domenica 20 maggio 2012

l’Unità 20.5.12
Intervista a Susanna Camusso
«Questa strategia della paura va fermata e sconfitta subito»
Il sindacato non si farà intimidire da queste belve infami e difenderà
gli spazi democratici
di Rinaldo Gianola

«Penso a quella ragazza, ai gesti semplici, all’allegria, al sorriso, alla voglia di vivere di Melissa. Penso al dolore insopportabile della sua famiglia. Penso a quelle ragazze a scuola al sabato che organizzano il pomeriggio, gli amici, la sera a ballare. E adesso alla morte, alle lacrime. Ecco... non si può accettare questa violenza, non si può tollerare questa strategia della paura che si vuole imporre al Paese. Dobbiamo reagire e dobbiamo farlo subito».
Susanna Camusso è a Brindisi, oggi la nostra capitale del dolore, a testimoniare la solidarietà e l’impegno del mondo del lavoro, del sindacato, della Cgil di fronte a un attentato terribile, a una violenza crudele, inspiegabile. E di fronte a questi fatti la mente corre subito ad altre stagioni tragiche del Paese, alle stragi impunite di tanti anni fa, al terrorismo, alla mafia.
Possibile che stiamo tornano indietro, segretario Camusso? Siamo dentro a un film già visto?
«Per tanti aspetti è un orrore che abbiamo già vissuto. Ci sono troppi segnali, troppe coincidenze che ci preoccupano, che ci confermano nei nostri timori. Avevamo già lanciato l’allarme. Ci sono poteri violenti, interessi nascosti che vogliono occupare lo spazio della politica, restringere gli spazi di democrazia, occuparli con l’arroganza, le armi, la violenza. E’ un progetto che non casualmente emerge in un Paese in gravi difficoltà economiche, che vive una lunga crisi, dove proliferano tensioni sociali, con la classe politica divisa, indebolita, non più credibile agli occhi dei cittadini».
Quali segnali, quali coincidenze la preoccupano?
«Chi ha messo la bomba a Brindisi voleva uccidere, fare una strage. Aggiungo: voleva uccidere proprio delle ragazze, questo è un segno, si vuole colpire chi offre speranza ma appare debole, indifesa. I responsabili di questi atti sono proprio “belve infami”, abbiamo usato queste parole nel nostro comunicato unitario. Difficile non pensare a un atto della criminalità organizzata, magari con collegamenti con l’eversione, mentre ci sono le elezioni, c’è la carovana della legalità in città, alla vigilia del ventesimo anniversario dell’uccisione di Giovanni Falcone e del funerale di Stato di Placido Rizzotto, il sindacalista ammazzato dalla mafia. La magistratura e la polizia ci diranno cosa c’è dietro, chi sono i registi, i responsabili, ma questo attentato e i suoi effetti sono un attacco esplicito alla convivenza civile, alla nostra vita democratica. Questo orrore va fermato con la mobilitazione, con la partecipazione, con forti azioni di governo».
A che cosa pensa?
«Il Paese vive una deriva pericolosa, c’è un senso diffuso di scoramento, di fallimento, che non ce la possiamo fare a vivere, a lavorare dignitosamente. Voglio dire con forza che la classe dirigente e i partiti hanno grandi responsabilità. Bisogna stare attenti anche alle parole. Non si possono giustificare gli atti di violenza contro Equitalia perchè questi sarebbero la reazione, per alcuni comprensibile, al peso del pagamento delle tasse. Non si può far finta di nulla quando i fascisti di Casa Pound impiccano dei manichini in pubblico. Non si possono sottovalutare certi appelli di terroristi irriducibili a raccogliere le frange disperse o gli attentati di non ben individuate federazioni anarchiche contro i manager di aziende pubbliche».
Dove comincia la risposta democratica alla violenza?
«Inizia dalla partecipazione, dalla mobilitazione dei cittadini, dalla tutela degli spazi di democrazia. Non dobbiamo aver paura. Il sindacato confederale non abbasserà la guardia e farà, come in passato, la sua parte. Staremo vicino a chi soffre, a chi ha bisogno di essere difeso, continueremo a batterci per i diritti dei lavoratori e di chi il lavoro non ce l’ha. Questo è il nostro ruolo democratico, per questo faremo la grande manifestazione unitaria il 2 giugno per il fisco e l’occupazione. Poi c’è il governo, ci sono le forze politiche...»
Quali provvedimenti si attende dal governo?
«C’è bisogno di uno sforzo straordina rio per rafforzare con uomini e mezzi adeguati le forze dell’ordine. Rilanciamo con serietà e competenza i servizi di intelligence. Non bisogna trascurare nulla, dobbiamo dare un giudizio netto, inequivocabile, di condanna della violenza e del terrorismo. Il governo deve agire subito, deve comprendere che Brindisi, con tutta la sua emergenza economica e sociale, non è stata una scelta casuale da parte degli attentatori. Le mafie pugliesi, ritenute sempre così silenti, reagiscono ai colpi subiti, ai beni confiscati, tentano di occupare spazi, di infiltrarsi in nuovi interessi, nella vita civile ed economica».
E i partiti, la politica?
«L’Italia ha uno straordinario bisogno di politica proprio in questo momento difficile, soprattutto oggi che ritorna la minaccia della violenza e del terrorismo. La presenza di un governo tecnico è la rappresentazione della mancanza dei partiti, dell’assenza di credibilità della politica. Ma oggi ne abbiamo bisogno, ci serve una politica “alta”, ci vogliono leader affidabili e trasparenti per difendere la legalità come condizione essenziale per lo sviluppo del Paese. Da qui non si scappa, non ci sono scorciatoie».
Che cosa devono fare i partiti?
«I partiti devono procedere velocemente a un ricambio, a un’autoriforma, va ripristinata e valorizzata la normale dialettica democratica. Non si può continuare con la proliferazione di partiti personali o padronali, con la politica ridotta alla diffusione di fango a tutto spiano contro tutti, come se tutti fossero uguali, tutti colpevoli».
Segretario Camusso, un attentato a una scuola forse non l’avevamo ancora visto...
«È un segno grave, un affronto al nostro Paese, alla nostra democrazia. Questo attentato ha una valenza simbolica enorme. Si colpisce una scuola, i giovani, la speranza di un futuro migliore. Chi ha ucciso Melissa ha un obiettivo chiaro in testa: vuole imporre la paura e il silenzio ai giovani, alle loro famiglie, al Paese. Dobbiamo impedirlo, tutti insieme».

La Stampa 20.5.12
La rabbia di Brindisi In piazza fischiati politici e vescovo
di G. Ru.

A un certo punto, una donna in prima fila comincia a urlare: «Fuori i politici dal palco». Piazza silenziosa. Che brivido, quella voce. Una fustigata, come se la città non fosse già dolente e disorientata per quella bomba che ha «ucciso la speranza». Ma dal palco, mestamente, con il mento calato giù, come se fossero dei condannati a morte che si incamminano verso il patibolo, un corteo di politici, esponenti delle istituzioni, si disperde nella piazza. E quando parla il vescovo Talucci, dal fondo un coro di ragazzi dirà poi sprezzante il governatore della Puglia, Nichi Vendola, «grillini venuti da Taranto» - grida che Sua Eminenza dovrebbe tacere. E poi fischi se li è presi anche Rocco Buttiglione, vicepresidente della Camera.
Sprazzi di antipolitica, affogati subito dal dolore e dallo smarrimento di una città che ricorda altre tragiche stagioni, altre piazze d'Italia che si sono riempite per protestare contro stragi e omicidi. C'è un cartello che raccoglie più di discorsi e riflessioni lo stato d'animo della città, «Non ci fate paura, vigliacchi». Chi? Da quale nemico ci dobbiamo guardare? La mafia, il terrorismo? Chi?
E' un tarlo che divora la piazza, che piange la «povera Melissa». Il sindaco, che due settimane fa è stato eletto al primo turno, Mimmo Consales (centrosinistra), ha saputo conquistare la piazza, ma più di lui sono stati i ragazzi, gli studenti del professionale «Morvillo-Falcone», il sindaco di Mesagne, lo stesso governatore Vendola in lacrime, a far ritrovare il senso di appartenenza a una comunità. Colpisce quel manifesto scritto con la vernice portato sul palco «Siamo cittadinidi un paese che si ricordano di stare uniti solo quando si muore. Ciao Melissa, Veronica non mollare...».
Un'altra frustata al Bel Paese. Sotto il palco decine di fasce tricolori, di sindaci del Salento, di personalità politiche (da Nicola Latorre a Paola Concia). «Noi abbiamo i cuori a pezzi, chi ha piazzato la bomba ha ucciso l'Italia», dice il sindaco mentre il vescovo si rivolge agli stragisti: «Pentitevi e recuperate un pizzico di dignità che non si può mai distruggere nel cuore di ciascuno di noi».
E questi ragazzi che all'improvviso sono diventati vecchi, hanno introiettato la paura, la brutta bestia che non conoscevano prima. Uno studente, capelli pel di carota con zainetto d'ordinanza: «Non ho parole, ho paura di entrare a scuola». Una studentessa: «Era un po' casa nostra, adesso è diventato un rischio. Ho tremato, è orribile, ho paura».
E si vede che Martina è più corazzata, che si indigna e che reagisce: «Il problema della criminalità non è una novità per Brindisi, è solamente stata minimizzata, finora». E' la scuola ferita a morte: «Assurdo avere paura, era considerata per tutti una zona franca. Nessuno mai si infervora Martina - si era mai permesso di violare la scuola. Nemmeno negli anni più bui». La strage di Brindisi, per il sindaco di Mesagne, il paese di Melissa, «ha colpito l'innocenza, ha colpito la speranza». E Nichi Vendola, in lacrime, ricorda che una scena come quella della scuola «Morvillo-Falcone», con i libri e quaderni fatti a pezzettini, lui l'ha vista solo un'altra volta: «Con il terremoto di San Giuliano di Puglia».

