lunedì 7 maggio 2012

l’Unità 7.5.12
Un giornale nuovo per voltare pagina
di Claudio Sardo


L’UNITÀ FESTEGGIA CON IL NUOVO FORMATO E LA NUOVA GRAFICA LA VITTORIA DI HOLLANDE. Ci avevamo puntato. Per l’Europa si apre una nuova strada: percorrerla sarà l’impegno dei progressisti e di tutti coloro che credono nel destino comune dell’Unione. Le politiche di austerità del centrodestra hanno fallito. Non ci hanno difeso dalla crisi, impediscono la crescita, colpiscono duramente i ceti più deboli, le famiglie, il tessuto delle imprese.
Dalla Francia arriva un vento nuovo. Bisognerà trasformarlo in politiche di investimenti e di innovazione. L’Italia è uno dei Paesi più grandi dell’Europa ed è chiamato a sostenere, da subito, il cambio di rotta. Se Hollande spingerà, nel rispetto del suo programma, verso un sostegno alla domanda, verso investimenti europei, verso l’istituzione della tassa sulle transazioni finanziarie, il governo Monti dovrà dargli sponda per modificare così gli equilibri nell’Unione.
Ma in questa svolta sarà decisiva la forza del centrosinistra italiano. Anche per questo le elezioni amministrative avranno un peso rilevante. Il fallimento del centrodestra nostrano è ancora più rovinoso di quello europeo. Ma ciò rende il compito dei progressisti persino più arduo: bisognerà ricostruire con pazienza sulle macerie, perché queste rischiano di travolgere tutto, compresa la speranza del cambiamento.
La speranza è un programma comune dei progressisti e un nuovo, coraggioso europeismo. Questa è la chiave a disposizione del centrosinistra per candidarsi alla guida del governo dopo Monti. Il Pd non può sottrarsi alla sfida. Se lo facesse produrrebbe altre macerie. Lo dimostra l’esito del voto in Grecia, dove hanno prevalso la frammentazione e i sentimenti antieuropei. La Grecia ha sbagliato molto, ma è stata poi abbandonata dall’Europa: queste sono le conseguenze. Guai a sterilizzate le alternative democratiche. Dopo la transizione di Monti, toccherà anzitutto al Pd offrire all’Italia una alternativa di governo nel segno della coesione, dell’equità, di un nuovo sviluppo.
L’Unità è tornata grande per combattere meglio questa battaglia politica. Il nostro impegno è offrire più giornalismo, uno sguardo più aperto sulla società e i suoi affani, un’apertura ancora maggiore al confronto delle idee.

Repubblica 7.5.12
L’Unità, oggi il nuovo formato "Una voce per cambiare l´Italia"


ROMA -Da oggi "L´Unità" cambia formato. Con lo slogan "Volta pagina, Italia" il giornale fondato da Antonio Gramsci nel 1924 oggi sbarca nelle edicole con 24 pagine nazionali - 28 pagine invece ne le edizioni di Toscana ed Emilia Romagna- e la possibilità di arrivare, in particolari occasioni, a 32. «La nuova Unità sarà in un formato grande modello berliner, come altri quotidiani - ha spiegato il direttore Claudio Sardo -. Ci sembra il formato più congeniale per un giornale politico, che vuole contribuire a una battaglia importante per il destino dell´Italia e dell´Europa».

l’Unità 7.5.12
Intervista a Laurent Fabius
«Questo è un voto storico per il futuro dell’Europa»
di Umberto De Giovannangeli


È stato premier francese dal 24 luglio 1984 al 20 marzo 1986. Qualcuno lo indica come ministro delle Finanze nel prossimo governo

«La Francia ha voltato pagina e aperto un nuovo capitolo che ha un nome: changement (cambiamento)». A parlare è una delle personalità di primissimo piano del Ps: Laurent Fabius, 66 anni, già primo ministro. Un grande passato e un futuro politico non meno significativo: molti analisti e fonti vicine al neo presidente François Hollande, lo indicano come il più accreditato al dicastero delle Finanze o al Quai d’Orsay, ma c’è chi pensa a lui come un possibile primo ministro.
La Francia ha scelto il suo nuovo presidente: Francois Hollande. Qual è il segno politico di questa vittoria?
«Non c’è dubbio: è il segno del cambiamento. Un cambiamento che non ha nulla di ideologico, ma si fonda su un progetto chiaro, su programmi, su proposte concrete che non sono libri dei sogni. Quello indicato da Hollande è un cambiamento pragmatico, efficace, che dalla Francia può trasmettersi all’Europa. So che spesso il termine “storico” è usato a sproposito. Ma in questo caso, credo che sia ben speso: quello di oggi è stato un voto storico per la Francia». C’è chi sostiene che la forza di Hollande sia stata soprattutto la debolezza del suo avversario.
«Non sono di questo avviso. Certo, la maggioranza dei francesi ha giudicato con severità i cinque anni di presidenza Sarkozy, soprattutto per la sua incapacità a far fronte alla crisi. Ma i francesi hanno votato “per” e non solo “contro”. E hanno premiato il candidato che si è dimostrato più serio, quello che ha prospettato un cambiamento possibile». Quali potrebbero essere le prime mosse, i primi atti dei primi 100 giorni della presidenza Hollande?
«Misure coerenti con i punti qualificanti del suo programma elettorale: investimenti sul piano-scuola, il blocco per tre mesi del prezzo della benzina, la riduzione del 30% delle retribuzioni del Presidente e dei ministri: un insieme di misure che danno conto di scelte strategiche, qual è l’investimento sull’istruzione, ed altre che danno conto di una volontà di far fronte nell’immediato a questioni, come il caro benzina, che pesano sulla quotidianità dei francesi. Un passaggio importante saranno poi le legislative di giugno. Davanti a noi c’è una estate di lavoro. Dovremo prendere decisioni importanti, soprattutto in campo finanziario, fiscale e sociale. “Il cambiamento è adesso” da oggi non è solo un felice slogan. È un impegno con i francesi che dobbiamo onorare. Da subito». C’è chi ha descritto Hollande come un’”ammazza ricchi”, facendo riferimento alla prospettata riforma con lo scaglione al 45% per i redditi superiori a 150 mila euro e l’imposta marginale del 75% per i redditi superiori al milione di euro.
«Non è una misura “ammazza ricchi”, io la chiamo giustizia sociale ed equità fiscale».
Guardando a questa vittoria in chiave europea. C’è chi teme che la presidenza Hollande indebolisca l’azione di rigore.
«È una preoccupazione che non ha ragione di essere. Hollande fa proposte che tendono al rafforzamento delle istituzioni politiche ed economiche europee. Mi riferisco, ad esempio, ad un ruolo attivo della Bce, ad una effettiva attuazione del Fondo europeo di stabilità, alla definizione di una tassa sulle transazioni finanziarie, finalizzate, come i project bond, al lancio di grandi progetti di sviluppo. Proposte fondate su una convinzione: la crescita favorisce, e non minaccia, la disciplina di bilancio».
La presidenza Hollande segnerà la fine dell’asse franco-tedesco?
«Niente affatto, semmai lo riequilibrerà rispetto a una dipendenza troppo marcata avuta da Sarkozy nei confronti delle posizioni della signora Merkel. Mi lasci aggiungere che il rapporto tra Parigi e Berlino ha radici storiche che non nascono e non si esauriscono con il cosiddetto “Merkozy”. Un primo risultato lo abbiamo già ottenuto, visto che il ministro degli Esteri tedesco Westerwelle ha espresso la volontà di Berlino a lavorare per un Patto di crescita. È un buon inizio».
Un buon inizio, lei dice. Per quale politica europea, soprattutto sul terreno decisivo: quello economico e finanziario?
«La convergenza europea è ovviamente necessaria, ma se essa non si limita a premere il freno. Politiche che puntano tutto sull’austerità non solo avranno conseguenze pesantissime sul piano sociale ed economico, ma l’iper-austerità impedisce un risanamento strutturale dei conti pubblici. Le disuguaglianze bloccano la crescita».
A suo tempo, lei fu il punto di riferimento di quanti nel Ps si schierarono per il no nel referendum sulla Costituzione europea. E oggi?
«La mia posizione era fondata sulla convinzione che per l’Europa le questioni centrali fossero allora quelle dell’occupazione e delle delocalizzazioni. In quel Trattato non c’erano, a mio avviso, indicazioni precise, misure concrete per un cambiamento su questi due punti cruciali. Ma in me non c’è mai stato un sentimento antieuropeo, un pregiudizio ideologico. E la riprova è che Hollande mi ha voluto al suo fianco in questa campagna. Resto convinto che non dobbiamo solo fissare gli obiettivi giusti, ma anche trovare mezzi e regole che non siano in contraddizione con questi obiettivi. Hollande li ha indicati chiaramente. La sua idea di Europa è anche la mia. Su questo non devono esserci dubbi: la sinistra francese sarà più europeista. Un europeismo progressista».
Nel ballottaggio, a favore di Hollande si è pronunciato il leader centrista Bayrou. È nato il centro-sinistra francese?
«È presto per dirlo. Di certo, e questa è una tradizione della Quinta repubblica, chiunque sostenga il progetto del presidente eletto è parte della maggioranza presidenziale. Ciò vale anche per Bayrou».

l’Unità 7.5.12
Il pressing di Bersani: «Monti colga l’occasione»
di Simone Collini


Ora può esserci la «svolta» di cui l’Europa ha bisogno. E ora anche Monti può cogliere l’«opportunità» offerta dal cambio della guardia all’Eliseo, lavorando con un «alleato prezioso» per «incalzare» la Germania sulla crescita. È questo il ragionamento che, appena annunciata la vittoria in Francia di François Hollande, si fa nei partiti italiani, di centrosinistra e non. Se l’entusiasmo del Pd era scontato (Pier Luigi Bersani tra l’altro a metà marzo è volato a Parigi per firmare insieme a Hollande e al segretario della Spd tedesca Sigmar Gabriel una piattaforma programmatica comune dei progressisti europei), il Pdl già dopo il primo turno delle presidenziali d’oltralpe si era segnalato per il repentino voltafaccia, scaricando il «ventennale amico» (Berlusconi dixit) Nicolas Sarkozy e lanciando apprezzamenti per il leader socialista. E ieri c’è stato un degno seguito, al punto che il primo commento in lingua italiana del voto francese, a urne aperte e sulla base degli exit-poll belgi, è stato quello del coordinatore del Pdl Sandro Bondi, per il quale «il successo di Hollande può aprire uno spiraglio per correggere quegli accordi che contribuiscono a peggiorare la recessione economica in cui è avvolta l’Europa» (e pazienza se quegli accordi sono stati firmati dal governo italiano quando era presidente del Consiglio Berlusconi).
STOP A DESTRA E POPULISMI
Il discorso è più serio per quel che riguarda il centrosinistra. La vittoria di Hollande apre per il Pd prospettive fino a non molto tempo fa tutt’altro che pacifiche. Sia nel senso che ora è possibile un’inversione di rotta delle politiche europee, finora centrate sul rigore e la disciplina di bilancio per iniziativa soprattutto dell’asse Merkel-Sarkozy, sia nel senso che ora c’è la dimostrazione che un’alleanza tra progressisti e moderati è non solo possibile (il centrista François Bayrou si è schierato al secondo turno con Hollande) ma anche vincente. Con tutto quel che può significare per le vicende nostrane, in vista delle politiche del 2013.
«È una vittoria che attendevamo ed è un passo determinante per invertire il ciclo disastroso dei governi delle destre e anche per sconfiggere i venti populisti e regressivi che si fanno sentire in Europa», dice Bersani guardando al risultato francese. Ora l’Italia, per il leader del Pd, «deve cogliere tutte opportunità che verranno dalla nuova situazione politica». Un discorso che riguarda il governo ma non solo.
Hollande può infatti essere un grande alleato, per Monti, per «incalzare» (il verbo è stato usato dal presidente del Consiglio) Merkel verso politiche per la crescita: «E spero non sfugga a nessuno dice Bersani che l’Italia ha tutto da guadagnare da un avanzamento della piattaforma dei progressisti europei, che riesce anche a individuare obiettivi di crescita da affiancare a un rigore che se è cieco ci porta a una recessione indomabile».
Un primo test, in questo senso, può venire dalla ratifica in Parlamento del “Fiscal compact”, fortemente voluto dall’asse Merkel-Sarkozy e che Hollande in campagna elettorale aveva annunciato di voler riformare. Il Pd non farà mancare il suo voto favorevole, ma Bersani è convinto che il governo debba sfruttare l’effetto del voto francese per integrare il trattato con misure a favore della crescita. «Sono certo che Monti vorrà cogliere tutti gli spazi per un cambiamento delle politiche europee», è il suo ragionamento. «Il Fiscal compact può essere emendato per diventare praticabile e sostenibile. E l’Italia ha tutto l’interesse a cogliere ogni spazio perché ciò sia possibile».
PROGRESSISTI E MODERATI
Ma la vittoria di Hollande, leader del partito socialista francese a capo di un’alleanza che va dall’esponente di sinistra Jean-Luc Mélenchon al centrista Bayrou, dice anche altro per Bersani: «È così impensabile quello che diciamo anche in Italia chiede retoricamente il leader Pd e cioè che la ricostruzione del Paese possa essere affidata a un incontro tra forze progressiste e anche moderate contro il populismo delle destre fallimentari?».
UDC CAUTA, SEL ENTUSIASTA
La vittoria di Hollande viene però commentata in modo diverso da Casini e Vendola, con il leader centrista che si limita a un conciso «la vittoria di Hollande può essere salutare per l’Europa, ho più dubbi che lo sia per i francesi», e con il leader di Sel che esulta: «La sinistra che difende l’Europa sociale, l’Europa dei diritti e del welfare, vince ovunque».
Berlusconi, tanto più dopo la vittoria di Hollande, continua a spargere la voce che il Pd voglia andare al voto in ottobre. È una tattica, che dà fiato a chi come Vendola e Di Pietro chiede al Pd di staccare la spina al governo, e che punta ad inaugurare sotto il segno dell’instabilità la prossima legislatura. Una trappola in cui Bersani non cade. «Non attribuisca a noi intenzioni sue», è la replica all’ex premier. La vittoria socialista in Francia non fa cambiare i piani del Pd, dal punto di vista dei tempi: «Sosteniamo Monti fino al 2013».

Corriere 7.5.12
Intervista a Bersani
«Ha unito sinistra e centro Un modello anche per l'Italia»
Bersani: foto di Vasto o Casini? Con Hollande sia Mélenchon sia Bayrou
di Monica Guerzoni


ROMA — «È una grande soddisfazione, una bella notizia per l'Europa».
Per scaramanzia non ha voluto parlare fino all'apertura delle urne, ma alle otto di sera Pier Luigi Bersani è «ovviamente» contento. Il socialista Hollande ha detronizzato Sarkozy e lanciato la «campagna elettorale europea» dei progressisti, che nel 2013 potrebbe portarlo a Palazzo Chigi.
Spera in un'onda lunga per la sinistra, segretario?
«È una vittoria che attendevo. Penso possa essere un passo determinante per invertire un ciclo decennale di governo delle destre e per trattenere quelle tendenze populiste regressive che, in una crisi così acuta, insorgono in Europa. Ora si può imboccare una strada di cambiamento».
Lei ci ha creduto da subito, è salito sul palco con lui, ha firmato a Parigi il manifesto dell'Europa progressista. Quanto le somiglia, Hollande?
«Non lo so... Si dice che sia arrivato il momento della normalità, della sobrietà e se è così dico alla buon'ora. Non è solo una questione di rapporto personale tra me e Hollande, quel che ci unisce, anche con il leader della Spd tedesca Gabriel, è un dato politico, una incredibile convergenza di idee e proposte. I progressisti esprimono leadership che hanno un carattere più collettivo, non giocano sulla personalizzazione. Avendo avuto Berlusconi siamo stati i primi a fare i conti con lo stile populista e infatti abbiamo cominciato a costruire partiti aperti, con un profilo nuovo».
Dopo la Francia sarà l'Italia a svoltare a sinistra?
«La vittoria di Hollande nasce dalla confluenza di elettorato di sinistra e di centro democratico, contro una destra fortemente condizionata da una pulsione reazionaria. La saldatura tra forze di sinistra e forze moderate costituzionali è un tratto di fondo della situazione europea ed è l'alternativa al ripiegamento regressivo della destra. Ma quando ne parlo, in Italia, mi si chiede sempre quale foto preferisco...».
La foto di Vasto, con Vendola e Di Pietro, o quella con Casini?
«Lo trovo stucchevole e vorrei far notare che Bayrou e Mélenchon hanno votato tutti e due per Hollande. Io ho fatto appello a un patto di legislatura e ne stiamo costruendo le condizioni».
Con Di Pietro o senza?
«Io non arruolo e non escludo nessuno, ma voglio che il centrosinistra appaia come un solido partito di governo. Quando sento Di Pietro dirmi "ti aspetto sulla sponda del fiume" rispondo, con il sorriso sulle labbra, che aspettare è una posizione comoda, ma non è mica detto che poi io passi...».
Lei è molto fiducioso sui risultati delle Amministrative, ma un Pd più forte e un Pdl indebolito non rischiano di destabilizzare il governo?
«Credo proprio di no. Io mi ritengo già abbastanza in salute, ma un Pd più in salute ancora è in grado di svolgere meglio il ruolo e non credo che il Pdl voglia prendersi la responsabilità di far saltare Monti come rimedio a mali elettorali. Non mi aspetto effetti particolari sul governo, che anzi, con gli spazi europei che si aprono, può guadagnare in vitalità».
Forse gli elettori gradirebbero, visto il calo di consensi. Lei ha detto che non trama alle spalle, ma è sicuro che la vittoria di Hollande non le farà venir voglia di votare?
«Io ho detto una parola ed è quella. Sostenendo il governo Monti ci siamo caricati di responsabilità non nostre, con generosità. Il problema sono i problemi del Paese. L'azione di governo dovrebbe mostrare una comprensione piena del risvolto drammatico della crisi e dare segni concreti che si vuole risolvere il tema dei pagamenti e degli esodati. E consentire ai comuni di fare un po' di investimenti. Se si fosse presa la nostra proposta su Imu e pensioni non saremmo in questa situazione. Il che non farà venir meno la mia lealtà».
Con Hollande al posto di Sarkozy l'Europa sarà più solidale?
«Nessuno può più credere che ci si salvi da soli. A poco a poco sembrerà assurdo anche in Germania e si farà largo l'idea di una Europa comunitaria, che usa strumenti comuni per affrontare la crisi. Non è più possibile che a pagare siano solo il lavoro e il welfare».
Cosa vi siete detti dopo la vittoria con Hollande?
«Che Italia e Francia devono lavorare insieme».
Riuscirete a imporre la piattaforma dei progressisti?
«Uno può essere di destra o di sinistra, ma quella piattaforma può solo essere un vantaggio per l'Italia. Partiamo da una tassa sulle transazioni finanziarie, poi project bond ed eurobond, potenziamento della Banca europea di investimenti e coordinamento delle politiche economiche nazionali».
Con la rottura dell'asse «Merkozy» integrare il fiscal compact diventa un obiettivo possibile?
«Sì, diventa possibile e mentre accade è ora di considerare anche la tempistica. Sentirò Monti e Hollande, ma già al Consiglio europeo di giugno dobbiamo adottare qualche misura che abbia un primo impatto sulla recessione e faccia ripartire gli investimenti, penso a una mini golden rule».
Hollande vuole una stretta sulle banche e una forte patrimoniale sui redditi, è un piano compatibile con Monti?
«Bisogna distinguere tra le proposte nazionali e la politica europea, sulla quale ci possono essere significative convergenze. Non c'è bisogno di un valzer di alleanze tra Italia, Francia o Germania. Io vedo un tavolo nuovo, dove Monti potrà inserire le sue idee sulla crescita e la Francia vorrà avere voci amichevoli a sostegno della sua piattaforma».
In Grecia la sinistra radicale si rafforza e i partiti che sostengono i tecnici crollano. Può accadere da noi dopo Monti?
«Non lo penso, l'Italia non è la Grecia. Ma dico attenzione, perché quei fenomeni drammatici di radicalizzazione sono segnali che vanno colti. La tedesca Bild ha titolato "La Grecia sceglie il caos" e io lo trovo indecoroso. Se non arricchiamo le discussioni economiche con una visione politica, va a rischio l'idea di Europa».
Pensa mai alla fine che fece la gioiosa macchina da guerra di Occhetto?
«Ho idee sufficienti per tranquillizzare su questo punto. E se non fossi convinto io stesso che si può rispondere positivamente a quel dubbio, mi riposerei. Non si può riscrivere la storia, il centrosinistra è quello di D'Alema, Prodi, Ciampi, Padoa-Schioppa... È una storia di governi riformatori e non di gioiose macchine da guerra».

