domenica 6 maggio 2012

l’Unità on line 6.5.12
Presentazione della nuova Unità

qui e qui

Fabrizio Meli: «è uno sguardo verso il futuro in un momento difficile per il sistema, con il mondo dell'informazione che è stato colpito da un terremoto. Noi cercheremo di rispondere a questa complessità con un giornale nuovo, che possa raccogliere questa sfida. La nostra azienda ha aggiunto Meli non ha alle spalle una struttura imponente, ma per noi sarà molto importante dare risposte ai nostri lettori, che sono centinaia di migliaia di persone. Credo che i contenuti del quotidiano dovranno tener conto della situazione politica e raccontare la crisi senza esserne vittima. Penso che la nuova Unità sorprenderà, dando nuova linfa al nostro mondo: non è solo un giornale, è un intero sistema che dal 12 maggio ha concluso arricchiremo abbinandolo con 'Left', settimanale di politica e inchieste».

Online-News 5.5.12
L’Unità cambia formato e “volta pagina”

qui
Lettera 43 5.5.12
Restyling all'Unità: torna il formato grande
Dal 7 maggio in abbinamento al quotidiano il settimanale Left

qui
l’Unità 6.5.12
Cambia anche l’Unità
Claudio Sardo


Per l’Italia e l’Europa è una giornata elettorale molto importante. Nel mezzo della crisi sociale più grave del dopoguerra è possibile una svolta politica. Da noi sono chiamati alle urne nove milioni di cittadini per il primo turno delle amministrative: la loro scelta riguarderà il governo delle città. Ma, dopo il fallimento della Seconda Repubblica, da lì può partire il riscatto della politica e il rinnova-
mento delle classi dirigenti.
Si vota anche in Francia per il ballottaggio delle presidenziali. Si vota in Grecia, dopo il tracollo finanziario e le drammatiche conseguenze sociali che pesano sulla coscienza dell’intera Unione. Si vota nella Germania guidata da Angela Merkel, nel Land settentrionale di Schleswig-Holstein. Ma ovviamente è soprattutto alla Francia che guarda l’Europa, e non solo l’Europa. La vittoria di Hollande può cambiare gli equilibri e imprimere una svolta nelle politiche economiche: del resto, è bastato il primo turno per modificare l’agenda del Consiglio europeo di giugno.
Le politiche dei governi di centrodestra, guidati dal tandem Merkel-Sarkozy, hanno fatto fallimento. È stata curata come una crisi del debito pubblico quella che in realtà era una crisi degli squilibri delle bilance commerciali, e ancor più una crisi politica dell’Unione, incapace di far fronte comune sia per difendersi dalla speculazione sia per rilanciare la crescita. Non è vero che l’unica alternativa è tra tagli alla spesa e aumento delle tasse. Nessuno nega che tagli selettivi alla spesa pubblica corrente possano aiutare la produttività del sistema, così come può farlo l’equità fiscale (chi ha di più paghi di più e l’evasione sia combattuta senza quartiere). Ma la vera reazione all’indebolimento della domanda europea sta negli investimenti infrastrutture, reti, ricerca nella tassazione delle transazioni finanziarie, nelle risorse destinate a scuola e innovazione. Una reazione possibile solo su scala europea. Investimenti europei e Tobin tax sono nel programma di Hollande e nel manifesto di Parigi, sottoscritto da Bersani e dal leader della Spd Gabriel.
La svolta francese è attesa e auspicata anche a Washington e nei Paesi emergenti: tutti vogliono un’Europa che rilanci la crescita e abbandoni le politiche restrittive. Tuttavia, anche le novità annunciate da Hollande non basteranno se il centrosinistra europeo non sarà capace stavolta di rafforzare le istituzioni comunitarie. I governi progressisti degli anni ’90 ebbero questo limite: non puntarono a sufficienza sull’unità europea. Oggi le istituzioni dell’Europa sono parte essenziale della svolta. Senza un’Europa più forte non ci sarà vero cambiamento.
Il voto amministrativo in Italia può aiutare il vento nuovo. Già in Gran Bretagna c’è stato in settimana un segno positivo: i laburisti hanno prevalso quasi ovunque, salvo che a Londra. Anche il partito di Cameron è in affanno. Da noi c’è una crisi di fiducia che non risparmia nessuno e minaccia la stessa tenuta delle istituzioni. Persino l’idea di partito è messa in discussione, alimentando nuove opzioni populiste. Invece sono stati proprio il populismo e l’antipolitica di governo a spingere il Paese quasi nel baratro. Ora ci vuole umiltà nella ricostruzione. Perché il rilancio della politica è possibile solo se la partecipazione democratica si rimette in circolo e se il rinnovamento, la sobrietà, il rigore dei comportamenti diventano regole e non eccezioni.
Il centrodestra è diviso e, dopo il collasso del governo Berlusconi, sembra incapace di una plausibile offerta politica. La sola speranza del Pdl oggi è quella di mandare a monte anche la prossima legislatura, di prolungare la transizione senza un termine. Per questo collabora persino a campagne di discredito generalizzato, strizza l’occhio alla ribellione fiscale, urla come se fosse all’opposizione da vent’anni. Dice: muoia Sansone con tutti i filistei. Invece c’è bisogno di un’alternativa politica. Un’alternativa di caratura europea. Così la transizione italiana servirà non solo ad uscire dalla fase più drammatica della crisi finanziaria, ma anche a restituirci una democrazia funzionante.
La vittoria del centrosinistra alle amministrative può essere un primo passo importante. Servirà la riforma elettorale prima del 2013. E ci vorrà una politica di apertura, di coinvolgimento delle forze più vive e innovative della società. Unire tutti coloro che vogliono riportare l’Italia in seria A. Guai se il centrosinistra, in caso di vittoria, ripetesse l’errore del ’93 considerandosi autosufficiente. Ma guai anche se rinunciasse all’alternativa.
Da domani l’Unità sarà in edicola con un formato più grande. È per noi una sfida professionale, ma anche un modo per partecipare a questa battaglia politica con tutta l’energia di cui disponiamo. Ai lettori vogliamo offrire un giornale più ricco, più aperto, più interessante, più curioso della società che cambia, più vicino al mondo del lavoro e a chi soffre la crisi. Abbiamo scelto questo giorno per marcare la nostra passione politica, la nostra voglia di cambiamento e anche il desiderio di stare sul mercato dell’informazione con un pensiero critico, e una visione originale della cultura democratica e del ruolo dei progressisti europei.

Corriere 6.5.12
Più grande e popolare Così cambia «l'Unità»
di Marco Cremonesi


MILANO — Diciamolo: l'Unità in quelle misure un po' mignon non era piaciuta a molti. Per questo da domani «l'Unità diventa grande». È lo slogan con cui il direttore Mauro Sardo ha presentato il restyling della storica testata che parte, appunto, dalle dimensioni, passando al formato Berliner. Quello, per intendersi della Stampa.
Nella testata, in cui torna il fascione rosso, due novità. Se fino ad oggi l'Unità era «fondata da Antonio Gramsci nel 1924», da domani sarà il «giornale fondato... », al maschile. E poi, una piccola bandierina italiana. «Uno degli slogan a cui avevamo pensato — racconta Sardo — era "Rosso tricolore". Un modo per sottolineare che quel rosso della sinistra è uno dei pilastri su cui è stata costruita la coscienza nazionale del nostro paese». Ma l'Unità vuole essere nuova anche nei contenuti e nell'approccio: «Decisamente politico. Per questo abbiamo fatto lo sforzo di partire con il nuovo giornale nel giorno delle elezioni in Francia. L'obiettivo è quello di riportare l'Unità al centro della discussione della sinistra, una sinistra fatta ormai da tanti soggetti. A tutte queste realtà — prosegue il direttore — noi vogliamo offrire un punto di vista originale, poco in linea con il pensiero unico che vede la politica al capolinea e le lettere della Bce come il vangelo». Infine, la nuova Unità ha l'ambizione dichiarata di diventare «un primo giornale. Per alcuni già lo siamo, ma noi — conclude Sardo — vogliamo diventare una testata popolare, letta non soltanto dalle élite politiche».

l’Unità 6.5.12
Oggi e domani alle urne oltre 9 milioni, il Pdl rischia una disfatta e mette in tensione il governo
Città al voto, nervi tesi a destra
Il Pd: noi con Monti fino al 2013


La Stampa 6.5.12
Vincere e restare soli. La grande paura del Pd
Un’eventuale disfatta può spingere Berlusconi a far cadere il premier
di Federico Geremicca


Le vittorie elettorali fanno sempre bene: eppure a volte, paradossalmente, possono aprire problemi dei quali si farebbe volentieri a meno. Se è possibile sintetizzare in una battuta lo stato d’animo che regna nel quartier generale del Pd in attesa del primo turno delle amministrative, lo si potrebbe descrivere così. L’ evidente ottimismo intorno ai risultati che arriveranno dal voto, è appena mitigato da un paio di preoccupazioni che riguardano il futuro.
La prima di queste preoccupazioni, se si vuole la più ovvia, riguarda (al di là del numero di nuovi Comuni che saranno conquistati) i voti che otterranno le liste Pd e quelli che al contrario guadagneranno i partiti e i movimenti concorrenti all’interno dello stesso schieramento di centrosinistra: e cioè Sel, Idv e in parte secondo alcuni lo stesso Grillo.
A Largo del Nazareno, infatti, nessuno ha grandi dubbi intorno al fatto che a conclusione del turno di ballottaggi saranno molti i Comuni la cui guida sarà passata dal centrodestra al centrosinistra: l’interrogativo non irrilevante per il futuro riguarda piuttosto i rapporti di forza che il voto ristabilirà tra Bersani, Vendola e Di Pietro. Il risultato delle liste concorrenti, infatti, non solo dirà di eventuali nuovi equilibri tra alleati-concorrenti: ma anche quanto avrà pagato (per Vendola e Di Pietro) stare all’opposizione del governo di Mario Monti.
E qui arriva la seconda preoccupazione: che accadrà, dopo il voto, intorno all’esecutivo tecnico di SuperMario? E’ un interrogativo non da poco, visto che investe sopravvivenza e durata della legislatura e in sostanza data e prospettive dell’appuntamento considerato più importante: le prossime elezioni politiche. A volerla dire tutta, anzi, è forse proprio questa la maggiore delle preoccupazioni di Pier Luigi Bersani.
In verità, le premesse affinché il clima dopo il voto si faccia irrespirabile ci sono tutte. Il centrodestra, infatti, arriva a queste elezioni in ordine sparso e in condizioni pessime. Lega e Pdl si presentano quasi ovunque divisi, e la sconfitta in molti Comuni (anche significativi) è data già per certa. E chiaro che le somme verranno tirate solo dopo i ballottaggi, ma l’interrogativo è chiaro fin da ora: come reagirà Berlusconi di fronte ad una sconfitta che potrebbe assumere il profilo della disfatta?
Il rischio è che le fibrillazioni diventino ingovernabili e possano portare alla saldatura di due nervosismi: quello già evidente della Lega e quello crescente del Pdl. Già oggi i rapporti tra il partito di Berlusconi e il governo di Monti appaiono tesi: e ieri, da Brunetta a Gasparri, per finire a Sandro Bondi, è stato tutto un rosario di ultimatum e avvertimenti. Che cosa potrebbe accadere se il Pdl uscisse da queste elezioni con le ossa rotte?
Lo scenario non è difficile da immaginare, e tratteggia una ulteriore presa di distanze dal governo Monti, fin quasi a prefigurare quel che molti dirigenti del Pdl chiedono già ora: e cioè una sorta di appoggio esterno all’esecutivo dei tecnici, da sostenere o avversare di volta in volta, provvedimento per provvedimento. Uno scenario certamente allarmante per il governo in carica: e per il Pd più in particolare.
A quel punto infatti, l’esecutivo il cui consenso nel Paese comincia decisamente a calare diventerebbe quasi un governo targato Pd: non proprio un buonissimo affare per un partito la cui base è già in sofferenza per molti dei provvedimenti varati da Mario Monti. Senza contare il rischio che una tale evoluzione possa addirittura portare ad una brusca interruzione della legislatura. Le incognite del dopo-voto, insomma, sono tante. Bersani lo sa e se ne preoccupa. Anche se intanto si prepara a gustare quella che si annuncia fin forse da domani come una robusta vittoria elettorale.

Repubblica 6.5.12
C’era una volta il Paese dei sindaci
di Ilvo Diamanti


Oggi sono chiamati a votare oltre 9 milioni di elettori, intorno al 20% del totale. Per eleggere i sindaci di quasi mille comuni, di cui 157 sopra i 15 mila abitanti, compresi 26 capoluoghi di provincia. Potrebbe apparire una consultazione minore. Ma in Italia nessuna elezione lo è.
Perché tutte le elezioni - e soprattutto quelle comunali - servono a cogliere e a dare segnali circa il cambiamento sociale e politico. Una considerazione tanto più vera per questa scadenza. La prima consultazione dopo vent´anni di berlusconismo. Mentre il sistema partitico e il rapporto tra politica e società appaiono logori. Marcati da fratture molteplici.
Da questo appuntamento elettorale ci attendiamo indicazioni su quattro diverse questioni.
1. La prima fa riferimento alla tradizionale divisione tra partiti e schieramenti, emersa nella Seconda Repubblica. Centrodestra e centrosinistra, con il Centro, a sua volta, oscillante fra i due poli. All´elezione del 2007, quando vennero eletti gran parte dei sindaci e dei consigli oggi in scadenza, il centrosinistra subì un pesante arretramento. Nei comuni (superiori a 15 mila abitanti) dove si votava allora, governava in 80 comuni, venti più del centrodestra. Oggi, nell´Italia al voto, il rapporto è rovesciato. Il centrodestra amministra 95 comuni (di cui 12 leghisti), il centrosinistra 53. Da qui in poi, faccio riferimento ai dati dell´Osservatorio Elettorale LaPolis-Demos. ll risultato del 2007 annunciò - e accelerò - il profondo mutamento del clima d´opinione, che avrebbe condotto al governo Berlusconi e la Lega, un anno dopo. Non a caso, dopo quelle amministrative, sorge il Pd di Veltroni. Il progetto del partito unico o, comunque, dominante, del centrosinistra. Imitato dal Pdl di Berlusconi, a centrodestra.
Quella stagione è finita. Da un lato, il centrodestra non è più maggioranza. Lo dicono i sondaggi. Ma, soprattutto, lo hanno dimostrato le elezioni amministrative di un anno fa. Quando il centrosinistra ha vinto nelle principali città dove si è votato. Fra le altre: Milano, Napoli e Cagliari. Dove sono stati eletti sindaci espressi da forze diverse dal Pd. Da ciò la spinta, moltiplicata dai referendum, che ha contribuito alla crisi della maggioranza di centrodestra e alla caduta del governo Berlusconi. Alla fine del berlusconismo, in altri termini. E alla conseguente debolezza del Pdl ma anche del Pd. Incapaci di imporsi come soggetti dominanti dei due schieramenti.
2. Oggi, peraltro, insieme ai principali partiti, anche le alleanze di prima sono divenute fragili. Scardinate dal "montismo", che ha gestito il post-berlusconismo. Sostenuto da una maggioranza di governo che associa i tradizionali oppositori, Pd e Pdl, insieme al Terzo polo. Mentre gli alleati di prima oggi stanno all´opposizione. Ciò si riflette sulle coalizioni che si presentano nei comuni. Ma solo in parte. La Lega, coerentemente con l´attuale (op)posizione, si presenta da sola quasi dovunque. Ma gli esempi di "Grande coalizione" sono solo un paio. Mentre il Pdl appare disorientato. Si presenta da solo, talora insieme all´Udc. Spesso diviso in diverse liste. L´Udc stessa, peraltro, si presenta autonomamente in circa 70 Comuni, mentre nei rimanenti si divide equamente fra il Pd o il Pdl. Il Pd, in circa 90 Comuni, riunisce tutte le forze di centrosinistra nella stessa coalizione - allargata in 20 casi all´Udc. Ma in molti Comuni si presenta diviso da almeno uno degli altri partiti di sinistra. Come a Palermo. Ma in altri 20 Comuni è alleato all´Udc, in competizione con Sel e/o l´Idv. Questa consultazione diventa, quindi, un´occasione per testare la tenuta dei partiti, ma anche delle coalizioni prevalenti. O, forse, per avere conferma della frammentazione partitica e della scomposizione delle alleanze, in atto.
3. La terza questione riguarda la frattura fra partiti e società, riassunta, un po´ semplicisticamente, nella formula dell´antipolitica. È sottolineata dal moltiplicarsi delle "liste civiche", utilizzate, spesso, per mascherare i partiti, oltre che per proporre formazioni effettivamente autonome e locali. Non-partitiche. Nei Comuni con oltre 15 mila abitanti al voto, infatti, si presentano 2.636 liste - in media, quasi 17 per Comune - e 991 candidati sindaci - oltre sei per Comune. In queste elezioni amministrative scende in campo anche il Movimento 5 Stelle, di Beppe Grillo. Soggetto politico che ha coltivato la protesta antipartitica. Accreditato, dai sondaggi, di un grande risultato, si presenta in poco meno della metà dei Comuni maggiori e in 20 dei 26 capoluoghi. Quasi dovunque corre da solo. Contro tutti.
Ma questa consultazione costituisce una verifica particolarmente importante anche per la Lega. Esprime i sindaci di 12 Comuni con oltre 15 mila abitanti - di molti altri più piccoli - tra quelli dove si vota. Era il principale imprenditore politico del malessere contro lo Stato centrale e contro il sistema dei partiti. Fino a ieri. Occorrerà verificare se gli scandali e le divisioni interne degli ultimi mesi ne abbiano intaccato la credibilità e il radicamento.
4. L´ultima questione riguarda i protagonisti della consultazione. I sindaci. Quasi vent´anni fa, nel 1993, la legge sull´elezione diretta li rese artefici della stagione seguente alla caduta della Prima Repubblica. Interpreti della domanda di autonomia del territorio e della società. Capaci di compensare il crollo di legittimità dello Stato e del sistema politica presso i cittadini. Vent´anni dopo, però, essi si ritrovano soli. Perlopiù sopportati - quanto poco "supportati" - dai partiti. Che li hanno sempre considerati un ostacolo alle proprie logiche oligarchiche e centraliste. I sindaci. Dagli anni Novanta in poi, hanno rivendicato e ottenuto competenze e responsabilità. Ma dispongono di risorse scarse e di poteri inadeguati. Oltre che in costante declino. Berlusconi e la Lega, negli ultimi dieci anni, hanno esibito un "federalismo a parole". Il governo tecnico, legittimato - e spinto - dall´emergenza e dai mercati, non finge neppure di valorizzare il ruolo delle autonomie locali e dei sindaci. Ai quali viene, invece, chiesto di trasformarsi da "attori" a "esattori". Ammortizzatori del dissenso. Addetti a riscuotere tasse impopolari - e a ricucire il rapporto con la società - per conto terzi. Con l´esito di vedersi delegittimati: dallo Stato e dai cittadini.
Da ciò il duplice rischio. Che questa elezione non indichi solo una svolta politica o antipolitica. Ma segni - anche e soprattutto - la fine della "Repubblica dei Sindaci".

l’Unità 6.5.12
Intervista a Edgar Morin
«Hollande all’Eliseo? Io gli chiedo il coraggio dell’innovazione»
Il filosofo «Quella che stiamo vivendo non è solo una crisi finanziaria
è una crisi di civiltà, il cambiamento ha senso se assume un carattere epocale Io credo che François debba lavorare per un’economia “plurale” e sociale»
di Umberto De Giovannangeli


Chi è. Il grande teorico della «politica di civiltà»
EDGAR MORIN NATO A PARIGI NEL 1921 FILOSOFO E SOCIOLOGO
Considerato uno dei maggiori filosofi e sociologi vicenti, ha fondato negli anni 50 la rivista «Arguments», ispirata a «Ragionamenti» di Franco Fortini. Nel 1967, con Roland Barthes e Georges Friedmann, fonda «Communications», di cui è tuttora direttore. Al centro del suo impegno, l’analisi della cultura di massa quale complesso di miti, simboli e immagini. È anche il teorico della «politica della civiltà», che deve ristabilire solidarietà e responsabilità.

