri non possono entrare in Siria). I muezzin richiamano alla preghiera. Le campane delle chiese suonano. Ovunque si creano ingorghi. Di sera, rue Gemmayzé, dove c´è una grande concentrazione di ristoranti, bar e locali notturni, è sempre piena. Il Libano ha addomesticato la morte con ironia, con intelligenza.
Hamzah non andrà più a scuola. Non scriverà più slogan ostili verso il regime di Bashar al-Assad. Non canterà più. Da alcuni viene già considerato come Mohamed Bouazizi, il giovane tunisino che si è immolato nel fuoco il 17 dicembre 2010. Hamzah, Mohamed e centinaia di altre persone sconosciute sono morte perché la primavera araba coi suoi venti, le sue burrasche, la sua grandezza, continui il suo corso.
L´anima di Hamzah, fragile e leggera, plana sopra i manifestanti. Si dice che andrà in paradiso. L´inferno è sulla terra, in molti paesi arabi i cui capi si attaccano patologicamente al potere.
© Il testo è tratto da Fuoco. Una storia vera, in uscita da Bompiani

Corriere 4.5.12
Un libro del filosofo Giulio Giorello sul vizio più antico dell’umanità, in politica e in amore
Traditori non sempre all'inferno
Puniti da Dante, salvati da Machiavelli, a volte agiscono a fin di bene
di Eva Cantarella


Non c'è giorno che non se ne parli, di questi tempi: il deputato che «tradisce» il suo partito passando a un altro, quello che non vota secondo le indicazioni della parte politica cui appartiene, e via dicendo. Ma non è di questo, fortunatamente, che si occupa il nuovo libro di Giulio Giorello, dedicato appunto al tradimento (Il tradimento. In politica in amore e non solo).
Come leggiamo nel prologo, di fronte allo spettacolo offerto dai comportamenti e le reciproche accuse dei politici italiani, Giorello ha pensato — più che giustamente — che il tema meritasse molto di più. Per analizzarlo e cercare di coglierne i diversi volti e le complesse motivazioni, dunque, meglio spostarsi in altri tempi e luoghi, alla ricerca di personaggi che meritano un interesse ben maggiore, quali — tra i tanti — i grandi traditori di dantesca memoria: Giuda Iscariota e i cesaricidi Bruto e Cassio. Ma quel che rende il libro particolarmente interessante è il modo in cui Giorello affronta i personaggi prescelti.
Bruto e Cassio, per cominciare, che come ben noto il 15 marzo del 44 a.C., a capo di un gruppo di congiurati, pugnalano Giulio Cesare. Traditori, certo, ma di chi, di cosa e perché? Della fiducia di Cesare, questo è certo. Ma Cesare che tipo di governante era? Per Dante (nel Paradiso) è lo strumento che aveva consentito alla potenza divina di «redur lo mondo a suo modo sereno». E nel De Monarchia è il modello del sovrano super partes, capace di garantire il bene migliore, la pace. Ma secondo Machiavelli nell'adempiere questa missione si sarebbe trasformato nel «primo tiranno di Roma». Non diversamente da Leopardi, secoli dopo, Machiavelli condivide la linea del poeta latino Lucano (nella Farsalia): le istituzioni capaci di garantire il governo migliore erano quelle repubblicane, che Cesare aveva sovvertito, non quelle che prevedevano il potere di uno solo. Ma è giusto pensare a Cesare come al devastatore delle istituzioni repubblicane? Bruto e Cassio insorsero veramente contro il suo tentativo di cancellarne le libertà? Che personaggi erano, umanamente e politicamente?
Di ciascuno dei tre protagonisti della storia Giorello prospetta le possibili, diverse letture, suscitando curiosità e sollevando dubbi. Non diversamente da quel che fa quando passa a parlare di Giuda. Nel Vangelo di Giovanni, dopo che Gesù ha detto: «In verità, in verità vi dico che uno di voi mi tradirà», i discepoli chiedono di chi stia parlando. A tradirmi, spiega Gesù, sarà «colui al quale io darò il boccone, dopo averlo intinto». Cosa che quindi fa, offrendolo a Giuda. E Giovanni scrive: «Dopo quel boccone, Satana entrò in lui». Cosa significa questa frase? Come interpretare questa scena e quella, successiva, della cattura del Messia e del triplice tradimento di Pietro, a sua volta prevista da Gesù («Prima che il gallo canti, mi avrai rinnegato tre volte»)? Perché Pietro viene perdonato e diventerà colui sul quale si fonda la Chiesa di Cristo? E perché invece per Giuda (che pure si pente, tenta di restituire i famosi trenta danari e finisce con l'impiccarsi) non c'è alcuna assoluzione, né in vita né postuma?
Giorello affida la risposta a tre testimonianze d'eccezione: sul piano della teologia alle letture, ovviamente diverse, di Joseph Ratzinger e del riformatore Calvino; e quindi, spostando il discorso sul piano politico, a quella del Gesù letterario di José Saramago. Sono veramente tanti gli spunti di riflessione offerti da questo libro con riferimento ai diversi tipi di tradimento analizzati, che vanno da quelli amorosi (come dimenticare Don Giovanni o Così fan tutte?) a quelli, ben diversi, che si consumano sui campi insanguinati della guerra civile spagnola, o nei palazzi della Mosca di Stalin: analizzati, tutti, dai diversi possibili punti di vista. Come leggiamo nell'«Epilogo», si tratta di storie — finzioni o cronaca vera che siano — che «oltre al traditore e al tradito includono un terzo, che incarna il punto di vista di chi narra e valuta: per esempio, l'autore dell'opera, anche se talvolta si astiene dal giudicare in modo esplicito e formale». Al quale bisogna aggiungere un quarto punto di vista: quello, come sempre critico e non di rado felicemente ironico, di Giulio Giorello.