l’Unità 7.5.12
Finalmente la sinistra ripudia il liberismo. Ora una nuova agenda
di Ronny Mazzocchi


SARÀ NECESSARIO ANCORA QUALCHE GIORNO PER CAPIRE COSA CAMBIERÀ IN EUROPA DOPO QUESTO CURIOSO ELECTION DAY. Per varie ragioni sono infatti andate al voto Italia, Francia, Germania e Grecia, a cui bisogna aggiungere il grande successo del Partito laburista inglese alle elezioni amministrative della scorsa settimana. Ma un dato sembra ormai certo: la sinistra europea, dopo una lunga fase di appannamento che l’ha condotta quasi ovunque all’opposizione, è tornata in campo. Lo sta facendo con una ritrovata capacità di proporre un’analisi autonoma non più presa a prestito dalla cultura neoliberale. Termini come uguaglianza, diritti e lavoro sono tornati prepotentemente di moda nel vocabolario dei progressisti, dopo essere stati ingiustamente marginalizzati se non addirittura banditi durante i ruggenti anni Novanta. Ma è soprattutto nel campo delle politiche europee che osserviamo le maggiori discontinuità rispetto al recente passato.
La sinistra sembra essersi finalmente emancipata da quell’asfissiante visione tecnicistica che aveva ridotto l’europeismo alla mera esaltazione del mercato unico, della competitività e dei vincoli contabili, per proporsi come forza garante di un rilancio di quel progetto comunitario affogato nelle paludi dell’austerità e dell’egoismo nazionale in cui è stato condotto dai partiti conservatori nell’ultimo decennio. La prova elettorale di questi giorni e soprattutto l’esito delle presidenziali francesi misurerà la capacità di trasformare questa ritrovata autonomia culturale in un credibile progetto politico.
Sarà innanzitutto necessaria una grande lucidità nell’individuare, nel quadro più generale di una riforma delle istituzioni comunitarie, politiche e azioni capaci di portare al più presto il vascello europeo fuori dalla tempesta. Se tutti ormai parlano di politiche per la crescita come panacea di tutti i mali, bisogna prendere sul serio l’ammonimento posto ieri da Leonardo Domenici su queste pagine, ovvero che ad una nuova fase di sviluppo bisogna arrivarci vivi e questo non è affatto scontato.
Se è dato per acquisito almeno fra i progressisti che la causa della crisi in cui ci troviamo non è l’eccesso di indebitamento pubblico, ma il gravissimo dissesto del sistema finanziario privato, è evidente che il suo risanamento è condizione necessaria e imprescindibile per arrestare la caduta della produzione e dell’occupazione. Il risanamento richiederà varie forme di intervento pubblico, dall’assorbimento dei debiti privati non più esigibili alla ricapitalizazione di alcune banche private. Ma affinché la riparazione tenga, è necessario che ai titoli pubblici dei Paesi dell’euro venga restituita affidabilità e qualità finanziaria per tutto il tempo necessario agli investitori privati per ricostruire la loro piena operatività sui mercati. Il portafoglio di qualsiasi investitore, infatti, richiede la presenza di una solida base di attività prive di rischio, senza le quali non è possibile nemmeno calcolare in modo credibile i prezzi e quindi i temibili spread. Nella vita economica, però, non c’è niente di assolutamente privo di rischio ed è necessario inventarlo attraverso quello che Paul Samuelson riferendosi alla moneta chiamava «espediente sociale».
A questo scopo occorre creare quella base finanziaria pubblica priva di rischio, sottraendola dalle forze di mercato a partire innanzitutto dalle agenzie di rating e sottoponendola a un regime di prezzi amministrati dalle istituzioni responsabili della stabilità monetaria e finanziaria. Gli strumenti tecnici ci sono e varie sono le proposte in campo, prima fra tutte la messa in comune di parte del debito pubblico europeo con meccanismi di compensazione capaci di non penalizzare i Paesi virtuosi. L’importante è scegliere in fretta, già nelle prossime settimane. Senza questo importante passo, sia le manovre fiscali di consolidamento dei conti pubblici che eventuali piani di rilancio della crescita saranno inutili. Mettere in cima all’agenda questo tema può essere il primo segnale che, con i progressisti al governo dell’Europa, l’uscita dalla crisi non sarà più soltanto uno slogan con cui aprire i resoconti ufficiali dei meeting europei.

La Stampa 7.5.12
Intervista
Fassina: ora una svolta Il governo deve rinviare il sì al “Fiscal compact”
“E rallentare il processo-riduzione del deficit”
di Fabio Martini


Il primo, tangibile rimbalzo in Italia della vittoria socialista in Francia si può misurare attraverso le parole di Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, che non si limita a compiacersi per la vittoria di Hollande, ma si spinge oltre: «A questo punto credo che il governo italiano debba sintonizzarsi sulla novità francese, disponendosi, da una parte a rinviare l’approvazione in Parlamento del Fiscal compact, dall’altra rallentando il processo verso la riduzione del deficit». Parole impegnative ma meditate quelle di un raggiante Stefano Fassina, coriaceo assertore di una linea di sinistra dentro il Pd, ma anche parole destinate ad aprire qualcosa più di un dibattito accademico.
Era da 23 anni che un socialista non conquistava l’Eliseo: che segno è?
«E’ il segno che si riapre una prospettiva progressista in tutta l’area Euro e cambia l’agenda in Europa. Anche alla luce dei risultati in Grecia».
Della piattaforma di sinistra con la quale Hollande è riuscito a vincere, c’è qualcosa che può essere importato in Italia?
«Una piattaforma di buonsenso più che di sinistra. Esce battuta la linea della cieca austerità portata avanti dalla Bce che sta portando tutti a fondo e dunque va “importata” la linea opposta, quella che potrà salvarci dal naufragio. E d’altra parte non si capirebbe l’endorcement a favore di Hollande da parte del Financial Times e di così tanti interlocutori non progressisti».
I socialisti francesi sono i più «conservatori» della tradizione e ora anche i più vincenti: cosa importerebbe delle loro ricette di politica interna?
«La concezione che loro hanno del rapporto tra austerità, diseguaglianza e crescita e su questo c’è piena sintonia con il Pd e gli altri partiti progressisti europei».
Ma il tema dell’austerità in realtà non è più italiano che francese?
«No, non è così. La recessione si sta allargando a macchia d’olio in tutta Europa e lo stesso Sarkozy si era impegnato ad adottare manovre correttive. E in ogni caso il fattore più rilevante è che cambia l’agenda in Europa».
Cambia anche vista da Palazzo Chigi?
«Certamente. OCcorre che l’Italia si predisponga a rinviare l’approvazione del Fiscal compact».
Ma l’Italia non è la Francia...
«Già, ma il rinvio è stato chiesto anche dalla Spd e i socialisti francesi hanno già detto che non sono disponibili ad una semplice ratifica prima della verifica da completare nel corso del vertice europeo di fine giugno. Anche noi dovremmo rinviare l’approvazione a dopo l’estate, dopo che saranno stati fatti significativi passi avanti in direzione dello sviluppo. Ma serve anche altro. Va rivisto, subito, il percorso verso la riduzione del deficit, in modo che almeno un punto del Pil sia indirizzato in spese per investimenti già nel 2012».
Vuol dire che finora avete sostenuto Monti col naso turato?
«Monti si è trovato con un cappio al collo, “preparato” da Berlusconi e le scelte sbagliate di politica economica sono state il prezzo politico per tornare a sedersi con la Merkel. Ma ora i tempi sono maturi per una svolta in tutta Europa».
E’ Bersani l’Hollande italiano?
«Certo. Lui ha vinto senza leaderismi, con una grande squadra, un partito vero e l’investitura delle Primarie».

La Stampa 7.5.12
Il ciclone di Parigi
di Cesare Martinetti


François Hollande vince le elezioni francesi e subito manda ad Angela Merkel il messaggio che molta parte dell’Europa (Italia compresa) si aspettava: l’austerità «non è una fatalità» e la costruzione europea deve essere riorientata verso la crescita. È stato il grande tema della sua campagna elettorale, la questione si apre a Bruxelles e Berlino, Hollande ha la sfrontatezza tutta francese di dire che la sua vittoria accende una speranza e una nuova prospettiva per molti Paesi. Ma, di nuovo rispetto al vecchio socialismo francese, sa anche dire che i conti vanno raddrizzati per ridurre il deficit e in prospettiva tagliare il debito. Insomma, la sfida è alta, vedremo presto.
Oggi dobbiamo registrare un risultato elettorale clamoroso anche se non inatteso. François Hollande è il nuovo Presidente della Repubblica, diciassette anni dopo François Mitterrand un socialista torna all’Eliseo. Le circostanze sono simili: allora fu Valéry Giscard d’Estaing a mancare la rielezione dopo il primo mandato, questa volta è Nicolas Sarkozy, il giovane Presidente della «rupture», l’uomo che aveva promesso di rinnovare la destra francese e la Francia intera dopo gli incolori anni di Chirac.
Per Sarkozy la sconfitta è bruciante, direttamente proporzionale all’investimento emotivo e politico che quest’uomo frenetico e impulsivo aveva buttato in campo. I francesi hanno rifiutato il suo bonapartismo da parvenu e l’unica vera rupture evidente dopo cinque anni di potere è stata tra il Presidente e i francesi. Sarkozy ha riconosciuto la sconfitta e si è preso tutte le responsabilità. Non ha annunciato il ritiro dalla politica, ma ha detto che torna «un francese tra i francesi». Difficile immaginare un suo futuro, oggi come oggi. Certo il suo partito appare sconquassato in vista delle legislative che saranno tra un mese.
All’Eliseo arriva un uomo che si è presentato alla Francia come «normale» per contrapporsi agli eccessi caratteriali del suo antagonista. Hollande è stato detto anche «grigio», «molle» come un budino, incolore, l’eterno secondo. In questa campagna ha dimostrato invece qualità culturali, un progetto politico riconoscibile non soltanto dalla gauche e una tenuta temperamentale invidiabile nel momento clou dello scontro con Sarkò, il duello televisivo di mercoledì scorso. Tutti pensavano che Sarkozy se lo sarebbe mangiato, e invece è successo esattamente il contrario: il Presidente è apparso fragile come mai era accaduto in tutta la sua carriera politica, in difesa e indifeso di fronte al modesto bilancio della sua presidenza, incapace di replicare all’antagonista che con pacata, ma studiata sfrontatezza ha ripetuto come un mantra: «Moi, le Président de la République, si... ». Un artificio retorico molto mitterrandiano.
Il risultato del voto ha una dinamica essenzialmente franco-francese, come si dice a Parigi, ma potrebbe trasformarsi in un ciclone a Bruxelles e Berlino. Hollande, un europeista convinto, figlio politico di Jacques Delors, che rimane tuttora il più prestigioso presidente della Commissione, ha fatto della rottura del rigore da copyright di Angela Merkel (al quale Sarkozy si era accodato più per tattica difensiva che per convinzione) il principale obiettivo di politica europea.
Come lo farà lo vedremo presto. Il calendario è serrato: il 18 ci sarà il passaggio dei poteri, il nuovo Presidente scioglierà l’Assemblée e convocherà la elezioni politiche. Ma intanto si formerà un nuovo governo. I candidati al ruolo di primo ministro sono due: Martine Aubry, segretaria del Ps ed ex ministro del Lavoro del governo Jospin (la donna che ha firmato la legge delle 35 ore) e Jean-Marc Ayrault, professore di tedesco, sindaco di Nantes, capogruppo all’Assemblée e fedelissimo di Hollande.

Corriere 7.5.12
«Ma se vuole fare la differenza deve rilanciare l'Unione politica»
Tzvetan Todorov: la gauche rinunci al tabù della sovranità nazionale
di Stefano Montefiori


PARIGI — L'elezione di François Hollande è una svolta per l'Europa?
«Credo che ci saranno dei piccoli cambiamenti. Un miglioramento di stile, Merkozy non esiste più e la sinistra al potere in Francia cercherà di ricostituire un rapporto paritario con la Germania e con gli altri grandi Paesi come l'Italia. Ma non mi aspetto mutamenti radicali, né nel bene né nel male. Penso che i francesi abbiano eletto una specie di Chirac di sinistra». Lo storico e filosofo Tzvetan Todorov, illustre francese nato 73 anni fa a Sofia che ama definirsi «cittadino europeo», ha uno sguardo «laico, lontano dagli schieramenti» nei confronti della corsa all'Eliseo.
Hollande ha vinto promettendo il cambiamento. Non gli crede?
«Credo che qualcosa cambierà in Francia, dove Sarkozy ha degradato il ruolo e la solennità dello Stato, che per noi è una specie di Chiesa terrena. Il presidente uscente ha troppo spesso dato l'impressione di poter dire tutto e il suo contrario, senza che alle parole dovessero necessariamente seguire degli atti. La politica dell'annuncio, dell'emergenza, di una nuova legge promessa a ogni fatto di cronaca, ha svilito l'istituzione presidenziale».
Questione di stile quindi?
«Sì, in gran parte. Immagino che con Hollande ci sarà un cambiamento di accenti, e non di orientamento globale. Per esempio, quanto ai temi che mi stanno a cuore, i socialisti hanno approvato le guerre alle quali la destra e Sarkozy hanno deciso di partecipare. La missione in Libia ne è un esempio».
Fino a poche settimane fa il socialista Hollande faceva paura. «Piuttosto pericoloso», lo ha definito l'Economist.
«Questa visione della sinistra al potere come l'arrivo dei soviet mi fa molto sorridere. Hollande è espressione di un partito socialista che ha prodotto anche Dominique Strauss-Kahn, che prima di essere travolto dalle note vicende era direttore del Fmi e soprattutto il più brillante e convinto interprete dell'economia liberale. Quella è ormai la cultura della sinistra francese».
Alla paura iniziale si è sostituita una speranza. Che Hollande sappia trascinare con sé l'Europa verso politiche di crescita abbinata alla disciplina budgetaria.
«Mi auguro che ci riesca, lo attendo alla prova dei fatti. Ha davanti a sé un compito molto difficile, e spazi di manovra molto limitati».
Che ne pensa della priorità di Hollande di «rinegoziare il trattato di stabilità»?
«Forse ci riuscirà, può darsi. Ma io non ho mai sentito da Hollande e dal suo entourage una parola veramente diversa sull'Europa, sulla necessità per esempio di valorizzare l'unica istanza democratica dell'Ue, il Parlamento. In Francia gli eurodeputati di destra o di sinistra contano poco o nulla, e questo ci dice qualcosa sul reale afflato europeo anche della sinistra. Si preferisce parlare sempre della Commissione, ma per trattarla da capro espiatorio. Anche Hollande e i socialisti parlano dell'Europa per darle le colpe».
L'Europa, e l'euro, ultimamente non sono molto popolari.
«Capisco che in tempi di elezioni fosse difficile chiedere il voto dei francesi promettendo loro, come medicina, una quantità maggiore della malattia. Sarò più ottimista su Hollande e sulla nuova Europa quando lo sentirò parlare di cessioni di sovranità degli Stati. Ci sono molti modi per agire contro la crisi, si può puntare di più sulla crescita o sull'austerità. Ma il nodo di fondo resta non affrontato: abbiamo un'unione monetaria, e nessuna reale gestione politica unificata. Anche Hollande finora ha taciuto».
In Francia ci si aspetta molto dalla capacità di Hollande di riconciliare le diverse anime del Paese.
«Su questo sono più fiducioso. Di Sarkozy ho apprezzato l'energia, il mettere tutto sé stesso nel tentare di risolvere i problemi. Purtroppo ha agito in modo confuso, e dannoso, per esempio sull'immigrazione».
Per avere una speranza di vincere, Sarkozy doveva rivolgersi agli elettori del Front National.
«Lo ha fatto in modo scomposto, passando ogni limite negli ultimi giorni. Da anni la sua politica rischiava di avere come unico effetto quello di legittimare le posizioni di Marine Le Pen, ed è quello che è accaduto: lui ha perso, e il discorso lepenista è ormai comunemente accettato».
Qui la diversità di Hollande appare evidente.
«E' vero, anche se per esempio quanto alla legge sul burqa Hollande ha avuto un atteggiamento ambiguo. Non l'ha votata, ma neanche si è battuto contro la sua approvazione».
Quale Francia si aspetta oggi?
«Una Francia più pacifica, moderata, calma. Resta da vedere se sarà questo a portarla fuori dalla crisi».

