giovedì 10 maggio 2012

l’Unità 10.5.12
Il Pd si mobilita: «Serve la conferma al secondo turno»
Bersani riunisce i segretari regionali: «La partita non è finita, attenti alle insidie»
Sui 5 stelle: «Sono un vero partito, non si fermano alla protesta, chiedono anche risposte»
di Maria Zegarelli


«La partita non è finita, abbiamo bisogno di una conferma forte. Siamo in buona posizione ma ci sono insidie». E non sono poche, come Parma o Palermo. «Per questo dobbiamo far tornare la nostra gente a votare». Pier Luigi Bersani incontra i segretari regionali del suo partito al Nazareno, insieme al responsabile Enti locali Davide Zoggia e al tesoriere del partito, Antonio Misiani, per un’analisi del voto e per discutere del dimezzamento dei rimborsi ai partiti. La parola d’ordine è «ventre a terra», il monito a Palermo è sì di sostenere senza dubbi il candidato del partito, Fabrizio Ferrandelli, ma soprattutto di mantenere i nervi saldi in campagna elettorale, «che deve svolgersi in un clima civile» perché «c’è l’oggi e c’è il domani» e il domani è fatto di un centrosinistra unito se si vogliono vincere le politiche del 2013. Antonio Di Pietro manda segnali di pace, proprio in vista dei ballottaggi, e invita a lavorare «uniti», ma è chiaro che a Palermo è tutta un’altra storia.
Si è parlato anche di Catanzaro, dove la magistratura ha aperto un’inchiesta per voto di scambio e in tre seggi sono state registrate anomalie che rendono ancora sospeso il risultato finale. Il commissario Pd Alfredo D’Attorre ieri ha chiesto che nelle tre sezioni oggetto di anomalie si torni al voto perché lo scarto tra il candidato di centrodestra e quello del centrosinistra Salvatore Scalzo è di una manciata di voti e il ballottaggio non è affatto escluso.
L’ANALISI DEL VOTO
Ma quello che più da fastidio ai dirigenti del Nazareno è come «molti commentatori» stanno raccontando queste elezioni amministrative, «mettendo in relazione tra loro dati disomogenei» e cercando di sostenere che è andata di brutto a tutti, chi più chi meno, a parte il successo del Movimento a 5 Stelle che ancora sta festeggiando.
A dirlo chiaro e tondo è Maurizio Migliavacca, coordinatore della segreteria: «Il Pd esce vincitore da questa prima tornata amministrativa anche se si sta cercando di raccontare al paese una realtà diversa. Le macerie riguardano chi ha male amministrato in questi anni e ci ha condotto sull’orlo del baratro». Zoggia invita a guardare i dati delle amministrative del 2007:«Non è pensabile, come sta avvenendo in queste ore, fare strampalate associazioni tra i dati delle amministrative e quelli delle regionali o delle politiche. Mai come in questa tornata elettorale per l'elezione dei sindaci si è in presenza di un numero così elevato di liste civiche non immediatamente riconducibili ai simboli di partito ma legati ad essi o ai sindaci stessi. Si tratta di numeri che modificano profondamente gli scenari che qualche abile mano si sta divertendo a disegnare. Scenari mediatici ma di forte valenza politica».
«Quello che emerge da queste elezioni è in primo luogo insiste Bersani ribadendo con i segretari regionali quanto già detto durante il coordinamento convocato martedì sera il crollo del centrodestra e della Lega, uno smottamento di proporzioni inedite». Eppure malgrado quello smottamento «non c’è stato un flusso verso posizioni moderate e illuministe», il voto si è disperso, concentrato
 sulle liste dei grillini, o è andato ad ingrossare le fila dell’astensionismo. Bersani non sottovaluta il Movimento 5 stelle, che definisce un vero e proprio partito cresciuto non soltanto sulla protesta ma anche sulla domanda di una politica in grado di rinnovarsi, riformarsi e ridurre i costi. Quindi meglio ascoltare con attenzione i motivi che spingono un numero sempre maggiore di cittadini a dare il loro voto al partito del comico genovese e attrezzarsi a dare quelle risposte e migliorare la propria proposta politica.
IL RAPPORTO CON IL GOVERNO
Una partita che si gioca su due fronti: a livello locale, per il rush finale di questa tornata amministrativa, e con il governo Monti che va «stimolato» rispetto ad alcune decisioni, a cominciare dai pagamenti della pubblica amministrazione, una situazione che «si è incagliata» in un momento in cui il Paese non può permettersi ulteriori ritardi. E se c’è chi inizia ad essere sedotto dall’idea di un voto anticipato sia nel centrodestra come anche nel centrosinistra, il segretario torna a ribadire lealtà al governo, ma annuncia un’azione di pressing affinché si avviino politiche più attente al sociale e al lavoro sia in chiave europea sia interna. Su un altro fronte caldo, l’Imu, il Pd tornerà a ribadire la necessità di alleggerirla affiancando un’imposta sui grandi patrimoni.
Intanto Stefano Fassina, responsabile lavoro, apprezza la proposta di Monti «di escludere gli investimenti dal fiscal compact. La proposta va applicata da subito per allentare, già nella seconda metà del 2012, la morsa dell'austerità autodistruttiva dovuta agli obiettivi di bilancio pubblico irresponsabilmente fissati per l'Italia dal Governo Berlusconi e dall' ex Ministro Tremonti».

Repubblica 10.5.12
L’intervista a Bersani
"Il centrosinistra non basta ma il premier stavolta tocca al Pd rappresentiamo anche i moderati"
Casini scelga tra noi e il polo regressivo
di Goffredo De Marchis


Non puntiamo mica a rifare l´Unione. Ci rivolgiamo a intellettuali, autorità morali, società civile
Il centrodestra non sarà Montezemolo o Passera ma un misto di Le Pen, Sarkozy e Lega

ROMA - «Il candidato premier tocca a noi. Il Pd vuole allargarsi e aprirsi, il centrosinistra non è sufficiente per governare. Noi puntiamo a un patto di legislatura più ampio. Ma la guida la proporrà il Partito democratico». Preoccupato per la situazione italiana, triste per la morte di Cevenini. Ma Pier Luigi Bersani, dopo il voto amministrativo, vede il traguardo. Con tutta la consapevolezza di un sistema quasi al collasso.
C´è veramente da festeggiare se il Pd tiene ma non cresce?
«Non mi riconosco nelle analisi che leggo e sento in questi giorni. Quando si parla di amministrative si contano quanti comuni uno vince e quanti ne perde e i raffronti si fanno con le precedenti comunali. Il Pd ottiene una vittoria nettissima al primo turno e si presenta in vantaggio per il secondo».
Con molti candidati che non vengono dal Pd.
«Nella stragrandissima maggioranza sono espressione del Pd. Laddove non lo sono per noi è un onore sostenerli. Vogliamo essere l´infrastruttura del centrosinistra, abbiamo inventato le primarie per metterci al servizio della coalizione. A Milano ha vinto Pisapia e il Pd ha ottenuto il record storico di voti. Si vede che la gente ci capisce meglio di alcuni analisti».
Insomma, avete vinto.
«Ma non lo dico per orgoglio di partito. Lo dico perché sono preoccupato. Temo che qualcuno coltivi l´illusione schumpeteriana di una distruzione creativa del sistema politico. Sfasciamo anche l´unico che è rimasto in piedi perché arriverà qualcosa di buono. Significa fare gli apprendisti stregoni su un problema che può franare addosso a tutti».
Bisogna farsi carico anche del crollo del centrodestra?
«Dobbiamo guardare chi incrocia l´effetto dello tsunami che ha colpito Pdl e Lega. Lo fa il Terzo polo? No. Lo fa il centrosinistra? No. Questo conferma due cose. Il transito da un campo all´altro in Italia è molto limitato. E pensare che la crisi del centrodestra possa portare acqua a posizioni centrali o tecnocratiche è un´illusione assoluta. A destra c´è un vuoto, ma l´elettorato non è scomparso. È in cerca di autore e la risposta che cerca non sarà un pranzo di gala, non avrà l´abito della festa».
Cioè non sarà un professore o Passera o Montezemolo?
«Sarà l´incarnazione di una proposta che mi auguro minoritaria ma somiglierà a quelle forze che in Europa interpretano tendenze regressive e populiste. No Unione, no tasse, no immigrati. Un misto di Le Pen, Sarkozy e Lega nostrana».
Perché non ci prova il Pd a occupare il vuoto moderato?
«Ci proviamo. Il centrosinistra per la prima volta può sfondare il muro di gomma tra guelfi e ghibellini che è radicato nella storia d´Italia. È una responsabilità nuova e il Partito democratico non basta. Vogliamo essere più aperti nei programmi e nelle proposte. Ci rivolgiamo a intellettuali, autorità morali, rappresentanti della vita economica per dire diamoci la mano. Penso a un rassemblement democratico contro il ripiegamento difensivo della destra».
Metterete in lista gli esterni?
«Assolutamente sì, saranno liste aperte. Ma non guardo solo a intese elettorali, non puntiamo mica a rifare l´Unione. Penso a una società civile che vuole far parte di questa scommessa. Il Pd si mette a disposizione».
Uno spazio che rischia di essere già occupato da Grillo.
«Il suo è un voto gonfiato dalla protesta ma non c´è solo protesta in quel partito. C´è anche una domanda di stili nuovi di partecipazione, di sobrietà della politica, di cura dei problemi del territorio. Alle provocazione di Grillo rispondo con durezza. Ma il mio atteggiamento verso il movimento 5 stelle è di attenzione. Non abbiamo guerra da fare con loro. Ci sono domande che lì non possono trovare risposta di governo».
A Monti ha detto che non si vede niente di positivo da mesi. È una minaccia?
«Abbiamo scarpinato per l´Italia e c´è una situazione acutissima di sofferenza. Al governo ribadisco lealtà, ho una sola parola. Ma dico: attenzione. Il voto dimostra che nel Paese ci siamo dappertutto. Allora ascoltateci».
Cosa avete da dire?
«Con la vittoria di Hollande Monti ha ora lo spazio e l´autorevolezza per aprire nuovi tavoli di confronto in Europa. Ma i tempi della crescita non sono compatibili con la situazione italiana. Monti deve insistere sulla mini golden rule per sbloccare investimenti. E occorre affrontare subito il tema dei pagamenti alle imprese per far arrivare un bel po´ di miliardi di liquidità nel giro di poche settimane. Infine va risolta l´ingiustizia intollerabile degli esodati».
Monti però ha appena confermato la linea del rigore.
«Mica diciamo di far saltare i conti. Se c´è da trovare qualche soldo, troviamolo».
Si può pensare a un rinvio del pareggio di bilancio?
«Se ci danno la golden rule, probabilmente non ce ne sarà bisogno. Ma vedo che la Spagna si prepara a ricontrattare quell´obiettivo. Facciamolo anche noi se serve».
Il voto anticipato non vi tenta?
«Anche per strada qualcuno mi chiede: perché non vuoi andare a votare ad ottobre? Rispondo così: siamo ancora in una situazione delicatissima, abbiamo la possibilità di giocarci una partita in Europa e di correggere un po´ le nostre politiche interne per metterci in una zona di ulteriore sicurezza».
Tanto ci penserà il Pdl a staccare la spina.
«Non entro nel campo avverso. Ma non possono scaricare sull´Italia i loro problemi. E non possono pensare di andare avanti tendendo imboscate al governo».
Casini vi avverte: non verremo mai con la foto di Vasto. Con chi lo fate lo schieramento più largo?
«Non inseguo le dichiarazioni quotidiane. Mi affido ai processi di fondo. Quando la dialettica sarà tra un polo democratico e uno che dà risposte regressive ognuno si assumerà le sue responsabilità. Il Pd vuole allargare ma sa di dover essere il baricentro di una proposta alternativa. Anche rinunciando a qualcosa di suo».
Lasciando la candidatura alla premiership a un moderato?
«No. Il dato che si ricava da queste elezioni è che tocca al Pd. Saremo noi a proporre un nome. Non per metterci al comando ma per rendere un servizio e guidare questa fase. Il guidatore lo dobbiamo scegliere noi».
A Palermo il centrosinistra rischia di frantumarsi a meno che voi non scegliate Orlando
«Il candidato è Ferrandelli. Se decidi di fare le primarie le rispetti. Ma aggiungo che si è esaurita la fase politica di Lombardo in regione. Il gruppo dirigente siciliano del Pd deve lavorare per avere al più presto le elezioni».
Il punto dirimente alla fine è sempre quello dell´affidabilità di un centrosinistra con Sel e Idv. È in grado di governare?
«Il voto locale ci dice che non c´è un centrosinistra autosufficiente. La solidità e la credibilità di governo nascono da un centrosinistra affidabile e da un patto di legislatura più ampio. Teniamo fermo questo punto e ci si convincerà che non esiste una strada diversa, non ci sono altre risposte».

La Stampa 10.5.12
Continuare con Monti? Il Pd resiste ma avvia la navigazione a vista
L’ipotesi di una legge proporzionale tedesca ormai tramontata
-91 mila voti democratici. Il Pd, pur tenendo meglio di Pdl e Lega, ha comunque perso il 33% rispetto al 2010"
Forte pressing da sinistra, Bersani resiste
Bindi riconosce: fase confusa, senza risposte certe
di Federico Geremicca


Il pressing cresce d’intensità, ed è ormai fatto di appelli e bordate quotidiane. Effetto del risultato elettorale, certo, ma anche della convinzione che troppe cose si sono messe in movimento perché si possa lasciare trascorrere altro tempo. Dice Di Pietro: «Ne ho parlato anche con Vendola: dobbiamo invitare il Pd a uscire allo scoperto e costruire un’alleanza di centrosinistra. Il centro cui guardano i democratici non esiste... ». E Vendola: «Ogni giorno che passa si acuisce la distanza tra società e politica... In queste elezioni il sostegno a Monti è stato piombo nelle ali per il centrosinistra. Se vogliamo costruire l’alternativa non si può tenere in vita questo governo, che su troppe cose è in continuità con Berlusconi».
Vendola e Di Pietro, insomma, continuano a strattonare il Pd; ma il Pd non cambia di una virgola la propria posizione: restiamo fedeli a Monti - ha ripetuto Bersani subito dopo il voto - ma il premier deve ascoltarci di più. Potrebbe perfino trattarsi di una normale dialettica politica, se non fosse che Di Pietro, Vendola e Bersani - divisi dal giudizio e nel sostegno a Monti - di qui a un anno dovrebbero presentarsi uniti alle elezioni. E allora l’interrogativo è: come sperano di render credibile il loro patto elettorale, dopo aver trascorso diciotto mesi a polemizzare ed esprimere giudizi totalmente diversi su questioni strategiche e programmatiche di grandissimo rilievo?
La domanda non è oziosa, e riceve risposte diverse. Per Vendola e Di Pietro la soluzione è semplice: si stacchi la spina a Monti, si accorcino i tempi e si vada al voto subito, così da evitare anche l’ingigantirsi delle contraddizioni. Per Bersani, invece, questa via non è percorribile: intanto, perché ne andrebbe di mezzo il Paese, ancora nel buco nero di un’emergenza economica che sembra non finire mai; e poi perché far cadere Monti significherebbe perdere un alleato a cui il Pd non intende rinunciare: Pier Ferdinando Casini. Non a caso, ancora ieri in un’intervista a «Il Messaggero», D’Alema spiegava: «Non c’è una dimensione possibile di governo del Paese se non intorno ad un’alleanza tra il centrosinistra imperniato sul Pd e le forze centriste più responsabili».
La situazione, dunque, appare del tutto bloccata. Vendola annuncia una tregua, una moratoria, fino al voto per i ballottaggi: ma dopo porrà la questione con ancor più forza. Il Pd, non diversamente, attende il secondo turno del 20 maggio, magari per poter far pesare una vittoria elettorale che a quel punto almeno per quel che riguarda il numero di sindaci eletti - non dovrebbe più essere in discussione. Ma poi? Girata la boa delle amministrative, c’è davvero una soluzione possibile?
Col pragmatismo che spesso la contraddistingue, Rosi Bindi, presidente dell’Assemblea nazionale Pd, dice: «La fase è quella che è, tesa, difficile, perfino confusa. Non c’è una risposta per tutti gli interrogativi, e credo dovremo abituarci a fare i conti con una navigazione che spesso sarà a vista». La Bindi non nasconde che una ipotesi di «soluzione tecnica» al problema c’era: ed era una nuova legge elettorale proporzionale (alla tedesca, come si dice) che non vincolasse i partiti ad alleanze forzose prima del voto. Ma i risultati delle amministrative - con l’esplosione del movimento Cinque stelle ed una grande frantumazione del voto - e l’esito delle elezioni in Grecia hanno - di fatto - tolto quell’ipotesi dal campo.
E così, il problema torna ad essere irrimediabilmente politico: ma soluzioni a questo livello, al momento, non paiono essercene. Due elementi, però, rendono meno insidiosa una questione che potrebbe diventare assai spinosa per il centrosinistra. La prima è evidente, e riguarda l’assetto delle forze dall’altra parte del campo: anche nel centrodestra, infatti, gli alleati di un tempo (Pdl e Lega) sono divisi ed hanno posizioni del tutto differenti rispetto al governo Monti. Anzi: sono così divisi da essersi presentati quasi ovunque separati alle ultime amministrative, con risultati catastrofici sia per la Lega che per il partito di Berlusconi.
L’altro elemento, forse meno visibile, sta nel fatto che nessuno sa davvero quando si voterà, con quale legge ed in presenza di quale scenario politico. Il voto di domenica e lunedì scorsi, infatti, ha letteralmente terremotato il sistema, cancellando partiti o ipotesi di partiti (il Terzo polo) e riducendo il centrodestra (Pdl e Lega) in condizioni che renderanno inevitabili novità e assetti diversi, con la nascita di nuovi soggetti politici o una radicale trasformazione di quelli in campo. Tutto ciò, probabilmente, darà più tempo al centrosinistra per risolvere i propri problemi politici e strategici. Ma anche questo tempo - e lo stato maggiore del Pd lo sa non durerà certo all’infinito...