Ho potuto assistere all’uscita di scena di Berlusconi. Ora non voglio perdermi quella di Sarkozy. Alla mia veneranda età, certi appuntamenti con la storia non vanno mancati». La Francia che sceglie il suo nuovo presidente: l’Unità ne discute con uno dei grandi pensatori della nostra epoca: Edgar Morin, filosofo, sociologo, direttore emerito di ricerca al Cnrs di Parigi. Teorico della complessità, nel suo ultimo libro, La via. Per l’avvenire dell’umanità (edito da Raffaello Cortina), Morin traccia i caratteri di un nuovo umanesimo planetario. «A François Hollande dice Morin chiedo maggiore coraggio nel proporre idee all’altezza dei tempi. Tempi di crisi epocale a cui deve corrispondere un cambiamento epocale. Non serve volare basso. Cosi come non basta più parlare di “crescita”, come se fosse la parola magica per cambiare davvero passo».
In attesa del risultato finale, le chiedo una valutazione complessiva della campagna elettorale. Come la definirebbe?
«Una campagna appassionante ma non palpitante. Abbiamo assistito a una corsa tra “cavalli” diversi e con molte incertezze. Il deficit è nel pensiero politico che l’ha caratterizzata. Si è cercato di evitare il confronto sulle grandi questioni, a cominciare dalla crisi economica. Sarkozy ha provato a dimostrare l’impossibile: vale a dire la sua capacità a farne fronte». Lei è stato protagonista di un appassionante faccia a faccia su «Le Monde» con François Hollande. Il filosofo e il politico, probabile nuovo inquilino dell’Eliseo, a confronto...
«Un confronto vero, tra due persone che su diverse questioni hanno approcci, sensibilità diverse ma che si ritrovano nella convinzione che “sinistra” significa ancora molto, in termini di progetto, di speranza, di idee e sentimenti. Non è poca cosa, mi creda».
Cosa chiede a Hollande, oggi candidato, domani forse presidente?
«Un politico per sua natura mira alla conquista del potere. La cosa non mi scandalizza, né m’indigna. La domanda è un’altra: il potere, va bene, ma per farne cosa? Il potere in politica dovrebbe essere strumento e non fine, anche se il più delle volte la realtà ha dimostrato il contrario. Quanto a Hollande, se sarà lui, come penso e mi auguro, il nuovo presidente, spero che abbia l’ambizione, oltre che la volontà, di un progetto di lungo respiro che rafforzi e aggiorni le idee di una sinistra che non intende subire il dominio del mercato né sia subalterna ad una vecchia logica di sviluppo. A Hollande chiedo più coraggio nell’innovazione, quel coraggio che a un certo punto venne meno a Mitterrand».
Una richiesta all’altezza dei tempi...
«Direi all’altezza di una crisi che è molto di più che crisi finanziaria o economica: è una crisi di civiltà. E se così è, il cambiamento ha senso se assume un carattere epocale. È con questo scenario che Hollande sarà chiamato a cimentarsi.
Un passo indietro: lei ha affermato che Hollande debba trarre una lezione dalla parabola del mitterrandismo: da Mitterrand oltre Mitterrand, dunque?
«Il Mitterrand del 1981, quello del primo socialista all’Eliseo nella Francia della Quinta Repubblica, è un leader animato da grandi ambizioni di cambiamento. E, in una prima fase della sua presidenza, si è mosso su questa strada, con coerenza e anche importanti risultati: penso all’abolizione della pena di morte, e altre riforme sul piano sociale. Ma poi si è fermato sulla soglia della sfida decisiva: quella di non consegnare la società francese al neoliberismo, creando un argine al dominio del capitalismo finanziario. Il mitterrandismo è stato un fenomeno complesso, spero che Hollande ne sappia cogliere gli aspetti positivi senza ricadere negli stessi errori».
In polemica con l’iper austerità di “Merkozy”, Hollande ha battuto con forza sul tasto della crescita.
«Quel tasto va aggiornato, arricchito, se non si vuole restare prigionieri di un vecchio e improponibile spartito. Va ripensata l’idea stessa di crescita come quella di progresso. Non possiamo considerare il progresso come il carro trainato da una locomotiva tecno-economica. Così come non possiamo concepire la crescita come mera dimensione quantitativa, come ampliamento, magari con un riequilibrio distributivo, di un modello di consumo che si intende come immodificabile. Ecco, a Hollande chiedo di non restare prigioniero di questa idea di crescita, ma di portare più avanti la frontiera del “progressismo”. Credo davvero che sia giunto il tempo di rompere con il mito della crescita perpetua, ma soprattutto dobbiamo andare oltre la sterile alternativa di crescita / declino e promuovere la crescita parola che non va cancellata dal vocabolario progressista, ma coniugata diversamente. E contemporaneamente ridurre i prodotti economici futili, gli effetti illusori, moltiplicati dalla pubblicità, quanto meno per frenare l’economia “usa e getta”. È questo ciò che intendo per un cambiamento epocale, che investe il pensiero oltre che le merci».
Nel programma di Hollande vi sono misure volte a ridurre il dominio della finanza...
«È un inizio, un buon inizio, ma non può essere il punto d’approdo. Una nuova politica economica, a mio avviso, dovrebbe includere la rimozione della onnipotenza della finanza speculativa, salvaguardando nel contempo la competitività del mercato, superando l’alternativa di crescita / declino, determinando ciò che deve crescere: un’economia plurale, compreso lo sviluppo di una green economy, l’economia sociale, commercio equo e solidale, cittadinanza d’impresa. Ma al tempo stesso, occorre indicare, in una ottica gramsciana, ciò che si deve abbattere per poter ricostruire: l’economia che crea bisogni artificiali, l’economia dell’usa e getta. Più che di sviluppo sostenibile, parlerei di consumi insostenibili, nocivi, da eliminare tout court».
Sin qui la riflessione si è accentrata sulla crisi e i suoi caratteri. Ma per restare alla Francia: cosa si sente di chiedere d’altro a François Hollande se sarà il presidente?
«Di rimettere mano alla Costituzione sancendo in essa che la Francia è multiculturale. Anche qui: occorre qualcosa di più impegnativo della riaffermazione della laicità dello Stato. Dobbiamo andare oltre la cultura della solidarietà e della tolleranza, concetti questi che peraltro Sarkozy ha calpestato, infangandoli, ben prima della sua rincorsa ai voti di Marine Le Pen e di una destra che cavalca l’insicurezza sociale alimentando una vergognosa caccia all’”Untore del terzo Millennio”: l’immigrato extracomunitario. Affermare che la Francia è una, indivisibile e multiculturale significa riconoscere una realtà già in essere, e definire un insieme di diritti e di doveri, in una idea avanzata di cittadinanza: dove l’unità della Nazione, intesa come comunità, chiede a tutti di riconoscersi in essa, al di là delle proprie origini di provenienza, e al tempo stesso riconosce la feconda diversità delle culture che si integrano».

l’Unità 6.5.12
Il vento di Parigi può cambiare le scelte europee
di Guglielmo Epifani


Oggi i cittadini francesi sono chiamati a scegliere non solo il loro presidente della Repubblica ma anche il profilo delle scelte che peseranno nella grande crisi della zona dell’euro. La vittoria del presidente uscente Sarkozy significherebbe probabilmente una tendenziale continuità delle politiche economiche. Nel caso di vittoria di Hollande, invece, l’apertura di una fase nuova segnata da un più equilibrato rapporto tra linea di rigore e politiche per la crescita e gli investimenti. Depurata dagli eccessi tipici di ogni campagna elettorale questa resta la principale differenza tra i due leader e i due programmi. E così il risultato è atteso e vissuto in tutta Europa e in tutto il mondo.
Sempre oggi si svolgeranno le elezioni legislative in Grecia, il Paese simbolo degli errori, delle approssimazioni e incongruenze della governance finanziaria monetaria e politica europea; e delle pesantissime conseguenze che si stanno abbattendo sull’occupazione, i redditi, le protezioni sociali. Qui l’attesa del risultato ha apparentemente un altro segno: la misurazione del grado di radicale rifiuto delle scelte che la Grecia ha dovuto accettare. E, di conseguenza, della possibilità della tenuta del quadro di governo, con il corollario prevedibile di una grande frammentazione della rappresentanza politica.
Quello che unisce le due elezioni è che la crisi europea richiede da tempo una diversa responsabilità e una diversa politica. Non perché non ci voglia un programma di rigore e contenimenti dei deficit pubblici, ma perché senza una contemporanea azione di stimolo alla domanda la crisi corre il rischio di aggravarsi. In questo entrambe le elezioni hanno lo stesso riferimento obbligato: le politiche del governo tedesco e le conseguenze che il voto potrà avere sulle scelte della Merkel. Ogni tentativo per modificare o alleggerire la linea del solo rigore fiscale non ha portato a un vero cambiamento ma solo a parziali e modesti interventi di correzione. Anche i tentativi aperti nel Parlamento europeo rischiano di naufragare sotto il peso dei numeri delle destre, che pur non essendo compatte hanno però impedito un pronunciamento rivolto alla revisione della politica economica europea.
Per questo è necessario che in Francia vinca Hollande. La legittimazione di un voto popolare in uno dei Paesi centrali dell’equilibrio continentale che chiede di cambiare non lascerà le cose come stanno. E anche tenendo conto del peso dei condizionamenti e dei compromessi che si renderanno necessari si aprirà una discussione nuova. E si potrà rafforzare anche il ruolo di Paesi come l’Italia che ha bisogno di far ripartire l’economia e può quindi spingere in questa direzione. D’altra parte non ci sono alternative. La crisi sociale è oltre il livello di guardia. Ogni elezione, compresa la Gran Bretagna, premia le forze di opposizione e quindi il cambiamento. Gli strumenti monetari della Bce hanno finito i propri effetti. Tanti osservatori ed economisti assistono sbigottiti a quello che sta avvenendo. E le classi dirigenti non sanno più cosa fare per evitare una crisi ed una recessione ancora più profonda. I cittadini, i lavoratori e i pensionati vedono ogni giorno di più aggravarsi le loro condizioni di vita e di reddito. Le diseguaglianze fondamentali aumentano.
L’attesa per questo passaggio elettorale dunque è giustificata e anche i sentimenti, le paure e le speranze che accompagnano queste ore. Il voto di una nazione finisce per riguardare tutti. Ed è il nostro più grande paradosso comune: siamo cittadini con la stessa moneta ma non nello stesso Stato.

La Stampa 6.5.12
Monti: le scelte di Hollande compatibili con le nostre
In caso di vittoria socialista il premier non teme strappi su austerità e mercato unico
di Fabio Martini


Se la Francia tornerà ad affidarsi ad un presidente socialista, Mario Monti ritiene che le ricette di sinistra di Hollande sarebbero innovative ma «compatibili» con le stelle polari della politica europea dell’Italia, l’austerità e il mercato unico. Nei giorni scorsi con la ovvia riservatezza necessaria in casi come questi, l’entourage del Presidente del Consiglio è stato informato a più riprese sulle linee guida della politica europea che Hollande sposerebbe in caso di elezione e che dovrebbe rendere pubbliche tra lunedì e martedì: il “Memorandum per la crescita in Europa” è previsto che sia inviato a tutti i capi di governo europei e conterrà un pacchetto di misure fortemente innovative, alcune delle quali il Presidente francese vorrebbe diventassero operative in tempi stretti, in modo da dare il senso di una svolta legata alla sua elezione.
Hollande, se sarà eletto, ha intenzione di discutere del suo “Memorandum” nel primo incontro a tu per tu, quello con la Cancelliera Angela Merkel, alla quale proporrà un nuovo Patto franco-tedesco (che eviti di replicare i vizi del precedente Direttorio a due), ma subito dopo e prima del G8 di Camp David il nuovo presidente francese avrebbe intenzione di incontrare a Roma anche Monti. Nel “Memorandum” sono previste novità significative, potenzialmente capaci di imprimere una svolta alla politica dell’Unione, ma anche l’affermazione di alcuni principii il ruolo dello Stato e dei servizi pubblici, il dialogo con le parti sociali che per la loro connotazione di “sinistra” potrebbero essere rilanciate in Italia dal Pd, fornendo nuovi argomenti al principale partito del fronte progressista.
Nel “Memorandum”, a differenza di quanto anticipato da Hollande, non verrebbe annunciata la “disdetta” del Fiscal compact voluto dalla Germania, ma invece la sua (obbligatoria) integrazione con una impegnativa Dichiarazione, all’interno del quale l’Unione indichi gli obiettivi da conseguire in tempi accelerati: le Euroobligations (o Euro-bonds) ; la
ricapitalizzazione immediata della Banca Europea degli investimenti; un piano organico di infrastrutture, riattivando i fondi strutturali in scadenza; la riproposizione di una tassa europea sulle transazioni finanziarie. Oltre a queste misure, tutte miranti a smottare la linea dell’austerità propugnata dalla Germania, Hollande caldeggerà politiche di sinistra, vecchie e nuove. Nel Memorandum è previsto un passaggio dedicato alla «reciprocità» da richiedere a Paesi come la Cina per il rispetto degli standard sociali e commerciali», «un dialogo sociale» a livello europeo, un ruolo protagonista alle politiche statali.
Un’impronta di sinistra destinata a spiazzare i tanti sostenitori italiani di centrodestra di Hollande (da Berlusconi a Tremonti fino a Cicchitto) e a dare argomenti al Pd. Pier Luigi Bersani ha puntato forte su Hollande (ricevendolo a Roma e partecipando ad un comizio comune in Francia) e Sandro Gozi, in Parlamento l’uomo di punta del Pd per le politiche europee, annuisce: «Effettivamente, gli argomenti di Hollande sono destinati a rafforzare in Italia chi sostiene che la crescita non si ottiene soltanto col rigore e le liberalizzazioni ma anche con politiche attive di stimolo. Se l’Europa, grazie alla Francia, andrà in quella direzione, il governo non potrà limitarsi a muoversi tra la Scilla della politica di austerità e la Cariddi del mercato unico». Una vittoria di Hollande potrebbe ridare fiato anche agli argomenti di Romano Prodi, che alcune settimane dopo l’insediamento di Mario Monti, in una lunga chiacchierata riservata col premier, gli consigliò di stringere un’intesa con la Spagna di Rajoy. Consiglio inascoltato. Più recentemente, in un editoriale per il “Messaggero”, Prodi ha chiesto all’Italia di unirisi assieme a Francia e Spagna e proporre «una strategia comune per l’Europa».
Intanto, da Bruxelles, arriva una significativa dichiarazione di Olli Rehn, commissario europeo agli Affari economici e monetari, secondo il quale l’Unione europea sarà flessibile nell’applicazione delle regole sul deficit in una fase di forte difficoltà economica: «Al momento della sua applicazione, il patto dà un margine considerevole di valutazione» che tiene conto delle differenti «condizioni di bilancio e macroeconomiche» dei diversi Paesi. Non è il preannuncio dello sblocco di una richiesta che l’Italia avanza da diversi mesi, lo scorporo degli investimenti nel calcolo del deficit, ma invece l’annuncio del massimo di flessibilità in quella che il patto stesso definisce «fattori rilevanti» negli obblighi di risanamento.

La Stampa 6.5.12
Intervista
Il genero di Lacan: i francesi hanno bisogno di uno specchio Il presidente non lo è stato
«Sarkò ha lasciato trapelare eccessivamente il suo io Hollande non è affatto molle, è un centrista durissimo»
Carla Bruni: «È modesta e apprezza la psicanalisi a cui anche lei si affida»
di Cesare Martinetti


Ma come stanno i francesi? «Come la signora di Shangai, nella scena finale del film di Orson Welles – ci dice Jacques-Alain Miller. con Rita Hayworth circondata da decine di specchi ognuno dei quali riflette un’immagine diversa. Ecco: non sanno più chi sono, forti o deboli, grandi o piccoli. Si muovono nella nebbia, cercano uno specchio normale nel quale riconoscersi». Sarà davvero François Hollande questo «specchio» normale? Lo sapremo questa sera. Intanto è bene ascoltare Miller che i francesi li conosce bene perché li ascolta ogni giorno dal lettino che fu quello di Lacan del quale ha sposato la figlia e del quale è considerato l’erede.
In effetti lo sguardo dello psicanalista ci libera un po’ dal sovraccarico di politologi che straparlano a Paris scommettendo – attenti: è cominciata la corsa a saltare sul carro del vincitore – su François Hollande, nonostante il vantaggio del socialista si sia enormemente assottigliato nelle ultime ore. Miller però ci può spiegare com’è avvenuto che il super Sarkò che aveva promesso sfracelli corra ora il rischio – l’espressione è dello stesso Miller – di venire «risputato come il nocciolo di una ciliegia». Ripartiamo dall’inizio. C’era una volta il presidente della “rupture” eletto con il 53 per cento dei voti... «Che doveva risvegliare la bella addormentata nel bosco dopo gli anni del conservatismo di Chirac e anche di Mitterrand. La sua popolarità – ricorda Miller – era altissima, ma in un anno appena è crollata e non è mai più risalita».
Perché?
«Lei conosce la storia secondo cui i monarchi hanno due corpi: quello umano e quello della nazione. Ecco diciamo che mentre i predecessori di Sarkozy, da De Gaulle fino a Chirac, chi più chi meno, ha sacrificato il primo al secondo, Sarkozy ha fatto esattamente il contrario: si è visto un presidente sudare nello sforzo fisico del jogging ed esibire la sua fisicità, persino l’intimità”.
E questo non va bene?
«Diciamo che i francesi hanno avuto con Sarkozy molta meno pazienza degli italiani con Berlusconi... Diceva De Gaulle che i nostri compatrioti vogliono un presidente monarca, deve avere l’ “hauteur”, la distanza, la dignità della funzione. Sarkozy ha contrariato l’habitus francese, non ha pagato l’imposta ipocrisia che è richiesta nello svolgimento di una funzione pubblica: certe cose si fanno e non si dicono. Nominare il proprio figlio a capo di una grande agenzia dello Stato senza che questo abbia nemmeno i requisiti minimi, non si fa».
L’hanno anche definito il presidente dei ricchi, ma non mi pare che i francesi abbiano orrore per la ricchezza.
«Certo che no, ma l’altro grande stereotipo nazionale è la pratica della dissimulazione del culto del denaro, deriva dall tradizione cattolica: San Tommaso, che è sepolto a Tolosa, diceva “turpitudo, ma vi aderisce la gauche e anche la destra e persino l’ultradestra. Tutta la retorica del Front National è contro i plutocrati. De Gaulle alla fine della sua vita disse che il grande nemico era il denaro, Mitterrand esibiva disprezzo per l’argent. In Francia, anche i ricchi accumulano nella discrezione».
E invece Sarkozy?
«Ha cominciato fin dall’inizio ad ammirare i ricchi e a dire pubblicamente, io ero presente a un pranzo nel quale fece la confessione che uno degli obbiettivi della sua vita era diventare ricco dal momento che ricco non era... » Nella caduta di popolarità di Sarkozy ha giocato anche il rapporto con Carla Bruni?
«Certo i francesi non erano abituati. La moglie di De Gaulle veniva chiamata “la zia”, quella di Giscard sembrava un vaso di fiori, quella di Mitterrand alla fine apparve a tutti come una donna tradita. Anche in questo caso Sarkozy ha esibito ciò che non si esibisce: non la felicità, ma il godimento. E questo malgrado Carla Bruni abbia sempre avuto un atteggiamento schivo. Io la conosco, è una buona persona, l’ho molto ascoltata e capisco in che senso lei sinceramente si definisca una persona modesta. Persino Mélenchon ha riconosciuto il suo charme. È molto interessata alla psicanalisi, lei stessa è in analisi, e ne parla in maniera intelligente».
Lei conoscerà anche Hollande.
«Sì, l’ho incontrato e l’ho ascoltato. Aveva la reputazione del più “molle” nel Ps, un partito dove il super Io marxista imponeva di non permettere che ci fosse mai qualcuno a sinistra della sinistra. Non dimentichiamo che fino a non molti anni fa nel Ps si discuteva ancora se il capitalismo andava abolito in tre mesi o in tre anni. Bè, Hollande ha fatto il salto prima di tutti: altro che molle, è il più duro dei centristi. Tutti pensavano che fosse un fesso e invece ha fatto fessi tutti, come Lorenzaccio nella commedia di de Musset. È umile, vive in un appartamento modesto, non è ricco e non vuole esserlo. È normale». Lo specchio perfetto nel quale riconoscere la propria ipocrisia.

Corriere 6.5.12
Francia, finalmente i candidati non sfuggono alla questione Islam
di Roberto Tottoli


L'islam e la presenza musulmana in Occidente ritorna immancabilmente sulla scena politica prima di ogni contesa elettorale. Lo abbiamo visto nelle amministrative italiane lo scorso anno e nelle elezioni politiche di vari Paesi europei. Non poteva mancare la Francia. Aveva esordito Sarkozy settimane fa, affermando che Hollande raccoglieva voti nelle moschee, che godeva del sostegno del controverso Tariq Ramadan, e si è arrivati a un dibattito televisivo su toni più distesi, ma che non ha rinunciato a menzionare l'islam.
Hollande ha cercato di prevenire ogni possibile accusa di condiscendenza. Ha affermato che non permetterà mai che siano approvate norme di «separazione», quindi no a carne halal nelle scuole, a menu diversi in locali pubblici, oppure a ore diverse nelle piscine per uomini e donne. No soprattutto all'uso pubblico del velo integrale.
Sarkozy ha scelto toni meno netti, usando una formula studiata ma problematica, ovvero ha affermato di essere favorevole, a un islam «di» Francia e non a un islam «in» Francia, toccando così una delle corde più sensibili nell'elettorato, quello della percepita estraneità di tanti musulmani rispetto alla realtà francese o europea in genere. Il problema non è nuovo. Alcuni Paesi, come il Belgio, hanno perseguito la via di cercare di controllare e istruire gli imam delle moschee e di promuovere un maggiore radicamento nazionale per i musulmani immigrati o a quelli di seconda o terza generazione. Anche l'Italia si sta muovendo in questa direzione, pur nelle difficoltà date dalla frammentazione della comunità musulmana.
La questione della visibilità o del diritto a una diversità all'interno della società toccata da Hollande e quella della costruzione di un islam nazionale evocata da Sarkozy sono due problemi reali, che tutti i Paesi europei devono affrontare. Le realtà non sono così nette come emerge negli slogan politici. Ma per una volta, la campagna elettorale ha toccato problemi reali che interrogano le società europee di fronte ai musulmani che vivono tra loro.