Repubblica 4.5.12
Zombie, risorti e fantasmi, come raccontiamo la morte
Senza fine
di Pietrangelo Buttafuoco


Nel romanzo di Giacomo Papi tutti i defunti tornano dall´aldilà. Si rinnova così un tema classico della letteratura
Si riprendono i propri luoghi, salutano i loro cari e quasi non c´è spavento

Tutto è per sempre. Perfino Eraclito, nella fretta di mettersi al passo, aveva toppato l´idea del Divenire: tutto può anche scorrere per sparire e smarrirsi, ma liberarsi di un morto è faccenda ben diversa dall´uccidere un vivo.
I morti tornano. Uno dopo l´altro. Dalla storia, come dalla preistoria. Come ne I primi tornarono a nuoto, romanzo di Giacomo Papi (Einaudi Stile libero): tornano e ricominciano da dove tutto era finito. Mangiano, fanno l´amore, e gli capita anche di crepare. Possono di nuovo morire, infatti.
Nulla si era concluso nella tomba e tutto ricomincia. Arrivano dalle spiagge, per esempio, tornando appunto a nuoto. Sono rinati. Il romanzo di Papi sarà anche di genere, come sostiene chi scrive romanzi privi di genere, ma è ipnotico come un film di Hitchcock e curioso come un fumetto, un passatempo nichilista dove il racconto – la trama – è la resurrezione di tutti in quell´eternità terrena che rendevano ogni mistero del Cielo.
Tutto è per sempre e tutti a quel sempre fanno ritorno. I morti di Papi si riprendono i propri luoghi e le proprie case, salutano i propri cari e quasi non c´è spavento, anzi: hanno polpa viva, più di quanta ne abbiano i vivi. Non sono zombie, non hanno sudari e dalla loro bocca non escono i vermi della decomposizione, ma fiori odorosi di vita nuova.
I vermi, appunto. Se fosse possibile prendere a prestito il sottofondo di Fenesta ca lucive, canzone del canone poetico siciliano, già la malinconia degli innamorati, in contesto cinquecentesco, ci darebbe un doloroso conforto. Ed è proprio la visione della bara, resa tremula dalla lucerne, a non spegnere la potenza dirompente della passione. Il disfacimento della carne, visitata dai vermi, accende l´amore più che la memoria: «Ancora all´uocchie mieje tu pare bella!».
I vermi brulicano nell´impasto del cosmo. Di Fenesta, attribuita a Vincenzo Bellini, esiste una versione eseguita alla chitarra da Giorgio Gaber e cantata da Gino Paoli. Nel video del brano, trasmesso a suo tempo da Rai Uno, si intravede un elegante Paolo Poli intento ad accendersi una sigaretta mentre intorno a lui si canta di Nennella, morta e sotterrata: Nennella che piangeva nel suo dover dormire sempre da sola, Nennella che adesso dai morti è accompagnata.
Il ritornare dei morti è un tema ricorrente nel nostro codice sentimentale. Dove però non c´è il trucco dei travestimenti di Hallowen: non è The Rocky Horror Picture Show, né qualcosa che riguardi la stagione dark del vampirismo di Bram Stoker, sublime storia d´amore, canovaccio erotico e teologico di un mito irresistibile e pop, trasfigurato oggi nella saga di Twilight. La morte, gravitas per eccellenza, non è messa in scena. Come in The Others, l´algida Nicole Kidman, non ha consapevolezza d´esser morta. Resta nella propria casa e non ci sono tombe scoperchiate, né pipistrelli, né teschi da impiastricciare di biacca a uso di Amleti: «Sti pagliacciate ‘e fanno sulu ‘e vive» sentenzia Totò nella celeberrima Livella, dialogo a bordo tomba tra un titolato e un netturbino, regolarmente morti.
I morti, si sa, sono chiacchieroni. Come nelle Operette morali di Leopardi. La prosopopea quale genere artistico o figura retorica è sempre parola data ai defunti. Come nelle abusate interviste impossibili. Quasi peggio delle sedute spiritiche. I morti hanno un´elaborata alchimia nel loro rincorrere l´Apocalisse e il Dì del Giudizio. Gunther von Hagens, l´inventore della plastinazione, tecnica che consente la conservazione della carne dei morti, ha fatto un uso spettacolare dei cadaveri ma ha dimenticato il monito dei suoi antenati pellegrini in cerca di Agartha, il cuore della terra, nelle prossimità del Tibet: «Presta attenzione nella zona dove i morti non pesano più, dove i morti si mescolano ai vivi».