Corriere 7.5.12
«François apripista per l'Europa perché l’austerità non basta più»
Il portoghese Màrio Soares: ha dimostrato una grande visione
di Andrea Nicastro


MADRID — L'età regala a qualcuno il dono della chiarezza. Mario Soares è tra questi. Per l'anticonformismo non ha avuto bisogno di aspettare tanto. François Hollande? «La ciambella di salvataggio di un'Europa che sta affogando». L'incubo da spread? «Fumo negli occhi. Questa è la crisi dell'ideologia neoliberale. Nasce da un capitalismo che ha rinunciato a produrre e che ha puntato tutto e solo sulla finanza». La via d'uscita? «Prendere la manovella e stampare Euro. Solo con più risorse si potrà fermare il circolo vizioso di più tagli, più disoccupazione, più deficit».
Il padre del socialismo portoghese, due volte presidente, a 87 anni non ha perso il vizio della politica. Da un anno (prima di Paul Krugman, prima di Mario Monti, prima di quasi tutti) si è schierato contro il «pensiero unico pro austerità» targato Merkozy. E quando nel maggio 2011 il Portogallo si trovò davanti al bivio tra il fallimento oppure aiuti con tagli allo Stato sociale, si schierò perché Lisbona accettasse la strada della bancarotta. Ma non per «tornare a un Portogallo "orgogliosamente solo" come diceva il dittatore Salazar, ma per un'Europa di cittadini e non di finanzieri».
Presidente Soares, cosa si aspetta dal voto francese?
«Credo nella vittoria di Hollande. Lo ricordo quando era un collaboratore del mio amico François Mitterrand. Ha dimostrato grande visione. Con lui all'Eliseo il sentiero politico europeo si addolcirà. Hollande è l'apripista di un pensiero che tutta la sinistra europea ha ormai maturato. L'austerità da sola non basta, porta solo più disoccupazione e più crisi. Non possiamo permetterci che l'Europa vada a fondo, per cui dobbiamo trovare una rotta economica differente».
Senza bilanci pubblici sotto controllo i mercati non presteranno più denaro.
«La soluzione è semplice quanto antica. L'hanno già percorsa, proprio in risposta a questa crisi, Stati Uniti e Gran Bretagna. Basta che qualcuno dica a Mario Draghi di scendere in cantina e cominciare a girare la manovella per stampare Euro. Così si avranno le risorse per riattivare la crescita, ridurre la disoccupazione e interrompere il circolo vizioso della recessione».
Berlino però preme sempre e solo per un deficit zero.
«Non sono nella testa della signora Merkel per capire cosa la spinga a sposare questa tattica. So solo che sbaglia. Berlino non vive isolata. Anche la Germania finirebbe vittima di un arretramento continentale».
L'inflazione non conta proprio nulla?
«Frau Merkel ne ha una paura irrazionale. Insomma qui non si tratta di numeri e statistiche, ma di vita reale: lavoro oppure disoccupazione, un letto in ospedale o la polmonite sotto i ponti. Sono in gioco politica ed etica. Noi europei abbiamo appoggiato e pagato per l'unificazione della Germania. Abbiamo aiutato il popolo tedesco quando è stato il momento. Siamo stati solidali. Ora tocca alla Germania. Invece la troika (Ue-Fmi-Bce) va in Grecia, va in Portogallo e impone misure da suicidio. Non è solidarietà questa».
Perché i tedeschi dovrebbero voler pagare il debito di portoghesi o italiani?
«Perché i valori della solidarietà e dell'uguaglianza sono scritti nella Costituzione europea. Perché la rinuncia a quei valori ha comportato già troppe sofferenze. Se i valori vengono meno, di che Europa stiamo parlando? Qualcuno dovrebbe ricordarselo».
L'ha detto lei, sono scelte politiche.
«Scelte di leader codardi, senza progetti. Chi abbiamo avuto sino ad oggi al timone per tirarci fuori da una tempesta creata nel 2008 in America con i giochini sporchi della finanza? Merkel e Sarkozy. Mi spieghino cos'hanno nella loro agenda per i prossimi 20 anni? Hanno mai pensato ad una prospettiva, non dico storica, ma almeno che non fosse solo seducente per i propri elettori?».
Lei è venuto a Madrid per parlare di «crisi della democrazia» con la Fundaciòn Alternativas. Ne fa un problema di capacità di rappresentanza?
«Primo è un problema di persone. Non esiste un Helmut Kohl, un Willy Brandt, un François Mitterand, un Felipe Gonzales, un Pietro Nenni. Secondo è un problema di scuola politica. C'è qualcuno che voglia portare avanti il progetto europeo? Guardiamoci attorno. Oggi al potere in Europa non c'è un solo partito che abbia aiutato a costruire l'Unione. Non ci sono socialisti e non ci sono cristiani democratici. O almeno non c'è nessun movimento che sia degno erede di quelle forze. Oggi dominano populisti e nazionalisti. Che cosa ci si può aspettare?».

l’Unità 7.5.12
Merkel perde lo Schleswig La Spd pronta a formare la coalizione
di Gherardo Ugolini


Chissà cosa pensavano ieri gli elettori dello Schleswig-Holstein, piccolo Land all’estremo nord della Germania, mentre deponevano la scheda nell’urna per rieleggere il parlamento ragionale. La simultaneità con ben più importanti elezioni politiche nazionali in Francia e Grecia ha finito col conferire a quel test amministrativo un valore politico superiore al previsto. E se la chiave è questa, il risultato è senz’altro poco confortante per Angela Merkel. La Cdu, da sette anni consecutivi alla guida della regione, perde infatti voti scendendo al 30,9%, il peggior risultato dal dopoguerra, pur riuscendo d’un soffio a confermarsi la forza politica più votata nel Land. I numeri per riproporre una maggioranza nero-gialla parallela al governo nazionale non ci sono, visto che anche i liberaldemocratici dell’Fdp perdono consensi (dal 14,9% all’8,1%).
Ciononostante per l’Fdp si tratta di una boccata d’ossigeno: dopo i ripetuti fallimenti delle ultime regionali, questa volta riesce a stare al di sopra della soglia di sopravvivenza (5%). Il merito è soprattutto del leader locale, Wolfgang Kubicki, più apprezzato dello smunto Philipp Rösler, successore di Westerwelle alla presidenza del partito.
L’Spd ottiene un soddisfacente risultato salendo al 30,3% e guadagnando cinque punti rispetto alla precedente consultazione. Il candidato governatore dei socialdemocratici, il combattivo Torsen Albig, borgomastro di Kiel, sarà probabilmente il nuovo governatore del Land alla guida di una maggioranza composta da Spd, Verdi (13,2%) e il Sww, partito che rappresenta la minoranza etnica danese. Questa formazione ha ottenuto il 4,5%, ma avrà ugualmente tre rappresentanti in parlamento, dal momento che il sistema elettorale tutela le comunità etniche esonerandole dall’obbligo di superare la soglia di sbarramento. Le elezioni dello Schleswig-Holstein registrano inoltre lo scivolone della Linke che si ferma al 2,3%, mentre i Piraten raggiungono l’8,2% celebrando l’ennesimo «arrembaggio» riuscito, il terzo consecutivo dopo Berlino e Saarland.
Parlare di sconfitta per Angela Merkel sarebbe senz’altro esagerato, ma di sicuro il risultato dello Schleswig-Holstein non è stato quello che auspicava la cancelliera, visto che la Cdu sarà costretta a cedere la guida del Land ai socialdemocratici. Ora gli occhi sono tutti puntati sull’appuntamento del Nord-Reno Vestfalia, dove si vota tra una settimana. Trattandosi di un Land tra i più popolosi (18 milioni di abitanti) e ricchi della nazione, quel test consentirà di valutare meglio il grado di consenso elettorale di Angela e del suo governo.

l’Unità 7.5.12
Grecia, vince la rabbia. Punita la linea dell’austerità
Crollano Pasok e Nea Dimokratia. Ma il Paese appare ingovernabile. Vince l’umore antieuropeo
La sinistra radicale di Syriza al secondo posto. Per la prima volta neonazisti in Parlamento
di Rachele Gonnelli


C’è chi pensa che i greci, stremati dei continui sacrifici imposti dalla Trojka, abbiano votato per la dracma. Lo pensano soprattutto gli analisti economici che da oggi prevedono una settimana di Borse al calor bianco proprio per effetto del caos uscito dalle urne in Grecia. I cittadini ellenici in effetti hanno penalizzato duramente i due maggiori partiti, Nea Dimocratia e Pasok, che finora hanno sostenuto la linea della necessità dei tagli, delle privatizzazioni, della riduzione dei salari imposti dai Memorandum decisi da Fmi e Bruxelles. E hanno invece premiato, a destra e a sinistra, i partiti che questa linea rigorista hanno contestato.
Ciò che inquieta di più è l'exploit della nuova formazione politica Chris Avghi (Alba Dorata) che si innesta dichiaratamente nella tradizione nazista. Gli estremisti razzisti e iper nazionalisti, clandestini fino a pochi anni fa, entrano in Parlamento addirittura ottenendo più del doppio della soglia minima del 3 per cento. Proprio i militanti di Alba Dorata hanno assaltato nel pomeriggio ieri alcuni seggi, minacciando e insultando scrutatori e elettori di sinistra, a Petroupolis, popoloso quartiere di Atene. Non ha tranquillizzato per niente neanche il loro capo Nikos Michaloliakos comparso in serata alla tv per pronunciare frasi del tipo: «State attenti, stiamo arrivando. Continueremo la nostra lotta dentro e fuori dal Parlamento».
A sinistra sono diverse le formazioni politiche ad aver ottenuto un buon successo. In particolare Syriza, sigla della coalizione di sinistra, radicale e ambientalista guidata il trentottenne Alexis Tsipras, il più giovane leader politico greco, che è balzata al secondo posto nel firmamento parlamentare, sorpassando i socialisti del Pasok, penalizzati dal sostegno alla linea del ripiano del deficit per altro ereditato dal precedente governo di centrodestra e poi sostenitori del governo tecnico che ha preso il testimone lasciato da Gyorgy Papandreu. Se confermate dallo spoglio le proiezioni del ministero dell'Interno greco Syriza otterrebbe con il 16,3% dei voti cioè 50 deputati. Mentre il Pasok con il 13,6% si fermerebbe a 42 seggi.
Sempre stando alle proiezioni però contando anche i resti Nea Dimokratia e Pasok sulla carta avrebbero i 151 seggi necessari per avere la maggioranza nel Parlamento. In particolare i conservatori di Antonio Samaras con il 19,2% dei voti avrebbe ottenuto 109 seggi ai quali vanno aggiunti i 42 seggi dei socialisti ora guidati dal ministro delle Finanze Evangelos Venizelos. E proprio Venizelos ieri sera a spoglio ancora da ultimare, prendendo atto dello scenario di estrema ingovernabilità che rischia di riportare alle urne tra un mese gli elettori senza per altro evitare un collasso economico e statuale, ha lanciato un appello per la formazione di un governo di grande coalizione. l leader socialista ha auspicato un governo di coalizione di tutti i partiti disposti a proseguire il mandato del Memorandum, cioè ad assolvere agli impegni presi per accedere al fondo Salvastati.
Ma il leader di Nea Dimokratia Antonis Samaras, rimasta primo partito ma con quasi la metà dei consensi, si è detto pronto a guidare un governo di salvezza nazionale che imponga però la modifica del Memorandum. Mentre Panos Kammenos, a capo del nuovo partito liberal-nazionalista dei Greci Indipendenti che pure ha portato a casa un buon risultato, attorno al 10 per cento, sembra più propenso a un'alleanza con Syriza, in quanto ha detto Kammenosi due partiti «hanno una posizione comune circa il debito del Paese, anche se divergono su altre questioni di interesse nazionale». Un’alleanza che, virtualmente, potrebbe coinvolgere anche il raggruppamento di Sinistra democratica formato da transfughi del Pasok e eurocomunisti che entrerebbe in Parlamento con un 5-6 per cento.
In tutta questa frantumazione, una scelta ancora più disperata è rappresentata dall’alto tasso di astensioni che sfiorerebbero il 40 per cento.

La Stampa 7.5.12
Un Paese ostaggio degli estremisti
Il partito con la croce uncinata: «Niente più soldi alle banche degli ebrei»
Trionfano i neonazisti di Alba dorata e la sinistra oltranzista. Con un programma comune: via dall’euro
di Tonia Mastrobuoni


7% ai neonazisti Nel simbolo del partito Alba dorata è chiara l’allusione alla croce uncinata dei nazisti tedeschi Il loro punto forte è la lotta all’immigrazione Propongono di minare i confini per evitare nuovi ingressi
16% alla sinistra Militanti di Syriza la coalizione della sinistra oltranzista Sono contrari al «Memorandum», l’intesa con l’Europa del governo tecnico uscente che ha imposto pesanti tagli e sacrifici per risanare i conti pubblici

Ha vinto il voto di protesta e di ribellione contro il duro piano di austerity imposto dalla Ue in cambio dei salvataggi alla Grecia. Ha vinto la rabbia ma anche la paura degli immigrati e della miseria crescente che ha gonfiato i partiti di destra e di sinistra schiacciando in una morsa le due tradizionali formazioni moderate Pasok e Nuova Democrazia che hanno retto per qualche mese la grande coalizione guidata dal «tecnico», dall’ex banchiere centrale Papademos. Ma nella notte elettorale più attesa dalla fine della dittatura del colonnelli, il paese dell’Egeo è piombato nell’incertezza. L’unico dato inconfutabile è che i vincitori di questa tornata elettorale sono i neonazisti di Alba dorata e il carismatico leader di Syriza, Alexis Tsipras. La sua sinistra federata è diventata addirittura il secondo partito ellenico, superando il Pasok.
Nonostante i capi neghino e continuino a definirlo «nazionalista greco», il partito Alba dorata è indubbiamente un partito neonazista. A partire dal simbolo, il «meandros», un ornamento dell’antica Grecia che richiama la croce uncinata del partito di Hitler. E a proposito del Fuehrer sono inequivocabili le frasi del leader di Chrysi Avgi. Per Nikos Michaloliakos «Hitler è stato un grande personaggio». Fondato nel 1985, questo partito è sempre rimasto sotto la soglia di attenzione, comprese le politiche del 2009 quando ha preso appena lo 0,29%. Ora entra per la prima volta in Parlamento con un mostruoso 7% e una ventina di deputati.
In campagna elettorale ha sfruttato soprattutto due fattori: l’indebolimento del tradizionale partito di estrema destra, il Laos; guidato da Yiorgos Karatzaferis, il partito nazionalista si è macchiato di un peccato imperdonabile, agli occhi degli estremisti: per alcuni mesi ha appoggiato il governo Papademos. Alle ultime politiche aveva incassato il 5,4%, ieri sera sembrava addirittura a rischio il suo ingresso in Parlamento, oscillava attorno al 3%.
Il secondo fattore che ha coagulato un consenso sconcertante attorno ai neonazisti è la paura. Anzitutto, il terrore degli immigrati: Alba dorata ha proposto di mettere le mine antiuomo alle frontiere, di arrestare e rimpatriare gli illegali e di considerare ogni crimine commesso dagli immigrati con un’aggravante specifica. E ad Atene, dove sono già riusciti a entrare nel consiglio comunale e dove dilettano i colleghi ogni mattina salutandoli con il braccio teso, hanno approfittato di una trovata che li ha resi molto popolari, soprattutto tra gli anziani. Per proteggerli dai criminali comuni offrono di accompagnarli al bancomat o a ritirare la pensione. Ma nella capitale i militanti sono famosi soprattutto per le violenze contro gli immigrati.
Ovviamente un tema centrale anche di questo partito è la crisi e l’austerità imposta dall’Europa. Alba dorata propone di non ripagare il debito pubblico, tout court. In una intervista di sabato a questo giornale, la figlia di Michaloliakos, Urania, ha spiegato che non va restituito perché andrebbe alle banche «controllate da americani ed ebrei». Per risollevare l’economia Chrysi Avgi suggerisce di sfruttare i presunti giacimenti di idrocarburi nell’Egeo.
Dall’altro lato dello spettro politico greco bisognerà invece seguire con grandissima attenzione cosa avverrà attorno ai due partiti principali a sinistra dei socialisti. Il grande vincitore di questa tornata elettorale è anche stato durante la campagna elettorale il più aggressivo antagonista del Pasok, Alexis Tsipras, leader della sinistra federata Syriza. Trentasettenne, è l’uomo che ha definito il memorandum una «barbarie» e che ha salutato ieri notte il balzo del suo partito dal 4,6% del 2009 al 16% come una «rivoluzione pacifica».
In campagna elettorale ha insistito molto sul tema della crisi. Tra i suoi cavalli di battaglia, la cancellazione della gran parte del debito greco, la sospensione del pagamento degli interessi, ma anche l’introduzione di tasse più pesanti per i ricchi e il taglio delle spese militari.
Tsipras ha teso più volte la mano ai trinariciuti comunisti del Kke, che sono rimasti tuttavia inamovibili. Da sempre irriducibile a qualsiasi idea di federarsi con altri partiti di sinistra, Aleka Papariga ha impostato la sua campagna elettorale su una proposta inequivocabile: uscire dall’euro e dall’Ue. Chissà se qualcuno l’ha informata che il Patto di Varsavia è morto da vent’anni.

Corriere 7.5.12
L'ombra nera di Alba d'oro sulla democrazia ateniese
di D. F.