Corriere 10.5.12
«Il voto dice che è l'ora del riformismo Così potremo battere le spinte populiste»
Veltroni: viviamo due cifre capovolte, il '29 della crisi economica e il '92 di quella politica
Intervista a Veltroni di Aldo Cazzullo


E ora, Veltroni? Cosa resta del quadro politico italiano?
«Resta il riformismo di cui il Pd, come dimostra il voto, è il perno insostituibile. Questo voto consegna all'Italia un'alternativa secca: o un'altra stagione di incertezza, instabilità, populismo di vecchio e nuovo stampo; oppure provare l'unica cura che il Paese non ha mai provato, il riformismo. È il solo modo per fronteggiare una situazione storicamente inedita. Io non so se si ha la consapevolezza di vivere in un momento del tutto particolare, forse unico nel dopoguerra. Diceva Burckhardt: "Noi vorremmo conoscere l'onda sulla quale vaghiamo nell'oceano, ma noi siamo quest'onda". Parlando con Bersani ho usato un'espressione che mi fa piacere lui abbia ripreso: viviamo insieme il '29 e il '92, due cifre capovolte, un mix pericolosissimo di recessione economica e crisi politico-istituzionale. Con il voto l'Italia ha gridato un bisogno di cambiamento. O lo raccogliamo, trovando una soluzione razionale coraggiosamente innovativa, oppure il nostro Paese è esposto a rischi molto seri e molto drammatici».
Quali rischi?
«Pensiamo al contesto europeo. Da una parte, il messaggio di speranza che viene dalla Bastiglia; anche se al primo turno la destra francese ha preso più voti della sinistra e si è confermata la giustezza del sistema a doppio turno. Dall'altro, il voto greco, con il successo dei neonazisti. La Grecia è un Paese a rischio, non solo finanziario. È stata la culla della democrazia. Non vorrei fosse il Paese in cui il contrasto tra le esigenze di una società veloce, globalizzata, frammentata e i tempi e le modalità della democrazia come l'abbiamo conosciuta finora produca una qualche forma di autoritarismo».
Teme per la democrazia?
«C'è il rischio che sulla crisi e sulla disperazione si innesti nel continente un'involuzione antieuropea. Nello stesso tempo, in Italia si può aprire un'opportunità gigantesca. La destra è esplosa e non tornerà più com'era prima. Ma in politica i vuoti si riempiono. Chi pensasse, come si pensò nel '93, che si va alle elezioni con la situazione di oggi, si sbaglia. Si manifesteranno pulsioni antieuropee, estremiste: non a caso La Russa si è subito congratulato con Marine Le Pen. Esiste poi un elettorato moderato che troverà una sua forma politica».
Con i moderati voi non dovevate allearvi?
«La discussione tattica sulle alleanze nasce dalla convinzione che il sistema sia immobile e si possano spostare solo gli stati maggiori. Il voto ha dimostrato che non è così. Sono sempre stato convinto che una proposta innovativa possa innescare una grande mobilità elettorale. Casini ha tutt'altro disegno strategico rispetto al nostro. Noi dobbiamo puntare su noi stessi, avere fiducia nella possibilità che il riformismo risponda sia alla domanda di radicale rinnovamento che si esprime con il voto al Movimento 5 stelle, sia alla domanda di innovazione di un elettorato che aveva creduto a Berlusconi o al centro. La grande vittoria della sinistra estrema, che il malessere sociale poteva produrre, non c'è stata. Se il Pd sa essere nel contempo più radicale e più riformista, può rivelarsi, certo non da solo, la soluzione del problema italiano».
Intanto il Pd perde voti e Grillo ne guadagna. Cosa pensa di lui?
«Grillo sugli immigrati e sulla mafia ha detto cose inaccettabili. Ma preferisco parlare dei suoi elettori. Vogliono una politica diversa e hanno trovato questo modo per dirlo. È successo altre volte, si pensi ai grandi successi dei radicali. La politica può fare due cose. Può scrollare le spalle, può demonizzare. Oppure può dare il segno di aver capito la lezione. Ritirarsi dal potere indebitamente occupato, dai consigli di amministrazione. Ridurre il numero dei parlamentari, dimezzare il finanziamento pubblico dei partiti, rivedere le spese della pubblica amministrazione. Spero che il mio partito porti in Parlamento il suo pacchetto complessivo di riforme della politica. Occorre una politica più lieve nella gestione del potere e più ferma negli aspetti di regolazione; come nei Paesi anglosassoni, gli unici — e non è un caso — in cui non c'è mai stata una dittatura. Se si vuole evitare il riflesso autoritario bisogna che la politica riapra i polmoni, sia capace di rappresentare una dimensione di progetto dentro un tempo storico del tutto inedito, segnato dalla bulimia comunicativa».
Cosa pensa dei social network? Come cambiano la politica?
«Opporsi al nuovo è un atteggiamento romantico che può diventare stoltamente antimoderno. I social network sono una grande risorsa democratica. Ma è sbagliato pure non capire le contraddizioni che il nuovo propone. Mi preoccupa la radicalizzazione estrema delle posizioni: l'invettiva, le grida, la rimozione della complessità. Ma questo non è tempo di urla e grida; se c'è stato un tempo complesso nella storia è questo, e come ha notato Michele Serra non sempre tutto è riducibile nei 140 caratteri di un tweet».
Ma ora gli elettori hanno la possibilità di esprimersi non solo con il voto.
«È vero. Se un cittadino voleva criticare Moro o Berlinguer doveva scrivere una lettera, che dopo 10 giorni sarebbe arrivata sul tavolo di una segretaria, che la smistava al funzionario di turno. A Moro e a Berlinguer la critica non sarebbe mai arrivata. Ora sul telefonino arriva in tempo reale. È una bellezza per il riavvicinamento del rapporto. Ma dipende anche dal grado di autonomia del leader: la persona che ti scrive non è il mondo. Ci sono poi momenti della storia in cui l'uomo politico ha il dovere della solitudine. Dagli ultimi discorsi di Moro traspare una solitudine che pagò con la vita. Ma anche Berlinguer ha vissuto momenti di immensa solitudine, quando da sinistra gli arrivavano bordate terribili: revisionista, traditore. Un grande uomo politico, se ha il senso e la visione dello Stato, coltiva il prezzo della solitudine e sa dire dei no. L'opposto di Berlusconi, che a forza di inseguire i sondaggi ha disfatto il Paese».
Nel pacchetto di riforme che lei propone c'è anche il dimezzamento dei vostri stipendi?
«Il problema vero è l'efficienza. La gente è stanca di pagare un sistema che non genera decisioni. I parlamentari precedenti guadagnavano anche più di quelli di oggi, ma davano l'impressione che il meccanismo decisionale funzionasse meglio, e quindi valesse il costo. Le retribuzioni vanno ridotte ulteriormente e senza esitazione portate ai livelli europei, ma la riforma dev'essere complessiva. Il centrosinistra si intesti questa battaglia».
Che impressione le fanno i suicidi?
«Il piccolo imprenditore che si suicida e l'operaio che si toglie la vita sono fratelli. Finché non si capirà la comunanza di destino tra il sistema imprenditoriale italiano e il lavoro, l'Italia non ce la farà. Occorre un salto culturale, un grande patto tra i produttori, non la riapertura di un conflitto tra il piccolo imprenditore e i suoi operai, che sono la sua famiglia. E non si parla abbastanza dell'esistenza in Italia di 650.000 bambini in povertà assoluta. Senza solidarietà, crescita ed equità il Paese si sfascia. Mettiamo al centro del nostro vocabolario due parole-chiave: legalità e comunità».

Repubblica 10.5.12
L'elettorato riformista e i sacrifici del Pd
di Miguel Gotor


Il Partito democratico ha buone ragioni per ritenersi soddisfatto dei risultati di questa prima tornata delle amministrative. E la questione non riguarda tanto il successo elettorale che apparirà più chiaramente tra due settimane, quando la logica dei ballottaggi premierà in prevalenza i suoi candidati o quelli della coalizione di centrosinistra di cui fa parte. In realtà, i motivi di ragionevole ottimismo sono diversi e più profondi in quanto concernono il posizionamento del Pd nel sistema attuale e la solidità, forse sottovalutata, della sua azione politica.
Anzitutto, il risultato rivela che non solo i militanti, ma anche gli elettori hanno compreso il sostegno dato al governo Monti. Non era un passaggio facile né scontato e in questi mesi i dirigenti intermedi e locali, quelli che, al di fuori dei circuiti mediatici, costituiscono il corpo effettivo di un partito, si sono spesi in un lavoro continuo e oscuro per spiegare le ragioni di quella scelta. Come sempre, la realtà si è rivelata più complicata delle prove in laboratorio che avrebbero voluto trasformare l´esperienza del governo Monti in un eden tecnocratico e post-politico nel quale tutti si sarebbero dovuti riconoscere. In particolare sulla questione della riforma del mercato del lavoro, il Pd è riuscito a valorizzare il significato della sua posizione di responsabile sostegno a Monti, senza il quale l´Italia, parcheggiata in panne da Berlusconi sul ciglio del burrone, sarebbe precipitata in una crisi senza ritorno.
In secondo luogo, i risultati dei soggetti politici alla destra e alla sinistra del Pd confermano un dato troppo spesso ignorato: oggi in Italia esiste una forza popolare e nazionale che, per la prima volta nella storia del Paese, ha un elettorato riformista di massa, propriamente di centrosinistra. Prova ne sia che il Terzo polo delude e certo non sfonda, mentre alla sua sinistra, dove il Pd nelle elezioni del 2008 fece terra bruciata, esiste oggi un variegato campo di forze di carattere leaderistico (da Vendola a Di Pietro, dalle liste civiche dei sindaci a parte dell´elettorato grillino) che supera il 15% dei voti.
Ciò nonostante, il Pd continua a pescare i suoi voti e a rimescolarli, in un´area sociale e politica riformista, favorevole a una proposta di governo di segno progressista. Al di là della loro quantità, che sarebbe sbagliato disprezzare perché corrisponde a quella dei principali partiti riformisti europei, quei voti hanno una loro qualità intrinseca in quanto possono costituire il perno su cui costruire un nuovo progetto di governo fondato sull´alleanza tra riformisti, moderati e le espressioni di nuovo civismo vive nella società civile.
Se il Pd avesse ascoltato le sirene di tanti interessati osservatori, i quali gli hanno insistentemente chiesto di scegliere tra il Terzo Polo e la cosiddetta foto di Vasto, avrebbe sbagliato alla grossa regalando, in un caso oppure nell´altro, praterie elettorali al campo moderato o alla sinistra radicale. Invece, proprio nella posizione in cui sta, il Pd è disturbante, non tanto come partito, che ha i suoi evidenti problemi, peraltro comuni a tutti i grandi partiti organizzati d´occidente, ma come proposta politica nazionale e di segno socialmente interclassista. Anzi, oggi è forse l´unico soggetto che continui a fare politica, ossia a organizzare un´area più vasta del suo consenso come partito, rappresentando un centro di gravità e di attrazione. Può perdere le primarie, può diminuire i suoi voti di lista, ma sono sacrifici tattici, che avvengono dentro un disegno strategico più ampio, appunto di segno riformatore.
Certo, si dirà che Bersani fa di necessità virtù e prova in questo modo a trasformare la sua debolezza in forza, ma non è necessario rimandare ai classici manuali di tecnica politica e militare, da Machiavelli a Sun-Tzu, per sapere che proprio questa è da secoli una delle strategie di lotta più efficaci. Bersani è consapevole dei limiti della forza che rappresenta e non fa, come si dice dalle sue parti, «lo sborone», ma fa politica, che è un´altra cosa, nella saggia consapevolezza di non essere circondato da giganti del pensiero.
La terza ragione di ottimismo è quella che in realtà deve maggiormente preoccupare il Pd perché si riferisce al funzionamento del sistema nel suo insieme. La prevedibile implosione del Pdl toglie al Pd un punto di riferimento sul quale fare leva, rischia cioè di mettere in crisi la tecnica di combattimento utilizzata finora da Bersani che non può più utilizzare l´energia dell´avversario per convertirla in suo favore. Nell´anno che resta alle elezioni, si apre quindi per il Pd la sfida per definire meglio i programmi e i contenuti di una proposta di governo che deve essere il più possibile sintetica e unitaria. Quanto sta avvenendo nel Pdl, però, non deve sorprendere giacché corrisponde a una precisa strategia di Berlusconi che punta a costituire un partito roccaforte del 15-18% per ottenere una rappresentanza parlamentare di fedelissimi utile a tutelare i propri interessi economici, finanziari, giudiziari e politici che continuano a essere rilevanti.
Purtroppo, se il quadro non cambia modificando l´offerta politica in quel campo, l´unica strada da percorrere per la destra italiana sarà quella di puntare all´ingovernabilità, ossia di far abortire la prossima legislatura, trasformandola in una sorta di «caos calmo». Eppure, sullo sfondo di queste alchimie c´è l´Italia, con la crisi economica che batte e l´inadeguatezza delle sue forme politiche, un Paese che oggi si trova a un bivio. Da un lato, può imboccare una strada "franco-spagnola", con un ordinamento in grado di garantire la governabilità e l´alternanza per affrontare la crisi e, dall´altro, precipitare in una deriva "alla Greca", con l´implosione del sistema e l´avanzata dei radicalismi di destra e di sinistra. Uno scenario che in questo Paese, per ragioni storiche e culturali che riguardano la qualità di parte delle sue classi dirigenti, solletica appetiti e interessi profondi, a destra come a sinistra.
Per questi motivi, e come rivela anche l´allarmante ritorno del terrorismo a Genova, la strada davanti a Bersani è ancora dura e tutta in salita poiché coincide con le speranze e le possibilità, sempre difficili in Italia, di una proposta riformatrice in questo Paese: egli può contare su un quadro europeo mutato dopo il successo di Hollande e sulla saggezza dell´elettorato italiano, il che in una democrazia non è poco, ma potrebbe non essere abbastanza.

l’Unità 10.5.12
L’appello di Sassoli all’Ue:

una direttiva per la cittadinanza agli stranieri nati qui

Serve una direttiva europea che inviti tutti gli stati membri dell'Ue a varare una legge nazionale che accolga il principio dello ius soli, riconoscendo «la cittadinanza del Paese in cui nascono ai minori figli di genitori stranieri».
È l'appello lanciato dal capo della delegazione degli eurodeputati del Pd David Sassoli e dal presidente dell' Anci Graziano del Rio, a cui hanno aderito, fra gli altri, Romano Prodi, Rita Levi Montalcini, Andrea Camilleri e Roberto saviano. «È il tempo di farsi carico in maniera concreta delle sfide che riguardano il nostro futuro e quella sul riconoscimento della cittadinanza è una di queste», afferma Sassoli. «Si tratta di una battaglia di civiltà che va intrapresa a tutti i livelli. In Italia sono diverse le proposte di
legge che chiedono di estendere lo ius soli alle seconde generazioni di stranieri e lo stesso presidente Napolitano ha più volte rappresentato questa istanza»
La direttiva Ue chiesta dai promotori dell'iniziativa dovrebbe garantire a tutti i bambini figli di migranti «l'uguaglianza nell'accesso all'istruzione e alla salute», estendendo loro «i diritti derivanti dalla cittadinanza europea». Per portare avanti queste richieste è stata indetta una manifestazione il 31 maggio in Piazza San Silvestro a Roma per dire che «Chi nasce qui, è di qui». «Abbiamo invitato conclude Sassoli i rappresentanti delle comunità straniere, le associazioni laiche e cattoliche, rappresentanti sindacali e politici senza simboli né bandiere e i cittadini tutti».

il Fatto 10.5.12
Cittadinanza italiana

La vita degli altri
risponde Furio Colombo


Caro Furio Colombo, pochi hanno notato (ho letto la notizia su L'Unità) che la città di Nichelino (cintura industriale di Torino) la scorsa domenica 6 maggio ha dato la cittadinanza italiana a 450 bambini e giovani nati in quella città da genitori stranieri. Mi sembra importante, da celebrare, da prima pagina. Fatti come questi possono cambiare l'Italia...
Oliviero

È VERO, il fatto, benché per ora solo simbolico, porta importanti conseguenze politiche e cercherò di spiegare. 1 – Il presidente della Repubblica aveva detto: negare la cittadinanza italiana ai bambini nati in Italia da genitori immigrati è una follia. Anche riaprire la discussione sul diritto del sangue e il diritto del suolo, aggiungiamo noi, è pura follia. Il mondo in cui viviamo, per ragioni tecniche, scientifiche, psicologiche, logistiche, consente spostamenti di popoli che comunque non sono arginabili. La cittadinanza lega i nuovi nati e conviene al Paese che la rende facile e possibile, non il contrario. 2 - L'argomento secondo cui la cittadinanza immediata ai bambini incoraggia masse di donne incinte a venire in Italia per partorire, è privo di fondamento. Non è mai successo negli Stati Uniti, quando in quel Paese non si era ancora diffusa la fobia europea e non vi erano muraglie per impedire il passaggio dal Messico. Perché dovrebbe accadere adesso, nel tempo in cui gli immigrati, a differenza degli anni della immigrazione italiana, restano in stretto contatto con il loro Paese d'origine, parenti, usi, riti, abitudini? 3 - La concessione immediata della cittadinanza crea un legame benevolo di un Paese con un nuovo essere umano che comunque è nato, comunque esiste e da quel momento può essere amico o nemico. Perché non dichiararlo subito benvenuto e amico? 4 - Ma c’è una ragione in più, la vera ragione. Leggetela bene. Non è buonismo, è un fatto: aggregare gli altri è un contributo molto grande, molto forte, per uscire da questa crisi terribile, che invece sembra tutta circondata da provvedimenti crudeli ed egoistici che isolano e separano e mettono gli uni contro gli altri. Se gli ex stranieri sono parte di noi, sono noi, se aggiungono la loro forza, volontà e giovinezza (e il talento di molti di loro) al nostro sforzo, è evidente che le nostre probabilità di salvezza aumenteranno. Nessun Paese solo, isolato, con i ponti levatoi alzati e un eccesso di orgoglio privo di ragioni, ha mai avuto la meglio nella Storia.

«se qualcuno pensa che si possa costruire qualcosa di serio, ovunque, ma soprattutto qui da noi, disprezzando e opponendosi per principio a tutto ciò che dice Cristianesimo e Chiesa sbaglia di grosso» (sic !)
l’Unità 10.5.12
Provocazioni
San Paolo diventa compagno di Lenin?
di Gianni Gennari


CARO DIRETTORE, LUNEDÌ PRIMA PAGINA DEL TUO “NUOVO” GIORNALE, IN ALTO ANTONIO GRAMSCI: «INDIFFERENZA È ABULIA, È PARASSITISMO, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti». Domenica la liturgia cattolica presentava il vangelo tratto dal capitolo 15 di san Giovanni, ove Gesù dice ai suoi: «Io sono la vite, voi i tralci». Mi vengono in mente un paio di pensieri. Il primo è che il rifiuto dell’indifferenza, a parte quel verbo «odio» che non può piacere a chi pensa che il senso della vita sia l’amore la fede cristiana vi trova l’essenza di Dio stesso, rivelato in Gesù Cristo ha un preciso precedente biblico. Nel libro dell’Apocalisse, che vuol dire “svelamento” pieno della realtà, leggo queste parole sulla bocca di Dio stesso, rivolte alla “Chiesa di Laodicea”: «Conosco le tue opere, e so che non sei né caldo né freddo: perciò sto per vomitarti dalla mia bocca!» Più forte anche di Gramsci, mi pare.
Seconda provocazione. Ho sotto gli occhi uno scritto profondo sul brano del vangelo di San Giovanni della vite e dei tralci: proprio sul testo letto domenica in tutte le Chiese. Quando lo leggo e chiedo chi è l’autore la risposta più frequente è: Papa Giovanni. E invece l’Autore è Karl Marx, che lo scrisse per la sua maturità scolastica. Nessuna esagerazione, ovviamente, ma è un fatto, che tra l’altro si potrebbe collegare ad altri. Non è qui il luogo, ma approfitto per ricordare un fatto raccontatomi da mio padre, operaio falegname. Primi anni 60, ambiente di lavoro di una grande falegnameria, tra l’altro quella dove sono stati progettati e costruiti i banchi di legno per i vescovi del Concilio Vaticano II. Durante la pausa del pasto di mezzogiorno, nell’Osteria “Sora Eva”, Largo della Gancia, dove si apre il tunnel del Gianicolo, gli operai mangiano le loro povere cose, e uno di essi, Orlando, fervente attivista Pci, esclama energico: «Perché Lenin ha detto che chi non lavora non mangia!». Papà amichevolmente lo richiama: «ma sei sicuro, Orlando, che lo abbia detto per primo Lenin? Diciotto secoli prima lo ha scritto san Paolo!» Perplessità del buon Orlando, e papà tira fuori dalla tasca il libretto del Nuovo Testamento, che lo accompagnava sempre, e apre la Seconda lettera ai Tessalonicesi (2, 10): «Se qualcuno non vuole lavorare, non deve neppure mangiare!» E Orlando? Resta silenzioso un po’, poi esclama serio: «Arnaldo, va bene, ma allora me lo devi riconoscere: io qualche volta i santi li smoccolo, e impreco, ma San Paolo no, mai! Me lo sentivo che era... un compagno!».
Conclusione all’esempio dei greci antichi: «La favola insegna... ». Non è una favola, ma insegna qualcosa: se qualcuno pensa che si possa costruire qualcosa di serio, ovunque, ma soprattutto qui da noi, disprezzando e opponendosi per principio a tutto ciò che dice Cristianesimo e Chiesa sbaglia di grosso. Laicità è neutralità rispettosa di tutto, non contrapposizione di principio obbligato. Auguri per il “nuovo” giornale, antico, ma molto cambiato.