La prossimità alla morte è un corteggiamento giunto a buon fine, quello del Casanova. Ci si fidanza con la morte tra i miasmi dell´esistenzialismo, oggi ci sono gli Emo, adolescenti a rischio sociologia, sempre sovraccarichi di ornamenti come le sciure la domenica ma – e chiediamo venia alle sensibilità votate al bene sociale – solo l´Oriente dei Samurai, e lo racconta bene Emiko Ohnuki-Tierney (La vera storia dei kamikaze giapponesi, Bruno Mondadori editore) sa apparecchiare con estenuante eleganza la morte. Lo sanno bene i morti, figli del Vento Divino, che attendono ben trenta e tre anni tra le colline per poi tornare all´Eterno coi petali dei ciliegi quando col vento si spogliano dei loro fiori.
Tutto è derivato dalla morte e tutto ha origine da un totem: il tetro portale degli Inferi. E se perfino il tabù dell´incesto, l´amore di un fratello per la sorella Astarte, come nel Manfred di Byron, ha generato la pagina perfetta della commozione («la tua fossa non t´ha mutata quanto ha mutato me, quantunque fosse il più empio dei peccati amarci come noi ci amammo»), bisogna proprio lasciarsi cullare da questo spartito, specie nella versione scenica di Carmelo Bene (musica di Robert Schumann): ed è allora che la compostezza della morte può anche attendere la fiaba, la bella e morta damina "addormentata nel bosco" cui solo un bacio, lo schiudersi del fiore roseo delle labbra, può ridare porpora alle gote e vivida luce alle pupille.
Tutto è morte, dunque tutto si restituisce alla vita. Non c´è dubbio che sia un´idea forte questa di Papi, ha una grande presa narrativa e ribalta la prospettiva: non più i vivi a cercare i morti, ma questi, strappati all´Ade, che si ritrovano a rinascere. Forse c´è un modo facile di raccontare la morte vestita a festa, così come si veste nella favola prossima a farsi incubo, ma l´eros è thanatos, e dunque il trucco è vecchio e l´amore si specchia sempre nella morte. Papi ci mette dentro la storia di una donna e di un uomo, e ogni cuntista sa come far sgorgare lacrime dal proprio pubblico evocando lo strazio di Michael Corleone, il Padrino di Mario Puzo, per Apollonia, ragazza fatta moglie dopo un solo sguardo, per poi volarsene nel cielo delle Madonie dopo una carica di tritolo. La battaglia per la vita, infatti, è la messa a morte di ogni pancia gravida. Torna alla vita una giovane madre, mamma di figli ancora piccoli; e, invece di correre dai bimbi, si attarda a misurare le ore coi cucchiaini da caffè, perché magari la vita nuova può godersela fuori dal focolare. I fantolini, insomma, «se se la sono cavata senza di me per un anno» – dice – «è segno che possono farcela da soli». Hanno denti nuovi, i morti di Papi, vantano un metabolismo da neonato e decidono tutto in ragione di una vita senza fine.
Tutto è vita, e allora la morte diventa l´unica speranza. Una ragazza, bellissima, arrivata dal tardo Medioevo, turba in ragione del suo sguardo, eccita in forza della sua nudità e ha solo un dettaglio fuori posto: mani brutte, da uomo. Ma gli è che ognuno rinasce per com´è morto. E risorgono tutti quelli che dal suo nascere hanno calcato questa terra prossima a diventare stretta e piccola: settanta miliardi e novecento milioni ipotizzati da Nathan Keyfitz nel 1977, centodieci miliardi secondo E. S. Deevey nel 1950, centosei miliardi con i calcoli di How Many People Have Ever Lived on Earth. E fino ad oggi, noi che non siamo ancora morti, siamo sette miliardi, circa un decimo rispetto a chi ci ha preceduto: venuti al mondo in sovrannumero giusto adesso che, per dirla con Eliot, «le strade» della vita «si susseguono come un tedioso argomento d´ingannevole intento». Foss´anche l´ingannevole intento di ogni vita.