l’Unità 20.5.12
Le elezioni amministrative
4 milioni e mezzo al voto La destra rischia il cappotto
Un voto per battere le destre
di Michele Ciliberto

LE ELEZIONI DI OGGI SONO AMMINISTRATIVE E VANNO CONSIDERATE ANZITUTTO SU QUESTO PIANO. SAREBBE PERÒ SCIOCCO NON COGLIERE IL LORO VALORE POLITICO GENERALE e non valutare in maniera adeguata il contributo che esse possono dare all’apertura di una nuova stagione della vita politica nazionale dopo il lungo predominio del berlusconismo.
Ce ne sono tutte le condizioni: i pilastri della vita politica italiana nell’ultimo decennio il Pdl e la Lega sono stati già fortemente colpiti, e ridimensionati, nella prima tornata elettorale: il primo è fuori dal ballottaggio in alcune delle principali città italiane (Genova, Palermo, Parma... ); la seconda è ormai ai margini della vita politica, ed è assai difficile che possa mai più riconquistare il ruolo, e la funzione, che ha avuto con la leadership di Umberto Bossi.
Non è un caso se le cose sono arrivate a questo punto: a differenza di quanto in genere si pensi, la politica è una “scienza” profondamente razionale perché è basata sugli “interessi” nell’accezione più ampia del termine: economici, sociali, culturali... Pdl e Lega sono stati colpiti, frontalmente, dalla crisi sociale che ha avvolto la società italiana e che essi non sono stati in grado né di prevedere né di governare. Alla fine, i fatti sono più forti delle parole, la realtà finisce sempre con il prevalere sulla immaginazione, anche su quella più cinica e più spregiudicata.
Ma se questa è la situazione reale, è necessaria una forte, vigorosa, lungimirante iniziativa politica per riuscire a girare definitivamente pagina ed aprire una nuova prospettiva a tutta la società italiana. E per questo è necessaria in queste elezioni una forte affermazione delle forze riformatrici e, in primo luogo, del Partito democratico, cioè della forza che oggi ha la responsabilità nazionale di proporre una nuova visione del destino e del futuro “risvegliando” e riportando in prima linea tutte le energie che si sono chiuse in questi anni in un cerchio di disincanto, di delusione, di solitudine e, uso volutamente il termine, di visione.
Oggi, ci sono le condizioni anche per questo: il Pd è impegnato nella gran parte dei ballottaggi, specie in quelli che riguardano le grandi città, ed è in grado di realizzare un risultato assai utile per favorire una svolta profonda nella vita politica nazionale. Ma se questa analisi è giusta e ci sono le condizioni effettive per battere la destra si può capire che il Pdl sia pronto a giocare ogni carta per cercare di contenere, se non di evitare, la sconfitta al punto di sostenere i candidati di Grillo, come pare voglia fare a Parma. Può apparire un paradosso, ma e non lo è: al di là delle tante chiacchiere, il trasformismo è una struttura costitutiva, fin dalle origini, del movimento berlusconiano specie nei momenti di crisi e di difficoltà.
Con il culto del leader, è stato l’altra faccia del bipolarismo di coalizione tipico dell’avventura politica di Berlusconi. Nel Pdl oggi ci sono forze pronte a tutto: anche a travolgere nella propria crisi l’intero sistema politico nazionale. Neppure questo sorprende: fin dall’inizio nella ideologia e nella politica berlusconiane c’è stata una componente eversiva (elemento tipico, del resto, delle classi dirigenti italiane, fin dalla costituzione dello Stato unitario).
Proprio su questo punto delicato, le elezioni di oggi possono essere un momento di svolta e di chiarimento assai importante. Esse possono contribuire in modo efficace ad avviare una nuova organizzazione dell’intero sistema politico indispensabile per la nostra democrazia dopo la crisi e la fine del berlusconismo. E possono cominciare a porre le basi, in Italia, per una democrazia competitiva basata sul confronto fra forze e schieramenti politici e sociali alternativi.
Possono, in altre parole, contribuire ad avviare la costituzione e lo sviluppo di un serio bipolarismo, in grado di portare l’Italia fuori dalla palude trasformistica in cui è stata immersa nell’ultimo decennio, situandola in un orizzonte limpidamente e autonomamente lo sottolineo europeo.
È sperabile che chi oggi può farlo, eserciti il proprio diritto al voto non lasciandosi incantare dalle sirene dell’astensionismo, del quale le forze riformatrici devono tuttavia riuscire a intercettare le profonde motivazioni sociali ed anche la consistenza culturale e ideologica con iniziative politiche concrete a livello sia locale che nazionale in grado di contenere la profondissima crisi che sta investendo soprattutto i ceti e gli strati più deboli ed esposti è (così come è necessario, qualunque sia il risultato, che si intendano i motivi ideologici e culturali, e la sofferenza sociale, che sta al fondo del crescere del movimento di Grillo).
È sempre bene evitare il “bonapartismo” delle parole e usare toni sobri, ma bisogna che tutti lo sappiano, specialmente quelli che sono attratti dall’astensione: oggi è decisivo battere la destra, se si vuole riaprire un destino per quel grande Paese che nonostante tutto è, e resta, l’Italia. Oggi si può cominciare a farlo.


l’Unità 20.5.12
Il vento francese
È ora per i riformisti di fare un vero partito europeo
di Francesco Verducci Dipartimento Pd cultura e informazione

IL LASCITO DI BERLUSCONI È IMPRESSO NELLE CIFRE SU DISOCCUPAZIONE, DISEGUAGLIANZE, deindustrializzazione, smantellamento del welfare, che si traducono nella durezza del vissuto quotidiano. Il fallimento della destra sta in questa voragine sociale, che rischia di inghiottire la nostra democrazia. Siamo un Paese a rischio, perché la speculazione attacca soprattutto dove la politica è miope e incapace. Imbelle alle pretese di mercati finanziari senza regole e controlli. A ben vedere, pur su piani diversi, nel voto di milioni di europei in Francia, Italia, Grecia, Germania emerge la richiesta di una politica incisiva, capace di dare indirizzo ed imprimere una svolta. Volontà di contare ed essere ascoltati, che si manifesta nel voto di protesta antisistema, ma indirizzata innanzitutto alle forze del riformismo democratico.
Oggi sono per prime le nuove generazioni a reclamare il cambiamento. Chiedono il futuro che gli spetta. Sta alla sinistra raccogliere queste istanze. In Francia è accaduto. Potrà avvenire nel resto d’Europa, se il Manifesto siglato in marzo a Parigi vivrà in una concreta iniziativa. È tempo per i riformisti di costruire un vero partito europeo, che ampli e innovi il Pse, capace di osmosi con forme non convenzionali di partecipazione che si manifestano in piazze, aule, fabbriche, web, a dimostrazione di quanto sia forte e diffuso il bisogno di buona politica. Il vulnus tra cittadini e ‘palazzo’ si colma con partiti rigenerati, che mostrino autonomia da lobby e potentati.
Nella combinazione incendiaria di recessione e disoccupazione, malessere democratico e malessere sociale sono facce della stessa medaglia. Questo è il nodo dirimente. Ma il governo Monti non pare averne piena consapevolezza. Mostra l’inadeguatezza di fondo di un’azione calata nei parametri che i vincoli dell’austerity e della Bce impongono.
Della responsabilità verso il Paese il Pd ha fatto invece la propria ragion d’essere: caricandosi il compito di presidiare il passaggio attuale e di indicare nel contempo l’alternativa politica che chiuda davvero il ciclo berlusconiano. Sanando il vuoto di rappresentanza con un inclusivo patto di cittadinanza imperniato su lavoro, produzione, conoscenza. Investendo su crescita e capitale umano, abbattimento delle diseguaglianze e reti sociali.
Ma la crisi del sistema politico riguarda anche il Pd. Tocca ai democratici lanciare una mobilitazione che riconquisti alla politica il terreno perduto, che poggi su inedite forme organizzative e parole adeguate in cui riconoscersi. Per dare al Paese un nuovo inizio. Perché anche qui “il cambiamento è adesso”.