Corriere 10.5.12
I vescovi europei: la fede contro la crisi


MILANO — Di fronte al perdurare della crisi economica in Europa, all'aumento della disoccupazione, alla rinascita di fenomeni come gli estremismi nazionalistici e xenofobi, i vescovi europei richiamano a «una fede più consapevole e vissuta» e a una «maggiore presa di coscienza della dottrina sociale della Chiesa». Lo hanno fatto ieri proprio nella giornata dedicata agli ideali europei, nella quale hanno celebrato a Roma, nella basilica di Santa Maria Maggiore, una «Messa per l'Europa», con il fine di «affidare a Dio le paure e le speranze dei cittadini del continente». Durante la conferenza stampa della presidenza del Ccee (Consiglio delle Conferenze episcopali europee), il vicepresidente Angelo Bagnasco, cardinale di Genova e presidente della Cei, ha voluto ripetere «quello che il Papa ha detto in Germania parlando alla Chiesa di quel Paese: a fronte della complessità di problemi, la risposta prima, più urgente, è quella di una fede più consapevole e più vissuta. Ed è necessaria anche una presa di coscienza sempre più profonda della dottrina sociale della Chiesa, per portare dei contributi più concreti a quella che è la situazione complessa di oggi, problemi di carattere economico, finanziario, sociale, politico». E alla crisi economica saranno dedicati dalla Ccee i prossimi incontri, dal 5 all'8 giugno a Lisbona, insieme alle Chiese ortodosse, e nel prossimo settembre per l'assemblea plenaria.

Repubblica 10.5.12
Imu, più esenti i ricchi dei pensionati poveri
I dati delle Finanze: pagheranno solo 160 mila superbenestanti, il 30% non è tenuto
Esenzione nulla per i proprietari di prime abitazioni con reddito sotto i 10 mila euro
Molti di quelli che hanno più di 120 mila euro possono contare sulle basse rendite catastali
di Roberto Petrini


ROMA - L´Imu stanga, ma non tutti. O meglio, si accanisce soprattutto sulla categoria dei pensionati con redditi più bassi che, naturalmente, non possono beneficiare delle detrazioni previste per i figli a carico. Ai vertici della piramide, invece, i redditi più alti sentono meno la mano del fisco, almeno per la prima casa: oltre i 75 mila euro di reddito sono solo mezzo milione coloro che pagano l´Imu, il 72,2 per cento dei proprietari, come nella media, mentre il restante 30 per cento sfuggirà alla tassa. Ma c´è di più: buona parte dei benestanti hanno case nei centri storici e beneficiano dei vecchi accatastamenti con valori più bassi.
E´ questo il quadro che emerge, a circa un mese dal pagamento della prima rata dell´Imu (prevista per il 18 giugno), dai dati diffusi dal ministero dell´Economia dove si incrocia la tradizionale piramide dei redditi Irpef degli italiani con la griglia di chi paga l´Imu e chi no.
Il dato generale è che i contribuenti sono 41,5 milioni, di questi i proprietari di una prima casa in Italia sono 24,2 milioni, di cui 17,5 milioni, ovvero il 72,2 per cento, paga l´Imu (194 euro in media per ciascun proprietario). Ma che cosa accade all´interno della media nazionale? Nella fascia più bassa emergono le maggiori contraddizioni: gli italiani che guadagnano meno di 10 mila euro sono 14,1 milioni, solo la metà di questi possiede una casa (il 44 per cento), e di questi quasi tutti (il 94,8 per cento) cade sotto la tagliola dell´Imu. La lettura dei dati del Mef dimostra che il numero dei contribuenti che paga l´Imu si abbassa drasticamente quando si prendono in considerazione le famiglie con uno o più figli: è la dimostrazione che nella stragrande maggioranza si tratta di pensionati che non hanno avuto - come è stato richiesto da più parti durante la discussione del provvedimento - una detrazione specifica per la loro condizione.
Ai vertici della piramide la situazione è opposta. I contribuenti italiani che dichiarano oltre i 75 mila euro non sono molti, circa 790 mila: un numero assai limitato dovuto al fenomeno dell´evasione fiscale. Molti benestanti sono proprietari di casa: l´88 per cento. Quanti di loro pagano l´Imu? Il 72,2 per cento, esattamente come la media nazionale. Costoro possono infatti beneficiare delle detrazioni per figli che non sono parametrate al reddito, ma uguali per tutte le fasce sociali. Giusto o sbagliato che sia, è stridente il confronto con la categoria dei pensionati.
C´è poi un altro aspetto che emerge leggendo in controluce i dati del ministero dell´Economia. Se si prendono, ad esempio, i redditi sopra i 120 mila euro (dove coloro che pagheranno l´Imu saranno 160 mila) ci si accorge che la gran massa di questi contribuenti è concentrata su abitazioni che hanno una rendita media sotto i 500 euro e tra i 500 e i mille euro, segno che molti benestanti abitano nei centri storici e in vecchi quartieri ormai diventati di pregio, e che beneficiano dei vecchi accatastamenti meno cari.
A difesa dell´Imu è sceso ieri in Parlamento il viceministro dell´Economia Vittorio Grilli. L´Imu, ha detto, serve innanzitutto al consolidamento dei conti pubblici: cioè, ad esempio, a mettere al riparo l´Italia da altri attacchi speculativi. E poi, ha aggiunto, l´impatto sarà modesto: poco più alto di quello della vecchia Ici. Una esenzione dell´abitazione principale dall´Imu - ha spiegato Grilli rispondendo ad un "question time" alla Camera - «determinerebbe la concentrazione del prelievo sulle seconde o ulteriori case, e sugli immobili ad uso non abitativo». E non c´è nessun allarme: «Il gettito complessivo stimato derivante dall´Imu sulla prima casa - ha osservato Grilli - è di circa 3,4 miliardi, sostanzialmente equivalente a quello dell´Ici sull´abitazione principale (circa 3 miliardi)». La tassazione della prima casa, pur con le mitigazioni stabilite dalla disciplina Imu, ha proseguito Grilli, dà attuazione ad uno dei cardini del federalismo.

La Stampa 10.5.12
Elezioni. Dopo il terremoto
Tracollo Idv, mangiati da Grillo
L’Italia dei Valori sconta la concorrenza di Grillo, e perde moltissimo rispetto al 2010
A Genova e nei capoluoghi Di Pietro cede un quinto dei voti
E ora dice: “L’unica è l’alleanza di Vasto”
di Francesca Schianchi


Hanno in comune la carica protestataria e polemica. Alcune analoghe battaglie sulla legalità e la trasparenza. Per un certo periodo si sono avvalsi dello stesso guru della comunicazione, Gianroberto Casaleggio. Sono stati anche amici, il No Cav Day del 2008 a piazza Navona li aveva visti protagonisti insieme. Così affini che però ora rischiano di dover condividere pure gli stessi voti: Di Pietro e Grillo, l’Italia dei valori e la novità che ha terremotato il panorama politico, il Movimento 5 stelle.
A sentire gli analisti di flussi elettorali, i voti hanno già cominciato a spartirseli. O, per essere più precisi, i grillini hanno già cominciato a sottrarli all’Idv. All’indomani del voto, il leader Di Pietro ha annunciato soddisfatto un raddoppio e in alcuni casi addirittura il triplicarsi delle preferenze per il suo partito rispetto alle precedenti amministrative. «Ma in una fase di cambiamento così forte, il raffronto è meglio farlo con le ultime consultazioni, le Regionali del 2010: le comunali del 2007 sono un’era geologica fa», spiega Roberto Weber della Swg. Così facendo, allora, i dati elaborati dall’Istituto Cattaneo sono impietosi: nonostante il grande successo di Leoluca Orlando a Palermo, sono 55 mila i voti in meno da Nord a Sud del Paese, una perdita del 58% a livello nazionale. E, soprattutto, questo calo ha un nome e un cognome: Beppe Grillo.
«Ho davanti a me l’analisi dei flussi di tre città», legge Weber. «A Genova, Di Pietro ha ceduto un quinto dei suoi voti al Movimento cinque stelle. A Parma ha lasciato loro il 17%, a Como il 13. L’Idv è il più grosso “contribuente” del Movimento di Grillo che, se dovesse crescere ancora, porterebbe a uno svuotamento del partito di Di Pietro», prevede. Anche Nicola Piepoli, che pure ha raffrontato i dati dell’Idv con le ultime amministrative individuando una flessione solo «moderata», ritiene che «gli ha rubato voti Grillo».
«Il Movimento 5 stelle con la sua straordinaria affermazione ha drenato il nostro potenziale di espansione: non ha provocato un nostro arretramento, ma una mancata crescita», ammette il capogruppo alla Camera dell’Idv, Massimo Donadi. Di certo, come sottolinea il professor Roberto D’Alimonte, «si pensava che Di Pietro potesse intercettare voti di protesta contro il governo Monti, essendo l’unica forza di centrosinistra in Parlamento all’opposizione: non è accaduto».
«Siamo un partito giovane, con una classe dirigente che si sta costruendo, non abbiamo ancora una rete di amministratori rodati in grado di macinare consenso sul territorio», giustifica il risultato Donadi. Anche i grillini, però, sono giovani e inesperti ma hanno saputo raccogliere consensi a due cifre: «Hanno portato via voti a tutti, ma il loro vero serbatoio è stato il Pdl e la Lega», secondo il dipietrista. La linea dell’Idv, ora, è quella di richiamare ancora una volta alla foto di Vasto, alla creazione di «una coalizione di un centrosinistra riformatore», lasciando perdere Casini («alle elezioni non pervenuto») e il suo ormai defunto Terzo Polo («che è nato, sì, ma è quello di Grillo»). Obiettivo, evitare di rimanere travolti dall’urlo della piazza grillina, da una parte, e «scaricati» dal Palazzo, dall’alleato democratico, dall’altro. Al Pd l’appello è stato nuovamente lanciato, con Vendola c’è già stato un colloquio di Di Pietro. «Non aspetteremo all’infinito sospira Donadi -. Noi, comunque, ci metteremo subito al lavoro per costruire una casa comune».

La Stampa 10.5.12
Tramonta il sogno di Tonino, il partito di intellettuali e popolo
E Pardi ammette: i ragazzi di Grillo sono più frizzanti
di Jacopo Iacoboni


C’era una volta l’Italia dei valori, gramscismo alla molisana, intellettuali e popolo. I militanti 5 stelle - ma soprattutto i suoi stessi errori - la stanno dimezzando.
Appena nel 2009 l’ex pm andava a Mirafiori a fare comizi operaisti acclamati, sembrava il Franco Fortini di tempi, diciamo, un po’ poverelli; e d’altra parte riceveva l’endorsement di Claudio Magris, candidava il raffinato Giorgio Pressburger, e faceva eleggere Gianni Vattimo, secondo il quale - allora come ora - anche «nella cosiddetta antipolitica di Di Pietro che male c’era? Ci è stato detto per anni che, per combattere Berlusconi, occorreva condividerne qualcuno dei tratti, o no? ». E infatti l’ex pm incassava un enorme successo alle europee drenando moltissimi voti ex Pd. Oggi invece, a parte Orlando che fa storia a sé, l’Italia dei valori barcolla, prende il 57 per cento in meno, parziale coincidenza col successo del movimento 5 stelle. E dire che almeno in parte certe istanze potrebbero sovrapporsi.
Invece. Il partito un po’ intellettuali un po’ populo, direbbe Mourinho, scolorisce. L’ultimo cenno da Pressburger, per dire, è stata la sua partecipazione alla «Scuola europea dell’Idv», in estate a Strasburgo. Il programma, immortale, recitava: «Alle 14 lezione di Felice Belisario; a seguire, Giorgio Pressburger». Evidentemente qualcosa non ha funzionato, nell’Idv. Ma molto deve aver pesato una certa inclinazione alla candidatura discutibile, nel solco di quella leggendaria di Sergio De Gregorio nel 2008.
Racconta Pancho Pardi, un dipietrista strano, fondatore dei girotondi, uno di quelli sempre rimasti di sinistra: «L’Italia dei valori non può considerare suoi quei voti contro il sistema dei partiti. Quest’elettorato critico fluttua, alla sinistra del Pd, per forza di cose può essere tentato da offerte più o meno seduttive rispetto alle precedenti». Dice Pardi che sì, «io candidature come Mennea, o come il lombardo Carraro, che un giorno dopo era con Berlusconi, non me le dimentico. Ma la politica di oggi non ha memoria, in un elettorato giovane conta di più la capacità di mobilitazione istantanea, una certa indipendenza dai modelli precedenti: e noi rispetto a Grillo appariamo consolidati, vecchi, loro sono molto più frizzanti». Il compagno Pancho non ritiene però incomunicanti le due basi elettorali: «I 5 stelle sono un fenomeno interessante, abbiamo verso di loro un’aspettativa senza pregiudizi; però l’alternativa noi la vorremmo fare nel centrosinistra, mentre loro ripetono sempre di non esser né di destra né di sinistra... e comunque, nel mare della politica sociale siamo tutti fratelli. Se ci prendono un po’ di voti, pazienza».
Micromega di Paolo Flores nel settembre del 2009 denunciò le tante zone grigie nelle candidature dipietriste: un elemento che sicuramente ha pesato. Flores propose poi nel 2010 una specie di «partito della Costituzione» - unendo gli elettorati di Vendola, dei dipietristi, di Grillo e della sfuggente società civile - ma ecco la replica di Beppe: «Perché non lo fa lui, questo partito? Io sono un cittadino, Di Pietro in cinque anni ha fatto un partito, io ho fatto un movimento in cinque anni, che lui faccia il suo, se gli obiettivi saranno gli stessi ci scioglieremo, ma sarà una cosa naturale. Io ho paura degli intellettuali, a volte anche finti, perché arrivano sempre dopo».
Così come l’Idv bocciò in seguito la proposta, sempre di Flores e Andrea Camilleri, di una lista Di Pietro-società civile alle europee. In quel momento, Tonino vinceva. Ora arretra, eprova lui a imitare il format della ripetizione del comico del boom: «L’Idv con Grillo? È come se mi chiedessero se voglio sposare la Schiffer. Chiediamo prima alla Schiffer se vuole sposarsi con me».

il Fatto 10.5.12

Marco Pannella
“Finalmente Beppe, ti aspetto da sempre”
di Caterina Perniconi


Annamo un po’ a vede’ chi è questo qua”. Beppegrillo, tutto attaccato come ama Marco Pannella, è un fenomeno che lo attrae da sempre. “Era al Palasport di Roma e ci andai. Una furia. Un bestione. Mi accolse nel camerino, non l’avevo mai visto prima e sembrava che ci conoscessimo da sempre”. L’ha incontrato solo un’altra volta, a Bologna: “Nun fa’ stronzate gli dissi. Faceva errori grossolani con i referendum, sbagliava le date, quello è mestiere nostro”.
Quanta paura ha di Beppe Grillo?
Paura? Semmai il contrario. C’è un libro del 2007, si chiama proprio Chi ha paura di Beppe Grillo? di cui ho scritto la postfazione. Lì, pensi quanto tempo fa, gli chiedevo di darci una mano. Ho firmato i suoi referendum che in passato sono stati anche i nostri.
Per questo ha detto che la copia?
Non l’ho mai detto. Ho scritto un “twist”, come li chiamo io (i tweet, ndr), dopo che Beppe disse ciò che io sostenevo, cioè che all’Italia serve una Norimberga. Dicevo: “Grillo parlante o copiante? Finalmente insieme? Ti aspetto da sempre”. Era affettuoso, non si capisce?
Perché l’aspetta Pannella?
Perché ritengo le sue contraddizioni ricche e importanti. Il combinato disposto del Grillo-parlante e del Pannella-pure, costituirebbeunelementonondiesplosionepolitica effimera, ma di forza alternativa.
Sembra sicuro.
È un bestione, come ce ne sono pochi in Italia. Io, che sono un animale abruzzese, lui, Bossi e Ferrara.
È un comico.
Comico in Italia non vuol dire nulla. È un grande attore e interprete. Ha una forma fisica, e quindi psicofisica, straordinaria. Quando uno lo vede, lo osserva con amore, non può non pensare “guarda com’è in forma, cazzo”.
E se la oscurasse?
Magari arrivasse qualcuno che porta avanti le mie battaglie fino a oscurarmi. Abbiamo raccolto 63 milioni di firme dal ‘55, una storia gloriosa. Temo piuttosto che si spenga. Deve stare attento adesso Beppe. Lui è pregiudicato per un brutto incidente che ha avuto in macchina. E io gliel’ho detto alla radio “ora rischi di portare a sbattere chi ti segue, come quella volta in macchina, ma stavolta crepi pure tu” e io voglio impedirlo.
Guiderà lei?
É lui che deve passare dal monologo al dialogo. Fare come noi che siamo un partito aperto, un servizio pubblico. Hanno imparato la litania “la nostra non è protesta, ma proposta perché l’antipolitica non offre di firmare petizioni”. Ma non basta. C’è il rischio che Grillo resti solo Grillo. Vedete, parlo di rischio. Invece devono strutturarsi, diventare utili e preziosi.
Se arrivano in Parlamento lo saranno?
Lo spero. Stiamo vivendo il fascismo della repubblica antifascista. E quando sento Napolitano rispondere in modo magniloquente a Grillo penso che commetta un reato.
Cioè?
La nostra Repubblica vive una condizione di flagranza criminale e se io assisto a un assassinio e non faccio nulla per fermarlo, sono colpevole di omesso soccorso. Napolitano, da cittadino dovrebbe impedire di sputtanare la giurisdizione europea che da 30 anni ci condanna perché i nostri processi non hanno una ragionevole durata.
L’amnistia.
Ridurre drasticamente i processi è l’unico modo per far ripartire la crescita, tanto cara alla partitocrazia antifascista che Napolitano difende. Ma non è mica il primo, è il milionesimo. Il costituzionalismo italiano, con rispetto parlando, ha trovato il suo difensore.
Grillo su questo non la segue.
Anche lui è per l’efficienza maschilista del “tutti in galera”, quel forcaiolismo tipico dell’Idv che tanto piace anche a voi. Rischia di non rendersi conto delle radici giacobine dell’autoritarismo.
Il leader di M5S pensa anche che la Bonino sarebbe un Capo dello Stato espressione dei partiti.
Ma se i sondaggi dicono che la vorrebbe il 70% degli italiani! I partiti le hanno dato solo 15 voti, questa è la verità. Ma povero Beppe, perdoniamolo, anch’io dico sette cazzate al giorno. Una gli può sfuggire. Avrà paura della Bonino, e magari anche di me, che sono ignoto.
Non direi.
Sono il 194esimo politico per ascolti consentiti in tv.
Neanche Grillo ci va.
Non è vero, Beppe non vuole discutere, perché se va in uno studio televisivo si sputtana. Invece così becca i picchi d’ascolto, quando ci sono 7 o 8 milioni di persone che lo guardano e con quei 3 minuti di perfezione recitati in piazza, che ti viene la pelle d’oca per quanto è bello, ha già vinto.

il Fatto 10.5.12
Libero e Giornale
Tutti sul carro del vincitore


Nessuna sconfitta, quasi “un festeggiamento” su Libero, dopo la vittoria dei grillini. Un sottolineare che “in fondo non siamo così diversi”. Ancora di più sul Giornale: in fondo, Grillo ha fatto le stesse cose di Berlusconi, “uno con la tv, l’altro con la rete hanno mostrato la stessa originalità”, “Forza Italia negli anni 90 parlava con la gente così come oggi fa il Movimento 5 Stelle”. C’è chi cerca di stare sempre dalla parte dei vincitori. Sempre sul Giornale, in un’intervista, Mario Mantovani, senatore Pdl e coordinatore della Lombardia, strizza l’occhio a chi ha preso 200 mila voti e sottolinea che una possibile alleanza con il M5S non sarebbe da escludere. Perché questo, certo, significherebbe battere il Pd ai ballottaggi. Uno “scossone” salutare per il Pdl che mai come ora, guarda il caso, si sente vicino al partito degli “innovatori”.

