martedì 15 maggio 2012

l’Unità 15.5.12
L’intervista
Schäfer (Spd): ha vinto l’alternativa all’austerity
«Abbiamo vinto con una proposta alternativa, che vale
per l’intera Unione»
Il vice capogruppo Spd: «La lezione del Nord Reno-Westfalia? Coniugare giustizia sociale, crescita e rigore. Sono gli stessi obiettivi di Parigi»
di Umberto De Giovannangeli


Axel Schäfer. Vice capogruppo Spd nel Bundestag, presidente del gruppo socialdemocratico nel Land del Nord Reno Westfalia

«A essere sconfitta non è stata una persona, ma una politica. A vincere non è stata una generica protesta anti-sistema, ma una proposta alternativa, che dimostra come sia possibile coniugare giustizia sociale, crescita e rigore. Questo è il “modello” del Nordreno-Westfalia». A sostenerlo è una delle figure più rappresentative della Spd: Axel Schäfer, vice capogruppo Spd al Bundestag, capogruppo nel Nordreno-Westfalia. «L’esperienza di governo del Land di Hannelore Kraft rimarca Schäfer è un laboratorio politico che offre preziose indicazioni, sia in termini di programma che di possibili alleanze, sul piano nazionale, in vista delle elezioni del 2013».
«Catastrofe Cdu». Così la stampa tedesca inquadra il voto nel Nordreno-Westfalia. È corretto parlare di risultato catastrofico per la Cd della cancelliera Merkel?
«Forse “catastrofe” è troppo, di certo si è trattato di una sconfitta, la cui portata, va anche oltre il pur significativo dato numerico e di certo non può essere spiegata solo facendo riferimento alla specificità locale. A essere premiata è stata l’esperienza di governo di Hannelore Kraft...».
Una esperienza di «buon governo».
«Sostanzierei questo concetto di “buon governo”. Buon governo significa dimostrare, con i fatti, che giustizia sociale, sviluppo e contenimento del deficit pubblico non solo non sono in conflitto tra loro, ma sono tra loro interdipendenti. Con l’accento sullo sviluppo, su investimenti mirati. Il buon governo di Hannelore Kraft è quello di una sinistra riformista che rifiuta il rigore ad oltranza perché esso porta con sé disoccupazione e povertà di massa».
A vincere in Nordreno-Westfalia è un governo rosso-verde. È un’indicazione per il futuro della Germania?
«Occorre evitare qualsiasi trasposizione meccanica dal dato locale a quello nazionale. Certo è che questa alleanza dimostra che l’attenzione per l’ambiente, per le tematiche ecologiste, non confligge in alcun modo con una politica di crescita, ma anzi ne diviene parte integrante».
C’è chi vede in Hannelore Kraft l’«anti-Merkel».
«Capisco che la stampa ha bisogno di personificare lo scontro politico, ma personalmente vorrei rimarcare i contenuti dell’azione politica di Hannelore, essi sì in antitesi a quanto predicato e praticato da Angela Merkel: più investimenti nelle infrastrutture, nell’educazione e nell’assistenza familiare, oltre che un approccio più graduale alla riduzione dell’indebitamento. Questa gradualità non è un limite, non è sinonimo di attendismo, ma è una delle condizioni per poter abbattere il deficit pubblico senza provocare devastanti ricadute sociali».
Qual è un’altra indicazione che, a suo avviso, emersa dal voto di domenica scorsa, che può rivestire una valenza generale?
«La protesta contro una politica del rigore assoluta può essere intercettata e rappresentata al meglio da una proposta alternativa. È quanto ha fatto nel Land la Spd e per questo è stata premiata dagli elettori. La signora Merkel ha sempre liquidato la politica di sostegno allo sviluppo come crescita attraverso i debiti. Così non è. E il voto di ieri (domenica, ndr) è innanzitutto la sconfessione di questo assunto. Ed è anche per questo che ciò che è avvenuto in Nordreno-Westfalia parla all’intera Germania e all’Europa».
Da questo punto di vista, esiste, a suo avviso, un filo rosso che collega Parigi, con la vittoria presidenziale di François Hollande, a Düsseldorf, con il successo Spd di Hannelore Kraft?
«Le specificità sono evidenti, tuttavia è indubbio che un vento nuovo sta spirando in Europa: è il vento del cambiamento. Un cambiamento possibile, pragmatico, che segnala la crisi del ciclo conservatore. In questo senso, l’elezione di François Hollande è un segnale di rottura che va ben oltre i confini francesi. Dimostra che vi è un’altra soluzione che non sia quella che si basa unicamente sull’austerità in Europa, cioè quella su cui si fondava il “Merkozy”, l’asse Merkel-Sarkozy. Per quanto ci riguarda, posso dire che la Spd ha gli stessi obiettivi di Hollande: vogliamo lavorare affinché l’Europa associ alla solidità finanziaria la crescita economica, maggiore occupazione e migliore qualità e giustizia sociale. È questa la nostra sfida a Angela Merkel. Vincere è possibile: è questo il messaggio di speranza che viene dal Nordreno-Vestfalia».
L’Europa volta le spalle alla signora Merkel?
«Il discorso è un altro: la Germania ha bisogno dell’Europa, e non è vero che il rafforzamento delle istituzioni politiche europee così come un Patto di crescita che integri il Fiscal compact indeboliscano il peso tedesco in Europa. La verità è che da soli non ci si tira fuori dalla crisi. E questa vale anche per la Germania. Gli interessi nazionali si difendono nel modo migliore a livello internazionale, nello sviluppo di una politica regionale che diventa europea. L’Europa è un investimento per il futuro».

il Fatto 15.5.12
Hannelore Kraft, la sfidante
La regina dei debiti e l’“energia” operaia per vincere Berlino


Che forza! Hannelore Kraft. Per noi, quel nome è al massimo sinonimo di sottilette. Ma in tedesco kraft vuol dire forza, o anche energia. E la Kraft d’energia ne ha un sacco. Oggi, è lei l’Hannelore più famosa di Germania, mentre un tempo lo era la moglie del cancelliere Helmut Kohl, autrice di libri di ricette tedesche di buon successo (il marito le faceva da assaggiatore). Bionda come la cancelliera Angela Merkel, ma più bionda, con i capelli che le incorniciano il volto, mentre Angela preferisce il taglio a scodella, la presidente del Nord Reno Westfalia, il land più popoloso di Germania, ha appena inflitto una clamorosa batosta alla Cdu, il partito della Merkel.
FORTEMENTE industrializzato, da sempre roccaforte della sinistra, il Nord Reno Westfalia rappresentava l’ultimo test elettorale tedesco significativo di quest’anno. I socialdemocratici dell’Spd erano i favoriti, ma il loro successo è stato più netto del previsto. Spd e Cdu, alla pari nei risultati 2010, si ritrovano oggi staccati di quasi 13 punti: i socialdemocratici poco sotto il 39%, i cristiano-democratici poco sopra il 26%. Tengono i Verdi (11,5%), vanno meglio del temuto i liberali dell’Fdp (8,4%), vengono avanti i Pirati (7,6%) – per la quarta volta consecutiva, entrano in un parlamento regionale –; male, invece, la sinistra della Linke, come se il testimone del voto di protesta e di rifiuto sia ormai passato dagli anziani nostalgici ai giovani euro-scettici. Moglie di un compagno d’Università conosciuto a una festa di carnevale, madre di un ragazzo di 19 anni che le sale accanto sul palco più per dovere che per convinzione, 51 anni, un fisico che non le meriterebbe certo i commenti grossolani che Mr B. ebbe per la cancelliera, Hannelore Kraft è una donna solida, che parla con l’accento della Ruhr e ha una laurea in Economia conseguita dopo avere lavorato in banca da impiegata. Fa politica dal ’94, sempre con i socialdemocratici: ministro regionale dal 2001, vicepresidente del partito dal 2009, presidente del Land dal 2010, oggi è una potenziale candidata cancelliera socialdemocratica alle elezioni politiche del settembre 2013 (ma finora lei ha sempre detto no alle sirene di Berlino). Se la Merkel è nell’Ue l’alfiere del rigore al tempo della crisi, Hannelore è la ‘regina dei debiti’: il suo governo è andato in crisi proprio sul disavanzo di bilancio; e lei ha centrato la sua campagna su una riduzione del deficit graduale. Per lei, la maggioranza rosso-verde a Duesseldorf – vuole governare coi Verdi – è un “forte segnale” a Berlino (e, magari, pure a Bruxelles). (G. G.)

La Stampa 15.5.12
I capi della Spd lanciano la sfida alla cancelliera “Eurobond e Tobin Tax”
Oggi il programma, molti punti in comune con Parigi Fondi strutturali europei per la crescita e l’occupazione
di A. Alv.


BERLINO La strada per uscire dalla crisi: crescita e occupazione in Europa». Basta leggere il titolo della conferenza stampa convocata per stamattina alle 9 a Berlino dai vertici del partito socialdemocratico tedesco per capire che la Spd, rinvigorita dal successo in NordReno-Vestfalia, vuole ora a mettere sotto pressione Angela Merkel. Il leader nazionale Sigmar Gabriel, il capogruppo al Bundestag Frank-Walter Steinmeier e l’ex ministro delle Finanze Peer Steinbrück lanceranno le loro proposte per guidare l’Europa fuori dalla crisi. Proposte riassunte in un documento anticipato dalla «Süddeutsche Zeitung»: il lancio di un programma europeo contro la disoccupazione giovanile, l’impiego dei fondi strutturali Ue per programmi finalizzati a crescita e occupazione, il richiamo delle banche a maggiori responsabilità in caso di speculazioni sbagliate. E ancora: un fondo europeo di investimenti, un’agenzia di rating comunitaria, un’autorità di vigilanza europea sulle banche, una netta separazione tra banche attive nel retail e banche d’investimento e infine un fondo europeo per l’estinzione dei debiti, in base al quale tutti gli Stati garantirebbero per un altro membro, se le sue passività superano il 60% del Pil, a patto che il Paese in questione si impegni a tagliare i debiti.
La Spd chiede poi investimenti per la crescita, che non andrebbero finanziati con nuovi debiti, bensì con una tassa sulle transazioni finanziarie. Per i socialdemocratici la Tobin tax è una condizione imprescindibile per votare a favore del fiscal compact al Bundestag, dove la Merkel è legata al loro sì, in quanto ha bisogno di una maggioranza dei due terzi.
Non è un caso che questa ricetta venga presentata stamattina: solo poche ore dopo, alle 18 e 30, la cancelliera incontra a Berlino per la prima volta François Hollande. La Spd cerca simbolicamente di creare un «ponte» programmatico col neo presidente francese, col quale ha tra l’altro discusso le sue proposte.
I socialdemocratici interpretano il trionfo in NordReno-Vestfalia come un segnale in vista delle legislative del 2013: nonostante la frammentazione del panorama politico, Spd e Verdi possono ancora vincere insieme.
Nell’euforia del momento molti dimenticano però che il risultato della Kraft – 39,1% - è superiore di 13 punti percentuali rispetto a quello attribuito nei sondaggi alla Spd nazionale. Inoltre la vittoria di Frau Kraft ha uno scomodo effetto collaterale: riaccende la discussione su chi sarà il candidato cancelliere della Spd nel 2013. Finora la partita si è giocata a tre: Gabriel, Steinmeier e Steinbrück. Il primo è più favorevole a cercare lo scontro aperto con Merkel, gli altri due sono più «moderati». Il problema: nessuno dei tre ha mai vinto un’elezione. Chi ci è riuscita - e alla grande - è invece Hannelore Kraft, che però non vuole trasferirsi a Berlino. Almeno per ora.
«Sono certo che resterà in NordReno-Vestfalia, ma adesso è diventata molto potente nella Spd nazionale: sarà lei il kingmaker del candidato cancelliere», ci spiega Klaus Schubert, politologo dell’università di Münster. Anche perché, aggiunge Schubert, Frau Kraft è riuscita a trasmettere un messaggio che la Spd tenterà di replicare in vista del voto del 2013: non ci si può limitare a chiedere soltanto di risparmiare, ma bisogna infondere fiducia agli elettori, indicando una strada per il futuro e proponendo investimenti per la crescita.

l’Unità 15.5.12
Hollande lancia Ayrault
Oggi l’annuncio del nuovo premier francese
Nella squadra entreranno Aubry e Fabius (agli Esteri)
di U.D.G.


La squadra è già fatta. I ruoli più importanti sono già assegnati. La notte servirà a vincere le ultime resistenze di «Martine». Dal Quartier generale di François Hollande, avenue de Segur, non trapela nulla, ma secondo fonti ben informate la lista dei ministri del nuovo governo sarebbe già pronta.
Si comincia da oggi i con l’annuncio del premier. Per la poltrona numero 1, quella di Palazzo Matignon, si fanno sempre tre nomi: Jean-Marc Ayrault, Martine Aubry, Manuel Valls. Emerge ogni tanto, però, anche quello di Pierre Moscovici. Ma, a quanto risulta a l’Unità, salvo clamorosi ripensamenti dell’ultimora, la scelta cadrà sul primo della lista. Ayrault può contare infatti sull’ottimo bilancio realizzato come sindaco di Nantes e sull’amicizia stretta anni fa con il neo presidente. Intanto il gioco dei pronostici continua. Se non dovessero andare a Matignon, Moscovici potrebbe essere nominato agli Esteri e Valls agli Interni. All’Economia sembra certo Michel Sapin, che da giorni parla ormai da ministro. Per il Quai d’Orsay torna il nome di Laurent Fabius, mentre ad Arnaud Montebourg si prospetta un futuro da ministro dell’Agricoltura o della Giustizia. Anche Andrè Vallini si immagina nella veste di Guardasigilli, Jean-Marie Le Guen spera nella Sanità, Jerome Cahuzac sogna Bercy.
Nella costituzione del suo governo Hollande dovrà tenere conto anche di un altro impegno preso tempo fa. Durante la campagna aveva promesso che il suo sarebbe stato un esecutivo della parità, 50% di uomini, 50% da donne. Sui 15 ministri che stanno per essere nominati, sette o otto potrebbero dunque essere donne.
Tra loro ci sarà senza dubbio Martine Aubry. Se in progetto per lei non ci fosse Matignon, la segretaria del Ps dovrebbe vedersi attribuire comunque un ministero prestigioso, forse l’Educazione, forse la Cultura. Nella lista delle favorite, Marisol Touraine avrebbe diverse chance per essere nominata alla Sanità o agli Affari sociali. Le Verdi Cecile Duflot e Eva Joly potrebbero entrare a loro volta nel governo socialista. Vi farebbero parte anche alcuni giovani volti emersi durante la campagna. Tornano in particolare i nomi di Aurelie Filippetti (in lizza per la Cultura) e di Najat Vallaud-Belkacem (portavoce della campagna di Hollande, alla quale potrebbe andare un sottosegretariato).

Corriere 15.5.12
La squadra dell'Eliseo Spazio alle 30enni
di Stefano Montefiori


PARIGI — Dopo il passaggio dei poteri con l'insediamento all'Eliseo, e prima della partenza per Berlino a incontrare la cancelliera Merkel, oggi François Hollande nel suo primo giorno da presidente della Repubblica francese nominerà il primo ministro, con ogni probabilità il capogruppo socialista all'Assemblea nazionale Jean-Marc Ayrault. Domani toccherà al governo che — secondo le promesse della campagna elettorale — sarà composto in parti uguali da uomini e donne: tra le giovani quasi certe di entrare nell'esecutivo c'è Aurélie Filippetti, 39 anni, figlia del minatore Angelo, destinata al ministero della Cultura qualora Martine Aubry passi a un altro dicastero (Interni o Giustizia). Parte importante dell'entourage di Hollande dall'inizio della sua candidatura, la Filippetti è salita spesso sul palco negli ultimi comizi della campagna elettorale assieme a Najat Belkacem, 35 anni, nata in Marocco in una famiglia con sette figli, portavoce prima di Ségolène Royal nel 2007 poi di Hollande a queste presidenziali. Fleur Pellerin, 38 anni, adottata a sei mesi di vita in Corea, iper-diplomata, è stata la consigliera per le questioni digitali di Hollande e potrebbe entrare nel governo o ottenere un ruolo importante come consulente all'Eliseo. La carica delle ragazze continua con la verde Cécile Duflot, 37 anni, che potrebbe ottenere il ministero dell'Ecologia.

il Fatto 15.5.12
Francia
Nel voto sfida Le Pen-Melénchon


I leader dei due schieramenti ‘estremi’ della politica francese, Marine Le Pen (destra) e Jean-Luc Melénchon (sinistra) si sfideranno alle legislative di giugno per il seggio parlamentare della circoscrizione del Pas-de-Calais, nel nord del Paese. La Le Pen ha detto che: “Il mio principale avversario sarà il candidato socialista, il rappresentante di un sistema feudale, anacronistico, corrotto e clientelare che combattiamo da anni”.

Corriere 15.5.12
Il premier alle prese con un quadro europeo che si sta ridefinendo


Giorgio Napolitano registra un quadro europeo in movimento, con risultati elettorali che restituiscono «elementi di novità». Ma non è ancora chiaro se le dinamiche continentali sottolineate dal capo dello Stato renderanno più o meno centrale il ruolo dell'Italia. La tendenza dello spread, lo scarto fra titoli di Stato italiani e tedeschi, a salire oltre i 420 punti, non aiuta il governo dei tecnici. E il neopresidente francese, François Hollande, ha annunciato che non riuscirà a incontrare Mario Monti prima del G8 di sabato e domenica a Camp David, negli Usa: gli telefonerà. Era previsto ma sono indizi di agende internazionali in via di ridefinizione.
Lasciano capire che i rapporti di forza possono cambiare. E le reazioni di Berlino alla sconfitta elettorale subita dalla Cdu di Angela Merkel nella regione della Westfalia peseranno sui rapporti con la Francia del socialista Hollande. L'insistenza su una revisione dei trattati finanziari segnala la richiesta di attenuare la strategia del rigore; o comunque di prendere misure che aiutino l'economia a ripartire. Monti sta analizzando le possibili reazioni tedesche. E la risposta dura ad una Grecia in bilico da parte del ministro delle Finanze, Wolfgang Schauble, non permette di escludere un irrigidimento.
L'antidoto è di evitare vincitori e vinti europei; e insieme di sperare che la Ue, magari con una decisiva sponda statunitense, convinca Berlino a correggere le sue posizioni. Pier Luigi Bersani, segretario del Pd, vede in Germania qualcuno in grado di capire che «non ci si salva da soli». Ma la sua prudenza è scavalcata da chi addita la battuta d'arresto della Merkel come un altolà al rigore: ad esempio Antonio Di Pietro, segretario dell'Idv. Anche un ministro del governo Monti come Fabrizio Barca, dice che dietro la sconfitta affiora «una domanda di crescita». Tutte le analisi risentono comunque della difficoltà di decifrare il finale di quanto sta accadendo.
Il ministro del Welfare, Elsa Fornero, assicura che il calo della Cdu «non è la bocciatura di una linea». E in questa difesa si indovina l'esigenza sia di non smentire quanto Monti ha fatto d'intesa con Berlino; sia di non creare eccessive aspettative su una virata della politica economica. I timori per un'impennata dell'inflazione senza crescita aumentano; e vanno di pari passo con un'accentuazione delle tensioni sociali. La Fornero sottolinea che l'attenzione del governo sarebbe «caratteristica imprenscindibile di un sentiero di crescita. E all'interno di questo sentiero lavorerà». Il come, tuttavia, è da definirsi.
Gli ostacoli sono italiani ed europei. Anche perché i partiti che appoggiano Monti non riescono a trovare nessuna intesa sulla riforma elettorale. E portano a pensare che più si andrà avanti verso le elezioni politiche del 2013, più le logiche elettorali renderanno difficile la loro collaborazione anomala. La prospettiva di un esecutivo bloccato dalla concomitanza di una crisi europea e delle spinte centrifughe interne induce Napolitano a richiamare alle riforme istituzionali «ineludibili». Almeno sul finanziamento delle forze politiche, forse un risultato sarà raggiunto. Ma per il resto, monta lo scetticismo. Troppi contrasti: non solo fra partiti, ma nelle loro fila.

l’Unità 15.5.12
Votare con il Porcellum sarebbe un suicidio nazionale
di Cristoforo Boni


NON SI PUÒ TORNARE A VOTARE CON IL PORCELLUM. LA RIFORMA ELETTORALE È NECESSARIA. E il pressing sulle forze politiche e sul Parlamento è un’azione patriottica del presidente della Repubblica. I tempi sono drammaticamente stretti. E sulle spalle abbiamo tanti, troppi fallimenti: si può dire che l’intera Seconda Repubblica sia stata una transizione incompiuta.
Anche oggi gli interessi divergenti dei partiti e la crescente frammentazione spingono verso il nulla di fatto. Ma non ci si può arrendere. Votare con il Porcellum vuol dire minare alle fondamenta anche la prossima legislatura. Vuol dire che la politica italiana continuerà a essere malata: e se la delegittimazione è già arrivata fino a questo punto, figuriamoci se anche le prossime elezioni non dovessero produrre un esito chiaro e un governo stabile! Purtroppo, al di là delle dichiarazioni di principio, molti puntano a far fallire le riforme. I sostenitori del Porcellum sono più di quelli che lo dichiarano apertamente. Tra loro ci sono quelli che gridano all’inciucio non appena qualcuno si mette a cercare un compromesso. E ci sono coloro che, pur di far saltare il modello del governo parlamentare (indicato dalla nostra Costituzione), riciclano i miti berlusconiani del premier eletto direttamente dal popolo e del maggioritario di coalizione.
Per cambiare la legge elettorale in tempi rapidi è necessaria una larga intesa. Per tornare finalmente in Europa sono anche necessarie alcune riforme costituzionali, tali da stabilizzare i governi. Il sistema perfetto non esiste. Tuttavia, con la buona volontà il traguardo è raggiungibile. La bozza Violante è già una soluzione mille volte migliore della legge attuale. Si può ancora migliorare, ma non si prendano pretesti per far saltare il tavolo. È una buona notizia che Udc e Pdl stiano in queste ore esaminando la proposta iniziale del Pd sul cosiddetto «modello ungherese». Lo schema di base resta quello tedesco (con circa metà dei seggi attribuiti con riparto proporzionale e metà attraverso collegi uninominali maggioritari): la diversità sta nel fatto che i collegi uninominali verrebbero assegnati con il doppio turno, in modo da favorire e premiare le coalizioni preelettorali. Quel testo può ancora essere migliorato. Ma sarebbe un antidoto alla frammentazione della rappresentanza, senza tuttavia annullare l’autonomia delle forze intermedie.
In ogni caso la riforma deve, senza forzature e senza coalizioni coatte, portare l’Italia alla condizione delle principali democrazie europee: dove i candidati nei collegi uninominali sono di partito e dove la sera del voto sono chiari il nome del futuro premier e la coalizione che formerà in Parlamento.
Se la legislatura dovesse concludersi senza riforme (compresa la riforma del finanziamento dei partiti), anche il giudizio futuro sul governo Monti volgerà al negativo. Il successo del governo tecnico sta nella normalità che consegnerà all’Italia alla fine del mandato. Se ci fosse ancora bisogno di tecnici e di grandi coalizioni, vuol dire che il Paese sarà più malato. E più vicino alla Grecia.

l’Unità 15.5.12
Il Colle: riforme ineludibili
Da Milano il presidente della Repubblica rinnova il suo appello a varare i «provvedimenti necessari»
«Poche ma significative le iniziative da condurre in porto entro questa legislatura»
di Marcella Ciarnelli