il Fatto 4.5.12
IL NYT : sei omofobo? Allora forse sei gay


Molti attivisti per i diritti civili l’avranno pensato più volte: personaggi pubblici particolarmente duri contro gay e lesbiche, nascondono in realtà un’omosessualità latente. Ora il Nyt sembra dare basi scientifiche a questo “sentore”. Il quotidiano Usa ha pubblicato ieri uno studio (disponibile anche online: http://goo.gl/tBFKX  ) in cui due psicologi spiegano i risultati di un esperimento condotto con 784 studenti universitari di ambo i sessi. Agli studenti è stato prima chiesto di dichiarare il loro orientamento sessuale, poi sono state mostrate immagini e parole che andavano segnalate, tramite un apposito pulsante, come “gay” o “etero”. Fondamentali i tempi di reazione: prima di ogni immagine, infatti, era stato inserito un fotogramma di 35 millesimi di secondo con la scritta “io” o “gli altri”, visibile ma non percepibile a livello conscio. Ebbene, per un sotto-gruppo di “tester”, nei casi in cui le immagini “omosessuali” venivano precedute dalla scritta “io”, i tempi di reazione si accorciavano: erano gli studenti che, nonostante essersi dichiarati “etero”, mostravano una qualche attrazione per lo stesso sesso. Guarda caso, in questo sotto-gruppo, una percentuale “significativa” si diceva molto favorevole a politiche anti gay. Una relazione che fa riflettere. E che forse può far fischiare le orecchie anche a qualche italiano/a omofobo/a e molto in vista.