Repubblica 6.5.12
L’Effetto Europa
Hollande e Sarkozy a un soffio l’Eliseo deciso dagli orfani della Le Pen
Oggi il ballottaggio: solo due punti di scarto nell’ultimo sondaggio
di Bernardo Valli


Gli elettori del Fn sono un carico senza ormeggi che può travolgere i pronostici
Da mesi lo sfidante socialista è stato dato vincente dalle indagini d´opinione
Per conquistare gli indecisi hanno sfoderato temi che potrebbero avere l´effetto opposto

PARIGI Benché esclusa dal finale, Marine Le Pen, leader del Front National, continua a pesare fino all´ultimo sulle elezioni presidenziali che si concludono stasera.
Non lei, di persona, ma i suoi sei milioni e mezzo di voti, ottenuti da lei al primo turno. I quali sono adesso come un carico senza più ormeggi, sbatacchiato dalla collera, che può travolgere tutti i pronostici. Quella massa di suffragi rimasti orfani e incerti sulla nuova destinazione potrebbe creare la sorpresa. Vale a dire, tra poche ore, la riconferma di Nicolas Sarkozy alla testa della Quinta Repubblica.
Il presidente-candidato ovviamente ci conta. E sembra crederci. Non è uno che si dà per vinto nonostante il vento ostile che soffia nella Francia inquieta per la crisi, ma anche delusa o irritata dalla sua presidenza. Nel palazzo dell´Eliseo parte del personale si prepara a fare le valige. Non lo nasconde. Non crede nella sorpresa. Pensa che il nuovo inquilino sia in arrivo e quindi che il trasloco sia inevitabile. Nella stretta cerchia dei collaboratori invece non ci si arrende. Non si abbassano le armi, non si fanno le valige.
Tra i fedelissimi l´atmosfera è tesa ma la speranza non si è del tutto spenta. La cavalleria potrebbe arrivare in tempo. Per loro il risultato di stasera dovrebbe aggirarsi su un 50, 3 o su un 50,5 in favore di Sarkozy. Non è un miraggio ma il frutto di calcoli non tanto avventati. Dai quali si ricaverebbe un quoziente a tal punto in bilico da richiedere uno scrutinio minuzioso prima di arrivare a quello definitivo. Più in bilico di quello (50,8 %) che nel 1974 portò Valéry Giscard d´Estaing alla presidenza. Potrebbero non bastare gli exit-poll o le proiezioni. Il conteggio delle schede ritarderebbe in tal caso la proclamazione del vincitore. Venerdì, a Sables-d´Olonne, nella Vandea, parlando nell´ultimo comizio, il presidente-candidato ha detto ai suoi elettori che il risultato finale sarà deciso da una manciata di voti. L´appello, dettato da una volontà caparbia, è dunque: alle urne, popolo di destra.
Da settimane, anzi da mesi, con qualche effimero segno di ripresa del presidente candidato alla propria successione, François Hollande, lo sfidante di sinistra, è stato dato vincente dai pronostici basati su indagini d´opinione, che nelle ultime settimane sono state quotidiane. Dunque assillanti. Ma sul passaggio dalla democrazia d´opinione alla democrazia legale, dai consensi virtuali ai voti reali, pesa sempre l´imprevisto. Senza il quale il libero suffragio universale perderebbe valore. E l´imprevedibile in queste ore sono appunto gli elettori di Marine Le Pen al primo turno. Nicolas Sarkozy li ha corteggiati di comizio in comizio e adesso punta su di loro. Dove finiranno?
L´interrogativo vale anche per i tre milioni di elettori centristi, ottenuti da François Bayrou, sempre al primo turno, e adesso orfani. O in libera uscita. In queste ore sono in preda al dubbio. L´abbraccio di Sarkozy agli elettori di estrema destra li ha turbati, ma il discorso di sinistra di Hollande li ha lasciati perplessi. Marine Le Pen e François Bayrou non hanno dato consegne. Lei non vuole scegliere e voterà scheda bianca; lui ha scelto Hollande, senza condividerne il discorso. L´ambiguità di entrambi lascia senza guinzaglio gli elettori, che del resto non erano di loro proprietà. Per quel che riguarda il Front National erano spesso occasionali. Provvisori. Spinti dalla crisi. Dal domani incerto. E dalla conseguente rabbia contro tutti i supposti colpevoli: dall´immigrato al banchiere, dall´Europa al mondo senza frontiere protettive. Sarkozy calcola che gli incerti, tra lepenisti e centristi, sfiorino i sette milioni. E lui pensa che sia l´esercito della sua salvezza.
L´incertezza tiene in ansia, per motivi opposti, gli stati maggiori elettorali. Il progressivo assottigliarsi dello scarto tra i due candidati, ridotto a soli due punti stando ai consensi virtuali rilevati nelle ultime ore, dà ovviamente a Nicolas Sarkozy qualche probabilità in più di sperare in una sorpresa, vale a dire nella propria rielezione, che sembrava del tutto svanita. Una speranza che Le Monde definisce «folle». L´angoscia inquina invece l´euforia a sinistra, tra gli stretti collaboratori di François Hollande, che pensavano di avere già la vittoria in tasca. Tra di loro c´è chi attribuisce il calo dei consensi all´impegno di far partecipare gli immigrati alle elezioni amministrative. Avrebbe cambiato idea chi, avendo votato per Marine Le Pen, si accingeva a preferire Hollande a Sarkozy.
I più ottimisti, o avventati, sostenitori del candidato di sinistra avevano già festeggiato la sua elezione, brindando ai nuovi ministri socialisti. François Hollande si è ben guardato dal celebrarla in anticipo. Parlando venerdì sera, nell´ultimo comizio, a Périgueux, in Dordogna, ha invitato a non lasciarsi cullare dall´idea di una vittoria scontata. Dieci anni fa, nel 2002, pensando che sarebbe stato comunque ammesso al ballottaggio, gli elettori di sinistra disertarono le urne al primo turno, e Lionel Jospin, il candidato socialista, fu superato da Jean-Marie Le Pen, il padre di Marine, ed escluso dal finale delle presidenziali. Bisogna lavare quella vergogna ha detto François Hollande. Dunque alle urne, popolo di sinistra.
Drammatizzare il finale è una tattica adottata a destra e a sinistra. A destra si vuole evitare la rassegnazione, facendo credere che la sconfitta non sia scontata, malgrado gli insistenti pronostici l´abbiano annunciata. A sinistra si vuole evitare che prevalga l´idea di una vittoria scontata. Entrambi i candidati combattono l´astensione. E per mobilitare i loro rispettivi elettorati e conquistare gli indecisi nelle ultime due settimane hanno sfoderato argomenti che potrebbero avere effetti contrari a quelli auspicati.
Nel rincorrere gli elettori del Front national, Nicolas Sarkozy ha fatto della «frontiera» il tema centrale del suo discorso. Senza fissare i confini, senza difenderli, ha ripetuto nei comizi, in particolare a Tolosa, «non c´è nazione, non c´è lo Stato, non c´è la République, non c´è civilizzazione. «Tutto - il lavoro, la fiscalità, il mercato, la natura del capitalismo - dipende dalle frontiere. L´Europa deve fissarle, deve difenderle, al fine di filtrare l´immigrazione e proteggere i suoi prodotti. La sua Francia lo imporrà a Bruxelles e rinegozierà l´accordo di Schengen se sarà necessario.
Il discorso di Sarkozy ha assecondato gli elettori di Marine Le Pen che temono la mondializzazione e detestano l´Unione europea. Ma la brusca svolta a destra, che si è accentuata dopo il primo turno, ha suscitato proteste e perplessità nel suo stesso campo. Il presidente candidato ha escluso un´intesa col Front National ma ha quasi abbattuto il muro che i partiti democratici avevano eretto attorno al movimento xenofobo. Ha detto che Marine Le Pen è compatibile con la République (in questo caso traducibile con «arco costituzionale», espressione usata quando i neofascisti italiani ne erano esclusi). Poi ha negato di averlo detto, e ha sfumato le sue espressioni, ma non abbastanza per evitare il rigetto di molti elettori moderati.
Al momento del referendum sulla Costituzione europea, nel 2005, François Hollande e Nicolas Sarkozy si trovarono sulle stesse posizioni. Entrambi erano europeisti. Il presidente-candidato ha gettato alle ortiche, forse provvisoriamente, le convinzioni di un tempo. Si è rivolto alla Francia che poteva rieleggerlo e che sette anni fa non l´ascoltò e votò «no» al referendum. François Hollande ha invece sventolato la bandiera europea, tenendo con l´altra mano il tricolore, in uno dei grandi comizi parigini.
Ma si è soprattutto inserito nel dibattito europeo sostenendo la necessità di affiancare alle misure d´austerità concrete iniziative tendenti a promuovere la crescita. Si è impegnato ad andare, appena eletto, a Berlino per affrontare il problema con Angela Merkel. Dapprima voleva rinegoziare il Trattato sulla stabilità (il fiscal compact) preparato da lei, la cancelliera, e da Nicolas Sarkozy. Poi ha trovato una scorciatoia che faciliterà un compromesso, ossia l´aggiunta di un documento, affiancato a quel trattato. Cosi la campagna elettorale francese ha visto faccia a faccia il candidato della frontiera e il candidato dell´Europa.

l’Unità 6.5.12
Va alle urne la Grecia dei negozi vuoti. Rischio ingovernabilità
di Teodoro Andreadisa



La Grecia arranca: «Non possiamo vivere con stipendi bulgari». I suicidi per debiti sono a quota 1.700. La disoccupazione giovanile oltre il 50%. E i comizi più affollati sono dei politici contro il Memorandum Fmi-Ue.

La Grecia vota con le tasche vuote. Salari part-time a 280 euro, stipendi per i neoassunti che non arrivano a 600 euro, negozi e appartamenti sfitti senza nessuno che abbia la benché minima intenzione di fare un’offerta. La disoccupazione giovanile ha superato il 50% contendendo alla Spagna l’amaro primato. In due anni, secondo i sindacati, il potere di acquisto si è ridotto di più di un terzo e in ogni famiglia ormai c’è una persona in cerca di lavoro. Il leader del Pasok, Evanghelos Venizelos, ha detto ai greci che entro tre anni potranno uscire dalla morsa, sempre più stretta, delle condizioni dettate dal Fmi e Bruxelles. Il leader del centrodestra Antònis Samaràs si è assunto l’impegno di abolire i tagli alle pensioni sotto i 700 euro. Entrambi concordano sul bisogno di sostenere le imprese che falliscono per debiti e mancanza di liquidità. Ma lo scetticismo sui reali margini di manovra è altissimo.
La realtà in ogni caso non ammette smentite. Nell’ultimo mese sono aumentati di più del 30% i contratti aziendali o addirittura «personali»: nel primo caso si decide una riduzione dello stipendio sino a un quarto del totale, nel secondo ogni lavoratore viene chiamato a contrattare separatamente la sua nuova retribuzione, con un drastico taglio delle ferie, l’abolizione della tredicesima e la riduzione al minimo del diritto di sciopero. È l’addio ufficiale ai contratti collettivi di lavoro, che porta con sé la marginalizzazione dei sindacati. «Non possiamo vivere con
gli stipendi della Bulgaria», dicono sempre più impiegati, specie del settore privato. Le mense dei poveri gestite dal comune di Atene e del Pireo sono sempre più affollate.
Ora sono iniziati ad arrivare anche gli aiuti da parte delle decine di comunità dei greci che vivono all’estero. Chi è emigrato negli anni Cinquanta e Sessanta in Germania, America, Australia, in cerca di fortuna, ora offre il suo aiuto, spedendo pacchi di medicine, generi alimentari o più semplicemente soldi. Il partito eurocomunista di Syriza ha chiuso ieri la campagna elettorale a Salonicco, in piazza Aristotelus. Commentatori greci e stranieri hanno sottolineato l’afflusso imponente di sostenitori, specie per una forza politica che sino a tre anni fa era solo il quinto partito. Molto dell’interesse suscitato dalle proposte di Alexis Tsipras, il suo presidente, è dovuto al fatto dopo due anni e mezzo di sacrifici, il fronte di chi pensa che si sia stati troppo docili con i diktat Fmi-Ue è in costante allargamento.
LA LISTA DELLE SIEROPOSITIVE
Negli ultimi giorni 45 prostitute sono risultate positive si controlli dell’Hiv e la polizia ha pubblicato i loro nomi. C’è stato un moto d’indignazione dell’opinione pubblica per l’inaccettabile violazione della privacy da parte delle autorità e oltre a ciò questa nuova emergenza sanitaria, con il possibile contagio di migliaia di clienti, viene vista come un’ulteriore prova di un’emergenza più vasta, nella quale la nuova povertà si può mischiare alla miseria più nera ed alla malattia. Malgrado tutto però la fierezza resiste. Anche se in tanti hanno già perso la fiducia: i suicidi dall’inizio della crisi hanno superato quota 1.700. «In molto casi si tratta di persone che non hanno mai sofferto di depressione, non è un fenomeno legato a una determinata classe sociale», spiega la psichiatra Eleni Bekiari. Insieme a un team di suoi colleghi cerca di sostenere le «categorie a rischio forte depressione», dagli imprenditori ai pensionati. Ma il «fattore di rischio», è indubbio, si sta allargando sempre più.
Nel corso della campagna elettorale, la moglie del premio Nobel per la poesia, Odisseas Elytis, ha chiesto che la foto del pluripremiato poeta, ormai scomparso, fosse tolta dagli spot elettorali del centrodestra. Mentre la cantante Alkistis Protopsalti si è lamentata per l’uso di una sua canzone in una manifestazione del Pasok. Nella Grecia dei vestiti usati scambiati come regalo, dei negozianti che svuotano le botteghe la domenica mattina, quasi vergognandosi, delle migliaia di bambini che arrivano a scuola malnutriti, anche gli artisti non vogliono più associare il loro messaggio a quello della politica.

il Fatto 6.5.12
Socialisti e conservatori rischiano il crollo
Grecia, il “voto della collera” ucciderà i partiti
di Piero Benetazzo


È stato definito il “voto della collera”, questa prima verifica elettorale delle misure di austerità volute dall’Europa e passate dal governo che hanno profondamente alterato il panorama sociale del Paese. E rabbia e delusione erano i protagonisti dei comizi conclusivi a cui, dopo una lunga assenza dalla piazza, si sono decisi i due partiti di governo, forse per non violare un’antica tradizione, più probabilmente ansiosi di recuperare l’attenzione popolare. Ma le folle ondeggianti e oceaniche, il senso di una festa corale, erano ricordi del passato. Antonis Samaras – leader dei conservatori di Nuova Democrazia – ha scelto uno stretto viale del centro per ammassare facilmente poche migliaia di persone a cui spiegare il perché dopo un lungo rifiuto abbia accettato il “memorandum europeo”, gridare il suo intenso nazionalismo (la nonna si uccise quando i nazisti invasero Atene) e riproporre la liturgia del suo neo-liberismo (taglio delle tasse, liberalizzazioni, privatizzazioni ). Ma un Paese affranto sembra dargli poco credito; i sondaggi dicono che è lontano persino da quel 33% che segnò, nel 2009, una sconfitta storica.
QUELLO che è stato per decenni il suo oppositore ed ora compagno di governo, il socialista Evangelos Venizelos, non ha saputo rinunciare a Piazza Syntagma, da sempre il santuario del Pasok, dove il fondatore Andrea Papandreu infuocava decine di migliaia di persone. Ma per Venizelos la piazza era semi-vuota, le bandiere afflosciate, gli slogan poco convinti. Alto, grosso, la faccia larga e minacciosa, Venizelos ha lottato a lungo per diventare leader, era considerato un duro, uno “street-fighter”, ma, arrivato a Bruxelles, si è velocemente afflosciato sullo scanno del potere. Ora, con l’eloquio disinvolto dell’avvocato, cerca di spiegare che alle misure di austerità non ci sono alternative. Cerca così di sfruttare le paure e le incertezze dell’opinione pubblica. Ma il partito sembra quasi dissolversi (i sondaggi dicono che dal 44% potrebbe passare al 14 %) con l’assotigliarsi di quello stato sociale per cui ha a lungo combattuto. Il sociologo Costa Panagopoulos sostiene che le incrostazioni ideologiche create da due dittature e da una lunga guerra civile sono saltate e per la prima volta la tradizionale divisione tra destra e sinistra non domina più il dibattito elettorale: il voto si è trasformato in un referendum sulle misure di austerità. Gli ultimi dati sulle miserie del Paese vengono dall’Unicef e dall’Ocse: tra il 23 e il 25% dei bambini greci vive ora al di sotto del livello di povertà e la malnutrizione è diffusa. Ad aver attratto l’attenzione popolare sono soprattutto due schieramenti guidati entrambi da giovani politici disposti a cercare nuove coalizioni. Panos Kamenos viene da Nuova Democrazia è legato alla Chiesa, ha creato il suo partito (“Grecia indipendente”) in un paio di mesi ed i sondaggi gli danno già l’11% dei voti: “La Germania ci considera terra di occupazione, i tedeschi vogliono portarci via la nostra libertà e la nostra sovranità”. Più a sinistra, animato dallo stesso acceso patriottismo, si incontra la “coalizione della sinistra” (Syriza), guidata da Alexis Tsipras, 37 anni, il più giovane leader politico greco. Un passato nel partito comunista, Tsipras è balzato alla ribalta proponendo un ampia coalizione di eurocomunismi, socialisti, socialdemocratici, ambientalisti ed è riuscito a vincere il feroce schematismo che in Grecia ha sempre diviso la sinistra.
SOSTIENE che il suo Paese è diventato “una colonia” e che gli enormi sacrifici dei greci servono solo per il “grande capitale” e per nutrire l’economia tedesca e dei Paesi del Nord. “Ma domenica – grida alla folla – saremo al governo, restaureremo la democrazia e bloccheremo la corsa del Paese verso la distruzione”.

Corriere 6.5.12
Grecia, i vecchi partiti al capolinea
Socialisti e conservatori vanno verso un drastico ridimensionamento
di Davide Frattini


ATENE — La lapide sta appoggiata tra le radici dell'albero. Qualcuno ha inciso nella pietra le parole lasciate in due pagine da Dimitris Christoulas. «Io credo che i giovani senza futuro di questo Paese un giorno prenderanno i fucili e appenderanno a testa in giù i traditori della Grecia». Quelli che il pensionato di 77 anni chiama traditori sono saliti sul palco in questi ultimi giorni di campagna elettorale nella stessa piazza dove lui si è sparato in testa un mese fa.
Il socialista Evangelos Venizelos e il conservatore Antonis Samaras rappresentano i partiti che da quarant'anni dominano la politica: dal 1981 una sola volta hanno totalizzato insieme meno del 79 per cento. Con il voto di oggi tutto potrebbe cambiare. I sondaggi predicono il crollo del Pasok di Venizelos (dal 44 per cento del 2009 al 14) e anche di Nuova democrazia (dal 33 al 21). Il centrodestra dovrebbe vincere la sfida, ma non riuscirebbe a regnare da solo malgrado il premio di maggioranza (50 deputati, per governare ne servono 151).
I greci puniscono le forze che hanno deciso insieme le misure di austerità, il centro si assottiglia e in parlamento dovrebbero entrare una decina di partiti, il doppio di adesso. Si presentano in trentadue, frammentati a sinistra e a destra, tra i neonazisti di Alba d'oro e i fuoriusciti del Pasok. I comunisti del KKE, rimasti fedeli allo stalinismo, favorevoli ad abbandonare l'euro, potrebbero perdere la terza posizione in favore di Syriza, una coalizione di gruppi radicali.
I sondaggisti raccontano di ricevere insulti piuttosto che risposte sulle intenzioni nelle urne. Sette intervistati su dieci non vogliono dire per chi voteranno, gli elettori sotto i quarant'anni (3 milioni sui quasi 10 aventi diritto) sembrano pronti a scegliere l'astensione come protesta. «Sono loro i più colpiti dalla crisi — spiega Petros Linardos, economista al centro studi della confederazione sindacale — e vogliono castigare il Pasok che ha governato negli ultimi anni. I socialisti e il centrodestra non propongono un piano convincente per risolvere la crisi. Minacciano: l'ingovernabilità, l'uscita dall'euro. Ma è un falso dibattito, bisogna ristrutturare l'economia con ricette opposte alle loro, aumentando i salari per far ripartire i consumi».
John Psaropoulos prevede sul Daily Beast di Tina Brown «una supernova elettorale, dove le forze centrifughe spediscono gli elettori nello spazio profondo». Verso gli xenofobi di Alba d'oro, che predicano l'espulsione di tutti gli stranieri, o il messaggio pro euro ma anti austerità di Fotis Kouvelis, che ha fondato Sinistra democratica e da ex recordman dei tremila siepi si prepara a essere corteggiato nella maratona post voto dai due partiti principali perché entri nella coalizione di governo.
La pressione retorica dell'estrema destra ha spinto anche i politici moderati a sparate populiste. Samaras ha definito gli immigrati «tiranni che controllano il Paese», ministri del Pasok li hanno bollati «bomba igienica a orologeria». Una prostituta russa è stata incriminata per essere risultata sieropositiva, i giornali e le televisioni hanno mostrato le foto di altre squillo con l'Hiv. Anche Alexis Tsipras, il giovane leader di Syriza, ha inseguito i proclami nazionalisti, come l'avvertimento di voler cancellare il Memorandum, l'accordo per ripianare il debito siglato con la Troika formata da Unione Europea, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale.