La riforma della legge elettorale è un’integrazione «essenziale» a quelle già in discussione e «mi pare sia un impegno da tutti considerato assolutamente ineludibile». Il Presidente della Repubblica, a Milano per partecipare all’assemblea annuale della Consob e, nel pomeriggio, a un convegno all’Università Cattolica, è tornato sulla necessità che si porti positivamente avanti lo sforzo di condurre in porto, nel tempo che manca alla fine della legislatura, poco ma sufficiente, quel «pacchetto limitato ma significativo di riforme» che possono cambiare (in meglio) l’architettura dello Stato. Riuscirci potrebbe ridare credibilità a quella politica che sembra non riuscire a superare l’affanno che l’ha costretta a passare la mano ai tecnici. Una credibilità da riconquistare nei confini nazionali ma anche in Europa, ai cui eventi che stanno contribuendo, nel bene e nel male, a costruire il futuro di tutta la Ue, dalla Germania alla Francia fino alla Grecia, Napolitano presta l’attenzione di chi è consapevole che quella in atto sulla crisi, per essere vincente, è una partita di tutti e non solo di alcuni.
MISSIONE POSSIBILE
Il Capo dello Stato ha rinnovato la sua sollecitazione al Parlamento, quindi ai partiti, a procedere sulla via delle riforme indispensabili. E si è augurato in modo esplicito «un sollecito svolgimento parlamentare» condividendo appieno quanto scritto dal costituzionalista Michele Ainis sul Corriere della Sera che, in sintesi, ha spiegato che è meglio fare poche riforme ma farle. E presto. Impresa non impossibile, ha ricordato a chi fa i conti con la scadenza ormai prossima della legislatura, dato che «due Camere servono anche a questo, a smaltire il traffico. Sicché la Prima commissione del Senato può approvare alcune correzioni alla forma di governo; quella della Camera può cucinare almeno un paio di leggi ordinarie, sul sistema elettorale e sul finanziamento dei partiti. Le priorità sono queste. Anzi no, ce ne sarebbe pure un’altra: per i partiti è urgente decidere di decidere».
Affermazioni che a Napolitano sono apparse «appropriate, decise, severe ma costruttive», poiché si riferivano «espressamente a quel pacchetto di riforme, limitato ma significativo, di proposte di modifiche costituzionali già presentato» di cui ha a lungo discusso anche sabato mattina con il presidente del Consiglio, Mario Monti, dato che, pur nel rispetto dell’autonomia del Parlamento, anche al governo toccherà fare la propria parte. C’è il pacchetto di proposte sulla modifica dell’architettura istituzionale dello Stato, che rappresentano una «iniziativa importante insieme all’altra, la legge sul finanziamento dei partiti» cui bisogna aggiungere la riforma elettorale che tutti dicono essere essenziale e quindi «è un impegno ineludibile» per tutti, ha ribadito il Presidente richiamando ognuno alle proprie responsabilità.
Riforme ed economia. È trascorsa così la giornata milanese del Presidente, accolto alla Cattolica dall’applauso caloroso degli studenti e dei docenti. La relazione del presidente della Consob, Giuseppe Vegas, è stata una disamina accurata e puntuale delle situazione difficile con cui il Paese, e quindi l’economia, si stanno misurando ormai da anni, anche in quelli in cui lui era viceministro del governo Berlusconi. Ma il presidente della Repubblica non l’ha letta, quella relazione, in un’ottica «catastrofista». «Non mi è parso che fosse da intendere così», ha detto ai giornalisti rifiutando anche di accettare il condizionamento di una presunta «dittatura dello spread». «Quello è un modo di dire...» entrato nel lessico comune di questa epoca difficile in cui individuare le responsabilità già sembra consentire di allentare la tensione. D’altronde stiamo vivendo «un annus horribilis», anche se «di annus horribilis ce n’è stato più di uno nel corso della mia generazione, anche più orribili. Questo ultimo periodo è stato abbastanza brutto, ma ci sono le condizioni per venirne fuori». Tutti devono avere «fiducia».

l’Unità 15.5.12
Ultima chiamata
di Emilio Barucci


PUÒ LA POLITICA SALVARCI DALLA CRISI? SPERIAMO DI SÌ ANCHE PERCHÉ RAPPRESENTA L’ULTIMA SPIAGGIA. La crisi dell’euro è giunta alla resa dei conti. Il momento è paragonabile a quello che l’Italia ha vissuto in dicembre, solo che la scena adesso è europea con Paesi come la Grecia (ma non solo) che vivono una profonda crisi finanziaria, economica, sociale e politica.
Autorevoli commentatori si sono scagliati contro la «dittatura dei mercati» e in particolare dello spread che farebbe a cazzotti con la democrazia. C’è del vero, ma fino a quando non ricondurremo i mercati alla ragione (e non sarà facile, come il caso JP Morgan ci mostra) dovremo farci i conti. I problemi immediati non si risolvono del resto con la proposta di una Tobin tax, urge una risposta di politica economica a livello europeo.
La strategia per il salvataggio dell’euro messa in campo dalle autorità europee nell’autunno e nell’inverno di questo anno non basta più. Si trattava di una strategia fondata su tre pilastri che ha permesso soltanto di guadagnare tempo: austerità fiscale (fiscal compact), immissione di liquidità nel sistema finanziario, riforme strutturali nei diversi paesi per rilanciare la competitività. Una strategia fatta su misura sulle esigenze della Germania. In poche parole, salviamo le banche immettendo un fiume di liquidità in modo tale che salvino gli Stati e poi ogni Stato deve fare i propri «compiti a casa»: tagli e riforme. In realtà le cose non sono andate secondo le attese. L’austerità ha avuto un effetto recessivo proprio quando avevamo bisogno di un’espansione, la liquidità della Bce ha salvato le banche e raffreddato lo spread (temporaneamente) ma non ha immesso liquidità nel sistema, le riforme strutturali si sono esaurite (almeno per il breve periodo) in una vana retorica. I mercati, che forse non sono razionali ma sono soprattutto miopi, lo hanno ben presto capito. Ecco perché siamo alla resa dei conti. C’è però una novità. A fronte della «dittatura dei mercati», c’è adesso un contropotere rappresentato dai risultati elettorali che in Francia, Germania, Grecia e Italia hanno mostrato come il tessuto sociale e democratico sia fortemente sotto pressione. Tutti i giornali hanno salutato il risultato tedesco come un voto contro l’austerità. Si sta aprendo uno spazio politico che deve essere sfruttato. Va bene attivare un discorso sulla crescita in Europa ma non deve essere ancora retorica. Occorre agire in tre passi.
Mettere a punto un piano di salvataggio per la Grecia che sia digeribile per il Paese. Dotarsi degli strumenti adeguati per fronteggiare in modo tempestivo le eventuali difficoltà di altri Paesi dell’euro. Se occorre interpretare in maniera estensiva il trattato europeo che lo si faccia senza esitare ulteriormente. In secondo luogo occorre una politica espansiva da parte della Bce che miri a monetizzare il debito pubblico dei Paesi in difficoltà. La strada di passare tramite le banche per far fare a loro il lavoro sporco rischia di non essere efficace, occorre un intervento diretto almeno sul mercato secondario. Si indurranno gli Stati a ritenere il vincolo di bilancio non effettivo? Può essere che questo accada ma il problema passa in secondo piano di fronte ai rischi che corriamo ora. Questa strategia condurrà ad un’elevata inflazione (5% per 3-5 anni?) che permetterà un abbattimento del debito e una svalutazione dell’euro. Tutta benzina per rilanciare l’economia. L’inflazione è una tassa iniqua ma è l’unica arma efficace che ci rimane. Del resto, non inventiamo nulla: la Gran Bretagna ha fatto questo negli ultimi anni.
In terzo luogo occorre agire sulla competitività. Bisogna spingere su una maggiore integrazione con politiche per la crescita che permettano di allentare il vincolo di bilancio con investimenti e opere pubbliche. Quindi, no a eurobonds per risolvere il problema debito, sì a project bonds per gli investimenti e un nuovo bilancio europeo per promuovere politiche per la crescita. Anche sul fronte delle liberalizzazioni occorre spingere sull’integrazione ricordando che le vere liberalizzazioni anche in Italia le abbiamo fatte grazie all’Europa. Certo, questa rappresenta una svolta ad U per quello che abbiamo visto sinora in Europa, ma non sembrano esserci alternative. Una svolta che solo governi forti si possono permettere di imprimere. Attenzione, però, è l’ultima chiamata: la campanella è suonata per la politica in Europa, speriamo che non si mostri ancora sorda.

Corriere 15.5.12
Pd, la sfida di Renzi sullo statuto


MILANO — Lo statuto del Pd sembra diventato un'arma a doppio taglio. Matteo Renzi scrive su Facebook: «Pare che le primarie del Pd per la scelta del leader non si possano fare per colpa di una norma dello statuto. Sarà mica lo stesso statuto che impedisce di fare più di tre mandati ai parlamentari? Occhio perché chi di statuto ferisce...». In tre ore il post riceve 1.135 «mi piace» e 216 commenti (per lo più a favore). In un'intervista al Corriere venerdì Renzi ha sfidato Bersani chiedendo primarie per il candidato premier. Dal Pd gli è stato risposto che, per statuto, il candidato è il segretario. Ma lo statuto prevede anche un limite di tre legislature, oltre cui non si è ricandidabili. A meno di deroghe che, calcola il senatore pd Ignazio Marino, oggi riguardano circa 100 parlamentari. Dai microfoni di «La Zanzara», Marino ieri ribadiva: «Alcuni sono lì dal secolo passato». E ha invocato (fatta eccezione per il segretario) pari trattamento per tutti, compresi D'Alema o Veltroni.

l’Unità 15.5.12
I risultati elettorali e la palingenesi di Grillo
di Roberto Weber, Presidente di Swg


ALCUNI SCIENZIATI AFFERMANO CHE LE PIANTE PRODUCONO RUMORE. NON È DIVERSO PER LA POLITICA e non mi riferisco ai media, ma a quel rumore di fondo che si può cogliere in declinanti osterie e ancora rigogliosi bar e caffè. Prendiamo il Movimento 5 Stelle e il suo “vettore” Beppe Grillo: ad un ascoltatore attento, le chiacchiere colte standosene seduto in confortevoli caffè avrebbero segnalato l’emersione del fenomeno, mentre le battute sempre più frequenti acchiappate nei bar (meglio se periferici), ne avrebbero rivelato l’estensione potenziale. Ma ahimè chi si occupa professionalmente di politica, spesso non ha tempo, o non regge caffè corretti, “bianchi”, “martini cocktails” etc., così per capirci qualcosa, deve affidarsi al vecchio ma sempre più fallace intuito, a schemi interpretativi spesso interessati di commentatori o a quella scienza “oscura” e precarissima rappresentata dai sondaggi di opinione.
Accade che chi sta dentro la cittadella della politica, sembra aver dimenticato l’importante suggerimento di una delle massime autorità della propaganda politica, Goebbels: «Chi vuol parlare alle persone del popolo deve, come dice Lutero, guardare direttamente sulla bocca»; tradotto significa che per parlare il linguaggio del popolo, devi stargli addosso e ascoltare cosa dice. E così può capitare che il M5S arrivi quatto quatto alle elezioni amministrative cogliendo un risultato a doppia cifra in moltissime città del Nord, dimezzando il partito “personale” di Di Pietro (quasi fosse un affluente diretto), facendo incetta di una parte significativa dei leghisti in fuga, erodendo una parte, seppure limitata, dei consensi del Pd, ma soprattutto infilando un cuneo (che ancora deve rivelare tutto il suo potenziale) dentro il corpo vivo del Pdl. Un bel risultato che prima ancora di ridefinire il paesaggio della politica, ne riplasma i criteri estetici: ci stavamo appena abituando alla cifra stilistica introdotta da Monti, che arriva Beppe Grillo a introdurre una nuova corrosiva linfa che fa da contraltare alla sorvegliata sobrietà dell’ex-rettore della Bocconi. E arriviamo alla prima e forse irresolubile contraddizione del Movimento 5 Stelle: c’è uno scarto profondo fra struttura militante diffusa (inclusi piattaforma politica e prassi democratiche interne), un pezzo esteso di elettorato che risponde alla sua offerta e “discorso pubblico” di Grillo. Per vederci meglio basta andare sul sito e cliccare “programma” che include le voci Stato e cittadini, energia, informazione, economia, trasporti, salute e istruzione. Una rapida occhiata consente di capire che il M5S mostra elementi di forte radicalità mettendo molta attenzione sui cosiddetti “beni comuni”, una dimensione a cui non sembra indifferente la stessa dottri-na sociale della Chiesa (vedi svariati interventi del Cardinale Bagnasco). Se ci soffermiamo sui profili degli esponenti, colpiscono tre aspetti: sono giovani, preparati, caratterizzati da una sorta di zelo etico, in fondo non del tutto disprezzabile dati i tempi in cui viviamo. La mia sensazione ma potrei sbagliarmi è che in una ormai lontana stagione avrebbero militato dentro quel grande partito che chiuse i battenti nel 1989. Ora vanno da soli. Veniamo a Grillo e ai suoi umori dissacranti: di cosa si fa portavoce? Temo di un sentire comune, che investe, giusto o sbagliato che sia, proprio il senso del “sacro” in politica: Grillo non riconosce “santuari”, “ruoli”, “profili istituzionali”, Grillo dà la sensazione (questa sì illusoria) a chi lo ascolta, che la palingenesi totale sia possibile, che attraverso una semplificante scorciatoia “il popolo” sia ad un passo da una nuova sovranità.
Infine un ultimo sguardo al bacino elettorale attuale e potenziale: dal punto di vista politico lo abbiamo visto è trasversale; sotto il profilo economico e sociale (ce lo dicono i sondaggi) raccoglie cospicui segmenti di popolazione in cui gli aspetti di precarizzazione sono piuttosto estesi; ancora, mentre una parte dell’elettorato si sposa all’offerta di democrazia “diretta” propugnata da 5 Stelle, la parte forse più rilevante (viene da Idv e Pdl) è più incline a meccanismi di delega e suggestioni carismatiche. Insomma, un bel “garbuglio o gnommero” come lo chiamerebbe Carlo Emilio Gadda, ma beato il M5S un “groviglio” legato a problemi di crescita.

il Fatto 15.5.12
Parlano i Pirati tedeschi
“Siamo un vero movimento popolare”
Beppe Grillo? Il suo non è un movimento sufficientemente democratico
di Federico Mello


Sono la novità politica del momento. Nei sondaggi veleggiamo oltre le due cifre e anche nel Nord-Reno Vestfalia, la regione più ricca e popolata della Germania, domenica hanno portato a casa il 7,7 per cento. Parliamo del Piratenpartei, naturalmente, il partito dei pirati informatici tedeschi. Si battono per la difesa della privacy e del file sharing, prendono le distanze da Grillo ma, soprattutto, con la loro formazione “hacker” puntano tutto su strumenti informatici di confronto orizzontale. Di ciò abbiamo parlato con Carlo Von LynX, trentenne informatico e musicista, che ha studiato a Roma, vive a Berlino, e per il Partito Pirata ha il compito di “tenere i rapporti” con il Bel Paese.
Carlo, come è cominciato tutto?
I politici erano sempre molto interessati ai temi digitali, ma poi alla fine facevano sempre quello che dicevano i lobbisti. Quando in Germania hanno proposto una legge che con la scusa di colpire la pedopornografia voleva censurare Internet, ci siano dati da fare.
Tu come ti sei avvicinato?
Dopo l’europee del 2009: prendemmo l’un per cento, ma capimmo che potevamo crescere.
Per iscriversi bisogna prendere una tessera?
Sì, anche se in realtà si tratta di un foglio di carta che si può anche mandare via posta. Online non ci si può iscrivere: è troppo rischioso per la riservatezza dei dati
Un iscritto che diritto ha?
Il diritto più bello è la partecipazione al Liquid Feedback, il software al centro della proposta pirata, uno strumento di partecipazione ideato da scienziati politici vicini al partito che non fa altro che simulare un’assemblea permanente. Si discutono idee e proposte, dalle iniziative ai volantini. Ogni discussione è votabile ed emendabile in tempo reale: vince chi riceve più consensi. Questo vale anche per nominare delegati, incarichi ed esperti sui singoli tempi.
In quanti siete?
In Germania trentamila.
LiquidFeedback è uno strumento solo per i membri?
Sì, è necessario avere una identificazione per essere sicuri che dietro ogni account ci siano persone.
Quanto costa iscriversi?
36 euro l’anno, 3 euro al mese
Quali strutture avete?
Il minimo necessario previsto dalla legge tedesca sui partiti: board regionali e nazionali, loro rappresentanti e figure amministrative. Devono tutti riflettere esattamente le decisioni che abbiamo preso collettivamente.
Come li eleggete?
In assemblee tradizionali anche se nel nostro caso partecipa chiunque lo voglia. Si vota usando le classiche schede. Fondamentale è il voto segreto.
L’ultima assemblea?
Qualche settimana fa, con circa 1500 partecipanti.
Non votate su Internet?
No: riteniamo insormontabile il problema di rendere davvero sicuro un voto online.
Siete virtuali e reali...
Siamo diventati un partito molto reale: tantissimo lavoro si fa nei raduni settimanali nei quartieri. Solo qui a Berlino abbiamo cinque gruppi locali
A qualcuno di voi sono scappate frasi tipo “cresciamo come i nazisti”...
Siamo nuovi all’agone politico. Dobbiamo imparare ad aspettarci che una nostra frase possa essere estrapolata. Ma siamo assolutamente anti-nazi.
Avete a cuore solo i diritti “digitali”?
Siamo entrati in politica per difendere i nostri spazi di libertà su Internet. Ma abbiamo capito presto che la politica è dominata dal lobbismo e che dobbiamo occuparci di tutto. Col LiquidFeedback abbiamo una piattaforma nella quale il lobbismo non ha possibilità di esprimersi.
Chi vota i pirati?
Un recente sondaggio, lo stesso che ci assegna il 12-13 per cento a livello nazionale, dice che veniamo percepiti come “di centro” e siamo votati da tutte le età, a destra e a sinistra, all’est e all’ovest. Siamo un vero movimento popolare,
Grillo dice di essere il vostro corrispettivo italiano
Beppe Grillo mi è sempre piaciuto. Ma ha imposto al Movimento Cinque Stelle uno statuto che lo rende capo di tutto: è un leader politico anche se dice di non esserlo. Lui e la sua ditta tengono il “copyright” del logo e del nome del movimento, possono espellere singoli, o gruppi di persone, quando gli pare. In questo modo il suo non è un movimento sufficientemente democratico: se Beppe Grillo mollasse l’osso e permettesse al 5 Stelle di diventare un movimento orizzontale; se cedesse il potere a una tecnologia come il LiquidFeedback, allora potrebbe essere assimilabile a noi.
Siete contro qualsiasi alleanza politica?
L’opposizione fondamentale a ogni alleanza è una delle caratteristiche della vecchia politica. Suona un po’ come “o siamo al governo o vi blocchiamo tutto”.
E voi?
Se abbiamo preso una decisione condivisa nel partito e se una proposta corrisponde a quella di un governo, o di un’altra forza politica, non abbiamo problemi a votare a favore. Gli unici con i quali non ci accorderemmo mai sono i nazisti. Per il resto dipende dai contenuti. Chi ci viene incontro può collaborare con noi. Chi ci chiede voti su cose con le quali non siamo d’accordo non avrà mai il nostro sostegno.

l’Unità 15.5.12
Save the children: in Italia i figli dei 30enni i più esposti alla crisi
Il dossier: un ragazzo ogni 4 sotto la soglia di povertà
I figli dei disoccupati i più a rischio
di Mariagrazia Gerina


ROMA Non è un paese per bambini quello in cui persino nascere da genitori giovani diventa un fattore di rischio. È l’Italia, che lascia scivolare un ragazzino ogni quattro (22,6%) al di sotto della soglia di povertà. E che lascia che l’asticella si abbassi ancora drammaticamente tra i nati della generazione «precaria». I figli dei trentenni, perennemente in cerca di vera occupazione, sono i più esposti alla crisi. La povertà ne colpisce uno ogni due. L’Italia non dà chance ai giovani. E quelli di loro che decidono di mettere su famiglia non riescono a dare sicurezze economiche ai loro figli. Risultato: il 47,8% dei minori nati da genitori under 35 sono inesorabilmente poveri.
Va peggio solo a chi nasce in Calabria, dove la povertà infantile galoppa sulla soglia del 60%, o in Sicilia (59,6%). E a i figli degli immigrati che, a qualunque latitudine nazionale, devono fronteggiare un rischio di povertà pari al 58,6%. Mentre praticamente spacciati sono i figli dei disoccupati: il 79% non si salva dalla povertà. Che colpisce i minori italiani più degli adulti (con un 8,2% di spread).
Percentuali che fanno paura. E che collocano l’Italia agli ultimi posti delle classifiche internazionali. «Il paese di Pollicino», lo definisce il Dossier curato da Save the Children per mettere davanti alla coscienza nazionale le cifre di un vero e proprio abbandono. La povertà si sta mangiando l’infanzia. E l’Italia fin qui ha fatto ben poco per salvarla, investendo in interventi per le famiglie appena l’1,4% del Pil rispetto al 2,3% che è la media europea. Un intervento pubblico che ha spostato di poco l’asticella, facendo avanzare l’indice di rischio dal 3% al 3,8%, mentre in Inghilterra schizzava al 14,5%, in Francia al 13,5%, in Germania all’11,1%.
Più a rischio degli altri sono i minori che vivono con un solo genitore: poveri, uno ogni tre. E il fatto che quel genitore, di solito, sia donna, non è un caso. Famiglie indifese davanti alla crisi. Più esposte quelle più numerose: mentre per le altre l’incidenza di povertà dal 2006 è aumentata del 2,7% per le famiglie con tre o più minori è aumentata del 4%. E la povertà come ricorda Save non è solo economica. È anche mancanza di asili, di servizi, di opportunità. In Italia, il livello di istruzione dei genitori penalizza i figli in misura tre volte maggiore rispetto alla Germania. Insomma, le opportunità o te le dà la famiglia o non te le dà nessuno. Neppure la scuola. Tanto più che il 18,9% dei ragazzi tra i 16 e i 24 anni, raggiunta la terza media, la abbandona.
«Subito un piano nazionale di lotta alla povertà minorile», chiede Save the Children, consegnando al paese il suo Dossier della “vergogna”. Guardare in faccia l’Orco è il viatico necessario della campagna che Save the Children rivolge a partire da oggi al governo e al paese. Titolo: «Ricordiamoci dell’Infanzia». L’Italia fin qui se ne è ricordata ben poco.