ATENE — La maglietta dice «Pit Bull», lo sguardo assicura «azzanno». Ilias Panagiotaros ha i muscoli dilatati quasi quanto le pupille. Abbaia minacce contro gli immigrati illegali, gonfia i numeri («sono tre milioni», le statistiche ufficiali calcolano uno) non ce ne sarebbe bisogno: il suo partito è riuscito a imporre la questione degli stranieri a tutti gli altri. L'ex ministro della Sanità (socialista) ha chiesto che vengano sottoposti a test sanitari — «per evitare una bomba a orologeria igienica» — e il suo capo Evangelos Venizelos ha promesso «di ripulire le periferie».
A loro il populismo non è bastato, ad Alba d'oro sì. La formazione che si ispira agli «eroi» della giunta militare entra per la prima volta nel parlamento greco. Secondo le proiezioni, ha raccolto quasi il 7 per cento dei voti, tre anni fa si era fermata allo 0,23. Ha tolto elettori alla destra tradizionale e agli ultranazionalisti di Laos che rischiano di non superare la soglia del 3 per cento.
Non vogliono sentirsi chiamare neonazisti, eppure sventolano le bandiere nere con disegnato il simbolo del meandro in oro, che richiama la Grecia classica e ricorda una svastica. Quando il leader Nikolas Mihaloliakos ha conquistato un posto al consiglio comunale di Atene nel 2010, si è presentato alla prima assemblea con il saluto a braccio teso. I militanti organizzano ronde notturne nelle zone più degradate delle città. Accompagnano gli anziani ai bancomat per protezione, distribuiscono piatti caldi e vestiti. Chiedono la carta d'identità, chi non è greco viene bastonato.
Panagiotaros, portavoce del partito, sta seduto tra le mimetiche e le decorazioni militari che vende nel suo negozio a Kolonòs, uno dei quartieri di Atene che la crisi ha trasformato in ghetti per gli immigrati. Alle pareti le foto di Giorgios Papadopoulos, che nel 1967 guidò il colpo di Stato dei colonnelli. «Erano greci orgogliosi di essere greci. Proprio come noi» commenta.
Il conservatore Antonis Samaras, che per primo tenterà di formare un governo, aveva avvertito in campagna elettorale che «il passo dell'oca non deve rimbombare in Parlamento». Quando settant'anni fa i nazisti sventolarono la svastica sull'Acropoli, il nonno scrittore si uccise come gesto di protesta. Adesso Samaras dovrà convivere con le proposte della ventina di deputati di Alba d'oro, che Panagiotaros elenca come un bollettino di guerra: «Vogliamo l'espulsione di tutti gli immigrati illegali, anche di quelli con i documenti che tanto hanno ottenuto pagando mazzette. Le frontiere devono essere minate e la Grecia deve uscire dal trattato di Schengen. Le organizzazioni non governative straniere vanno cacciate». E il memorandum firmato con la troika? «E' da stracciare».

Corriere 7.5.12
La morte del comunismo e la nostalgia degli epigoni
risponde Sergio Romano


Alla luce dell'evoluzione politica greca e del risultato elettorale francese, è ancora convinto che il comunismo sia una minaccia ormai passata per l'Europa? Io sono convinto di no, anche se la vera minaccia imminente, piuttosto che comunismo, si chiama populismo di sinistra di stampo chavista.
Giorgio Frappa

Caro Frappa,
Nella storia degli ultimi due secoli la parola comunismo ha avuto sfumature e significati diversi. Furono comunisti gli «eguali» che cospirarono a Parigi nel 1795 sotto la direzione di Babeuf per rovesciare il Direttorio. Furono comunisti molti dei comunardi che insorsero a Parigi nel marzo 1871 e resistettero per due mesi nella città assediata dalle truppe del governo di Versailles. Sono stati comunisti in Unione Sovietica Trotskij, Bucharin, Kamenev, Zinovev, vale a dire persone che hanno adottato posizioni diverse e hanno condiviso una stessa sorte: la morte, decisa da Stalin. Sono stati comunisti in Italia Togliatti, Gramsci, Bordiga, Valiani, Tasca, Silone: personalità che hanno percorso strade politiche e sentieri ideologici alquanto diversi. Quando parlo di «morte del comunismo» penso a quello dell'Unione Sovietica e dei partiti per cui Mosca era «patria del socialismo», custode e garante di un sistema politico che era considerato, pur con qualche variante da un Paese all'altro, il «modello di riferimento». Quel comunismo, caro Frappa, era già morto da parecchio tempo, ma è formalmente defunto nel momento in cui il fallimento della Perestrojka di Gorbaciov e la dissoluzione dell'Urss ne hanno ufficialmente proclamato la scomparsa.
Esistono, è vero, alcuni regimi e partiti che continuano a proclamarsi comunisti. Ma la parola in questo caso è soltanto una etichetta conservata per puntiglio o convenienza politica. La Corea del Nord non è un Paese comunista: è un regime totalitario governato da una oligarchia politico-militare. Cuba non è un Paese comunista. È una famiglia — i fratelli Castro — disperatamente alla ricerca di un modello politico-economico. Cina e Vietnam sono forse comunisti? La Cina, in particolare, ha un partito unico che si definisce comunista e una struttura istituzionale che conferisce al partito più poteri di quanti ne abbia il governo: due caratteristiche che appartengono al marxismo di stampo sovietico. Ma può definirsi comunista un Paese in cui la crescita economica ha avuto l'effetto di allargare enormemente il divario tra i ricchi e i poveri?
Esistono nel mondo, è vero, alcuni milioni di persone che continuano a proclamarsi comuniste. Ma ogni ideologia defunta lascia dietro di sé una scia di tenaci fedeli e inguaribili nostalgici di un paradiso immaginario. Questo è un fenomeno umano, non un fattore politico. La storia del comunismo realizzato o realizzabile è finita. I suoi epigoni sono soltanto note in coda all'ultimo capitolo.

La Stampa 7.5.12
La Serbia sceglie l’Europa In testa il presidente Tadic
Il leader sfiderà al ballottaggio il nazionalista Nikolic Bene i socialisti
di Giordano Stabile


La Grecia è vicina, sulla carta geografica, ma i serbi, che in Europa vorrebbero entrare e non uscire, sembrano guardare ancora a Bruxelles. La triplice tornata elettorale, presidenziali, legislative, amministrative, non ha chiarito al primo colpo i rapporti di forza, ma nel complesso i partiti pro-europei hanno tenuto.
Sarà il ballottaggio a decidere, il prossimo 20 maggio, chi sarà il prossimo presidente. L’uscente Boris Tadic, europeista convinto, che ha voluto anticipare le elezioni per accorparle a quelle legislative e raccogliere i frutti di una politica pragmatica che ha portato allo status di candidato all’Unione Europea, è arrivato in testa, per un soffio, al primo turno di ieri. Secondo le prime proiezioni ha raccolto il 26,8% per cento. Meno di quanto sperava. Dovrà affrontare, per la terza volta, il nazionalista moderato Tomislav Nikolic. Il filorusso, leader del partito progressista serbo, di centro-destra, che ha raccolto il 25,6%.
Nikolic è già stato sconfitto nel 2004 e nel 2008, ma è convinto di farcela: «Saremo il primo partito. E questa volta vinceremo al ballottaggio». Con il 23,8% dei voti il partito progressista serbo in realtà resta secondo nel nuovo parlamento, dietro al Partito democratico di Tadic (24,3%). Che può contare sull’appoggio del Partito socialista di Ivica Dacic, che ha raccolto un buon 15,2%. Dacic ha ripulito il partito dall’eredità di Milosevic e portato su posizioni socialdemocratiche a essere la terza forza. L’alleanza con i democratici di Tadic ha funzionato bene nella scorsa legislatura e dovrebbe reggere in vista della formazione del nuovo governo e del ballottaggio.
Fra i 250 deputati del Parlamento ci saranno anche quelli del partito liberal-democratico. Il leader Cedomir Jovanovic, fortemente europeista e pronto a sostenere Tadic, ha ottenuto il 5,3%. L’ex premier Vojislav Kostunica, su posizioni opposteche, ha raccolto il 7,2%. I democratici di Tadic dovranno comunque cercare alleati. Peserà la politica economica. Il presidente, per conquistare l’ingresso nell’Ue, ha imposto lo smantellamento delle industrie di Stato e l’apertura al mercato continentale, con un forte prezzo sociale. La disoccupazione è a livelli greci, 24%, il salario medio pari a 350 euro, fra i più bassi persino nei Balcani. Tadic ripete che i benefici arriveranno. Cita l’esempio di Polonia e Slovacchia, ora trainate dall’industria automobilistica dopo aver favorito gli investimenti.
Il ballottaggio chiarirà se valeva la pena giocarsi tutto in una sfida su tre fronti. Peserà anche la questione del Kosovo. Nessun partito, tranne i liberaldemocratici, è disposto a riconoscere l’indipendenza dell’ex provincia a maggioranza albanese, dove paradossalmente la moneta corrente è già l’euro, adottato in via unilaterale, senza dover passare attraverso i duri criteri di Maastricht.
La mediazione di Bruxelles, e dell’Osce, ha permesso ai 110 mila serbi che vivono in Kosovo di votare. Pochi, il 17%, sono andati alle urne. Sicuramente pochissimi per Tadic, che non li ha appoggiati nella loro richiesta di secessione dalla provincia secessionista. E potrebbe essere quel pugno di voti a decidere le sorti delle presidenziali, fra due settimane.

Corriere 7.5.12
Alla vigilia dell'insediamento di Putin
Trentamila in piazza davanti al Cremlino. La polizia li carica
di Paolo Valentino


MOSCA - Nei roboanti annunci dei suoi organizzatori, doveva essere la «marcia del milione». Ma anche se si sono ritrovati in 50 mila è stata ugualmente un successo. Se non politico, quanto meno «situazionista». L'opposizione in Russia sarà anche divisa e composita, ma è viva e non molla. Che poi sia efficace e credibile è un'altra storia.
Alla vigilia della re-incoronazione di Vladimir Putin al Cremlino, il fronte del dissenso è riuscito a riempire il suo luogo iconico, la Piazza Balotnaya, per esprimere il rifiuto a riconoscerne come legittima la rielezione a presidente dello scorso marzo.
Ci sono stati scontri, ma per una volta il bilancio non è stato drammatico: soltanto 6 feriti non gravi. La polizia ha fermato 400 persone, fra i quali tre leader dell'opposizione: il blogger Alexej Navalny, il centrista Boris Nemtsov e il capo-popolo dell'estrema sinistra, Sergej Udaltsov.
Un enorme schieramento di forze di sicurezza, probabilmente più di diecimila uomini tra poliziotti e unità speciali anti-sommossa, era stato disposto a presidiare l'ingresso del ponte di pietra dal quale si arriva alla Piazza del Maneggio e al Cremlino, che erano stati dichiarati off-limits ai manifestanti. È stato Udaltsov a inscenare un imprevisto sit-in di protesta, annunciando che avrebbe bloccato il percorso fino a stamane, giorno dell'insediamento. Intanto gruppi di suoi seguaci che erano in testa al corteo hanno tentato di forzare il blocco, provocando la reazione della polizia. Ci sono state cariche e lanci di fumogeni. Alcuni manifestanti sono stati manganellati, decine quelli trascinati via.
Ma lo stesso ombdusman, il garante dei diritti dei cittadini, l'ex ambasciatore Vladimir Lukhin, ha diviso in parti uguali la responsabilità delle violenze. Ha infatti accusato Udaltsov e i suoi fedelissimi di non aver rispettato le regole. Ma ha aggiunto che a suo avviso la polizia non era ben preparata e probabilmente ha reagito in modo eccessivo.
Eppure la manifestazione era iniziata in un clima tranquillo e festoso, con la gente e gli stessi capi dell'opposizione quasi sorpresi di ritrovarsi così numerosi in un giorno festivo del lungo ponte di maggio: dal 1° al 9 infatti, tra la festa del lavoro e l'anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica (cioè la Seconda Guerra Mondiale), Mosca si svuota o quasi. Agli slogan tradizionali, «Russia senza Putin» o «Putin ladro», se n'era aggiunto uno nuovo di zecca: «Altri 12 anni? Grazie, no», dove lyet (anni) e nyet (no) fanno rima.
È comunque un successo che sul piano politico concreto non cambia nulla, almeno nel breve periodo. L'eterogeneità dello schieramento anti-Putin è emersa quasi plasticamente nella dimostrazione, dove ogni gruppo ha fatto di testa sua. Mentre la mancanza di leader carismatici e capaci di unirlo intorno a obiettivi realistici, si profila come il vero problema del prossimo futuro.
Oggi, Vladimir Vladimirovich torna in grande pompa nel suo Palazzo, dove per quattro anni ha regnato in sua vece il fidato Vladimir Medvedev, che dopo averlo fatto da presidente continuerà a obbedirgli da primo ministro. Sarà festa grande per il vecchio e nuovo sovrano del Cremlino. Guardie d'onore a cavallo. Benedizione del Patriarca. Il coro dell'Accademia militare dell'Esercito intonerà il bellissimo inno nazionale russo, già sovietico: uno zar su pentagramma comunista. Un buffet imperiale, preparato per settimane e annaffiato da 5 mila bottiglie di spumante russo Abrau-Dyurso (riserva 2008) prodotto a Krasnodarsk. Nessun leader straniero è stato invitato in forma ufficiale. Saranno presenti solo gli amici del cuore: Silvio Berlusconi, l'ex cancelliere Gerhard Schröder e «Arnie» Schwarznegger. Tutti per uno e uno per tutti.

Corriere 7.5.12
Erdogan: «Sono pronto a richiedere l'intervento militare Nato in Siria»
Domani il premier turco a Roma: rafforzare la cooperazione con l'Italia
di Monica Ricci Sargentini


ADANA (Turchia) — La faccia di Erdogan sorride da ogni angolo della strada. «Benvenuto» si legge sugli striscioni. Il primo ministro turco è ad Adana, nel sud del Paese, per inaugurare un nuovo ospedale e parlare al Congresso provinciale del suo partito, l'Akp, al governo dal 2002. Bacia un paio di bambini, saluta la folla, stringe mani, mangia il cibo che gli viene immancabilmente offerto. Recep Tayyip Erdogan è il solito fiume in piena, un istrione in perenne movimento. Camicia celeste, giacca a quadri, nonostante il caldo, il leader del partito filo-islamico appare in grande forma dopo l'operazione dello scorso febbraio: «Sta talmente bene — dice un suo stretto collaboratore — che non riusciamo a stargli dietro». Accanto a lui, come sempre, la figlia Sümeyye e la moglie Emine, entrambe elegantissime, il viso incorniciato dal velo. L'intervista esclusiva con il Corriere della Sera comincia sull'aereo che ci riporta ad Ankara. Sono ormai le otto di sabato sera. Domenica Erdogan si sposterà al confine con la Siria per visitare il campo rifugiati di Kilis, poi partirà per la Slovenia, infine per Roma dove è atteso stanotte.
Il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu nel suo ultimo discorso ha detto che la Turchia guiderà l'onda del cambiamento in Medio Oriente. Lei aspira a diventare il leader della regione?
«Non siamo nella posizione di guidare o di essere i leader del cambiamento in maniera sistematica ma forse ci sono persone che sono ispirate dai passi che abbiamo compiuto. La Turchia non è uno stato religioso ma una repubblica parlamentare funzionante. Abbiamo dimostrato che Islam e democrazia possono convivere. Se ci sono dei regimi autocratici che opprimono il popolo, allora la gente cercherà di cambiare e noi possiamo mostrare loro la strada per farlo, cioè quella del sistema parlamentare. Finora siamo stati disponibili con chi ci ha chiesto consiglio».
La situazione in Siria sta degenerando e sono migliaia i profughi che hanno cercato rifugio nel suo Paese. Secondo lei c'è ancora un futuro per Assad? State valutando seriamente l'opzione militare?
«Il regime di Assad è finito. Ci sono stati 10mila morti, 25 mila rifugiati in Turchia, 100 mila in Giordania. Se un Paese opprime la sua stessa gente, la attacca con i cannoni e i carri armati, se, come conseguenza, centinaia di migliaia di persone fuggono, dov'è la giustizia? Noi condividiamo con la Siria un confine lungo 900 chilometri. E abbiamo sempre avuto legami di grande amicizia. Sfortunatamente Assad non ha onorato la nostra fiducia. Quando le cose si sono cominciate a muovere in Tunisia l'abbiamo avvisato. Gli abbiamo detto: scegli la via giusta, lascia che nascano i partiti politici, apri la strada alla libertà, rilascia i prigionieri politici, ferma la corruzione. Ora la situazione è molto grave. Finora siamo stati pazienti con la Siria ma se il governo commetterà ancora degli errori alla frontiera questo sarà un problema della Nato come recita l'articolo 5. Assad non ha mantenuto nessuna delle promesse fatte ad Annan. Le uccisioni continuano. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe prendere la cosa più seriamente. La Ue non dovrebbe rimanere un osservatore esterno. Se penso a un intervento armato? Questo non è solo un problema della Turchia. Servono passi comuni del Consiglio di sicurezza, della Lega araba».
Quattro anni fa le relazioni tra Turchia e Israele erano molto buone e rappresentavano una speranza per l'intera regione, oggi quei rapporti sembrano essersi compromessi per sempre. È impossibile ricucire?
«È vero, la Turchia era il più importate alleato di Israele nell'area ma loro hanno fatto dei grandissimi errori nei nostri confronti. L'attacco di Israele alla nostra Flotilla di aiuti umanitari non può essere perdonato. È avvenuto in acque internazionali. Nove persone sono morte e sui loro cadaveri c'erano più di 30 proiettili, anche sparati da vicino. Abbiamo dettato a Israele delle condizioni: vogliamo scuse pubbliche, un risarcimento per le famiglie delle vittime, la fine dell'assedio di Gaza. Oggi Gaza è ancora bloccata e a volte viene pure bombardata. Se non saranno soddisfatte queste condizioni le nostre relazioni non si normalizzeranno mai».
Ankara oggi sembra guardare sempre più ad Oriente. Cosa ne è delle ambizioni di entrare nell'Unione Europea? Lei lo considera un capitolo chiuso?
«No, questo è fuori questione. Come lei sa nel 1996 siamo diventati parte dell'unione doganale, una cosa che di solito si ottiene solo quando si è già membri Ue a pieno titolo. Ora, però, i Paesi membri della Ue fanno di tutto per non lasciarci entrare. Perché? Siamo l'unico Paese musulmano nella Nato ma questo non danneggia le nostre relazioni con i Paesi del Medio Oriente con i quali abbiamo valori in comune. Le assicuro che faremo di tutto per diventare membri della Ue. Ma loro non mantengono le promesse. Spero che la smettano di fare questi errori e che colgano al volo l'opportunità di diventare un grande attore globale accogliendoci nell'Unione».
E i rapporti con l'Italia? Lei sta per venire a Roma, dove incontrerà il premier Mario Monti. Quali sono le prospettive future di collaborazione politica e commerciale?
«Durante il summit in Corea del Sud ho già avuto modo di incontrare Mario Monti e la sua delegazione. Per me questo vertice intergovernativo ha un'importanza particolare, porterò 8 o 9 ministri e ognuno avrà anche colloqui indipendenti con il suo omologo. Lo scopo è di aumentare il commercio tra i due Paesi che già raggiunge i 21,5 miliardi di dollari. Una cifra buona ma ancora insufficiente. In Turchia ci sono 900 compagnie italiane e dal 2002 sono cresciute di numero nonostante la crisi. Vogliamo migliorare ancora».
Il 23 aprile lei è andato a un ricevimento ufficiale in Parlamento con sua moglie Emine che indossava il velo. E facendolo ha rotto un tabù. Il velo è una minaccia allo Stato secolare?
«Uno Stato secolare non esclude la libertà di religione. Il secolarismo mantiene la stessa distanza da tutte le fedi. Invece in Turchia è stato usato come uno strumento di oppressione dei musulmani ledendo anche il loro diritto all'educazione. Noi ora stiamo garantendo gli stessi diritti a tutte le religioni. Io sto cercando di porre rimedio a questa ingiustizia. Perché impedire alle donne di portare il velo? Non c'è alcuna legge del genere negli Usa, in Italia o in molti altri Paesi europei. Penso che la questione sarà presto risolta».
In Turchia ci sono più di cento giornalisti in prigione. Non sono un po' troppi per un Paese democratico che garantisce la libertà di espressione?
«La cifra è sbagliata, non si tratta di veri giornalisti. Il 90% di queste persone non sono di certo in prigione per quello che hanno scritto ma perché sono legati ad un'organizzazione terroristica. Poco tempo fa in Gran Bretagna hanno arrestato 50 giornalisti ma nessuno ha detto nulla. Se succede in Turchia apriti cielo. È solo propaganda. Io ci tengo alla libertà di espressione più di ogni altro visto che ho subito una condanna penale per aver letto una poesia! I versi non erano illegali, l'autore era un eroe per Atatürk. Per me la libertà d'espressione è un diritto inviolabile. Su questo argomento non ammetto deroghe».