Corriere 6.5.12
Atene e la tentazione russa Il Cremlino guarda al Pireo
Il ruolo di Gazprom e del Monte Athos
di Paolo Valentino


MOSCA — Cosa mette in rapporto fra di loro le odierne elezioni in Grecia, la sanguinosa repressione siriana, un monaco furfante del Monte Athos e la reincoronazione di Vladimir Putin, che domani torna da zar al Cremlino? In che modo eventi così slegati in apparenza si ricompongono in uno scenario geostrategico, forse non realistico a breve termine, ma che sarebbe stolto liquidare come improbabile ossessione da complotto?
Per i cittadini greci che oggi vanno alle urne, l'Europa e le sue dolorose ricette per l'austerità sono sul banco degli imputati. I sondaggi assegnano percentuali superiori al 10% ai Greci indipendenti, il partito di Panos Kammenos, l'ex deputato di Nuova democrazia che si oppone ai tagli imposti dall'Ue e proclama urbi et orbi un'incondizionata ammirazione per la Russia e il suo nuovo/vecchio zar. Teorizza anche che il prossimo megaprestito, di cui avrà sicuramente bisogno, Atene dovrebbe chiederlo proprio a Mosca. Intanto Giorgios Karatzaferis, leader dell'estrema destra del Laos, ha fatto campagna vantando che Putin gli ha scritto una lettera.
Facciamo un passo indietro. È da qualche anno che la penisola ellenica è oggetto di forte attenzione da parte del Grande fratello ortodosso. Non sono solo o tanto i massicci investimenti immobiliari dei nuovi ricchi russi in zone balneari, come il distretto settentrionale di Haldikhi. Né il flusso crescente di turisti che dalla Federazione si muove ogni anno verso coste e isole greche: quest'anno saranno 1 milione, il doppio che nel 2010.
Più interessanti e non disinteressati sono i generosi finanziamenti che il governo e la Chiesa ortodossa russa assicurano a settori della comunità religiosa greca, considerati vicini alla Chiesa di Mosca, in opposizione al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Romfea, sito Internet di notizie ecclesiastiche, è uno dei beneficiari.
Ma il riferimento privilegiato è Hegumen Ephraim, abate del monastero di Vatopedi, considerato l'aristocrazia di Monte Athos. Sfruttando i privilegi accordati ai monaci della montagna sacra, Ephraim ha tessuto una vasta rete di contatti al crocevia tra politica e affari, media per conto di società russe, va e viene da Mosca dove viene ricevuto ai più alti livelli, da Putin al Patriarca Kirill. Sarebbe meglio dire andava e veniva dalla capitale russa, visto che dal dicembre scorso il religioso è in carcere in Grecia, accusato di truffa ai danni dello Stato in una compravendita di terreni. Il suo arresto avvenne proprio al ritorno da una puntata moscovita e provocò reazioni furibonde da parte del patriarcato del Cremlino: «Un atto ostile contro i monaci del Monte Athos e l'intera Chiesa ortodossa», disse all'epoca il metropolita Hilarion, ministro degli Esteri di Kirill. Secondo Sergei Rudov, capo della Fondazione degli Amici del monastero di Vatopedi, «ci sono due ragioni per l'arresto di Ephraim: la prima è che sotto la pressione dell'Unione Europea la Grecia vuole ridurre l'autonomia del Monte Athos; la seconda è la crescente influenza dell'ortodossia russa sulla montagna sacra, mal vista dal Patriarcato di Costantinopoli».
Ma passando dal soft power a cose più tangibili e sostanziose, ecco entrare sulla scena la crisi siriana. È evidente che l'incerta situazione a Damasco sia fonte di grave preoccupazione strategica per Mosca. Tra le molteplici ragioni, un posto centrale occupa l'uso delle due basi navali di Latakia e Tartus che il Cremlino teme di perdere, nel caso di una cacciata di Assad e dell'insediamento di un nuovo regime. Vi ha speso molto il governo russo in questi anni, trasformando Latakia in un moderno porto per sottomarini nucleari e iniziando ad ampliare Tartus, per ospitarvi un giorno i suoi incrociatori lanciamissili. Ed è proprio al Pireo, secondo buone fonti moscovite, che la Russia starebbe pensando, nel caso gli eventi la costringessero a cercare un altro appoggio per la sua flotta nel mediterraneo.
Fantapolitica? Probabilmente, nella Grecia di oggi, governata da forze filoeuropee e filoatlantiche. Ma come reagirebbe all'offerta un Paese disperatamente bisognoso di fonti di reddito, impoverito e gonfio di risentimento verso l'Europa e gli alleati tradizionali, fagocitato da forze populiste? «Un accordo di 30 o 50 anni, che dia alla marina russa diritti di attracco e stazionamento, potrebbe un giorno aver senso per entrambi e portare nelle casse greche fino a 200 miliardi di dollari», ha spiegato sul Financial Times Ian Bremmer, capo del gruppo di consulenza Eurasia.
D'altronde, se le servitù militari della Grecia sono (ancora) off limits, l'offensiva dei russi su altri fronti economici qualche progresso lo sta già facendo. Nel grande bazar delle privatizzazioni, imposte da Bruxelles e dal Fmi nel quadro dell'accordo per il salvataggio finanziario del Paese, è infatti l'onnipotente Gazprom a trovarsi in prima fila per l'acquisto di Depa, la compagnia del gas greca. Mentre una delle sue sussidiarie, Gazprom Neft, è sul punto di rilevare il 35,5% di Hellenic Petroleum, una delle più grandi compagnie di raffinazione. Se Gazprom, come sembra il caso, riuscisse nel suo intento, ogni sforzo europeo di usare il territorio greco come alternativa al South Stream, il gasdotto russo che passando dal Mar Nero porterà il metano verso l'Europa centrale e meridionale, sarebbe definitivamente vanificato.
Non suonano allora semplici grida dalla tundra, esplosioni del machismo putiniano, le feroci critiche di Vladimir Vladimirovich, che ancora in febbraio ha accusato l'Unione Europea di «aver privato la Grecia dell'arma della svalutazione e della possibilità di ristrutturare la sua economia», definendo l'euro «un peso al piede dei greci». «Il resto d'Europa prenda nota — avverte Bremmer — la Grecia oggi sembra priva di opzioni a parte quella europea, ma nel tempo potrebbe averne più di quante pensiamo».

l’Unità 6.5.12
La Spd tenta il colpo in Schleswig-Holstein Nuovo test per Merkel
di Emidio Russo


Testa a testa nei sondaggi tra socialdemocratici e il partito della cancelliera nel piccolo Land tedesco dove si vota oggi. Ma si guarda a Kiel non solo per i temi locali ma anche per la tenuta del «rigorismo» del governo.

È uno dei più piccoli Länder tedeschi (2,8 milioni di abitanti) ma domenica le amministrative nello Schleswig-Holstein, nel nord della Germania, avranno un valore speciale. Si tratterà del secondo di tre appuntamenti elettorali decisivi per la cancelliera Angela Merkel, e la simultaneità con il voto di Parigi e Atene rende paradossalmente Kiel una della città su cui si punteranno gli occhi per vedere quanto consenso abbia ancora il rigorismo della Bundeskanzlerin.
Il partito della cancelliera, con il candidato Jost de Jager, 47 anni, vede un testa a testa, nei sondaggi al 31% con i socialdemocratici di Torsten Albig, 48, ex sindaco del capoluogo e figura piuttosto popolare. La Cdu, che ha governato finora in una coalizione giallo-nera (con i Liberali) potrebbe restare al governo solo se si alleasse con l’Spd, in una grande coalizione. I socialdemocratici, però, mostrano più interesse a un’intesa con i Verdi (dati invece al 12,5%), e a questa alleanza potrebbe far gioco anche un buon risultato del partito della minoranza danese, il «Südschleswigschem Wählerverband», colore blu.
PAURA DEI PIRATI
Decisiva sarà anche la partita dei Liberali, usciti da quasi tutti i parlamenti regionali e dati a lungo nei sondaggi nazionali si sono lievemente ripresi solo nelle ultime settimane ben al di sotto della soglia del 5%. Nello Schleswig-Holstein però
le cose potrebbero andare molto meglio: guidati da Wolfgang Kubicki, leader ben più amato di Philipp Roesler (il vicecancelliere che attualmente conduce il partito raggiungendo consensi personali magrissimi), potrebbero ottenere il 7% dei voti. Anche i Pirati, il vero spauracchio di questa stagione politica in Germania, dati dai sondaggi su base nazionale all’11%, entrerebbero in Parlamento, il terzo caso da settembre scorso, con un 9%. Resterebbe fuori invece la Linke, data al 2,5%.
Ben più importanti, comunque, saranno i risultati delle amministrative del 13 maggio, in Nordreno-Vestfalia. Secondo i dati di un recente sondaggio Forsa, qui Spd e Verdi assieme raggiungerebbero il 47%, e un consenso analogo andrebbe a Cdu, Fdp e Pirati. La sfida fra il ministro Norbert Röttgen, candidato del partito della cancelliera, e la socialdemocratica Hannelore Kraft, volge però tutta a favore di quest’ultima.

l’Unità 6.5.12
Anche la Serbia vota La crisi economica conta più del Kosovo
Il graffito sul muro della Banca centrale la scritta: «Banca di Berlino»
di Marina Mastroluca


Elezioni generali in Serbia, la sfida per la presidenza tra il democratico Tadic e il nazionalista moderato Nikolic. Votano anche i serbi del Kosovo, la Nato ha inviato rinforzi. Appello alla calma del segretario Rasmussen

Sulla carta il vincitore non può che essere Boris Tadic, il democratico pacato che ha traghettato Belgrado dalle secche del nazionalismo alle porte dell’Europa: nel marzo scorso la Serbia ha ottenuto finalmente lo status di Paese candidato all’ingresso nella Ue, dopo aver pagato il conto del suo passato con l’arresto dei criminali di guerra Radovan Karadzic, il generale Ratko Mladic e da ultimo Goran Hadzic. In prospettiva investimenti europei, nuovi mercati, più lavoro. Nella realtà quell’Europa tanto attesa da quello che Slovenia esclusa è sempre stato il più europeo dei Paesi balcanici oggi non ha più lo stesso appeal di una volta. E al voto di oggi Tadic e il suo partito democratico (centro sinistra, affiliato a livello europeo al partito socialista) non hanno certezze definitive.
Elezioni generali in Serbia, presidenziali, politiche e amministrative accorpate per ragioni di cassa oltre che politiche. Dodici candidati in gara per la presidenza, ma la sfida vera si riduce al duello tra Tadic e il nazionalista moderato Tomislav Nikolic, ex braccio destro di Voijslav Seselj, già leader del partito radicale serbo oggi agli arresti per crimini di guerra. Tra i due il primo è in vantaggio nei sondaggi 36 a 35 secondo le ultime rilevazioni non abbastanza da evitare il secondo turno il prossimo 20 maggio. Ma il partito del progresso serbo di Nikolic, nato da una costola dell’ultra-nazionalista partito radicale e convertitosi all’idea di una Serbia europea, è invece il favorito alle elezioni politiche (33%) grazie anche ad una campagna elettorale giocata tutta sull’incapacità del governo attuale democratici e socialisti di far fronte alla crisi. Vittoria di posizione, ma non necessariamente di sostanza, la sua.
Difficilmente Nikolic riuscirà a trovare alleati per governare, mentre il partito democratico potrebbe rinnovare l’alleanza con i socialisti.
«Coloro che ci hanno fatto vergognare» in passato, ha detto il presidente uscente durante un comizio elettorale, non dovrebbero poter governare. Affondo facile facile vista la contiguità tra Seselj e Nikolic. Il punto vero però è che il solido aggancio europeo garantito dal partito democratico non è più sufficiente: colpa della crisi che scuote alle radici la costruzione europea, ma anche del fatto che la Ue finora è stata percepita solo un insieme di condizioni, senza reali benefici. È dal 2000 che Belgrado resta alla porta e ora che si trova ad un passo l’immagine dell’Europa è più sbiadita che mai.
RINFORZI NATO IN KOSOVO
La campagna elettorale di Tadic ha battuto comunque sul tema dell’integrazione europea, come tappa indispensabile per la crescita della Serbia. Nikolic ha puntato soprattutto sulla necessità di migliorare le condizioni di vita dei cittadini, in un Paese dove la disoccupazione è arrivata al 24%, l’inflazione all’11 e lo stipendio medio non supera i 300 euro al mese.
Più in sordina l’eterno dossier del Kosovo, entrato solo marginalmente nella campagna elettorale ma non per questo meno caldo. Tadic, che pure ha ottenuto di far partecipare a politiche presidenziali anche i cittadini serbi del Kosovo, ha detto a chiare lettere che intende sostenere una soluzione pacifica. «Non penso che il Kosovo sia il cuore della Serbia. Ma non permetto che lo calpestino», ha detto Tadic, parole che in altri tempi sarebbero suonate eretiche. Al contrario Nikolic, solo fino a poco tempo fa incline a fare della Serbia una regione russa, ha detto che di fronte alla prospettiva di entrare nella Ue senza Kosovo «risponderemo, no grazie». Il voto di oggi è visto comunque come una sfida dalle autorità di Pristina. La Nato ha inviato rinforzi, appello alla calma del segretario Rasmussen. Belgrado incrocia le dita.

Corriere 6.5.12
La Serbia si divide tra filoeuropei e nazional-populisti
Si vota anche in parte del Kosovo
di Mara Gergolet


C'è anche la Serbia chiamata a votare, in questa tornata elettorale europea che si estende dallo Schleswig Holstein tedesco ai Balcani profondi della Grecia. E lo fa con un vero e proprio big bang della politica, perché oggi si sceglieranno in contemporanea il presidente, il Parlamento, numerose amministrazioni locali e il governo della Vojvodina, la più ricca, multietnica e autonoma delle sue province. Tutto perché il presidente Boris Tadic, dimettendosi, ha voluto risparmiare — con un unico election day — un po' di denaro pubblico in un Paese provato dalla crisi non meno di altri nell'Europa del sud.
Sarà, a semplificare molto, una partita a due proprio tra l'europeista Boris Tadic e il postpopulista Tomislav Nikolic. L'uomo che alla guida del partito progressista serbo (il Sns, che non necessariamente per il nome è un partito di sinistra, almeno sul modello europeo) ha ripulito quella forma di nazionalismo e populismo a tutela dei ceti più deboli che in Serbia è sempre andata forte. Anche se oggi Nikolic, a differenza di quel che diceva anni fa e di ciò che ancora pensa il suo mentore Vojislav Seselj processato all'Aia, è anche lui a favore dell'integrazione europea.
Tadic, leader del partito democratico Ds, è favorito alle Presidenziali. Ma in questa sfida incrociata e doppia, il partito di Nikolic è dato in vantaggio alle parlamentari (33% contro 28%). Dovesse spuntarla al Parlamento, Nikolic difficilmente potrebbe insidiare Tadic al ballottaggio per la presidenza tra due settimane. Il rischio però è di un Paese bloccato, con la presidenza agli europeisti e un Parlamento, almeno simbolicamente, dominato dai «nazionalisti». La parola decisiva potrebbe quindi spettare ai postsocialisti di Ivica Dacic, gli eredi di Milosevic. Pragmatico e amato per il suo parlare ed agire netto (quando i kosovari arrestarono alcuni serbi, lui ministro dell'Interno per risposta arrestò alcuni albanesi), Dacic potrebbe confermarsi (l'improbabile) miglior alleato dell'europeista Tadic.
Certo, a scorrere le liste presidenziali, c'è sempre un certo passato che ritorna. Jadranka Seselj, la moglie del tribuno della pulizia etnica Vojislav, unghie bordeaux e lunghi cappelli tinto-corvini, in lizza per gli ultranazionalisti. L'intramontabile Vojislav Kostunica. Ceda Jovanovic, l'attore che trattò la resa con Milosevic nella lunga notte del 30 marzo 2001, l'unico pronto a cedere il Kosovo. Più che protagonisti, comparse.
Il voto è tutto sull'economia. Non potrebbe essere altrimenti quando i disoccupati sono il 24%, e il 40% del Pil lo produce l'economia in nero. E anche se la Fiat investe e i cinesi stanno costruendo il secondo ponte sul Danubio a Belgrado, la crisi morde. A marzo i pensionati erano più degli occupati. Secondo un recente sondaggio, l'80% dei serbi è deluso o arrabbiato, il 77% non ha speranze, il 60% è semplicemente depresso. L'Unione Europea? Accettabile per i più, ma non è che questo risollevi un Paese.
Vota anche il Kosovo. Almeno quella provincia del Nord, dove l'Osce è riuscita dopo le iniziali resistenze di Pristina a organizzare i seggi. Cinquantamila persone, legati da storia, politica, soldi alla madrepatria. La Nato fa appelli alla calma. Ma non votano gli altri 80mila serbi sparsi nelle enclave, dati per persi con questo voto anche da Belgrado. E però, se il Kosovo condiziona tutta la politica estera e perfino le prospettive di Belgrado (come un tempo avevano fatto Milosevic e i criminali di guerra latitanti) in questa campagna elettorale quella regione torna a essere, se non dimenticata, almeno marginale.

La Stampa 6.5.12
I test elettorali incombono sul futuro dell’euro
La nuova via dell’Europa nasce dai voti di protesta
di Bill Emmott


La democrazia è, essenzialmente, un meccanismo di controllo, di responsabilità. Dunque le elezioni sono l’occasione per esprimere la rabbia, per protestare, per punire chi è stato al governo nei periodi difficili. Il voto di oggi, in Francia, Grecia, Italia e Germania, così come le consultazioni locali il 3 maggio in Gran Bretagna, sarà principalmente un momento di protesta. Ma potrebbe anche costituire un punto di svolta.
La protesta non sorprende considerando che gran parte dell’Europa occidentale è alla sua seconda recessione nel giro di cinque anni, i disoccupati sono almeno un decimo della forza lavoro e la disoccupazione giovanile è al 30% in Italia e 50% in Spagna e Grecia.
E in particolare non sorprende perché c’è così poco in cui sperare o essere ottimisti. La politica dei governi dell’Eurozona è dominata dall’austerità fiscale, dalla riduzione dei deficit di bilancio attraverso l’aumento delle tasse e dalla riduzione della spesa pubblica. Per quei Paesi, come l’Italia, con un debito pubblico così ingente che i creditori non sono più disposti a finanziarlo salvo che non sia tagliato, l’austerità è inevitabile, ma garantisce recessione, disoccupazione e mancanza di speranza, almeno quando è l’unica politica e viene presentata come la sola strada percorribile.
Le politiche pubbliche dominate dall’austerità, il mantra sulla disciplina fiscale come unica direzione possibile, sono ciò che rendono le elezioni di oggi, in particolare quelle in Grecia e in Francia, un potenziale punto di svolta. La difficoltà nel prevedere ciò che porteranno, tuttavia, deriva dal fatto che la Grecia e la Francia potrebbero, potenzialmente, indirizzare l’Europa su nuove vie.
Le elezioni parlamentari greche sono importanti perché nel corpo dei 17 Paesi dell’Eurozona, la Grecia è la parte più malata, l’arto in cancrena. La sua economia è in recessione per il quarto anno consecutivo.
Nonostante i diversi massicci salvataggi finanziari e i grossi sconti sul suo debito pubblico da parte dei creditori privati, la Grecia con ogni evidenza continua a non riuscire ad affrontare il suo attuale livello di debito. Si dovrà scovare qualche nuova soluzione.
Come in tutte le elezioni europee oggi in Grecia i partiti estremisti e di protesta hanno buone prospettive. Ma mentre un largo consenso per il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo non trasformerà la politica italiana o cambierà le politiche del presidente Monti, molti voti agli estremisti greci, inclusa, soprattutto, l’ultra-destra dell’Alba d’oro, potrebbero trasformare la politica greca e il suo percorso se basteranno a fare sì che i due principali grandi partiti, Nea Demokratia e il socialista Pasok, non saranno in grado di avere la maggioranza in una coalizione.
Il modo più importante in cui tali soggetti potrebbero trasformare la politica greca è cambiare il rapporto di forze in Parlamento, orientandolo contro la prosecuzione dell’austerità e delle riforme, il che significa quasi certamente contro il proseguimento dell’adesione all’euro.
La maggior parte degli economisti privati hanno a lungo considerato che un completo default del debito greco sia più o meno inevitabile, ma hanno previsto che questo momento non sarebbe arrivato fino al 2013, quando l’austerità fiscale potrebbe essere progredita abbastanza da permettere al Paese di sopravvivere senza nuovi prestiti stranieri. Ma un voto di grandi proporzioni per i partiti estremisti oggi potrebbe avvicinare la data del default.
L’uscita della Grecia dall’euro sarebbe, a parere di questo commentatore economico britannico almeno, salutare per l’euro, così come è bene, per un corpo umano, se un arto in cancrena viene amputato. Ma, proprio come in un’operazione chirurgica, ci sarebbero rischi, in particolare il panico dei mercati obbligazionari e forse nuovi crolli tra le banche europee. Sarebbe un momento molto pericoloso.
Vale anche per la Francia se questo Paese oggi elegge come suo presidente François Hollande, il socialista? No, non nello stesso modo. A differenza del presidente Nicolas Sarkozy, il signor Hollande è un tipico membro dell’élite francese, educato in una delle sue «grandes écoles». Non sarà un pericoloso radicale. Ma la sua elezione potrebbe cambiare tutto il dibattito europeo sulla crescita economica.
Una vittoria di Hollande causerà, questo sì, qualche pericolo a breve termine. Questo deriva dal fatto che a giugno in Francia si terranno anche le elezioni generali parlamentari, e così il signor Hollande saprà quanto potrà essere forte il suo governo solo dopo il voto di giugno. Egli, in effetti, dovrà fare campagna elettorale ancora per un mese, nella speranza di influenzare i sondaggi e questo aumenterà l’incertezza che circonda l’Europa.
Principalmente, però, l’elezione di Hollande sarà importante perché promette di rilanciare o forse, per meglio dire, destabilizzare, le relazioni inter-governative centrali in Europa, che sono quelle tra Germania e Francia, prima di tutto, e poi tra questi due e gli altri grandi Paesi, il che significa Italia, Spagna, Paesi Bassi e, in modo più distaccato, Gran Bretagna.
François Hollande ha detto che vuole un nuovo accento sulla crescita e che per ottenerlo rinegozierà il trattato fiscale di dicembre. La questione che rimane da risolvere è cosa questo può e vuole dire. Non significa una modifica delle norme che disciplinano il deficit di bilancio e il debito: la Germania non accetterà un tale cambiamento e la Francia non avrebbe il coraggio di chiederlo. Ma potrebbe significare due altre cose.
Un «patto per crescere», come ha chiesto il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, può significare soltanto una combinazione di liberalizzazione del mercato e maggiori investimenti pubblici nelle infrastrutture. La liberalizzazione del mercato, sotto forma di un esteso e approfondito Mercato unico europeo, è quello che ha chiesto a febbraio Mario Monti nella lettera agli altri governi europei, firmata anche dal britannico David Cameron e da altri nove. Finora la Francia si è opposta e il signor Hollande ha fatto una campagna contro la liberalizzazione.
L’altro aspetto, e cioè gli investimenti pubblici, è possibile solo se i Paesi con buoni rating e bassi costi finanziari decidono di finanziarli. Questo dovrebbe essere fatto attraverso una grande espansione della Banca europea per gli investimenti, con capitali provenienti principalmente dalla Germania e da altri creditori.
Perché la Germania dovrebbe essere d’accordo? La prima risposta è che i tedeschi, come tutti gli altri, si rendono conto che la recessione protratta a lungo è politicamente pericolosa. Più a lungo si va avanti, più i partiti estremisti ne trarranno vantaggio. La seconda risposta è che se la Francia dovesse fare un patto con l’Italia e gli altri Paesi, e almeno appoggiare la liberalizzazione del mercato, ci sarebbe la possibilità di un ritorno: più investimenti pubblici in cambio di una riforma più strutturale, che i tedeschi dovrebbero approvare. In tali circostanze sarebbe difficile per la Germania bloccare una direzione completamente supportata da Mario Monti.
E la terza risposta è che anche la Germania andrà presto al voto, nell’autunno del 2013. Se per allora, la situazione economica europea sarà ulteriormente peggiorata, allora anche il Cancelliere Angela Merkel dovrà affrontare le proteste. I suoi partner di coalizione, i liberaldemocratici, sono praticamente morti come partito politico.
Nel 2013 la sua scelta di un nuovo partner cadrà sul partito dei Verdi o su una grande coalizione con il partito socialdemocratico, il principale movimento di opposizione. Lei allora sarà in una posizione più forte se sarà vista come chi ha davvero salvato l’euro e con esso l’economia europea. Le elezioni di oggi in Grecia potrebbero essere pericolose per questo progetto, le elezioni in Francia, lo metteranno in discussione, ma con la Francia, almeno, un accordo è possibile.
(Traduzione di Carla Reschia)

Repubblica 6.5.12
Gli arrabbiati che vogliono cambiare il mondo
di Eugenio Scalfari