Repubblica 10.5.12
La politica degli antipolitici
di Nadia Urbinati


La demagogia è una forma degenerata della democrazia, la sua periferia interna. I classici la situavano al punto terminale della democrazia costituzionale o "buona".
Era la conseguenza di un impoverimento della società, del timore della classe media di vedere indebolito il proprio status e dei meno abbienti di perdere quel poco che a fatica avevano guadagnato. In questo scontento che contrapponeva i pochi ai molti poteva emergere un astuto demagogo che metteva in campo forze nuove, desiderose di farsi largo ed emergere.
Oggi la demagogia usa il linguaggio dell´antipolitica per esprimere opposizione alla classe politica attualmente esistente con il prevedibile obiettivo di scalzarla con una nuova. Se poi questa classe politica si è macchiata di corruzione ciò rende l´arringa del demagogo più facile ed efficace. Il Movimento Cinque Stelle rientra in questa categorizzazione demagogica. Beppe Grillo ha fatto dell´antipolitica la sua battaglia e alle recenti elezioni amministrative quel linguaggio ha dato i suoi frutti. La crisi economica e i recenti e meno recenti scandali politici hanno fatto da benzina. Ma che cosa è esattamente l´antipolitica?
Quando si parla di antipolitica nelle società democratiche si usa una parola molto imprecisa. Chi la usa non suggerisce infatti di ritirarsi nella solitudine di un convento, oppure di vivere solo di e per la famiglia, o solo di e per il lavoro. Chi usa l´espressione antipolitica vuole presumibilmente criticare il modo con il quale la politica è praticata ma in realtà sfruttare lo scontento che esiste ed è forte verso le forme tradizionali di esercizio della politica. Non è la politica l´obiettivo polemico e nemmeno la forma partito. Non è la politica perché il parlare di antipolitica è comunque un parlare politico, addirittura uno schierarsi partigianamente, e questo è a dimostrazione del fatto che nelle società democratiche non c´è scampo alla politica, nel senso che ogni questione che esce dal chiuso della domesticità è e si fa politica. Diceva Thomas Mann in un saggio esemplare sull´impolitico che nella società democratica anche chi si scaglia contro la politica è costretto a farlo con linguaggio politico, a farsi partigiano della sua causa. Ci si schiera e si entra nell´agone. L´antipolitica non è possibile.
Così è oggi: non c´è niente di più politico di questa persistente critica della politica. A ben guardare l´obiettivo polemico non è neppure la forma partito, l´associarsi cioè per perseguire o ostacolare determinati obiettivi e progetti politici. Anche i più astiosi demagoghi dell´antipolitica - anche l´arrabbiato Beppe Grillo - si presentano alle elezioni! Come scriveva Ilvo Diamanti su Repubblica a commento del recente voto amministrativo, il termine "antipolitica" sottintende una valutazione poco convincente quando è usata per spiegare il voto al Movimento Cinque Stelle - benché questo si sia alimentato pantagruelicamente dello slogan dell´antipolitica. Accettando di presentarsi alle elezioni ha accettato le regole democratiche della competizione e, soprattutto, messo in campo persone che, nonostante il linguaggio demagogico di Grillo, vogliono fare politica e discutono di problemi che sono politici, dall´ambiente alla corruzione, agli interessi privati nella cosa pubblica. A ben guardare gli elettori del Movimento sono semmai iperpolitici e vedono tutto in chiave politica (un termine al quale hanno dato un significato negativo, salvo... usarlo proprio per far politica). Scriveva Diamanti che i grillini "mostrano un alto grado di interesse per la politica" e in passato molti di loro hanno votato Lega Nord e anche Pd e Idv. La demagogia non piace ma è innegabile che chi si identifica con il Movimento del demagogo ha una visione politica, non antipolitica. E su questa visione ci si deve interrogare e ad essa occorre controbattere.
Il movimento Cinque Stelle opera come un partito e se vorrà persistere nel tempo dovrà strutturarsi come un partito. Nella democrazia rappresentativa non c´è scampo a questa regola. L´esperienza di Berlusconi insegna: avere i mezzi finanziari non è sufficiente poiché senza struttura e idee propositive la prima grossa sconfitta si rivela fatale. Perché un partito, se partito è, deve essere capace non solo di vincere ma anche di perdere. Un partito nato per solo vincere è un partito destinato all´estinzione. La memoria sulla quale ogni compagine si struttura creando identità collettiva si consolida anche grazie alle sconfitte, esperienze che uniscono, non meno delle vittorie. Quindi il Movimento Cinque Stelle se vuole consolidare la propria presenza nella politica nazionale dovrà essere pronto a scendere nell´agone sapendo che può perdere. La prepotenza verbale del suo leader rivela che questa non è ancora la sua condizione. Se sarà un partito di sola vittoria sarà di breve durata.
Perché dopo la protesta ci sarà la prova del fuoco del potere praticato. Essere eletti, avere una presenza nelle istituzioni, implica fatalmente prendere in mano quel potere urlando contro il quale il movimento di protesta è nato vittorioso. Si tratta di una regola ferrea che contraddice quel che ci aveva abituato a pensare una Democrazia Cristiana che stava in sella sapendo che non rischiava alternativa grazie alla guerra fredda: ovvero che il "potere logora chi non ce l´ha". Questa massima andreottiana valeva appunto perché chi aveva il potere sapeva di non rischiare di perderlo, cosicché a logorarsi erano appunto coloro che non potendolo avere per vie ordinarie (vittoria elettorale) dovevano scendere a patti con chi lo aveva già a costo di sporcarsi le mani. La massima andreottiana designa una condizione di irrilevanza della democrazia elettorale. Ma in una sana democrazia dove le elezioni funzionano davvero da deterrenza, e sono quindi rischiose (come si è visto il 6 e 7 maggio), allora il "potere consuma chi ce l´ha". E quindi le vittorie dei movimenti di protesta rischiano di spegnersi in fretta. La vicenda patetica della Lega Nord prova questa regola. Le ali se le scotta chi più si avvicina al sole. Il Movimento Cinque Stelle o diventa un partito e quindi accetta la sfida di essere vittima della critica di "antipolitica", oppure scompare. Ma se non scompare, allora deve darsi obiettivi e linguaggi che non sono più quelli della demagogia, roboanti, rozzi, e troppo facili.

il Fatto 10.5.12
Gianroberto Casaleggio. Il guru di Beppe Grillo

“Gengis Khan” e il cerchio magico di M5S
di Emiliano Liuzzi


C’è stata la Rai degli anni Ottanta, le trasmissioni di Pippo Baudo, gli spettacoli. Ma non è lì che nasce il segreto di Beppe Grillo. Se c'è una cosa che negli ultimi anni ha funzionato è stata quella di essere circondato anche lui da un cerchio magico. Composto da una sola persona e una sola stretta: il cerchio inizia con la mano destra e finisce con quella sinistra di un signore sulla cinquantina che porta il nome di Gianroberto Casaleggio, uno dei massimi esperti di Internet in Italia, l'uomo che con la sua Casaleggio Associati ha inventato praticamente a tavolino il Movimento 5 Stelle. Uomo nell'ombra, vestito sempre in giacca e cravatta, ma con i capelli da freak, appassionato di fantasy, gran divoratore di fumetti, affascinato da Gengis Khan, il suo mito. Mangiatore di libri di storia, ne legge anche due al giorno. Un sognatore realista, un manager per se stesso e gli altri. Quando Grillo lo incrociò per la prima volta ne rimase affascinato, disse: “Questo o è un genio o è un pazzo”.
Bossi e l’Idv
Alla fine si convinse della prima ipotesi, visto che oggi Casaleggio è influente tanto su Grillo quanto sul Movimento 5 Stelle. L'unica persona che il comico-capopartito ascolta, l'unico che può provare a indirizzarlo. Attraverso il blog, ovviamente, creatura sua, nata nei suoi uffici di Milano e dove ancora oggi viene gestita e sviluppata.
È lui che porta in palmo di mano i piemontesi del movimento, perché “conservatori”, e mal digerisce i bolognesi e fiorentini, a suo avviso “anagraficamente comunisti”. D'altronde quando non è Grillo nelle piazze è il blog che diventa la Carta del Movimento, il codice al quale si deve far riferimento. Lì si sviluppano le idee. Chi ci sta è dentro, altrimenti prego andare.
Casaleggio non lo fa mai direttamente perché è un cerchio, e tale vuole rimanere, l'uomo del dietro le quinte, il ghost writer che spesso esiste senza esserci. Chiama Grillo e capisce se è il caso. Se lo è riesce a imporre la sua, altrimenti aspetta.
Nato con simpatie leghiste e bossiane, il suo incontro con Grillo avviene qualche anno fa, e dopo uno spettacolo. A quel tempo il Movimento non esiste, ma Grillo intuisce che dietro a quegli occhiali si nasconde una persona capace di vedere lontano. Casa-leggio e la sua società nata nel 2004 e della quale è presidente e gestisce assieme a Enrico Sassoon, Luca Eleuteri, il figlio Da-vide Casaleggio e Mario Bucchich, curano nel frattempo il sito Internet dell'Italia dei Valori per la cifra di 700.000 euro all'anno. Ma Grillo lo vuole a tutti i costi solo per sé, ha intuito che può fare il salto di qualità. Così, nel 2010, si arriva alla rescissione del contratto con Di Pietro e da quel momento Casaleggio – che tra le società di cui cura il sito c'è anche la casa editrice Chiarelettere, cadoinpiedi.it   – può lavorare, almeno in campo politico, con Grillo e per Grillo a tempo pieno.
Un salto di qualità, non c'è dubbio. Non è un caso che da quel momento in poi, nonostante ci sia già stato il V-Day (e Casaleggio c'era, eccome, anche a quei tempi), Grillo diventa un fenomeno che spaventa la politica. Perché Casaleggio sa meglio di ogni altro in Italia come si applica la politica a Internet, o viceversa.
Il casting dei candidati
Con Grillo si sentono due o tre volte al giorno. Le strategie vengono pianificate al telefono, ma con minuzia e particolari. Andate a vedere gli spettacoli di Grillo: ci sono delle cose che il comico genovese che saprebbe improvvisare e molto bene, recita da copione. Perché sono le parole chiave che Casaleggio ha detto che funzionano.
Lo stesso discorso vale per coloro che diventano candidati del Movimento. Cosa dire con metodi efficaci, come dirlo, con quale espressione, viene “consigliato” negli uffici di Casaleggio, a Milano, dove alcuni candidati vengono istruiti in una full immersion comunicativa. “Un incontro di tre ore molto utile”, dice Federico
Pizzarotti, il fenomeno che a Par-ma si è guadagnato il ballottaggio. “Ci ha spiegato come inserire i dati nel blog e qualche tecnica per essere più presenti nei motori di ricerca”, spiega Antonio Giacon, candidato a Budrio, anche lui al ballottaggio. “In alcuni casi per le aree metropolitane forse dice come lanciare i messaggi, ma noi siamo campagnoli, il suo apporto è stato minimo, qui non arriva nemmeno la banda larga”.

Repubblica 10.5.12
Baudo, il talent scout del comico, racconta gli anni passati insieme:

era anarchico, né di destra né di sinistra
di Silvia Fumarola


"Beppe può dare una scossa alla politica ma non dimentichi che la mafia uccide"
L´ho detto anche a lui: il voto non te lo do. Ma penso che, come faceva la Dc, può avvicinare i giovani alla politica
Io amo Napolitano, ma quello del movimento 5 Stelle è un boom, se si dà alla parola il significato di scossone

SILVIA FUMAROLA
ROMA - Non lo voterebbe mai, ma non ha dubbi: se Beppe Grillo può essere utile per dare una scossa alla vecchia classe politica Pippo Baudo sta con lui perché «la sua è una metamorfosi sincera. Ha fatto quello che faceva la vecchia Dc: ha saputo avvicinare i giovani alla politica».
Baudo, quando ha conosciuto Grillo?
«Andavo a caccia di talenti, era il 1977 al cabaret La Bullona andava in scena Stasera Grillo. Chiedo a un ragazzo coi capelli ricci: a che ora inizia? "Se entri comincia subito". Era Beppe Grillo, recitò solo per me. Dopo due giorni lo convoco per un provino alla Rai, avviso i dirigenti ma i tecnici si dimenticano di mettere le telecamere e lui improvvisa un monologo. Lo scritturammo. Poi l´ho portato a Fantastico, venne con Antonio Ricci, che scriveva battute formidabili».
Poi ci fu il famoso episodio di Craxi.
«Craxi andò in Cina con un delegazione numerosa, e Beppe a Fantastico nell´86 fece la famosa battuta: "Se tutti i socialisti sono in Cina, a chi rubano?". Mi dissociai. Biagio Agnes mi mandò a quel paese, Craxi mi massacrò, ma non è vero che Grillo fu cacciato. Poi cominciò a fare le serate, il punto di riferimento era Lenny Bruce, fustigatore dei costumi. Il suo è stato un lento avvicinamento alla politica, ma nasce comico, di fronte alla battuta non si ferma. Penso allo scivolone sulla mafia "che si limita a esigere il pizzo". Ma la mafia uccide senza pietà».
Agli inizi era interessato alla politica?
«No, era anarchico, non era né di destra né di sinistra. Voleva far ridere, ha preso coscienza dopo. Io ero demitiano».
Ma che credibilità ha in politica uno che pensava solo a far ridere?
«La sua metamorfosi è sincera, ed è tardi per chiedergli di tornare indietro. Beppe non è l´antipolitica, la sua è un´altra forma di politica. I problemi arriveranno quando dalla piazza si passerà alle responsabilità».
La risposta che ha dato al presidente Napolitano appare inaccettabile.
«Dura e impietosa: ha fatto riferimento all´età del presidente. Amo Napolitano e mi dispiace dissentire da lui, ma quello del Movimento 5 Stelle è un boom se si dà alla parola il significato di "scossone". Quel boom significa: volete ancora prendere milioni di euro, nominare amministratori ladri, figli incapaci e donne disponibili?».
Grillo sostiene di offrire modi democratici a gente che altrimenti uscirebbe col bastone, però soffia sul fuoco.
«La verità è che il disgusto cresce, se non s´incanala la rabbia può succedere qualsiasi cosa, può esplodere la violenza».
Per Vendola è populista, Bersani dice che, se non si contrasta, l´antipolitica spazzerà tutto.
«Potrebbe succedere con i grillini quello che accadde con l´Uomo qualunque di Guglielmo Giannini: dopo tre anni il movimento si sciolse. Se sarà così 5 Stelle avrà fatto un ottimo lavoro e brillato per il tempo necessario».
Lo voterebbe?
«No. E l´ho detto anche a lui: il voto non te lo do. Non voglio che i partiti scompaiano ma Grillo è un pungolo. Se per cambiare la politica bisogna passare per l´antipolitica ci sto. L´importante è ridare un´etica».
Quindi non lo giudica un "abusivo"?
«I leader hanno fatto della politica un circolo di boy scout riservato, quand´ero ragazzo io la Dc cercava i giovani nell´Azione cattolica e nei gruppi studenteschi, credeva nelle forze nuove. Grillo ha rimotivato i giovani, grazie al web e ai social network arriva ovunque. Ha la forza dei leader popolari ma non farà la marcia su Roma, non arriverebbe mai al Quirinale in vagone letto come Mussolini».

Repubblica 10.5.12
Grillini, ci si nota di più...


I Grillini si notano di più se vanno ai talkshow e se ne stanno in disparte o se disertano del tutto? La questione rischia di tenere banco, come si è visto a Ballarò. In collegamento periglioso da Genova c´era il grillino Putti. Negli scambi di battute con gli ospiti in studio si è capito che anche uno non entusiasmante come Fassino poteva demolirlo solo a colpi di esperienza. Forse è questo che ha provocato l´immediata reazione del nume tutelare Beppe: alle 23 aveva già vergato sul blog il divieto ai suoi di andare in tv. C´è chi sostiene che l´assenza mediatica dei Cinquestelle li nobilita, ma c´è chi sospetta che sia l´unico modo per non rispondere a quelle due-tre domande (soprattutto sul programma politico) che nessuno finora è mai riuscito a porre. La questione è interessante. Anche perché l´alternativa è Porta a Porta: lunedì, al termine della giornata-terremoto, Vespa è entrato e ha annunciato il primo ospite. Ed è apparso Buttiglione. E sembrava una gag di Alto gradimento.

il Fatto 10.5.12
Telecom stacca La7 dalla compagnia De Benedetti può avere le frequenze
Ieri il Cda ha avviato la procedura di cessione
di Carlo Tecce