l’Unità 7.5.12
Nelle città l’affluenza cala del 6%
La percentuale di votanti alle ore 22 di ieri è stata del 49,6% contro il 55,8 del 2007
A Genova, Palermo, Verona e Parma le sfide principali. Un test nazionale per le future alleanze
di Natalia Lombardo


È di ben sei punti il calo di affuenza alle urne registrato alle 22 di ieri per le elezioni amministrative: ha votato il 49,6 per cento degli aventi diritto, rispetto al 55,86% delle precedenti consultazioni del 2007.
Un calo molto forte, il 6,2% anche se alle 19 l’affluenza era sotto di un punto e quattro: 37,72% contro il 39,11 e alle 12 di due punti: 13,06 %, rispetto alla media del 15,48 del 2007. Sono le prime elezioni amministrative al tempo del governo tecnico, che comunque riguardano 9 milioni e 231mila elettori. Le sfide più significative sono a Genova, Palermo, Verona, Parma, Verona e Monza; si presentano più che mai come un test sul quadro politico in movimento, dal quale dipenderanno anche le future alleanze, tanto più a seconda di quanto si sposterà l’asse politico: attualmente infatti 18 Comuni capoluogo sono governati dal centrodestra (con la Lega) e 8 dal centrosinistra.
I Comuni al voto sono 768, in totale 942, compresi quelli delle regioni a statuto speciale, la Sicilia e il Friuli Venezia Giulia; 26 sono i capoluoghi di provincia. I seggi saranno aperti anche oggi dalle 7 alle 15, gli eventuali ballottaggi si svolgeranno tra due settimane, il 20 e il 21 maggio. Tra le città con più abitanti dove si vota ci sono Piacenza, Catanzaro, Taranto, Rieti, Frosinone.
ARIA DI CAMBIAMENTO
Consapevole della situazione non facile, ma comunque piuttosto ottimista, Pier Luigi Bersani, che, nella «sua» Piacenza, prima di recarsi al seggio nella scuola Pezzani con la moglie Daniela e la figlia Margherita, ha osservato come ci sia «rabbia in giro, la si può capire,
c’è disagio. E questo lascerà un segno su questo appuntamento elettorale», ma proprio il voto sul territorio può portare «acqua fresca e pulita alla politica», quindi, ha proseguito il segretario del Pd, «mi aspetto che su queste elezioni ci sia un segno di disagio, ma insieme un segno molto forte di cambiamento e di fiducia». Fiducia che lui stesso ha sentito durante la campagna elettorale, «ho registrato anche una volontà positiva. C’è voglia di tornare ai fondamentali: il lavoro, l’onestà, la correttezza e una buona politica».
A Parma, il cui Comune è commissariato dopo che le proteste dei cittadini con le pentole avevano costretto l’ex sindaco del Pdl, Vignali, alle dimissioni per le vicende giudiziarie e gli scandali: qui l’affluenza alle urne alle 12 ha avuto un calo clamoroso del 4% con il 14,92% rispetto al 19,2 del 2007 (sempre comunque di due punti superiore al dato nazionale), ma ha recuperato nel rilievo delle ore 19: 40,25% contro il 42,25%. Il centrosinistra punta alla ripresa della città emiliana, con il candidato Vincenzo Bernazzoli, che corre contro Elvio Ubaldi (lista civica ed ex sindaco di Parma), mentre il Pdl va da solo con il ciellino Paolo Buzzi e la Lega con Andrea Zorandi.
In queste amministrative il Pdl e la Lega si presentano con liste separate alle urne e quest’ultima, in solitaria, è lacerata al suo interno dopo gli scandali. Il massimo del conflitto con il Senatur si catalizza a Verona, dove il maroniano Flavio Tosi, popolarissimo, è sostenuto da una sua lista civica. C’è poi l’irrompere del movimento di Beppe Grillo che cerca di assorbire, alimentandolo, il sentimento antipolitico, e dai sondaggi è dato al 7 per cento.
LA GALASSIA LISTE CIVICHE
Il Pd nei sondaggi risulta essere il primo partito (dato che ovviamente vorrebbe acquisire) e in prevalenza si presenta con l’alleanza della cosiddetta «foto di Vasto», ovvero la vendoliana Sinistra e Libertà e l’Italia dei Valori.
Pier Luigi Bersani punta a una ripresa proprio da Genova, dove alle primarie del centrosinistra a sorpresa ha avuto la meglio Marco Doria, pur candidato di Sel, ma qui comunque il segretario Pd ha concluso la sua campagna elettorale, e ci si aspetta una vittoria al primo turno sui ben 13 candidati. A L’Aquila il sindaco uscente di centrosinistra, Massimo Cialente, spera a una riconferma.
Esiste comunque una galassia di liste civiche sparse ovunque che potrebbe avere l’effetto, al primo turno, di disgregare i risultati dei partiti maggiori o di renderli difficilmente calcolabili.
IL REBUS SICILIANO
Complicato il quadro a Palermo, dove c’è stato un forte calo di affluenza registrato alle 19: ha votato il 36,46% contro il 40,16% del 2007 (un calo del 3,7); alle 12 era andato alle urne il 12,91% degli elettori (15,5% del 2007). Per il centrosinistra corre Fabrizio Ferrandelli, ex Idv (espulso dal partito di Di Pietro perché si è candidato autonomamente) e vincitore delle primarie; la sfida è con Leoluca Orlando, ex sindaco di Palermo e big dell’Italia dei Valori, che ha voluto comunque tornare in campo.
Anche la Lega però ha i suoi guai, dopo lo scandalo sull’uso dei finanziamenti, i diplomi albanesi del Trota e la guerra interna tra Bossi e Maroni. A Verona Tosi punta alla riconferma, mentre è tutto da vedere il risultato a Cassano Magnago, dove vivono Bossi e figliolo e anche Rosi Mauro.
Il Pdl è piuttosto disgregato e confida soprattutto nei comuni del Mezzogiorno. È la prima verifica elettorale del segretario Angelino Alfano, abbandonato da Silvio Berlusconi che, dopo l’unico comizio a Monza (dove per altro cura altre sue ambizioni urbanistiche) è volato a Mosca da Putin, che ieri ha fatto arrestare tre leader dell’opposizione.
L’Udc potrà testare il suo sostegno totale al governo Monti, che potrebbe essere penalizzante, e l’alleanza con Fli e Api. Come Terzo Polo si misura solo in cinque città capoluogo Belluno, Genova, Pistoia, Rieti e Trapani. Qui correrà da solo con un proprio candidato, senza schierarsi né col centrosinistra, né con il centrodestra.

Corriere 7.5.12
Il voto ai sindaci evita il crollo di partecipazione
di Renato Mannheimer


È bene ricordare che i risultati delle consultazioni locali non sono immediatamente comparabili con quelle nazionali e proiettabili a questo livello. Specie perché sia i contenuti su cui si vota, sia l'offerta in termini di liste e di candidati, sono spesso molto legati alle specifiche realtà territoriali. In altre parole, nello scegliere la propria opzione, si ha molto più di frequente presente la figura di questo o quel candidato o il dibattito su questo o quel problema locale. Occorrerà tenere presente questi elementi nell'interpretare i risultati. Resta il fatto che, malgrado i limiti nella possibilità di dare loro un valore pienamente politico, i risultati delle amministrative hanno sempre dato luogo a indicazioni che vengono reinterpretate sul piano nazionale. Ad esempio, riguardo ai dati sull'astensione che, in effetti, dipendono anche dal clima politico e sociale nazionale. Secondo le prime rilevazioni giunte nella serata, avrebbe votato complessivamente nella giornata di domenica, poco più del 49% degli aventi diritto. Nelle passate amministrative, questa percentuale aveva invece raggiunto quasi il 55%. La differenza, attorno al 6%, è dunque significativa, anche se non comporta quel crollo di partecipazione che alcuni osservatori si attendevano. Se questo calo nell'afflusso alle urne trovasse conferma anche oggi, esso potrebbe essere anche ricondotto ai fenomeni di disaffezione dalla politica — e dai partiti in particolare — di cui tanto si è parlato in questi giorni. È noto che il livello di fiducia verso i partiti è sceso al minimi, che altrettanto si è verificato nei confronti delle principali istituzioni rappresentative, che l'interesse stesso verso la politica si è contratto. Ma, come si è detto, c'è chi si aspettava una crescita dell'astensionismo ancora maggiore, nell'ordine del 10%. Se la misura rilevata domenica sera fosse invece confermata, la differenza in positivo andrebbe ricollegata alla specificità della consultazione locale, alla presenza di liste espressione del territorio e di problematiche più immediatamente riconducibili agli interessi immediati dei cittadini. Ciò che ci suggerisce come nel momento in cui l'offerta politica interessa e coinvolge maggiormente gli elettori, si può registrare, in certe occasioni, una attenuazione del fenomeno progressivo allontanamento dalla politica e dalle sue vicende.

l’Unità 7.5.12
Vent’anni di populismo senza popolo
di Mario Tronti


L’USO DELLA PAROLA POPULISMO HA OGGI, PER LO PIÙ, UN SIGNIFICATO NEGATIVO. CHI FA POLITICA POPULISTA NON SI DEFINISCE POPULISTA, viene piuttosto chiamato populista da chi lo combatte. Il populismo ha d’altra parte dei quarti di nobiltà storica. Pensiamo al populismo russo, una stagione che sta poi all’origine di una grande storia; al populismo nordamericano, tra l’altro molto legato a una prima formazione del partito politico; al populismo sudamericano, tutt’altro che defunto.
C’è però da marcare una differenza di fondo tra populismi di ieri e di oggi. I populismi storici avevano sempre l’idea di riportare la storia all’indietro, cioè di ritorno a una tradizione, nazionale o popolare, polemici quindi contro tutti i meccanismi dello sviluppo. I populismi di oggi sono esattamente il contrario: nascono in polemica con i retaggi del passato, vogliono innovare, non conservare. Anche se poi servono più alla conservazione che all’innovazione. Sono ad esempio nemici del Novecento, perché vedono e denunciano lì una storia irripetibile e comunque da non ripetere, la storia dei grandi partiti, delle forme organizzate della politica, dello Stato, con le sue regole e procedure e mediazioni, parlamentari, istituzionali. È difficile dire se è il populismo a produrre antipolitica, o se è l’antipolitica a produrre populismo. Certo si tratta ormai di due pulsioni strettamente intrecciate, che si alimentano a vicenda e a vicenda si sostengono, contribuendo a una deriva degli attuali sistemi politici verso una sorta di autodistruzione. In questo senso, c’è l’opportunità e la necessità di ripercorrere il processo che, dagli anni 80 in poi, è venuto avanti sotto il segno di categorie contingenti agitate come valori assoluti, quali innovazione, modernizzazione, nuovi inizi vari, dovunque e comunque.
Il problema è come salvare il concetto di popolo dalla deriva populista. Il rischio è che anche nei partiti, che una volta erano partiti di massa, che si chiamavano partiti popolari, vinca una involuzione di tipo elitistico, con slittamenti in alto verso la autoreferenzialità del ceto politico e in basso verso una cetomedizzazione del riferimento sociale. È chiaro che ci sono state trasformazioni profonde nella realtà di popolo, per le economie più sviluppate, dagli ultimi decenni del 900 in avanti. (...) Eppure tutte le trasformazioni non sono arrivate a distruggere il fondamento popolare anche delle più avanzate delle società contemporanee. Il lavoro diffuso e disperso sul territorio, il lavoro precarizzato, la mancanza di lavoro, la stessa immaterializzazione di molte attività e di molte figure di lavoro, la comune persistente condizione di sfruttamento e di alienazione, che si allarga dal lavoratore manuale al lavoratore della conoscenza, non fa, oggettivamente, da sola, già popolo, ma rende possibile la costituzione in popolo di praticamente tutte le persone che vivono di lavoro.
Anche quello di popolo è in fondo un concetto politico secolarizzato, assieme agli altri concetti politici moderni: sovranità, Stato, diritto. Popolo nasce come ordine sacro. Nelle Scritture, il Signore dice ad Abramo: ti darò un popolo. Jacob Taubes ci ha ricordato come, tanto per Mosè come per Paolo, si sia trattato di fondare un popolo, il popolo ebraico, il popolo cristiano. Personalità profetiche ed entità collettive storiche. Marx, a nome del movimento operaio, non ha forse fondato un popolo, il popolo del lavoro, i lavoratori come soggetto politico, capace di grande storia? La mia tesi è che un popolo, o viene fondato, o, se si autoinveste di propri idoli, come il vitello d’oro, allora produce populismo. Il capo di oggi non è il Principe machiavelliano, portatore di una missione, è il punto in cui si rapprende e si esprime un senso comune di massa, pulsionale, emotivo, vittima passiva di un precedente trattamento molto spesso mediaticamente orientato. Nel momento in cui non si è stati più capaci di dare voce alla società, di fare società con la politica, cioè di organizzare masse attive in lotta per i propri bisogni e interessi, ecco, da quel momento è venuta avanti una deriva populista.
Il populismo di oggi è legato molto più a condizioni esterne al popolo, che alla espressione di suoi intimi convincimenti. Non ci sarebbe spazio per il populismo senza il primato dei grandi mezzi di comunicazione, senza questa presa egemonica del virtuale sul reale, senza la dittatura del messaggio mediatico, che ha il compito di creare opinione e distruggere orientamenti. Il populismo di oggi è un populismo senza popolo. E mentre la categoria di popolo chiedeva e produceva pensiero, accade il contrario per la prassi del populismo, che nega in radice la riflessione, essendo pura e dura pulsione. Avete mai visto un capo populista che abbia bisogno di forze intellettuali di riferimento? Le «masse popolari» che diventano la «gente», esprime, lessicalmente, un passaggio, di fatto, dal tempo della politica come azione collettiva direttamente al suo opposto, all’agire cieco di individui massificati e subalterni.
Una versione più estesa di questo articolo uscirà sul prossimo numero della Rivista delle politiche sociali

Repubblica 7.5.12
Il valore dei simboli
Perché la politica non può farne a meno
di Roberto Esposito


Esce il saggio di Gustavo Zagrebelsky sulle ragioni della disaffezione verso i partiti
L´emancipazione delle democrazie dalla religione non significa perdita di dimensione mitica
I movimenti esibiscono segni e sigle privi di energia, di messaggi riconoscibili e forti sul nostro futuro