SAPREMO tra poche ore se Hollande sarà eletto presidente della Francia e sapremo domani l´esito delle elezioni amministrative italiane dove nove milioni di cittadini hanno diritto di votare per mille Comuni al di sopra dei 15 mila abitanti. Quale sarà l´affluenza alle urne è tuttora un punto interrogativo ed è un´incognita della massima importanza.
Sapremo subito dopo qualche giorno quale sarà il nuovo governo francese e anche i risultati delle elezioni in Egitto e delle cantonali in Germania.
Si apre insomma una settimana densa di fatti politici con ripercussioni economiche e soprattutto sociali. Ma un fenomeno appare tuttora con prepotente evidenza ed è la rabbia crescente che si va diffondendo in Europa contro le politiche di rigore che colpiscono i più deboli e risparmiano i più forti ed è proprio da questo punto che dobbiamo partire, su questa rabbia dobbiamo ragionare indagando sulle cause che l´hanno scatenata, sugli obiettivi che gli arrabbiati si propongono di raggiungere, sui modi per incanalarla verso processi costruttivi affinché produca novità utili alla convivenza e non semplicemente devastazioni e rovina.
Su questi temi ci stiamo cimentando ormai da molte settimane, ma il panorama nazionale, europeo e mondiale cambia di giorno in giorno con estrema rapidità, sicché l´indagine richiede continui aggiornamenti e revisioni.
La rabbia cresce, non c´è dubbio, ma chi sono gli arrabbiati? Con chi ce l´hanno e che cosa vogliono? Sono queste le prime domande alle quali dobbiamo rispondere.
Gli arrabbiati, quelli veri e non quelli inventati dai demagoghi che vogliono specularci sopra per procurarsi un proprio tornaconto, appartengono a quella massa indistinta di persone che chiamiamo ceto medio. In tempi assai remoti lo si chiamava terzo stato, poi arrivò il quarto stato, il proletariato e la classe operaia, braccianti e coltivatori compresi.
Nella trottola che descrive la distribuzione del reddito costituivano la pancia al di sopra della quale c´era la borghesia produttiva e sotto la quale i poveri che campavano di espedienti.
Qualcuno saliva e qualcun altro scendeva i gradini di quella trottola ma la figura rimaneva nel suo complesso immutata nelle società economicamente avanzate.
Da qualche decennio però la situazione è profondamente cambiata. Se vogliamo restringere all´Europa di cui facciamo parte il nostro campo d´osservazione, il mutamento diventò visibile a partire dagli anni Ottanta e si manifestò in tutta la sua evidenza dai primi anni Novanta del secolo scorso, raggiungendo il culmine negli ultimi cinque anni.
Non è più una trottola la figura che descrive la distribuzione dei redditi e dei patrimoni, ma una piramide.
Una piramide singolare tuttavia, che si assottiglia molto lentamente. Dalla base fino ad oltre la metà la figura è una sorta di cubo che contiene patrimoni dove il passivo (cioè i debiti) è più consistente dell´attivo mentre il reddito oscilla tra i 5 mila e i 15 mila euro. Da quel livello in poi, al cubo che fa da base a quella figura se ne sovrappongono altri: dai 15 ai 25 mila e poi un altro più piccolo fino ai 40 mila e un altro ancora fino ai 60 mila, ma di volume sempre decrescente. L´ultimo cubetto arriva agli 80-90 mila. Da qui in avanti comincia la cuspide della piramide che si assottiglia sempre più fino ad arrivare alla punta di 300 mila euro. Oltre quel livello se ne perdono le tracce, nel senso che i redditi dai 300 mila in su sono di pertinenza di pochi ricchissimi il cui numero è di centinaia e poi di poche decine di soggetti.
La massa, che chiamiamo ceto medio e che però medio non è più, sta comunque al di sotto dei 40 mila euro di reddito annuo e il patrimonio si compone di molti debiti e scarsi attivi, per lo più immobiliari. Qui si addensa la grande maggioranza della società. Non tutti lavorano stabilmente.
Una quota crescente è composta da giovani con lavoro precario. Molti sono pensionati. Questa massa di persone in Italia, in Spagna, in Grecia, in Portogallo, in Irlanda, in Olanda, in Austria, nei Paesi baltici, nei Balcani, è impaurita e da almeno quattro anni si sente sempre più insicura. Negli ultimi due anni queste persone hanno una grande rabbia in corpo. Da un anno in qua sono arrabbiati e disperati e lo mostrano pubblicamente.
* * *
L´elenco degli arrabbiati in Italia (quelli veri) non è lungo ma il loro numero è abbastanza elevato.
I più numerosi sono i proprietari di case colpiti dall´Imu, i disoccupati, i sottoccupati e i precari. Seguono i pensionati passati dal retributivo al contributivo, cioè soprattutto la generazione dei cinquantenni, tra i quali gli "esodati" per i quali il governo sta provvedendo alle necessarie tutele.
Calcolare il numero complessivo di questa massa di persone non è facile anche perché ci sono parecchie duplicazioni, ma non si è lontani dal vero stimandoli complessivamente a 12 milioni e forse anche più. In tutte le classi di età e su tutto il territorio nazionale.
Che cosa vogliono? Anzitutto essere ascoltati dal governo e dai sindaci.
Chi li rappresenta? I sindacati per circa il 40 per cento. Alcuni movimenti di protesta sociale per circa un 30 per cento. Alcuni partiti per un 15-20 per cento. Ma si tratta in tutti i casi di forme di rappresentanza assai mobili e più occasionali che strutturate e fidelizzate: un mare in tempesta che guarda con sospetto le rappresentanze politiche e con speranzoso scetticismo quelle sindacali.
La realtà vera è che sono una massa fluttuante ad alta emotività. Da questo punto di vista il caso italiano ha scarsi riscontri negli altri Paesi europei.
Se prendete il caso francese, lì gli arrabbiati sono concentrati con la Le Pen. Il resto vede ancora nei partiti il tramite naturale rispetto alle istituzioni. Analoghi fenomeni avvengono anche in Austria, in Olanda, in Germania: gli arrabbiati si riconoscono in una forza che di solito oscilla tra il 10 e il 15 per cento.
Da noi c´era un tempo la Lega che adempiva a questo compito ma intercettava una protesta limitata dal territorio.
Adesso anche la Lega ha perso una parte consistente della sua tradizionale fidelizzazione.
La massa fluttuante degli arrabbiati, proprio perché non ancorata se non alle emozioni, è ancora più pericolosa perché può essere facilmente preda della peggiore demagogia. Anche quel che resta della Lega ha purtroppo imboccato questa strada, la tesi dello sciopero fiscale è infatti pura demagogia e così tutti quelli che individuano in Equitalia il vampiro da trattare come bersaglio anche fisico. In un Paese di evasori atteggiamenti di questo tipo esprimono il massimo di irresponsabilità e di infantilismo.
Una parte dei "media" offre le sue pagine e i suoi teleschermi all´amplificazione di questi fenomeni dimenticando che i tumulti dei ciompi sono sempre stati all´origine delle tirannie.
Poche sere fa una grande rete televisiva come Sky ha dato voce per lunghi minuti al proprietario della squadra di calcio del Palermo. Tra molte altre sciocchezze, Zamparini ha rivendicato alla Regione Sicilia il diritto di battere una propria moneta. Richieste del genere non rappresentano un´opposizione e neppure una rabbiosa protesta ma una profonda e purtroppo abbastanza diffusa imbecillità.
* * *
Mi auguro che tra poco sapremo della vittoria di Hollande.
Mi auguro che i nostri partiti compiano al più presto una radicale riforma del loro modo di finanziare le proprie attività politiche. Mi auguro che cambino in modo serio la legge elettorale sulla base d´una proporzionalità governabile.
Mi auguro che Monti affianchi le proposte di Hollande, non per isolare la Germania, ma per portarla finalmente alla guida di un´Europa che affronti con coerenza e tenacia il tema della crescita con lo stesso rigore pignolo con il quale ha affrontato il tema del risanamento finanziario. Mi auguro che Draghi prosegua nella sua politica di attiva liquidità e spinga le banche europee a rimettere in moto il finanziamento degli investimenti privati.
Mi auguro che la lotta all´evasione sia proseguita con tenacia e senza inutili folclorismi. Mi auguro che la Rai sia governata da persone che la liberino dalle consorterie e la restituiscano ad una funzione di grande agenzia giornalistica e culturale.
Mi auguro che il governo tenga ferma la barra del rigore ma inauguri con altrettanta fermezza la politica di sviluppo non aspettando il 2014 ma subito, attaccando le diseguaglianze, tagliando coraggiosamente le spese inutili, aumentando gli investimenti pubblici e alleggerendo le imposte sul ceto medio per ridargli fiducia e speranza. E se ci fosse bisogno per procurarsi le risorse necessarie di tassare i vertici di quella singolare piramide che abbiamo descritto, lo faccia e sarà applaudito da tutti e perfino dai ricchi messi a contributo, che debbono esporre la loro ricchezza e i doveri che ne conseguono come un vanto e non come una colpa.
Mi auguro infine che i giornali e le televisioni riferiscano le notizie e ne spieghino il significato senza trasformare il giornalismo in un "burlesque" demagogico e spesso osceno.
Forse l´elenco degli auspici qui formulati è troppo lungo perché possa interamente avverarsi. Quindi lo stringo all´essenziale: mi auguro che tutte le istituzioni e tutti gli italiani assumano a guida dei loro comportamenti pubblici le indicazioni che il presidente Giorgio Napolitano lancia ogni giorno in tutte le direzioni per fare del nostro Paese una comunità che tenga alto il senso di responsabilità, i principi di libertà e di eguaglianza e un alto disegno di patria nazionale ed europea perché, con i tempi che corrono, l´uno non si dà senza l´altro.

l’Unità 6.5.12
Senza umanità cittadini lasciati soli
di Luigi Cancrini


L’ondata dei suicidi continua. Quello che non si può accettare però è il silenzio con cui chi potrebbe e dovrebbe intervenire accoglie questo insieme di gesti disperati. Nessuno al Governo ha dato una risposta alle vedove che si sono riunite in corteo a Bologna. Atroci per la loro semplicità le storie di questi cittadini che se ne vanno lasciando in eredità alle loro famiglie soltanto i loro debiti propongono interrogativi inquietanti, invece, a chi ha responsabilità di Governo. Suggeriscono, in qualche modo, delle risposte.
«È morto di crediti, non di debiti» dice la moglie di uno di loro. Sottolineando, a nome di tanti altri, il paradosso di chi, dal mondo delle imprese o del privato sociale, vanta nei confronti della Pubblica Amministrazione crediti molto maggiori del valore delle tasse che deve pagare. Il ritardo nei pagamenti, nel sanitario come nel sociale e nelle opere pubbliche, ha superato da tempo i livelli di guardia. Tu devi anticipare le spese, compresi i contributi all’Inps, aspettando che il Comune o l’Asl ti paghi. Se ci riesci, aspetti poi mesi e a volte anni per rientrare di ciò che hai anticipato perdendo il tuo utile in interessi bancari. Se non ci riesci, anche per pochi euro, e ancora peggio perché non ti danno il DURC (documento unico di regolarità contributiva) e quello che ti verrà negato e anche il pagamento quando arriva per il lavoro che hai già fatto. La disperazione può davvero stringerti al collo, in quel momento, se senti il Presidente del Consiglio dire «no, compensare non è possibile» che vuol dire «prima paghi e poi vedremo se e quando riusciremo a pagarti» o il funzionario di Equitalia che dice «rateizzare? Forse, ripassi il mese prossimo» mentre le banche storgono sempre più il naso se tu provi a chiedere aiuto, gli amici
scompaiono e i soldi corrono. Un fisco amico? Quello di cui
ci sarebbe bisogno, mi dico, è un insieme di persone gentili con cui si può parlare e trattare. C’è una legge dello Stato che dice che “compensare” si può se il fisco è d’accordo. C’è il buon senso che dice che si potrebbe far pagare direttamente il dovuto dal contribuente ad Equitalia o all’Inps defalcandolo da ciò che devi da ciò che ti sarebbe dovuto. E’ la pioggia di no e di sportelli chiusi quello che ti fa perdere il senso della realtà, e la freddezza della cartella su cui non si può discutere quella su cui arriva alla disperazione l’uomo di 72 anni che è morto ieri che non sapeva a chi rivolgersi per pagare.
Suicidi come questi andrebbero interpretati, come faceva Durckeim come dei messaggi da leggere. Come indicatori di un problema che esiste e non come un insieme di gesti di pazzia.
Vogliamo assicurare a tutti quelli che hanno problemi con le tasse uno spazio per parlarne? Trovare insieme delle soluzioni è sempre possibile se ci si siede intorno ad un tavolo e le si cerca insieme. L’idea di un fisco implacabile, forte coi deboli e debole coi forti (dalle transazioni finanziarie allo scudo fiscale) è sempre più intollerabile. Folle, in queste condizioni, non è solo la reazione di chi si dispera, quello che sta impazzendo è un intero sistema di convivenza sempre meno civile.

il Fatto 6.5.12
La società dei suicidi
di Silvia Truzzi


La bandiera bianca è il simbolo della rinuncia. Eppure sui drappi candidi che sfilavano venerdì a Bologna, sostenuti dalle “vedove della crisi”, c’era ancora un velo di resistenza. Non stupisce vedere tante donne in questa macabra sfilata della recessione economica. Sulle loro spalle – guardate le vostre madri, amiche, compagne e sorelle ricade troppo spesso la gestione delle fatiche familiari di accudimento, cura, sopportazione, lotta. Dall’inizio del 2012 sono 73 le persone che si sono tolte la vita a causa della crisi e della mancanza di lavoro: lavoratori licenziati, imprenditori in crisi, disoccupati. Solo il mese scorso si sono suicidati in nove. Il 28 marzo, davanti alla sede della Commissione tributaria di Bologna, Giuseppe Campaniello, un artigiano nei guai con il fisco, si è dato fuoco. È morto dopo un’agonia di qualche giorno all’ospedale di Parma. Sua moglie, Tiziana Marrone, ha organizzato la manifestazione di venerdì: “La disperazione è totale, mio marito non si è sentito sostenuto, non avrebbe mai fatto una cosa del genere. I nostri mariti erano disperati, non pazzi”. Il suicidio è un atto sconvolgente, complesso soprattutto dal punto di vista della comprensione. Una questione privata, assolutamente individuale, che in questo caso ha però un tratto comune. Si tratta, pur nella diversità delle situazioni, di persone tutte gravate da problemi economici. Per questo è rischioso ma doveroso avventurarsi su una strada tanto sdrucciolevole, dove il dolore e la fragilità segnano la linea di mezzeria e non ci sono guard rail a protezione. La signora Marrone ha lanciato un appello a coloro che si sentono strangolati dalla crisi e dai debiti chiedendo che “chi è nelle stesse condizioni di mio marito parli con le proprie famiglie”. Suo marito non le aveva detto nulla. E questo silenzio è diventato la culla di una tragedia, in cui un uomo annientato dalla paura di un orizzonte cieco ha fatto la cosa più terribile. E tanti come lui: queste tragedie sono un dolore personale e familiare, ma anche sociale. Il dovere di una comunità dovrebbe essere dare speranza a tutti. “Il primo diritto di ogni persona è di poter vivere una vita sensata, e a ciò corrisponde il dovere della società di crearne le condizioni”, ha detto Gustavo Zagrebelsky parlando proprio del suicidio. Ovviamente non ha senso dire “è colpa di Monti”, o chi per lui. Forse ha più senso chiedere che chi può non si giri dall’altra parte, che faccia qualcosa. Ma non basta. ''Io non dormo dal 28 marzo, ho bisogno delle istituzioni per andare avanti, ma chiedo anche di essere lasciata in pace perché se lui sa che sono tranquilla riposerà il pace anche lui. Non ho un lavoro e non so come fare a vivere e ho paura che lo Stato venga a bussare alla mia porta. Si sono già presi mio marito, mi chiedo che altro vogliano da me”. Con queste parole Tiziana Marrone dà l’avvertimento decisivo alle persone che si sentono senza via d’uscita come suo marito: “adesso sono sola”. Lei, come le altre vedove, deve affrontare oltre al dolore della perdita, la difficoltà pratica della vita quotidiana. Non si può giudicare chi si toglie la vita: di fronte ai drammi ultimi non c’è opinione, solo il sentimento di chi compie un gesto definitivo. Non è protervia ricordare che attorno, dopo, non c’è solo il vuoto di chi se n’è andato ma soprattutto la pena e la fatica di chi resta. E questo, per chi pensa di dire addio, può essere forse un pensiero salvifico.

l’Unità 6.5.12
In piazza. Il centrosinistra con i movimenti, Wwf e Legambiente
Gli slogan: «Rispettate il referendum». In ballo il 21% di azioni Acea
Diecimila in corteo contro Alemanno: l’acqua non si svende
di Federica Fantozzi



In 10mila sfilano contro il progetto di vendere a privati il 21% delle quote Acea. Pd, Idv e Sel insieme a movimenti, centri sociali, Cgil, Wwf, Legambiente, Salvaciclisti, immigrati e cittadini comuni.

Magliette lucenti come squame e poster tra i denti: «Muti come pesci ma non assenti». Bandiere blu imperiose a memento del referendum: «Il mio voto va rispettato». Palloncini arancioni, l’orso panda del Wwf, il cigno verde di Legambiente.
Ieri 10mila romani hanno sfilato da piazza Vittorio a Santi Apostoli contro la parziale privatizzazione dell’Acea, l’azienda municipale dell’acqua. Assestando al sindaco Alemanno un metaforico gigantesco gavettone. E il serpentone di mille colori, a dispetto delle fosche previsioni di tumultuosi infiltrati, ha attraversato il centro senza incidenti né malumori.
ORCHESTRA & PALLONCINI
Il corteo era stato organizzato dai partiti di centrosinistra Pd, Sel e Idv dai movimenti e dalle associazioni «in difesa dell’acqua». In testa il megastriscione ammoniva: «Roma non si vende, l’acqua non si svende». Nel mirino la prevista vendita del 21% delle quote di Acea da parte del Comune. Sia perché, spiega chi c’era, così si tradirebbe il referendum che ha sancito la natura pubblica dell’“oro blu”, sia perché nell’ultimo anno il valore delle azioni è crollato. «Significa spiega Carlo, precario in un call center che i mercati sentono odore di difficoltà e non si fidano. Le voci di smembramento tolgono valore all’azienda. Bisogna
invertire questa tendenza».
In piazza c’è il Pd capitolino (che di questa battaglia ha fatto una bandiera in consiglio comunale e promette di continuare su questa linea) al completo. Il segretario Marco Miccoli e il capogruppo Umberto Marroni chiedono la revoca della delibera: «Alemanno non può andare contro la volontà di un milione e 200mila cittadini che si sono espressi nella consultazione popolare».
OBIETTIVO RETROMARCIA
Il dipietrista Stefano Pedica è infervorato: «L’acqua è un bene dell’umanità e Alemanno la vuole cedere ai Caltagirone. È inutile nascondersi dietro un dito, vuole regalarla ai privati». Anche Stefano Fassina invita il Comune alla retromarcia: «Acea è una azienda di rilevanza nazionale, di grandi potenzialità e va valorizzata da un’efficiente gestione pubblica».
Sfilano l’Anpi, i Cobas, i Giovani Democratici, Action e il centro sociale «Corto Circuito», i Salvaciclisti e i minisindaci con fascia tricolore, immigrati e ambientalisti, l’orchestra La Titubanda. Insieme a famiglie, passeggini, ragazzi con le biciclette, skateboard e rollerblades, cani socievoli, una quota di turisti a zonzo per godersi la giornata: la folla abituale che frequenta le manifestazioni pacifiche. I timori, ventilati, di blitz di esponenti di centri sociali più aggressivi, si sciolgono presto.
C’è il segretario regionale della Cgil Claudio Di Berardino. C’è il nuovo segretario del Pd del Lazio, Enrico Gasbarra, che mette in mora il sindaco in cerca del mandato bis: «Alemanno ritiri il provvedimento su Acea. Continuando a inseguire un progetto così economicamente scellerato si rischia di minare l’equilibrio finanziario e sociale della capitale già scosso dalla crisi e dal malgoverno della destra. Non sia cieco e sordo alle invocazioni di migliaia di romani». Poi Gasbarra tira la stoccata: «Rispetti gli elettori a cui nel 2008 nessuno aveva proposto questa operazione. Se è convinto del suo progetto si muova nel binario della democrazia: fermi il provvedimento fino alle amministrative del 2013. Leghi questa proposta alla sua ricandidatura e vediamo se i romani lo voteranno».
CAMPIDOGLIO BLINDATO
Proposta che difficilmente Alemanno accetterà. Ieri ha derubricato a 2mila i partecipanti al corteo, ribadito che «l’acqua resterà pubblica, Acea sarà più efficiente e basta con la demagogia». Francesco Storace intanto lo irride: «Qualsiasi iniziativa organizzata contro Alemanno diventa di per sé un successo».
Gli organizzatori avevano chiesto piazza del Campidoglio per la conclusione. Il sindaco ha detto no. Ma quando la sfilata ha raggiunto i Fori Imperiali, sono partiti i fischi verso gli uffici capitolini. «Restate pure chiusi là ha detto al megafono uno dei manifestanti Chi vi si fila...». Ha detto il capogruppo regionale di Sel, Luigi Nieri: «Vedere il Campidoglio blindato dà un grande senso di tristezza al di là di questa grande manifestazione gioiosa».

il Fatto 6.5.12
Telecom vende La7 De Benedetti è pronto
Trattano anche Cairo, l’amico di B, Tarak Ben Ammar
Bernabé cerca l’offerta migliore, tra i contendenti anche Ben Ammar e Cairo. L’editore di Repubblica è il più interessato
di Stefano Feltri e Carlo Tecce