Ora è ufficiale: stavolta La7, il giocattolo o il fastidio, il potere o il presidio, Tele-com non la vuole più. E l'ammette con una parolina tecnica infilata in quei documenti che segnano un Consiglio d'amministrazione: dismissioni. Una parolina con un significato più vasto di quelle undici lettere che la compongono: oggi Telecom Italia Media (TiMedia), la controllata di Telecom, è in vendita. Chi la vuole, se la compri. Suona bene: per il resto, è uno spartito complicato. Il gruppo telefonico non vuole regalare il pacchetto intero, cioè frequenze e programmi col fiocco Enrico Mentana, un patrimonio che può valere circa 530 milioni di euro. Torri e piloni di qua, palinsesti e conduttori di là: due operazioni, due clienti. Prima i tre multiplex (pacchetti di frequenze) vanno nel nuovo contenitore con un socio per fare l'asta pubblica che abolisce il beauty contest; poi Telecom lentamente molla le mani per la gestione editoriale dei canali. Ambiziosa, e forse avventurosa, comunque una strategia per recuperare quei milioni smarriti di anno in anno.
CARLO De Benedetti non è stato profetico, forse l'intervista che andrà stasera su Rai2 l'ha registrata tempo fa: “Il presidente Franco Bernabè sarà costretto a vendere La7, ma ne è ancora innamorato”. A Telecom dicono che De Benedetti, escluse le profezie, conosce benissimo l'approccio: niente bonifici pronta-consegna, ma una trattativa lunga e laboriosa per mirare a un risultato piuttosto prevedibile:
uno sconto sui prezzi. Un timore che circonda l'azienda: la svendita sofferta, più che la vendita spettacolare. Ai potenziali acquirenti – e dunque al Gruppo Espresso – va mostrato il piatto più ricco: le frequenze, che non marciscono, che non pagano lo share, che non bucano i bilanci. Così può iniziare un rapporto con De Benedetti: con i preliminari.
NONOSTANTE un palinsesto più robusto che sfrutta la scia di Mentana, senza scomodare i centri media, si può dire che La7 è tornata un passo indietro: a volte accelera, spesso frena, e tiene una velocità intorno al 3,7 per cento di share. La concorrenza è distante. Può consolare, nei giochi dove non vince nessuno, il tracollo in Borsa di Mediaset: il titolo segna il -11 per cento, un timbro che boccia la trimestrale con un utile al ribasso di 85 punti. Per farsi male, si può ricordare che la pubblicità scappa ovunque – che sia viale Mazzini o Cologno Monzese – eppure TiMedia incassa a buon ritmo. Quest'insieme di indicazioni e numeri può spiegare La7, e spuntare una lista (non eccessiva) di candidati. Un terzetto che prevede, ovviamente, l'ingegner De Benedetti. C'è la soluzione berlusconiana: il francotunisino Tarak Ben Ammar, amico e sodale del Cavaliere, in coppia con Urbano Cairo (che già raccoglie la pubblicità di TiMedia) oppure simbolicamente solitario con i contribuiti arabi. E c'è l'ipotesi Diego Della Valle, desiderio inespresso di Mentana, suo amico: azioni firmate Tod's e azioni anche per dirigenti e giornalisti. Fra nomi che si rincorrono e che si ripetono, la novità è che TiMedia è in attesa: adagiata sul mercato. C'è da capire che tipo di mercato sia: placido o tempestoso? Non si contano più le occasioni sprecate, o volutamente gettate via, per fondare il terzo centro televisivo (polo ormai è fuori moda). Quasi vent'anni fa, alba di Forza Italia, De Benedetti disse “no, grazie” al Telesogno di Michele Santoro e Maurizio Costanzo che cercavano una sponda per un'operazione da 70 miliardi lire. E Telemontecarlo finì a Vittorio Cecchi Gori. Come l'Apple rimase di Steve Jobs: “Con lui feci la più grande stupidaggine della mia vita. Ero in California, dove lavoravano 300 ingegneri della Olivetti. Ero con Elserino Piol, che mi disse: ‘Ci sono due ragazzi in un garage che stanno facendo progetti, passiamo un attimo... ’ Vidi ‘sti due, erano Wozniak e Jobs, che trafficavano con delle piastre elettroniche. Jobs mi chiese se ero disposto a mettere un milione di dollari, era il 1980, per avere il 20% dell'azienda”, racconta l'editore di Repubblica a Fratelli d'Italia su Rai2.
QUASI un anno fa, tramonto del Cavaliere, durante la caccia ai conduttori di viale Mazzini dell'amministratore delegato Gianni Stella detto er canaro, la concessionaria pubblicitaria di Sky offrì un accordo molto vantaggioso a TiMedia che s'apprestava a presentarsi in autunno con Mi-chele Santoro: un'alleanza satellite-digitale che poteva spaventare Mediaset. E spaventò, appunto, Silvio Berlusconi. Tanto per srotolare il calendario, va ricordato quando Ti Media puntava al 3 per cento di share di La7 per convivere serenamente con i rivali. Di anni ne sono passati, chissà se il mercato televisivo se n'è accorto.

il Fatto 10.5.12
ACEA Alemanno nei guai per la vendita delle quote pubbliche


Il sindaco di Roma Gianni Alemanno è nei guai, nella fase finale del suo mandatodeve gestire la più delicata delle procedure: la vendita del 21 per cento di Acea, la società ex municipalizzata che gestisce acqua ed energia nella capitale e non solo. Oggi il Comune ne detiene la maggioranza assoluta, il 51, gli altri soci forti sono i francesi di Suez e il gruppo Caltagirone. Alemanno ha un doppio vincolo: la manovra Salva Italia esorta i Comuni in difficoltà finanziarie (Roma ha tra i 9 e i 12 miliardi di debiti) a vendere i propri asset prima di andare a chiedere aiuto al governo e al contempo, nonostante il referendum 2011 sull’acqua, impone di scendere sotto il 40 per cento del capitale o la società perderà l’affidamento diretto. “Il mancato adempimento delle norme significherebbe per la società perdere ricavi per oltre 750 milioni di euro. In questo caso, i soci privati della società potrebbero citare il Comune per il risarcimento del relativo danno”, minaccia Alemanno in una lettera alle parti sociali per spiegare le sue scelte. Suez e Caltagirone per il momento non paiono interessati ad accrescere il proprio ruolo e comunque non potrebbero acquistare altre quote direttamente dal Comune. Ma Acea è una società strategica nel settore e starebbe trattando anche alleanze con Snam. Il problema è che Alemanno prova da settimane a far passare in Consiglio comunale la delibera che avvia la procedura di vendita. Ma non ci riesce.

il Fatto 10.5.12
“Non fate zig-zag e vincerete le elezioni, come Hollande”
Il segreto del successo socialista raccontato dal suo artefice
di Luca Telese


Sorride mentre lo dice: “Vivo come un borghese ma non sarò mai un borghese. Se sei cresciuto in una famiglia operaia, come è successo a me, resti figlio di quella storia per tutta la vita. Io sono figlio di quella storia. E sono figlio della Repubblica”. Fino a domenica era uno degli uomini politici più eclettici di Francia. Dal giorno successivo all'elezione di Hollande è diventato (anche) uno degli uomini politici più potenti. È una bella storia quella di Aquilino Morelle: ghostwriter, ma anche capo della campagna elettorale del nuovo presidente francese, uno degli artefici della sua vittoria. Aquilino – 50 anni – è uomo dalle tante vite: intellettuale, dirigente politico, medico, comunicatore, stratega del candidato socialista. Enarca (ovvero diplomato all'Ena, la scuola degli amministratori dello Stato), ma anche figlio d’operai e orgoglioso di esserlo. Passa le sue vacanze a Montalcino, in Toscana, ama l'Italia.
Lo vado a trovare al quartier generale di Hollande.
Aquilino ha un nome italiano, un padre spagnolo, natali parigini, una formazione rigorosamente “repubblicana” e una ricetta semplice e affascinante per le sinistre di tutta Europa: “Nous n’avons pais fait du... zig-zag”. Ovvero: “Una volta approvato il programma elettorale non abbiamo fatto compromessi, nessun calcolo elettoralistico, nessuna marcia indietro, nessun zig-zag! La sinistra ha vinto questa campagna elettorale così, senza trucchi: con la sua faccia e con i suoi valori”. Con la mano traccia nell’aria il gesto della scure: “In ogni passaggio delicato, Hollande ha scelto di andare dritto”.
Nella vostra campagna ha
avuto un grande ruolo lo scenario della crisi e la critica al dominio della finanza.
Abbiamo ripetuto sempre una cosa semplice, di cui siamo convinti: per vincere la crisi serve senso di responsabilità. Ma non si può risolvere la crisi attraverso le politiche budgetarie e l'austerità. Non è folle: è inefficace.
Di questi tempi, ripeterlo è considerato eresia o demagogia.
E perché? Credo che anche i mercati lo abbiano imparato: se non si offre alla gente una credibile prospettiva di crescita nessun debito può essere ripagato.
Si possono convincere i mercati?
Abbiamo vinto, e non è caduta la Borsa. Evidentemente ci siamo riusciti.
Come ha costruito la lingua elettorale di Hollande?
(Sorride). Senza nessuna artefazione. Non sono un personaggio da film americano. Con Hollande facciamo interminabili discussioni, un ping-pong di idee e parole: quando la pallina smette di rimbalzare abbiamo sul tavolo il nostro discorso.
Quale è stato il bene più prezioso in questo lungo anno di lavoro?
(Altro sorriso) Il tempo.
Hollande si fida ciecamente?
Riscrive tutti i testi con maniacale pignoleria, fino all'ultimo momento. Spesso fatico a distinguere cosa viene da uno o dall'altro.
Siete stati accusati di aver promesso troppo...
E perché? Il nostro progetto politico è serio e repubblicano.
“Repubblicano”, purtroppo, in Italia è aggettivo quasi intraducibile.
Ma è una parola che i francesi capiscono molto bene: è il richiamo ai valori che hanno fatto grande la Francia. La laicità, il progresso sociale, il riconoscimento dell'assistenza a tutti i cittadini. Uno dei cardini della nostra campagna è che il sogno francese che ha permesso la mobilità sociale dei cittadini sia ancora possibile.
Avete promesso di assumere 60 mila professori, lo farete davvero?
(Mi guarda stupito). Sarkozy aveva eliminato 420 mila professori mettendo a rischio il nostro sistema formativo, quindi non si trattava di una promessa elettoralistica ma di una necessità... E poi si tratta di 60 mila posti di lavoro in 5 anni, 12 mila l'anno: abbiamo previsto un costo di 160 milioni di euro l'anno perfettamente sostenibile.
Avete proposto anche una aliquota del 75% sui redditi sopra il milione di euro. in Italia sareste stati accusati di bolscevismo...
(Scuote la testa). Nei momenti di crisi tutti debbono fare sacrifici, e i più ricchi pagare di più. I grandi dirigenti di azienda si erano appena aumentati i salari. Se la sinistra esiste è per ridurre queste ingiustizie.
Avete messo in programma il matrimonio fra omosessuali, in Italia sareste stati accusati di attentato alla famiglia.
(Ride). Quando abbiamo introdotto le unioni civili dei Pacs qualche integralista sosteneva che la società francese sarebbe stata distrutta. Ora non se ne discute più. la politica deve parlare la lingua del futuro, non quella del passato.
Quanti voti vi avrà fatto perdere?
Credo nemmeno uno.
Hollande ha chiesto il voto amministrativo per gli immigrati mentre doveva recuperare i voti della Le Pen. Una follia?
No, semplice coerenza. Era nel nostro programma.
Da voi non vale l'adagio che si vince solo inseguendo il centro?
Siamo la prova del contrario.
Lei sa che anche per il Pd italiano molte di queste parole d'ordine sarebbero insostenibili?
Lo so. Ma noi socialisti francesi siamo sicuramente alla loro sinistra.
Per i cattolici del Pd il riferimento europeo è Bayrou: è un vostro alleato?
Non direi. Ha dato indicazione di voto per Hollande contro Sarkozy, ma è molto legato ai valori cattolici, ha sempre votato contro la sinistra.
E voi potreste allearvi con la sinistra radicale di Mélenchon?
Mélenchon ha ottenuto un ottimo risultato ma raccoglie forze e culture diverse. Sono loro che devono decidere se vogliono governare. Se lo fanno perchè no?
Avete parlato molto d'Europa: cambierete davvero i rapporti di forza sul Fiscal compact?
Lavoreremo per rinegoziare i termini di quell'accordo, o meglio, per integrarlo con un nuovo trattato.
È possibile?
Abbiamo già cambiato i termini del dibattito prima ancora di vincere, e riscritto gli equilibri con la nostra vittoria.
E ora?
Si apre una nuova, grande speranza: le sinistre socialiste e riformiste d’Europa possono impugnare la bandiera della crescita e rinegoziare le politiche di rigore. Aquilino Morelle e Valerie Trierweiler, compagna di Hollande.

il Fatto 10.5.12
Norvegia “Breivik sparava e urlava di gioia”


Il 22 luglio di un anno fa, nell'isola norvegese di Utoya, Anders Behring Breivik sparava e “rideva, urlando di gioia”, mentre intorno a lui le sue vittime cadevano come birilli. È Tonje Brenna, 24 anni, segretario generale dell'Auf, la Gioventù laburista norvegese, sopravvissuta alla strage compiuta dallo xenofobo pluriomicida, a raccontare con precisione ai giudici di Oslo, nell’udienza destinata al racconto dei testimoni, cosa accadde quel giorno.

Corriere 10.5.12
L'Europa approva il giorno per i Giusti di tutto il mondo
di Antonio Carioti


Sarà il 6 marzo di ogni anno la Giornata europea dei Giusti. Hanno raggiunto infatti il numero di 382 (maggioranza assoluta del Parlamento di Strasburgo) le firme di deputati europei in calce alla dichiarazione che prevede l'istituzione di questo appuntamento celebrativo in onore di coloro che salvarono vite innocenti, o comunque difesero i valori della dignità umana, di fronte ai totalitarismi e genocidi del XX secolo, a tragedie come la Shoah, il Gulag sovietico, lo sterminio degli armeni, le stragi di massa in Cambogia e in Ruanda. L'iniziativa è partita dall'associazione milanese «Gariwo, la foresta dei Giusti» (la sigla Gariwo significa Gardens of the Righteous worldwide, «Giardini dei Giusti di tutto il mondo»), diretta da Gabriele Nissim, con l'immediata adesione bipartisan di cinque deputati europei: i tre italiani Gabriele Albertini (Pdl), David Maria Sassoli (Pd) e Niccolò Rinaldi (Idv), più la polacca Lena Kolarska-Bobinska e il romeno Ioan Mircea Pascu. Il giorno scelto per onorare i Giusti di tutto il mondo è il 6 marzo perché si tratta della data in cui scomparve nel 2007 Moshe Bejski, il magistrato israeliano che era stato presidente della commissione dei Giusti di Yad Vashem, il complesso monumentale di Gerusalemme dedicato alla Shoah, dove sono ricordati coloro che operarono per salvare ebrei perseguitati dai nazisti. La mozione è stata presentata in gennaio e man mano ai cinque presentatori si sono aggiunti altri firmatari, per esempio tutti i parlamentari europei italiani e polacchi, fino a superare la quota richiesta. Nissim non nasconde la sua soddisfazione: «È un grande risultato, perché è la prima volta che viene approvata una mozione che denuncia la pratica del genocidio in modo universale, senza alcun tipo di discriminazione ideologica. Abbiamo dovuto superare le resistenze di chi, coltivando una visione indulgente del comunismo sovietico, rifiuta di accostare il Gulag alla soluzione finale hitleriana; quelle di chi ritiene che porre la Shoah accanto ad altri orrori novecenteschi finisca per banalizzarla; quelle di chi preferisce tenere un profilo basso sul genocidio degli armeni per non compromettere i rapporti con la Turchia. Ma alla fine ce l'abbiamo fatta, anche grazie all'appoggio di molte personalità autorevoli: cito fra tutte la vedova dell'ex dissidente e presidente ceco Vaclav Havel, recentemente scomparso». Il presidente di Gariwo, che ha pubblicato da poco il saggio La bontà insensata (Mondadori) sul tema dei Giusti, sottolinea che in questo caso si tratta di celebrare una memoria positiva: «Con il ricordo di chi si oppose al totalitarismo — osserva Nissim — si richiama un elemento centrale dell'identità europea: il valore della responsabilità individuale. In una fase di generale disorientamento è un punto fermo imprescindibile. Il fatto che sia stato riaffermato su iniziativa italiana è una bella vittoria del nostro Paese».

Corriere 10.5.12
La rottura? Ai tedeschi costerebbe il 20% del Pil
di Giuliana Ferraino


Costi economici pesantissimi, e un prezzo politico ancora più alto, con la perdita di influenza internazionale dell'Europa, che evaporerebbe come concetto. Sono le conseguenze della rottura dell'euro immaginate in uno studio da Ubs lo scorso settembre. A distanza di qualche mese, il contenuto dell'analisi non è cambiato, avverte la banca svizzera. Ma lo scenario è diventato più probabile. Così come si è allargato il partito dei catastrofisti.
La Grecia uscirà dall'eurozona «entro un anno», perché di fatto è già fuori, sostiene Tyler Cowen, economista della George Mason University, senza escludere che possa seguirla anche il Portogallo. Perfino un membro del direttorio della Bce, il tedesco Jörg Asmussen, ha evocato per la prima volta questa possibilità, dichiarando al quotidiano Handelsblatt che Atene «non ha alternative al programma di risanamento economico concordato, se vuole restare nell'euro» e che «la decisione di rimanere nella zona euro è in mano ai greci».
Gli effetti di un break-up della moneta unica con la fuoriuscita della Grecia? Default del suo debito sovrano; default dei debiti delle sue imprese; collasso del sistema bancario. E una svalutazione del 60% della valuta nazionale. Ma probabilmente si innescherebbe subito una reazione a catena, con contraccolpi negli altri Paesi dell'eurozona, in particolare quelli più vulnerabili, a cominciare da Portogallo e Spagna. Lo scenario è da tregenda: spread alle stelle, assalto agli sportelli di credito, per ritirare i propri depositi, stretta del credito, con paralisi dell'economia reale, disoccupazione. Ma una nuova Grande Depressione in Europa avrebbe inevitabili ripercussioni sull'economia globale, con un forte declino del commercio internazionale. Secondo le stime della simulazione di Ubs, la fine dell'euro porterebbe ad ogni contribuente tedesco un costo otto-dieci volte più alto del salvataggio di Grecia, Irlanda e Portogallo insieme, perché questi al massimo comportano un onere di mille euro a testa una tantum. Se invece fosse solo la Grecia a tornare alla dracma, ogni contribuente tedesco pagherebbe tra i 9.500 e gli 11.500 euro il primo anno e 3-4 mila euro negli anni successivi. Come dire: il 20-25% del suo prodotto lordo.

Corriere 10.5.12
Il giallista Markaris: «Hanno imposto l'austerity senza offrire un futuro»
di Davide Frattini


ATENE — L'assassino uccide i grandi evasori fiscali con una iniezione di cicuta, lo stesso veleno che ha ammazzato Socrate. Nella Grecia immiserita dai cinque anni di recessione l'Esattore nazionale è considerato un eroe da acclamare come eroi da votare sono diventati i neonazisti di Alba d'oro, bodyguard squadristi che accompagnano le vecchiette al bancomat.
L'occhio rovinato di Petros Markaris si contorce ancora di più mentre dice «questo Paese non ha mai avuto un partito fascista dal 1974, quand'è caduta la dittatura. Se adesso è entrato in parlamento, è colpa dei socialisti di Pasok e dei conservatori di Nuova Democrazia: hanno visto il problema degli immigrati illegali crescere e hanno guardato dall'altra parte». Racconta di un amico della sorella, medico, che vive fuori Atene. «È venuto in città per controllare un suo appartamento e ci ha trovato trenta clandestini. La polizia gli ha risposto che non poteva cacciarli, così si è rivolto ad Alba d'oro, hanno mandato i loro militanti e dopo tre giorni la casa era vuota, gliel'hanno anche pulita. Quando lo Stato sparisce, lascia spazio a questi estremisti».
Lo scrittore è amareggiato quanto il suo commissario Kostas Charitos. Che nella trilogia della crisi si ritrova prima a dar la caccia a un killer di banchieri (Prestiti scaduti) e nel nuovo Condono tombale — in uscita a giugno da Bompiani — deve fermare il popolare terminator di frodatori del fisco. «Ho scelto la cicuta perché nel libro c'è un continuo parallelo con la Grecia antica. Allora sapevamo come elargire le punizioni, adesso tutto è permesso. Il denaro distribuito per decenni ha corrotto la società».
Germanista e traduttore di Bertolt Brecht, ha scelto come epigrafe di Prestiti Scaduti la frase del drammaturgo tedesco «che cosa è una rapina in banca, paragonata alla fondazione di una banca?». In questi giorni la sinistra radicale, che ha conquistato il secondo posto alle elezioni di domenica scorsa, vagheggia la nazionalizzazione degli istituti. «Non hanno rispettato la prima regola di Konstantinos Karamanlis, il fondatore di Nuova Democrazia: in politica ci sono molte cose che dici e poi non fai e molte che fai senza dirlo. Se annunci la mossa, chi ne ha la possibilità porterà i soldi all'estero. Il punto è costringere i milionari con i capitali in Svizzera a pagare le tasse».
Aveva previsto che il voto avrebbe generato instabilità. «Era troppo presto, bisognava lasciare lavorare il premier Lucas Papademos almeno fino alla primavera del 2013, come state facendo voi con Mario Monti. Il Pasok è stato il più punito perché ha commesso l'errore di accettare misure economiche che hanno distrutto il suo elettorato, quella piccola e media impresa che Andreas Papandreou aveva sempre protetto».
Nato a Istanbul nel 1937, il romanziere è arrivato ad Atene negli anni Sessanta quando — ha scritto sul tedesco Die Zeit — «mi trovai di fronte a uno spettacolo curioso e insolito: case a un piano, costruite in quartieri operai e piccolo borghesi, dai cui tetti spuntavano ancora le sbarre di ferro del cemento armato. Quelle sbarre avevano un aspetto orrendo, ma erano una promessa: il sogno di un secondo piano. Il sogno di un appartamento per i figli». Oggi la Grecia non sogna più. «L'errore dell'Unione Europea — spiega — è aver imposto le misure pesantissime di austerità, che erano necessarie, senza offrire una visione per il futuro. Questo Paese è sempre stato molto povero e molto decente. Con l'ingresso nella Comunità economica del 1981 sono cominciati a piovere i soldi e i greci non hanno capito che stavano vivendo una ricchezza virtuale. Se un malato che si nutre per endovena, tutto a un tratto si abbuffa, non può che morirne. I vecchi che hanno conosciuto la miseria sanno come affrontarla, i giovani stanno perdendo la testa».
I giovani sono uno dei quattro gruppi in cui la crisi — argomenta — ha frammentato la società. È il «partito dei senza futuro». Gli altri sono i «profittatori» (le imprese che si sono avvantaggiate del sistema clientelare), gli «onesti o martiri» (quelli che pagano le tasse) e il «Moloch», la struttura statale: gli impiegati e i funzionari pubblici, i sindacalisti. «Per riuscire a salvarci è necessario che due di queste categorie si trasformino. Per il Moloch è inevitabile, perché sono finiti i soldi. Per i profittatori è più complicato: il Moloch deve mettersi a far bene il suo lavoro».