l’Unità 20.5.12
Europa, dalla pseudo unità all’unità?
di Bruno Bongiovanni

TALORA RIGORISTA E TALORA INCLINE A QUEI CONSUMI EMANCIPANTI che soli possono battere il consumismo, non sufficientemente sorretta dal mai scomparso «splendido isolamento» britannico, l’Europa, dialogando con gli Usa di Obama, sta con fatica procedendo verso se stessa, verso cioè quel solidarismo confederale che può essere la soluzione positiva della negativa, e non solo economica, crisi attuale.
Nessuno pretende più di essere un impero, termine derivato dal latino imperium, la cui base di partenza è la radice di pario, ossia «partorisco» e «produco».
Ma che cosa è un impero ? È nel contempo un dominio e il territorio disomogeneo su cui tale dominio è esercitato. Sono stati definiti «imperi» le entità storiche «burocratiche» (antica Cina, India, Mesopotamia), le entità conquistate dalle popolazioni nomadi (gli arabi, l’Orda d’Oro, i turchi selgiucidi e ottomani, i Moghul in India, i Safawidi in Persia, i Manciù in Cina), cangianti forme di potere del Medio Oriente e dell’Oriente (sultanati, vari khanati, Giappone), i pretesi successori dell’Impero romano (Bisanzio, l’impero carolingio, il Sacro Romano Impero Germanico, la Terza Roma moscovita, i due imperi bonapartistici, l’Austria-Ungheria, il Secondo Reich, il Terzo Reich, l’impero monarco-fascista 1936-41), e, tra pseudomorfosi e metamorfosi, gli imperi coloniali (il britannico e il francese, il quale ultimo si autodefinì un impero nonostante la Francia fosse una repubblica).
Vi sono poi stati anche gli imperi «metaforici», vale a dire il sovietico e l’americano. L’ora non imperiale Europa, che la crisi costringe ad essere politica e non ideologico-burocratica, può scavalcare ciò che resta non è poco della sua natura di mera espressione geografica. Dal male può sorgere il bene. Dalla pseudounità l’unità.


Corriere 20.5.12
«Ci aprì il monsignore Emanuela era morta»
Una lettera accusa. Il presule: sono tranquillo
di Fabrizio Peronaci

ROMA — «Sono tranquillo, non ho nulla da nascondere». Monsignor Piero Vergari, l'ex rettore di Sant'Apollinare che autorizzò la sepoltura del boss nella basilica, ha reagito così al diffondersi della notizia del suo coinvolgimento nella scomparsa di Emanuela Orlandi. Il prelato, indagato per concorso in sequestro di persona, ieri mattina è stato tenuto a distanza da compaesani e fedeli inquieti, smarriti. Anche l'attivissimo e quasi ubiquo Antonio Di Maggio, sindaco di Turania (Rieti) nonché vicecomandante della polizia municipale a Roma, era assorto. «Eccellenza, ma è proprio vero?». E lui, noto per le sue intemperanze di fronte ai giornalisti, stavolta si sarebbe mostrato calmo: «Non hanno trovato nulla se non il corpo di De Pedis. Quelle ossa risalgono a secoli fa, quando i laici venivano sepolti nelle chiese... Non vedo cosa possano trovare...».
Giallo Orlandi, il giorno dopo. Mentre dal suo ritiro in un ex convento, dove fu trasferito nel 1991, il presule coltivava la sua solitudine, nella capitale la novità nell'inchiesta più intricata dell'ultimo trentennio era sulla bocca di tutti.
Gli accertamenti nella cripta sulle 250 cassette dell'ossario, a questo punto, assumono un significato concreto. Da brivido: entro un mese l'esame del Dna sui dieci reperti messi da parte — ossa di datazione più recente — è chiamato a dare un responso mozzafiato: se un solo frammento sarà «attribuibile» alla figlia del messo pontificio, il cerchio sarebbe chiuso. Ma sono ancora tante le incognite. Gli inquirenti, nell'attesa dell'eventuale prova-regina, sono tornati a studiare atti e testimonianze. «Suor Dolores, la direttrice della scuola di musica, vietava alle allieve come mia sorella di frequentare la chiesa di Sant'Apollinare per non farle entrare in contatto con Vergari», ha ricordato ieri Pietro Orlandi. La casa di «don Pierino», in paese, è stata perquisita. Il suo computer sequestrato.
Ma c'è di più. Pescata tra le decine di faldoni, da ieri, una carta è tornata in primo piano. Si tratta di una lettera arrivata in Vaticano, a casa di Maria Orlandi, la mamma, poco prima delle rivelazioni dell'ex amante di De Pedis, Sabrina Minardi.
È anonima ma, evidentemente, scritta da persona informatissima. Perlomeno di quel che sarebbe successo di lì a breve. Il testo «anticipa» la confessione-choc e sembra preparare il terreno alla pista della banda della Magliana. Allude, lancia messaggi in codice. A leggerla bene, chissà quanti indizi contiene. «Prima di tutto la notizia peggiore ma forse liberatoria: Emanuela è morta la notte della sua scomparsa...», premette la misteriosa autrice, che dice di sé: «Nel 1983 ero l'amante di De Pedis, non per amore ma per trasgressione. Facevo da autista e segretaria... Ritiravo buste al banco di Santo Spirito dell'Eur e le consegnavo a politici, magistrati, poliziotti, preti...».
In pratica, è l'autoritratto della Minardi, che parlò anche di incontri di «Renatino» con Andreotti. Poi, il clou: «La sera del 22 giugno Enrico mi chiede di caricare in via Cavour un uomo dalla camicia gialla... Aveva con sé un borsone... La destinazione era Sant'Apollinare...». Eccola, la scena: «Era mezzanotte, ci aprì personalmente Monsignore. Entrammo in una specie di sacrestia e vidi a terra una ragazza molto giovane. Sembrava morta... Camicia gialla mi fece accostare con il bagagliaio aperto e arrivò con la giovane avvolta in una coperta... Monsignore diceva: mi raccomando, in un luogo consacrato...».
Attenzione a similitudini e dettagli: la Minardi nel 2008 raccontò di Emanuela chiusa in un sacco e gettata in una betoniera. Qui compare un «borsone». Invece che di prete, l'anonima parla di «Monsignore». La frase sul «luogo consacrato» fa anch'essa riflettere. E la banca? Merita approfondimenti?
La lettera si concludeva con la sepoltura: «Accompagnai Camicia gialla a Ponte Milvio, andai a prendere Enrico e alle tre di notte portammo il corpo a Prima Porta... Lui lampeggiò, il cancello fu aperto da un uomo anziano... Poi Enrico mi diede 10 milioni...». Vaneggiamento? Non pare. Si tratta della «firma preventiva», per quanto anonima, dell'omicidio, oppure di un raffinatissimo depistaggio?