Sembra che sia la volta buona: Telecom Italia vende La7, che oggi controlla attraverso Telecom Italia Media. Soltanto un anno, fra macachi-conduttori e banani-Rai, Giovanni Stella, l'amministratore delegato di La7 detto er canaro, spadroneggiava nel mercato televisivo: prendo Michele Santoro, no anche Serena Dandini, e ancora Roberto Saviano incluso Fabio Fazio. Ieri mattina, invece, nemesi catodica, ragionava sul Consiglio di amministrazione di Telecom, la multinazionale che controlla Telecom Italia Media: "Mercoledì inizia il percorso dice Stella ai suoi collaboratori di cessione totale di La7. La procedura non è semplice, entro l'anno, però, riusciremo a vendere". Il consiglio di amministrazione di Telecom ha un punto di repertorio all'ordine del giorno: valorizzazione proprietà strategiche. Vuol dire che per l'ex monopolista telefonico la televisione è un rametto da tagliare: non tanto per i debiti che continua a produrre, seppur ridotti con l'arrivo di Enrico Mentana e la crescita pubblicitaria, ma perché il canale non serve più. Sognatore chi pensa che l'alleanza Mediaset-Rai si possa scalfire; pessimista chi crede, ultimo giapponese, che la clava televisiva possa proteggere le eredità di Telecom. Franco Bernabé, presidente con pieni poteri, per ora non andrà a risanare Finmeccanica, il cui amministratore delegato Giuseppe Orsi, dopo aver vacillato in seguito a un’iscrizione nel registro degli indagati per presunte tangenti, per ora non si dimette. “Guai a confondere questa operazione con il futuro di Bernabé. Non c'entrano nulla”, ripete Stella in questi giorni. Comunque sia, Bernabé ha ancora tempo, in Tele-com, per gestire due partite delicate: difendere la rete, lucrosa infrastruttura che Tele-com gestisce ancora da monopolista, dagli assalti liberalizzatori di una parte della politica ispirata dai concorrenti. E sciogliere il nodo de La7, asset marginale su cui il gruppo investe poco. Nel bilancio 2011 Tele-com ha svalutato di 45 milioni la partecipazione in TI Media (77,71 per cento), portando il valore di carico a 176 milioni, ancora superiore al valore di mercato. Valorizzare la partecipazione, cioè venderla, sarebbe negli interessi degli azionisti a monte di Telecom, soprattutto di Mediobanca, che quest’anno si sono dovuti accontentare di dividendi risica-ti causa crisi, proprio quando ne avrebbero avuto più bisogno.
STELLA ha ventilato l’ipotesi di una gara al rialzo, contrapponendo i diversi pretendenti per evitare la svendita. Oggi fa sapere ai suoi che "ci sono almeno un paio di proposte d'acquisto, sennò avremmo atteso". L’albero è maturo e stavolta non cadono giornalisti corteggiati da Stella, ma finisce proprio la gestione del canaro che, però, confida di restare in sella se tra i nuovi proprietari ci fosse Urbano Cairo: la Cairo Communication raccoglie la pubblicità per La7 con un contratto molto vantaggioso, per Cairo, che ha beneficiato dall’exploit degli ascolti. E ha accumulato risorse che ora può investire nel capitale della società. “Cairo in corsa? Bisogna chiedere a lui”, rispondeva ieri Stella alle richieste di chiarimenti dopo la diffusione di indiscrezioni sul sito Dagospia. L’altro pretendente, magari da a affiancare a Cairo, è il franco tunisino Tarak Ben Ammar, amico e socio di Silvio Berlusconi, da anni anche uomo Mediobanca (siede nel cda) e quindi perfetto per l’operazione.
La novità di queste ore, però, è che Carlo De Benedetti ha detto esplicitamente di essere pronto a entrare nella trattativa: “Un anno fa ci pensavo ma Bernabé preferì tenere il giocattolo anche se la sua azienda si occupa di telefonia. Oggi la crisi ha mutato lo scenario. Credo che oggi dovrebbe essere Bernabé a venirmi a pregare”, ha spiegato in un dibattito pubblico con Gianni Minoli (lo leggiamo proprio su Repubblica, a dimostrazione che il messaggio deve arrivare a chi di dovere). Anche il gruppo di De Bendetti, che formalmente è guidato da suo figlio Rodolfo, si occupa d’altro, editoria, e le sue esperienze in campo televisivo (ReteA e RepubblicaTv) hanno lasciato circatrici dolorose nei bilanci del Gruppo Espresso. Ma per De Bendetti in campo editoriale la passione conta più dei numeri e adesso vuole provarci. Alcuni osservatori maliziosi hanno anche notato la durezza di Repubblica di questi giorni sull’uscita di Luca Luciani da Telecom, il top manager indagato per una vicenda di sim false e fatturati gonfiati. Una linea soprendente nel quotidiano di Ezio Mauro che finora era stato l’interlocutore privilegiato della Telecom nella gestione di Bernabé. Ma alla vigilia del cda che aprirà la procedura di vendita, De Benedetti deve aver deciso di togliere i guanti.

Corriere 6.5.12
La7 sul mercato. Mercoledì la scelta di Telecom Business in perdita anche nel 2011
La rete e Mtv valutate 250 milioni
di Paolo Conti


ROMA — Dal punto di vista del mercato televisivo italiano, si tratta della prima vera novità da anni a questa parte: da mercoledì 9 maggio La7 comincerà il suo itinerario per ritrovarsi, nel giro di settimane, sul mercato. È in vista, per quel giorno, la riunione dei consigli di amministrazione di Telecom, presieduta da Franco Bernabè, e di Telecom Italia Media (il 77% appartiene a Telecom, il resto a vari azionisti, è una società quotata in Borsa). La riunione è stata convocata per l'esame dei bilanci trimestrali 2012. In realtà (l'indiscrezione lanciata ieri da Dagospia trova conferme molto autorevoli) si deciderà l'avvio di tutte le procedure per la cessione, da parte di Telecom, di quel 77%: o nella sua interezza o per l'80%, si vedrà. Tecnicamente sarà una deconsolidazione del gruppo Telecom Italia Media dai bilanci Telecom Italia. Telecom Italia Media vuol dire La7 ma anche il 51% di Mtv nonché tutta Telecom Italia Media Broadcasting, cioè le torri e i sistemi di trasmissione sul territorio.
Infatti in prima battuta verrebbero separate le attività televisive vere e proprie, cioè La7 e Mtv, dal Broadcasting. Ovvero le infrastrutture di rete (messe subito in vendita) e poi i multiplex, i cosiddetti mux, ovvero quei dispositivi che «moltiplicano» in più canali trasmissivi un unico collegamento.
Il gruppo l'Espresso sarebbe pronto a riversare i suoi due mux in una nuova società infrastrutture tv alla quale Telecom Italia Media darebbe i suoi tre mux più l'opzione per un quarto. Di questa nuova società l'Espresso avrebbe circa un terzo. E per poterla deconsolidare dai propri conti, Telecom Italia dovrebbe anche vendere una parte della propria partecipazione a uno o più investitori istituzionali.
Resterebbe La7-Mtv, di fatto l'unica rete in chiaro che sfugge al duopolio Rai-Mediaset e che verrà ceduta. Non sarà una vendita immediata. C'è un problema societario da affrontare. E c'è un prezzo da stabilire e quindi richiedere. Nessuno, all'interno dell'azienda, si sbilancia a fare cifre, anche se c'è chi immagina una valutazione prossima ai 250 milioni di euro. Telecom ha deciso il coinvolgimento di advisor per affrontare il mercato.
La7 non gode di splendida salute. Il gruppo Telecom Italia Media ha perso nel 2011, nel risultato operativo, 30 milioni di euro. Performance migliore rispetto al 2010 (-46 milioni) ma comunque non esaltante. Ma nel frattempo La7, dal punto di vista editoriale, con l'amministratore delegato Giovanni Stella e il recente arrivo di Paolo Ruffini come direttore della rete, ha arruolato una folta squadra di personaggi tv davvero degna di un terzo polo, previo adeguato investimento. C'è il Tg condotto da Enrico Mentana. E Marco Paolini, Roberto Saviano, Fabio Fazio, per parlare degli «eventi». Gli approfondimenti di Gad Lerner, Lilli Gruber, Corrado Formigli, il talk show di Serena Dandini, la nuova trasmissione di Sabina Guzzanti, la satira di Maurizio Crozza. Palinsesto indubbiamente ricco e che esigerebbe un imprenditore pronto a credere nella scommessa. Telecom Italia pensa a una «raccolta di manifestazione di interesse», una specie di gara. Chi parteciperà? Interlocutori internazionali? O, per esempio Carlo De Benedetti? Intervistato giorni fa da Giovanni Minoli, il presidente del gruppo l'Espresso ha detto: «Un anno fa ci pensavo ma Bernabè preferì tenere il giocattolo anche se la sua azienda si occupa di telefonia. Oggi la crisi ha mutato lo scenario. Credo che oggi dovrebbe essere Bernabè a venirmi a pregare». Minoli ha ribattuto: «Questa risposta è l'inizio della trattativa...». Carlo De Benedetti si è limitato a sorridere. Quel «venirmi a pregare» significa che resterebbe alla finestra nel caso Telecom trovasse un acquirente disposto a pagare bene La7? Chissà.
Alla Telecom si ricorda che il contratto per la raccolta pubblicitaria con la Cairo Communication avrebbe clausole molto onerose che ridurrebbero gli effetti positivi degli incrementi della raccolta pubblicitaria. Si era anche parlato di un possibile accordo con Cairo Communication per cedere la società pubblicitaria de La7 a Telecom Italia Media in cambio di una partecipazione ma non c'è stato accordo tra le parti. Comunque una cosa è certa, da mercoledì La7 volta pagina.

il Fatto 6.5.12
Cl, Vaticano e ambiguità su Formigoni
di Marco Politi


Ci sarà un motivo se nello scandalo di lobbismo, in cui sta sprofondando Roberto Formigoni, non si incontrano Focolarini, i pentecostali di Rinnovamento dello Spirito, Neocatecumenali o personaggi di Sant’Egidio. Non è certo un caso se su quel pozzo oscuro – dove si mescolano cospicui interessi privati intrecciati ad un rampante sistema politico-elettorale, oliato dalla distribuzione di sostanziosi finanziamenti pubblici – sventoli spavaldamente la bandiera ciellina.
C’È UNA STORIA dietro. È sin dagli anni Settanta-Ottanta che il movimento di don Giussani concepisce la sua presenza nella società come uno sfrenato occupare posizioni. Il quadro ciellino non si limita a offrire ai fedeli la sua versione del “fatto cristiano” ma si pone con spirito totalitario come vero interprete della rievangelizzazione auspicata da papa Wojtyla. Chi ha una visione diversa viene diffamato. Feroce è la guerra contro l’Azione cattolica e il suo concetto di “scelta religiosa” e non politica, con cui i cattolici dovrebbero collocarsi sulla scena italiana. Contro l’Azione cattolica viene lanciata l’accusa di pelagianesimo (un’oscura eresia dei primi secoli) per screditarla e additarla come infetta dalla secolarizzazione. Dalle colonne del ciellino Sabato personalità di fede e cultura come il rettore della Cattolica Giuseppe Lazzati o Alberto Monticone, presidente di Ac, vengono bollati di neoprotestantesimo. Denigrato come succube del marxismo è il pensiero del cattolicesimo democratico. All’espandersi aggressivo in campo ecclesiale si accompagna la fame di conquiste politiche. Nasce il Movimento popolare come braccio secolare di Cl all’interno della Democrazia cristiana. A Roma sorge la stella di Vittorio Sbardella, eletto deputato nel 1987 con 125.000 preferenze a suggello dell’alleanza tra movimento ciellino e corrente andreottiana. Sbardella, che edita la rivista ciellina Sabato, lo chiamano “lo squalo” e non serve altro per connotarne l’alta visione etica con cui pratica la politica.
L’entrismo politico di Cl si ammanta di parole d’ordine di filosofia politica come “meno Stato più società” oppure “sussidiarietà”. Nella prassi questi concetti non riflettono l’autonomia del sociale, ma mascherano l’idea che il flusso dei finanziamenti statali sia al servizio del “privato” (se ciellino o alleato, tanto meglio). Fino al trionfo del sistema lombardo, incentrato su Formigoni.
È quello che persino un commentatore moderato come Galli della Loggia sul Corriere della Sera ha definito come “egemonismo autoreferenziale”, dedito ad un’occupazione totale del potere nel campo della sanità lombarda.
Inevitabile che questo sistema si allei anema e core con il berlusconismo. La lettera al nunzio Bertello – pubblicata dal Fatto – con cui l’attuale capo di Comunione e liberazione don Julian Carron auspica la venuta di Scola a Milano, è sintomatica nel suo attacco alle posizioni dei cardinali Martini e Tettamanzi. La voce dei porporati – che negli anni del berlusconismo trionfante hanno posto il problema dell’etica pubblica, della giustizia, della legalità, dell’accoglienza degli immigrati – diventa “unilateralità di interventi” e “sistematico neocollateralismo verso una sola parte politica”, cioè il centrosinistra. Siamo nel marzo 2011, quando il discredito internazionale per il Cavaliere è già straripante. Due anni prima, allo scoppiare dello scandalo Noemi, il presidente della Compagnia delle Opere Bernhard Scholz dichiara cinica-mente che “coerenza personale, importante e desiderabile, non è il criterio esclusivo per valutare l’azione politica di chi governa”.
DELLA degenerazione politica (e affaristica) del sistema ciellino si era accorto sul finire della vita anche Giussani. Non a caso scelse come successore un non-italiano. Se ora don Carron, in una lettera a Repubblica, abbozza un’autocritica e intende ripulire Cl dall’identificazione con “l’attrattiva del potere, dei soldi, di stili di vita” estranei al carisma del movimento, ha molto da fare. Cominciando a non nascondersi dietro ai giudici. Cl deve dare adesso un suo giudizio sul comportamento del ciellino Formigoni dal punto di vista dell’etica pubblica e dei valori predicati da Giussani.
Altrimenti resta nell’ambiguità proliferata in questi anni. Nei paesi anglosassoni l’affare sarebbe già risolto. Un governatore, che si fa pagare le vacanze da un lobbista, ha diritto di smentire. Se dopo una settimana non porta le prove, è out. “Condotta inappropriata”, dicono quei protestantacci di americani.

Corriere 6.5.12
E nel Vaticano II torna la «razza» ebraica
di Alberto Melloni


Lavora o ha lavorato per il sito della Santa Sede. Ignoriamo il suo nome, i suoi studi, cosa abbia pensato mentre mutavano i rapporti fra la Chiesa ed Israele. Ma questo sconosciuto — impunito come chi commercia carte e gossip d'oltre Tevere — è riuscito a depositare nel sito web vatican.va, per sfregio, una riga sulla «razza» ebraica. L'ha infilata nella traduzione italiana del Vaticano II: Nostra ætate affermò che la Chiesa ha sempre innanzi agli occhi le parole di Paolo «de cognatis eius» (cioè «sui suoi congiunti») che dicono che l'adozione, la gloria, il patto, la legge, il culto e le promesse appartengono a Israele e ai padri «dai quali è nato Cristo secondo la carne». Nel sito vatican.va quel «de cognatis» viene oggi tradotto «della sua razza»: ebraica, naturalmente.
Non è un errore antico: è un atto recente, volontario. Il testo latino (lo mostra la mia critica del Vaticano II nei Conciliorum œcumenicorum generaliumque decreta) non dava appigli. L'Osservatore Romano del 17 novembre 1965 traduceva «della sua stirpe». Le altre traduzioni d'allora, raccolte senza ritocchi dal sito, non hanno esitazioni. Il tedesco recita «Stammverwandten», cioè parenti. La versione portoghese parla di «compatriotas». L'inglese «kinsmen», come «soukmenovcích» in ceco. In swahili «juu ya watu wa ukoo wake» indica le persone «del suo clan». Più inquietante l'«hermanos de sangre» dello spagnolo, identica al bielorusso. Solo in francese si era già osato tradurre «race» nel 1965 (idiozia rimasta intonsa anche nel sito odierno).
La traduzione italiana usuale, dunque, è stata volontariamente manipolata per sfregiare il Vaticano II con un termine dalla storia inquietante: la razza. Entrato nella Spagna del secolo XV, passato al linguaggio giuridico e politico, venne consegnato dal trattato Sur l'inégalité des races humaines, opera del 1853 d'un cattolico come de Gobineau, a uno sviluppo «scientifico», di cui s'appropriano i perpetratori della Shoah. In quel lungo lasso di tempo anche il magistero cattolico ha parlato di razze: dalle discussioni sull'ammissione ai sacramenti degli indios fino al formarsi di un magistero sull'unità della famiglia umana, che negli anni Trenta afferma l'«uguaglianza delle razze». Con la dichiarazione dell'Unesco del 1950 — la Santa Sede era rappresentata dal nunzio Roncalli — il mondo ripudia l'idea di razza: e al Vaticano II, proprio nella dichiarazione Nostra ætate, la Chiesa rompe con l'antisemitismo «di qualunque tempo e di chiunque».
Chissà se l'inventore di un inesistente Vaticano II «razzista» è un cretino inoffensivo o la voce in talare di xenofobi, antisemiti, suprematisti che innocui non sono. Ma che un nemico del Papa e della Chiesa faccia rientrare dalla finestra del web l'ombra d'un pensiero cacciato conciliariter dalla porta, dice che il Vaticano II ha ancora la forza di smascherare cosa c'è davvero dietro il sogno, di liberarsene o di spuntarne con un preambolo tradizionalista lo sperone riformatore che pungola la carne della Chiesa.

Repubblica 6.5.12
Bagnasco anti-Monti non piace in Vaticano
di Cludio Tito


Il leader dei Vescovi italiani punta per il 2013 su un Pdl senza la faccia di Berlusconi
L´allarme di Palazzo Chigi dopo gli attacchi di Avvenire al governo sull´Imu

«Bagnasco vorrebbe imitare Ruini, ma non ha capito che i tempi sono cambiati». Questa frase non gira solo tra le stanze del governo. Da qualche settimana circola insistentemente nei corridoi della Cei e soprattutto della Segreteria di Stato vaticana.
La linea "critica" del presidente dei vescovi italiani sul governo e decisamente accondiscendente nei confronti del Pdl si sta rapidamente trasformando nell´ultimo elemento di frattura tra la Conferenza episcopale e il Segretario di Stato. L´ennesimo scontro tra Tarcisio Bertone e Angelo Bagnasco. Ma con una novità. L´"Appartamento", gli uomini più vicini a Papa Ratzinger si stanno schierando con il primo e sempre più si allontanano dal capo dei vescovi. Al punto che per molti il feeling tra il Pontefice e Bagnasco rappresenta solo un elemento del passato. Non solo. Benedetto XVI sarebbe addirittura pronto a richiamare il capo della Cei sulle posizioni ufficiali della Santa Sede. E un brivido sta pervadendo gli uffici di Via Aurelia: la paura che la guida della Chiesa italiana possa essere "commissariata".
Di recente, quindi, il caso è diventato sempre più spinoso. Soprattutto dopo che l´Avvenire, il giornale dei vescovi, ha per alcuni giorni di seguito attaccato Monti e le misure governative sul fisco, in particolare sull´Imu. Il campanello d´allarme è subito scattato a Palazzo Chigi. Alcuni dei ministri cattolici hanno sottolineato le «sferzate» del quotidiano. E i contatti tra l´esecutivo e la segreteria di Stato si sono immediatamente attivati attraverso i tradizionali canali informali. Una vicenda che ha indispettito il cardinale Bertone. E preoccupato il premier: «Cosa c´è dietro tutti questi rimproveri? Cosa è cambiato? Mi sembrano osservazioni poco giustificabili».
Ma la partita più che nei rapporti tra Stato e Chiesa, si sta giocando tra le stanze ovattate della Curia e del Vicariato. Sullo sfondo la scadenza delle elezioni politiche e i rapporti di forza tra i cardinali nel tentativo di compattare (anche in vista di un futuro ed eventuale conclave) la componente più conservatrice delle porpore. Il presidente della Conferenza episcopale, infatti, ha ormai deciso di confermare il suo appoggio al Pdl. Soprattutto se «depurato» dalla premiership di Silvio Berlusconi. Un centrodestra, senza la faccia del Cavaliere, rappresenta dunque la carta su cui ancora scommettere. La sua idea è di spostare l´asse dei cattolici nell´alveo del Popolo delle libertà o di quel che nascerà sotto l´ombrello berlusconiano. E tutto quel che potenzialmente può disperde una certa "unità" dei cattolici, viene considerato traviante. Non a caso "Don Angelo" si sta spendendo nella sua città, Genova, contro il candidato del centrosinistra, Marco Doria. Giudica il voto genovese un vero e proprio "test" proprio per l´appoggio di una parte delle parrocchie liguri su cui può contare l´esponente vendoliano. Una linea che spinge a bocciare anche l´operazione centrista di Casini: «Il centro, da solo, non porta da nessuna parte». Bagnasco, insomma, vorrebbe l´Udc di nuovo alleato con il Cavaliere. Non a caso, proprio, negli ultimi giorno il leader del Terzo polo è stato piuttosto netto nell´interpretare le mosse dei vescovi: «Il loro disegno è ormai chiarissimo».
Ma il sostegno all´opzione-Pdl passa per la presa di distanza dal governo Monti. La prima tappa ha preso le forme del "ripudio" del famoso incontro di Todi con tutti i movimenti del mondo cattolico che diede a ottobre uno scossone decisivo al governo Berlusconi. La seconda, adesso, assume sempre più i contorni di un attacco all´esecutivo. Palazzo Chigi ne ha avuto la prova solo pochi giorni fa: con gli editoriali di Avvenire che fanno propria la battaglia pidiellina contro l´Imu (l´estensione dell´imposta agli edifici di proprietà della Chiesa non è stata ancora digerita) ma anche con un colloquio tra il ministro della Cooperazione Riccardi e il Patriarca di Venezia Moraglia. Con il primo che annunciava i fondi per la famiglia e il secondo che lo gelava: «Che vuole che siano, solo una goccia nel mare». Per la Cei, inoltre, un elemento di debolezza del Professore si concentra anche sul rifiuto di sventolare la bandiera delle questioni etiche.
Ma il profilo scelto da Bagnasco sta provocando più di una reazione nella Curia e nella Conferenza episcopale. Sono diversi i vescovi che hanno iniziato a prendere le distanze. Soprattutto è emersa la «distanza» dell´"Appartamento" papale. Il Pontefice ha confermato negli ultimi giorni l´asse preferenziale con Monti. La Segreteria di Stato anche. Dopo gli "scontri" di qualche mese fa, il Cardinal Bertone aveva di fatto rinunciato a intervenire nelle vicende della politica interna italiana per evitare ulteriori dissapori: «Mi occupo solo del Vaticano». Ma il nodo si sta di nuovo aggrovigliando. Sia la Segreteria che l´Appartamento hanno sottolineato negli ultimi giorni la sintonia con il nuovo governo. Ricordano la telefonata tra i due del 19 marzo scorso (onomastico del Pontefice e compleanno del premier) e l´incontro del 19 aprile scorso. Colloquio che ha ricevuto il "timbro" di una foto pubblicata dall´Osservatore Romano. Una scelta che nel linguaggio diplomatico puntava a evidenziare il buon esito del colloquio. I dubbi di Ratzinger riguardano anche l´approccio "vetero-ruiniano" di Bagnasco alla politica interna italiana.
Ma che qualcosa si sia ormai incrinato tra l´Appartamento e la Cei, lo si è capito dalle ultime nomine fatte dal Papa. Il fastidio della Santa Sede nei confronti degli scandali che stanno investendo alcuni autorevoli rappresentanti di Cl, stanno cambiando gli equilibri negli uffici della Santa Sede. Con una preferenza per i Focolarini (Monsignor Becciu, ad esempio, è il vice di Bertone) e per la Comunità di Sant´Egidio. Anche per questo l´arcivescovo di Milano, Angelo Scola, sembra sempre più volersi liberare del manto di Comunione e liberazione.
Ma anche il premier italiano ha iniziato ad adottare le sue contromisure. Ha evitato di presenziare (anche di mandare un messaggio) il congresso delle Acli. Il suo presidente era stato piuttosto critico nei suoi confronti in un´intervista ad Avvenire. E si è consultato con i suoi ministri "cattolici". «Ma io - ripete in queste ore - sono il presidente del consiglio e il mio interlocutore è la Segreteria di Stato e la Santa Sede».