l’Unità 15.5.12
Renatino, dalla Magliana all’onorata sepoltura
di Angela Camuso


ROMA Enrico De Pedis non beveva, non fumava, non sniffava. Morì di morte rapida un paio di minuti dopo le 13. Era il 2 febbraio del 1990. Un unico proiettile gli si infilò nella schiena e gli fuoriuscì dalla gola, trapassandogli l’aorta. Era a Roma in via del Pellegrino, dietro Campo De’ Fiori, appena uscito dal negozio di un antiquario si era messo in sella al suo motorino ma il killer lo freddò. Aveva 36 anni. Gli avevano teso una trappola i suoi ex amici. E la talpa era stata Angelo Angelotti, il bandito uscito dopo quindici anni di galera e nemmeno un anno dopo, cioè due settimane fa, miseramente ucciso, sempre a Roma, da un gioielliere durante una rapina.
Ieri, in quel cortile della basilica di Sant’Apollinare, è stato subito notato il vestito, blu scuro, elegante e la cravatta bianca, ormai ingiallita che Enrico De Pedis indossava quel giorno lontano dei suoi funerali, che si svolsero senza clamore per poi portare la salma, per una breve permanenza, al cimitero del Verano e dopo seppellirla in Sant’Apollinare. La vedova, che ieri non era nella cripta, aveva in mano la lettera che aveva scritto monsignor Pietro Vergari, allora reggente della basilica e che accreditava quel suo marito capo di una banda di spietati come «un benefattore dei poveri» e «una persona che aveva contribuito all’educazione dei giovani per la loro formazione cristiana e umana». Sta lì, in quella lettera, che servì all’allora capo della Cei, il cardinale Ugo Poletti, a dare il suo nulla osta a quella così onorata sepoltura e che fu firmata da Vergari, già in Vaticano considerato persona dedita a frequentare con troppa disinvoltura gente di malaffare, che sta il mistero su cosa si nasconda dietro quella tomba e di quale sia il legame concreto con la scomparsa di Emanuela Orlandi, di cui De Pedis, com’è noto, è ritenuto dagli investigatori essere stato quanto meno l’organizzatore, se non l’esecutore.
Non fu De Pedis ma fu, secondo la procura, la vedova, Carla Di Giovanni, che di anni ne aveva 46 ed era figlia di buona famiglia a desiderare che il marito defunto fosse seppellito lì. De Pedis viveva all’epoca con lei in un appartamento al V piano dietro il Parlamento, in piazza della Torretta 26 ed era un indirizzo che conoscevano in pochi. E tra i fedelissimi del boss c’era Giuseppe De Tomasi, detto Sergione, o Er Ciccione, scoperto poi essere il telefonista che tentò il depistaggio nei primi giorni del sequestro Orlandi e il cui figlio è autore della famosa telefonata a «Chi l’ha Visto?» che ha insinuato una connessione tra il caso Orlandi e quella tomba.
«De Pedis si sarebbe visto un giorno sottosegretario» dichiarò una volta a chi scrive Antonio Mancini, detto l’Accattone, uno dei capi della banda diventato pentito. Perché era bravo, Renatino, a intessere relazioni e ad avanzare, anche grazie alla sua capacità di far moltiplicare i soldi sporchi. Ma morì a 36 anni. Nella sua cartella clinica che presentava in carcere c’era scritto che era malato terminale di tumore ma l’autopsia registrò tutt’altro: pesava 98 chilogrammi ed era sano come un pesce.

il Fatto 15.5.12
La vita del testaccino
Renatino, l’uomo del Vaticano
di Rita Di Giovacchino


Quando rapì Emanuela Orlandi, Enrico De Pedis aveva appena 30 anni, quando è stato ammazzato 36, ma tutti lo consideravano già il capo della banda della Magliana. Anzi dei “testaccini”, il gruppo più potente e occulto della malavita romana, gente che a torto o ragione fa parte della storia d'Italia Nel suo libro di memorie Sabrina Minardi, l'ex amante che per prima lo ha accusato di aver rapito la ragazzina vaticana, spiega in modo esplicito il motivo di così mirabolante carriera: “Lo sapevano tutti che Renatino era l'uomo del Vaticano”. Cosa vuol dire per un boss essere uomo del Vaticano? Nessuno lo sa, ma De Pedis lo era. Qualcuno è tuttora convinto che fosse figlio del cardinal Poletti, il vicario di Roma assai vicino a Giulio Andreotti, proprio quello che venti giorni dopo la sua sciagurata morte a Campo de' fiori firmò il nullaosta che gli ha consentito di riposare in pace nella cripta della chiesa di Sant'Apollinare. Nessuno riusciva a darsi altra spiegazione: Renatino era figlio di Poletti. Figlio no, forse affiliato. Di sicuro sentimenti paterni legavano il cardinale a quel ragazzo che don Pietro Vergari aveva conosciuto in carcere e con il quale, racconta Sabrina, si appartava a parlare per ore. Discorsi fitti, a bassa voce, come se tra i due ci fosse un'intesa che nessuno poteva condividere. Renatino si “presentava bene”, golf di cachemire e completi Caraceni. Non fumava, non beveva, sniffava raramente soltanto quando si chiudeva in casa con Sa-brina per fare l'amore.
Anche quel soprannome, Renatino, non aveva niente a che vedere con nomignoli come il Negro, Zanzarone, Saponetta. De Pedis, si atteggiava a manager, era davvero il Dandy descritto in Romanzo criminale da Giancarlo De Cataldo. Ad aiutarlo erano anche i lineamenti delicati, da ragazzo perbene, come appare nella foto che fino a ieri spiccava sulla sua tomba di marmo, incastonata in una corona di zaffiri. L'ingrandimento di una fototessera, la stessa che nel giugno 1983, subito dopo la scomparsa di Emanuela, fece sobbalzare il comandante del Reparto operativo di via Inselci, il colonnello Domenico Cagnazzo: assomigliava in modo sorprendente all'identikit dell'uomo della Bmw visto in corso Rinascimento due ore prima che la ragazzina sparisse. Ma Renatino non era figlio di Poletti, a dire il vero il padre lo chiamavano Caino perché aveva ammazzato il fratello e lui, che aveva la vocazione del capo, si era fatto carico della famiglia. Per fare qualche soldo si arrampicava con Fabiola Moretti, amante di Abbruciati e poi moglie di Mancini, sulle pendici del Gianicolo. Andavano a caccia di vipere da rivendere al farmacista di piazza della Scala. Con la droga e le rapine aveva comprato un ristorante a Trastevere, la boutique di Enrico Coveri, un'oreficeria all'Appio, un supermercato all'Ostiense, una villa in Sardegna, decine di appartamenti. In quello di via Vittorini all'Eur alla fine del 1984 fu arrestato.
Ci arrivarono pedinando la Minardi che viveva con lui, l'indirizzo era saltato fuori dalla causa di separazione tra lei e il calciatore Bruno Giordano. Poi tramite prestano-mi, anche il Jackie ‘O di via Veneto. Quando lo hanno ammazzato, per vendicare la morte di Edoardo Toscano, voleva uscire dal giro: ormai, grazie al racket dei video-poker, non aveva più bisogno di fare rapine. Renatino era entrato nel “gioco grande”, come lo definiva Giovanni Falcone: frequentava Calvi, il banchiere dagli “occhi di ghiaccio”, a organizzare feste e festini era quel suo amico sardo, piccolino, capace di intrufolarsi dappertutto, Flavio Carboni, l'uomo che oggi conosciamo come il capo della P3. Dicono che andava a cena con Paul Marcinkus, il presidente dello Ior caro a papa Wojtyla. Sabrina, irriverente, racconta di aver procurato ragazze all'aitante vescovo convinto che “non si serve la Chiesa soltanto con gli Ave Maria”. Racconterà poi che nel 2008 aveva accompagnato Renatino nella casa di Andreotti in Corso Vittorio. Ma la donna, ora indagata per il sequestro Orlandi, si sa non sempre è attendibile. Su, su, sempre più su: quella di De Pedis, di Emanuela, di Calvi è una storia incrociata. Storia di mafia, non di malavita, dietro le quinte c'era Pippo Calò, il siciliano venuto a Roma per risolvere i guai economici di Cosa Nostra. Guai grossi, 250 milioni di dollari scomparsi, consegnati al Vaticano e puff, volatilizzati. Che fine avevano fatto? La logica indica una sola strada: quella che dalle Mura Leonine conduce in Polonia, patria cara a papa Wojtyla, dove la battaglia di Solidarnosc avrebbe fatto cadere il governo Jaruzelsky. Se cadeva Jaruzelsky – Marcinkus ne era convinto – cadeva tutto il blocco sovietico. Il “gioco grande”. Ma a Cosa Nostra non piace farsi fottere, bisognava trovare una strada per arrivare al Vaticano. Forse Renatino gliel'ha indicata. Oppure qualcuno “ha indicato” a lui di rapire Emanuela. Un ricatto a Wojtyla? Una trattativa andata in porto? È l'unico vero mistero che custodiva quella tomba.

il Fatto 15.5.12
Dallo Ior a Mokbel. Ecco perché la banda è vuiva
Il “pentito” Antonio Mancini: “De Pedis? Oggi sarebbe in Parlamento
Delle nostre manovre tra mafia e Servizi il Pci allora sapeva tutto”
di Rita Di Giovacchino e Malcom Pagani


IO NON SONO BUONO, SÒ UN FIGLIO DE NA MIGNOTTA”. I capelli bianchi, gli occhi neri, due fessure pro-tette dagli occhiali. La biografia criminale di uno dei capi della Banda della Magliana riversata su nastro in un pomeriggio marchigiano di caldo, cicale e confessioni. Jesi è un silenzio. Un ordine irreale. Antonio Mancini, l’accattone, ci vive da 16 anni. Ai tempi in cui divideva proventi, cocaina e azioni con gli amici fascisti, Mancini sfiorava l’eresia. Leggeva Pasolini, prendeva la mira parafrasando Mohammed Alì: “Bumayè”, regolava conti, dominava Roma: “Ero un drizzatorti. Conquistavo zone, esigevo crediti, punivo gli insolventi. A San Basilio i nomi delle strade erano paesi delle Marche. Quando me sò pentito mi è venuto spontaneo indicà uno di quei posti”. Integrazione completata. Oggi Mancini è un uomo libero. Quindici anni di carcere. Condanne scontate. Nessuna pendenza. È seduto a casa sua. Immagini di Che Guevara, volumi di Marx, Bibbie, Vangeli. Da un computer le notizie sul ritrovamento dei resti di De Pedis a Sant’Apollinare. Di altre ossa: “Non sono di Emanuela Orlandi e tutta l’operazione è fumo negli occhi. Domani si potrà urlare «visto che il Vaticano non c’entra nulla? ». Perché non hanno aperto prima? Troppo champagne ubriaca e qualcuno, anche tra gli inquirenti, ha riempito i bicchieri fino all’orlo”. Nel tempo libero, quando i demoni di un passato incancellabile non tornano a fargli visita, Mancini aiuta i disabili. Loro non sanno. E lo adorano. “Un giorno vidi passare un pulmino pieno di ragazzini. Salutavano. Andai da Sebastianelli, il commissario di Polizia del luogo e lo pregai: ‘Mi dia una possibilità, sarei felice di fare il buffone per loro’. Lui garantì per me e adesso, quell’impegno è diventata la ragione della mia vita”. L’accento romano è imbastardito. I ricordi lucidi. La rabbia ancora giovane. “Sono anni che dico che la Magliana è viva. I magistrati mi danno retta a intermittenza, ma nessuno ha la forza di smentirmi. Io non ho opinioni. A domanda rispondo e se non so, sto zitto”.
Quante persone ha ucciso, Mancini?
Con la “bandaccia” tante. Prima, quando operavo a Val Melaina, ancora di più. Ogni volta che dovevo ammazzà qualcuno io dicevo “lo mandamo a salutà Adriano”. Era come una parola d’ordine.
Chi era Adriano?
Mio padre. Comunista tutto d’uno pezzo. Me diceva sempre “addavenì baffone”. Sotto lo studio di Lucio Libertini, il deputato, aveva messo le radici. Libertini gli aveva promesso una casa popolare. Noi vivevamo in otto in due camere. Ma baffone non arrivava mai e mio padre è morto senza avere un tetto. E io guardavo quelli con il Rolex e la Ferrari e mi ripetevo: “Mejo dù anni ar gabbio che stà in due camere con sei creature”.
Quale è l’omicidio che le è più rimasto impresso?
Quello di Nicolino Selis. Lui temeva di finire ammazzato, ma riuscimmo a fissare un appuntamento in una villa di Ostia. Gli dissero che ero uscito dalla Banda, che mi ero messo in proprio. E lui cadde in trappola. Scavammo la buca e lo aspettammo. Mi trovò seduto su un divano ed ebbe il coraggio di scherzare: “Accattò, ma che finaccia hai fatto”. Io mi girai e risposi: “non sai la fine che stai a fa te”. Un secondo dopo, Abbatino tirò fuori la baiaffa da una scatola di cioccolatini e gli sparò in testa. Poi presero la mira anche gli altri.
Pentimenti?
Affrontavo le curve a 300 all’ora ed ero convinto che sarei morto a 30 anni. Ho risparmiato gente che avrebbe meritato di morire e ucciso fratelli che si fidavano di me.
E le sembra normale?
Un mio amico studioso di sciamanesimo sostiene che in fondo non sia successo niente. Il mio è solo un percorso di vita. A 12 anni volevo dominare il mondo. Quando la cavalcata epica si è trasformata in una pozzanghera di sangue, ho detto basta. La mia prima figlia era cresciuta senza un padre, non volevo che con la seconda accadesse lo stesso.
Uccideva per i soldi?
Sono stato miliardario, ma il denaro l’ho sempre disprezzato. I soldi li ho avuti ma me li sò magnati tutti. Adesso sono rovinato, dormo in uno spazio grande come una cabina telefonica. Ci siete, potete valutare.
Quanti metri quadri?
Metri? Centimetri. Sono stato io a chiedere al Comune di vivere qui in periferia. Neri, gialli, rossi. Gente che ti suona alle due di notte. “Che c’hai una birra? ” Lo stagno mio.
“SI FACEVA CHIAMARE PRESIDENTE”
Ieri nuotava nella criminalità.
Come Renatino De Pedis, di cui oggi si parla tanto. Con lui ruppi nel momento in cui fece uccidere Edoardo Toscano e fui contento quando l’ammazzarono. Toscano, l’operaietto, componente della banda, era un mio amico.
De Pedis non lo fu mai?
Non era più un bandito, si era imborghesito. Oggi sarebbe in Parlamento. Dalla nuova banda che si era creato tra Tor Pignattara e Marranella si faceva chiamare Presidente.
Lo pretendeva anche da voi?
Io gli sputavo in faccia. Era entrato in un giro strano con Massimo Carminati, un fascista che oggi fa i miliardi con i ristoranti.
Sabrina Minardi - l’ex compagna di De Pedis - dice che tutti sapevano che Renatino era l’uomo del Vaticano.
E del Cardinal Poletti. Renatino fu accompagnato in Vaticano da Enrico Nicoletti e Flavio Carboni. Di suo, De Pedis non sapeva “accucchià” due parole in italiano. Ma era bello. Regale. Presentabile. Mi veniva a prendere la domenica, andavamo alla pasticceria Andreotti e poi al Bolognese. Quando parlava con il potente di turno o l’onorevole si inchinava. Io lo cazziavo e lui ribatteva: “Ah Nì, adesso mi inchino io, dopo si piegheranno loro”.
Che ruolo ebbe De Pedis nel rapimento Orlandi?
Guidò la macchina che servì al sequestro della ragazza. Il rapimento fu deciso da mafiosi e testaccini. C’erano soldi che non rientravano e la scelta era tra lasciare qualche cardinale a terra ai bordi della strada o colpire qualcuno che fosse vicino al Papa e che aveva rapporti economici con noi per marcare un segno. Scegliemmo la seconda strada.
Quanti soldi?
Più di duecento milioni di dollari che la banda aveva riciclato per lo Ior e che non aveva più rivisto dopo il crack dell’Ambrosiano. Ioe Danilo Abbruciati nell’81 andammo a Milano, per incontrare gente del Banco legata a Calvi e alla P2. A portare a Wojtyla la foto scattata in piscina a Castelgandolfo in cui lui era circondato dalle suore fu Gelli in persona. Tutto era legato.
Abbruciati morì nell’82, ucciso da una guardia giurata dopo il fallito attentato a Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano.
La guardia giurata non sparò mai e subito dopo scomparve nel nulla. Abbruciati non era uno sprovveduto. Lo ammazzò lo Stato, perché Danilo aveva visto troppo. Pensate che a Milano sarei dovuto andare io. Danilo si rifiutò: “Se viaggio io otteniamo più soldi”.
Perché proprio la Orlandi?
Ve l’ho detto. Il padre di Emanuela non era un semplice messo. Era molto di più.
L’ha mai detto ai famigliari?
Quando vidi Natalina, la sorella di Emanuela, negli studi di Chi l’ha visto? le dissi esattamente così. D’altronde Nicola Cavaliere, un bravo poliziotto, inascoltato, lo disse subito. “La Orlandi è legata ai soldi della Magliana”. I giudici lo ignorarono, nessun magistrato voleva un carico del genere. Ora hanno detto che mi chiamerà l’Antimafia. Sto qui, vado, non mi nascondo. Non ho paura di niente.
Non ha perso l’arroganza dei tempi d’oro.
Non è questione di arroganza, ma di verità. Quando decisi di collaborare per la prima volta erano presenti Otello Lupacchini e il questore Fiorelli. Fui chiaro: “Volete il mio aiuto? Non vi ho cercato io. Se lo volete sappiate che smonterò una a una le bugie di Abbatino”. Rimasero sorpresi.
Il libro di De Cataldo?
Un bufalificio. In Romanzo criminale ha scritto che disprezzavo Pasolini dandogli del frocio. “A De Catà, io leggevo Pier Paolo quando tu ancora non eri nato”.
C’è chi sostiene che la Magliana fosse anche dietro al caso Moro.
Certo, fummo noi a trovare il covo di Via Montalcini. Selis lavorava anche per Raffaele Cutolo e passò la dritta a Franco Giuseppucci, detto “er negro”. Fu lui a portare la notizia a Flaminio Piccoli. Si incontrarono carbonari, sotto un ponte, vicino aPiazza Cavour. Le Br erano completamente eterodirette dai Servizi, infiltrate dallo Stato.
Qualche storico ritiene che Moro a Via Montalcini non sia stato mai.
E invece c’era. Poi non so se sia passato anche a Palazzo Caetani o a Palo Laziale, come alcuni suggeriscono. Venni a sapere che le lettere di Moro e i video degli interrogatori erano stati presi da una ex amante di Danilo Abbruciati. Un’ex partigiana al soldo del Mossad. Danilo sul sequestro dello statista Dc sapeva tanto.
Furono esponenti della Banda della Magliana a sparare a Moro?
Possibile. Non mi meraviglierebbe. Noi, la Mafia, il Vaticano, la politica. Nicoletti gestiva i nostri soldi e quelli di Andreotti, contemporaneamente. Il resto dell’arco costituzionale, a iniziare dall’esponente antiterrorismo più in vista del Pci, sapeva tutto. C'erano rapporti con i socialisti. Si parlava spesso di un siciliano, un pezzo grosso. Uno che avevamo tra le mani, cui potevamo rivolgerci senza troppi problemi e dare disposizioni.
A proposito di Andreotti. Mancini cosa sa del caso Pecorelli?
Tutto. L'abbiamo ucciso noi e i siciliani. De Pedis aveva la pistola con cui era stato ammazzato. A finirlo andarono in tre. Angelo La Barbera e Massimo Carminati.
Il terzo?
Non lo dico, è un mio amico. Quando mi interrogarono il nome lo feci, ma aggiunsi: “Se lo verbalizzate non firmo neanche sotto tortura”.
Un fascista?
Non attacca.
“CI AVETE CHIESTO PECORELLI ”
Il vostro referente mafioso a Roma?
Con Pippo Calò andavo a mangiare, ma non mi piaceva. Noi della banda pippavamo, quelli erano sempre in doppio petto. De Pedis dormiva a Villa Borghese in un appartamento dei servizi segreti, la coca stravolgeva molti ambiti. E la Magliana li controllava tutti. Facevamo riunioni con i vertici di Carabinieri e Polizia, con i servizi segreti, con chi ci avrebbe dovuto arrestare.
Frequentavate anche gente dello spettacolo?
L’attrice Gioia Scola stava sia con Paolo Berlusconi che con un amico mio. Quando andai a riferirlo in Procura, al nome di Paolo Berlusconi, il magistrato spense il registratore. Neanche Silvio, Paolo. Vi rendete conto? Sputtanare Gioia Scola andava benissimo, Paolo Berlusconi spaventava.
Cosa sa della strage di Bologna?
Furono i fascisti manovrati dallo Stato. Forse gente intorno a Delle Chiaie, forse il gruppo di Massimiliano Fachini. Non Fioravanti e in ogni caso, qualcun altro della Banda intervenne in un secondo tempo allo scopo di depistare.
Chi Mancini?
Massimo Carminati. Un fascista che teorizzava l’ordine nel disordine. Anarcofascisti si facevano chiamare. “Noi uccidiamo il potere” urlavano. Mortacci loro.
Ha le prove per dirlo?
Se sarò chiamato a fornirle, le darò.
Pensa mai alle vittime?
Se è per questo anche ai carnefici. Alla P2. Con Ab-bruciati che come Giuseppucci, con i servizi aveva rapporti solidi, andavo nell’ufficio di Ortolani in Via Bissolati. Incontravo Luigi Cavallo, che voleva ancora fare il golpe e diceva di essere amico di Sin-dona. Noi volevamo salvare Francis Turatello, tirarlo fuori dal carcere e ai nostri interlocutori milanesi dell’Ambrosiano e ai piduisti l’avevamo detto chiaramente: “Ci avete chiesto Pecorelli e Moro e noi abbiamo rispettato i patti. Adesso tocca a voi”.
Ma Turatello morì a Badu ‘e Carros nell’agosto 1981 in modo atroce.
Un dolore enorme. Dicono che l’abbia ucciso Pasquale Barra sventrandolo e mangiandogli il cuore, ma è una cazzata. Barra prese quattro schiaffi, gli esecutori furono altri e l’ordine di far fuori Francislo diede Luciano Liggio in persona. Francis riceveva lettere dai politici. Lo chiamavano capo.
Per sparare ai fratelli Proietti nell’81, lei in Via di Donna Olimpia a Roma improvvisò un Far West.
Marcellone Colafigli era ossessionato dalla morte di Giuseppucci. Dormivamo nella stessa casa e a volte, di notte, si svegliava. “Nino, er negro è uscito dal televisore. Continua a ripete ‘na frase”. Allora io lo assecondavo. “Che frase? ” E lui: “Ahò, ma nun me vendicate mai? ”. Proietti era un ricattatore, bisognava farlo.
PALLOTTOLE, MICA PRANZI DI GALA
Impressiona sentirglielo dire.
Lo capisco, ma la mia vita non è stato un pranzo di gala. Ho incontrato infami ec ornuti. Ho sparato, ucciso e sempre saputo che un colpo poteva ammazzare anche me. Quando te tocca te tocca, è inutile che ti guardi le spalle. Se arriva, arriva.
A De Pedis, nel ’90, arrivò.
De Pedis era un cacasotto. Avrebbe dovuto morire prima, durante una pausa del processo. Colafigli che non gli aveva perdonato l’omicidio di Edoardo Toscano fremeva. Aveva preparato il laccio nel furgone dei Carabinieri. Era livido: “Stamattina je tocca”. Lo fermai io. Fabiola Moretti, la mia ex compagna scrisse a Renatino: “Se te vuoi salvà mettite vicino a Nino”. Lui eseguì, spaventatissimo. E io lo sfottevo: “Stà buono, non sudà”. Forse così scemo non ero.
Pazzo?
Quando dividevo l’abitazione con Pasquale Belsito, un neofascista, lo vedevo sempre giocare con le bombe a mano. Io e Colafigli pippati di cocaina come scimmie eravamo terrorizzati. Se essere pazzi assomiglia a un’esistenza così, sì, lo sono stato. Mi sono anche divertito. Con Abbruciati andavamo a donne. A volte, sul più bello, lo baciavo in bocca, così per creare un diversivo. Ve li immaginate due delinquentoni come noi impegnati a scandalizzare le ragazze?
La banda oggi?
Quando ho visto la foto di Mokbel (l’imprenditore romano che avrebbe supportato l'elezione al Senato di Nicola Di Girolamo, ndr) sul giornale mi è preso un colpo. Gennaro era il mio guardaspalle. Con Roberto D’Inzillo mi veniva a prendere in moto ogni mattina. Ha fatto sue le tecniche della banda, ma il più pericoloso, il vero capo di Roma, è un altro.
Chi?
Una nostra vecchia conoscenza uscita sempre indenne dai processi. Andate a controllare e troverete il nome.
Come Flavio Carboni all’epoca della Magliana?
Non fatemi ridere. Carboni era patetico. Si travestiva con tacchi e parrucchino e faceva affari con Berlusconi. La prima volta che lo vidi però provai un sollievo assoluto. Se questo è il famoso Carboni, su Roma e sull’Italia comanderemo per tutta la vita.
C’è una morale in tutto questo?
Ho sempre diffidato delle morali e non sarei comunque la persona più adatta. Forse però aveva ragione Domenico Sica, l’ex alto commissario antimafia. Era certo che la Banda fosse più potente di Cosa Nostra e dei Servizi messi insieme. Non credo avesse torto.