il Fatto 10.5.12
Il governo tre stellette. Israele va alla guerra
I generali e il raid anti-atomico sull’Iran
di Giampiero Gramaglia


Un governissimo farcito di generali (ben 3), un governo di solidarietà nazionale, che mette insieme partiti, come Likud e Kadima, che fino a ieri si guardavano in cagnesco. La scelta del premier israeliano Benjamin Netanyahu suscita interrogativi in Europa e in America e desta allarme in Medio Oriente. Chi non ha dubbi sono i dirigenti del jihad islamico palestinese: il nuovo governo israeliano è stato formato “in vista di una nuova offensiva militare su Gaza”, scrivono in una nota. Il nuovo esecutivo di unità nazionale è - osservano - “un governo composto da numerosi militari che hanno commesso crimini di guerra contro i palestinesi”. Per altri, invece, nel Golfo, ma pure in Europa e negli Usa, governo più solido è uguale a governo più libero di colpire l'Iran: un'azione preventiva destinata a distruggere gli impianti nucleari iraniani e a cancellare l'incubo d'una atomica integralista. Lo strike sarebbe, inoltre, un modo, per Netanyahu, di creare un grattacapo al presidente Usa Obama, che con il premier israeliano ha rapporti quantomeno freddi. E c’è già chi ipotizza che l'attacco all’Iran possa essere la sorpresa d’ottobre di Usa 2012, cioé l'evento in grado di cambiare corso alla campagna.
Piani da dottor Stranamore, forse. E chi li avalla con la densità di generali nell'équipe di Netanyahu ignora, o sottovaluta, che i generali in politica e al potere sono una tradizione israeliana consolidata, da Moshe Dayan ad Ariel Sharon.
Il governo Netanyahu allargato è una coalizione di 7 partiti, con 94 seggi su 120 alla Knesseth: 27 del Likud del premier, 15 della destra radicale, 5 degli ortodossi ashkenaziti, 11 degli ortodossi sefarditi, 3 dei nazional-religiosi, 5 della lista dell'ex premier ed ex generale Ehud Barak; a questi si aggiungono, dopo l'accordo con Shaul Mofaz, i 28 di Kadima, il partito centrista. La nuova coalizione permette d'evitare la trappola di elezioni politiche anticipate. Ma questo non basta a giustificare la mossa, per gli islamici palestinesi “Israele vive da tempo in stato d’allerta in vista di nuove guerre e dopo le rivoluzioni arabe non si sente più al sicuro”. analisi di parte, ma documentata: se diverse unità sarebbero state richiamate e dispiegate lungo il confine con l’Egitto, il pericolo percepito più acuto è l’Iran verso cui intenderebbe compiere un attacco preventivo; e pure il sud del Libano e Gaza sarebbero “prossimi obiettivi”.
MILITARMENTE, l'ipotesi d'attacco all'Iran non è campata in aria. Israele ha la possibilità di lanciare varie ondate di attacco simultaneo di 3 pacchetti di 18 velivoli ciascuno, per un totale quindi di 54 velivoli per ogni operazione. Il limite è dato non dai mezzi di attacco, ma dalle capacità autonome di rifornimento in volo.
Per distruggere siti protetti o sotterranei Israele già disporrebbe di una sufficiente quantità di armamento convenzionale di precisione, fornito in parte dagli Usa. Potrebbero esserci in inventario bombe pesanti da 5.000 libbre, ad alta penetrazione - del tipo già usato in Afghanistan contro le caverne di Tora Bora e in Libia per i bunker di Gheddafi - e altro armamento sganciabile da alta quota a distanza di oltre 50 miglia dall’obiettivo, fuori dal raggio delle difese, capace di una precisione inferiore ai 2 metri.
Con la chiusura dello spazio aereo turco - attualmente scontata - l’operazione sarebbe più complessa, ma resterebbe fattibile.

l’Unità 10.5.12
«Un partito laico per salvare l’Egitto»
di Umberto De Giovannangeli


Mohamed El Baradei: «Chiunque sarà eletto tra due settimane sarà un presidente dimezzato
I militari vogliono azzerare la rivoluzione. Io invece riparto dalla Costituzione»

La sua rinuncia alle presidenziali è l’inizio di una nuova sfida: quella di far vivere lo spirito di Piazza Tahrir in una forza politica che «sappia unire tutte quelle energie che hanno realizzato la primavera egiziana: quella primavera che da più parti si vorrebbe cancellare». A parlare, in questa intervista esclusiva a l’Unità, è l’ex Direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e premio Nobel per la pace egiziano, Mohamed El Baradei. A l’Unità, el Baradei spiega le ragioni che l’hanno spinto a fondato un nuovo partito politico, con l’intenzione, rimarca con forza, di «unire il popolo e salvare la rivoluzione e i suoi valori», che rischiano di essere travolti da una transizione democratica in corso segnata da profonde contraddizioni e da non meno inquietanti insidie.
Il suo nuovo Partito della Costituzione segna il ritorno in politica del premio Nobel, che a gennaio aveva annunciato che non si sarebbe candidato alla presidenza del Paese. Aveva infatti dichiarato che era impossibile le elezioni fossero giuste e corrette, in un periodo di transizione così problematico. «Speriamo con questo partito di ricominciare da capo», ribadisce a due settimane dal voto presidenziale: «Chiunque sarà eletto – avverte El Baradei – sarà un presidente “dimezzato” nei suoi poteri effettivi, e condizionato dal patto di potere che, al di là delle dichiarazioni di facciata, unisce i vertici militari e i Fratelli musulmani». La nascita del partito sembra voler controbilanciare l’ascesa degli islamisti, che hanno prevalso su liberali e sinistra nelle prime elezioni parlamentari dalla caduta di Mubarak. Al suo fianco, in questa nuova sfida politica, el Baradei avrà il noto scrittore Alaa el Aswany. «Lo abbiamo creato (il Partito della Costituzione) per unificare i ranghi e realizzare gli obiettivi della rivoluzione e non per piangere sul latte versato».
Partiamo dalla sua nuova avventura politica. Qual è la motivazione di fondo che l’ha spinta a dar vita al Partito della Costituzione?
«L’obiettivo di questo partito è salvare la rivoluzione del 25 gennaio, che viene svilita ed è quasi stata portata al fallimento, e ristabilire la nostra unità. Quando questa rivoluzione è iniziata non avremmo mai immaginato la situazione in cui ci troviamo oggi e la tragica transizione che stiamo vivendo. Speriamo attraverso questo partito di ricominciare e di costruire il Paese sulla base della democrazia e della giustizia. È giunto il momento di dare inizio a un processo politico globale per raggiungere gli obiettivi della rivoluzione: una rivoluzione su cui la maggioranza del popolo egiziano ha iniziato a lavorare, per vivere in libertà in questo Paese, in modo indipendente e con dignità».
Tra due settimane, gli egiziani sono chiamati a eleggere il nuovo presidente, il primo dell’era post-Mubarak. A gennaio, quando annunciò la decisioni di non candidarsi, lei affermò che la sua coscienza gli impediva di partecipare alla corsa per le presidenziali, «perché resta la sensazione che l’ancien regime non sia finito e che la rivoluzione non ci sia mai stata». È sempre di questo avviso?
«Sì, e gli avvenimenti di questi mesi rafforzano la mia convinzione. Il prossimo presidente, chiunque sarà, avrà prerogative monche. Prima di andare alle urne, era necessario riscrivere una nuova carta costituzionale. Così non è stato, e per una precisa volontà politica che accomuna i vertici militari e la dirigenza dei Fratelli musulmani. Vorrei ricordare che a carta del 1954 fu scritta dai padri della nazione in 18 mesi...».
Oggi, invece?
«A metà aprile, mentre ora la giunta militare ha chiesto che la scrittura della Costituzione della rivoluzione avvenisse in un mese. Era evidente a tutti che ciò era impossibile».
Le scorse settimane sono state segnate da scontri sanguinosi che hanno provocato decine di morti. Lei ha avuto parole durissime nei confronti della giunta militare. «Ho sostenuto allora e lo confermo oggi che gli egiziani hanno sacrificato le loro vite per la libertà e la dignità, non per l’autoritarismo militare o religioso, non per la tirannia di una maggioranza. Quando questa rivoluzione è iniziata, non avremmo mai immaginato la situazione in cui ci troviamo oggi e la tragica transizione che stiamo vivendo. Quanto al massacro di piazza Abbasseya (negli scontri tra manifestanti salafiti e le forze di sicurezza schierate a presidio del ministero della Difesa i morti sono stati trenta, oltre cento i feriti, ndr), delle due, l’una: o governo e militari non sono capaci di proteggere i cittadini, o sono in combutta con i piccoli criminali che hanno attaccato i dimostranti. La giunta militare ha praticato una politica di sicurez-
za repressiva segnata da violenza, provocazione e assassinii, processi di rivoluzionari davanti ai tribunali militari invece di punire chi ha ucciso i loro compagni. Ai generali al potere dico: avete fallito. Andatevene. L’Egitto sta andando in frantumi nelle vostre mani».
C’è chi sostiene che la sua decisione di tornare in campo e fondare il Partito della Costituzione sia venuta troppo tardi.
«Non sono di questo avviso. Avrei voluto, e per questo mi sono battuto, una Costituzione ed elezioni autentiche ed oneste in un contesto ben preparato ma tutto questo non è avvenuto. La fondazione del partito è stata resa necessaria di fronte a una transizione assurda, alla la mancanza di sicurezza, a un Parlamento e un presidente che non conoscono il loro mandato, a processi militari che continuano e a una informazione ufficiale supina. Lavoreremo per salvare l’Egitto dalla bassezza culturale e sociale nella quale si trova e per avere una rinascita. Non aspettatevi risultati oggi o domani, ma fra uno o due anni quando il partito sarà maggioritario. Un partito laico che rispetterà tutte le religioni per uscire dall’oscurità verso la luce».
Tra i candidati alla presidenza, c’è qualcuno che considera più affidabile?
«Ciò che non ritengo affidabile è il potere, monco, che la “dichiarazione costituzionale”, voluta dalla giunta militare consegna al presidente. Per il resto, non partecipo al gioco del male minore tra i candidati in lizza. Quel voto non rispecchierà comunque le speranze e le aspettative della rivoluzione».

Corriere 10.5.12
Pechino, ipotesi rinvio per il congresso del Partito
di Marco Del Corona


PECHINO — A tre mesi dall'esplosione del caso Bo Xilai, dopo il ramificarsi degli intrighi di potere e denaro (e sangue), in Cina nulla è più come prima. Gli equilibri dentro il Partito hanno subìto scosse evidenti anche alla stessa opinione pubblica. Prende così consistenza l'ipotesi di un rinvio dell'assise che dovrà sancire il ricambio quasi completo della leadership della seconda economia del mondo. Previsto in autunno, in prossimità della festa nazionale del 1° ottobre, il congresso potrebbe celebrarsi più avanti, fra novembre e, addirittura, gennaio. Mancano tanti tasselli politici da sistemare, troppi. La caduta di Bo — segretario a Chongqing, testimonial della «sinistra» autocandidatosi a entrare fra i nove membri del comitato permanente del Politburo — ha rimescolato le carte. Anche il suo mentore tra i nove, l'uomo degli apparati di sicurezza Zhou Yongkang, è dato per vacillante, anche se non sarebbe rientrato nell'assetto futuro per motivi di età. Vanno trovati nuovi equilibri sia intorno al punto fermo, il futuro segretario del Partito (e capo di Stato, e capo della commissione militare) Xi Jinping, sia intorno al quasi certo premier, Li Keqiang. Il tempo per setacciare il Partito a ogni livello non è molto. Un ruolo, poi, lo giocherà anche la congiuntura economica.
Per la Cina, la cui previsione di crescita era stata abbassata dal premier uscente Wen Jiabao al 7,5%, il rinvio del congresso — che ha alcuni precedenti — rischia di appannare l'immagine già compromessa di una transizione di potere morbida. Proprio nelle stesse settimane delle presidenziali americane e con conseguenze non prevedibili. L'agenzia Reuters, che ha raccolto le ultime indiscrezioni, ricorda anche il dibattito sull'entità del comitato permanente del Politburo, sancta sanctorum del potere. Gli uomini del segretario Hu Jintao lo vorrebbero portare a 7 membri, limitando così i rischi di disaccordo, ma esiste pure l'opzione a 11. Il vantaggio del ritardo sarebbe anche un più spedito passaggio di poteri: le cariche governative e istituzionali (non quelle di Partito) devono essere ratificate in marzo, con la sessione annuale del Parlamento.
Segnali delle manovre in corso arrivano dalla periferia, dove sono cominciate le elezioni per i delegati al congresso. In Guangdong, provincia culla del boom cinese, ci sono 13 posti per 14 candidati: se non democrazia, almeno concorrenza. Il segretario rampante Wang Yang, che aveva concepito un Pil che contasse la felicità, dichiara che la soddisfazione della popolazione non è un regalo del Partito o del governo e che occorre sapersi accontentare, senza dannarsi per il profitto. Prove di dialettica, la rincorsa al Politburo è uno sport pericoloso.

Sette del Corriere 10.5.12
Gramsci
Comunista e non violento
di Guido Liguori, presidente della International Gramsci Society

qui


Corriere 10.5.12
Quella spirale della disperazione che si può spezzare
Vivere con disponibilità e sensibilità il dolore degli altri come se si trattasse del nostro
di Silvia Vegetti Finzi


Ormai non passa giorno senza che si accresca la tragica contabilità dei suicidi, gesti estremi, attuati per lo più da uomini di mezza età, padri di famiglia forti sino a ieri del lavoro e del ruolo sociale che si erano faticosamente conquistati. Certo i suicidi sono sempre esistiti e, accettati o meno dalla società e dalla cultura, fanno parte delle possibilità umane, dei rischi del vivere. Ma ciò che li differenzia dal passato e li accomuna tra di loro è il rinvio a una medesima causa: la crisi economica che stiamo attraversando.
Ma possiamo fermarci a questa spiegazione? Nelle insondabili vicende personali le generalizzazioni, sempre inaccettabili, ci richiamano all'opportunità del silenzio. Vi è tuttavia nell'angoscia che desta ogni morte volontaria, un appello alla comprensione e alla condivisione del dolore che non può essere ignorato. Chi si toglie la vita non lo fa mai per un'unica motivazione, anche quando una sola sembra capace di dar senso alla morte, di restituirle significato, di renderla comprensibile e comunicabile. Le radici dell'autolesionismo affondano nel passato ma è il futuro, il collasso del futuro, che provoca la disperazione estrema, quella che non trova parole per dirsi perché tutte le relazioni sembrano ormai spezzate. Il crollo della speranza, la linfa vitale della nostra vita, risulta indotto da un senso di inadeguatezza, di impossibilità, di impotenza e di colpa rispetto al quale non resta che cedere, dissolversi, sparire. Questi suicidi sembrano dire: «Pensavo di essere capace, di farcela. Ora non lo sono più, non lo sarò mai più». Abituati a contare su se stessi, uomini che si ritenevano forti, cedono alla vergogna e alla colpa rivolgendo sul proprio corpo il risentimento che provano per una società ingiusta, per un destino avverso, diventando così, al tempo stesso, vittime e carnefici di se stessi. Incapaci di elaborare ulteriori strategie di soluzione, si ritrovano soli dinnanzi allo specchio nero della depressione.
Stranamente in questi frangenti le donne, benché particolarmente provate dalle difficoltà economiche, si mostrano meno indotte al suicidio, forse perché più attente alle relazioni personali rispetto a quelle sociali, più capaci di far risuonare dentro di sé le corde del dolore, di procrastinare le soluzioni, di vivere l'attesa e di chiedere aiuto e conforto. Gli uomini invece, e in questi casi in particolare, sono educati all'autonomia, all'indipendenza, a contare su di sé, sulle proprie forze, a risolvere i problemi decidendo il «da farsi» e a superare le difficoltà agendo. Nell'epoca in cui la gravità della crisi ha reso necessario un «governo tecnico» non vi è posto per la riflessione esistenziale, per il dialogo e l'ascolto; tutto sembra esprimibile in cifre e risolvibile con decisioni appropriate e competenti. Argomenti inesauribili come la vita, il tempo, la felicità e il destino vengono considerati «fuori tema», estranei al cantiere dei lavori in corso. Ma l'emergenza, oltre che economica, è esistenziale.
La priorità dello «sviluppo» c'induce a eludere il riconoscimento della dipendenza reciproca, l'accettazione della fragilità e della debolezza, l'inesorabilità della fine. Nella nostra società la morte, messa al bando, diventa una questione personale, inopportuna e imbarazzante, da affrontare da soli, in luoghi marginali, nell'indifferenza generale. Eppure in questi momenti i suicidi «fanno notizia»: enfatizzati e diffusi dai mass-media, tendono a essere eroicizzati, emulati, diffusi per una sorta di contagio psichico, di epidemia da suggestione. Di fronte al pericolo che dilaghino, propagandosi anche tra i giovani, particolarmente esposti al fascino della morte, dobbiamo cercare di prevenirli anche cogliendone in tempo le prime manifestazioni, decifrando i sintomi, vivendo con sensibilità e disponibilità il dolore dell'altro come se fosse il nostro, condividendo gli orizzonti comuni verso i quali procedono le nostre esili vite. In questo senso, una immagine di speranza mi sembra rappresentata da un suicidio sventato, quello narrato ieri da Silvia Avallone. Il corpo della figlia che sostiene quello del padre sottraendolo così alla morte per impiccagione, simbolizza, in un'aura d'iconografia antica, il passaggio generazionale di responsabilità e di cura che può infrangere la spirale mortale della disperazione.