l’Unità 6.5.12
«La prossima rivoluzione? è dello spirito»
Folco Terzani, ospite del Festival dei Comportamenti Umani insieme a Baba Cesare

parla della necessità di cambiare interiormente per uscire dalla crisi, non solo economica:
«Il segreto non è accumulare ma togliere»
di Stefania Scateni


Lo spirito invece della materia. Questa è la svolta che dovremmo dare alle nostre vite. Non serve a nulla cercare di riparare l’economia, perché l’economia non si raddrizza se non si raddrizza l'umanità. In sintesi, questo è il messaggio che Folco Terzani vuole diffondere. Per questo motivo ha raccontato in un libro uscito l’anno scorso, A piedi nudi sulla terra (Mondadori), il suo incontro con l’italianissimo baba Cesare, ex hippy ed ex tossico, che ha scelto l’ascetismo e si è stabilito nella giungla indiana. Ora il sadhu Cesare accompagna l’amico Folco nei suoi incontri pubblici. Figlio di Tiziano Terzani, Folco sarà infatti oggi a Lodi insieme a Cesare in una sezione del Festival dei Comportamenti Umani che sembrerebbe fuori tema: «Come superare la crisi».
I CAMBIAMENTI NECESSARI
«La rivoluzione necessaria, e spero vicina a venire, non sarà economica ma sarà quella dello spirito spiega -. Questa è la vera battaglia: è inutile cercare di aggiustare l’economia, basta volgere lo sguardo altrove, non guardare l’economia, per iniziare ad aggiustare le cose». «E basta parlare», aggiunge. Ma perché? «Nella vita bisogna rischiare altrimenti non ci si muove. Altrimenti facciamo la fine dei tanti che non si scompongono mai, che assorbono tutto senza reagire. Prendiamo la storia di baba Cesare. Quando ho scritto la sua storia credevo di avere esagerato, temevo che la sua descrizione scorbutica, dura, cruda e veritiera fosse troppo forte... e invece non ha mosso nulla. E che si fa, allora? Smettere di parlare e “fare”».
Dare l’esempio e ricevere esempio. Questa è la vita di baba Cesare e dei tanti asceti in tutto il mondo. Nelle sue visite in India, Folco ha vissuto senza soldi, senza abiti, senza niente, con una persona che ha compiuto una scelta radicale di povertà e ha sperimentato che funziona. «È la scelta dell’asceta puntualizza Terzani -. Una figura che non ci viene più proposta. Eppure non è una prerogativa indiana: asceta era anche San Francesco. È una scelta ma anche una reale alternativa. Non dico che tutti dobbiamo lasciare tutto come fanno i sadhu».
A ognuno la sua scelta di vita, ma con un po’ di consapevolezza in più. Lo stesso Folco, che descrive le sue lunghe visite a baba Cesare come un ritorno a casa tra fratelli, vive in Toscana e ha una famiglia, da poco arricchita dalla nascita del terzo figlio.
Le parole non bastano, rintuzza Terzani, in fondo ci sono già tanti libri: i Vangeli, Il Cantico delle creature, Siddharta. Ma di questa nuova consapevolezza che senti necessaria, di questo allargamento della coscienza che potrebbe salvarci dalle tante crisi che abbiamo noi stessi provocato, ne dobbiamo fare partecipi gli altri.
OLTRE LA PAROLA
In quali forme più efficaci della parola?, chiediamo. «Il cinema e la scrittura possono trasmettere alcune idee ma non con grande forza: più una cosa è larga e meno forza ha. Mentre le esperienze o l’incontro diretto con una persona hanno maggiore efficacia, possono trasformarti. I sadhu, i maestri, non parlano quasi mai. Devi starci insieme e vivere come loro. Io l’ho fatto e potevo anche chiedermi che ci facevo, persona laureata e agiata, insieme a quegli uomini seminudi, coi capelli fino in terra, le barbe lunghe, e attorno al fiume... Non me lo sono chiesto, perché da loro ho imparato. Ho imparato a uscire dalle scatole che ci costruiamo, ho imparato che la cultura non è l’obiettivo primario. Ho imparato a uscire dalle cattedrali della conoscenza e vivere nella natura e con la natura. Ecco, pensando ai giovani, mi piacerebbe organizzare situazioni in cui si sta insieme nella natura, vorrei riportare da noi la pratica del vivere in povertà e nella natura. D’altra parte credo sia la stessa esperienza che visse San Francesco intorno ad Assisi. La proposta sarebbe rivivere quelle esperienze, uscire dalle case, uscire da un sistema in cui si ha bisogno di cose e sperimentare la vita senza le cose».
E aggiunge: «La meta è qualcosa che è oltre le persone». Possiamo chiamarlo come vogliamo: luce, energia o, semplicemente, divino, una luce che abbiamo dentro.
«In fondo senza il sole non potremmo vivere», conclude Folco.

Corriere La Lettura 6.5.12
Il Kamasutra batte la Bibbia
di Federica Colonna



La classifica dei libri elettronici gratuiti più letti nel mondo Con i generi preferiti dai lettori. L'unico italiano è Machiavelli

L'ebook? È un classico. Lo dimostra il successo ormai consolidato del Progetto Gutenberg, la prima iniziativa di digitalizzazione dei libri, dedicata agli evergreen della letteratura. Nato nel 1971 da un'idea di Michael Hart, Gutenberg ha un obiettivo dichiarato: moltiplicare la conoscenza mettendo in circolo pezzi di cultura. I libri, appunto. Se il primo ebook caricato è stato la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti, oggi il progetto conta 38.000 titoli, disponibili in formati diversi, tutti rigorosamente gratuiti. Quali sono i più scaricati? Eccoli, i primi trenta, rappresentati nell'infografica: ogni libro è un poligono, sotto al quale sono indicati titolo e autore e la cui dimensione indica la quantità di download realizzati dai lettori. Il primo ebook, per esempio, il Kamasutra, è raffigurato da un poligono più grande con un numero dentro che ne indica la posizione in classifica. Il Kamasutra è un ettagono perché sette sono i generi letterari cui appartiene secondo i criteri di classificazione di Amazon che raggruppa in insiemi di libri simili i testi collegati.
Ogni insieme è rappresentato da una figura geometrica più piccola connessa a uno degli angoli del poligono. Il colore della figura indica il genere letterario mentre la forma e la dimensione rappresentano il numero di testi simili raggruppati. Più vertici, quindi, più libri simili: da 2 a 4 il triangolo, da 5 a 7 il rombo, da 8 a 10 il pentagono, da 11 a 20 l'esagono, da 21 a 30 l'ettagono, da 31 a 50 l'ottagono. Grazie alle informazioni fornite da Amazon è anche possibile indicare il prezzo medio per ogni insieme di libri. Il perimetro semplice, infatti, indica la gratuità, quello doppio un prezzo compreso tra 1 e 8 euro, il triplo da 8 a 12 e il perimetro quadruplo un costo tra 12 e 30.
Se il Progetto Gutenberg permette una panoramica globale dell'universo ebook, com'è, invece, il settore dei libri elettronici in Italia? La classifica bestseller degli ebook Kindle, leggibili, cioè, su tablet Amazon, è un paniere variegato, in cui si mescolano manuali e romanzi, ma nel quale prevale la narrativa. Accanto a titoli più recenti, come nel caso del primo libro in classifica, Hunger Games di Suzanne Collins, la cui versione cinematografica è ora nelle sale, resistono anche grandi classici, come Lettera sulla felicità di Epicuro o, fuori dalle prime dieci posizioni ma sempre in vetta, la Sacra Bibbia (di cui Amazon indica l'autore: Dio). Per quanto riguarda i numeri, secondo l'indagine «Dentro all'ebook» dell'Aie, l'Associazione italiana editori, il mercato italiano a dicembre 2011 contava quasi 20.000 titoli, poco meno della Francia e due volte la Spagna, per un fatturato di circa 3 milioni di euro. Il doppio dell'anno prima.
Un settore relativamente piccolo, ma in costante e rapida crescita, grazie alle attitudini dei lettori digitali. Se non sono troppo numerosi, l'1,3% della popolazione italiana con più di quattordici anni, hanno però abitudini consolidate: sono lettori forti e onnivori. Il 40% legge tra i dodici e trenta titoli l'anno, il 25% anche più di trenta. Si informano soprattutto online, decretando così il successo dei blog dedicati ai libri e degli account Twitter degli editori. @LaFeltrinelli, per esempio, conta circa 277.000 followers, @Librimondadori più di 145.500, @EinaudiEditore 80.860, solo per citare alcuni editori con un profilo da twitstar. E poi c'è la convenienza del prezzo. Secondo l'Aie, quello medio di un ebook è di circa 10 euro, senza contare i testi con un costo inferiore ai 2 euro, contro i 20,90 dei libri di carta. Insomma, non è il caso di parlare di rivoluzione elettronica, c'è già stata. Ma di una (relativamente) piccola ma sempre più consolidata realtà.

il Fatto 6.5.12
Lo strano caso Tymoshenko
di Furio Colombo


In una stanza di Montecitorio, il 19 aprile 2012, i deputati e funzionari ucraini che hanno chiesto con urgenza un incontro con i deputati italiani, sono già seduti intorno al tavolo del presidente della Commissione Esteri. Sono dodici persone, uomini e donne, con la faccia da film. Intendo dire: sono esattamente quelli che sceglieresti se dovessi fare un film sulla gente che ha messo in prigione e tiene in prigione e fa aggredire e picchiare di notte il loro ex Primo Ministro, Julia Tymoshenko, che era capo della opposizione quando è stata arrestata, ed è stata condannata in poche ore a sette anni di reclusione. I deputati e funzionari (credo poliziotti) del governo che hanno incarcerato la Tymoshenko sono incattiviti e non hanno alcuna intenzione diplomatica di nasconderlo (il loro ambasciatore a Roma è di pietra, solo un giovane funzionario è normale e gentile).
UNO DOPO l'altro sono qui a dirsi offesi (offeso il loro Paese) per avere accolto e ascoltato al Parlamento italiano la figlia della loro prigioniera. Lo dice con particolare acredine, con una fitta ripetizione delle sue ragioni, la onorevole Olena Bondarenko. Ho guardato il curriculum. Olena Bondarenko, oltre che deputato, è primo vicepresidente della Commissione sulla libertà di espressione e di informazione, e presidente della sottocommissione sulle trasmissioni radiotelevisive.
Chiedo alla onorevole Bondarenko di informarci sui delitti della prigioniera Tymoshenko.
Prontamente elenca un trattato “sbagliato” con la Russia e alcuni accordi internazionali che avrebbero potuto recare danno alla Repubblica ucraina. Ci chiede di unirci alla condanna della ex primo ministro ucraino, ora capo dell’opposizione “traditrice e giustamente carcerata”.
Tocca a me fronteggiarla perché sono stato io, insieme ai deputati Vernetti e Mecacci, a invitare Eugenya Tymoshenko, figlia di Julia, al Comitato per i Diritti Umani della Camera dei Deputati.
Ho detto alla Bondarenko che la loro missione, e le sue parole, erano imbarazzanti per noi. E che non ci saremmo prestati a fare da giuria cieca disposta a confermare la loro condanna, di cui sappiamo solo che impedisce l’opposizione e nega la democrazia. Le facce guardavano chiuse e fedeli nella loro consegna, e non potevi sottrarti alla fastidiosa suggestione lombrosiana di averli già visti, questi deputati-poliziotti, non tanto in un film quanto in una vita precedente: disciplina e fermezza, quasi un senso di rabbiosa dignità nel ripetere parola per parola, inclusi i fremiti nervosi, la verità di Stato, quella inculcata dal loro regime che adesso è al potere. L'interprete è precisa come un assistente chirurgico. Esegue rapida la sua parte di intrusione, e si ritira subito, come volendo mostrare che non è responsabile di quello che ci racconta. Dico alla Bondarenko: " Non sto offrendole la mia opinione personale o quella di un partito. So che tutti i miei colleghi le direbbero ciò che le dico io: ci sentiamo imbarazzati e umiliati dalla vostra pretesa di unirci alla vostra condanna. Gli altri deputati italiani (Antonione, Pianetta, Tempestini, Maran), tutti, consentono. Non ho tenuto conto, però, dei deputati della Lega. Si dissociano subito. Dicono con energia che loro non vedono niente di sbagliato in questa visita e vogliono che si sappia che sono d'accordo con gli emissari della polizia e del Parlamento ucraino. Ma c'era un altro ostaggio della Repubblica ucraina, quel giorno, oltre alla detenuta Tymoshenko che ci veniva ingiunto di ignorare. Erano i Mondiali di calcio che stanno per svolgersi in quel Paese, come se tutto fosse perfettamente normale.
QUEL GIORNO non ne abbiamo parlato benché fosse certamente una delle cause di quella minacciosa visita. Ma la discussione c'è stata il 2 maggio, alla commissione Esteri del Senato, quando il segretario generale dell'Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione europea) l'ambasciatore italiano Lamberto Zanner, è venuto ad annunciare “basso profilo” verso l’Ucraina. Precisa: "La diplomazia non può entrare in una vicenda così delicata. E poi l'Ucraina sta per assumere la presidenza di turno dell'Organizzazione, dunque meglio non creare problemi. ”
Mi è sembrato di rivedere, sul fondo di questo incontro, le facce dei poliziotti-deputati ucraini incontrati quindici giorni prima, decisi a governare senza libertà, a negare i diritti civili e umani e a godersi i mondiali di calcio, dove si discuterà solo di calcio.
E improvvisamente ti viene in mente che mai nessuno, negli Anni Trenta ha parlato delle
leggi razziali in Germania e in Italia, mentre quelle leggi già segnavano i due Paesi e annunciavano la tragedia. “Basso profilo", doveva essere la parola d'ordine delle diplomazie di allora, come si legge nella biografia dell'ambasciatore americano a Berlino nel 1939 (a cura di Erik Larson, Neri Pozza). Solo dopo sono stati contati a milioni i morti. Eppure quelle leggi erano l’annuncio di tutto. Possibile che la parte peggiore della storia debba ripetersi in-disturbata, sia pure con l'abilità di camuffarsi ogni volta?

Corriere 6.5.12
Amleto, primo intellettuale della modernità inquieta
Si trova in Verdi, ispira Freud, è un «arrabbiato» del '900
di Sergio Perosa


Shakespeare è innanzitutto uomo di teatro, autore di copioni adattabili ad ogni circostanza o evenienza, per l'albagia di corte come per l'universo carcerario. Tutto il Mondo è un Teatro, e il teatro è per lui specchio e metafora del mondo. Scrive in splendidi versi anche nei momenti più truci, ma la poesia viene come per crescita spontanea, compenetrata al gesto teatrale.
Già nell'in-folio postumo che nel 1623 raccoglieva i suoi trentasei drammi, l'amico-rivale Ben Jonson aveva scritto che non era solo «di un'epoca, ma per tutti i tempi». Mai previsione fu più azzeccata. Per quattrocento anni Shakespeare è stato intimo e centrale alla nostra cultura.
I romantici ne fanno il loro padre per la scoperta della soggettività, del sogno e della fiaba, delle passioni estreme. In Germania e Francia, Amleto è visto come il primo intellettuale moderno, insoddisfatto e inquieto. Nell'800 Shakespeare diventa una Bibbia ed è rintracciabile nelle grandi creazioni epiche, in Wagner, Verdi, Melville (Moby Dick non sarebbe com'è senza la sua radicata presenza).
Freud scopre in lui presupposti ed esempi per la sua psicoanalisi: Amleto come Edipo, vittima di fissazioni, turbe e complessi; e come tale viene da allora rappresentato. Joyce lo vede coinvolto nel dramma del rapporto fra padri e figli e della reciproca perdita; nel secondo dopoguerra, per continuare con lui, Amleto sarà uno degli Angry Young Men, dei «giovani arrabbiati».
Dal '900 a oggi Shakespeare, secondo il titolo del libro di Ian Kott, è nostro contemporaneo; non c'è forma di dramma in cui non si ritrovi la sua presenza ed ispirazione — compreso, per paradosso, quello della incomunicabilità o del corpo. Una tragedia di sangue e vendetta come Tito Andronico, lo stesso Macbeth e Re Lear, sono già teatro della crudeltà.
Le sue grandi campiture di temi storico-politici — che istruirono Brecht, senza emozionarlo — affascinano il nostro tempo: i drammi di storia inglese, Riccardo III, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Macbeth, lo stesso Amleto, Re Lear, hanno al centro l'attrazione, la conquista, la perdita, le angosce e le disillusioni del potere, con una carica di emozione poetica e teatrale che altrove non si ritrova (in un malandato teatro di Brooklyn ho visto un Macbeth in giapponese dove la foresta di Birnam era un fremito di verdi bambù: teneva benissimo la scena e si capiva anche senza comprendere le parole).
In questi drammi, e segnatamente in Misura per misura, il Potere è quasi sempre collegato al sesso, che serpeggia fra i protagonisti come impulso motore e insieme disgregatore: una consapevolezza e connessione che è della nostra realtà e del nostro teatro. Sesso, amore e morte sono le grandi componenti di Romeo e Giulietta e Antonio e Cleopatra: nell'uno l'irresistibile passione giovanile, quella matura eppure esaltante oltre ogni perdita terrena nell'altro. Quest'ultimo dramma è già campito sul grande contrasto fra Oriente e Occidente, e nei vari casi le contrapposizioni drammatiche sono adattabili a circostanze storiche e sociali diverse, di altri luoghi e tempi: ebrei e palestinesi, samurai e contadini. È successo in tutta una serie di produzioni teatrali e di film. Shakespeare affronta poi l'inquietante presenza fra noi del diverso, dello straniero, dell'«altro»: l'ebreo conculcato eppure rivendicato nel Mercante di Venezia, il Moro svilito e tradito, regredito da acculturato di rango alla condizione di «barbaro» in Otello, la donna umiliata e offesa eppure fino all'ultimo ribelle, forse nascostamente, nella Bisbetica domata. Sono drammi in cui si prefigurano i modi di repressione tipici dei regimi totalitari del '900, ed hanno permesso continue forme di attualizzazione.
Completa il quadro, nella Tempesta, la precoce percezione del colonialismo e dell'abnorme rapporto che si instaura fra colonizzatore e schiavo: Prospero che riconosce Calibano come parte oscura di sé. Se ne sono avute diverse riscritture dall'altra parte (Aimé Césaire in testa, Une tempête) nei Paesi post-coloniali, in Africa, India, Estremo Oriente. Sembrano fruibili in ogni parte del mondo.
Questi temi riecheggiano nella sensibilità e nel teatro dell'ultimo mezzo secolo, dove pure riverbera il nichilismo assoluto, quasi insopportabile, di Re Lear. Lo stesso tema della follia, che Shakespeare inscena ed esplora nelle sue varie forme — reale, indotta, simulata, per disperazione o per finta, di buffoni o poveri derelitti allo stremo — apre le porte al teatro dell'assurdo.
Tenendo sempre presenti due aspetti. Shakespeare è grande autore comico quanto tragico: oltre ad Amleto ci sono Falstaff, le commedie dell'amore romantico (spesso ambientate in Italia), delle beffe di corte e di campagna, delle traversie in cui incorrono le giovani travestite da maschietti (con tutte le ambivalenze e gli equivoci sessuali del caso).
È proteiforme, di una «infinita varietà» come Cleopatra: cupo, tragico e oscuro, ilare, romantico e sognante. Si presta a tutto e tutto sopporta; si può fare quel che si vuole con i suoi drammi, ogni forma di prevaricazione — e molte ne sono state fatte — e lui resiste, rimbalza in piedi, ci sorride e ci atterrisce.
Se poi più che drammi rifiniti, scrive copioni «instabili» fatti per la recitazione, lo fa con indomita sicurezza e maestria verbale. In un passo del Sogno d'una notte di mezza estate, Téseo sentenzia che il pazzoide, l'amante e il poeta sono impastati di immaginazione, e che il poeta, pur nella frenesia che li accomuna, «dà all'aereo nulla una stabile dimora e un nome»: cioè concretezza, visibilità, conforto formale. Così fa Shakespeare, già anticipatore e maestro del nostro meta-teatro, del dramma entro il dramma, a specchio del suo stesso gioco. Dura da quattrocento anni, e a leggerlo sembra che abbia scritto ieri.