Repubblica 20.5.12
"Don Vergari sa che fine ha fatto Emanuela"
Gli inquirenti del caso Orlandi: ecco perché è indagato. Lui: non ho nulla da nascondere
L’ex rettore di Sant´Apollinare: "Dalla cripta di De Pedis non verrà fuori niente"
di Marco Ansaldo e Maria Elena Vincenzi

ROMA - Don Pietro Vergari sapeva. «Sapeva che il boss della Magliana, Enrico De Pedis, c´entrava qualcosa con il sequestro di Emanuela Orlandi», ragionano gli inquirenti. Forse, addirittura, sapeva la risposta a un mistero che dura da 29 anni: che fine ha fatto l´adolescente sparita nel nulla. Questo il motivo per cui il procuratore capo Giuseppe Pignatone, l´aggiunto Giancarlo Capaldo e il sostituto Simona Maisto hanno deciso di iscriverlo nel registro degli indagati con l´accusa di sequestro di persona aggravato dalla minore età della vittima e dalla sua morte.
Il sacerdote amico di De Pedis, quello che si è fatto promotore della sua sepoltura a Sant´Apollinare, custodiva un segreto. Lo custodisce ancora. Questa la tesi da cui muove la procura di Roma che, in queste ore sta continuando, insieme agli agenti della squadra mobile capitolina guidata da Vittorio Rizzi e ai tecnici della polizia scientifica, l´analisi delle ossa trovate nelle 400 cassette della cripta, alcune delle quali, stando ai primi accertamenti, sarebbero di età recente.
È proprio tra questi resti che gli inquirenti sperano di trovare una nuova svolta. O la conferma a quelle che per ora sono solo ipotesi. Sia sul caso Orlandi, sia su quello di Mirella Gregori, anche lei quindicenne, anche lei scomparsa nel nulla appena 40 giorni prima di Emanuela, il 7 maggio 1983, e in circostanze simili. I pubblici ministeri non hanno mai escluso un legame tra i due sequestri. Dettagli che, poi, dovranno passare la prova più dura, quella del dna: da mesi ormai sono stati ricostruiti sia quello di Mirella sia quello di Emanuela in modo da poter procedere alle comparazioni. Ma per questo bisognerà attendere i prossimi giorni.
I magistrati indagano, il Vaticano si agita. L´unico ad essere sereno, dice lui, è proprio Don Vergari, che da anni vive in una specie di esilio volontario in provincia di Rieti. «Non ho nulla da nascondere», avrebbe detto. E, a conferma, ha spiegato che gli investigatori «non hanno trovato nulla se non, appunto, il corpo di De Pedis. Tutto il resto sono ossa antichissime, risalenti a secoli fa. Ora dicono che faranno indagini approfondite, ma non vedo proprio che cosa possano trovare».
Nulla, di sicuro, hanno trovato gli inquirenti sul computer che è stato sequestrato al prelato circa un anno fa. Nello stesso periodo il sacerdote era anche stato sentito dai pm per chiarire i motivi di quella sepoltura illustre. E mentre sull´ex rettore della basilica dove Emanuela fu vista per l´ultima volta si allunga l´ombra del sospetto, la Santa Sede continua la sua battaglia per la verità. E fa del caso Orlandi uno dei vessilli di una guerra divenuta sempre più importante.
La vuole vincere Benedetto XVI che da mesi invoca trasparenza assoluta e collaborazione con la magistratura. La vuole vincere il segretario personale del Pontefice, don Georg Gaenswein che, anche se all´epoca dei fatti non era in Vaticano, ha ricevuto il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, e si è impegnato personalmente per venire incontro alle richieste di un´indagine interna, parallela a quella della procura di Roma. E la vuole vincere il portavoce del Papa, padre Federico Lombardi, che ha scritto un memorandum per evidenziare che la Santa Sede ha sempre collaborato con gli inquirenti.
Tante dichiarazioni, tutte nello stesso senso. Eppure il dubbio che filtra anche Oltretevere è che il Vaticano non sappia che cosa è davvero successo ad Emanuela Orlandi, che non lo sappiano gli attuali vertici. Ma che forse, all´interno delle mura, qualcuno, oggi molto anziano, sappia. Magari anche più di un segreto. E non abbia mai parlato. Non con la magistratura, non con i suoi confratelli.

il Fatto 20.5.12
Pietro Orlandi: In quella chiesa le ragazze non erano al sicuro
Don Vergari, indagato, replica: “Non ho nulla da nascondere”
di Rita Di Giovacchino

Non è stato semplice per la Procura di Roma iscrivere sul registro degli indagati don Piero Vergari, che il giorno dopo si difende: “Sono tranquillo, non ho nulla da nascondere. Non vedo cosa gli inquirenti possano trovare a Sant’Apollinare”. Troppo complessa e delicata l’inchiesta sulla sparizione di Emanuela Orlandi. Per un anno e mezzo la decisione di entrare o meno nei sotterranei di Sant’Apollinare è stata esaminata, palleggiata, rinviata. A imprimere la svolta è stato, infine, il procuratore Giuseppe Pignatone che, pochi giorni dopo il suo insediamento ha annunciato: “Apriremo quella tomba”.
ERANO i primi giorni di aprile, l’iscrizione di don Vergari è seguita di qualche settimana ed è coincisa con la perquisizione della casa del prelato che da anni si è rifugiato in un convento di suore che si trova nel centro di Sigillo, suo paese natio. In quell’occasione è stato sequestrato computer, agenda e altri documenti, attività di indagini che mal si conciliano con la versione ufficiale dell’“atto dovuto”, legato alla perquisizione nella basilica minore dove don Vergari non risiede più dal 1991. Quando l’altra sera la notizia è stata diffusa da siti e televisioni, una cappa di silenzio e imbarazzo è calata sulla vicenda. Anche l’ex parroco, amico di Renatino, ha evitato di far ritorno in paese, per sfuggire ai giornalisti, si è limitato a far sapere: “Non ho nulla da nascondere, nella bara è stato trovato De Pedis, come previsto, anche l’ossario non rivelerà sorprese: appartengono a persone morte nei secoli scorsi quando anche i civili venivano seppelliti in chiesa”. Serafico, pragmatico, rassicurante, come sempre. Ma Pietro Orlandi, fratello di Emanuela ribatte: “Non so se il coinvolgimento di monsignor Vergari nel concorso di sequestro sia o no un atto dovuto o se gli inquirenti abbiano scoperto fatti nuovi. So perché lo diceva mio padre che, durante il suo rettorato, l’ambiente che ruotava attorno a Sant’Apollinare era molto, molto particolare e in giro si sapeva. Suor Dolores impediva ogni contatto tra le ragazze che frequentavano la scuola di musica e la Chiesa. Attraversavano il cortile, salivano nelle aule, se decideva di far partecipare le allieve a funzioni religiose andava fuori”.
Può esserci anche un movente sessuale nella scomparsa della ragazza? “Non l’ho mai pensato – risponde il fratello –, Emanuela ce ne avrebbe parlato, invece era felice di andare in quella scuola. Penso invece che suor Dolores si fosse accorta che l'ambiente che ruotava attorno a don Vergari fosse ambiguo, diciamo poco cristiano”. Le relazioni pericolose dell’ex parroco non si limitavano all’amicizia con Renatino? La biografia del prete è un capitolo dell’inchiesta. Sappiamo già che ogni sabato si recava a Regina Coeli per svolgere il ruolo di cappellano volontario dove ha conosciuto non soltanto De Pedis, ma altri della “bandaccia”. Ma proprio all’interno di Regina Coeli ha stabilito i contatti necessari alla sua futura carriera, era il braccio destro di monsignor Gianfranco Girotti, poi accusato dai pentiti della Magliana di essere stato il “postino” dei detenuti in cambio di “offerte generose”.
POI GIROTTI diventò reggente della Nunziatura Apostolica e Vergari lo seguì, fin quando non ottenne l'incarico di rettore di Sant’Apollinare. A sollecitare questi incarichi fu il cardinale Ugo Poletti, figura incombente sull’intero affaire. In piazza Cinque Lune, all’interno del quadrilatero della basilica, per un certo periodo il ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro installò il suo quartier generale, uomini dei servizi segreti andavano e venivano. “Mio padre – afferma Pietro Orlandi – è sempre stato convinto che anche i servizi possano aver avuto un ruolo nella scomparsa di mia sorella. Non è stata rapita con la forza e mai sarebbe salita in auto con uno sconosciuto. Pensiamo che abbia seguito De Pedis o chi per lui in un negozio, in un luogo chiuso di cui però si fidava”. Anche una Chiesa? “Non lo escludo, ma dopo è stata portata via, a gestirlo è stata la manovalanza criminale”.
Anche l’ex procuratore generale Giovanni Malerba che si occupò del caso Orlandi negli anni 90 ritiene che all’interno della Chiesa non sarà trovato nulla: “Se c’era qualcosa hanno avuto tutto il tempo per farla sparire, per quanto mi riguarda la Santa Sede non collaborò mai alle indagini”.