Repubblica 4.5.12
Il leader dei Verdi, candidato a Taranto: dal governatore toni da destra becera, spieghi perchè la Regione dà l’ok all´aumento di produzione d’acciaio
Vendola a Bonelli: avvoltoio. Rissa sui fumi dell´Ilva
di Lello Parise


BARI - «Sono molto indignato». «Tu diffami e fai terrorismo psicologico». Botta e risposta a distanza tra Angelo Bonelli, presidente dei Verdi, e il governatore della Puglia Nichi Vendola. I fumi dell´Ilva avvelenano pure la campagna elettorale che oggi si conclude lungo le rive dello Ionio e che l´altra sera, a sorpresa, ha anche intossicato l´arcipelago della sinistra.
Vendola sbarca a Taranto per sostenere la candidatura del sindaco uscente, Ippazio Stefàno, «il medico che cura i bambini e che la gente dei quartieri popolari ama». Ma all´ingresso del palazzo della Provincia dove va in scena la manifestazione elettorale, un gruppo di ragazzi del centro sociale "Amazza che Piazza" sventola lo striscione "sVendoLa città di Taranto" e contesta il presidente della Regione Puglia: «La diossina non la vogliamo».
Davanti ai microfoni delle televisioni, Vendola sorride nervosamente. E spiega: «Fortunatamente la maggior parte dei cittadini di Taranto, ci vuole bene». Poi, affonda il colpo: «Noi consentiamo perfino alle minoranze di vivere in questa città. Anche ai forestieri che non la conoscono e che non la amano, ma che come piccoli avvoltoi cinicamente la usano per costruire fortune elettorali». Non è casuale il riferimento a Bonelli, avversario di Stefàno a queste comunali in nome e per conto degli ambientalisti.
Il portavoce dei Verdi si dichiara «senza parole»: «Vendola mi ha accusato di essere stato l´organizzatore della contestazione, ma io non c´ero. Tuttavia per sostenere questa bugia, ha usato un linguaggio che non appartiene a un uomo di sinistra. Ma piuttosto, è quello di chi rappresenta una destra becera. Farebbe bene a chiedere scusa non a me, ma a Taranto. Qui dove io non faccio terrorismo, racconto che in Puglia l´ecologia non esiste. Visto che la Regione ha autorizzato l´Ilva a raddoppiare la produzione di acciaio. Parliamo della stessa fabbrica che, come ha dimostrato una perizia epidemiologica disposta dai magistrati, ha causato 174 morti in sette anni giacché c´è un nesso tra malattie, decessi per tumori e inquinamento provocato dal siderurgico. Noi diciamo queste cose e il nostro consenso cresce. Siamo l´alternativa all´antipolitica predicata da Beppe Grillo. E, forse, diamo fastidio».
Vendola, dalla Sicilia, taglia corto: «Bonelli entra a gamba tesa contro chi ha fatto, come il sottoscritto, una rivoluzione dal punto di vista della difesa dell´ambiente. E, questo, per un miserabile calcolo politico. Ho già posto il problema a Bersani. Qualunque partito del centrosinistra può testimoniare l´animosità, la violenza e la volgarità dell´esponente dei Verdi, che semina odio e menzogne. Vuole portare Taranto sull´orlo della guerra civile». Poi, con la voce più serena, fa sapere: «E´ troppo facile cacciare il male chiudendo le industrie. L´ambientalismo non può essere una semplificazione rozza della realtà. A Taranto tutto quello che è stato possibile fare al di fuori della demagogia, è stato fatto».