Corriere 15.5.12
«Ora serve la verità» Da Bellocchio a Cavani si schierano i registi
di F. Pe.


ROMA — «Basta trame oscure e segreti di Stato: è ora di far emergere tutte le verità, soprattutto quelle più scomode». Il mondo del cinema, su impulso del regista e produttore Renzo Rossellini, che negli anni Settanta fu fondatore delle radio libere e poi presidente della «Gaumont Italia», si mobilita a fianco della famiglia Orlandi. Nei giorni scorsi Renzo, il primo figlio oggi settantenne del maestro del neorealismo, ha posto la prima firma sotto un «Manifesto per la verità su Emanuela Orlandi» che ora sta intasando la posta elettronica di produttori, registi, sceneggiatori e, più in generale, esponenti della cultura e dello spettacolo.
Il breve testo inquadra il rapimento della figlia del messo pontificio nella politica internazionale degli anni 80. «Ci associamo alla richiesta della famiglia Orlandi per la verità e la giustizia in relazione alla scomparsa della loro congiunta Emanuela — è la premessa — e auspichiamo che Stato italiano e Vaticano (ognuno nell'ambito delle proprie istituzioni e prerogative) collaborino con trasparenza e vigore per arrivare a un rapido accertamento dei fatti e, ove possibile, all'individuazione dei responsabili del sequestro, a tutti i livelli».
L'invito è dunque a ricercare non solo gli esecutori materiali del «prelevamento» della ragazzina quindicenne (secondo l'ultimo filone d'indagine eseguito da esponenti di secondo piano della banda della Magliana), ma anche gli ipotetici mandanti. Concetto chiarito nella frase conclusiva del «Manifesto»: «L'Italia dopo troppi decenni di trame oscure ha bisogno di liberarsi delle ombre del suo passato, per guardare con rinnovata fiducia al proprio futuro».
Tra i firmatari dell'appello figurano i registi Marco Bellocchio, Francesca Archibugi, Liliana Cavani e Valerio Jalongo, il critico Enrico Ghezzi, l'editore Giulio Savelli, il produttore Domenico Procacci e la scrittrice Lidia Ravera. «Cultura e democrazia devono camminare insieme. Basta con misteri e trame», dice Rossellini, il cui lavoro più recente sul versante dell'impegno civile è stato il documentario sulla mafia «Diritto di sognare», girato nel 2006.
Ma perché scegliere proprio il caso Orlandi come emblema di tutti gli intrighi? «Il sequestro di una ragazzina con cittadinanza vaticana come Emanuela — risponde il produttore — si inquadra in un contesto molto preciso: quello di un possibile ricatto al Vaticano negli ultimi bagliori della guerra fredda e alla vigilia della caduta del muro di Berlino, alla quale Giovanni Paolo II diede un contributo decisivo. Non dimentichiamo i due tentativi di assassinare il papa polacco e nemmeno Alì Agca e i successivi processi, il ruolo avuto dai servizi segreti sovietici e la mancata individuazione di complici nell'attentato a San Pietro. Così come non dimentichiamo i rapporti tra il Banco Ambrosiano di Calvi e lo Ior, i soldi sporchi della mafia, l'omicidio Ambrosoli e l'avvelenamento di Sindona».
La ricostruzione di Rossellini coincide a grandi linee con il filo rosso dell'inchiesta seguito dai magistrati nella prima fase: 1981, attentato al Papa; 1982, morte di Calvi a Londra; 1983, sequestro Orlandi. Uno scenario da «grande complotto» che sta rimbalzando anche sulla stampa estera: «Emanuela, il Vaticano e i malavitosi: sembra un romanzo di Dan Brown e invece è realtà», ha titolato nei giorni scorsi il giornale belga Le Soir. «La storia del mondo, con la sua successione di fatti più o meno comprensibili, come tale è anche cultura. Ecco perché — conclude il produttore — è giusto schierarsi con Pietro Orlandi, alla ricerca di queste verità scomode».

Repubblica 15.5.12
Giancarlo De Cataldo, autore di "Romanzo criminale" è scettico sulla possibilità di ritrovare nella chiesa i resti di Emanuela
"Ma dopo vent´anni su quella banda ancora troppi depistaggi e coperture"
di Massimo Lugli


Restano segreti i contatti con molti apparati dello Stato e della finanza. La forza della gang è derivata anche dalla guerra fredda

ROMA - «La banda della Magliana ha ancora dei segreti da svelare. In particolare i rapporti tra la fazione dei Testaccini e molti ambienti insospettabili. Misteri che, dopo oltre vent´anni, sono ancora celati da depistaggi e coperture».
Misura le parole Giancarlo De Cataldo, magistrato e romanziere di culto, la penna che ha creato "Romanzo Criminale"e dato vita all´interminabile saga dei "Bravi raqazzi", tra gli anni ´80 e ´90, conquistarono Roma a colpi di pistola, mitra e insospettabili alleanze. Film, fiction, romanzi che prendono spunto dalla realtà ma troppo spesso decollano su piste totalmente improbabili. E l´apertura della tomba di Enrico De Pedis, alias "Renatino", alla ricerca dei resti di Emanuela Orlandi era sembrata a molti un copione poco credibile. Lo stesso De Cataldo, con tutta la sua cautela di uomo di legge, non aveva mai nascosto il suo scetticismo.
Avrebbe ipotizzato uno sviluppo del genere in un romanzo?
«No. Se l´avesse scritto Dan Brown avrebbe venduto milioni di copie ma i lettori di un autore italiano avrebbero fatto spallucce. Era, obiettivamente, molto improbabile che i resti di una ragazza scomparsa finissero in una basilica anche se bisogna, doverosamente, aspettare l´esito di tutti gli accertamenti».
La banda della Magliana avrebbe potuto usare la tomba del boss come cassaforte per qualcosa di compromettente?
«Difficile. La gang della Magliana non aveva alcuna disposizione per la ritualità tanto cara a molte organizzazioni criminali, anzi, si prendeva gioco di certe tradizioni come la "punciuta" o altri riti di affiliazioni. La sua forza stava anche in questo. Il suo metodo era lineare: se qualcuno si metteva di traverso lo facevano fuori, tutto qui».
Ma il fatto che "Renatino" sia stato sepolto proprio a Sant´Apollinare è un mistero inquietante...
«Mi risulta che la famiglia di De Pedis abbia pagato una certa somma per la sepoltura nella chiesa. Non c´è nulla di strano visto che sono molto religiosi e che anche lui lo era».
Malavitoso e credente?
«Succede in tutto il mondo. Dal camorrista col santino di padre Pio nel bagagliaio imbottito di cocaina al narcotrafficante con l´immagine della Madonna sul calcio del mitra».
Della Magliana sappiamo quasi tutto, ma di Emanuela Orlandi?
«No, della gang della Magliana si sa molto ma non tutto. E in particolare restano segreti i contatti con molti apparati dello Stato e della finanza, alleanze che i Testaccini, e in particolare Enrico De Pedis erano bravissimi a stringere. In quegli anni molti ambienti, a tutti i livelli, erano ossessionati dalla paura del comunismo ed erano disposti a rivolgersi a chiunque per allontanare questo spettro. Credo che la forza della banda della Magliana sia derivata anche dalla guerra fredda ma è singolare che a 20 anni dalla caduta del muro ci siano ancora coperture e depistaggi. Anche questo rende il nostro Paese meno credibile».
Sull´apertura della tomba c´è stato un braccio di ferro tra procura e squadra mobile, lei cosa ne pensa?
«Non mi risulta. Le indagini sono coordinate dal procuratore, che dirige anche la polizia giudiziaria, e si cerca di dare una risposta alla sete di verità anche quando si tratta di casi molto lontani nel tempo».
Come l´Olgiata e via Poma. Il primo risolto, il secondo finito con un´assoluzione in corte d´Assise d´Appello, dove lei era giudice a latere. E Emanuela?
«Sulla scomparsa di Emanuela Orlandi c´è un´inchiesta in corso e non mi pronuncio, io appartengo alla magistratura giudicante, non inquirente. Posso dire tranquillamente che le nuove tecnologie offrono ottime possibilità investigative ma non miracoli. Quelli non avvengono mai».
Ha in programma un nuovo libro sulla banda della Magliana?
«Beh, diciamo che sto lavorando a un romanzo. E che torneranno personaggi già visti». Come in tante inchieste a puntate che non finiscono mai.

La Stampa 15.5.12
Abusi su minori. Serve un’opera di monitoraggio
di Irene Tinagli


Episodio increscioso», «caso sconcertante», così vengono tipicamente definiti i casi di abusi su minori, come eventi casuali, imprevedibili e insondabili. Come il caso della tredicenne violentata pochi giorni fa a Milano da un insospettabile imprenditore trentenne. «Che caso strano, chi l’avrebbe mai detto? ». E invece casi come questi capitano a decine, che si sommano alle centinaia di altri abusi, di ogni genere, perpetrati su bambini anche piccolissimi. Troppo piccoli per parlare, per far notizia. Piccoli che arrivano negli ospedali pieni di lividi, ematomi, bruciature, spesso quando è troppo tardi. Violenze che maturano lentamente e inesorabilmente nel silenzio più totale, nell’indifferenza più o meno colpevole di vicini, parenti e persino dei genitori stessi. Che non vedono, o fanno finta di non vedere, come la mamma della ragazza disabile stuprata dal fratello per sette lunghi anni in Calabria e venuta alla luce solo un paio di mesi fa.
È difficile quantificare il fenomeno, perché, incredibilmente, nel nostro Paese non esiste un monitoraggio sistematico a livello nazionale. Esistono sporadiche indagini locali, i rapporti curati da Telefono Azzurro ed Eurispes (l’ultimo disponibile è di tre anni fa, e riporta le segnalazioni al numero 114) e pochissimo altro. Sulla pagina web dell’Osservatorio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza istituito nel 1997 si legge solo un post del 2008 in cui si elencano le sue funzioni, idem per il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza. L’ultima relazione sulla condizione dell’infanzia dell’Osservatorio disponibile online è del 2008-2009, e, pur toccando molti temi interessanti, non riporta alcun dato o analisi sul fenomeno dei maltrattamenti, violenze e abusi, probabilmente per mancanza o frammentazione delle fonti. Eppure il fenomeno esiste, eccome. I dati riportati in un rapporto Eurispes indicano che nei soli 4 anni tra il 1997 e il 2000 gli abusi su minori denunciati alle autorità sono aumentati del 90%. Due bambini al giorno sono oggetto di abusi sessuali, senza contare tutti gli altri tipi di maltrattamenti e violenza domestica che non sfociano in denunce e al massimo si esauriscono al pronto soccorso come finte cadute e sbadatezze. Dati internazionali più accurati dei nostri mostrano la gravità di un fenomeno che non accenna ad arretrare, ma anche anzi appare in preoccupante aumento, con conseguenze spesso fatali. Negli Stati Uniti, dove esiste un monitoraggio più sistematico, nel 2010 oltre cinque bambini al giorno sono morti a causa di maltrattamenti, quasi il doppio rispetto al 1998. L’80% di questi bambini aveva meno di 4 anni. In Italia il monitoraggio sistematico non c’è, ma chi segue le cronache locali non può non vedere quanto di frequente questi «episodi» capitino anche da noi. Perché non ne parliamo? Perché non affrontiamo questo fenomeno non come casi isolati e imprevedibili ma come un problema sociale da affrontare con seri interventi di prevenzione, informazione e cura? Perché i recenti suicidi legati alla crisi monopolizzano testate e trasmissioni per settimane intere, mobilitano comitati, manifestazioni e fiaccolate, mentre centinaia di bambini picchiati, maltrattati, violentati ogni giorno non fanno muovere un dito?
Forse perché preferiamo parlare di quelle vittime che ci consentono di identificare un nemico comune: il governo, i politici, Equitalia. Mentre la violenza sui minori, che è spesso domestica, ci costringe a guardarci dentro, a scavare dentro la nostra società, le nostre famiglie. Non è forse un caso se gli episodi di violenze e abusi su minori che raggiungono e scuotono di più l’opinione pubblica sono quelle in cui il nemico diventa visibile, ovvero casi in cui sono coinvolti stranieri, parroci o maestri. Perché in quei casi il problema non è più tanto l’abuso che matura in seno alla società o alla famiglia, ma diventa un altro: l’immigrazione, il declino della scuola o della chiesa. Eppure secondo le stime il 60-70% degli abusi avviene in contesti domestici e familiari. E non si creda che avvengano solo in situazioni di grande povertà ed emarginazione, o che riguardino solo genitori vittime di alcol e droga. Non è così. Come raccontano i pediatri che lavorano nei centri specializzati, abusi e violenze avvengono anche in famiglie benestanti, magari di manager e professionisti vittime non dell’alcol ma probabilmente di ritmi stressanti, solitudine, assenza di servizi, impreparazione di fronte a situazioni difficili e ingestibili. Casi insospettatibili che però si riversano indistintamente su minori indifesi. Per queste centinaia di piccole vittime mute non esistono appelli o petizioni, eppure sarebbe della massima urgenza intervenire, perché gli abusi su minori segnano vite intere, condannando non solo i percorsi individuali di chi ne ha sofferto, ma ripercuotendosi sulla società che li circonda, perché implicano problemi e difficoltà che si trascinano nel tempo aumentando la probabilità di ulteriore emarginazione e altri abusi.
Come si può intervenire? Innanzitutto cominciando a fare una vera e seria opera di monitoraggio, come da anni ci sollecita a fare il Comitato Onu per i diritti dell’infanzia. In secondo luogo rafforzando la rete di assistenza, i centri specializzati, che in Italia sono ancora molto pochi. E infine facendo una seria opera di formazione, sensibilizzazione e informazione, soprattutto presso le scuole e le famiglie. Formazione per far riconoscere i segni, per capire quando è il caso di intervenire, e anche per sensibilizzare le famiglie affinché sappiano vedere e rompere il muro d’omertà che troppo spesso le blocca e le chiude, e sappiano chiedere aiuto prima che si arrivi al peggio.
La famiglia è una grande risorsa, una fonte di solidarietà e supporto, ma può anche diventare una trappola in cui si infrangono sogni e speranze di bambini e adolescenti schiacciati dagli abusi e dall’indifferenza, bambini che non avranno mai una possibilità di riscatto. L’Italia più indifesa è proprio lì.

il Fatto 15.5.12
Acquedotto pugliese. La Corte dei conti: gestione preoccupante


La Corte dei conti, in una relazione al Parlamento, stronca la gestione finanziaria dell’Acquedotto pugliese (Aqp spa). Sotto la lente della corte è finita la distribuzione, nel giugno scorso, dell’una tantum straordinaria da 12 milioni e 250 mila euro all’unico socio, la Regione Puglia. La Corte contesta anche la rinuncia all’azione di responsabilità verso gli amministratori che hanno stipulato contratti derivati e che ora ricevono addirittura un bonus. Una legge del 2001 imponeva di privatizzare nel giro di sei mesi, ma la Regione Puglia di Nichi Vendola continua a gestire l’acquedotto: lo statuto che confligge con la legge statale. Il futuro finanziario dell’azienda, secondo la relazione della Corte dei conti, sarebbe in grave rischio. Il patrimonio dell’azienda ammonta a 207,6 milioni di euro nel 2010. Ma, si legge nella relazione, le disponibilità liquide “diminuiscono progressivamente fino a 86,2 del 2010”. E c’è una “forte dipendenza dalle fonti esterne di finanziamento”. Quindi, per la Corte, sarebbe stata fuori luogo la “distribuzione straordinaria da 12,5 milioni di euro a valere sulle riserve straordinarie di utili ante 2010”.

il Fatto 15.5.12
Un movimento per la vita da sindaco
risponde Furio Colombo


Caro Furio Colombo, vorrei sapere se il sindaco di Roma poteva presentarsi in fascia tricolore in testa a una marcia per l’abolizione di una legge della Repubblica. Lo ha fatto. Non è fuorilegge?
Letizia

NON CREDO che sia fuorilegge perché la libertà di opinione, poco amata da molti amici ancora fascisti del sindaco di Roma, vale anche per le ragioni sbagliate e le cause che non si condividono. Alemanno ha guidato un corteo di gente sperduta nel tempo che vuole abolire il diritto di scelta delle donne sulla maternità, dunque la legge 194. Alemanno ha reso ridicola la famosa affermazione – fatta anche da lui al momento dell’elezione – “sarò il sindaco di tutti”. Invece ha scelto di essere il sindaco di una piccola parte di fondamentalisti cristiani che intendono negare alle donne la scelta che è esclusivamente delle donne, le vogliono obbedienti, sottomesse e strumento esclusivo di procreazione. Per cogliere in un istante l'immensa ipocrisia della “marcia per la vita” guidata dal “sindaco di tutti” contro due terzi delle donne della sua città, basterà recarsi in un asilo privato e religioso, e chiedere quanto costa, per una mamma che lavora, iscrivere un bambino. Dopo avere appreso la cifra (un bambino all'asilo privato costa quasi come un laureando) suggerisco di recarsi all'ufficio del “sindaco di tutti” che ha marciato alla testa del corteo per la vita, e chiedere l'elenco e la dislocazione degli asili comunali. I due dati messi insieme costituiscono una situazione di truffa che, se non è penale, è certamente morale. Difficilmente Gianni Alemanno, attuale sindaco di Roma, poteva commettere un errore più grave, dato il suo lavoro e il simbolo che rappresenta. Difficilmente potrà essere rieletto. Perché molti sono i credenti, nella città di Roma, ma pochi coloro che si lasciano prendere in giro e poi ringraziano.
Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano

il Fatto 15.5.12
La marcia di Gianni è già cominciata
Alemanno tiene un piede in Campidoglio
di Silvia D’Onghia


Mancano slogan e manifesti sui muri, ma per il resto c’è tutto: onnipresenza, vocabolario, strette di mano e prese di posizione che tanto non comportano alcuna assunzione di responsabilità. Per Gianni Alemanno è partita la campagna elettorale per le amministrative del 2013. Una corsa lunga un anno. Quello che fino a pochi mesi fa sembrava improbabile, con uno scenario politico diverso e la corsa per un ministero alle porte, oggi appare invece una strada obbligata: non mollare il Campidoglio.
Alemanno vicino alle realtà della destra sociale (e dei movimenti come Casa-Pound), Alemanno antiabortista, Alemanno contro Monti, Alemanno per l’ambiente. Figurine di un album in cui il sindaco sta cercando una ricollocazione. Basta prendere una sola giornata, quella di domenica scorsa, per farsi un’idea di quanto sta accadendo. Con la fascia tricolore addosso, dopo aver accordato il patrocinio del Comune di Roma, il primo cittadino ha sfilato accanto ai promotori della “marcia per la vita”, contro i “cinque milioni di bambini morti” dall’entrata in vigore della legge 194 sull’aborto. Fianco a fianco con le associazioni cattoliche che avevano reclutato, attraverso le agenzie interinali, “dialogatori per raccolta fondi” (compenso garantito: 35/40 euro netti per l’intera mattina). Qualche fila più dietro, marciavano gli estremisti di Forza Nuova e Militia Christi. “A tutti quelli che si sono risentiti diciamo di applicare almeno la parte della 194 sulla prevenzione”, ha replicato alle polemiche il sindaco di tutti.
NELLO STESSO giorno, le pagine locali dei quotidiani hanno pubblicato un sondaggio Ipr Marketing (commissionato dall’agenzia Omniroma) sulle intenzioni di voto dei romani. Numeri difficili da comprendere. E non tanto per la caduta libera del Pdl (22 per cento) o per la tenuta del Pd (27). Quanto per la scelta del sindaco: Alemanno è dato al 52 per cento, Zingaretti al 48 (mancano primarie e candidatura ufficiale, ma che sia l’attuale presidente della Provincia lo “sfidante” è ormai certo). Trenta punti di differenza, alla faccia del voto disgiunto. “È lo stesso istituto di sondaggi secondo cui Alemanno era apprezzato dal 44 per cento dei romani durante la catastrofica emergenza neve”, ironizza il segretario capitolino del Pd, Marco Miccoli. “Di più, sono gli stessi che hanno prospettato la vittoria della Moratti a Milano. Quindi è di buon auspicio”, gli fa eco il consigliere democratico Paolo Masini. Ma ancora: nelle stesse ore in cui la fascia tricolore e il sondaggio marcavano un territorio che sembra in realtà perso da tempo, si è registrata un’altra uscita col sapore della campagna elettorale. Dal sindaco è arrivato il no definitivo alla discarica di Corcolle, il sito scelto dal prefetto e commissario straordinario per i rifiuti, Giuseppe Pecoraro, a pochi passi dall’area archeologica di Villa Adriana, patrimonio mondiale dell’Unesco. “Eppure ancora prima del commissariamento – prosegue Miccoli – nella conferenza dei servizi su Corcolle, l’unico a dire no fu Zingaretti”. È di ieri, infine, la lettera inviata via mail ai cittadini in cui Alemanno, insieme col presidente dell’Anci Delrio, critica l’Imu voluta da Monti, una tassa che “non porterà risorse aggiuntive nel bilancio del Tuo comune”.
La verità è che il sindaco deve vedersela anche con le correnti interne al Pdl romano, che in gran parte lo ha scaricato. Anche ieri è mancato in Campidoglio il numero legale e la seduta dell’aula Giulio Cesare è saltata. La stessa intenzione di svendere ai privati l’Acea, la municipalizzata romana che gestisce elettricità e acqua, non piace affatto ai suoi colleghi di partito. E del resto un posto nel futuro governo è un’ipotesi sempre più remota. Per cui meglio battersela per il Campidoglio che per avere un posto da capogruppo. Nella migliore delle ipotesi.

il Fatto 15.5.12
Il primo cittadino e le cittadine inascoltate
di Lidia Ravera


INQUIETANTE LA FOTO SUI GIORNALI DI IERI: il sindaco Alemanno, sorriso sublime su fascia tricolore, si pavoneggia in prima fila fra le “scout”, nel corso della riesumazione dell'ennesima “marcia per la vita”. Dietro di lui un cartello pulp-horror: “Ogni aborto è un bambino morto”. La manifestazione è ciclica e la composizione è fissa: un pugno di integralisti residuali, qualche trafficante dell'anima in cerca di visibilità, partiti vuoti in cerca di voti (vaticani). A ogni tornata elettorale, da più di 30 anni, la sacra brigata attacca, in nome della “vita”, l'unica legge davvero schierata “per la vita”, la 194, che ha ridotto il ricorso all'aborto del 60%, che ha azzerato il rischio di infezioni mortali legate alle pratiche clandestine, che ha preteso e difeso il diritto delle donne a diventare madri quando lo desiderano e non quando capita. Sono due mondi che si contrappongono: chi difende la vita dell'embrione e per pompare emozione lo descrive come un bimbo. Chi difende la vita delle donne e, per perseguire l'obiettivo, ha, per esempio, raccolto migliaia di firme contro la trasformazione dei consultori del Lazio in tribunali dell'Inquisizione (legge Tarzia). Il sindaco Alemanno ascolterà anche queste  cittadine o farà come la Polverini che non le ha neppure ricevute?