Corriere 6.5.12
«Noi siamo formati della materia dei sogni» E nacque il film noir
Welles, Zeffirelli e Branagh interpreti del mito
di Ranieri Polese


«Gli attori che abbiamo visto erano tutti spiriti che ora si sono trasformati in aria. E come questa visione — edificio privo di fondamenta — così anche le superbe torri, i sontuosi palazzi, i templi solenni, lo stesso immenso globo e tutto quel che racchiude si dissolveranno e come l'immateriale spettacolo che abbiamo visto non lasceranno alcuna traccia».
Questa citazione della Tempesta è una delle tante citazioni usate da Shakespeare per definire il cinema, «spettacolo immateriale» di ombre che si agitano su uno schermo, destinate a dissolversi quando la luce che le fa vivere si spegne. Del resto, le celebri parole di Prospero («Noi siamo formati della stessa materia di cui sono fatti i sogni») hanno tenuto a battesimo un'opera capitale nella storia del cinema, quel Mistero del falco con cui, nel 1941, John Huston e Humphrey Bogart creavano il film noir. Ma c'è anche chi ricorre al monologo di Macbeth («La vita è solo un'ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un'ora sulla scena e poi cade nell'oblio: la storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e di foga, e che non significa nulla») o alle profetiche espressioni del terzo atto del Giulio Cesare. Quando, davanti al corpo ancora caldo del tiranno, Cassio dice: «Quanti secoli vedranno ripetersi questa scena sublime presso nazioni non ancora nate e in lingue ancora ignote!». E gli fa eco Bruto: «Quante volte davanti agli occhi del pubblico morrà nell'avvenire questo Cesare che ora, giacente ai piedi della statua di Pompeo, non è nulla di più della polvere». Mai profezia è stata più veritiera di questi versi del Giulio Cesare, e se la sono ricordata bene i fratelli Taviani in Cesare deve morire, il film su una messinscena della tragedia nel carcere di Rebibbia con i detenuti come interpreti.
Lingua ancora ignota ai tempi di Shakespeare, il cinema ha attinto a piene mani al suo repertorio, come già aveva fatto la musica fra Otto e Novecento (Beethoven, Schumann, Berlioz, Prokofiev, Donizetti e soprattutto Verdi). I film tratti dalle opere shakespeariane ammontano a molte centinaia, e cominciano già all'epoca del muto, per esempio con un memorabile Otello tedesco con Emil Jannings. Del resto, Shakespeare si addice ai mostri sacri, ai magnifici istrioni che passano dal palcoscenico ai set del cinema. Capostipite indiscusso, Laurence Olivier, attore e regista del glorioso Enrico V (1944), proclama patriottico per l'Inghilterra in guerra («We few, we happy few, we band of brothers»). Sempre Olivier sarebbe stato un biondo, freudiano Amleto (1948), poi un sadico Riccardo III (1955) e un inquietante Otello (1965) per arrivare infine al vecchio Shylock del Mercante di Venezia (1973). Sulla strada da lui aperta si sarebbero cimentati Richard Burton (La bisbetica domata di Zeffirelli, ma anche il suo Antonio nel kolossal Cleopatra vibra di accenti shakespeariani), Anthony Hopkins (Tito Andronico), Ian McKellen (Riccardo III), il prolifico Kenneth Branagh (regista e interprete di Enrico V, Molto rumore per nulla, Amleto, Pene d'amor perdute, Come vi piace e attore in un Otello in cui è Jago opposto al nero Laurence Fishburne), John Gielgud in Prospero's Books di Peter Greenaway, Ralph Fiennes irato Coriolano. In America, Al Pacino, celebrato Padrino di Coppola, ha mostrato negli ultimi vent'anni una vera e propria devozione al sommo Shakespeare, con il suo Riccardo III («Looking for Richard»), Il mercante di Venezia, Re Lear.
Fino a qui si tratta di trasposizioni, tutto sommato fedeli, dell'opera teatrale, con a volte alcune invenzioni (La tempesta in versione fantascienza de Il pianeta proibito, la Roma postmoderna di Tito Andronico, il Riccardo III di McKellen ritratto come un dittatore nazista, l'Amleto in una Danimarca ottocentesca secondo Branagh, Al Pacino che recita il suo re usurpatore per le strade di New York), e pagine di altissimo divismo, come l'orazione di Antonio-Marlon Brando nel Giulio Cesare di Mankiewicz (1953).
Sono altri però i film dove il cinema reinventa il dramma e, libero da soggezioni, compone un inedito, affascinante spettacolo. I risultati più importanti di questa vena eterodossa sono quelli raggiunti da Orson Welles, autore di tre capolavori assoluti nonostante la disperata povertà di mezzi: Macbeth riletto come un rito barbaro, Otello che mette in scena una persecuzione che somiglia all'odio razziale, il Falstaff triste solitario e finale di Campane a mezzanotte. Del resto, tutti i grandi personaggi di Welles, Citizen Kane, l'infernale ispettore Quinlan, Mr Arkadin, sono grandi e tragici come i personaggi di Shakespeare.
L'altro supremo maestro del cinema che ha ricreato la smisurata poesia dei drammi originali è stato il giapponese Akira Kurosawa, prima con Il trono di sangue, un Macbeth trasportato nel Giappone medievale, poi con la rilettura di Re Lear in Ran: mai come qui, forse, il cinema ha saputo restituire la selvaggia potenza e la consapevole bravura con cui Shakespeare costruiva i suoi drammi. Fra questi grandi eretici, una citazione è d'obbligo anche per Gus Van Sant: la scena del principe Hal che rinnega il dissoluto Falstaff rivive bellissima in My Own Private Idaho.
Tra le opere più frequentate del canone, naturalmente, c'è Romeo e Giulietta, le cui fortune sono state rinverdite recentemente dal successo (sette Oscar, addirittura) di Shakespeare in Love. Sono oltre 50 i film che dagli albori del cinema hanno preso spunto dagli infelici giovani di Verona. Uno, addirittura, è stato appena finito di girare in questi giorni, in Italia, da Carlo Carlei. Di questo sterminato campionario si ricordano lo zuccherato prodotto della Hollywood anni Trenta con Norma Shearer e Leslie Howard (regia di George Cukor), uno stilizzato e controverso Leone d'oro a Venezia '54 firmato da Renato Castellani, il kolossal traboccante di giovinezza e di fastosi costumi di Zeffirelli. Ma anche qui i due titoli migliori sono quelli che più si staccano dall'originale: Romeo + Juliet di Baz Luhrmann, con un giovanissimo DiCaprio (si ambienta a Verona Beach, in Florida); e il mirabile West Side Story di Robert Wise, dal musical di Arthur Laurents e Leonard Bernstein, che porta la contesa mortale fra le due famiglie a Manhattan, nel mezzo della guerra tra americani e portoricani.

Repubblica 6.5.12
Manifesto per la libertà di stampa
di Albert Camus


Anno 1939, la guerra è appena scoppiata, la censura si abbatte sull´Algeria francese e sul quotidiano in cui lavora il futuro Nobel. E su un suo articolo, finora sconosciuto, che fissa le regole dell´informazione indipendente Lo pubblichiamo in esclusiva

Oggigiorno è difficile parlare della libertà di stampa senza essere tacciati di stravaganza, essere sospettati di essere Mata Hari, o vedersi incriminare con l´accusa di essere il nipotino di Stalin. Eppure, questa libertà tra le altre non è che uno dei volti della libertà tout court e si capirà la nostra ostinazione a difenderla se si è disposti ad ammettere che non c´è altro modo di vincere davvero la guerra. Certo, ogni libertà ha i suoi limiti. Bisogna però che questi limiti siano liberamente riconosciuti. Sugli ostacoli che oggi si oppongono alla libertà di pensiero, abbiamo già detto tutto quello che abbiamo potuto e diremo ancora, fino alla nausea, tutto ciò che ci sarà possibile dire. In particolare, non ci stupirà mai abbastanza, una volta assunto il principio della censura, che la riproduzione di testi pubblicati in Francia e approvati dai censori della Francia metropolitana sia vietata, per esempio, al Soir républicain (il quotidiano pubblicato ad Algeri di cui all´epoca Camus era caporedattore ndr). Il fatto che a questo riguardo un giornale dipenda dall´umore o dalla competenza di un uomo dimostra meglio di ogni altra cosa il grado d´incoscienza a cui siamo arrivati.
Uno dei buoni precetti di una filosofia degna di questo nome è di non profondersi in vane lamentazioni di fronte a uno stato di fatto che non si può più evitare. Oggi in Francia non si pone più il problema di capire come preservare le libertà della stampa. La questione è capire come, davanti alla soppressione di quelle libertà, un giornalista possa rimanere libero. Il problema non riguarda più la collettività, bensì l´individuo.
E, per l´appunto, ciò che ci piacerebbe definire qui sono le condizioni e i mezzi con cui, nel contesto della guerra e delle sue schiavitù, la libertà possa essere non soltanto preservata ma perfino manifestata. Detti mezzi sono quattro: la lucidità, l´opposizione, l´ironia e l´ostinazione. La lucidità presuppone la resistenza agli impulsi dell´odio e al culto della fatalità. Nel mondo della nostra esperienza è certo che tutto si possa evitare. La stessa guerra, che è un fenomeno umano, può essere in ogni momento evitata o fermata con mezzi umani. È sufficiente conoscere la storia degli ultimi anni della politica europea per sapere per certo che la guerra, qualsiasi guerra, ha cause evidenti. Questa visione chiara delle cose esclude l´odio cieco e la disperazione che lascia correre. Un giornalista libero, nel 1939, non dispera e lotta per ciò che crede vero come se la sua azione potesse influire sul corso degli eventi. Non pubblica niente che possa istigare all´odio o provocare la disperazione. Tutto questo è in suo potere.
Dinanzi alla marea crescente della stupidità è anche necessario opporre qualche rifiuto. Non c´è coercizione al mondo che possa indurre una persona con un minimo di rettitudine ad accettare di essere disonesta. Ora, per poco che si conosca il meccanismo dell´informazione, è facile accertarsi dell´autenticità di una notizia. Ed è a questo che un giornalista libero deve prestare tutta la sua attenzione. Infatti, se non può dire tutto quello che pensa, gli è possibile non dire quello che non pensa o che crede falso. Analogamente, un giornale libero si valuta tanto per quello che dice quanto per quello che non dice. Questa libertà in negativo è di gran lunga la più importante, se la si riesce a mantenere. Perché prelude all´avvento della vera libertà. Di conseguenza, un giornale indipendente indica la fonte delle sue informazioni, aiuta il pubblico a vagliarle, ripudia il lavaggio del cervello, evita le invettive, sopperisce con dei commenti all´uniformazione delle informazioni e, in breve, serve la verità nell´umana misura delle sue forze. Questa misura, per relativa che sia, gli permette almeno di rifiutare ciò che nessuna forza al mondo potrebbe fargli accettare: servire la menzogna.
Veniamo ora all´ironia. Si può affermare in linea di principio che una persona che ha il gusto e i mezzi per imporre la coercizione è impermeabile all´ironia. Non si immagina Hitler, giusto per citare un esempio tra altri, fare uso dell´ironia socratica. Nondimeno l´ironia continua a essere un´arma impareggiabile contro chi è troppo potente. Essa completa la resistenza, nel senso che permette non già di respingere ciò che è falso ma, spesso, di dire ciò che è vero. Un giornalista libero, nel 1939, non si fa troppe illusioni sull´intelligenza di quelli che lo opprimono. È pessimista per quanto riguarda l´uomo. Una verità enunciata in tono dogmatico viene censurata nove volte su dieci. La stessa verità detta scherzosamente, solo cinque volte su dieci. Questo meccanismo illustra in modo abbastanza preciso le potenzialità dell´intelligenza umana. E spiega anche come dei giornali francesi come Le Merle o Le Canard enchaîné riescano a pubblicare regolarmente i coraggiosi articoli che sappiamo. Un giornalista libero, nel 1939, è dunque necessariamente ironico, per quanto spesso lo sia suo malgrado. Ma la verità e la libertà, avendo pochi amanti, con quei pochi sono molto esigenti.
È evidente che l´atteggiamento che abbiamo appena descritto non potrebbe essere sostenuto con efficacia senza un minimo di ostinazione. Gli ostacoli alla libertà d´espressione sono molti. Ma non sono i più severi a poter scoraggiare un animo saldo. Infatti le minacce, le sospensioni, i procedimenti penali in Francia ottengono generalmente l´effetto opposto a quello voluto. Tuttavia bisogna ammettere che degli ostacoli scoraggianti ci sono: la costanza nella stupidità, l´ignavia organizzata, l´ottusità aggressiva e via dicendo. È quella la grossa barriera che bisogna riuscire a sfondare. L´ostinazione perciò diventa una virtù cardinale. Per un paradosso curioso ma palese, essa passa così al servizio dell´obiettività e della tolleranza.
Ecco dunque un insieme di regole per preservare la libertà anche nella schiavitù. E dopo? ci si chiederà. Dopo? Non facciamoci prendere dalla fretta. Se soltanto ogni francese fosse disposto a sostenere nel suo raggio d´azione tutto ciò che ritiene vero e giusto, se volesse dare il suo piccolo contributo al mantenimento della libertà, resistere all´abbandono e far conoscere la sua volontà, allora e soltanto allora questa guerra sarebbe vinta nel senso profondo del termine.
Sì, in questo secolo è spesso a malincuore che uno spirito libero si esprime con ironia. Su cosa si ha voglia di scherzare in questo mondo in fiamme? Ma la virtù dell´uomo è di conservarsi tale anche davanti alla negazione dell´umanità. Nessuno vuole ricominciare tra venticinque anni la duplice esperienza del 1914 e del 1939, perciò bisogna sperimentare un metodo completamente nuovo, basato su giustizia e generosità. Ma queste non si esprimono che nei cuori già liberi e nelle menti ancora lungimiranti. Formare questi cuori e queste menti, o piuttosto risvegliarli, è il compito insieme modesto e ambizioso che pertiene all´uomo indipendente. Bisogna attenervisi anche senza vedere oltre. La storia potrà tener conto di questi sforzi oppure no, ma saranno stati fatti.
Traduzione Elda Volterrani (© Catherine e Jean Camus, pubblicato per gentile concessione di Catherine Camus. L´articolo non è stato firmato da ma è stato autenticato)

Repubblica 6.5.12
Giornalista o scrittore sempre uomo in rivolta
di Dario Olivero


È già un uomo in rivolta Albert Camus quando scrive il manifesto sulla libertà di stampa che pubblichiamo per la prima volta in Italia in queste pagine. È il 25 novembre 1939, Hitler ha invaso la Polonia, la Seconda guerra mondiale è cominciata da due mesi. Camus ha ventisei anni, ha pubblicato due raccolte di racconti e soprattutto un´inchiesta sulla miseria della Kabilya su Alger républicain, prima di fondare con Pascal Pia Le Soir républicain, che dal 27 agosto di quell´anno combatte ogni giorno contro la censura introdotta nell´Algeria francese. Ma quello per la libertà di stampa è solo uno dei fronti sui quali Camus è in rivolta. Dall´anno prima e per tutto il periodo in cui lavorerà al nuovo giornale (che chiuderà il gennaio dell´anno successivo), sui taccuini che ha iniziato a tenere compare, si sviluppa e si conclude il suo primo romanzo, Lo straniero.
Di giorno caporedattore, di notte scrittore. Di giorno riempie le colonne con le notizie che faticosamente riesce a dare, mentre lascia bianche quelle con le notizie censurate, un atto di denuncia, perché «nessuna forza al mondo può fare accettare a un uomo di servire la menzogna». Di notte a confrontarsi con la sua creatura letteraria, questo strano uomo che con lo stesso stato d´animo ama una donna, assiste alla morte della madre, uccide, viene processato e subisce la condanna a morte. Di giorno la rivolta, di notte l´assurdo. Di giorno la vita ha un senso, di notte non ne ha.
Per il resto dei suoi anni Albert Camus combatterà contro questa contraddizione. Si può essere uomini giusti se nulla ha senso? Può Sisifo continuare a portare il suo masso sulla cima della montagna sapendo che una volta arrivato il masso rotolerà di nuovo giù? Ci si può ribellare sapendo che non c´è una causa superiore a cui votarsi? E infine, si può essere giornalisti liberi quando non c´è libertà? Camus ha risposto nell´unico modo che sentiva possibile: agendo con l´ostinazione dell´uomo che si rivolta «di fronte a ciò che lo nega». È l´ostinazione del giornalista che viene fuori da questo articolo sulla libertà di stampa ritrovato da Le Monde in un archivio di Aix-en-Provence e di cui non si sapeva nulla fino a oggi. Il giornalista che si batte per nazionalizzare l´industria bellica perché la guerra non sia decisa da interessi privati, contro il razzismo dei pieds noir, i coloni francesi in Algeria, e dei governi che continuano a opprimere «quelli che hanno il naso come non dovrebbero avere o parlano una lingua che non dovrebbero parlare».
Tutto questo mentre contemporaneamente cresceva nascosto dentro di lui lo scrittore, il filosofo. Racconta Meursault, voce narrante de Lo straniero, mentre si svolge il suo processo e guarda verso i giornalisti in aula: «Avevano già la penna in mano. Avevano tutti la stessa aria indifferente e un po´ ironica. Tuttavia uno di loro, molto più giovane degli altri, aveva lasciato la penna appoggiata sul tavolo e mi guardava. Nella sua faccia un po´ asimmetrica non vedevo che i suoi occhi, molto chiari, che mi esaminavano attentamente, senza esprimere nulla che fosse definibile. E ho avuto l´impressione strana di essere guardato da me stesso».

Corriere La Lettura 6.5.12
I figli naturali del marchese de Sade
Oggi il libertinismo è sinonimo di immoralità, lo si invoca per Abu Ghraib o Arcore Ma è stato la fucina intellettuale di fenomeni della civiltà moderna (e postmoderna)
di Guido Vitiello


Un giorno, quando saremo stanchi della critica di costume e di una sociologia un po' pettegola, dovremo disporci a guardare certe vecchie affiche pubblicitarie come fossero emblemi allegorici cinquecenteschi, e a leggere i loro slogan come gli enigmatici motti in latino che li accompagnavano. Risale al 1890 il magnifico manifesto dello Universal Food Chopper — tradurlo con «tritatutto» lo spoglierebbe di solennità — della Landers, Frary & Clark, una ditta di articoli per la casa. Al centro del quadro stava il corrusco congegno metallico, verso le cui fauci, come rapiti in un vortice, confluivano esseri d'ogni specie: maiali, cavoli, fagiani, sedani, galline. Nulla scampava alle mandibole del maciullatore universale, quasi un Lucifero dantesco o un diavolo di Bosch, metafisico arnese che duplicava il ciclo della natura, con la sua catena di divoratori e divorati, in una crudeltà lucida, metodica, industriale. Uno degli oggetti più comuni in cucina era annunciato da un manifesto che sembrava tradurre in immagini la filosofia del marchese de Sade. Che il più radicale dei pensatori libertini sia l'occulto nume tutelare della tranquilla quotidianità in cui siamo persuasi di vivere?
Una nuovissima antologia di testi libertini del Settecento francese, Tutti i piaceri dell'intelletto (Dedalo), curata da Maria Antonietta Del Boccio, consente di curiosare in quella che per alcuni è la fucina intellettuale della civiltà moderna. Della famiglia dei libertini — che annovera gaudenti e spiriti cerebrali, esteti e riformatori sociali, ingegni sofisteggianti o sataneggianti — Sade è il rampollo più oltraggioso. Una leggendaria copertina di «Life», nel 1966, lo celebrava come supereroe accanto a Batman e Superman.
Certo è che l'ombra del Divin Marchese turba spesso lo specchio d'acqua delle cronache. La si è evocata quando sui giornali comparvero le foto dei prigionieri di Abu Ghraib, con la loro scenografica efferatezza e i loro sinistri paraphernalia, cavi elettrici e guinzagli. La si è fatta balenare, all'occorrenza, nella discussione bioetica sugli embrioni umani o sul diritto d'aborto, oggetto di una dotta perorazione nella Filosofia nel boudoir. La si è chiamata in causa, infine, per accostare i sotterranei di Arcore alle segrete del castello di Silling, scenario delle Centoventi giornate di Sodoma. È di aprile l'ultima riemersione di Sade, quando «Newsweek» ha dedicato la copertina alle fantasie di sottomissione delle donne in carriera, redivive Justine. A inforcare gli occhiali sadiani, anche solo per gioco, nulla del nostro mondo ci apparirà innocente: dalle esibizioni dei body artist al banco delle carni di un supermercato, da certe scaltre campagne glamour sulle riviste di moda agli armamentari in pelle e acciaio del body building, tutto è posto sotto la triplice egida dell'edonismo torturatore, del cerimoniale e dell'organizzazione industriale. «Se c'è un mondo chiaramente riconoscibile e descritto nelle pagine di Sade questo è proprio il nostro», suggeriva il filosofo Riccardo De Benedetti in La chiesa di Sade: i commerci erotici, che un tempo avvenivano nei boudoir dei libertini, ora prosperano nelle chat room, le file di ragazze in attesa per un concorso di bellezza ricordano le riserve di carne fresca a disposizione dei nobilastri e delle badesse sadiane, ogni ambito dell'industria dell'intrattenimento è votato alla ricerca degli infiniti modi di estrarre il massimo piacere dai corpi e dal mondo naturale.
Per un'ironia del destino, all'uomo che più di ogni altro ripudiava la procreazione è stata messa in conto una progenie da patriarca biblico. In lui si è riconosciuto il padre della Rivoluzione e del Terrore, dell'ingegneria genetica e della disciplina taylorista, delle più incendiarie bande anarcoidi e delle più miti comuni hippie. Una fortunata tradizione (Adorno, Horkheimer, prima ancora D'Astorg) ne ha fatto il prefiguratore delle fabbriche di cadaveri naziste, ma per altri Sade è l'ispiratore della liberazione sessuale, dell'espansione sovrana e illimitata del desiderio. Al Divin Marchese inneggiavano i situazionisti di Guy Debord, e Raoul Vaneigem esortava i giovani sessantottini a leggere Sade quanto e più di Marx. Anche la critica del mondo moderno condotta in nome dei valori dello spirito, da Del Noce a Zolla, prendeva spunto dalle fantasie libertine, le stesse su cui prosperano da decenni i radicalismi immaginari di molte filosofie francesi o francesizzanti.
Che bel rompicapo: una filosofia in odore di clandestinità, relegata all'infernetto bibliotecario dei libri proibiti, è posta all'origine di un intero mondo, e ad essa si alimentano anche coloro che di quel mondo si giurano nemici. Che sia un'altra di quelle categorie che a voler troppo spiegare non spiegano più nulla, come la scimmia della favola di Tolstoj, che per accumulare nelle mani quanti più piselli possibile finisce per farli cadere tutti? A leggere l'antologia di Del Boccio si è tentati da un'altra risposta. Se a Sade e ai libertini è stato imputato di essere tutto e il contrario di tutto, è perché lo sono stati. Sperimentatori forsennati, hanno sondato tutte le possibilità sociali, morali e sessuali, dalle più illuminate alle più aberranti, operando un continuo esperimento logico sul corpo vile della società e della vita — senza escludere la reductio ad absurdum, che può prendere la forma di un'utopia di fratellanza o di un campo di sterminio.
Un frammento della Confraternita degli Afroditi, opera del libertino radicale André-Robert de Nerciat, porta il titolo Possibile? Perché no! Potrebbe essere il motto del libertinismo, ma non solo. Quando, a fine Ottocento, Villiers de L'Isle-Adam compose quel profetico intreccio di fantasie erotiche e fantasie tecnico-scientifiche che è il romanzo Eva futura, scelse come epigrafe quella che definiva la «divisa dei tempi moderni», il motto che racchiude tutto ciò che siamo e ci accingiamo ad essere, e che dovrebbe accompagnare il libro di emblemi della nostra epoca: Pourquoi pas?