Corriere 4.5.12
La bellezza paga il 4% in più
di Anna Zinola


I belli hanno la vita più facile. E la busta paga più ricca. È ciò che dimostra Daniel Hamermesh, professore di economia all'Università del Texas, nel libro «Beauty pays: why attractive people are more successful», edito dalla Princeton University Press. Hamermesh ha condotto, nel corso degli ultimi 20 anni, numerosi studi sull'importanza attribuita all'aspetto fisico negli ambienti di lavoro ed è giunto alla conclusione che i belli sono sistematicamente premiati. Faticano meno a trovare lavoro e, spesso, ricevono stipendi più elevati. A parità di istruzione ed esperienza, le persone attraenti sono retribuite in media il 4% in più. Ciò significa che possono arrivare a guadagnare 230 mila dollari in più.
Attenzione, però: il teorema dello svantaggio estetico non coinvolge esclusivamente le donne. Anche gli uomini sono sottoposti al medesimo meccanismo, tanto che un uomo brutto può guadagnare il 13% in meno. Non solo: la bellezza viene apprezzata in tutte le professioni, non soltanto in quelle in cui costituisce un vantaggio evidente (come nello spettacolo). Secondo l'economista la ragione è semplice: la bellezza è merce rara e quindi spunta "prezzi" più alti sul mercato. Inoltre le persone belle attirano maggiormente gli interlocutori perché la gente tratta più volentieri con loro. Per usare le parole dell'autore: «Come può sopravvivere un'azienda che paga di più i suoi dipendenti solo perché sono belli? Sembrerebbe una politica suicida. Invece sopravvive e, anzi, migliora i suoi guadagni, perché i clienti preferiscono interagire con persone belle».
La ricerca evidenzia un altro dato interessante, relativo agli interventi estetici. In base agli studi compiuti da Hamermesh, i ritocchi non cambierebbero in maniera significativa la situazione: per ogni dollaro speso per migliorare il proprio aspetto, il ritorno economico sarebbe pari a poco più di 4 centesimi. Che può fare, allora, chi non ha ricevuto in sorte lineamenti delicati e un corpo statuario? Il professore statunitense ipotizza l'istituzione di una sorta di protezione legale per i brutti, come per altre minoranze discriminate. Tuttavia risulta una strada difficile e complessa da percorrere. Basta pensare alla difficoltà di definire dei parametri di identificazione della bellezza che siano unanimemente condivisi. Pare dunque meglio rassegnarsi a vivere, e a guadagnare, con quello che madre natura ci ha dato.

Repubblica 4.5.12
"Non dite più di dieci no al giorno" il manuale anti-ansia per le mamme
Strillare per tutta la serata se il figlio non ha fatto i compiti non serve. Cambiate tattica
di Vera Schiavazzi


Troppo indaffarate e preoccupate per l´insicurezza del mondo circostante: un libro analizza i perché delle madri
La soluzione è nelle piccole cose, nell´abbandonare la paura del giudizio, nell´aiutarsi, nel lasciarsi un po´ andare