Repubblica 15.5.12
Sì alle nozze gay, la Chiesa attacca Obama
Ma secondo un sondaggio, il 51% degli americani approva, solo il 45% si dice contro
di Arturo Zampaglione


NEW YORK - Invitato alla cerimonia conclusiva dell´anno accademico di Barnard, il college femminile della Columbia university, Barack Obama si è ritrovato ieri sera sullo stesso palco di Evan Wolfson, strenuo difensore delle nozze gay. Prima all´università, poi in una serie di fund-raising newyorkesi, tra cui uno organizzato dal cantante Ricky Martin (anche lui dichiaratamente omosessuale), il presidente americano ha così avuto l´opportunità di difendere la sua recente svolta a favore dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. Una scelta, questa, assieme coraggiosa e rischiosa: come confermano le levate di scudi non solo da parte dell´episcopato cattolico e degli evangelici bianchi e conservatori, ma anche dei pastori afro-americani che fin qui avevano sempre appoggiato Obama.
Per la verità la Casa Bianca si aspettava una reazione ostile del mondo religioso, tant´è vero che il presidente, dopo aver ufficializzato in un´intervista alla rete Abc la sua nuova posizione, aveva subito contattato una dozzina di esponenti delle chiese afro-americane per spiegare in teleconferenza l´evoluzione del suo pensiero e soprattutto per contenere i danni. Aveva anche chiamato i cinque leader spirituali che consulta regolarmente. Il risultato? Molto scarso, a sentire il New York Times che per primo ha rivelato la controffensiva della Casa Bianca.
E´ ancora difficile valutare l´impatto della svolta sui gay sulle presidenziali di novembre. Il candidato repubblicano Mitt Romney non ha perso tempo nel chiedere ai settori più tradizionali dell´elettorato indipendente di punire Obama. Ma l´opinione pubblica sembra invece più favorevole alla Casa Bianca. Secondo un primo sondaggio a caldo della Gallupp, il 51 per cento degli americani approva il sì del presidente alle nozze gay, mentre solo il 45 lo condanna.
Il tema continua a suscitare forti emozioni negli Stati Uniti e due settimanali molto noti hanno così deciso di dedicare l´ultima copertina alla sterzata della Casa Bianca. Sul New Yorker si vede l´immagine posteriore del palazzo presidenziale con le colonne del porticato, non bianche come nella realtà, ma con i colori dell´arcobaleno, simbolo del movimento gay. E su Newsweek compare un´immagine di Obama con l´aureola sulla testa, dipinta con gli stessi colori, assieme alla scritta ironica: «Il primo presidente gay».

Corriere 15.5.12
Violenza sulle donne la proposta e l’appello
Le donne minacciate dalla violenza È tempo che cadano alibi e steccati
La 27esima ora


«Non sta succedendo a me». Luisa, 38 anni, toscana, dice di essere andata avanti per mesi con quel pensiero fisso. Mesi durante i quali il fidanzato, da cui attendeva un figlio, alternava momenti di tenerezza a scatti di ira, carezze e botte.
Chi lavora con le donne maltrattate spiega che dalla fase «non sta succedendo a me» passano quasi tutte.
Quasi tutte le donne vittime di quelle violenze che nascono — e si ripetono — nella coppia.

Sono 59 le donne uccise in Italia dal partner o dall'ex partner nel 2012: nei primi quattro mesi del 2007, cinque anni fa, erano state «solo» 29. Questi numeri raccontano un'emergenza nazionale. Anche perché gli omicidi, spesso, sono solo l'ultimo atto di anni di abusi, vessazioni, maltrattamenti. Storie quotidiane, ci insegna la cronaca. Storie che possono capitare a chiunque.
«La violenza dei numeri, le responsabilità di tutti» è la lettera aperta che verrà consegnata oggi al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dalle «Donne in rete contro la violenza», un'associazione che raggruppa 60 centri dei 130 esistenti nel Paese. Un doppio appello: affinché la lotta alla violenza tra le pareti domestiche diventi una priorità per il governo e affinché non vengano tagliati i fondi ai centri che quelle donne soccorrono. E proteggono.
Vergogna, sensi di colpa, un «silenzio assordante» — come scrive la psicologa Patrizia Romito — circondano questi reati: secondo l'Istat solo il 7% viene denunciato. Quando i lividi non si possono nascondere, è «la donna che sbatteva nelle porte», come racconta lo scrittore inglese Roddy Doyle nel testo portato in scena da Marina Massironi.
«Mi picchiava e io lo scambiavo per un gesto d'affetto: credevo che lo facesse perché mi amava. Pensavo di meritarlo», racconta Sara, 50 anni, romana, che dopo dieci anni di sevizie e referti in ospedale si è ritirata all'ultimo dal processo per maltrattamenti contro il marito.
Un passato lontano, un'eredità difficile che si pensava alle spalle? O in via di naturale superamento collettivo? E' vero il contrario. Non è un caso se un omicidio su due avviene nelle tre maggiori regioni del Nord - Piemonte, Lombardia e Veneto - dove il lavoro femminile è più diffuso e più forte è l'aspirazione delle donne all'autonomia. Non è un caso se il momento più a rischio si rivela quello della separazione o della chiusura del rapporto: «L'odio tira fuori il suo muso di assassino quando, per una ragione qualsiasi, lei non sta più dentro il quadro in cui lui l'ha messa e pretende che rimanga: il quadro disegnato da un misto di oscure aspettative e di ovvie comodità», sintetizza la filosofa Luisa Muraro.
La psichiatra francese Marie France Hirigoyen, nel suo libro Molestie morali, dimostra che c'è sempre un momento preciso in cui tutto parte: un evento, anche solo una frase che punta ad abbattere consapevolezza e desideri. Sono le spie di un'ossessione malata, destinata a crescere. Se si avessero le chiavi per decodificare i segnali, imboccare il tunnel che porta a diventare vittime di violenza sarebbe meno semplice. Capire significa salvarsi. Ed è importante che capiscano l'entità del rischio le persone che per prime incontrano le donne: medici di base, vigili, poliziotti. Formazione, protezione, sostegno legale, psicologico e materiale: i centri antiviolenza oggi sono i luoghi dove trovare tutto questo.
I centri, però, sono a rischio: dei 60 che fanno parte della rete Dire (14 mila donne ogni anno chiedono il loro aiuto), 5 sono già chiusi e 20 soffrono per una costante diminuzione di fondi. Anche le altre realtà che operano sul territorio affrontano le stesse difficoltà. E non esiste una legge nazionale che garantisca la continuità e l'omogeneità degli interventi.
Esiste — per ogni problema che colpisce un gruppo sociale, piccolo o grande che sia — una «fase A» in cui solo chi è coinvolto direttamente, chi ne sente il peso in prima persona, avverte il dovere di parlarne e cercare soluzioni. Ed esiste una «fase B» in cui il dibattito si approfondisce, coinvolgendo parti più estese della comunità. Il tema della violenza sulle donne nel nostro Paese sembra ancora relegato in quella prima fase, la «pre-maturità». Una faccenda di donne per le donne. Oggi la chiamata alla responsabilità da parte degli uomini è sostenuta da poche voci. Ma è tempo che gli alibi e gli steccati cadano, che vengano svuotati gli stereotipi che determinano poi certi comportamenti maschili, perché quello che Lea Melandri chiama «il fattore molesto della civiltà» — quel groviglio fra amore e violenza che inchioda le donne nel ruolo delle perdenti — venga sezionato e dipanato, filo dopo filo. C'è una cultura da cambiare. Intanto, proteggiamo quel poco che abbiamo: i centri antiviolenza.
Dei centri, delle donne, degli uomini, parleremo in un'inchiesta che cercherà di raccontare le storie e le contraddizioni degli equilibri di potere fra i sessi, aprendo uno spazio di riflessione. Alla ricerca di soluzioni possibili.
*La 27esima ora è un blog multiautore del «Corriere della Sera»
http://27esimaora.corriere.it/

il Fatto 15.5.12
Muore in carcere, da 50 giorni era in sciopero della fame
Romeno detenuto a Lecce con problemi psichici Il sindacato: “Le proteste non fanno più notizia”
di M. Luisa Mastrogiovanni


Il motivo del perché abbia deciso di non toccare più acqua né cibo per 50 giorni, fino a lasciarsi morire, forse si trova nelle lunghe lettere, dei veri e propri memoriali, che Popo Virgil Cristria, 38 anni, originario di Bucarest, scriveva in continuazione, a penna. Perché la macchina da scrivere non l’ha mai avuta dall’amministrazione carceraria, nonostante l’avesse chiesta tante volte, e neanche un vecchio pc. Da Borgo S. Nicola, a Lecce, dove era detenuto per scontare una serie di condanne per furto, chiamava a Monza il suo avvocato, Renata D’Amico, diventata per lui l’unico confessore. Popo aveva anche un fratello, a Bucarest, che telefonava di tanto in tanto per avere notizie, e una misteriosa benefattrice, che a Monza pagava per lui i conti dell’avvocato.
POI IL VUOTO, attorno a un uomo che appena maggiorenne aveva iniziato a entrare e uscire dal carcere, protagonista del “turismo giudiziario”, come lo chiamano le guardie penitenziarie. Uno dei 3000 detenuti – a detta della Uilpa Penitenziari – che ogni giorno in Italia vengono trasferiti da un carcere all’altro a causa dei sovraffollamenti. Prima del 2000, quando aveva cominciato a essere spostato da un carcere all’altro, dalla Campania alla Lombardia, in Puglia, Pop Virgil aveva vissuto per strada. Per un poveraccio come lui, tanti processi celebrati in contumacia, difensori d’ufficio distratti e non coordinati tra di loro. Una situazione processuale malgestita, la definisce l’avvocato-confidente. Era stato ricoverato anche nell’ospedale psichiatrico di Aversa, ma poi era stato ritenuto compatibile con il carcere.
Aveva chiesto che il magistrato riconoscesse i suoi problemi psichiatrici e si sentiva vittima del “sistema” giudiziario, professandosi innocente. Indifferenza e solitudine, attorno a lui, sufficienti per impazzire. Popo aveva tentato più volte il suicidio a Monza come a Lecce ed era stato più volte ricoverato in ospedale. I tentativi di suicidio e gli atti autolesionisti sono continuati fino al febbraio scorso.
Ma i tentativi di suicidio nelle carceri italiane e a Lecce non fanno più notizia, riferisce il segretario provinciale della Uilpa, Diego Leone: “Aspetti all’uscita del primo blocco e vedrà quante volte in un giorno esce l’ambulanza”.
IL CARCERE di Lecce, oggi, è al collasso. Il secondo d’Italia per sovraffollamento, ospita 1300 detenuti invece dei 650 previsti. La depressione è all’ordine del giorno: il 90% dei detenuti a Lecce fa uso di ansiolitici, il 16% è costituito da tossicodipendenti attivi e molti sono affetti da pluripatologie. Ci sono otto educatori e sei psicologi, cioè un educatore ogni 180 detenuti e uno psicologo ogni 240 reclusi. Due i suicidi nel 2010 e 20 i tentativi messi in atto. Sono 80 le visite giornaliere dei medici in carcere, oltre 24 mila in un anno (dati Centro servizi volontariato del Salento relativi al 2010). Mario Chiarelli, responsabile sanitario del carcere, assicura che Popo è stato visitato giornalmente da uno psicologo o da un medico, ma buttando uno sguardo alle statistiche, i conti non tornano. L’associazione “Antigone” ha chiesto all’Ufficio del Garante regionale per i diritti dei detenuti che attivi una para inchiesta, per capire come si possa morire in ospedale dopo 50 giorni di digiuno e che cosa sia stato fatto per scongiurarne la morte, se i protocolli siano stati rispettati, compresa l’osservazione medica costante e l’idratazione artificiale, fino al trattamento sanitario obbligatorio cui Popo non è stato sottoposto. “Si è strappata la flebo a metà, non voleva assistenza, poi lo abbiamo portato in ospedale”, dice Chiarelli. Era il 10 maggio, dopo tre giorni Popo è morto. Pesava 50 kg ed era alto 1.80. “La legge dice che non si può intervenire se uno rifiuta le cure”, conclude Chiarelli.

La Stampa 15.5.12
Severino in Connecticut lezione di svuota carceri
di Maurizio Molinari


I pesanti cancelli d'acciaio del «Garner Correctional Institution» si aprono per il ministro della Giustizia, Paola Severino, arrivata in Connecticut per approfondire come sia riuscito meglio di altri Stati americani a sfoltire la popolazione carceraria. Ad accoglierla c'è Leo Arnone, titolare del Dipartimento alle carceri che, affiancato dal team di agenti alla guida del penitenziario, esordisce così: «Il Connecticut è uno Stati più liberal d'America ma le nostre leggi sono molto conservatrici perché quando un giudice emette una condanna assai raramente il condannato esce prima del termine». E' una maniera per far comprendere al ministro italiano che lo sfoltimento dei penitenziari non è frutto di leggi lassiste bensì l'esatto contrario. «In Connecticut abbiamo 16 penitenziari e 16 mila detenuti che sarebbero il doppio senza le leggi sul reinserimento» aggiunge Arnone.
Su tali premesse inizia un serrato botta e risposta con la Severino, che fa domande tecniche, prende appunti e si dimostra ferrata sulle leggi del Connecticut. «Siamo qui perché avrete il problema del sovraffollamento come noi ma siete anche un modello di successo negli Stati Uniti» dice il ministro, chiedendo «dettagli sulla rieducazione attraverso istruzione e lavoro» come anche sul modello della «probation» ovvero l'uscita dal carcere con la «messa alla prova» sotto stretta sorveglianza per i detenuti giovani e spesso anche per quelli adulti. «Senza la " probation" la nostra popolazione carceria sarebbe il doppio» spiega Arnone, vantando «una percentuale di successo del reinserimento del 58 per cento» con la precisazione che «l'esito in ultima analisi dipende dalla collaborazione da parte della famiglia e della comunità di provenienza».
Più Arnone entra nei dettagli, più Severino si mostra e proprio agio. Lo scambio di informazioni è fitto. Severino mostra in particolare interesse quando l'interlocutore spiega che «il reinserimento dei detenuti adulti ha successo quando è pianificato con almeno sei mesi di anticipo» consentendo al carcerato di tornare fra parenti che lo accolgono e spesso anche in un posto di lavoro, grazie alla cooperazione fra Stato e imprese locali. La conversazione continua quando Arnone e Severino attraversano il carcere, dove fra i 642 detenuti ve ne sono anche 11 ancora nel braccio della morte sebbene il Connecticut abbia abolito il mese scorso la pena capitale. Severino visita il padiglione adibito al trattamento dei criminali con malattie mentali, entra nelle celle dei detenuti in massima sicurezza, sale le scale in ferro al centro del penitenziario e osserva la grande palestra che ospita i detenuti in attesa di giudizio che, non essendo ancora colpevoli, vivono in un ambiente senza restrizioni fisiche. Ovunque l'estrema pulizia dei luoghi si coniuga a un ferreo regime di sicurezza, con cani che cercano in continuazione le droghe e un sistema di sorveglianza elettronica che, nei venti anni passati dalla costruzione dell'impianto, ha consentito di scongiurare fughe e scoprire i piani di evasione orditi fuori. Lasciatasi alle spalle l'ultimo cancello massiccio Severino, accompagnata dal console generale a New York Natalia Quintavalle, ringrazia Arnone «per quanto ho visto e imparato» per poi raggiungere la vicina Hartford, dove ad aspettarla c'è il governatore Dannel Malloy. Lo saluta facendogli i complimenti per l'abolizione della pena capitale «perché sottolinea i valori che ci accomunano», soffermandosi poi su «reinserimento, rieducazione e cura dei criminali malati di mente» che sono alla base del funzionamento delle carceri.
«Le prigioni devono servire a riabilitare, non a sfornare criminali come quelli che vi sono entrati» replica il governatore, secondo il quale «la collaborazione delle Chiese è determinante per il reinserimento, soprattutto di ispanici e afroamericani» ma ciò che più conta sono «i posti di lavoro che le aziende offrono» per chi esce dalla cella con la giusta preparazione. «Credo nel reinserimento dei detenuti, soprattutto se giovani, e quanto avviene in Connecticut dimostra che le prigioni si possono sfoltire con successo ma serve grande impegno politico perchè deve essere soprattutto la comunità pronta ad accoglierli» commenta il ministro, sottolineando come «il braccialetto elettronico e la sorveglianza vengono qui associati ad un programma di reinserimento che include il circuito virtuoso del lavoro in maniera analoga a quanto vogliamo fare in Italia». Al momento dei saluti, il governatore Malloy fa riferimento a quel 20 per cento di italiani che sono il gruppo nazionale più grande del Connecticut: «Siamo molto legati a voi, basti vedere quante 500 circolano nelle nostre strade».

l’Unità 15.5.12
«Amate la Resistenza» 128 lettere indirizzate ai partigiani del futuro
Donne e uomini, che hanno combattuto il nazismo e il fascismo, passano il testimone alle giovani generazioni
di Andrea Liparoto


«GUAI A FAR NAUFRAGARE LA RESISTENZA NELLE PAROLE ENCOMIASTICHE. BASTERÀ DIRE CHE UN TEMPO LONTANO C’ERANO DEI GIOVANI. E poi iniziare a raccontarla da quel punto. Ritrovo con commozione i compagni persi nelle boscaglie, nei greti dei fiumi... Se potessero parlare direbbero: non vogliamo essere celebrati, ma amati» non usa mezze parole Nello Quartieri, 91 anni, ventenne comandante di Brigata durante la Guerra di Liberazione. Se la Resistenza deve continuare ad essere una risorsa per il futuro va fatta scendere dai palchi della retorica per circolare nelle coscienze e nei cuori in tutta la sua vitalità civile e umana. La Resistenza va amata. Una appassionata raccomandazione questa che attraversa tutte le 128 testimonianze contenute nel volume Io sono l’ultimo – lettere di partigiani italiani.
LE TESTIMONIANZE
Un progetto nato nel 2010, quando Giacomo Papi, giornalista, innamoratosi delle parole di una partigiana, Anita Malavasi «Laila», venne a bussare alle porte dell’Anpi per chiederci di collaborare ad una raccolta di racconti degli ultimi protagonisti viventi della Resistenza: un messaggio corale alle ragazze e ai ragazzi di oggi. E i nostri partigiani hanno colto immediatamente l’importanza e la necessità di «darsi», ancora una volta, forse l’ultima. Un antico senso di responsabilità mai sopito. Ci sono pervenuti centinaia di racconti, scritti a mano in molti casi, con la forza e l’autenticità di una testimonianza di ciò che è stato fino in fondo vita, scelte, coraggio, dovere. Ne è uscito un volume che ha il profilo di una vera e propria «piazza delle radici» dove dare appuntamento ai giovani, per incoraggiarli, e offrire un sentiero. Emo Ghirelli, 88 anni, CXLIV Brigata Garibaldi Antonio Gramsci, si rivolge direttamente al nipote: «Con noi collaborava il popolo migliore. Tante donne hanno contribuito alla lotta di Liberazione e senza il loro contributo la lotta sarebbe stata molto più dura. È stata dura abbiamo dovuto combattere contro un nemico che la guerra la faceva di mestiere ed era armato di mezzi potenti, mentre noi avevamo in dotazione armi leggere. Spero che tu, Gabriele, non abbia mai più bisogno di fare i sacrifici che abbiamo dovuto sopportare noi. Che tu possa vivere sempre in pace, mai più guerre. Questo messaggio vorrei che potesse giungere nelle mani di tutti i pronipoti del mondo, perché capiscano che impegnandosi per costruire la pace si possono evitare le guerre».
Storie dure, di sangue e dolore che non hanno minimamente scalfito la consapevolezza di un dovere che andava compiuto senza tentennamenti. Didala Ghilarducci era una ragazza di 23 anni. Nel settembre ’43 aveva dovuto abbandonare la sua casa di Viareggio, pochi giorni dopo la nascita del figlio, perché i fascisti cercavano suo marito «Chittò», partigiano. Alla fine dell’agosto del 1944 lo troveranno e massacreranno. Didala è scomparsa qualche settimana fa, dopo aver tirato su un figlio da sola e speso tutti i suoi giorni nell’Anpi a far amare la Resistenza. Scrive nel suo racconto: «A volte mi viene da pensare che ho pagato, come tanti, un prezzo altissimo per questa Italia nuova. La sera rivedo i volti dei ragazzi di un tempo che oggi non ci sono più e penso che se fino a oggi ho continuato a impegnarmi per la libertà e i diritti è per rimanere fedele a loro e a quegli ideali che ci facevano sentire dalla parte giusta e ci facevano superare la paura. Allora mi sembra di sentire la mano di Chittò sulla spalla e mi viene da piangere di dolcezza». Le donne. Erano tante e avevano un ruolo difficile e decisivo. Spesso nemmeno i familiari sapevano dell’impegno delle loro figlie, mogli, sorelle. Le chiamavano staffette. Una figura non sempre adeguatamente valorizzata in sede storiografica. Ivonne Trebbi, 84 anni, IV Brigata Garibaldi Venturoli: «Mi portarono a Bologna, nella famosa caserma Magarotti, poi nel carcere di S. Giovanni in Monte dove incontrai altre partigiane che mi accolsero con molto affetto. Sempre più spesso ero interrogata e picchiata. Volevano informazioni e nomi per distruggere l’organizzazione clandestina. Mi portavano con loro durante i rastrellamenti nella speranza che io denunciassi qualche partigiano. Ma io sentivo che non avrei mai parlato. Mi aiutò a resistere l’odio per la guerra (...)». Ma ne valeva la pena, nessuno dei 128 ha dubbi. Lo ripetono continuamente. Perché ci credevano. Perché «le cose possono cambiare». (Giovanna Marturano, 100 anni). Parola di partigiana. Del futuro.