il Fatto 20.5.12
Vaticano: i silenzi di sempre
di Marco Politi

Il riaprirsi del caso Orlandi, i nuovi documenti in fuga dal Vaticano, la vicenda Boffo, gli eterni interrogativi sulle passate gestioni dello Ior riportano in primo piano il male di fondo, che corrode l’immagine della Chiesa, oscurando anche l’impegno di solidarietà svolto da fedeli e preti, suore e vescovi in tante parti del mondo. È un male che si chiama opacità dinanzi agli scandali, paura della trasparenza, testardo rifiuto di accettare il fatto che dare risposte all’opinione pubblica è un dovere, non una concessione. Dice l’ex sostituto procuratore generale Giovanni Malerba, che si occupò del rapimento di Emanuela Orlandi: “La Santa Sede non collaborò alle indagini”. È un’affermazione grave e ancora più grave è che si tratta di verità. In quel groviglio di telefonate misteriose a segreti numeri di telefono del palazzo apostolico, che contrassegnò i tentativi andati a vuoto di allacciare una trattativa con i rapitori, il Vaticano non ha incoraggiato i propri funzionari – chierici o laici che fossero – a rispondere incondizionatamente alle domande degli investigatori italiani. Il guaio è che la stessa reticenza si era già manifestata con l’attentato del 1981 a Giovanni Paolo II. Un anno prima il capo dei servizi segreti francesi Alexandre de Marenches mandò a Roma una delegazione composta da un generale e da un monsignore per avvertire la Santa Sede della preparazione di un attentato contro il pontefice. È storia.
L’INCREDIBILE è che a trent’anni di distanza in Vaticano sostengono di non sapere nulla di questa missione. Don Georg, segretario particolare di Benedetto XVI, potrà un giorno raccontare nei suoi diari – se lo vorrà – come è potuto accadere che papa Ratzinger non abbia portato in Curia una fresca ventata di rigore tedesco e si sia lasciato invece irretire nella ragnatela di secolari abitudini vaticane, tendenti a occultare la sporcizia. Da giovedì, da quando è in libreria il libro di Gianluigi Nuzzi e il Fatto ha pubblicato la lettera inquietante di Dino Boffo al cardinale Bagnasco, è sul tappeto un documento incredibile. Nero su bianco è certificato che un direttore dell’Avvenire accusa direttamente dinanzi al Papa (con fax al suo segretario particolare) il direttore dell’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian di aver passato a Feltri i documenti calunniosi, che lo dipingevano come omosessuale molestatore. E non succede niente! Il Vaticano diffonde una nota per dire che la pubblicazione di documenti segreti è un “atto criminale… che viola la privacy e la dignità” del Papa e non va al nocciolo della questione. Vian, direttore dell’organo ufficiale della Santa Sede, e Boffo – ora direttore della Tv dei vescovi – sono tranquillamente al loro posto. Una situazione impensabile in qualsiasi paese. Boffo per di più si dichiara “felice che un po’ di verità sia fatta”. In tutto questo fedeli e opinione pubblica apprendono che Boffo – a domanda di don Georg Gaenswein – risponde di non essere omosessuale (cosa di per sé non vergognosa) e a nessuno nell’appartamento papale e ai vertici della Conferenza episcopale italiana viene in mente che Boffo dovrebbe anzitutto presentarsi all’opinione pubblica e quindi alla stampa italiana per spiegare per quali motivi sia stato riconosciuto colpevole dalla magistratura di Terni e come mai abbia accettato un’ammenda penale per molestie e poi abbia sepolto la querela contro Feltri, che lo accusò in maniera infamante. C’è una frase chiave nella lettera che papa Ratzinger scrisse nel 2010 ai cattolici d’Irlanda a proposito dei silenzi sugli abusi sessuali del clero. Si manifestò, disse il pontefice, una “preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa e per evitare gli scandali”.
QUEST’ANSIA di nascondi-mento, questo muro di opacità eretto immediatamente appena esplode un caso, è un fenomeno che nella Chiesa romana perdura tuttora. Quale altro motivo può spingere, ad esempio, la Segreteria di Stato a perorare la causa di una non-retroattività della trasparenza delle operazioni bancarie dello Ior? Sulla scrivania di Benedetto XVI la sporcizia si accumula. La domanda è perché non reagisce “alla tedesca”, costringendo alla pulizia. La svolta non arriva mai. Giorni fa l’Avvenire ha chiesto a Formigoni di ammettere che è stato ospite del lobbista Daccò. All’arrogante replica di avere pagato in proprio le vacanze ai Caraibi, il giornale dei vescovi non ha risposto informando i suoi lettori che in mancanza di esibizione dei bonifici, Formigoni è inadatto a guidare la Lombardia e l’Expo.

Corriere 20.5.12
Il Vaticano contro il libro sulle carte: denunciamo
di Giovanna Cavalli

ROMA — Su quelle carte segrete che non lo sono più, il Vaticano non ha intenzione di lasciar correre. Anzi è pronto a sporgere denuncia con un'azione legale internazionale per quello che considera a tutti gli effetti «un atto criminoso». Ovvero la sottrazione e la pubblicazione di documenti della Santa Sede e di lettere private del Papa che «non si presenta più come una discutibile e obbiettivamente diffamatoria iniziativa giornalistica».
Perciò il Vaticano è andato ben oltre, configurando una violazione dei diritti personali di riservatezza e di corrispondenza di Benedetto XVI, dei suoi collaboratori e dei mittenti di messaggi e fax a lui diretti. E che se li sono ritrovati nero su bianco, riprodotti nel libro-inchiesta di Gianluigi Nuzzi intitolato Sua Santità, riaprendo la caccia ai cosiddetti corvi che visiterebbero gli appartamenti papali, diffondendo materiale top secret.
Una ulteriore puntata di Vatileaks che Oltretevere ha suscitato parecchia irritazione. Rafforzando la determinazione ad «approfondire i diversi risvolti di questi atti di violazione della privacy e della dignità del Santo Padre, come persona e come suprema autorità della Chiesa e dello Stato della Città del Vaticano» e a compiere «i passi opportuni affinché gli autori del furto, della ricettazione e divulgazione di notizie segrete, nonché dell'uso commerciale di documenti privati, illegittimamente appresi e detenuti, rispondano dei loro atti davanti alla giustizia». Se necessario, conclude la nota di stampa vaticana riportata sull'Osservatore Romano, «si chiederà la collaborazione internazionale». Sul mistero delle carte trafugate e messe in circolazione sono già in corso un'indagine penale del Tribunale vaticano e una amministrativa della Segreteria di Stato. Oltre agli accertamenti della commissione cardinalizia voluta dal Papa.
E ieri ha parlato anche Dino Boffo, ex direttore di Avvenire, mittente di una delle lettere riservate riportate nel libro di Nuzzi: quella scritta a Papa Ratzinger e inviata via fax al suo segretario personale, monsignor Georg Ganswein, in cui attribuisce al direttore dell'Osservatore Romano Gian Maria Vian — e indirettamente al cardinale Tarcisio Bertone — la responsabilità di aver orchestrato lo scandalo che nel 2009 lo indusse a dimettersi dalla direzione del quotidiano dei vescovi italiani.
«La pubblicazione di documenti riservati, ottenuti tramite un furto, è comunque un latrocinio» ha dichiarato Boffo in diretta su Tv2000, la televisione della Cei che dirige da circa un anno. «Siamo nella situazione in cui lettere private scritte al Papa o al suo segretario finiscono sui giornali o nei libri e questo è un furto in piena regola. Se il collega Nuzzi non si è introdotto lui stesso nelle stanze del Vaticano e le ha ricevute da qualcuno infedele alla Santa Sede, allora è un ricettatore. E i ricettatori portano il loro materiale sulle bancarelle, non nei negozi».
Senza entrare nel merito del contenuto della corrispondenza Boffo ha prima difeso la sua strategia del silenzio ai tempi dello scandalo esploso per via di un documento diffuso da Il Giornale su presente molestie e poi rivelatosi falso («Scelsi di non rispondere agli attacchi perché parlare per metà sarebbe stato un parlare non giusto») e poi esprime profondo dispiacere per la pubblicazione delle carte segrete vaticane «perché anche se io sono beneficiato da questa operazione, l'immagine della Chiesa ne viene sporcata e la Chiesa è mia madre e mia madre è bella». L'ultima considerazione è per la security papale più volte beffata. Boffo si chiede «come mai non sono state installate delle telecamere dove sono custoditi i documenti riservati del Papa». Rubati dal suo tavolo e diffusi urbe et orbi senza che si sia riusciti ad impedirlo. «Che figuraccia per l'Italia».

La Stampa 20.5.12
Trapani
Scandalo finanziario, via il vescovo
di Gia. Gal.