Mamme-elicottero, che pattugliano dall´alto la vita dei figli e si allenano a non farsi vedere troppo. È il nuovo modello, dopo la mamma tigre e quella troppo protettiva tipicamente italiana, proposto da un piccolo libro («Tranquille dentro» di Ludovica Scarpa, per Ponte alle Grazie) e da una robusta corrente di pensiero che invita a essere attente ma leggere, a gridare di meno e ascoltare di più. Per esempio: dire più di 10 volte no ai figli nella stessa giornata è inutile, e perfino dannoso, dunque meglio contare e autolimitarsi. E ancora: non parlare male delle altre madri, usare fiabe e aneddoti anziché il rimprovero diretto, distribuire i compiti in casa anche se fare da sé è più facile e rapido. «Invece di preoccuparsi per il fatto che nostro figlio potrebbe farsi male al parco o, anni dopo, uscendo da solo la sera, si può imparare a augurargli buon divertimento, e restare tranquille ripetendo dentro di sé questo mantra per delle ore», suggerisce Ludovica Scarpa, psicologa e docente di teorie e tecniche di comunicazione all´Iuav di Venezia. Ma la kontrollitis, come l´ha ribattezzata lei, fa bene a qualcuno? No, al contrario: «Vivendo con i miei due figli tra Italia e Germania mi sono resa conto di quanta tensione divori ancora le madri, soprattutto nel nostro paese». Così, nel talismano, si possono trovare le ricette per meditare sul fatto se ciò che stiamo facendo - per esempio strillare per una serata, "contro" un figlio che non ha finito i compiti - serve alla prole, a noi o a nessuno.
«Sta nascendo un nuovo tipo di mamma, anzi di multi-mamma, perché oggi le figure che stanno intorno a un bambino sono tante - dice Manuela Trinci, psicoterapeuta infantile - Per questo Tommaso, 8 anni, quando gli ho chiesto di rappresentare la sua famiglia l´ha disegnata sullo skateboard: tutti sulle ruote, gatto compreso, tutti col cellulare…Ma l´eccesso di sorveglianza non sempre è sinonimo di vera attenzione».
«Nei paesi come il nostro dove la fiducia nelle istituzioni è bassa aumenta la sensazione di dover stare in guardia - aggiunge Ludovica Scarpa - Siamo autiste, azioniste e agenti dei nostri figli, e salviamo noi stesse e loro solo quando crolliamo sfinite per la stanchezza». «La nostra mamma-tipo ha paura di essere giudicata male da qualcun altro - suggerisce Trinci - per esempio dalle educatrici del nido perché ha vestito troppo poco i bambini». Ma ogni paese ha il suo punto debole e la sua carta vincente. Così, le mamme francesi sono le migliori, dice l´Oms, nel variare la dieta dei figli (i meno obesi), le tedesche nello sviluppare l´autonomia, le asiatiche nella disciplina (ma anche nell´investimento totale sui figli). In Italia la cucina della mamma è ottima, ma troppo abbondante. Riusciremo mai a non chiedere più "hai mangiato?" come se fosse l´unica cosa importante... «A mangiare si impara - assicura Marco Bianchi, lo chef-scienziato di "Tesoro, salviamo i ragazzi" - e un ottimo modo per liberare madri e figli dalla schiavitù reciproca è insegnare fin da piccoli dieci ricette-base».
Nella disintossicazione dall´ansia lo scambio di esperienze è fondamentale. Cerchiamo di aiutarci tra di noi - racconta Valentina Vottero della rivista "Giovani genitori", che sta per festeggiare il sesto compleanno - Servono le piccole cose, l´indirizzo del ristorante, la recensione dei parchi più sicuri. E un po´ di ironia». Ultima mossa, lo sport. «Un´amica madre di un giovanissimo campione mi ha raccontato quanto sia faticoso per lei scortare il figlio da una gara all´altra - spiega don Alberto Zanini, il salesiano al quale la Juventus ha affidato il suo nuovo liceo - Però in campo poi scende lui, lei al massimo guarda. Ecco, l´utilità dello sport è anche questa: far uscire i ragazzi dalle loro tribù virtuali, farli giocare tra loro. Ma senza l´ansia di farli arrivare primi».

Repubblica 4.5.12
Tilde Giani Gallino, psicologa dello sviluppo, "assolve" i genitori
"Il nostro Paese non è pronto per rendere autonomi i figli"
di V. S.
 

«L´ansia della mamme italiane? Esiste, ma non è solo individuale: spesso è il nostro paese a non essere attrezzato perché i genitori possano vivere tranquilli». Tilde Giani Gallino, docente di Psicologia dello sviluppo, difende – almeno in parte - le madri e le loro paure.
Perché in Italia si accompagnano i figli a scuola fino al liceo?
«Perché il traffico è denso e pericoloso, come si vede anche all´uscita delle lezioni, e perché non c´è l´abitudine a iscrivere i figli sotto casa, ma dove si pensa ci sia l´istituto migliore. Anche lo sport si pratica lontano, e le mamme così diventano taxiste».
Perché diamo troppo cibo ai nostri figli?
«Questa è un´eredità di quando eravamo un paese povero e non potevamo scegliere, le mamme più colte e più avvantaggiate non lo fanno più, in tutti i paesi del mondo. Anche in Germania nella ex DDR ci sono più bimbi obesi che all´ovest».
E quando i bambini diventano ragazzi? Come imparare a lasciarli andare?
«Non è un compito soltanto dei singoli o delle donne. Un esempio? Mezzi pubblici più frequenti e puntuali darebbero agli adolescenti maggiore autonomia».