Corriere 15.5.12
La deflagrazione tra Israele e il Partito comunista italiano avvenne tra la fine di maggio e i primi giorni di giugno del 1967
E gli ebrei rifiutarono il ricatto antisionista
La svolta con l'attentato alla sinagoga di Roma
Pasolini criticò la posizione di sostegno all’Egitto di Nasser assunta dai comunisti
di Paolo Mieli


La deflagrazione tra Israele e il Partito comunista italiano avvenne tra la fine di maggio e i primi giorni di giugno del 1967. A fare da detonatore per l'esplosione, fu la «guerra dei Sei giorni» con cui lo Stato ebraico reagì ad una minaccia di distruzione e sconfisse il fronte arabo, che rappresentava una popolazione venticinque volte superiore a quella israeliana. Già la sera del 28 maggio — pochi giorni prima del conflitto — si tenne a Roma, al portico d'Ottavia, una veglia per Israele nel corso della quale l'architetto Bruno Zevi, il quale fino a pochi anni prima si definiva «azionista-comunista», disse: «Io non desidero polemizzare con i comunisti più del dovuto, perché noi tutti sappiamo che i comunisti sono stati in molte occasioni a fianco della minoranza ebraica italiana, perché sappiamo che ogni volta che, nel passato, questo quartiere ha subito offese antisemite, i comunisti sono stati tra i primi a venire qui e a portarci l'aiuto della loro solidarietà». Poi, con un crescendo di voce, («senza rancore, senza astio ma con chiarezza», precisò), puntando l'indice verso le Botteghe Oscure, aggiunse: visto che, come dite, «c'è il pericolo che gli Stati Uniti sostengano Israele, perché, per evitare che tale pericolo si concretizzi, non premete sull'Unione Sovietica affinché sia l'Unione Sovietica ad aiutare Israele?» Domanda fintamente ingenua, dal momento che Zevi quella sera sa benissimo (e lo dice apertamente) che «l'Unione Sovietica, oltre a non aiutare Israele, istiga e arma i Paesi arabi che vogliono distruggerlo». E racconta di «molti comunisti che si trovano in uno stato drammatico di imbarazzo». A quel punto alcuni militanti del Pci chiedono di poter prendere la parola. Ma l'intellettuale ex azionista Aldo Garosci pone la condizione che essi strappino in pubblico la tessera del loro partito.
Furono, quelli, giorni effettivamente di grande imbarazzo per quei pochi, pochissimi, intellettuali e dirigenti del Pci che, pur tra dubbi e cautele, vollero schierarsi dalla parte di Israele. Il direttore del quotidiano filocomunista «Paese Sera», Fausto Coen, fu costretto a dimettersi dopo che il capo della sezione esteri dell'«Unità», Alberto Jacoviello, era andato a rimproverare il «giornale fratello» per la linea eccessivamente benevola nei confronti di Israele e, in un'esplosione d'ira, aveva distrutto le matrici pronte per le rotative. Jacoviello godeva del pieno sostegno dell'allora direttore dell'«Unità» Gian Carlo Pajetta, che si era schierato senza esitazioni dalla parte dell'egiziano Nasser. E Pajetta divenne bersaglio di lettere oltremodo polemiche da parte di ebrei. Scrisse Mario Pontecorvo: «Io non credo che lei nell'animo possa veramente appoggiare Nasser che, è noto, distribuisce il Mein Kampf tra i suoi ufficiali». Vittorio Da Rodi fu ancora più diretto: tra i soldati di Israele, «che tu oggi accusi di aggressione, vi sono coloro che combatterono in Italia per la liberazione della tua e mia patria dal fascismo, prima ancora che tu, Pajetta, potessi fare il partigiano». Gli autori di queste e moltissime altre missive, però, più che gli esponenti del Pci prendevano a bersaglio gli «ebrei comunisti», accusati di essere simili ai loro correligionari de «La Nostra Bandiera», il foglio israelita che negli anni Trenta si era schierato con il regime fascista. Bersaglio privilegiato di questa offensiva fu il senatore comunista (ebreo) Umberto Terracini, definito dalla rivista «Shalom» «associato alla campagna antisemita dei suoi compagni di Polonia». Altro bersaglio fu Franco Fortini (ebreo solo da parte di padre, che nel 1940 aveva lasciato il cognome originario, Lattes, per prendere quello della madre) per aver dato alle stampe un libro, I cani del Sinai (De Donato), nel quale si accusavano le «dirigenze politiche israeliane» di essere «compartecipi» degli «interessi economico-militari americani e, subordinatamente, inglesi» in Medio Oriente. Ma l'uomo dello scandalo, se così si può dire, fu il senatore comunista Emilio Sereni, fratello di Enzo, grande esponente del sionismo italiano morto a Dachau nel 1944. Emilio (Mimmo) Sereni disapprovò «certe affermazioni» dei leader arabi, ma esortò a non dimenticare «la responsabilità che Israele porta per aver discriminato e cacciato un milione e trecentomila arabi e per aver partecipato all'aggressione del 1956, quando sarebbe stata una scelta lungimirante la solidarietà con Nasser che nazionalizzava la compagnia di Suez». Anche a lui giunse una pioggia di lettere da parte di correligionari. Dario Navarra: «Vede senatore, certe volte il nome che si porta può essere un peso, soprattutto se è un nome bello, legato ad una tradizione, ad un'idea; forse è una delle tragedie della civiltà moderna quando i figli rinnegano i padri ed i fratelli si tradiscono a vicenda». Renato Salmoni (reduce da Buchenwald, tiene a precisare di non essere «un accanito sionista»): «Trovo che per una questione di opportunità e diciamo di buon gusto, lei farebbe meglio a tacere». Suo cugino, il succitato Mario Pontecorvo, accusò Sereni di «servilismo fazioso» nei confronti del Pci e si spinse a chiedere che venisse «espulso da ogni forma di manifestazione ebraica».
Questo genere di persone, scriveva ancora «Shalom», «devono solamente decidere se, in quanto uomini e in quanto ebrei, debbano appoggiare un gruppo ebraico minacciato di sterminio, oppure se valga per loro la pena, come comunisti, di accettare il sacrificio dei loro fratelli sull'altare dell'ideologia». E quando Arturo Schwarz, uno di questi israeliti difensori delle ragioni degli arabi, aveva avuto l'auto sfregiata da una svastica e da una scritta inneggiante ai palestinesi, «Shalom» aveva dedicato all'accaduto un articolo irridente fin dal titolo (Le piace Schwarz?) in cui si scriveva: «Forse qualcuno lo aveva preso per un ebreo vero».
A questi tormenti del 1967 sono dedicate le pagine centrali del libro di un brillante allievo di Salvatore Lupo, Matteo Di Figlia, Israele e la sinistra, pubblicato da Donzelli. Correttamente, però, il volume fa risalire la prima rottura tra ebrei e mondo comunista non già al 1967, bensì al 1952. Ed era stata una rottura dolorosa, dal momento che fino ad allora il rapporto tra socialisti, comunisti ed ebrei era stato molto stretto. Il 7 gennaio del 1946, quando partì da Vado Ligure la nave «Enzo Sereni» piena di israeliti che emigravano in Palestina, c'era un gruppo di ex partigiani rossi a vigilare sulle operazioni di imbarco. E nell'ottobre dello stesso 1946, dopo l'attentato dell'Irgun (organizzazione militare della destra sionista) all'ambasciata britannica di Roma, carabinieri e polizia sospettarono — è scritto in rapporti di due anni dopo — il coinvolgimento di persone del Pci «che mirerebbero a far tramontare definitivamente l'influenza inglese in quella regione». Anche il Partito socialista italiano, in particolare Pietro Nenni, fu in prima linea nel difendere le ragioni di Israele e a esaltare i kibbutz come un modello di socialismo. Molti ragazzi di sinistra, anche non ebrei, decisero di trascorrere un periodo in Israele a lavorare in qualche kibbutz. Il futuro leader di Potere operaio Toni Negri, all'epoca giovane socialista, scelse («inseguendo una gentile fanciulla») di trascorrere un anno in un kibbutz del Mapam e lì in Israele (ne ha scritto in Pipe-line. Lettere da Rebibbia, edito da Einaudi nel 1983 e riproposto da DeriveApprodi nel 2009) gli parve di poter finalmente vivere «pratiche tanto elementari, quanto radicali di comunismo»: «C'era, mordeva il reale quest'utopia; era concreta», fu la sua impressione. Socialisti e comunisti sostennero sui loro giornali l'emigrazione ebraica (è stato ritrovato un manifesto del Pci raffigurante una nave che fa rotta verso la Palestina, in cui si invitano militanti e simpatizzanti a raccogliere fondi a favore degli ebrei) e, nel 1948, dopo la nascita di Israele, Umberto Terracini ne chiese immediatamente — a nome del Pci — il riconoscimento.
Nel mondo ebraico era nato nel 1945, su iniziativa di Joel Barromi e, poi, Marcello Savaldi, il Centro giovanile italiano del movimento sionista pionieristico «Hechalutz», che non nascondeva le proprie simpatie per il comunismo. Nella mozione di un congresso di «Hechalutz» (1947), l'organizzazione dichiarava di unirsi «ai lavoratori italiani nello sdegno per l'eccidio del Primo maggio a Portella della Ginestra, riaffermando in questa occasione la solidarietà con i partiti progressisti d'Italia». In un articolo del loro giornale si poteva leggere: «Disgraziatamente per noi, impariamo a nostre spese che l'ebraismo della diaspora non conosce proletariato». E ancora: «Mancano quei tipi quadrati di operai delle grandi officine, minatori, muratori, che nascono con l'istinto della lotta di classe e della solidarietà operaia; gli operai dalle schiene piegate che lavorano e studiano, vogliono conoscere e si ribellano al mondo che li fa lavorare, non li abbiamo mai visti tra noi ebrei; l'ebreo ricco che vende tappeti in un negozio di lusso e l'ebreo povero che vende cartoline su una bancarella non sono così lontani». Di passo in passo «Hechalutz» giunse ad auspicare «che il nostro Primo maggio non si limiti a richiedere l'unità dei lavoratori ebrei, ma miri ad una unità sempre più stretta coi lavoratori arabi».
Ma venne, come dicevamo, il 1952. In molti paesi dell'Est europeo, ricostruisce Di Figlia, si tennero «una serie di processi sommari a imputati ebrei, tra cui spiccò quello a Rudolf Slansky, ex leader del Partito comunista cecoslovacco, impiccato lo stesso anno». Poi fu il 1953, quando a Mosca furono arrestati i «camici bianchi», medici ebrei accusati di aver complottato contro Stalin, e solo la morte del dittatore evitò l'avvio di una persecuzione antisemita per la quale si stava creando un clima adatto. In quegli stessi mesi un misterioso attentato all'ambasciata sovietica a Tel Aviv provocò la momentanea rottura delle relazioni diplomatiche tra Urss e Israele. In Italia socialisti e comunisti si schierarono senza esitazione dalla parte dell'Urss: «Il processo contro la banda Slansky», scrisse «l'Unità», «ha dimostrato come i dirigenti dello Stato d'Israele avessero posto il loro Stato e le loro rappresentanze diplomatiche all'estero, in particolare in Europa orientale, al servizio dei servizi di spionaggio americani». Ma qualche ebreo, come Amos Luzzatto, che nel dopoguerra si era iscritto al Pci, cominciò ad avere dei dubbi e, pur restando a sinistra, lasciò il partito.
Non così Guido Valabrega, un israelita di Torino che nel 1950 si era trasferito in Israele in un kibbutz di Ruchama e da lì scriveva ai suoi familiari che la rottura dei rapporti diplomatici tra Urss e Israele era tutta da imputare al governo di Tel Aviv, «anticomunista quale non lo è nemmeno De Gasperi» (nell'agosto del '53 Valabrega fu espulso dal kibbutz e raccontò poi di esserne uscito «cantando l'Internazionale e l'inno sovietico»). E neanche «Hechalutz», che accusò l'ebraismo italiano di «strumentalizzare i processi d'oltrecortina in chiave anticomunista». Quando poi, dopo la morte di Stalin, i «camici bianchi» furono prosciolti, «Hechalutz» ironizzò: «Era così comodo poter puntare sull'Idra sovietica all'attacco, la campagna antisemita era così utile agli stessi ebrei occidentali per la loro politica che oggi, sotto la patina di una sostenuta soddisfazione, si sente il rimpianto per un'occasione che va in fumo». E tutto proseguì come prima. Nel 1955, in occasione dell'anniversario della rivoluzione d'Ottobre, il giornale di «Hechalutz» pubblicò un appello inneggiante alla patria del socialismo che si concludeva con queste parole: «W l'Urss! W lo Stato di Israele! W l'amicizia eterna tra Israele e l'Urss».
Poi però fu il 1956, con la guerra per il canale di Suez: l'Urss (impegnata a reprimere la rivoluzione ungherese) si schierò con decisione dalla parte di Nasser contro Israele. Il Pci prese le stesse posizioni. Anche se, ha notato Marco Paganoni in un bel libro, Dimenticare Amalek (La Giuntina), «l'Unità» all'epoca difendeva ancora lo Stato ebraico «scindendo recisamente le sue responsabilità da quelle di Francia e Gran Bretagna». Stavolta a sinistra si distinse il Partito repubblicano. Ugo La Malfa criticò l'intervento militare di Gran Bretagna e Francia, ma difese Israele contro Nasser. E in Parlamento l'ex ministro repubblicano della Difesa, Randolfo Pacciardi, puntò l'indice contro i comunisti: «Là, in Israele, avete un popolo che si è svenato per la sua libertà. In Egitto avete un dittatore che voleva consolidare la sua potenza proprio con le armi dell'Unione Sovietica. È da ieri che quel dittatore andava predicando lo sterminio del popolo ebraico. Ma anche il popolo ebraico, se non siete diventati persino razzisti, ha diritto alla vita come tutti gli altri».
Tra i comunisti la simpatia per Israele cominciò ad attenuarsi. Ha notato sempre Paganoni che già nel febbraio del '57 sull'«Unità» si cominciò a parlare di «mire espansionistiche» dello Stato israeliano. E, all'epoca del processo contro Adolf Eichmann (1961), «l'Unità» scelse di mettere in risalto le connivenze con il nazismo degli imprenditori tedeschi (Dietro i Lager di Adolf Eichmann stavano i trust dei Krupp e dei Farben, fu il titolo del 22 marzo 1961; L'eccidio in massa degli ebrei fu anche un affare economico, proseguiva l'8 aprile); stabilì poi un paragone tra l'operato di Eichmann e quello delle potenze occidentali in Africa e accusò il cancelliere tedesco dell'epoca, Konrad Adenauer, di aver favorito il reinserimento nei ranghi istituzionali di molti ex nazisti.
Così, quando si giunse alla «guerra dei Sei giorni», a difendere — da sinistra — Israele (repubblicani a parte) restò quasi solo il socialista Pietro Nenni, che si spinse ad accusare due importanti leader democristiani, Amintore Fanfani e Aldo Moro, di aver assunto, per via delle loro cautele in merito a ragioni e torti di quel conflitto, «posizioni tecniciste» che rispondevano a «un certo vuoto morale». Sull'«Avanti!» un esponente dell'ebraismo romano, Jacob Schwartz, lodò pubblicamente la «coerenza» mostrata da Nenni. Dalle colonne dell'«Unità» un leader allora in ascesa, Enrico Berlinguer, accusò Nenni di essere un epigono di «quel vecchio filone di interventismo sedicente di sinistra che ha finito sempre per colludere con quello reazionario». In quegli stessi giorni si consumò una divisione nel settimanale «L'Espresso», dove il direttore Eugenio Scalfari — pur con una grande attenzione all'uso delle parole — decise di prendere le distanze da Israele provocando una crisi con alcuni importanti collaboratori, tra cui Bruno Zevi e Leo Valiani. «Se gli anticomunisti sbagliano e sbagliano gli americani, è nostro obbligo dirlo con tanta maggiore fermezza in quanto si tratta non di errori degli avversari ma di errori nostri», scrisse Scalfari il 16 giugno del 1967 in una lettera personale a Valiani.
Stesso genere di argomentazione — ma a parti invertite — fu quello usato da Pier Paolo Pasolini che in una lettera su «Nuovi Argomenti» scrisse: «L'unico modo di essere veracemente amici dei popoli arabi in questo momento non è forse aiutarli a capire la politica folle di Nasser, che non dico la storia, ma il più elementare senso comune ha già giudicato e condannato? O quella dei comunisti è una sete insaziabile di autolesionismo? Un bisogno invincibile di perdersi, imboccando sempre la strada più ovvia e disperata? Così che il vuoto che divide gli intellettuali marxisti dal Partito comunista debba farsi sempre più incolmabile?» Ma Pasolini sbagliava previsione. Quelli che lui definiva «intellettuali marxisti» — ad eccezione dei radicali ricostituiti sotto la guida di Marco Pannella — si schierarono pressoché all'unanimità su posizioni simili a quelle di Scalfari. Persino ebrei comunisti (come il già citato Valabrega e, a Roma, il consigliere comunale Piero Della Seta) sostennero, racconta Di Figlia, la validità della posizione filoaraba dell'Urss e di altri Paesi socialisti, affermando che Israele «aveva attaccato per risolvere una crisi economica ormai evidente». Tra le poche eccezioni, quelle pur sorvegliatissime del giurista Luciano Ascoli e di Umberto Terracini, entrambi convocati «privatamente» dai vertici del Pci per rendere conto delle loro posizioni.
Opportunamente Di Figlia tiene a precisare che è improprio ricondurre per intero al Pci questo contenzioso. Così come non si può «adottare l'unico canone interpretativo della cieca obbedienza a Mosca, abbastanza valido per gli anni Cinquanta, ma non per il periodo successivo». Il Pci «fu anti-israeliano mentre era impegnato in un farraginoso ma progressivo allontanamento dall'Urss, e molti gruppi nati dopo il '68 che espressero giudizi durissimi verso Israele, osteggiavano apertamente il Pci e il modello sovietico». La scelta di Israele di mantenere i territori occupati nel 1967 fu avversata anche da molti esponenti del Partito socialista. A questo proposito, scrive Di Figlia, «è rilevantissimo il caso del Psi negli anni della segreteria di Bettino Craxi: questi non permise il prevalere di una corrente massimalista, scommise tutto su una svolta socialdemocratica e finalmente libera da ogni retaggio marxista; nello stesso periodo il Psi accentuò la vocazione filopalestinese». Non ci fu, dunque, «un'automatica correlazione tra critica a Israele e ortodossia comunista, né tra quest'ultima e l'antisemitismo di sinistra, che, nato da posizioni antisioniste, non va letto come il cangiante lascito di quello nazifascista, di quello sovietico, o dell'antigiudaismo cattolico».
Ciò detto, dopo il 1967 i rapporti tra Israele e sinistra italiana — eccezion fatta per Pietro Nenni, Ugo La Malfa, dopo di lui Giovanni Spadolini, Giorgio La Malfa e l'intero gruppo dirigente repubblicano, intellettuali d'area inclusi — andarono sempre più peggiorando. Le linee dell'esposizione sono quelle già tracciate da Maurizio Molinari in La sinistra e gli ebrei in Italia (1967-1993) edito da Corbaccio. La sinistra quasi per intero sposò la causa palestinese. Quella extraparlamentare, all'epoca influente, appoggiò i fedayn più radicali. Giorgio Israel ha così raccontato una cena estiva con un gruppo di amici: «A un certo punto, tra una chiacchiera e l'altra, un "compagno" toscano prorompe in un'invettiva violentissima contro gli ebrei: capitalisti, sanguisughe, imperialisti, assassini del proletariato e chi più ne ha più ne metta. Reagisco indignato, definendo il suo linguaggio come fascista e razzista, cerco di trovare ampia solidarietà e … sorpresa, mi ritrovo nell'isolamento più assoluto. Nessuno mi difende, nemmeno i più cari amici». Ai tempi dell'attentato di Settembre nero all'Olimpiade di Monaco (1972) la solidarietà per gli atleti israeliani trucidati fu assai trattenuta. Stefano Jesurum, all'epoca militante del Movimento studentesco, riferisce nel libro Israele nonostante tutto (Longanesi) di essere corso quel giorno dalla sua «famiglia» politica, ma di essere stato gelato con queste parole: «Su questi temi voi compagni ebrei è meglio che stiate zitti». Nel volgere di pochi anni non valse più, mai, neanche l'evidenza dei fatti. Israele aveva sempre torto. Sempre. Nel 1973, in occasione della guerra dello Yom Kippur, dopo l'attacco dell'Egitto «l'Unità» sostenne che il «vero aggressore» era Israele per il fatto che non aveva ancora «restituito i territori occupati nel '67». Anche se, con il passare del tempo, i dirigenti del Pci — in privato, però — cominciarono a prendere le distanze dai regimi arabi. In un libro di memorie (Con Arafat in Palestina. La sinistra italiana e la questione mediorientale, Editori Riuniti) l'allora responsabile della commissione esteri del Pci, Antonio Rubbi, ha raccontato che, negli anni Ottanta, dopo un viaggio in Libano, Siria e Iraq, Giancarlo Pajetta gli confidò di aver incontrato «una massa di imbroglioni e ipocriti». «Il Pajetta che ancora all'inizio degli anni Settanta parlava di "nazione araba" e di "socialismo arabo"», fu l'impressione di Rubbi, «semplicemente non esisteva più».
Certo, qualcosa iniziava a cambiare. Giorgina Arian Levi, nipote acquisita di Palmiro Togliatti (in quanto figlia di una sorella di Rita Montagnana, prima moglie del segretario del Pci) passa da posizioni decisamente filosovietiche e anti-israeliane alla denuncia, nel 1977, della propaganda contro Israele in Unione Sovietica, propaganda che, scrive, «sorprende per l'assenza di concrete argomentazioni politiche e per lo sconfinamento dall'antisionismo all'antisemitismo». «La sedimentazione antisemita che risale alla Russia zarista», prosegue, «non è del tutto morta, anche sessant'anni dopo la gloriosa rivoluzione d'Ottobre».
Discorso a parte merita poi un'altra ribellione allo spirito dei tempi, alla quale Di Figlia dedica pagine molto interessanti. È quella del Partito radicale di Pannella. E di Gianfranco Spadaccia che, in un congresso, polemizza apertamente con quanti hanno la tentazione di sposare le iniziative filopalestinesi dell'ultrasinistra: «Vogliamo costruire una politica che abbia come bussola di orientamento… i diritti umani, la democrazia; basta battersi romanticamente per le lotte di liberazione che poi producono oppressioni più atroci». I radicali, osserva Di Figlia «non furono i neocon italiani, ma furono i primi a difendere le ragioni israeliane usando un tassello centrale della proposta neocon, cioè quello dei diritti umani». Su questa base, «il sostegno a Israele divenne un tratto distintivo del Pr negli anni di Pannella molto più di quanto non lo fosse stato in quelli di Mario Pannunzio». Bruno Zevi, in dissenso con la politica di Craxi tutta a favore di Arafat, prendeva la tessera del Partito radicale, di cui sarebbe divenuto presidente onorario. Ma il clima generale in Italia restava quello di cui si è detto prima. Per la sinistra, quasi tutta, gli israeliani dovevano sempre essere criticati e agli ebrei toccava il bizzarro (bizzarro?) compito di recitare in pubblico il «mea culpa» per quel che si decideva a Gerusalemme e a Tel Aviv.
Nel 1982, quando Israele invade il Libano, scatta immediata e unanime la condanna da parte dell'intera sinistra. Un gruppo nutrito di ebrei italiani si affretta a sottoscrivere un manifesto, Perché Israele si ritiri, che reca in testa la firma di Primo Levi. Dopo il massacro di palestinesi a Sabra e Chatila (da parte dei falangisti libanesi che agiscono indisturbati per l'omesso controllo degli israeliani), i toni nei confronti di Israele si fanno più violenti. Per una strana (strana?) proprietà transitiva tali «critiche» vengono estese a tutti gli ebrei. Un corteo sindacale depone una bara sui gradini del Tempio di Roma. Poco tempo dopo, un attentato alla stessa sinagoga della capitale provoca la morte di un bambino: Stefano Taché. Questo orribile delitto provoca un soprassalto: da quel momento cambia qualcosa di importante, di molto importante. Viene allo scoperto un sentimento — fino ad allora quasi nascosto — di «appartenenza» orgogliosa al popolo ebraico: Natalia Ginzburg, Furio Colombo, Anna Rossi Doria, Fiamma Nirenstein (che pure aveva firmato l'appello di cui si è appena detto, criticato da suo padre, Alberto Nirenstein), Mario Pirani, Anna Foa, Janiki Cingoli, Clara Sereni, Gabriele Eschenazi rifiutano una volta per tutte — quanto meno chi fino a poco prima si era prestato — di recitare la parte degli «ebrei buoni» chiamati sul palco quando c'è da accusare Gerusalemme.
Un ruolo fondamentale nell'accompagnare questa presa di coscienza lo svolge un intellettuale torinese, Angelo Pezzana (che stranamente nel libro di Matteo Di Figlia non è neanche citato). Ancor più importante, nel favorire questo risveglio di coscienza tra gli ebrei di sinistra, la rivista «Shalom» sotto la direzione di Luciano Tas. Dalle colonne di «Repubblica» Rosellina Balbi, con un coraggioso articolo, incita gli ebrei di sinistra a non sentirsi più in dovere di «discolparsi» per quel che ha fatto Israele. Piero Fassino imprime al Pci una svolta nella politica estera che implica l'eliminazione del pregiudizio, una maggiore attenzione (di volta in volta) alle ragioni di Israele e ai torti del modo arabo: «Non si è posta sufficientemente in rilievo la centralità della questione della democrazia e dei diritti umani nei paesi mediorientali», riconosce, echeggiando le antiche posizioni del Partito radicale, in un'intervista ad Antonio Carioti che significativamente compare su «La Voce Repubblicana».
Il resto è storia recente, ben ripercorsa nelle pagine conclusive del libro di Matteo Di Figlia. Storia di anni in cui si è continuato, da sinistra, a criticare questo o quell'atto del governo israeliano, pur con toni duri, ma con una minore indulgenza a quel genere di antisionismo che per decenni aveva coperto vere e proprie forme di antisemitismo. Anche se il tic di chiedere ai «compagni ebrei» di essere in prima fila quando c'è da attaccare Israele è ben lungi dall'essere scomparso del tutto.
paolo.mieli@rcs.it