La Santa Sede rimuove il vescovo di Trapani per uno scandalo finanziario. La diocesi nei mesi scorsi era stata al centro di un’indagine della Procura su presunti ammanchi di denaro dopo la fusione di due fondazioni (Campanile e Auxilium) gestite dalla Curia.
Ieri Francesco Micciché, da 13 anni vescovo di Trapani, è stato sollevato dall’incarico dal Vaticano; amministratore apostolico sarà Alessandro Plotti, presule emerito di Pisa. Un provvedimento «estremo» frutto di «calunnie meschine ai quali i miei superiori hanno creduto», ha scritto Miccichè ai fedeli. La rimozione è partita da un’intricata vicenda giudiziaria, sfociata nei mesi scorsi nell’invio di un «visitatore apostolico» da parte della Santa Sede, l’ex sottosegretario Cei Domenico Mogavero, incaricato di far luce anche sul conflitto tra il presule e un parroco.
L’inchiesta ruota attorno a violenti scontri con don Ninni Treppiedi, 37 anni, ex fedelissimo del vescovo, parroco di Alcamo poi passato a gestire la contabilità della Curia e recentemente sospeso «a divinis» per gravissimi illeciti amministrativi. Il prete si sarebbe appropriato di 170 mila euro della parrocchia di Alcamo e avrebbe venduto beni della Chiesa falsificando la firma di Miccichè. La procura di Trapani ha aperto diversi procedimenti (per furto, truffa, frode informatica, stalking, diffamazione e calunnia) e sta verificando la responsabilità di un’altra decina di persone. Mentre il prelato indagava sul suo parroco, sui giornali spuntò un’inchiesta su un presunto ammanco di oltre un milione realizzato nella fusione delle fondazioni curiali. «Serve un segnale forte di discontinuità», spiegano in Vaticano. Appunto, la scure.

Repubblica 20.5.12
L’amore di Alina una storia vera di fede e libertà
Il film di Mungiu sugli esorcismi in un convento
Dopo "4 mesi, 3 settimane e 2 giorni" del 2007, il regista rumeno torna al festival con un racconto di follia e religione realmente accaduto
di Natalia Aspesi

CANNES - Come la racconta Cristian Mungiu, la Romania appare come il più desolato dei paesi europei, e si capisce perchè chi può la fugga e cerchi altrove normalità e serenità. In 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, che nel 2007 ha vinto la Palma d´Oro qui a Cannes, si trattava di una angosciosa storia di aborto clandestino negli anni del comunismo. Al di là delle colline, a democrazia avvenuta, è attraversato da disperazione, rassegnazione e follia come se nulla fosse cambiato. Dice il regista 42enne, faccia da bambino che non sorride mai: «Il nostro paese, come altri, è stato sottoposto a una serie infinita di atrocità e disgrazie, da rendere anche adesso le persone inerti e incapaci di reagire, per istinto di sopravvivenza». Il nuovo film in concorso pare bellissimo, anche se l´istinto di sopravvivenza suggerirebbe allo spettatore di darsi pure lui alla fuga, tenendo conto della punitiva lunghezza (150 minuti). Ma lì si resta, abbarbicati alla poltrona, ipnotizzati dalla crudelissima storia, fatto di cronaca vera avvenuto nel 2005, dalle immagini sconfinate di meravigliosa desolazione, e da quella specie di vaneggiamento religioso che percorre tutto il film sino alla tragica fine. Nella misera regione della Moldavia rumena, vicina alla Transilvania di Dracula, c´è, isolato nel fango, senza un albero o un filo d´erba, e se non c´è neve c´è tempesta, un piccolo convento ortodosso, che più impervio non si può: niente elettricità, niente acqua corrente, gelo costante, povertà assoluta, un bel prete giovane e barbuto e una decina di suorine pure giovani, che nei loro mantelli e veli neri, quando corrono strette una all´altra per qualche demente incombenza, paiono uno stormo di corvi, un volo di vampiri. Dalla Germania, dove ha trovato un lavoro di inserviente, torna Alina, per convincere Voichita a emigrare con lei. Sono cresciute insieme in orfanotrofio, non amate da nessuno si sono amate, unite per non essere sole al mondo. Ma Voichita ha trovato un altro amore sicuro, Dio, e la fine della solitudine, con quel prete cui sottomettersi del tutto, cui chiedere permesso per tutto, cui ubbidire in silenzio, e quelle sorelle che pregano e pregano impegnate nei lavori domestici (acqua da prendere al pozzo, stufe da accendere, legna da tagliare, poi in cucina certe minestre trasparenti, contro ogni peccato di gola). I peccati della fede ortodossa sono molti, 464, e Alina deve sentirli elencare tutti e dire quali lei ha commesso. Ma la fede non è per lei, è la nemica che le ha strappato l´amata dolcissima: che non vuol lasciare la pace trovata in quel convento che pure il vescovo si rifiuta di consacrare. In ospedale dove Alina viene ricoverata per una crisi violenta di disperazione e dove i pazienti sono due per letto, tale deve essere la sfiducia dei medici nel loro lavoro, che come medicina meno dispendiosa per il servizio sanitario non sanno che consigliare, anche loro, forse ironicamente, la preghiera. Ma la preghiera non basta a liberare Alina dalla ribellione. E non resta che l´esorcismo, cioè la tortura, praticata con pietoso fervore dalle buone suorine. Mongiu non giudica, non indica colpevoli, perché suore e prete agiscono certi di fare col male, del bene. Parla di superstizione più che di fede, di amore e di libero arbitrio, di un concetto di religione che sceglie la spietatezza e può praticare l´indifferenza al posto della carità cristiana. «Ma non si è sempre responsabili delle proprie azioni, che dipendono dal caso, dal luogo dove siamo nati, da come ci hanno amato o non amato i genitori, da quale contesto sociale». Nella realtà suore e prete di quel piccolo convento, poi chiuso, sono stati processati, condannati, e la chiesa ortodossa li ha scomunicati. Da quest´anno ha proibito la lettura delle preghiere di San Basilio, principale strumento liturgico per la guerra al diavolo.

Repubblica 20.5.12
L’alleanza dei cattolici con il governo Monti
di Agostino Giovagnoli

Ad Arezzo, il 13 maggio Benedetto XVI ha insistito sul primato dell´etica nella vita pubblica e sull´impegno politico dei cattolici per il bene comune. Ad accoglierlo c´era Mario Monti, il quale ha detto che "la crisi economica se non è affrontata con convinzione e coraggio può diventare culturale e di valore". I loro incontri e le espressioni di un comune sentire sono stati troppo frequenti, negli ultimi mesi, perché si tratti di semplici coincidenze. Ma non tutto il mondo cattolico sembra condividere la loro sintonia e c´è anche chi esprime giudizi drastici sull´attuale governo. A chi lo interrogava su un imprenditore che si è tolto la vita, un vescovo dell´Italia meridionale ha detto che è "tutta colpa di Monti, siamo abbandonati", proprio mente l´Istat chiariva che il numero dei suicidi nei primi mesi del 2012 è in linea con quello degli anni precedenti. Un parroco della Brianza, invece, inveendo contro le tasse, ha detto che "una squadra di ragionieri avrebbe fatto meglio di lui e dei suoi celebratissimi tecnici". E contro i funzionari di Equitalia – esecutori incolpevoli di decisioni altrui – a tratti riemerge tra i cattolici un antistatalismo che sembrava superato da tempo.
Pochi mesi fa il mondo cattolico italiano si è trovato in una situazione di grande incertezza. Poi, nel settembre scorso, il card. Bagnasco assunse coraggiosamente una posizione critica e, poche settimane dopo, il convegno di Todi segnò il definitivo congedo cattolico dal governo Berlusconi. Oggi, le incertezze dei cattolici si manifestano invece nei confronti di un altro esecutivo. Ma tra i due governi le differenze sono profonde, come lo sono quelle tra le critiche al primo e i dubbi sul secondo. La situazione, in un certo senso, si è rovesciata. Allora, la reazione contro il degrado morale si saldò nei cattolici alla scoperta di un fallimento politico sempre più evidente. Oggi chi è al governo chiede serietà, rigore, sacrifici, senza garantire un successo immediato. La decisione fu perciò più semplice allora di quanto non lo sia oggi. E quando la realtà non rende facile scegliere, le nostre convinzioni sono messe alla prova. Ecco perché, come dice Monti, "la crisi economica se non è affrontata con convinzione e coraggio può diventare" una crisi culturale e morale.
C´è attesa per l´Assemblea Generale della Conferenza episcopale italiana, che si svolge in un momento così delicato. Si comincia anche a parlare di una Todi 2 e cioè di un altro incontro dell´associazionismo cattolico per discutere di una nuova iniziativa politica. Ma la strada in questa direzione è lunga e gli ostacoli sono molti, a partire dal problema dell´atteggiamento verso il governo attuale. Non si tratta di un governo "cattolico", anche se conta su alcuni cattolici di grande spessore. Le sue scelte, come le scelte di qualunque governo, possono essere discusse. I suoi ministri, come i ministri di qualunque governo, possono incontrare un diverso gradimento. Emerge perciò la tentazione di tenersi a distanza e di lucrare sulle scelte più impopolari, per poi farsi avanti appena possibile. Ma questo governo è un esecutivo di "responsabilità nazionale", formato in base a criteri di serietà e di competenza, che dichiara di voler perseguire il bene comune in una situazione difficile. Non è perciò semplice, per i cattolici, prenderne le distanze. È ovviamente legittimo proporsi di fare meglio, ma se si resta nell´ottica del bene comune appare contraddittorio pretendere di andare oltre Monti ponendosi oggi contro Monti.
Come sempre, attraverso le scelte contingenti emergono anche questioni più ampie, come quella del rapporto tra etica e politica. Nel mondo cattolico italiano si è creata negli ultimi anni una singolare dicotomia: su alcune questioni specifiche, i valori etici sono stati affermati in modo tanto forte da apparire incompatibile con la loro traduzione politica; per tutto il resto, invece, è sembrato lecito sciogliere ogni legame tra etica e politica, lasciando ampie praterie all´affarismo e, persino, all´illegalità. In entrambi i casi, però, le convinzioni religiose rischiano di diventare irrilevanti sul piano della concretezza storica. E, per i credenti, smettere di investire sul primato della sovrastruttura sulla struttura, per usare il linguaggio marxista, dei valori ideali sui meccanismi economici, degli atteggiamenti eticamente motivati sui comportamenti ispirati dall´interesse materiale significa mettere in discussione la propria identità.