Repubblica 10.5.12
Il peso della rinuncia
Morte e politica. Non c'è solo il terrorismo omicida - che pure torna a colpire

Oggi tiene la scena l’anomia estrema del suicidio
di Carlo Galli


ULTIMO - drammatico, sconvolgente - quello di Maurizio Cevenini, il popolarissimo ex candidato sindaco del Pd a Bologna, che in seguito a un malore si ritirò dalla competizione elettorale cedendo il posto con grande lealtà a Virginio Merola, che poi vinse le elezioni ed è oggi il sindaco del capoluogo emiliano, di una città attonita e profondamente scossa e addolorata, veramente (e non solo ufficialmente) a lutto.
Le motivazioni di un atto simile sono sepolte negli abissi dell´anima, e non è possibile né pietoso indagare in questa direzione privatissima. Ma quello del Cev - questo era il suo soprannome - è anche un suicidio "politico" in senso lato. Intendiamoci: non è verosimile pensare a un atto di protesta contro la politica, contro un partito che lo avrebbe sacrificato, o fatto desistere dalla corsa a sindaco. Quando Cevenini lasciò, anzi, fu un brutto colpo per il Pd bolognese, che vi vedeva un vincitore sicurissimo. La politicità di questa morte - segnalata anche dal luogo del suicidio, l´assemblea regionale emiliana - sta altrove.
Sta in un´ansia non appagata, in un´ambizione generosa di servizio alla collettività che non ha potuto trovare soddisfazione; dunque, in un´idea alta di politica, un´idea assorbente e motivante. E al tempo stesso un´idea non fanatica, ferma ma non estremista: quella di Cevenini era una politica mite, dialogante, solare, gioiosa. Certo non la politica dello scontro, dell´urlo, dell´avidità, della faccenderia, del cinismo. Quando quest´idea si è rivelata inattingibile - quando il politico si è trovato senza politica - l´uomo si è sentito inutile; non potendosi esprimere come sindaco si è depresso, e non si è più ripreso. E forse il dolore per questa percezione di emarginazione si è acuito proprio nella fase elettorale di questi giorni, davanti alla lotta di altri, all´entusiasmo di altri, alle vittorie altrui. Un mondo politico che era per lui un mondo di vita, di dialogo, di solidarietà, di partecipazione, e anche di affettività, da cui si è sentito tagliato fuori, escluso per sempre. Oppure, chissà, Cevenini si è sentito escluso dalla politica in un senso più radicale e generale: si è sentito fuori posto nella brutta politica di questi giorni, nella tristezza di un´Italia senza bussola, alle prese con una crisi feroce, che ha mortalmente aggravato la sua tristezza.
Quindi, non è solo l´eccesso di politica a portare la morte - secondo uno schema classico, ben noto e collaudato -; non solo dalla violenza del "politico" è minacciata la vita, ma anche dalla mancanza di politica. Morire di politica, per la sua lontananza struggente, o per l´improvvisa estraneità rispetto a essa; per il massimo di inutilità, attribuita a se stessi, o per il massimo di disperazione rispetto all´ideale di una vita. Un po´ come morire per amore; come annullarsi per una delusione; o come smettere di credere nell´amore, per disperazione.
Non c´è, in nessuna di queste ipotesi, la politica-Moloch che chiede sacrifici umani; né siamo di fronte al partito-mostro che dispone a piacimento della vita dei suoi militanti; e non c´è neppure una generica tragedia dell´indifferenza (altrui) e della solitudine (propria). C´è semmai una dimostrazione - estrema, quasi per assurdo - che l´uomo è animale politico, che senza il legame sociale, senza la proiezione verso gli altri, senza la dimensione della relazione, senza potersi e sapersi far carico di un destino condiviso, gli esseri umani sono deprivati di una loro componente fondamentale. In alcuni - più sensibili, più dedicati - questa percezione è vitale; e la sua mancanza è mortale. In alcuni - in coloro per cui la politica è vita - il sentirsi fuori della politica, incapaci di politica, respinti dalla politica, genera una radicale perdita di motivazioni, un chiamarsi fuori definitivo.
La mancanza di politica può prendere l´aspetto di un amore non corrisposto, di una passione inappagata, della fine di un´illusione, ma anche di una mortale trascuratezza. Si muore anche di noncuranza della politica, di inefficienza della politica. I suicidi "sociali" dell´Italia in crisi non sono colpa diretta di questo o di quel governo, certamente. Eppure, sono il segno che il tessuto del Paese - non solo quello economico ma quello civile, quello del destino comune, dell´orizzonte condiviso, della politica nel senso pieno, originario - si lacera ogni giorno un po´; che le persone in difficoltà non si sentono, perché di fatto non sono, inserite in un contesto di senso; che ciascuno è solo con la propria disgrazia. Che la politica - che dovrebbe essere lo spazio in cui una società prende coscienza di sé, e si dà consapevolmente dei fini collettivi - è venuta meno, ha trascurato il proprio fine umano, umanistico. E, ancora una volta, chi è caduto fuori sempre più spesso si chiama fuori definitivamente.
Fuori dalla politica c´è cattiva vita. A volte c´è la morte. Che almeno a capire questo servano - se a qualcosa serve la morte - i troppi suicidi dell´Italia fragile e disorientata d´oggi. A ricordare a tutti che la politica può anche essere un amore, una risorsa umana, una rete di solidarietà, un orizzonte di civiltà. Che è un bisogno primario dell´uomo, che non può restare a lungo inappagato. Che la salvezza dei singoli e della società non sta nell´antipolitica ma, ancora una volta, nella politica.

Corriere 10.5.12
Montepaschi
I misteri e gli intrighi della cassaforte più antica del mondo
di Fabrizio Massaro


MILANO — Fino a poche settimane fa a Siena si ragionava come un proprietario d'altri tempi: avere sempre e comunque la metà più un'azione del Monte dei Paschi, la banca più antica del mondo, fondata nel 1472 e da allora simbioticamente legata alla città. La città la possiede ma al contempo ne è posseduta, visto che l'economia cittadina ruota in gran parte attorno al Montepaschi e all'omonima Fondazione, che ha spalmato sul territorio i grassi dividendi elargiti dall'istituto: in 15 anni, Palazzo Sansedoni ha distribuito 1,9 miliardi, pari al 2% del Pil provinciale annuo, finanziando progetti che a elencarli tutti si riempiono 213 pagine di bilancio. Il legame con la banca è talmente forte che per statuto il presidente di Mps deve essere scelto tra i residenti nella provincia. Ma adesso tutto questo non c'è più. I soldi sono finiti. E le liti sono cominciate.
Da gennaio a oggi i cambiamenti sono stati enormi, e per nulla indolori. La Fondazione, indebitata per oltre 1 miliardo, ha dovuto rinunciare al totem del 51% e oggi ha in mano poco più di un terzo dell'istituto. Nel 2007 aveva un patrimonio di 5,4 miliardi; oggi ha praticamente solo le azioni Mps — valore 1 miliardo — e 350 milioni di debiti residui: fanno più di quattro miliardi andati in fumo in meno di cinque anni. In banca, usciti di scena i senesi Giuseppe Mussari e Antonio Vigni, sono arrivati i «forestieri» Alessandro Profumo e Fabrizio Viola. Mps soffre per la crisi economica e per le scelte dei suoi manager, come l'essersi esposta per decine di miliardi ai titoli di Stato italiani, oggi fortemente penalizzati. Ma soprattutto si trova al centro di uno scontro politico senza precedenti a Siena, dove ancora valgono sigle ufficialmente scomparse dalla geografia politica nazionale come la Margherita e i Ds: la prima, rappresentata da Gabriello Mancini, presidente della Fondazione, e dai fratelli Alberto e Alfredo Monaci, importanti nomi di quella che fu la Dc confluita nella Margherita; il secondo, rappresentato dal sindaco Franco Ceccuzzi, ex deputato Ds, e dal presidente della Provincia Simone Bezzini.
Per anni a Siena ha governato quel «groviglio armonioso» teorizzato da Stefano Bisi, cronista cittadino e Maestro venerabile, costituito da legami bipartisan, massoneria e vincoli familiari e d'amicizia. Ma era un groviglio retto sulla ricchezza e sul potere garantito dalla banca. Adesso che quel meccanismo si è inceppato — come ha raccontato domenica scorsa la trasmissione di Raitre Report — le responsabilità si rimpallano da una parte all'altra: Ceccuzzi accusa Mancini di aver dissipato il patrimonio della Fondazione indebitandosi oltre misura? Mancini sostiene di aver applicato le direttive del Comune; il sindaco vuole chiudere subito la partita dei debiti vendendo tutto il vendibile? Mancini prova a frenare, sondando anche soluzioni alternative come un'alleanza con la Equinox di Salvatore Mancuso; il Pd «area Ds» propone Profumo come presidente al posto di Giuseppe Mussari? Il Pd «area Margherita» rilancia con Divo Gronchi. Alla fine passa la soluzione Profumo, molto vicino alla prima linea del Partito democratico? Lo stesso giorno dell'insediamento del board, in consiglio comunale 6 consiglieri pd ex Margherita votano contro il bilancio, per la mancanza di 6 milioni non erogati dalla Fondazione. E per molti quel voto non è solo una coincidenza.
Succede, quando i tempi delle vacche grasse finiscono. E a farli finire è stata la scelta strategica compiuta nel 2007 dall'uomo che per un decennio è stato il dominus di Mps: Giuseppe Mussari, prima alla guida della Fondazione, poi dal 2005 a pochi giorni fa alla presidenza della banca, e ancora oggi al vertice dell'Abi. Fu Mussari — sostenuto dalla Fondazione e dalla politica cittadina — a realizzare l'8 novembre di quell'anno il blitz che fece conquistare a Rocca Salimbeni la padovana Antonveneta. Una conquista a sorpresa, e a prezzo carissimo: 9 miliardi, in contanti e senza alcuna verifica preliminare sui conti (due diligence). Ad Antonveneta il Monte guardava da tempo, e l'ex popolare — dopo la fallita scalata di Gianpiero Fiorani — era considerata la preda per eccellenza. Tanto che in pochi mesi venne comprata tre volte: dall'olandese Abn Amro per 5,7 miliardi, poi dal Santander per 6,6 miliardi; e fu proprio il colosso spagnolo di don Emilio Botin a rivendere la banca a Mussari, appena due mesi dopo averla rilevata, guadagnandoci 2,4 miliardi. L'indomani dell'annuncio Mps, che in borsa valeva 10 miliardi, ne perse subito 1, perché il prezzo venne considerato eccessivo per un istituto regionale come il Monte che pure legittimamente aspirava a diventare la terza banca italiana. Da allora Mps ha dovuto chiedere per ben due volte soldi freschi agli azionisti: 6 miliardi nel 2008 (5 di aumento di capitale e 1 di un bond convertibile «fresh» ora sotto esame della magistratura), altri 2,1 miliardi nel 2011. Per restare al 51% Palazzo Sansedoni ha cominciato a vendere ciò che possedeva oltre al Monte, poi si è indebitata. Con la crisi, la banca s'è fermata. Il polmone della Fondazione pure. E a Siena è scoppiata la guerra per le spoglie.

Repubblica 10.5.12
Mamme a diciassette anni, boom dei genitori-ragazzi
Boom delle adolescenti che fanno figli: sono 11mila all’anno
di Maria Novella De Luca


Scuola, biberon e sogni infranti "Noi, baby-mamme per amore"
Molte hanno origini straniere. Su Babel tv il docu-reality "Piccole mamme crescono"

A sua figlia Joanne ha messo un nome bellissimo: Anika. Joanne ha 18 anni e Anika due, mentre Niko, il padre, di anni ne ha 17. A vederli insieme li diresti adolescenti come tutti gli altri Joanne e Niko, jeans, felpa, cellulare, se non fosse per lo sguardo con cui si guardano e sorridono ad Anika, mentre alle 7 camminano veloci con il passeggino verso il nido.
E lasciata Anika corrono a prendere l´autobus, perché la scuola inizia alle 8.10, ed è meglio non perdere la prima ora. Cinisello Balsamo, Milano. È qui, tra le case popolari della cintura milanese, che inizia la storia, anzi la cronaca di questi due giovanissimi amanti, diventati improvvisamente genitori, e oggi in bilico tra una vita da ragazzi e una vita da adulti. Joanne è un´italiana 2G, seconda generazione, arrivata qui dalle Filippine poco più che bambina, ed è una delle 11mila adolescenti che ogni anno diventano mamme tra i 15 e i 17 anni, con un fenomeno che cresce, entra nelle scuole, negli ospedali. Il 2,1% di tutte le gravidanze in Italia riguarda ragazzine sotto i 18 anni. «Il test l´ho ripetuto due volte, non ci volevo credere - racconta Joanne seduta sul divano del bilocale in cui vive anche con la madre Annalyn e il fratellino di 7 anni - ma Niko ed io abbiamo deciso quasi subito di tenerlo questo bambino. Per settimane però non ho avuto il coraggio di dirlo a mia mamma. Ci ha portato qui con enormi sacrifici, con la speranza che studiassimo. So che ha pianto, tanto. Adesso però, credo, è felice anche lei». Joanne non spiega perché ha scelto di diventare madre. Anika è arrivata e basta. Con l´inconsapevolezza di un gioco. Anche se oggi la vita è tutta un´altra cosa, più dura, difficile, nonostante la risata argentina di Anika.
«Il tempo di studiare ormai c´è soltanto la sera, ma spero di riuscire a prendere il diploma. Mi mancano la solitudine e il silenzio. Finita la scuola andremo via, ottenere la cittadinanza qui è quasi impossibile, forse Singapore, chissà...». Storie di madri-bambine: Joanne, e poi Eyverin che è diventata madre di Ranzel a 15 anni, Giovana, che a 17 anni partorisce Dustin. Angela, di Frattamaggiore, un bambino nato quando aveva soltanto 13 anni e tornata agli studi grazie ad una preside intelligente, Giuseppina Cafasso, che crea una nursery a scuola. Ed è di ieri la storia di B. anche lei 13 anni, che ad Avellino ha dato alla luce Michela, oggi di tre mesi. Gravidanze acerbe di ragazze italiane che si intrecciano con quelle delle "nuove italiane".
Ed è a loro, baby mamme 2G, che è dedicato il docu-reality "Piccole mamme crescono" di "Babel", il canale 141 di Sky, otto puntate che andranno in onda dal 13 maggio ogni domenica alle ore 21. Racconta Beatrice Coletti, autrice del programma: «L´idea è ispirata al rapporto di "Save the children" sulle madri adolescenti. Abbiamo scelto Milano perché qui sono più attivi i servizi sociali, e per dimostrare che la scelta di queste adolescenti non è frutto di condizionamenti "ambientali", ma davvero una scelta individuale. Ragazze che hanno accettato di farsi riprendere nelle loro giornate divise tra la cura dei figli e il tentativo, difficile, di costruirsi un futuro. Per molte di loro, che oggi hanno bimbi di 2 o 3 anni, non è stato facile aprirsi, per pudore, ma anche perché dietro queste gravidanze acerbe ci sono spesso famiglie problematiche».
E se Joanne è saldamente ancorata al suo Niko, in buona parte dei casi i partner-ragazzini mollano e se ne vanno. Eyverin ha soltanto 14 anni quando si innamora di David, a 15 resta incinta, e dopo nove mesi nasce Ranzel, bello e bruno. A differenza di Joanne, Eyverin lascia tutto e si occupa soltanto di Ranzel, lei e il bambino, il bambino e lei…. «Tutti mi consigliavano di abortire, ma non ho voluto, il figlio è mio, lo alleverò io». Oggi Ranzel ha 3 anni e Eyverin fa la "piccola mamma", cucina, gestisce la casa e si occupa anche dei suoi tre fratelli più piccoli. Con David è finita. Eyverin dice che va bene così, eppure si vede che il cerchio domestico in cui si è chiusa ha qualcosa di soffocante, come di sogni abbandonati in un cassetto. Cristina Riva Crugnola, docente di Psicologia, fa parte del gruppo di lavoro dell´ospedale San Paolo di Milano sulle madri adolescenti. «Cerchiamo di responsabilizzare le madri e creare tra loro e il bambino un vero attaccamento. Queste ragazze infatti spesso cercano la gravidanza per darsi un´identità, sperando di ottenere attraverso il figlio un ruolo che non trovano. Accade invece che di fronte alle esigenze di un neonato vadano in crisi, e molte di loro entrano, purtroppo, in depressione».

Repubblica 10.5.12
Arrabbiati
Che cosa succede all´Europa se si spezza la coesione sociale
di Barbara Spinelli


Che cosa ci manca, la cui assenza ci riempie di ansia, paura, rabbia?
Dimostranti indignati si misero a marciare in tutta la città in preda alla rabbia
Purtroppo con la rabbia e con il sogno non fanno né le rivoluzioni né le riforme

Le cifre dei bilanci sono essenziali ma le costituzioni lo sono di più. Questo dice il voto dei popoli ai governanti: le persone vanno incluse nei parametri finanziari

C´è stanchezza per una pratica del rigore che colpisce senza aggiustare. Per un Leviatano che soggioga ma senza riuscire a infondere sicurezza
Le recenti elezioni, in molti paesi del Continente, hanno premiato movimenti anche molto diversi tra loro Ma che hanno un comune denominatore: la protesta

"Disperazione sociale": gli storici della Germania nazista danno questo nome, all´ansia che caratterizzò gli anni 30 e sfociò nel nazismo. Disperazione e rabbia per un collasso economico che travolgeva gli averi e le esistenze degli uomini. Disperazione che non tollerava più i corrotti compromessi della politica. Presentendo tempeste, Nietzsche aveva già parlato di un risentimento che come veleno corrode le scale dei valori. Nel Zarathustra, descrive una speciale forma di stanchezza, «che d´un sol balzo vuol attingere le ultime cose, con salto mortale: una misera ignorante stanchezza, che non vuol più nemmeno volere: essa ha creato tutti gli dèi e i mondi dietro il mondo».
È fatta di questo risentimento, la rabbia che si è fatta strada nelle ultime elezioni in Francia, Grecia, Italia, Germania. C´è questa stanchezza di una politica del rigore che colpisce senza aggiustare, e di un´Europa-Leviatano che soggioga senza dare sicurezza. Non sono tutti antieuropei né antipolitici, i partiti nei quali tanti arrabbiati si riconoscono. Ma tutti mettono in questione l´autorità castigatrice che è divenuta l´Unione europea, l´ossessione contabile che la anima. Tutti denunciano il potere anchilosato (l´impotenza, in realtà) di classi politiche che non hanno occhi né orecchie per capire quel che la crisi sta suscitando nelle società, sotto forma di dolori ma anche di speranze, innovazioni, reinvenzioni. Soprattutto le forze centriste sono sotto accusa, ovunque, perché non sono né calde né fredde ma tiepide, e gli arrabbiati vogliono l´estremo. Sono gli orfani dello scontro svanito fra vecchio e nuovo, reazione e cambiamento, destra e sinistra: tutte categorie che il centrismo, le Terze Vie, hanno gettato a mare. È quando questa contrapposizione manca che con un balzo mortale si anela alle ultime cose.
C´è chi si rifugia nei nazionalismi xenofobi, come in Francia e Grecia. Chi vede la salvezza nella fine dell´Euro. I Pirati, in Germania, cercano di presidiare nella crisi la libertà di un´informazione che aiuti i cittadini a conoscere quel che non sanno, a influire sulla politica non ogni 4-5 anni ma in permanenza. La collera imbocca vie diverse ma una cosa le accomuna: il desiderio di una politica che ridiventi lotta, il rigetto di numeri di bilancio assurti a valori supremi, non negoziabili.
Ci sono stati momenti profetici, nella campagna elettorale francese: momenti di acuta coscienza dei pericoli. Uno di questi s´è avvertito quando il centrista François Bayrou ha detto che avrebbe votato Hollande. È stato un inatteso autoaffondamento del centrismo. Bayrou non condivide praticamente nulla della politica economica di Hollande, ma si è esposto perché – ha detto– ritiene che i princìpi repubblicani e democratici siano più importanti delle cifre economiche. Una cosa simile ha detto il gollista Dominique de Villepin: «La sinistra mi inquieta, ma la destra mi spaventa».
Sono momenti profetici perché rivelatori: dicono lo spavento che ti può afferrare quando princìpi sin qui prioritari vengono retrocessi. Dicono le radici di una collera che è stanca della propria impotenza (speculare a quella del potere costituito) e o fugge non votando più, o urla, o s´inventa nemici come lo straniero, o escogita modi non ortodossi di far politica.
Un´economia più espansiva come quella di Hollande inquieta i mercati o i dogmi tedeschi, ma non sarà mai spaventosa come una democrazia che decade, o un popolo che si erge contro la grande conquista che è stata l´unità degli europei, il loro trionfo su se stessi. Keynes l´aveva detto dopo il ´14-18: il castigo economico umilierà i tedeschi, li precipiterà nel baratro.
Le cifre contabili saranno essenziali, ma le costituzioni democratiche ancora di più. Hollande ha vinto perché ha promesso di salvare le istituzioni, lo Stato sociale, la scuola pubblica, la convivenza con lo straniero, e, se non la società affluente, almeno il riparo dall´ingiustizia sociale. A che serve lo Stato, se non a custodire questi progressi? E l´Europa stessa, che nel dopoguerra spense i nazionalismi e costruì il Welfare contro la disperazione sociale: a che serve se si trasforma in un´enorme funesta Equitalia?
Il voto dei popoli dice questo, ai governanti: c´è bisogno di un´altra politica, che includa le persone nei parametri finanziari. Anche perché se entriamo nella logica dei numeri ne scopriremo di mortiferi: 36 suicidi in Italia dall´inizio del 2012, più di 1750 in Grecia dal 2009. Anche il suicidio causato dalla crisi è sete di estremo.
Ripensare l´Europa non può che partire da questa protesta, tutt´altro che omogenea. La rivolta di Grillo non ha nulla a vedere con la destra di Marine Le Pen. La sinistra radicale in Grecia chiede un´Europa diversa e non vuol uscire dalla moneta unica. I Pirati tedeschi prendono voti a sinistra come a destra, e conducono una battaglia antichissima: la battaglia che emancipa l´uomo dandogli informazione e libertà di giudizio.
Si parla di insolvenza degli Stati, ma esiste anche l´insolvenza della politica: soprattutto di quella moderata, che è stata l´ultima a vedere l´arrivo della crisi e a capirla. La democrazia regge in Francia (mentre è ingovernabile in Italia e Grecia) perché la contrapposizione destra-sinistra è preservata, anche se le linee divisorie mutano col tempo e l´esperienza. Hollande non è andato a caccia di centristi. Ne ha conquistati molti, ma prima si è preoccupato di radunare tutta la sinistra, compresa quella radicale.
Per molti anni, la parola d´ordine in Europa è stata la cultura della stabilità, dell´affidabilità economica. Adesso si tratta di darle una cultura politica: dunque un potere veramente sovrano, un Parlamento veramente europeo, un Tesoro veramente unico. E un´agorà, uno spazio di discussione dove le idee più antagoniste sull´Europa da edificare possano liberamente competere. L´Unione non può sopportare, senza autoaffondarsi, di buttare dalla nave gli Stati deboli, o i partiti e movimenti che chiedono un´Europa differente. Troppo grande e distruttiva è la stanchezza generata dal vuoto di alternative. Troppo spaventosa la collera che ti fa dire, con Rilke: «Alle somme indicibili aggiungi te stesso, e distruggi il numero».