Dove nasce questa disaffezione alla politica che pervade fino all´orlo le nostre società? Cosa allontana sempre di più il linguaggio dei politici da quell´intreccio di impulsi, emozioni, speranze che plasma la nostra esperienza? E perché, forse mai come oggi, l´onda lunga della politica sembra gonfiarsi nello tsunami dell´antipolitica – per riprendere l´efficace metafora usata da Scalfari nel suo editoriale del 30 aprile? Una risposta penetrante a queste domande è fornita adesso dall´ultimo saggio di Gustavo Zagrebelsky, appena edito nelle Vele di Einaudi col titolo Simboli al potere. Politica, fiducia, speranza. Certo, a fomentare tali umori antipolitici, ci sono gli eterni privilegi della "casta"; i fenomeni, sempre più vistosi, di corruzione; la difficoltà, da parte dei partiti, di uscire da una lunga fase di stallo, elaborando proposte credibili di governo. Ma c´è anche qualcosa di più e di più profondo che attiene al loro lessico – come un tarlo interno che lo depaupera e lo consuma, lo svuota e lo appiattisce su un piano di superficie, privandolo di spessore e linfa vitale.
Si tratta di quella fenomeno degenerativo che Zagrebelsky sintetizza con il termine di "de-simbolizzazione". Diversamente da autori come Rawls o Habermas, che vedono nella politica un´attività guidata da procedure razionali, egli riconosce nella dimensione simbolica una riserva di senso fondamentale dell´agire collettivo. Come è stato messo in luce dalla grande cultura sociologica di Weber e Durkheim, ma anche dalle fondamentali ricerche storiche di Marc Bloch ed Ernst Kantorowicz, la fenomenologia del potere è inaccessibile se separata dalla funzione che in esso gioca la sfera del mito. L´emancipazione della politica dall´ancoraggio religioso, conseguente alla secolarizzazione, non significa affatto perdita di dimensione mitica, come ha ingenuamente supposto la tradizione illuministica, contrapponendo frontalmente mythos e logos. Secondo lo stesso Weber, del resto, è proprio dalla "gabbia di acciaio" della burocratizzazione che si è generata per reazione, nei primi decenni del Novecento, l´esigenza di una nuova politica carismatica, con gli esiti, anche tragici, che conosciamo. La conseguenza che se ne deve trarre è che ogni volta che si è preteso di ridurre la politica a semplice pratica amministrativa, soffocando la sua originaria carica energetica, questa si è rovesciata in pulsione aggressiva, disponibile ad essere usata da chiunque se ne fosse impadronito attraverso nuovi miti irrazionali.
Zagrebelsky intensifica questa linea di ragionamento, riconoscendo nel simbolo un´entità a doppia faccia, in continuo transito tra realtà soggettiva e istanze oggettive, positivo e negativo, passato e futuro. Canale di accesso del soggetto verso una dimensione inafferrabile con i soli strumenti razionali, esso, una volta oggettivato in norme e istituzioni, diventa un potente fattore di integrazione sociale. Senza il simbolo, se si riducesse l´esperienza umana all´astrattezza della pura ragione calcolante, non potrebbe esistere né società né politica. Perché alla base di entrambe vi è quella capacità di rimando a qualcosa d´altro, quella spinta progettuale, che costituisce insieme la condizione e il significato della vita collettiva. Symbolon, come raccontato nel Simposio di Platone, è il risultato della riunione di due parti disgiunte che, dichiarando la propria insufficienza, si congiungono in un intero che le comprende nella forma dell´attrazione reciproca. Ma senza mai perdere la loro tensione costitutiva, senza mai riposare in una pace definitiva. Perché dietro la faccia in luce del symbolon si affaccia sempre la minaccia oscura del diabolon – di una nuova, e più letale, scissione tra diversi che si interpretano come assoluti opposti. Lo stesso pronome "noi" – che unisce i distinti in un´appartenenza comune – porta dentro di sé un potenziale contrasto col "voi". È perciò che Zagrebelsky ricorda, con Simmel, che, per fare società, non basta il "due", diviso tra amore ed inimicizia, ma serve il "tre", in cui i contrasti soggettivi si sciolgono nell´oggettività di istituzioni terze.
Al continuo pendolo tra soggetto e oggetto fa riscontro il passaggio, interno allo stesso simbolo, da una valenza positiva ad una negativa e viceversa. Di grande suggestione è l´esempio, centrale nella nostra tradizione, della Croce – passata senza soluzione di continuità da segno, nudo e spoglio, di dolore e contrizione a simbolo di trionfo e anche di persecuzione nei confronti di miscredenti ed eretici, per poi di rifluire in una sorta di insignificanza, misera posta in gioco di lotta politica tra schieramenti avversi. Per non parlare della sua terribile perversione nella croce uncinata nazista, che pure accese la fiamma dell´entusiasmo in un intero popolo, mobilitandolo contro altri miti contrapposti. Come ricorda anche Chiara Bottici in Filosofia del mito (Bollati Boringhieri), se si leggono in sovrapposizione Il mito dello stato di Cassirer e Le riflessioni sulla violenza di Sorel, si coglie il segreto perno intorno al quale uno stesso simbolo aggressivo sembra ruotare su se stesso, trascorrendo da un polo all´altro del quadrante ideologico del tempo.
L´ultima dialettica cui Zagrebelsky riconduce la dinamica simbolica è quella che va dal passato al futuro. Certo il simbolo affonda la sua radice in una falda originaria – nel riferimento al mondo naturale o ad un´esperienza vissuta e dunque già passata. È in tal modo che esso acquista quella forza legittimante che lo pone a fondamento di norme ed istituzioni – in mancanza della quale queste poggerebbero sul vuoto della pura effettività o su una obbligatorietà senza giustificazione. Ma per potere, appunto, persuadere gli uomini ad obbedire alle legge, i simboli che le sostanziano devono essere rivolti al futuro, portare dentro un modello di società, parlare non solo alle generazioni presenti, ma anche a quelle che verranno. È di Franz Rosenzweig l´acuta osservazione che, a differenza della monarchia, vincolata alla continuità biologica della successione dinastica, il meccanismo elettorale della democrazia è portato a rompere il filo tra le generazioni. Zagrebelsky riconduce questo dato istituzionale a quel deficit simbolico che costituisce la malattia più insidiosa delle democrazie contemporanee.
Torniamo così alla questione iniziale dell´antipolitica. Anch´essa naturalmente lavora sui simboli. Ma su simboli vuoti di contenuto, costruiti nel deserto simbolico dell´attuale politica. Certo, partiti e movimenti continuano ad esibire segni, sigle, emblemi – disegni di fiori, piante o animali. Ma privi di energia, di valori riconoscibili, di messaggi forti sul nostro futuro. Pure sagome senza vita, affidati a studi pubblicitari interessati soltanto all´efficacia della grafica, alla grammatica dei sondaggi e al riempimento multicolore delle schede elettorali.
Nel momento in cui i partiti smarriscono la loro rilevanza simbolica, l´antipolitica tende ad impadronirsene spostando la linea del conflitto dall´ambito dei progetti di società a quello dello scontro, privo di contenuti, contro la stessa politica. Stretta tra le ricette tecniche di pura amministrazione dell´esistente e le aspirazioni di movimenti senza programmi e senza prospettive, la politica continua a perdere terreno. Ma ciò che può apparire un destino dipende pur sempre da attitudini ed opzioni che è ancora possibile, e necessario, mutare.

Corriere 7.5.12
La legge che rende fratelli i figli delle coppie di fatto
Sì in commissione, risolverà i problemi ereditari
di Maria Silvia Sacchi


MILANO — Il Parlamento ci riprova. Riprova a dire che i figli sono figli. Punto. E che non importa da chi sono nati, se da genitori sposati, conviventi, che si sono visti una volta sola, che sono imparentati tra di loro o se sono stati adottati... In qualunque caso, sono figli. Ed è a loro che bisogna pensare, non agli adulti.
Oggi, infatti, i figli non sono «perfettamente» uguali: figli naturali (nati da genitori non sposati tra di loro) e figli adottivi non hanno le spesse parentele di quelli legittimi. Hanno le parentele «in linea diretta» (genitore-figlio), non quelle «collaterali» (esempio, nipote-zio). Traducendo: hanno un papà e una mamma ma non una zia o uno zio.
Con una conseguenza paradossale: che, per la legge, due bambini nati dagli stessi genitori non convolati a nozze non sono fratelli, perché quella tra fratelli è una parentela collaterale.
Le conseguenze non sono di poco conto. Per esempio, quando i genitori si separano. Perché i Tribunali a cui ci si deve rivolgere sono due diversi: ordinario per i figli legittimi, dei minorenni per quelli naturali. Ma, sottolinea Anna Galizia Danovi, avvocato e presidente del Centro per la riforma del diritto di famiglia, mentre i provvedimenti emessi dal Tribunale ordinario sono eseguibili automaticamente, lo stesso non è per quelli dei Tribunali dei minorenni. Significa che se un genitore naturale non paga il mantenimento, proteggerne il figlio è più difficile.
Notevoli i problemi in tema di eredità. Figli naturali e legittimi sono sostanzialmente trattati allo stesso modo riguardo ai genitori e in una certa misura ai nonni. Non nella linea collaterale. Tanto e vero che «i fratelli naturali, se uno dei due muore, non ereditano l'uno dall'altro se ci sono altri parenti legittimi entro il sesto grado — dice Maria Dossetti, giurista —. In sostanza, vengono prima solo dello Stato».
Tante differenze che pesano, anche considerando che il tema tocca un numero di minori in crescita esponenziale: un bambino su quattro nasce da coppie non sposate, il doppio di 10 anni fa.
Per questo da tempo si spinge perché il Parlamento legiferi. E la scorsa settimana è stato fatto un passo avanti: la commissione Giustizia del Senato ha approvato un disegno di legge che elimina ogni differenza. Secondo Maria Alessandra Gallone, senatrice pdl relatrice del provvedimento, il disegno di legge arriverà in aula del Senato entro un paio di settimane per poi passare alla Camera. «Sono fiduciosa», dice la senatrice.
La Camera aveva approvato un anno fa un provvedimento in questo senso, ma il Senato lo ha modificato e per questo dovrà essere nuovamente varato. Il cambiamento più rilevante introdotto dal Senato riguarda proprio il Tribunale di competenza: ha stabilito che d'ora in avanti sarà per tutti quello ordinario. «I Tribunali ordinari sono più numerosi di quelli dei minorenni, sono distribuiti su tutto il territorio e hanno un rito migliore», dice Maria Alessandra Gallone. Bene il Tribunale ordinario, anche se meglio sarebbe, secondo Danovi, avere un Tribunale della famiglia.
Ed è a questo che sta lavorando il Senato, con un disegno di legge del quale è relatrice l'ex sottosegretario alla Giustizia, Maria Elisabetta Alberti Casellati.
«Speriamo che il Parlamento parifichi in via definitiva figli naturali e legittimi — conclude Danovi — perché si va a sanare un problema di enorme rilevanza sociale. La società italiana è come divisa in due: una gran parte ritiene ancora che la famiglia sia quella fondata sul matrimonio con i diritti e i doveri che ne derivano, anche se con una minor consapevolezza di un tempo di dover portare avanti un progetto comune a tempo indeterminato tra un uomo e una donna. Ma sempre più si assiste a una "fuga dal matrimonio" di cui bisogna prendere atto».

Corriere 7.5.12
Ius soli
«Chi è nato qui fa parte della società»


MILANO — Nel giorno del botta e risposta Riccardi-Gasparri sullo ius soli, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato una lettera al sindaco torinese di Nichelino che ha conferito la cittadinanza onoraria a 450 ragazzi nati nel comune negli ultimi dieci anni da genitori stranieri. «Le seconde generazioni degli immigrati», ha scritto il Capo dello Stato, «sono parte integrante della nostra società». E all'iniziativa ha attribuito proprio il merito di aver saputo riconoscere questo dato di fatto. Perché «è evidente», ha continuato Napolitano, «il disagio di tutti quei giovani che, nati o cresciuti nel nostro Paese, rimangono troppo a lungo "stranieri" nonostante siano e si sentano italiani nella loro vita quotidiana». Il presidente ha poi aggiunto: «L'attribuzione della cittadinanza onoraria può rappresentare un prezioso contributo per un'opera di sensibilizzazione dell'opinione pubblica sul tema, anche se tale provvedimento non ha ovviamente un valore giuridico ma solo simbolico». E ancora: «È auspicabile che queste iniziative costituiscano uno stimolo a una seria e approfondita riflessione anche in sede parlamentare, per una possibile riforma delle modalità e dei tempi di riconoscimento della cittadinanza italiana ai minori stranieri». Un auspicio che è stato anche dichiarato dal sindaco di Nichelino Giuseppe Catizone. Proprio nel giorno in cui pure il ministro della Cooperazione internazionale e dell'Integrazione Andrea Riccardi ha dato voce al suo desiderio. «Un sogno? La cittadinanza per i bambini stranieri nati in Italia e la ripresa della cooperazione italiane», ha detto. «È fallito il modello inglese come quello francese, perché non provare con uno italiano? Il nostro secolo è quello del vivere insieme». Di parere opposto il presidente dei senatori pdl Maurizio Gasparri: «Riccardi si ricordi di fare il ministro del suo ministero ed eviti sproloqui sulla cittadinanza a chi nasce in Italia, norma che non ci sarà mai». I 450 bambini di Nichelino, insieme all'attestato di cittadinanza onoraria, hanno ricevuto in dono una copia della Costituzione e due spillette dorate: una con la bandiera italiana e l'altra del Paese di provenienza dei genitori.

Repubblica 7.5.12
Figli, appartamento, mobili e regali come sopravvivere alla convivenza
Manuale per coppie di fatto: "Ecco i diritti che non sapete di avere"
di Vera Schiavazzi


Bisogna segnalare all´anagrafe il proprio status e indicare che esiste un vincolo affettivo
Va peggio se si rompono le unioni tra non sposati: non si possono ottenere assegni

Ignorate, discriminate, penalizzate. Ma anche non sufficientemente consapevoli delle leggi che già ci sono e delle pieghe nelle quali ci può infilare per tutelarsi. Per le coppie di fatto (879.000 in Italia secondo gli ultimi dati Istat, oltre due milioni e mezzo di persone se si considerano anche i figli) ora c´è un manuale che riassume e indica le mosse strategiche.
Lo hanno scritto quattro esperti (il giudice Bruno de Filippis, gli attivisti Gian Mario Felicetti e Gabriella Friso, l´avvocato Filomena Gallo) per Stampa Alternativa, promosso dall´associazione radicale Certi diritti, si intitola "Certi diritti che le coppie conviventi non sanno di avere" ed esplora situazioni comuni ed altre insolite.
Primo passo: dichiarare all´anagrafe la propria convivenza, indicando con chiarezza che esiste un vincolo affettivo. Subito dopo, vengono i problemi legati alla casa (meglio fare testamento se è di proprietà di uno dei due davanti a un notaio per evitare contestazioni a posteriori di altri eredi). Per chi vive in affitto invece vale la giurisprudenza, che dopo una prima sentenza della Corte Costituzionale, nel 1988, ha esteso il diritto per chi convive di subentrare all´altro inquilino. Ma le cose sono spesso più complicate, per esempio quando si vive con i figli in una casa assegnata dal Tribunale dopo una prima separazione e si invita a convivere un nuovo partner: la perdita dell´alloggio non è più automatica, ma occorre un nuovo giudizio.
Va peggio quando a rompersi sono le coppie non sposate: le norme generali sulla comunione servono a suddividere (al 50 per cento salvo pretese diverse e dimostrabili) tutto ciò che si condivideva ma non è possibile ottenere un assegno o un risarcimento quando uno dei due guadagnava meno dell´altro o aveva rinunciato alla sua carriera in favore di quella del partner: l´articolo 3.034 del Codice civile scatta implacabile e sancisce che "ciò che è stato dato spontaneamente non può essere ripetuto", cioè richiesto indietro. «Tra l´Italia e il resto d´Europa – sottolinea de Filippis – esiste ormai uno spread in termini di diritti civili: siamo fermi alla revisione del diritto di famiglia del 1975 e a quella del Concordato, 9 anni più tardi. Occorre "arrampicarsi" sulle leggi attuali, posto che, fortunatamente, la convivenza non è un illecito».
Nelle piccole cose come nelle grandi. Non si possono riottenere neanche i regali, a meno che non si tratti di donazioni importanti (per esempio un alloggio) trascritte nel registro, per le quali è possibile prevedere la revoca per "ingratitudine". Ma non è vietato stipulare un accordo di convivenza, che regoli le cose anche quando l´amore finisce: uno degli strumenti più affidabili è quello del trust, un rapporto giuridico privato che definisce, prima e dopo l´eventuale crisi, tutto ciò che riguarda i beni. Anche nominare il convivente "amministratore di sostegno" è una buona soluzione ai problemi che possono derivare da una lunga malattia o dall´esigenza di prendere decisioni sulle cure e di assistere qualcuno che sul piano legale non è un familiare.
E gli esperti consigliano di estendere comunque gli accordi anche agli obblighi non economici: «Molti diritti si possono far riconoscere utilizzando leggi e sentenze che già ci sono, altri arriveranno perché sono i cambiamenti sociali e scientifici che possono trainare il diritto – dice Filomena Gallo –. Nel caso dei figli, per ora non ci sono diritti rispetto a quelli non biologici. Ma la legge sulla procreazione assistita tutela i nascituri, impedendo di disconoscerli. E se, per esempio, un bambino è nato con la donazione dell´ovocita di una donna e l´utero di un´altra in un paese dove questo è consentito, anche per un tribunale italiano sarebbe difficile negare questa doppia maternità».

Corriere 7.5.12
Al film su Eluana 150 mila euro. «Bloccate quei fondi»
di Margherita De Bac


ROMA — Quel film di Marco Bellocchio ispirato a Eluana Englaro indigna le associazioni contrarie ad ogni forma di interruzione di cure e trattamenti. Non per il contenuto ma per il contributo economico appena riconosciuto al progetto del vincitore del Leone d'Oro dal Friuli Venezia Giulia attraverso la Film Commission, l'organismo che decide se e come contribuire alla realizzazione di opere cinematografiche.
Centocinquantamila euro, il massimo previsto. E così si riaccendono le polemiche, che non sono soltanto locali. È la prima notizia sgradita per Lucio Romano, ginecologo di Napoli, eletto sabato scorso presidente unico di «Scienza & Vita», il movimento che quando Eluana era in stato vegetativo si è opposto con vigore a che venissero sospese idratazione e alimentazione col sondino.
Il neurologo Gianluigi Gigli in quegli anni (la donna è morta a febbraio 2010) ha seguito la vicenda a Udine, come rappresentante dell'associazione: «Il provvedimento della Regione dal punto di vista tecnico è ineccepibile ma politicamente sbagliato perché a dicembre con un ordine del giorno era stata espressa una contrarietà trasversale dei partiti. Scelta sconsiderata, ideologica. Si riapre un dibattito doloroso. Vengono sperperati 150 mila euro». In altre parole le associazioni pro life sembrano ritenere che il sì al finanziamento esprima una posizione laica sul fine vita.
La concessione del fondo è in realtà dovuta al valore artistico dell'opera e sul ritorno per la Regione in termini economici e di immagine. Le riprese di La bella addormentata, produttore Riccardo Tozzi con la Cattleya, sono cominciate a gennaio. La troupe secondo Gigli ha pernottato 180 giorni in zona: «Questo sarebbe il grande contributo al turismo locale?».
Non si scalda più di tanto Beppino Englaro, il papà di Eluana che aveva chiesto e ottenuto dai giudici l'autorizzazione a sospendere i trattamenti di sostegno alla figlia, in stato vegetativo da 18 anni dopo un incidente stradale: «Le associazioni si indignino pure — dice ora —. Quei soldi alla produzione sono più che giusti. È stata valutata l'arte e non altro. E poi chiariamo ancora una volta. Il film prende spunto dalla vicenda di mia figlia ma non viene raccontata la sua storia come ha chiarito subito Bellocchio quando il progetto è partito».
Un invito alla riflessione come ha spiegato più volte il regista. Le riprese sono terminate, la pellicola sarà pronta tra settembre e ottobre, forse presentata al festival di Berlino.
Tre storie che si intersecano, con personaggi immaginari, nessuna morale: «Abbiamo girato in zone di grande suggestione attorno a Udine — spiega Tozzi — Ci siamo trovati molto bene, a nostro agio. I fondi della Regione ci spettano di diritto perché possediamo i requisiti per riceverli. Erano obbligati a dire sì e sarebbe stata una violazione che ci venissero negati».
Non si tratta di un documentario, non si vogliono indicare soluzioni. «È un inno alla vita, Eluana si vede solo in alcune scene sullo schermo di un televisore», anticipa Tozzi. Ma gli indignati non si danno per vinti: «I politici dovranno giustificare i soldi buttati via in questo modo», incalza Nadia Scotti, di Gorizia, presidente dell'associazione «Oltre per rivivere».