Corriere 17.5.12
Bioetica, scontro in vista alla Camera Mozioni opposte sull'obiezione di coscienza

MILANO — La bioetica torna protagonista in Aula. Domani al secondo punto dell'ordine del giorno di Montecitorio c'è infatti la discussione di mozioni sul «diritto all'obiezione di coscienza in campo medico e paramedico». I testi depositati sono quattro e partono dalla raccomandazione 1763 approvata nell'ottobre 2010 sul diritto di sollevare obiezione di coscienza nell'ambito delle cure mediche legali. La prima mozione in calendario è quella di Luca Volontè dell'Udc, sottoscritta tra gli altri anche da Giuseppe Fioroni del Pd, dai pidiellini Eugenia Roccella e Alfredo Mantovano, da Paola Binetti e Rocco Buttiglione. La mozione impegna il governo «a dare piena attuazione al diritto all'obiezione di coscienza in campo medico e paramedico e a garantire la sua completa fruizione senza alcuna discriminazione o penalizzazione, in linea con l'invito del Consiglio d'Europa». Una mozione presentata da Maria Antonietta Farina Coscioni (e sostenuta dai radicali e da alcuni democratici) ricorda, fatta salva l'obiezione di coscienza, la necessità di «garantire il diritto di ogni individuo di ricevere dallo Stato le cure mediche ed i trattamenti sanitari legali». In discussione anche il testo dell'Idv e quello del Pd di Anna Margherita Miotto, sottoscritto da Gero Grassi, dirigente di area popolare.

l’Unità 20.5.12
Le stanze buie degli Opg
La doppia pena degli internati nei vecchi manicomi criminali
Per le donne «inquiete» c’era addirittura un reparto apposito. Ma non è solo storia La strada è ancora lunga per chiudere il capitolo dei lager
di Roberto Monteforte

ROMA. CHI NON HA PROVATO UN VERO SGOMENTO RIVEDENDO LE DRAMMATICHE SEQUENZE DEL DOCUMENTARIO PRESA DIRETTA SUGLI OSPEDALI PSICHIATRICI GIUDIZIARI», realizzato per conto della Commissione Marino? I volti segnati dalla sofferenza. Le vite spezzate, i letti di contenzione. Il degrado. Scene da girone infernale, ma drammaticamente vere, vissute ancora oggi da un migliaio di «pazienti».
Per molti di loro la colpa sta tutta in un paradosso: l’essere stati considerati «non imputabili» dalla giustizia perché «incapaci di intendere e volere» al momento in cui hanno compiuto qualche reato.
È stato così quasi vent’anni fa per un allora giovane che a Catania ha rapinato un bar con una mano in tasca, simulando di avere una pistola. Bottino magro: seimila lire. Pene lievissime per i complici. Lui sta ancora scontando la sua pena nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, prorogata di sei mesi in sei mesi per «pericolosità sociale». Né cure, né recupero sociale per lui. Quanti articoli della Costituzione sono stati stracciati in nome di un’astratta sicurezza sociale? «Non mi merito questo» urlava alle telecamere.
È grazie al lavoro di denuncia della Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema sanitario, presieduta dal senatore Ignazio Marino e a quel filmato se l’opinione pubblica ha iniziato a capire, che la tenace battaglia civile, culturale e politica condotta da Psichiatria Democratica e da tante altre realtà ha trovato maggiore ascolto.
Si è convinto anche il premier Mario Monti. Ha voluto incontrare il senatore Marino. Oltre due ore per approfondire. Più di ogni parola lo deve aver colpito quel filmato. Nel febbraio 2012 è arrivata la legge che sancisce che entro il 31 marzo 2013 gli Opg vanno chiusi. In tempi di magra il governo ha trovato anche il finanziamento: 273 milioni di euro.
«Meglio convincere che vincere» diceva Franco Basaglia, padre della «legge 180», quella della chiusura dei manicomi. Memori di quell’ammonimento Luigi Attenasio, Emilio Lupo e Cesare Bondioli con gli altri dirigenti di Psichiatria Democratica hanno organizzato seminari, tavole rotonde con esperti, giuristi, politici, operatori sanitari, esponenti della cultura, rappresentanti delle istituzioni per costruire il «dopo Opg». Le parole chiave? Quei percorsi individuali di reinserimento dei pazienti da che spetta alle strutture sanitarie territoriali presentare. «È questa la sfida per le Asl e per i Dipartimento di salute mentale per vedere se gli Opg verranno superati» afferma il segretario di Pd, Emilio Lupo. Denuncia un pericoloso spread tra le necessità delle persone ancora rinchiuse negli Opg e l’azione di Stato e Regioni. Dove andranno i pazienti «dimessi»? Andrebbero ospitati in adeguate «strutture residenziali» (per un massimo di 20 ospiti) realizzate sul territorio in base a progetti delle autorità sanitarie. Il rischio è che, invece, si vadano a ricostruire altre «strutture chiuse». Altre forme di reclusione, gestite da privati.
IL REPARTO FEMMINILE
È di questo che si è discusso lunedì scorso a Roma, nell’incontro organizzato al Nuovo cinema Aquila. Vi ha partecipato anche il senatore Marino. Era il 14 maggio. Una data significativa: il 13 maggio del 1978 il Parlamento ha approvazione la «legge Basaglia». Un anniversario. Non a caso l’incontro ha avuto per titolo «La stanza rosa». Era l’ex reparto per «Le donne inquiete» del manicomio di Arezzo che in quegli anni, grazie all’azione di Agostino Pirella e della sua équipe, divenne il luogo dove si costruì la riforma che portò alla chiusura di quel manicomio. Si discusso dell’oggi e del futuro.
Vi ha partecipato anche Vittorio Borraccetti, già presidente di Magistratura Democratica e ora membro del Consiglio Superiore della Magistratura. È sul paradosso della «non imputabilità» che il magistrato ha invitato a riflettere: invece che tutelare la dignità della persona più debole, incapace di intendere e volere, ha finito per determinare quel terribile «fine della pena: mai». «La condizione dell’”internato” è peggiore di quella del “condannato” per uno stesso reato. Il primo sarà prosciolto, ma la sua “pena” non avrà una fine certa. Solo riconoscendogli una responsabilità sarà possibile assicurargli delle garanzie. Per lui non valgono le regole sulla pena che deve puntare al recupero della persona e rispettarne la dignità. È per questo conclude che va riformato il Codice Penale, rivedendo anche il concetto di «pericolosità sociale». Oggi è un surrogato della sanzione penale, utilizzata per giustificare la privazione della libertà personale di chi è rinchiuso». C’è ancora molto da fare.


l’Unità 20.5.12
Svetlana, Carmen Alina: figlie di tiranni tra devozione e odio
La paternità secondo Stalin, Franco, Castro, Himmler e Mladic
Esiti diversi ma lontani da ogni normalità
di Pippo Russo