Repubblica 10.5.12
Quando il disagio scende in campo
di Carlo Galli


Un sentimento di frustrazione e di esclusione di angoscia e di inutilità, un rancore che apre a un realismo crudele. Forse permette di comprendere se stessi ma a prezzo del più amaro disincanto

Hostium rabies diruit, la bestiale violenza del nemico ha distrutto. Così si intitolava una serie di francobolli emessi dalla Repubblica Sociale Italiana, per commemorare la rovina di Montecassino, di san Lorenzo, di santa Maria delle Grazie, e di altri monumenti italiani bombardati dagli alleati. In questo caso, "rabbia" ha a che fare con la bestialità e col furore degli "altri", dei barbari, con la loro cieca violenza. La rabbia come l´opposto della civiltà, dunque; come ferinità anti-umana; e si deve supporre, che data la sua inferiorità, sarà la rabbia a essere sconfitta. Il che com´è noto non avvenne: non basta definire "rabbiosa" la potenza contro cui combattiamo per poterla vincere – a parte il fatto che solo la propaganda del fascismo repubblicano poteva fingere di ignorare che le responsabilità della guerra, e delle distruzioni, era dei nazisti prima che degli angloamericani; che cioè la rabbia era assai più interna che esterna, che era appunto quella che a suo tempo Petrarca aveva chiamato "tedesca rabbia" –.
Ma oltre alla rabbia degli altri, esterna – che a ben guardare è anche interna –, c´è anche una rabbia che nasce e si forma nel cuore della civiltà. Ad esempio, quella dei "giovani arrabbiati" inglesi della metà degli anni Cinquanta, che trova il suo manifesto in Ricorda con rabbia, la pièce teatrale scritta nel 1956 da John Osborne. E qui la rabbia è un sentimento di frustrazione e di esclusione, di inutilità e di angoscia; è un rancore che apre a un realismo crudele. Una rabbia che, forse, fa capire qualcosa di sé e del mondo, ma al prezzo del più atroce disincanto.
Ma c´è anche – e soprattutto – una rabbia improduttiva, un risentimento che a lungo consuma internamente l´anima, e che poi esplode in furibonda violenza; la rabbia dei vinti che si ribellano alla sconfitta – ritenuta immeritata – con gesti convulsi, compulsivi, fuori controllo, distruttivi e autodistruttivi; una rabbia impotente, che fa perdere l´umana dignità – che fa andare fuori si sé – senza dare la vittoria. È la rabbia di Capaneo – il re che tentò di conquistare Tebe, e che venne fulminato da Zeus –, che Dante punisce, nell´Inferno, proprio attribuendogli un´eterna rabbia contro Dio.
In diverse dosi e percentuali, la rabbia ha in sé la dismisura, l´estremismo, l´inefficacia. Anche se è la reazione comprensibile a un´ingiustizia patita – e posto, quindi, che non sia una manifestazione di comoda cecità davanti alla proprie responsabilità – la rabbia ha un che di autolesionistico; anche se il soggetto che ne è portatore la rivolge all´esterno, per affermare se stesso, in realtà la rabbia colpisce anche chi la prova, manifestandone l´impotenza. Quando la rabbia assume un volto politico è, di fatto, la rivolta da fame, la jacquerie; esplosione di efferata violenza, senza visione e senza prospettive, che in breve implode su se stessa e si consegna alle atroci punizioni del potere. Oppure è la protesta, la pura espressione di un disagio che si sfoga nel semplice manifestarsi, e che quindi è tanto fragoroso quanto inerte. Nata con potenzialità politiche, la rabbia termina nell´impolitica, nell´inefficacia. È un´energia che si spegne subito in entropia.
La rabbia è quindi diversa dall´ira. Per quanto anche questa sia una passione violenta, e a volte si rivolga contro se stessa, per quanto smisurata possa essere, l´ira non è solo degli iracondi ma è anche degli eroi, dei magnanimi, dei santi, di Cristo contro i mercanti, di Dio nel Giorno del Giudizio, il Dies Irae. Se la rabbia è un´ira che implode, una pretesa di autoaffermazione che è in realtà passiva, l´ira può essere segno anche di sicurezza: si può essere irati rimanendo in sé. Se la rabbia ha torto, anche quando ha qualche ragione, perché è sempre distorta e contorta, l´ira può essere giusta e retta, cioè non solo giustificata nelle cause ma anche indirizzata a un fine adeguato, con un´azione efficace; se l´ira è terribile, la rabbia è sgradevole (esiste l´ira di Dio, non la rabbia di Dio); se la rabbia è la rivolta autodistruttiva, l´ira è la rivoluzione creatrice di un nuovo ordine – o il riformismo rapido, incisivo, operoso –.
Si potrebbe dire che uno dei principali problemi politici in Europa e in Italia, oggi, è decifrare il disagio sociale e civile, nelle sue varie e imponenti manifestazioni, e operare non tanto per spegnere l´energia della rabbia quanto per risparmiarle l´esito impolitico. Per incivilire operosamente il barbaro. Per rovesciare la frustrazione in speranza. Per far sì che chi è fuori di sé rientri in sé, e si metta – anche con la giusta ira – a fare politica.

Repubblica 10.5.12
Carta o digitale
Maschi più hi-tech, donne da libro ecco quel che resta dei lettori
di Simonetta Fiori


Lo studio della Bicocca e dell´editore Blonk traccia un identikit dell´appassionato "elettronico": molto istruito
Aumentano gli acquisti on line arrivando allo 0,9% grazie anche all´aumento di titoli a disposizione sulle piattaforme
Oggi inizia il Salone e due ricerche fotografano le tendenze del mercato e del pubblico. Con il calo delle vendite tradizionali

Sono lettori forti, se non fortissimi. Giovani, ma non troppo. Maschi più che femmine. Livello di alfabetizzazione molto elevato, superlaureati, specializzati o dottori di ricerca. È la prima fotografia – seppure ancora sfocata – del popolo degli e-book. Una ricerca esplorativa condotta dall´Osservatorio Nuovi Media dell´Università Bicocca di Milano su incarico dell´editore Blonk, nuova sigla editoriale orientata sull´online (sarà presentata al Salone domani alle 15). Un´indagine di carattere nazionale che però si fonda su una campionatura relativa. Può servire a tracciare un iniziale identikit, destinato a essere reso più nitido da ulteriori approfondimenti dell´Osservatorio. Il ritratto del lettore digitale si fonda sulle risposte a un questionario diffuso in rete nel mese di aprile, tra siti e forum dedicati alla lettura. E già questa modalità restringe l´indagine a un consumatore particolare, che si muove con disinvoltura tra cartaceo e digitale, senza disdegnare i social network.
Quali i risultati? Prima di illustrare l´esito della mappatura della Bicocca, ci viene incontro un dato diffuso ieri dall´Aie, l´associazione degli editori. Sono gli uomini i più accaniti lettori di e-book (61,5%), mentre alle donne spetta la palma del libro cartaceo. E, per tornare ai dati del sondaggio parziale, la maggior parte dei 266 che hanno risposto alle domande risiede al Nord Italia (68,8 per cento), mentre non arrivano al 6 per cento i lettori del Sud e delle isole. Il campione è composto in prevalenza da giovani, ma non giovanissimi: il 72,8 per cento sono tra i 26 e i 45 anni di età, mente i ragazzi al di sotto di quell´età non superano il 7 per cento. Ancora una conferma che la famigliarità con e-reader, tablet e supporti elettronici non è legata all´anagrafe, ma al livello di alfabetizzazione. Che naturalmente risulta alto. Oltre il 35% ha una laurea quadriennale o quinquennale, come da vecchio ordinamento o da laurea specialistica attuale. E quasi il 17 per cento ha una specializzazione post-laurea o un titolo di dottorato. Inutile aggiungere che chi legge libri digitali legge anche molti libri cartacei, e il consumo degli e-book è considerato complementare e non sostitutivo rispetto alla lettura tradizionale.
Una tendenza che gli autori della ricerca mettono in relazione con il mercato statunitense. Secondo l´indagine "The rise of e-reading" appena pubblicata da Pew Internet & American Life Project, l´88 per cento di coloro che leggono e-book leggono anche libri cartacei. E in media il lettore di e-book tende a leggere un numero di libri cartacei più alto rispetto alla media. E a proposito del consumo italiano: il 10 per cento del campione dichiara di aver letto almeno dieci e-book nell´ultimo anno. E complessivamente, la percentuale di coloro che hanno letto almeno un e-book nell´ultimo anno sfiora il 90 per cento. Ma si tratta – non bisogna dimenticarlo – di un sondaggio parziale.
I dati dell´Aie sulle vendite dell´e-book nel 2011 confermano il rilevante ritardo italiano (solo 0,9 per cento delle vendite), anche se i più ottimisti sottolineano il balzo in avanti rispetto all´anno precedente (740 per cento in più, da un milione e mezzo a 12,6 milioni di euro). Quel che va crescendo, oltre al numero di tablet (1,5 milioni) e di e-reader (400mila) è soprattutto il catalogo digitale degli editori, che ha superato i 31 mila titoli (dati di maggio), mentre un anno fa era a quota undicimila.
Il capitolo più dolente riguarda la pirateria digitale. La massima parte del campione consultato nel sondaggio della Bicocca scarica gratuitamente gli e-book, ma di per sé questa non è un´indicazione di illegalità. Appare però discretamente diffusa la violazione della proprietà intellettuale. E soprattutto colpisce un dato: solo il dieci per cento dei "rispondenti" si dice consapevole del danno procurato ad autore ed editore. Tutti gli altri sono pronti a trovare una giustificazione. Pirati noi? Ma no, anzi, facciamo pubblicità agli scrittori. Pessime conseguenze della "smaterializzazione" del libro.
Non ne sarà sollevato l´umore degli editori, seriamente colpiti dalla crisi. Domani l´Aie renderà pubbliche le vendite dei libri (cartacei) relative al primo trimestre 2012. Intanto la cifra che circola tra gli stand è un calo del trenta per cento rispetto all´analogo trimestre del 2011. Non rimane che confidare nel forte, fortissimo lettore digitale.

Repubblica 10.5.12
Alla ricerca del Mito
L'occhio contemporaneo tra le rovine del passato
di Marino Niola


In Sicilia una grande rassegna allestita negli spazi pubblici di Palermo, Trapani, Lipari e Taormina con statue e pitture di Giò Pomodoro, Jiménez, Pinelli e Montesano
Luoghi palinsesto dove la storia ha assunto la densità di una geologia
È la password archetipica che ci fa leggere il presente in un´altra luce

Il mito torna sempre sui suoi passi. Ma non tutti lo riconoscono a prima vista. Soprattutto in una società come la nostra. Che ha congedato la mitologia confinandola tra le superstizioni, i residui della conoscenza, le rovine del pensiero. E per contro ha fatto della razionalità un dogma, della tecnologia una religione e dell´economia un mantra.
Uno dei più prestigiosi quotidiani del pianeta, il Washington Post, ha ospitato per anni una rubrica intitolata "Five myths". Cinque miti al giorno da sfatare. Sugli argomenti più diversi. La crisi, la salute, le donne, la bellezza, l´amore, l´economia, la religione, l´ecologia, la guerra, la morte, l´ambiente. A fare da comune denominatore è l´idea che il mito sia sempre e comunque un difetto di conoscenza, una falsa credenza, un´opinione infondata. Insomma un default della ragione. Ma se è vero che il mito è solo un´opacità della mente, una fuga dalla realtà, viene da chiedersi perché, da che mondo è mondo, nessuna società riesca a farne a meno. Compreso l´Occidente che ha addirittura inventato delle vere e proprie industrie del mito come le arti, il cinema, la televisione, lo sport, la moda, la pubblicità. Capaci di far cortocircuitare reale e immaginario, sostanza e apparenza. Il fatto è che mitologia e razionalità sono due metà inseparabili del pensiero, due modi complementari di interrogarsi sul mondo e sulla vita. Se la conoscenza scientifica serve a spiegare la realtà, a illuminarla con la sua chiarezza geometrica, il mito aiuta a orientarsi nei labirinti misteriosi dell´animo umano. Raggiunge la mente passando per il cuore, le emozioni, le passioni. Anche perché prende corpo in simboli esemplari che parlano al di là delle parole, e spesso a nostra insaputa. Come dice Claude Lévi-Strauss, il più grande antropologo di sempre, non siamo noi a pensare i miti, ma sono i miti a pensarsi in noi. Dando voce a quel lato nascosto della vita che altrimenti non arriverebbe a mostrarsi. Figure come Edipo, Medea, Elettra, il Minotauro sono dunque un poetico effetto notte della coscienza. E dunque la mitologia non è l´eclissi della ragione, ma piuttosto il suo necessario controcanto. È la scatola nera dell´essere.
Ecco perché i miti non abbandonano mai la partita. E tornano a fare irruzione nel presente riprendendosi il posto che gli spetta nel nostro immaginario. È il paradosso di questo tempo. La più demitizzata delle civiltà non fa che produrre mitologie a un ritmo esponenziale.
Il mito insomma è come il mondo. È bello perché è vario. Si adatta ai tempi. E ogni volta assume un nuovo look, che lo fa apparire sempre diverso pur restando sempre lo stesso. E tuttavia ha le sue locations preferite, che non abbandona mai, forse perché sono quelle che lo hanno visto nascere e diventare grande. Come la Sicilia di Proserpina e di Polifemo, di Aci e Galatea. Dove la Grecia sopravvissuta a se stessa ha continuato a vivere sottotraccia. Non solo nei monumenti ma nei comportamenti, negli abiti e nelle abitudini, nei volti e nei corpi, nei pensieri e nelle parole che sin dal tempo del Grand Tour diedero alla grande cultura europea la sensazione di poter riascoltare la parola viva di Omero, di scrutare nelle viscere ancora calde e palpitanti del tempo. Di ritrovare le matrici degli dèi, custodite nelle loro tane archeologiche. Come Taormina, Segesta, Lipari, Palermo. Luoghi palinsesto dove la storia, a forza di cancellature e di riscritture, di sovrapposizioni e di stratificazioni, ha assunto la densità immemoriale di una geologia. Questi laboratori delle lunghe durate sembrano fatti apposta per l´arte contemporanea che oggi riapre le officine del mito prematuramente dismesse dalla modernità. Per riplasmare materiali antichi in forme nuove. E far colare i materiali di oggi nei calchi di un grande passato. In questo senso Giò Pomodoro e Jiménez Deredia, Gian Marco Montesano e Pino Pinelli fanno esercizi di metodo mitico, come avrebbe detto T. S. Eliot, rimescolando oggetti e concetti, esperienze e conoscenze. Facendo fare al sentimento del tempo un balzo in avanti, uno scatto conoscitivo. In questo modo il mito diventa la password archetipica che apre nuove prospettive, facendoci leggere il presente in un´altra luce. Meridiana.
Lo sapeva bene Platone che in uno dei suoi dialoghi più celebri, il Protagora, sostiene che una stessa verità si può dimostrare sia con un ragionamento sia con un racconto mitico. In un caso la dimostrazione procede per concetti astratti, proporzioni numeriche, consequenzialità logiche. Nell´altro per metafore, immagini, figure. Secondo il grande filosofo i due procedimenti hanno pari dignità conoscitiva. La differenza è che il mito è più bello.
E del resto la scienza stessa alcune volte assume un colorito mitologico. Soprattutto in quei territori dove la dimostrazione sperimentale è impossibile. Un esempio per tutti, la teoria del big bang. La sua spiegazione della nascita dell´universo a partire da una singolarità spazio-temporale, da un evento verificatosi una sola volta, ha qualcosa delle cosmogonie antiche, assomiglia maledettamente a una narrazione dell´origine. Una Genesi in termini scientifici.
Di fatto ad ogni tornante della storia la macchina del mito si resetta e aggiorna il suo repertorio. Inventa nuovi ologrammi che condensano lo spirito del tempo in una parola, una forma, un luogo. Icone che oggi hanno sempre più spesso la liquidità del web. Che accosta fino al cortocircuito presente e passato, vicino e lontano. Dimensioni una volta impossibili da tenere insieme se non sulla scena del sogno o del mito. E dell´arte. Che non a caso è da sempre il rifugio della mitologia, il luogo comune che combina i materiali e i significati più disparati, più eterocliti, più svariati in una sorta di ready made. Oggi la rete costringe tutti a un continuo bricolage che ci trasforma in altrettanti Marcel Duchamp, costantemente alle prese con quella interminabile approximation démontable che è diventata la vita al tempo di internet. Ma anche in tanti Edipo alle prese con una Sfinge 2.0. Così facciamo del surrealismo senza saperlo. Mentre il mito ritorna. Al futuro.