Repubblica 15.5.12
Israele
Vince l’”Intifada della fame" dei detenuti


GERUSALEMME - Festa nei Territori ieri per la vittoria dei "guerrieri della fame": un nucleo di 1600 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane a digiuno da oltre 77 giorni come protesta non violenta contro la "detenzione amministrativa" praticata da Israele, senza accuse né processo, e contro le misure straordinarie a cominciare dall´isolamento, il divieto delle visite familiari e degli studi. L´accordo è stato firmato nel carcere di Ashkelon. Una mobilitazione internazionale aveva sostenuto la protesta, guidata da Thaer Halahleh, 33 anni, 10 anni di carcere in totale senza accuse né processo giudiziario. Ora Israele dovrà rilasciare 310 detenuti "amministrativi" o formalizzare le accuse nei loro confronti.

l’Unità 15.5.12
Accordo sui prigionieri nelle carceri israeliane


I palestinesi hanno oggi una ragione per festeggiare nel solitamente luttuoso giorno della Nakba, anniversario dell’inizio dell’esodo e dell’occupazione israeliana nel maggio 1948. Ieri infatti è stato firmato un accordo sulle condizioni di detenzione dei palestinesi nelle carceri israeliane. L’intesa, raggiunta grazie alla mediazione egiziana, ha interrotto un devastante sciopero della fame contro condizioni di detenzione considerate illegali in base alla Convenzione di Ginevra e giustificate attraverso decreti speciali antiterrorismo. Isolamento, nessuna visita accordata per i detenuti di Gaza e detenzioni amministrative reiterate senza processo anche per anni. Fra un terzo e la metà dei 4.700 prigionieri palestinesi in Israele (di cui 310 in detenzione amministrativa) si trovavano in sciopero della fame, 7 dei quali da oltre un mese e mezzo, 2 gravi. I servizi segreti interni dello Shin Bet hanno confermato l’accordo con poche righe sottolineando come i prigionieri si siano impegnati «a fermare assolutamente l’attività terroristica nelle carceri israeliane» e i comandanti di gruppi militanti fuori dalle carceri si siano impegnati «a prevenire attività terroristiche». «Tutte le fazioni hanno sottoscritto un accordo per porre fine al digiuno», ha dichiarato Qadura Fares, capo del Palestinian Prisoners Club dopo diverse ore di trattative con le autorità israeliane e i detenuti di spicco della prigione di Ashkelon. L’intesa è stata confermata anche dal dipartimento penitenziario israeliano.

La Stampa 15.5.12
Intervista
“Assad non lascerà mai Teme soltanto la forza”
La dissidente siriana Kodmani: lo porteremo all’Aja
di Ludina Barzini


ROMA Bassma Kodmani, 54 anni, vive a Parigi dove dirige il centro Arab reform initiative ed è membro fondatore e nell’esecutivo del Consiglio nazionale siriano nato l’1 settembre 2011 collegato con una folta rappresentanza di persone sul territorio. «Siamo nati per portare fuori la voce della rivoluzione e per mandare aiuti umanitari alla popolazione in difficoltà perché non si senta abbandonata». ” Chi sono i responsabili delle azioni terroristiche di questi giorni?
«Il regime ha forti ragioni per organizzare simili attacchi perché vuole creare un deterrente contro possibili interventi internazionali. Gli osservatori sono una fonte di minaccia per il regime e di speranza per gli oppositori. È ragionevole pensare che il regime vuole creare il maggior numero di pericoli e ostacoli per questa nuova missione delle Nazioni Unite così com’era successo per gli osservatori della Lega araba. Sui luoghi degli attentati c’erano i cadaveri di prigionieri politici di cui conosciamo l’identità. Alcuni prigionieri vengono portati sul luogo dell’attentato vivi, altri morti, per disfarsi dei corpi di quelli uccisi in carcere. Il regime sostiene che sono vittime innocenti dei terroristi dell’opposizione. Quando troviamo questi cadaveri allora sappiamo che non è stata l’opposizione a organizzare questi atti terroristici. È opera di qualcun altro».
Si dice che Al Qaeda è responsabile per alcuni atti di terrorismo, perché le tecniche sono simili, è così?
«Quando ci sono gruppi che cercano disperatamente armi e munizioni come mezzi per sopravvivere e si sentono abbandonati, allora forse possono essere sensibili a coloro che cercano di infiltrarsi. Ma sospettiamo che il regime incoraggi questa gente, per confondere le carte e dire che ci sono terroristi dappertutto e giustificare il loro modo di governare. È un gioco pericoloso».
È difficile pensare che il presidente Bashar Assad sia la sola mente dietro a questi atti criminali, ci devono essere dei complici. Come suo fratello, il generale Maher al-Assad. E gli altri chi sono?
«Quando parliamo del regime di Assad intendiamo il regime delle famiglie Assad-Makhlouf. È una combinazione importante perché i Makhlouf (famiglia della madre di Bashar) sono molto potenti sia sul piano del controllo dei servizi di sicurezza sia su quello degli affari. Dopo la morte del padre, il regime di Bashar al-Assad si è consolidato attraverso un’implicita trattativa, poiché il neo presidente non è il fondatore del sistema di sicurezza, né della rete di alta finanza mafiosa, e ha dovuto scendere a patti. L’apparato dei sistemi di sicurezza è andato sotto il controllo dello zio Mohammed Makhlouf, dei cugini e del fratello. I cugini: Rami è a capo di un impero finanziario e Hafez Makhlouf è il vice capo dei servizi dell’Intelligence, il cui comandato è nelle mani di Ali Mamlouk».
Al presidente Assad che ruolo è rimasto?
«Questi accordi hanno poi permesso a Bashar di governare cercando di mettere una faccia civile sul regime, spendendo miliardi in pubbliche relazioni, esperti di comunicazioni, consiglieri. È un uomo debole e il suo entourage lo ha convinto che deve lasciar fare a loro. Sembra distaccato dalla realtà e ha una consolidata reputazione di bugiardo. Mente a tutti. Molti leader hanno sperimentato le sue bugie come, per esempio, quando dice che introdurrà le riforme economiche, che ha un progetto per le elezioni municipali oppure che riformerà la Costituzione. Non ha nessuna intenzione di cambiare lo status quo. Penso che ci sia qualcosa di patologico nel presidente. E che quelle menzogne siano un mezzo per perpetuare i crimini. È un criminale. Leggendo le e-mail fra lui, una donna e sua moglie sembra proprio che vivano in una specie di bolla. Mi si dice che i documenti scritti per lui sono vaghi e neutrali, così può continuare a credere che le cose vanno bene e che le crisi possono essere superate».
Che cosa vede nel futuro della Siria?
«Giudicando da quello che dicono persone vicine al regime il messaggio è: “Quelle persone non andranno mai via, se non con l’uso della forza”. Ciò è preoccupante, perché la comunità internazionale non intende intervenire con la forza. Per ora la Corte internazionale di giustizia dell’Aja non è ancora stata chiamata in causa, anche se è pronta ad agire perché in possesso di tutti i documenti e i fascicoli completi con le prove dei crimini. Il Consiglio nazionale siriano pensa che la procedura presso la Corte dovrebbe essere avviata, perché da quel momento in poi diventa impossibile per gli uomini del regime nascondersi o ottenere salvacondotti. Hanno ucciso circa 12mila persone. Abbiamo i nomi».

La Stampa 15.5.12
Medici senza frontiere “I Tg ignorano le crisi”
di Francesco Semprini


ROMA Che cosa hanno in comune il milione di congolesi colpiti da Hiv, le proteste in Bahrein e i 160 mila profughi del Mali? Il rischio di essere invisibili agli occhi del mondo. Medici Senza Frontiere pubblica «Le crisi umanitarie dimenticate dai media 2011», ottava edizione del rapporto redatto in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia e il contributo di rappresentanti del mondo giornalistico ed accademico. Un monito ai mezzi di informazioni per «accendere un riflettore» su guerre, esodi, carestie e malattie considerate «lontane». «Nel 2011, i telegiornali hanno dedicato circa il 10% del totale dei servizi a contesti di crisi, conflitti, emergenze umanitarie e sanitarie». «Pochissimo. Da una parte è necessario superare questa visione miope, dall’altra occorre lavorare sulla qualità», dice Kostas Moschochoritis, direttore generale Msf Italia, che rivolge un invito ai media: «Fateci domande scomode». Per la prima volta, Msf ha deciso di monitorare come e quanto i Tg italiani (Rai, Mediaset e La 7) hanno «coperto» l’arrivo in Italia dei migranti in fuga da Libia, Tunisia ed Egitto: «Nel 2011, sono state dedicate 1.391 notizie e sebbene non si tratti di crisi dimenticata, preoccupa il modo in cui è stata rappresentata, con la grave assenza della voce dei migranti». Nell’anno in corso è il Mali che rischia di diventare protagonista del capitolo «rifugiati» con 160 mila persone in fuga, dalla fine di gennaio, verso Burkina Faso, Mauritania e Niger. Tra guerre e violenze dimenticate ci sono quelle in Bahrein e in Sudan con un’escalation di violenze registrato dopo la nascita del Sud Sudan, e a cui sono stati dedicati rispettivamente 24 (7 sul rischio cancellazione Gran Premio) e 44 servizi. Sono 41 invece quelli dedicati alla carestia nel Corno d’Africa, concentrati soprattutto nella seconda metà di luglio. Le più dimenticate sono le emergenze sanitarie. Cinque i servizi sul Congo (nessuno parlava di violenze o del milione di contagiati), dieci quelli dedicati alla Costa d’Avorio, 14 ad Hiv/Aids, zero a malattie tropicali neglette. «L’Aids è ormai invisibile», spiega Msf. Nessuna copertura in «prime time» inoltre è stata dedicata alla Giornata Mondiale contro l’Aids. «Questo mentre il Fondo globale per la lotta ad Aids, tubercolosi e malaria versa in condizioni gravi - chiosa Moschochoritis -. Ricordiamoci cosa ha detto Michel Sidibé, direttore dell’Unaids, “O paghiamo adesso, o pagheremo per sempre”».

Corriere 15.5.12
Ma il destino di Yulia divide gli animi ucraini: «Una guerra tra bande»
Shevchenko: «Lasciate stare il calcio»
di Paolo Valentino

KIEV — Alla fine sarà il calcio a raccontarci la Storia. E a dirci se un Paese dove affondano le radici d'Europa sia veramente tornato nel suo alveo o ne rimanga ancora tagliato fuori. Quanti leader dell'Unione diserteranno gli stadi dell'Ucraina, durante i campionati europei che si aprono tra poco più di un mese?
Di tutte le domande sollevate dal dramma di Yulia Tymoshenko, l'ex premier e leader dell'opposizione tenuta in carcere e probabilmente picchiata dopo una condanna che tutti definiscono politica, è quella sportiva a toccare di più la sensibilità collettiva degli ucraini. I quali sembrano guardare con stanchezza e scetticismo allo scontro tra il presidente Viktor Yanukovich e l'eroina della Rivoluzione arancione, mescolando scontento e delusione verso il primo a una profonda diffidenza verso la seconda.
A spiegarmelo è Andrij Shevchenko, campione amato anche da chi milanista non è. Lo incontro al GolfStream, il green dove si rilassa tra un allenamento e l'altro: «L'Ucraina è un grande Paese di 48 milioni di abitanti. La gente aspetta da cinque anni Euro 2012, è fiera e orgogliosa di quanto abbiamo fatto. Si sentirebbe umiliata da un boicottaggio. Lo sport e la politica hanno linguaggi separati. Se occorre dare un segnale per il trattamento riservato a Tymoshenko, scelgano altri mezzi, non il calcio».
Giunge attutito a Kiev l'eco sinistro dalla prigione di Kharkiv, dove l'ex premier è stata detenuta fino a pochi giorni fa, prima di essere trasferita in ospedale. La capitale è in piena febbre da Europei: risplendono le cupole d'oro di Santa Sofia, si danno gli ultimi tocchi all'arena provvisoria che permetterà di seguire le partite nel Kreshatyk, il cuore della città, parchi e spazi verdi appaiono curati alla perfezione.
L'ex primo ministro, che soffre di ernia del disco e ha perso 11 chili in quasi tre settimane di sciopero della fame, ha finalmente accettato cure mediche, sotto la supervisione di un neurologo tedesco di sua fiducia. È stato il primo spiraglio in una contesa che ha covato sin da ottobre, quando Yulia Tymoshenko venne condannata a 7 anni di carcere per abuso di potere, prima di esplodere sulla scena internazionale due settimane fa, con la pubblicazione delle foto dove lei mostrava le ecchimosi, che sarebbero state provocate dai pugni delle guardie.
Ora però l'affaire torna a farsi incandescente, dopo che la Procura ucraina ha annunciato di voler addirittura formalizzare contro Tymoshenko l'imputazione di concorso nell'omicidio di un deputato di Donetsk e della sua famiglia, avvenuto nel 1996. Lanciata dal figlio della vittima, unico sopravvissuto all'attentato, l'accusa sarebbe sostenuta da un uomo già condannato all'ergastolo per lo stesso caso e improvvisamente disposto a testimoniare. «Legarmi a quella vicenda è assurdo, spero che la gente capisca l'inconsistenza di questa costruzione e chi possa beneficiarne», dice dall'ospedale Tymoshenko, in una dichiarazione affidata al suo avvocato. Il nuovo addebito potrebbe costarle altri 25 anni di carcere.
«È ridicolo — mi dice la figlia Evgeniya, appena tornata da Kharkiv — è la prova ulteriore che il regime di Viktor Yanukovich la vuole tenere in carcere il più a lungo possibile perché la teme». Evgeniya, che sta portando in tutta Europa il drammatico appello della madre, ha detto di averla trovata «indebolita, sotto una terribile pressione psicologica, guardata a vista, ma decisa a lottare». Per lei, il boicottaggio dei campionati minacciato dai leader europei ha senso: «Non si può sorridere accanto a uno che usa metodi repressivi, sarebbe come appoggiarlo».
Ma nella percezione del Paese profondo il caso Tymoshenko non appare così netto e la solidarietà verso l'ex primo ministro non è così marcata. Non si schierano con lei le ragazze di Femen, che a seno nudo denunciano la corruzione e le violazioni dei diritti umani: «Lei e Yanukovich sono due facce dello stesso sistema, litigano per i loro interessi sulla pelle del Paese. Solo che adesso sono a ruoli alternati e al potere c'è lui», dice la loro leader, Anna Gutsol. E mi spiega che nelle carceri ucraine muoiono ogni anno migliaia di detenuti per maltrattamenti o sevizie: «Era così anche quando Tymoshenko era primo ministro. Ma nessuno ne ha mai parlato».
Taras Chornovil è un deputato indipendente alla Rada, il Parlamento ucraino; in passato ha lavorato sia con Yanukovich che con Yulia Tymoshenko. Ed è il primo a riconoscere che l'ex primo ministro sia «vittima di una atrocità intollerabile». Ma ricorda che fu Tymoshenko, durante la campagna elettorale del 2010, quando fu sconfitta in un'elezione assolutamente regolare, a promettere a Yanukovich la galera: «Purtroppo la politica in questo Paese è ancora la continuazione dell'antica lotta tra la mafia di Donetsk, che fa capo a Yanukovich, e la mafia di Dnepropetrovsk, di cui Tymoshenko è l'erede».
Forse anche per questo, il dramma dell'eroina della Rivoluzione arancione non ha smosso di molto la sua popolarità, risalita, ma ferma intorno all'11%, contro il 22% di Yanukovich, che è in calo. Il vero cruccio degli ucraini sembra essere il destino di Euro 2012. Non perdonerebbero uno schiaffo dei leader europei. Significherebbe fare del calcio una guerra diplomatica: «Perderemmo tutti», conclude Andrij Shevchenko.

Repubblica 15.5.12
Bo Xilai abbandona la moglie "La mia rovina è colpa sua"
Pechino, "pentimento" concordato. E la casta rossa salva se stessa
di Giampaolo Visetti


"Il matrimonio era finito ma restammo insieme per non danneggiare la mia carriera politica"
Il regime è deciso a depoliticizzare lo scandalo per ridurlo ad un episodio di gossip

PECHINO - Bo Xilai voleva divorziare dalla moglie Gu Kailai. Per salvare carriera politica, patrimonio e famiglia, non lo fece. Un errore fatale: che può costargli ora, oltre che la libertà, anche la vita. La strana confessione del leader cinese, epurato dopo la fuga del suo braccio destro nel consolato Usa di Chengdu, è destinata però a cambiare anche il destino del partito comunista e della Cina. Ad un amico giapponese, che lo ha incontrato riservatamente in un ristorante di Pechino, l´ex sindaco di Chongqing ha rivelato che il suo matrimonio era finito già nel 2000.
Bo Xilai, all´epoca leader della città di Dalian e astro nascente dell´ala conservatrice del partito, scelse infine di non lasciare Gu Kailai, brillante e ricco avvocato d´affari. «Preferimmo restare ufficialmente insieme - ha detto Bo in un´intervista ad un quotidiano di Tokyo - per non danneggiare la mia ascesa e per non far soffrire nostro figlio Bo Guagua». Le conseguenze di quella scelta, dodici anni dopo, sono all´origine della peggiore crisi politica in Cina dai tempi della strage di piazza Tiananmen.
Bo Xilai, consegnato ai flirt con donne bellissime procurate da un amico miliardario, si è trasformato in un leader ricattabile. Gu Kailai, finita tra le braccia del businessman britannico Neil Heywood, è accusata ora del suo omicidio e del tentativo di occultare capitali all´estero. Salvare le apparenze di un matrimonio felice, ma nella realtà finito, ha infine portato al suicidio politico il leader cinese più popolare dalla morte di Deng Xiaoping, escluso dalla corsa al nuovo comitato permanente del partito.
Avvisato da Wang Lijun che Gu Kailai aveva avvelenato Heywood, vicino ai servizi segreti di Londra, Bo Xilai avrebbe cercato di occultare le prove e di eliminare il suo braccio destro, deciso a denunciarlo. A tre mesi dallo scoppio dello scandalo, che per la prima volta ha fatto trapelare la pericolosa frattura tra riformisti e conservatori della seconda economia del mondo, anche la clamorosa confessione di Bo Xilai è però avvolta dal mistero. L´incontro con il confidente giapponese a due passi dalla Città Proibita, dopo che Bo è scomparso da fine marzo, sarebbe stata favorita dai servizi segreti di Pechino, in cambio di informazioni riservate. Secondo Keisuke Udagawa, autore dello scoop, Bo Xilai è apparso stanco, tranquillo, ma deciso a lottare contro le accuse di alto tradimento, corruzione, esportazione di capitali e abuso della tortura. «Hanno usato mia moglie per incastrare me - ha detto -: una vendetta per la mia campagna contro la criminalità organizzata». L´incontro tra l´uomo che sta facendo tremare il potere cinese e un giornalista giapponese, filtrato da censura e propaganda, solleva però nuovi dubbi. Il potere di Pechino, impegnato nella sua decennale transizione, è deciso a depoliticizzare lo scandalo Bo, riducendolo ad un episodio sospeso tra gossip rosa e cronaca nera.
L´ultima versione dell´eroe neo-maoista accredita dunque la ricostruzione ufficiale del funzionario ambizioso rovinato dalla moglie avida. Passando da carnefice e vittima, il «principe rosso» eviterebbe la pena di morte, ma pure l´implosione di un partito minato da corruzione, privilegi e vertiginosi arricchimenti dei leader. L´uomo che costringeva le masse di Chongqing a cantare i vecchi inni rivoluzionari, avrebbe occultato all´estero centinaia di milioni di dollari, ha un figlio che viaggia in Ferrari e studia ad Harvard e una moglie abituata a shopping e scappatelle a Londra. Il suo profilo nascosto è però quello comune ai più alti papaveri del partito, che rischiano ora di essere travolti dalla lotta interna alla gerarchia e da un´insurrezione popolare.
Far confessare e risparmiare Bo Xilai, dopo averlo politicamente eliminato, consente dunque ai tecnocrati cinesi di salvare se stessi e di non cadere nell´instabilità che allarma i mercati. Il problema è capire fino a quale punto Pechino sia oggi costretta ideare un «caso Bo» presentabile e se il conflitto per il controllo del Paese non degenererà in un´aperta guerra per bande, come alla morte di Mao. Il Quotidiano del Popolo è stato costretto ieri a smentire la notizia del rinvio del congresso del partito comunista, che in ottobre avvierà la successione a Hu Jintao e Wen Jiabao. Nemmeno la censura è riuscita però a nascondere che i leader restano divisi sul futuro della Cina e che Zhou Yongkang, capo dell´apparato di sicurezza e alleato di Bo Xilai, è stato silenziosamente destituito. Proprio mentre Chen Guangcheng, dissidente-simbolo e cieco, riusciva a concludere la sua fuga di seicento chilometri e a rifugiarsi nell´ambasciata Usa di Pechino. L´ultima beffa, ma pure il segnale inquietante di un regime scosso come mai dal 1989.

Repubblica Salute 15.5.12
Cina, sesso non protetto e così l’Aids si moltiplica


Secondo il dipartimento di epidemiologia e biostatistica della Anhui Medical University in Cina, la prevalenza di rapporti sessuali non protetti in maschi Hiv positivi, che praticano rapporti anali con altri maschi, è del 75.4%, mentre i rapporti vaginali non protetti incidono "solo" per il 68%. La prevalenza di rapporti anali non protetti è diversa negli studi pubblicati, ma non esistono dubbi sul fatto che la grande maggioranza dei rapporti anali tra maschi Hiv positivi sia praticata senza preservativo. Dunque non c´è un´efficace strategia preventiva della trasmissione del virus dell´Aids e degli altri virus a trasmissione sessuale in Cina e ciò comporta per quel grande Paese il moltiplicarsi di malati nei prossimi anni. I rapporti anali non protetti hanno, infatti, una maggiore frequenza di sanguinamento da trauma e una più facile trasmissione del virus Hiv e di altri patogeni rispetto ad altro tipo di rapporto sessuale. La cavità anale, infatti, è priva dei meccanismi muscolari e ghiandolari preventivi del trauma, propri invece della vagina.