Corriere 7.5.12
Giovanni Scoto. Il filosofo che illuminò i secoli bui
Fu il più grande pensatore medievale e mise l'uomo al centro dell'universo
di Pietro Citati


Con ogni probabilità, Giovanni — il più grande filosofo del Medioevo latino — nacque in Irlanda attorno all'815. La tradizione gli attribuisce due nomi: Giovanni Scoto e Giovanni Eriugena, cioè Giovanni l'Irlandese. Lo circondava una specie di leggenda: vir barbarus in finibus mundi positus, come scrisse Anastasio il Bibliotecario. Abbiamo pochissime notizie sulla sua vita. Tutto lascia credere che, carico di un'immensa erudizione, abbia insegnato nella giovinezza in Irlanda; e che il re di Francia Carlo il Calvo lo abbia invitato, attorno all'840, alla sua corte, affidandogli il compito di insegnare arti liberali alla scuola palatina di Parigi.
Divenuto re nell'843, Carlo il Calvo esercitò un grande fascino sui letterati del suo tempo. Giovane, abile parlatore, dotato sia di urbanitas sia di dulcedo, aveva costruito in numerosi anni una corte molto più brillante, viva e originale di quella di Carlo Magno. Moltiplicava le biblioteche e gli scriptores, che ricopiavano manoscritti italiani, inglesi e irlandesi; ispirava meravigliose miniature; leggeva tutti i testi latini che aveva a disposizione, e possedeva una conoscenza sia pure superficiale del greco. Il Libro era il cuore mobile e vibrante della sua vita. Giovanni Scoto e Carlo nutrivano, l'uno verso l'altro, sentimenti di ammirazione e di venerazione; e giocavano con il greco, il latino, le idee, le immagini, come se la cultura fosse una specie di spettacolo inesauribile.
A Parigi Giovanni Scoto aveva conosciuto dei professori provenienti da Costantinopoli, che gli avevano insegnato un greco quasi perfetto, in tutta la ricchezza delle sue sfumature. D'allora in poi si abbeverò a quella abbondantissima fonte: tradusse Prisciano di Lidia, Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore e, sopratutto, l'immenso Corpus dello Pseudo Dionigi, che accreditò in Occidente. Scrisse il De praedestinatione, un commento a Dionigi, una mirabile Omelia sul prologo di Giovanni (a cura di Marta Cristiani, edito da Mondadori-Fondazione Lorenzo Valla), un commento incompiuto al Vangelo di Giovanni. Prima dell'866 compose l'immenso Periphyseon, ovvero Sulle nature dell'universo: in questi giorni esce il primo volume di una bellissima edizione commentata, che comprenderà sei volumi della Fondazione Valla (primo volume: pagine LXXXVIII-303, 30). L'introduzione e il commento sono di Peter Dronke, uno dei più eccellenti e famosi medioevalisti e comparatisti di lingua inglese: la traduzione italiana di una elegante studiosa, Manuela Pereira, che negli anni scorsi ha curato per i Meridiani Mondadori un volume sull'Alchimia e Il libro delle opere divine di Ildegarda di Bingen.
Mentre Giovanni Scoto traduceva il Corpus dello Pseudo Dionigi, i Normanni scendevano in Francia: incendiarono e distrussero tre volte Parigi; attaccarono Nantes, sgozzarono il vescovo, arsero la cattedrale; bande di mori penetrarono a Arles e a Nîmes; altre flotte normanne assediavano Bordeaux; risalirono la Senna, la Loira, raggiunsero Tours, Orléans, Amiens, devastando case, chiese, palazzi reali, abbazie. Dopo qualche anno di pausa, le navi normanne riportarono dovunque desolazione e distruzione: tornò a diffondersi un'atmosfera da fine del mondo. Ma Giovanni Scoto non desisteva: lui doveva indagare le vere nature dell'universo, i principii, le entità angeliche, le teofanie; non i casuali disastri che la follia degli uomini produce sulla superficie del mondo.
Tornato alla luce dopo un lungo periodo di silenzio e di incomprensione, Sulle nature dell'universo è, per un lettore moderno, il libro filosofico più affascinante del Medioevo. La Summa di san Tommaso pretende di insegnarci una verità stabile e immobile; Sulle nature dell'universo commenta ogni idea, immagine, sensazione, intuizione che siano discese dai grandi testi della filosofia greca e latina; e non fa che inseguire ipotesi che si sciolgono e si dissolvono in altre ipotesi e congetture, culminando in una sovracongettura che appartiene, come diceva Borges, al genere della letteratura fantastica. Scoto corteggia qualsiasi suggestione culturale, ma non è vincolato a nessuna di esse. Non è platonico, né aristotelico, né stoico, né agostiniano, e tantomeno panteista. Mentre insegue i segreti dell'universo e di Dio, gioca, ironizza, dissemina false citazioni: il maestro del dialogo interminabile deride l'alunno, l'alunno deride il maestro; e non sappiamo mai chi dei due abbia veramente ragione. Analizza ogni possibile complessità logica; glossa le categorie; nessuno sembra più minuzioso e razionale di lui; e alla fine prorompe in grandi sintesi mistiche su Dio e la natura originaria dell'universo.
Il Nuovo Testamento contiene due testi fondamentali. «Quando Dio si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è», dice Giovanni. «Ora vediamo attraverso uno specchio in maniera enigmatica: ma allora vedremo faccia a faccia», dice Paolo. Quando leggeva queste frasi, il fedele cristiano era certo non solo di conoscere ma di vedere Dio, come egli è, faccia a faccia. Era la certezza, la grazia, la visione assoluta. Con un ardire straordinario, che ha qualcosa di inesorabilmente drammatico, Giovanni Scoto rifiutò o eluse le grandi frasi di Giovanni e di Paolo: abolì le fondamenta mistiche del Nuovo Testamento; e insistè sull'assoluto fallimento del linguaggio umano nel suo tentativo di comprendere il mondo divino.
Giovanni Scoto seguì una strada completamente opposta a quella di Giovanni e di Paolo. Nel Corpus dello Pseudo Dionigi aveva letto una frase, che trasformò nel fondamento del suo paradossale sistema filosofico: «L'essere di tutte le cose è la divinità al di sopra dell'essere». Così possiamo, anzi dobbiamo dire, che Dio è più che Dio; più che essenza; più che bontà; più che eternità; più che sapienza; più che amore; più che visione; più che movimento. Ma possiamo esprimere la stessa verità in un modo opposto, che ci porta più vicini a cogliere l'immenso segreto negativo di Dio. Ecco, dunque: Dio non è Dio; Dio non è Essenza; Dio non è bontà; Dio non è eternità; Dio non è sapienza; Dio non è amore; Dio non è visione; Dio non è movimento. Il risultato di questo doppio movimento, che afferma e cancella nel medesimo istante, è lo stesso. Per quanto noi ci sforziamo di capire e di vedere, ripetendo le parole di Giovanni e di Paolo, Dio è incomprensibile. Noi non possiamo conoscere Dio; e non possono conoscerlo nemmeno le entità angeliche, le quali sono dotate delle supreme qualità intellettive. Tra noi e Dio, tra gli angeli e Dio, regna una profondissima zona di cecità e di silenzio, la quale è la nostra unica strada d'accesso.
Poi, all'improvviso, Sulle nature dell'universo ruota su se stesso e si capovolge, e noi comprendiamo che, malgrado tutto, possiamo conoscere Dio, o almeno una parte di lui. Sebbene gli angeli non possano vedere in viso Dio, essi possono scorgere «le manifestazioni divine comprensibili alla natura intellettuale». Sono quelle che Giovanni Scoto chiama illuminazioni, apparizioni, rispecchiamenti, teofanie: fenomeni che noi, esseri umani, possiamo cogliere soltanto attraverso la mediazione angelica. In questo momento avviene ciò che noi non avremmo mai creduto possibile: la deificazione dell'uomo. Il Verbo divino, che continua a restare se stesso, discende per gradi verso il basso, verso la natura umana; e la natura umana, pur restando esclusivamente se stessa, ascende verso il Verbo, per opera e grazia dell'amore divino. Così l'anima è purificata, illuminata e perfetta, sebbene non si sciolga affatto nella cecità e nel silenzio dell'immenso nulla divino. Non esiste — Giovanni Scoto non potrebbe essere più chiaro — nemmeno una traccia di panteismo. Sulle nature dell'universo viene percorso e attraversato da un paragone bellissimo: «Come l'aria, illuminata dal sole, sembra non essere altro che luce, non perché perda la propria natura, ma perché la luce prende in essa il sopravvento, sicché essa stessa sembra essere parte della luce, così la natura umana unita a Dio è detta essere Dio sotto tutti gli aspetti, non perché la sua natura abbia cessato di esistere, ma perché è divenuta partecipe della Divinità, al punto che in essa sembra esserci solo Dio».
Gli ultimi libri di Sulle nature dell'universo raccontano grandiosamente il ritorno di tutte le cose nel grembo del Signore: l'apocatastasis. Allora, il corpo verrà tramutato in spirito. Lo spirito, o per essere più chiari, l'intera natura umana sarà restituita alle cause primordiali che esistono per sempre in Dio. La natura si trasformerà in Dio, come l'aria si trasforma in luce. L'essere umano si riunificherà, superando la divisione dei sessi. L'orbe terrestre sarà riunito al paradiso, e non vi sarà altro che paradiso. Il cielo e la terra torneranno uniti, e non vi sarà altro che cielo. Alla fine dell'apocatastasis il bene otterrà la sua vittoria definitiva sul male. Non vi sarà più nessun luogo per porvi un inferno, nessun fuoco per bruciarlo, nessun tempo per supplizi corporei. Anche il nemico supremo, il diavolo, verrà cancellato: continuerà a esistere, non perderà la sua natura demoniaca, ma non sarà più causa né di inimicizia né di morte. «Forse — conclude Scoto — l'ultima fiamma che riempirà e consumerà il mondo intero sarà l'apparizione visibile del Verbo di Dio in tutte le creature»: quella fiamma che ora lo riempie in modo invisibile.
Verso la fine della vita di Giovanni Scoto, le sue tracce si smarriscono. Sappiamo che prima il libro giovanile sulla Predestinazione poi Sulle nature dell'universo furono aspramente criticati dai dotti cattolici, specialmente per la violenta grecizzazione della cultura latina. Né il Dio-Nulla né la divinizzazione dell'uomo potevano piacere a chi si era nutrito di Agostino. Poi Giovanni Scoto scomparve. Di solito si sostiene che si nascose in un monastero nello stesso anno, l'877, in cui il suo imperatore, Carlo il Calvo, moriva ritornando da Roma in quella che sarebbe divenuta la Francia. Ma, nella recentissima edizione, Peter Dronke avanza un'ipotesi molto suggestiva. Il biografo di Alfredo il Grande, re d'Inghilterra, racconta che il re aveva invitato dalla Francia due studiosi, uno dei quali di nome Giovanni, «un uomo di intelletto acutissimo, coltissimo in tutti i campi della letteratura ed esperto in molte altre arti liberali». Proprio in quegli anni, Alfredo il Grande sviluppò in alcuni testi il grande motivo eriugeniano del ritorno di tutte le cose nel grembo di Dio. Non possediamo nessuna certezza assoluta. Ma non può essere escluso che l'ignoto Giovanni, l'uomo «di intelletto acutissimo», non sia stato altri che Giovanni Scoto, venuto in Inghilterra a diffondere drammaticamente le grandi visioni della sua vita.

Corriere 7.5.12
La lezione di Giulietta e Romeo
Salvare l'umanità attraverso l'amore e il sacrificio di sé: questo ci insegnano i due amanti più famosi del mondo
di Paola Casella


Perché Romeo e Giulietta di Shakespeare è immortale, e fonte di continua ispirazione? Innanzitutto perché racconta in modo inimitabile l'amore adolescenziale, nella sua intensità totalizzante. Quale momento drammaturgico ha saputo riprodurre con altrettanta immediatezza l'impossibilità di due giovanissimi amanti di staccarsi l'uno dall'altro della scena dell'atto secondo, in cui la quasi quattordicenne Giulietta entra ed esce dal balcone di casa Capuleti perché non riesce a separarsi da Romeo? Le dediche di eterna fedeltà scritte sulle strade delle nostre città sotto le finestre dell'amato bene non sono che il pallido riflesso di quella scena memorabile.
«Addio, amor mio!», dice Giulietta, facendo gesto di rientrare in casa. E un minuto dopo: «Resta ancora un poco. Torno subito». Poi esce ancora: «Tre parole, diletto Romeo, e l'ultima buona notte». E poi ancora: «Mille volte buonanotte!». E all'ultima uscita: «Buona notte, buona notte! Il dividersi è un dolore così dolce, che continuerei a darti la buonanotte fino a domattina!». Chi di noi non ricorda questo andirivieni all'infinito, con la prima «cotta» del liceo, su cui la compagnia telefonica di Stato ha prosaicamente costruito un tormentone di fine anni Ottanta?
Non è un caso che quasi tutte le frasi più celebri di Romeo e Giulietta siano contenute proprio nella scena del balcone, che trova il suo riflesso nella successiva in cui i due amanti, dopo la prima notte di passione, sono costretti a separarsi per quella che noi lettori scopriremo essere l'ultima volta: «O finestra, lascia entrare la luce, e lascia uscire la vita», dirà Giulietta, quando Romeo sta per lasciare la sua stanza. E lui: «Addio, addio! Un bacio ancora e scendo!».
Ed è sempre Romeo, sempre nella scena del balcone, a illuminare un altro aspetto drammaturgicamente potente dell'amore adolescenziale: l'annullamento di ogni altro essere umano dal proprio orizzonte emozionale e visivo, e l'identificazione dell'obiettivo amoroso come centro unico della propria esistenza. «Qual luce rompe laggiù, da quella finestra? Quello è l'oriente, e Giulietta è il sole», dice Romeo, vedendo la sua amata apparire al chiarore della luna.
L'eco di queste parole si sente ancora oggi in ogni frase appassionata pronunciata (o scritta sulle pagine di Facebook) da teenager convinti, magari solo per lo spazio di un mattino, che la fidanzatina del momento sia il pianeta attorno al quale ruota la loro intera esistenza.
Nella febbre d'amore che agita Romeo e Giulietta c'è l'impazienza che sarà loro fatale, quel «sangue caldo della gioventù», come lo descrive la ragazza, che impedisce loro di aspettare, di riflettere, e che nella tragedia di Shakespeare è contrastato dalla prudenza dei vecchi che pure, con le loro rivalità insensate, sono la causa prima della tragedia a seguire. Memorabile, per impatto drammaturgico e comicità (che Shakespeare alterna spesso al dramma sottolineando l'aspetto ridicolo della condizione umana), la scena fra Giulietta e la sua balia venuta a portare notizie di Romeo: Giulietta l'assedia di domande, la balia procrastina la sua risposta, intuendo il pericolo di una decisione tanto sbrigativa. «Chi ha troppa fretta arriva tardi quanto chi si mette in cammino col passo più lento», ammonirà Romeo il saggio Frate Lorenzo, anticipando gli eventi tragici a seguire.
Del resto nella passione irrefrenabile che unisce Romeo e Giulietta è contenuto un altro elemento fondamentale della narrazione shakespeariana: il legame fra amore e morte, eros e thanatos, già tanto presente nella tragedia classica. Tutta la narrazione è disseminata di lugubri presagi che i protagonisti ignorano o addirittura avvallano: «Fa tanto di giunger le nostre mani con le tue sante parole», dice Romeo a Frate Lorenzo, implorandolo di unirlo in matrimonio a Giulietta. «Poi la morte divoratrice d'amore osi pur tutto quel che vuole», perché morire è preferibile al vivere senza la propria amata.
Quella di Romeo e Giulietta è l'eterna sfida di un amore contrastato: i protagonisti sono i figli unici di due famiglie che si odiano da sempre, e quest'odio è un impedimento reale alla concretizzazione del loro sogno d'amore. Gran parte dei film ispirati alla tragedia shakespeariana ha fatto leva su questo contrasto come fonte primaria della tensione drammatica: così Romeo diventa un americano di origine polacco-irlandese e Giulietta un'immigrata portoricana in West side story, i due si trasformano in un italoamericano e una ragazza cinese in China girl, ma anche un passeggero della terza classe e una ragazza della prima in Titanic, o un vampiro e una teenager nella saga di Twilight che, pur non essendo adattamenti veri e propri, devono molto al testo shakespeariano. «Il mio unico amore sarebbe dunque nato dal mio unico odio!», esclama la virginale Giulietta, enucleando il cuore del dilemma. E Shakespeare si assicura di inserire legami affettivi molto forti fra i due protagonisti e le rispettive tribù di appartenenza, per rendere emotivamente strazianti le scelte di campo che entrambi devono operare.
Che il dilemma riguardi anche profondamente il tema dell'identità è reso chiaro da uno dei passaggi più noti della tragedia shakespeariana, quello in cui Giulietta, sempre nella scena del balcone, chiede: «Che cosa c'è in un nome? Quel che noi chiamiamo con nome di rosa, anche se lo chiamassimo d'un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo». È un richiamo alla comune umanità che sottende ogni divisione etnica, religiosa, nazionale: lo stesso cui dà voce Shylock nel monologo del Mercante di Venezia: «Se ci pungete, non sanguiniamo?».
Il risvolto positivo della tragedia di Romeo e Giulietta è infine quello preannunciato nel prologo: la morte dei due giovani seppellirà la guerra d'odio dei loro genitori. I due amanti non sopravvivranno, ma il loro amore diventerà pace, e leggenda. La tragedia di Shakespeare resta immortale perché riscopre la speranza in un amore tanto puro da porre fine alle insensatezze degli uomini, e perché le dinamiche della passione giovanile, ma anche i contrasti fra identità contrapposte, restano gli stessi in ogni epoca. Semplicemente Shakespeare, meglio di tutti, li riproduce con la verità poetica di cui solo un grande autore è capace.

Repubblica 7.5.12
Alice for ever
La ragazzina diventata mito da Carroll a Tim Burton
di Leonetta Bentivoglio


Il Mart di Rovereto celebra con una mostra l´eroina e la sua continua influenza sull´arte contemporanea
Viene esposta la prima edizione del capolavoro con i taccuini dell´autore
Dagli anni Trenta i surrealisti si fanno attraversare dal fertile pianeta del racconto

Forse in letteratura non c´è nulla che abbia prodotto un almanacco sterminato di visioni come Alice nel Paese delle Meraviglie. Il suo mondo rimbalza nell´immaginario degli artisti diventando fulcro di sguardi sghembi, prospettiva esistenziale oltre gli specchi, itinerario allegorico o psichedelico, florilegio anche grafico di calembour, occhi che indagano fanciulle con morbosità sottile. Bello smarrirsi nella ramificazioni della potenza simbolica di questo libro e vagare nella sua "moltezza" ("muchness", dice il Cappellaio Matto nel film che Tim Burton ha dedicato alla celebre bambina). Alice è così: un´abbondanza di suggestioni trionfalmente dinamica nel trasformarsi e sconvolgere abitudini percettive.
Lo testimonia la mostra Alice in Wonderland, con cui il Mart di Rovereto, fino al 3 giugno, narra l´influsso dilagante che hanno avuto sulle arti visive gli universi suscitati dalle imprese dell´eroina letteraria ottocentesca (organizzazione della Tate di Liverpool in collaborazione con il Mart e la Kunsthalle Hamburg, curatori Christoph Benjamin Schulz e Gavin Delahunty con l´assistenza di Eleanor Clayton). Il viaggio parte dal 1865, anno in cui il matematico Charles Lutwidge Dodgson, scrittore insuperabile nelle sfide del gioco logico e del sovvertimento linguistico, pubblica, con lo pseudonimo di Lewis Carroll, il suo capolavoro, dove le illustrazioni di John Tenniel integrano il testo determinando un flusso multimediale, calcolatissimo nella provocazione di effetti ottici.
La mostra del Mart segue il progetto dalle origini, esponendo la prima edizione di Alice e scovando i taccuini degli appunti, le prove di stampa e gli esperimenti tipografici che la accompagnarono. Fu tale il successo del volume da dare vita a un ricco apparato di gadget e accessori ludici, che contribuirono a radicare i personaggi di Carroll nell´inconscio collettivo. Col loro tratto angelicato e ombroso, i disegni di Tenniel spuntano su francobolli, figurine, carte da gioco e lanterne magiche.
Ma la fetta per così dire "storico-filologica" della mostra - che apre la gestione del neo-direttore del Mart Cristiana Collu, pur se programmata prima della sua nomina - è solo uno dei percorsi indicati da questa mappa della genealogia figurativa di Alice. Il resto, che è tanto, anche per eterogeneità e spessore, segue almeno tre filoni. Uno riguarda la partecipazione di Dodgson alla scena artistica della propria epoca, in cui s´immerse con assiduità e competenza. Entrato in contatto con la confraternita preraffaelita, contava tra i suoi amici Dante Gabriel Rossetti e Sir John Everett Millais, e commentava con vivido spirito analitico, nei propri diari, le opere di William Holman Hunt e Arthur Hughes. Si plasmano carnosamente le forme dei putti di Hunt, visibili nella tela The Triumph of Innocents (titolo che potrebbe incoronare l´intera esposizione), mentre è enigmatico e risucchiato in zone di cristallo lo sguardo di The Lady of the Lilacs di Hugues, uno dei più seducenti quadri in mostra. E a dimostrare quanto l´autore di Alice fosse consapevole della pittura dei suoi contemporanei, è segnalata la somiglianza tra un dipinto di Millais del 1865, Walking, raffigurante sua figlia Mary, e un ritratto fotografico di Dodgson che reca lo stesso titolo. Entrambe notturne e imbronciate, le due bambine esprimono con efficacia quella vaghezza ultraterrena impressa sui volti dell´infanzia nell´arte vittoriana, di cui erano uno dei soggetti più frequenti.
Un altro filone si occupa dell´attività fotografica di Dodgson, che fu una star in questo campo: le sue tremila immagini formano un repertorio che rappresenta forse la più folta testimonianza fotografica dell´Inghilterra vittoriana. Il suo stile compone luci oblique, spettacolini onirici animati da piccole modelle travestite, profili che si stagliano su sfondi brumosi, ragazzine assopite, docili, indifese, riverse a terra come mucchietti di stracci, forse assaltabili da vecchi satiri. Naturalmente campeggia, nel repertorio, l´immagine di Alice Pleasance Liddell, ispiratrice del mosaico di avventure dal quale scaturì il miracolo del libro. Dodgson le scatta la prima foto quando ha quattro anni, il 3 giugno 1856, e l´ultima ce la restituisce diciottenne, adulta e quindi ormai contaminata e dispersa per il suo devoto ammiratore.
Un terzo filone ci consegna alcuni campioni delle varie possibilità artistiche connesse, in modo più o meno esplicito, alle sollecitazioni di Alice. Dagli anni Trenta i surrealisti si fanno attrarre enormemente dal fertile pianeta inventato da Lewis Carroll, sposandone l´idea degli arcani celati dietro le apparenze e del dato inatteso e spiazzante che infrange la superficie del reale. Lo dimostrano, oltre ai quadri dei surrealisti inglesi (chiamati proprio "figli di Alice"), certe stampe iper-cromatiche di Salvador Dalí e alcuni dipinti di Max Ernst, come il magico The Stolen Mirror, con i suoi abbagli prospettici e i suoi riferimenti letterari proliferanti nelle misteriose figure femminili in primo piano.
Non mancano esempi di quell´arte concettuale che, in anni successivi, vide in Alice un motore di lavori focalizzati sulla presenza materiale del linguaggio nel libro di Carroll e sull´incoerenza della funzione linguistica come fonte di significati. Altri spunti emergono dalla ricerca artistica contemporanea, vedi le belle addormentate adolescenti di Anna Gaskell, in cui il caratteristico abbigliamento di Alice - abito azzurro e grembiulino bianco - trasferisce un codice ottocentesco in una straniante fiaba odierna, giocata su abbandoni femminili e facce replicate o gemelle che sondano il senso dell´identità. Con la loro complessità allusiva e le inquietanti apparizioni di animali, cinque straordinarie fotografie di Francesca Woodman, scattate tra il 1972 e l´80, possono intendersi come un ennesimo indicatore della polisemia di Dodgson e dei suoi dirottamenti sensoriali. Un´opera densa e stratificata come Alice si dilata oltremisura dentro il tempo, moltiplicando il suo riflesso in nuovi specchi.

l’Unità 7.5.12
La profezia di Turing
2040: quando il computer sarà più intelligente di noi
di Pietro Greco


Con l’evoluzione delle idee di uno dei geni del XX secolo verrà superata la potenza di calcolo
del cervello umano. E la società delle macchine più avanzata

Nel 1936 il sogno del giovane Alan diventò una realtà
La «macchina universale di Turing» è nata in maniera inattesa. 1936: uno studente di 24 anni è alle prese con un problema posto nel 1928, da uno dei più grandi matematici, il tedesco David Hilbert. È noto come l'Entscheidungsproblem, il «problema della decidibilità». In pratica Hilbert si chiede: esiste una procedura rigorosa, automatica e universale in grado di «decidere», se un qualsiasi enunciato matematico che le proponiamo, tipo 2 + 2 = 5, sia vero o falso? David Hilbert è convinto che tutti gli enunciati, in matematica, sono o veri o falsi. E che, dunque, debba esistere un algoritmo per separare il grano dal loglio. Nessuno lo ha trovato quell’algoritmo. Nessuno ha risolto il «problema della decidibilità». Il giovane Turing sta lavorando alla sua soluzione quando, nel 1936, dopo una corsa si assopisce su un prato. Nel dormiveglia intuisce la soluzione: no, contrariamente a quanto si aspettava Hilbert, non può esistere nessuna procedura universale in grado di decidere se ogni e qualsiasi enunciato matematico è vero o falso. Occorre stabilire la veridicità degli enunciati caso per caso. È sognando come si risolve il problema di Hilbert che Turing pensa a una «macchina universale» capace di manipolare simboli. E inventa il computer. Il sogno si trasforma in un articolo scientifico.

L’APPUNTAMENTO È PER IL 2040, AL MASSIMO PER IL 2050. ALLORA, SOSTIENE L’AUSTRIACO HANS MORAVEC, ESPERTO DI INTELLIGENZA ARTIFICIALE, CELEBREREMO IL DEFINITIVO TRIONFO DEL LOGICO INGLESE, ALAN TURING. Nel 2040, nel 2050 al massimo, prevede Maravec, computer abbastanza economici (10.000 dollari o giù di lì) e quindi molto diffusi saranno capaci di effettuare diecimila miliardi di operazioni al secondo e raggiungeranno, così, la potenza computazionale del cervello umano. Sarà quello il momento della «singolarità», l’evento che cambierà il nostro universo cognitivo. Perché da quel momento in poi il computer sarà più intelligente dell’uomo. E la rete di computer formerà una società più avanzata di quella umana.
E se oltre a una mente acuta possiederanno anche un sentimento di riconoscenza, allora quelle macchine non più (semplici) macchine celebreranno un membro della specie perdente che, forse più di ogni altro, ha contribuito a farle nascere: Alan Turing, appunto. Uno dei grandi geni del XX secolo. Quello che, forse, ha modellato il futuro.
FAMIGLIA DI GIRAMONDO
Alan Turing è venuto al mondo a Londra, dopo essere stato concepito in India da genitori giramondo, il 23 giugno 1912: cento anni fa. E, dunque, quest’anno ne celebriamo il centenario della nascita. È stato una persona eccezionale, con una vita eccezionale. Potrebbe essere ricordato per un’intera costellazione di motivi. Per la sua creatività applicata alla logica. Per le sue capacità sportive: correva la maratona come pochi altri al mondo e avrebbe partecipato alle Olimpiadi di Londra del 1948 se non avesse subito un incidente. Per il contributo dato allo sviluppo di Enigma, il sistema capace di decriptare i codici segreti dei tedeschi. Per la condanna inflittagli in quanto omosessuale (un reato in Gran Bretagna, fino al 1967). Per la dignità esibita fino alle estreme conseguenze: rivendicare pubblicamente il diritto ad avere le proprie preferenze sessuali. Per il suicidio conseguente alla umiliante pena in quello che è ritenuto e si ritiene il più libero Paese al mondo. Ma il modo migliore per celebrare Alan Turing, a cent’anni dalla nascita, è cercare di prevedere come il suo pensiero e la sua azione espressi in una breve vita continueranno a modellare, probabilmente per sempre, il futuro dell’umanità.
Alan Turing è, a ragion veduta, considerato il padre sia del computer sia dell’intelligenza artificiale. Nel 1936, infatti, risolse in maniera inattesa l’Entscheidungsproblem, ovvero il «problema della decidibilità» sollevato nel 1928 dal grande matematico tedesco David Hilbert e «inventa» una macchina universale capace di manipolare simboli e quindi di calcolare con grande rigore e precisione. Una simile macchina – che sarà chiamata «macchina universale di Turing» – esiste solo nella mente del ventiquattrenne londinese. Ma entro nove anni, nel 1945, assumerà una consistenza reale e diventerà una macchina elettronica, grazie all’opera di un altro grande logico, John von Neumann. È nato il computer.
A guerra finita, l’ancora giovane Turing inizia a immaginare non solo una macchina calcolante, ma anche pensante. Le sue idee sono la base si cui si fonderà la nuova scienza dell’intelligenza artificiale. I computer e le macchine intelligenti di Turing hanno rimodellato il mondo negli ultimi 60 anni. È per questo che la rivista Nature ha chiesto di celebrare il centenario di Turing battezzando il 2012 «anno dell’intelligenza». Ma è il futuro quello che ci interessa. Perché, grazie alle macchine di Turing, da qui a 30 anni vivremo in un nuovo universo cognitivo. Anche se, probabilmente, dovremo ringraziare Turing non per i motivi immaginati da Hans Moravec. Che i computer supereranno prima o poi le capacità computazionali del cervello umano è scontato. Mentre non è affatto scontato che queste macchine sempre più perfette diventeranno, per questo, più intelligenti dell’uomo. L’intelligenza computazionale è, infatti, solo una componente dell’intelligenza umana. Nulla vieta, tuttavia, che un giorno le macchine di Turing, magari dotato di un corpo sensibile, possano acquisire capacità che definiamo intelligenti in modo superiore a quella dell’uomo. Ma certo non basterà che superino per potenza computazionale il cervello umano.
SCOLARIZZAZIONE ELEVATA
E allora perché diciamo che, da qui a 30 anni, vivremo in un diverso universo cognitivo? Beh, il motivo è molto semplice: lungi dall’essere separati, uomini e computer sono sempre più integrati. È da questo punto di vista che nel 2040 vivremo in una situazione originale. Recenti studi sull’attuale situazione relativa all’educazione terziaria mostrano che ci sono Paesi – come il Giappone, il Canada, la Russia – dove oltre il 55% dei giovani in età compresa tra i 25 e i 34 anni sono laureati. In Corea la percentuale sale addirittura al 63%. Fra trent’anni, questi giovani saranno adulti. Ed è probabile che tra i futuri giovani il tasso di laureati sarà ancora maggiore. Dunque, fra 30 anni, molti Paesi saranno in una situazione sconosciuta nella storia: la maggior parte della popolazione in età da lavoro sarà composta da persone con 20 anni di studi alle spalle. E queste persone avranno a disposizione reti di computer sempre più potenti. È questa ibridazione spinta di computer potenti e persone qualificate che creerà un nuovo universo cognitivo. Un «universo di Turing». Nell’attesa, i problemi aperti sono almeno due: quale sarà il destino di quei Paesi che, come l’Italia, rischiano di non entrare nel nuovo universo cognitivo ( i nostri laureati non arrivano al 20%)? L’«intelligenza ibrida» sarà un fattore di inclusione o di esclusione sociale? Saranno temi decisivi, nei prossimi decenni. Nel centenario della nascita di Alan Turing è il caso di iniziare a pensarci.

Repubblica 7.5.12
Desideri
Dagli Usa l’ultima frontiera della psicologia. Un consulente ci aiuta a realizzare i sogni
Ecco il "wantologo" l’esperto per scoprire cosa vogliamo davvero
di Angelo Aquaro


I sociologi però avvertono: "Così trionfa il mercato. Ed escono sconfitte le relazioni umane"
Una seduta di poco più di un´ora può costare tra gli ottanta e i duecento dollari
Dopo il life couch è il nuovo esempio di professionista della mente che "lavora per noi"

NEW YORK Vi siete mai chiesti che cosa volete davvero dalla vita? Tranquilli: da oggi c´è qualcuno che può farlo per voi. No, non state lì a farvi mordere dalla coscienza. E non perdete più tempo a interrogarvi nel profondo dell´anima. L´ultima promessa della psicologia si chiama wantology. Proprio così: dal verbo want, volere. Il wantologo sarebbe, anzi è, lo specialista che ci aiuta a trovare quello che davvero cerchiamo: a partire da noi stessi.
Non è uno scherzo. Il wantologo è quel professionista che ci aiuta a capire che dietro la voglia, per esempio, di cambiare casa, non si nasconde spesso una vera necessità, e che faremmo meglio a mettere da parte tutti quei soldini perché, in realtà, quello che cerchiamo magari è soltanto un posto dove trovare pace con noi stessi, e quello che "davvero vogliamo" ha poco a che vedere con quello che crediamo di volere. E la stessa cosa ci può succedere nel lavoro: vogliamo davvero cambiare impiego o stiamo scontando la delusione per quella mancata promozione? E tantopiù nelle relazioni sociali o familiari: vogliamo davvero rischiare di mettere a repentaglio il nostro matrimonio per quella bionda o stiamo accuratamente evitando di confrontarci con vostra moglie da quando, quella volta...
Domanda: ma davvero c´è bisogno di uno specialista per tutto questo? Non basterebbe trovare il tempo di guardarci dentro noi stessi? O quantomeno rivolgerci al vecchio, caro psicologo? Risposta: è il mercato, bellezza. Prendete la dottoressa Katherine Ziegler, psicologa in quel di San Josè, laurea all´università dell´Illinois e licenza Psy11596 regolarmente rilasciata dallo stato della California, psicoterapeuta e coach, cioè istruttore, e in questo caso della mente, «certificato». Katherine promette venti minuti di consulto gratuito: anche al telefono. Poi, naturalmente, la terapia si paga cara: fino a 200 dollari all´ora. Ma sapere che cosa vogliamo davvero nella vita, si sa, non ha prezzo. O quasi. Esther James, psicologa in quel di Denver, laurea alla New York University e licenza numero 5241 rilasciata dallo stato del Colorado, promette invece di sciogliere le nostre voglie in sessioni da cinquanta-settanta minuti ciascuna, al modico prezzo - rispetto alla costosissima California - di 80-110 dollari a seduta. Ma che cosa ci faranno mai Katherine, James e le altre wantologhe che come funghi stanno spuntando nel bosco sempre più fitto della psicologia?
La wantologia è l´esempio più lampante di quel fenomeno che Arlie Russell Hochschild, premiatissima sociologa di Berkeley, ha definito la vita in outsorcing. L´outsorcing, come si sa, è la tendenza sviluppata nelle economie globalizzate a dare per così dire in appalto all´esterno alcune funzioni tipiche dei processi industriali. «The outsourced self», il senso di sé dato in appalto, è adesso il titolo del nuovo libro della sociologa, anticipato dal New York Times, ed esplicitamente sottotitolato «la vita intima ai tempi del mercato». La tesi della stimatissima prof è presto detta. Viviamo in tempi in cui si compra di tutto perché tutto è in vendita. «E ci sono necessità che non riescono più a trovare risposte in un´altra forma» spiega la stessa sociologa al Fiscal Times. «Pochi di noi hanno ormai una famiglia vicina su cui contare. Il tasso di mobilità è sempre più elevato. Non possiamo più rivolgerci alla vecchia cara comunità di un tempo. E così il mercato ha incarnato lo spirito del tempo: favorendo un fiorire di servizi di questo tipo».
Il wantologo è l´ultimo esempio di quella sfilza di professionisti che insomma pensano o agiscono per noi. Bastano i numeri. Negli anni 40 gli Usa contavano 2500 psicologi. Oggi ce ne sono 77mila: oltre a 50mila terapisti di coppia e famiglia. Negli anni 40 - scrive sempre Russell Hochschild - non esistevano i life coaches, cioè gli assistenti personali: oggi ce ne sono almeno 30mila. E fioriscono insieme ai pianificatori matrimoniali, ai preparatori di fidanzamento - e agli specialisti incaricati perfino di prendersi cura della tomba del caro estinto. «Abbiamo messo in moto un meccanismo che si perpetua da solo» scrive la sociologa. «Più siamo ansiosi, isolati, meno tempo abbiamo a disposizione, più tendiamo a rivolgerci a servizi personalizzati a pagamento». Un circolo più che vizioso: infatti è anche costoso. Perché «per finanziare questi servizi extra, lavoriamo ancora di più. E questo ci lascia meno tempo da spendere in famiglia, tra gli amici e i vicini: ricorrendo sempre meno a loro per un aiuto». Risultato: «Più ci rivolgiamo al mercato, più legati siamo alle sue promesse».
Ben venga, dunque, nel fiorire di tutti questi specialisti, anche il wantologo: ma prima di chiamarlo, forse è meglio chiedersi se lo vogliamo davvero.