Repubblica 15.5.12
Una vita al testosterone
Gli steroidi, la droga dei forzati del successo, dilagano tra manager e star dello spettacolo. Usati per aumentare prestazioni. E rendere aggressivi
di Elena Dusi


Dai bodybuilder alle star come Sylvester Stallone. Dagli operatori di Borsa ai militari in missione. Per aumentare le prestazioni sessuali, per esaltare l´aggressività sul lavoro, per rafforzare l´autostima. Sono bombe vendute illegalmente soprattutto sul web, che fanno esplodere i muscoli e bruciano il grasso. Ma danneggiano fegato, reni e cuore
Dopo decenni questi farmaci escono dalle palestre e attirano un pubblico nuovo
I consumatori subiscono gli effetti fisici devastanti pur di avere vantaggi psicologici

AGGIUNGI testosterone alla tua vita. Non tanto per vincere medaglie, ma per far sparire il grasso, definire i pettorali, rialzare la temperatura del desiderio sessuale, condire la giornata sul lavoro con una dose extra di autostima. A pensarla così non sono più solo i bodybuilder, e nessun paese è ormai immune dal consumo illecito di steroidi anabolizzanti. Sylvester Stallone oggi non verrebbe neanche più fermato con una 24 ore di fiale e pastiglie (accadde alla dogana di Sydney) grazie a quel canale di circolazione mondiale oliatissimo che è la vendita su internet. Ed è ormai una soap opera su giornali e tv statunitensi il processo di Roger Clemens, l´ex lanciatore di baseball soprannominato "Rocket", accusato di aver ricevuto iniezioni di testosterone dal suo allenatore. Fra gli attori trasformati in montagne di muscoli nell´intervallo fra un film e l´altro solo Charlie Sheen ha ammesso davanti ai media di aver fatto uso di steroidi per sei settimane prima di girare "Major League".
I sospetti su molte star rimbalzano da Hollywood a Bollywood. Ma non ci sono solo star, tra i forzati del testosterone. Lo prendono i manager di Wall Street per aumentare la loro propensione al rischio (uno studio del 2009 rivelò che i trader hanno livelli dell´ormone più alti della media). Lo usano i militari in missione, per mantenere i muscoli tonici e potenziare l´aggressività. Lo provano single, sposati e fidanzati (donne incluse) nella convinzione che gli ormoni maschili migliorino le prestazioni sessuali.
Dopo decenni, insomma, gli steroidi sono usciti dalle palestre. Ai consumatori tradizionali si affianca un pubblico nuovo e "laico" che non ha medaglie da inseguire, ma difficoltà di autostima da superare. «Bastano poche settimane. La massa grassa diminuisce a favore di quella muscolare» spiega Roberta Pacifici, che all´Istituto superiore di sanità dirige il reparto farmacodipendenza e doping. «L´assunzione si chiama "top-down": si cresce gradualmente con le dosi, arrivando a un picco fino a 50 volte superiore all´uso terapeutico. Poi si cala e si trascorre un periodo di riposo per permettere al corpo di ripulirsi: è il "wash out". Nessun fisico reggerebbe senza».
Nell´uso di queste bombe che fanno esplodere muscoli, ma anche fegato, reni e cuore, i culturisti sono paradossalmente i più attrezzati. «Il consumatore ignorante che acquista su internet legge che non ci sono effetti collaterali e si abbandona al fai-da-te più sfrenato» spiega Marco Cosentino dell´università dell´Insubria, coautore di uno studio sui siti che vendono anabolizzanti. Che rivela: «Tra i nuovi consumatori ci sono moltissimi militari. Le basi in Iraq e Afghanistan compaiono di frequente fra gli indirizzi di consegna».
Il drogato di testosterone è disposto ad accettare effetti collaterali devastanti anche solo in nome degli effetti psicologici: aggressività, motivazione, resistenza alla fatica e aumento - sia pur limitato ai periodi di assunzione - del desiderio sessuale. Un questionario dell´università di Padova fra 3mila studenti veneti di medie e superiori ha rivelato che il 6,2% di chi faceva sport ha assunto sostanze dopanti e il 10,7% ha amici che "prendono qualcosa". Ma i dati, basati su ammissioni spontanee, sono sicuramente sottostimati.
Cristina Segura Garcia, psichiatra dell´università Magna Grecia di Catanzaro, ha guidato uno studio sulle motivazioni che spingono a gonfiarsi di muscoli e pasticche. «La passione smodata per l´esercizio fisico non è dissimile, dal punto di vista psichiatrico, da disturbi ossessivo-compulsivi e anoressia. Come una ragazza anoressica non si vede mai abbastanza magra, un ragazzo che va in palestra rischia di non vedersi mai troppo muscoloso».
Ma gli steroidi possono anche uccidere, provocando insufficienza epatica, linfoma, infarto e perfino pulsioni suicide. Ma le indicazioni su quelli venduti online non citano nemmeno gli effetti collaterali "più lievi": crescita del seno negli uomini e sua riduzione nelle donne, atrofia dei testicoli e carenza di spermatozoi (l´organismo smette di produrre testosterone se lo riceve dall´esterno), irregolarità mestruale, perdita di capelli nei maschi e crescita della barba nelle signore. La sovraeccitazione e l´aggressività, anche sessuale - caratteristiche della fase "top" - lasciano il passo in quella "down" a impotenza e fatica di vivere. «Spesso accade - spiega Pacifici - che dagli steroidi si passi al Viagra, agli ormoni femminili per contrastare la crescita del seno, ai sonniferi per ripristinare il ritmo veglia-sonno e alla cocaina per vincere la depressione, in un crescendo di medicinali di cui si perde facilmente il controllo». Come se poi gli steroidi non facessero abbastanza male da soli. «Nella mia carriera ho visto di tutto» commenta Giuseppe Lippi, responsabile della Diagnostica ematochimica dell´ospedale universitario di Parma. «Chi rispetta i tempi di wash out riesce ad andare avanti con gli steroidi anche 15 anni. Ma con un´assunzione continuativa è questione di mesi. Infarto, trombosi o necrosi epatica fulminante sono inevitabili». Poche settimane bastano perché gli effetti dannosi diventino cronici. «Il primo segno spesso è l´ittero, un colorito giallastro» spiega Emanuela Turillazzi, medico legale all´università di Foggia. «Vuol dire che le cellule del fegato hanno cominciato a danneggiarsi».
Del sequestro di steroidi in Italia si occupano soprattutto i Carabinieri dei Nas. «Le indagini - spiega il capitano Francesco Saggio, comandante del Reparto Analisi dei Nas di Roma - possono partire da informazioni confidenziali, da altri processi o dal monitoraggio dei siti web». Gli acquirenti online vengono intercettati, e da lì si fa partire un´indagine sul terreno. A fine febbraio i Nas di Ancona hanno sequestrato 95mila dosi di sostanze dopanti (uno dei più grandi quantitativi nel nostro paese) a un 62enne di Fano che si riforniva all´estero o su internet, poi miscelava gli steroidi nel suo laboratorio casalingo e li rivendeva con etichette false, simili a quelle di case farmaceutiche famose. All´uomo (un disoccupato) sono state sequestrate case e ville per 4,5 milioni.
Massimo Montisci, medico legale dell´università di Padova, gli effetti degli steroidi li ha visti in prima persona sul tavolo autoptico su cui sono finiti 4 atleti negli ultimi anni: 3 culturisti e un ciclista, morto per un attacco di cuore uscendo dal dentista. «Il cuore si gonfia. Come le cellule degli altri muscoli, anche quelle cardiache aumentano di dimensione, ma senza far crescere la forza di contrazione. Spesso anzi muoiono e vengono sostituite da tessuto fibroso. E il danno resta permanente anche quando si interrompe l´assunzione. In caso di infarto, la morte viene spesso attribuita a cause naturali, ad esempio a un attacco di cuore di origine ignota». Se si apre un´inchiesta, i test antidoping possono essere svolti non solo sull´urina, ma anche su capelli, altri peli o unghie. «Sono reperti che possono segnalarci un doping vecchio di mesi, fino a un anno» spiega Montisci. «Ma gli atleti hanno imparato. È per questo che a volte li vediamo completamente depilati».

Repubblica 15.5.12
Crescono le figure di riferimento femminili all’interno della società Capi di Stato, economiste, premi Nobel: vincono sfidando i pregiudizi
Africa, il potere è donna "Salveremo il continente"
di Pietro Veronese


In Mali c´è una nomade a tessere le fila della rivolta dei Tuareg: la sua casa è diventata il luogo centrale della politica del Paese
Per ognuna di loro raggiungere la vetta è stata una battaglia contro culture conservatrici e patriarcali

In Africa è l´ora delle matriarche. Donne leader, donne che comandano, figure di riferimento della società. Donne di potere, anche. In Liberia è stata rieletta per un secondo mandato di sei anni la presidente Ellen Johnson Sirleaf, prima africana della storia a capo di uno Stato. In Malawi le si affianca adesso Joyce Banda, succeduta al presidente Mutharika, stroncato da un infarto. Il mese scorso, con una mossa anch´essa senza precedenti storici, i Paesi in via di sviluppo hanno presentato un loro candidato alla presidenza della Banca Mondiale. L´iniziativa ha avuto vita breve e ancora una volta, secondo tradizione, la poltrona è andata al nome indicato degli Stati Uniti. Resta agli atti però che quel candidato era una donna, un´africana: la nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala, ministro delle Finanze del suo Paese. Non sarà presidente della World Bank, ma resta una delle personalità politiche più potenti del continente.
Perfino tra i Tuareg, la cui cultura tradizionale è considerata tra le più patriarcali e maschiliste d´Africa, spicca - unica donna - la figura di Nina Wallet Intalou, bella e fiera dirigente del Movimento di liberazione nazionale dell´Azawad, che ha proclamato di recente una repubblica indipendente nel nord del Mali. In questo periodo, riferisce un´inviata di Le Monde da Nouakchott, la capitale mauritana, la casa di Nina è un crocevia di nazionalisti Tuareg e diplomatici europei. Lei tesse le fila. È una donna celebre e chiacchierata, alla quale sono stati attribuiti in passato numerosi amanti altolocati: tra di essi il libico Gheddafi, illazione che Nina smentisce con sdegno.
Non manca, in questo pantheon femminile africano, l´alloro del Nobel per la Pace. Nel 2011 ha incoronato tre donne, due delle quali - oltre alla yemenita Tawakkul Karman - sono africane: la Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee, militante pacifista, anche lei liberiana. Erano state precedute nel 2004 dalla keniana Wangari Maathai, recentemente scomparsa.
La nostra visione dell´Africa fa molta fatica ad emanciparsi dagli stereotipi; ma quando si tratta di donne questi luoghi comuni sono a loro volta confusi e contraddittori. Sappiamo infatti che quasi ovunque nella società africana la donna è relegata in una posizione subalterna, subordinata, sottomessa, anche se un po´ ovunque c´è chi si ribella contro questo stato di cose. Ma sappiamo anche che la donna è la forza trainante della società e dell´economia, che il lavoro agricolo è quasi sempre affidato a lei, così come il piccolo commercio, così come la sussistenza delle famiglie rurali, che costituiscono la stragrande maggioranza degli africani: sono le donne - e le ragazze - a raccogliere la legna, a trasportare l´acqua, a cucinare, ad accudire i piccoli. Senza il lavoro delle donne l´Africa si fermerebbe.
Non è quindi sorprendente che persone come la Johnson Sirleaf, Joyce Banda o le altre si siano distinte negli anni all´interno delle loro società, come attiviste, militanti, professioniste; ma quello che è straordinario è che siano riuscite a primeggiare, ad assurgere a posizioni di eminenza assoluta. È stata, per ciascuna di loro, una battaglia. Contro pregiudizi, mariti violenti, superiori che ne hanno sfruttato il carisma tentando poi di ricacciarle nell´anonimato della sconfitta; e anche contro la solitudine e le debolezze personali (Leymah Gbowee ad esempio non fa mistero della sua lotta per liberarsi dalla dipendenza dall´alcol); contro la devastante fatica di essere insieme buone madri e protagoniste della scena pubblica; contro l´impegno di doversi sempre dimostrare all´altezza "malgrado" il fatto di essere donne.
I lettori italiani hanno a disposizione da pochi giorni l´autobiografia della capofila di questa piccola ma illustre, e crescente, schiera di matriarche: Un giorno sarai grande, di Ellen Johnson Sirleaf (traduzione dall´inglese di Francesco Regalzi, Add editore, 448 pagine, 18 euro). È un libro nel quale si avverte, qui e là, che è stato scritto con finalità politiche da una leader che esercita tuttora responsabilità di statista: è, in certi passaggi, apologetico. Ma nell´insieme è un libro che si divora come un romanzo, sia per le sconvolgenti vicende politiche della Liberia, segnate a partire dal 1989 da due devastanti guerre civili; sia per la storia personale della protagonista e della sua lotta per sfuggire alla sorte che la voleva confinata per sempre nel ruolo sacrificale di moglie e di madre: sposa a 17 anni, madre di quattro maschi prima di compierne 23. Racconta la Sirleaf che quando era nata da pochi giorni «un vecchio saggio» predisse che un giorno «sarebbe stata grande». L´aneddoto rimase oggetto di scherzi e di battute nel lessico famigliare per anni, quando nulla lasciava presagire il luminoso destino di Ellen. Eppure il vecchio saggio aveva visto giusto. Morale: donne africane, la vostra fortuna dipende da voi.

Repubblica 15.5.12
Lo specchio della vita
Quel legame tra lavoro e dignità che spiega la disperazione di oggi
I suicidi di questi ultimi mesi fanno capire quanto conti la realizzazione di sé attraverso quel che si fa
di Massimo Recalcati


Alla fine degli anni Novanta anche la crisi economica giapponese aveva avuto tra le sue conseguenze un aumento significativo del numero di suicidi. Si trattava per lo più di uomini al di sopra dei cinquanta anni che si trovarono messi ai margini dei processi di ristrutturazione industriale. Spesso sceglievano di gettarsi sotto i treni che entravano in stazione. L´ampiezza di questa fenomeno condusse una compagnia dei treni di Tokyo ad installare dei cosiddetti "specchi anti-suicidio". Gli psicologi giapponesi pensavano che restituire al soggetto la sua immagine avrebbe potuto avere un effetto dissuasivo: vedere la propria immagine di uomo avrebbe dovuto smorzare la spinta a suicidarsi. Una iniezione di narcisismo per contrastare il sentimento depressivo che li conduceva nel baratro. Pensiero ingenuo.
L´immagine di sé non è l´immagine che restituisce lo specchio ma quella che restituisce il corpo sociale, le persone che amiamo e che stimiamo; lo specchio che conta è lo specchio che ci restituisce la dignità del nostro essere uomini. Coloro che decidono per il suicidio sono uomini che hanno perduto la loro immagine, che hanno incontrato uno specchio in frantumi. Non possono più riconoscersi in nulla. Sono stati spogliati della loro stessa immagine perché hanno perduto la possibilità del lavoro come possibilità che umanizza e assegna valore alla vita. Il suicidio è il tentavo disperato di trovare una dignità smarrita. E non saranno certo gli specchi anti-suicidio a frenare questa decisione estrema.
Non solo di pane vive l´uomo, recita, com´è noto, la celebre massima evangelica. Gli psicoanalisti non sono certo i soli a verificarne la verità: la vita umana non si realizza solo attraverso l´appagamento dei bisogni primari, naturali, istintuali. La vita si umanizza attraverso l´acquisizione di una dignità simbolica che la rende unica e insostituibile. La vita si umanizza attraverso il suo essere riconosciuta dalla propria famiglia e dal corpo sociale di appartenenza. Di fronte alla tragedia dei suicidi causati dalla perdita del lavoro, da fallimenti professionali o dall´angoscia di non riuscire a sopportare l´aumento continuo dei debiti e l´onda sismica della crisi economica che stiamo vivendo, torna alla mente la potenza della massima evangelica. Non perché il pane non abbia importanza. E chi potrebbe negarlo, soprattutto in tempi di crisi, dove la stessa sopravvivenza degli individui e delle loro famiglie è messa a repentaglio? Eppure il dramma del suicidio è propriamente umano – e solo umano – perché in gioco non c´è solo il pane. La mancanza del pane può generare indignazione, lotta, contrasto, rivendicazione legittima di giustizia sociale, anche disperazione, frustrazione, scoramento. Ma non è la mancanza del pane in sé che può condurre una vita alla decisione di uscire dal mondo. Cosa motiva davvero i suicidi che riempiono drammaticamente le cronache di questi mesi?
Marx aveva assolutamente ragione a rifiutarsi di considerare il lavoro un mero mezzo di sostentamento. Egli pensava che l´uomo trovasse in esso non solo il mezzo per guadagnare il pane necessario, ma anche e soprattutto la possibilità di dare senso alla propria vita, di renderla diversa da quella dell´animale, di renderla umana. È il lavoro che dà una forma al mondo, che trasforma la materia, che realizza impresa, costruzione, progetto, che sa generare futuro. È ciò che portava Marx a conferire al lavoro umano una dignità fondamentale. Per questa ragione il lavoro non è innanzitutto fonte di alienazione, ma possibilità di realizzazione della vita come umana. Non è ciò che deruba la vita ma ciò che la costituisce. Eppure abbiamo conosciuto stagioni culturali dove il lavoro in quanto tale – e non la sua espropriazione capitalista secondo la tesi classica di Marx – veniva rigettato come fonte di alienazione e di abbrutimento della vita. Parlo ovviamente del lavoro e non delle sue condizioni materiali che possono effettivamente animalizzare la vita, insultarla, sfruttarla barbaramente.
La tesi del lavoro contrapposto alla vita e non come condizione della sua umanizzazione attraversa un certa ideologia marcusiana che ha condizionato il movimento del ´68 e che è giunta sino a noi attraverso gli anni Settanta. L´umanità dell´uomo non si esprime attraverso il lavoro ma nel tempo della vita sottratto al lavoro. Il culto del tempo libero dall´oppressione del lavoro avvia una nuova retorica, assai pericolosa, che finisce oggi – come aveva indicato con chiaroveggenza il liberale-conservatore Jacques Lacan – per colludere fatalmente con l´iperedonismo di cui si nutre il capitalismo occidentale: il lavoro è solo un limite, un peso, un´afflizione, un male. Meglio liberarsene, meglio fare soldi per altre vie, più rapide e meno faticose. Meglio seguire la "via breve" di un´economia di carta, finanziaria, speculativa, che non passare dalla "via lunga" e irta di ostacoli come quella del lavoro. L´ideologia della liberazione del desiderio conduce dritta dritta verso il rifiuto cieco del lavoro come forma di abbrutimento dell´uomo.
In Che cosa resta del Padre? avevo messo l´accento su di un errore fatale presente nella legittima contestazione sessantottina delle versioni disciplinari e autoritarie della Legge incarnate dal padre-padrone. Emanciparsi davvero dal padre non significa rigettarne l´esistenza. Per fare a meno del padre – sosteneva Lacan – bisogna sapersene servire. Il rifiuto del padre in quanto tale incatena per sempre al Padre; l´odio non libera ma vincola per l´eternità, genera solo mostri, ostruisce il dispiegamento della vita. La retorica del divenire genitori di se stessi di cui il nostro tempo è uno sponsor allucinato, trascura che nessuna vita umana si costituisce da sé. Rigettando la paternità si rigettava il debito simbolico che rende possibile la filiazione da una generazione all´altra; la libertà si sgancia dalla responsabilità e diviene puro capriccio, trionfo dell´arbitrio, potere di fare quello che si vuole. Ebbene, a proposito del lavoro le cose non sono affatto diverse. Il rifiuto ideologico del lavoro come luogo di mortificazione della vita contrasta oggi in tutta evidenza con la disperata esigenza del suo diritto, della possibilità che vi sia e che si dia lavoro. Mentre nel tempo che ha preceduto la crisi il lavoro era descritto come un peso, l´esplosione della crisi rivela la centralità del lavoro nel processo di umanizzazione della vita. Oggi le persone si ammazzano non per liberarsi dal lavoro, ma per rivendicare – seppure in modo distruttivo – la loro dignità di uomini, per poter realizzare la propria essenza umana attraverso il lavoro. È questo – il diritto al lavoro – il solo specchio anti-suicidio efficace.

Repubblica Salute 15.5.12
Consigli per chi parte e per chi resta
Procreazione assistita
di Andrea Borini e Carlo Flamigni


Dall’interpretazione del numero di successi sbandierati con molta facilità da alcuni centri stranieri a quelli italiani che non tengono conto della "nuova" Legge 40. Un´anticipazione dell´ultimo libro di due dei massimi esperti sul tema

Coloro che vanno in cerca di risultati migliori di quelli che ritengono di poter ottenere in Italia debbono essere sicuri di essere in grado di leggere e interpretare correttamente i dati che i vari centri rendono noti, spesso pubblicandoli anche su internet. La percentuale di successi si deve naturalmente valutare sulla base, da un lato, dei tentativi eseguiti e dall’altro delle gravidanze ottenute: solo che questa definizione è molto vaga e può portare il medico a interpretazioni diverse. Il numero di tentativi, ad esempio, può indicare le coppie che sono state ammesse al trattamento, quelle che sono state sottoposte al prelievo di oociti e quelle che sono arrivate fino al trasferimento degli embrioni. (...) In altri termini, utilizzando le stesse cifre si può arrivare a percentuali di successi pari al 20 o al 40%, senza mentire. E non ha alcun senso valutare la bontà di un laboratorio se non consideriamo anche le gravidanze multiple, le gravidanze extrauterine e gli aborti.
I risultati ottenuti in Italia, poi, vanno interpretati con una certa cautela: noi abbiamo a che fare con un numero eccessivo di centri, molti dei quali lavorano poco e male (...) in Italia si deve valutare caso per caso: il nostro consiglio, ad esempio, è quello di evitare centri, pubblici o privati, che non dichiarano di aver completamente accettato la revisione della Legge 40 eseguita dalla Corte Costituzionale e di essere pertanto disponibili a fecondare un numero elevato di oociti e di crioconservare gli embrioni sovrannumerari (il congelamento degli oociti dà risultati inferiori). Le tecniche di Pma hanno uno statuto scientifico assai modesto e i risultati dipendono da quanti embrioni si riesce a produrre e a trasferire (...) quanti cicli di trattamento si potranno fare, in un anno, nel centro sotto casa e quanti in quello di Bruxelles? Non è un calcolo semplice (...) Per questo motivo consigliamo di discuterne con un medico che abbia anche solo un minimo di competenze (...) Anche chi si reca all´estero per una donazione di gameti o di embrioni deve essere molto cauto (....) Ci limitiamo a un solo esempio: le infezioni da Hiv (il virus che provoca l´Aids) determinano la comparsa di una sieropositività dopo un periodo di latenza che può arrivare anche a 6 mesi. Per questa ragione non si eseguono donazioni di seme "fresco" (...). Il problema esiste anche per la donazione degli embrioni abbandonati (...)
Un ultimo consiglio prima di recarsi all´estero per un´indagine genetica pre-impianto: a noi sembra indispensabile una consulenza e un parere di un genetista, molte coppie partono per eseguire esami praticamente inutili. E poi, guardatevi intorno: in Italia ci sono molti centri in grado di praticare gli stessi esami con la medesima competenza dei laboratori stranieri.