SULLE GINOCCHIA DEL TIRANNO. È UN CUPO LESSICO FAMILIARE QUELLO TRACCIATO NELL’ULTIMO NUMERO di El Pais Semanal da Clara Uson, scrittrice catalana che ha abbandonato la carriera legale per dedicarsi a tempo pieno alla letteratura. Nel lungo articolo apparso sul domenicale del principale quotidiano spagnolo Uson ha passato in rassegna una piccola e densa galleria, dedicata al lato privato di cinque dittatori che hanno attraversato il 900. In particolare, a essere indagato è il più complesso dei rapporti inter-familiari: quello fra padre e figlia. Una dinamica che, nella sua complessità e nella diversità dei casi specifici, viene confermata dai cinque profili biografici passati in rassegna da Uson: quelli di Svetlana Stalina, Carmen Franco, Alina Fernandez, Gudrun Himmler e Ana Mladic. Figlie di dittatori e/o spietati carnefici, protagoniste di parabole esistenziali molto diverse sia rispetto al rapporto coi padri che ai destini personali. Con un denominatore comune: l’impossibilità di vivere una vita normale.
Cinque figlie diversamente devote ai padri, cinque padri diversamente attenti alla sfera familiare e all’esercizio del ruolo genitoriale come estensione dell’esercizio d’un potere totalitario. Messa in questi termini, è proprio quello che fra i cinque risulta essere il rapporto meno traumatico a farsi paradigmatico. Esso dimostra infatti quanto senso dell’irrealtà sia necessario per condurre lungo un binario d’equilibrio emotivo-affettivo le relazioni fra una figlia e un padre capace di esercitare un potere tirannico non soltanto sulla propria famiglia, ma anche su un popolo intero. Il rapporto in questione è quello fra il caudillo spagnolo Francisco Franco e la figlia Carmen. Cresciuta, quest’ultima, come una principessina in un contesto familiare ultra-protettivo. Una sorta di bolla entro la quale la realtà di un Paese che vedeva soffocata ogni libertà giungeva filtrata e manipolata, come se appartenesse all’ordine delle cose necessarie per affermare un’idea di Bene. Agli occhi della figlia del dittatore, l’esercizio paternalistico dell’autorità non poteva avere una soluzione di continuità lungo il confine che separava la soglia di casa e il mondo.
Di segno opposto il rapporto fra Svetlana e il padre Iosip Stalin. Un rapporto segnato dalla continua oscillazione fra attaccamento morboso e scontro frontale, e fra l’adesione cieca della figlia al sistema di terrore politico edificato dal padre e il suo spettacolare rinnegamento. Delle cinque figure di tiranni, Stalin è quella che più delle altre ha esteso anche alla vita familiare un uso terroristico del potere personale. Lo testimonia il suicidio per disperazione della moglie Nadya, e il tentato suicidio del figlio Yakov che in seguito sarebbe stato giustiziato in guerra dai tedeschi dopo un tentativo di scambio di prigionieri rifiutato dallo stesso Stalin. Svetlana dovette subire la pesante intromissione del padre nelle relazioni sentimentali, e anche dopo la morte del genitore il suo equilibrio personale rimase profondamente segnato. Fughe all’estero e inattesi ritorni in patria si susseguirono, a raccontare una personalità che aveva ormai perso definitivamente il proprio centro. La morte l’ha colta lo scorso 22 novembre in Wisconsin. Di Svetlana non rimaneva più nemmeno il nome. Per chi l’ha conosciuta negli ultimi anni, il suo nome era Lana Peters.
Rapporto non meno tumultuoso è quello tra Fidel Castro e la figlia illegittima Alina Fernández, sempre tenuta a distanza dal padre. Fra le cinque figure tiranniche selezionate Castro è quella più anaffettiva dal punto di vista del ruolo paterno. Ciò che certo ha avuto conseguenze nello spingere Alina tra i ranghi della roccaforte dei dissidenti anti-castristi a Miami.
DALLA GERMANIA AI BALCANI
La galleria delle personalità tiranniche è completata da due personaggi che non sono stati a capo di regimi politici dei relativi Paesi, ma che piuttosto sono stati architetti di genocidi: il capo delle Ss, Heinrich Himmler, e il capo dell’esercito serbo-bosniaco negli anni della guerra civile dell’ex Jugoslavia, Ratko Mladic (a carico del quale si è aperto proprio in questi giorni il processo presso il Tribunale penale internazionale dell’Aja). Diversi i destini delle due figlie. Gudrun Himmler ha speso tutta la propria vita in una campagna per la tutela dell’immagine del padre, vittima a suo dire di una gigantesca campagna propagandistica. Ana Mladic, invece, si tolse la vita a 23 anni nel 1994, in piena guerra civile. Sul fatto che si sia trattato davvero di suicidio circolano versioni contrastanti. Ma ciò nulla toglie alla dimensione di tragedia personale.

La Stampa 20.5.12
La leggenda della santa peccatrice
Una biografia di Liane de Pougy la bellissima cortigiana che ispirò Proust
Arrivata a Parigi giovanissima scalò alla svelta la società Morì terziaria francescana
di Mario Baudino

Liane de Pougy (vero nome Anne-Marie Chassaigne) nacque in Bretagna nel 1870. Morì nel 1950

Max Jacob le aveva detto, in epoca non sospetta: «Madame, voi siete pronta per la santità». E Liane De Pougy, la più amata cortigiana della Parigi belle époque, la regina del tempo della galanteria, superati i sessant’anni prese l’antico consiglio alla lettera. Morì terziaria francescana nel 1950, circonfusa di un mistico alone dopo essere stata il sogno erotico d’Europa, una scrittrice di valore e un personaggio letterario. A lei si ispirarono Colette, Natalie Barney, la protofemminista americana che l’amò alla follia, e, soprattutto, Marcel Proust che ne rimodellò i tratti in Odette de Crécy, nonostante l’avesse avuta come pericolosa rivale quando Liane arrivò a un filo dal sottrargli Reynaldo Hahn.
È vero che Jacob, scrittore, pittore e resistente francese al nazismo, sul piano spirituale tendeva a prenderla un po’ enfatica (ebreo, si convertì al cattolicesimo asserendo di avere avuto una visione di Gesù Cristo), ma è anche vero che nel caso di Liane de Pougy erano in molti a pensarla come lui. La leggenda della santa peccatrice fu una delle più grandi saghe mondane, culturali e giornalistiche di Francia. Nessuno, uomo o donna, resisteva al suo fascino. I giornali la idolatravano e versavano fiumi di inchiostro per narrare le sue peripezie amorose, la cronaca dell’andirivieni di amanti; i critici accolsero i suoi libri con entusiasmo.
Era nota con un soprannome che potrebbe apparire feroce: il corridoio dei principi. Ma lo portò orgogliosamente e con somma eleganza, come un emblema. Proprio all’apice del fulgore divenne del resto principessa, sposando lei ricchissima uno squattrinato nobile romeno, e chiudendo così autorevolmente la partita sociale. La sua saga, dilagata anche nell’oggettistica, fra cartoline, santini, porcellane di Limoges che ne recavano il volto, è stata più volte narrata. Da qualche anno è però consacrata da una classica biografia scritta da Jean Chalon, che ora viene tradotta in italiano - con belle fotografie - dall’editore Nutrimenti.
È appena uscita col titolo Liane De Pougy. Cortigiana, principessa e santa, che riassume bene il miracolo di una «vita inimitabile» (alla D’Annunzio, da lei peraltro rifiutato perché troppo brutto) esplosa in un tempo dorato in modo non dissimile da come potrebbe accadere (e accade) anche oggi: un personaggio di fascino carismatico si accampa sulla scena, sfida le convenzioni sociali e la morale borghese, diventa un oggetto di culto per una società che di quella morale fa pubblica professione. Una Traviata senza ingenuità e problemi di salute - e soprattutto senza quell’impiastro di Alfredo.
I giornali popolari non parlano che di lei, fanno la cronaca attenta dei suoi ricchi amanti, ne seguono le pigre esibizioni alle Folies Bergères o in teatro, dove sostanzialmente esibisce se stessa e poco più. Gli intellettuali la adorano. Ha una biblioteca meravigliosa, visitatissima; scrive libri che vengono accolti con universale tripudio, dove parla di sé e delle sue conquiste femminili, come nei romanzi autobiografici L’insaisissable o il celebrato Idylle saphique, che diventa in breve una sorta di Bibbia lesbo. Non nasconde le sue preferenze, ma è nell’insieme una grande icona bisessuale. Il suo primo matrimonio naufraga perché il marito, ufficiale di marina, la sorprende a letto con un giovane efebo.
Liane, che in quel momento si chiama più banalmente Anne-Marie Chassaigne, il nome anagrafico con cui è nata in Bretagna nel 1870, fugge a Parigi. È giovanissima, ha superato da poco i 16 anni, ma ha le idee piuttosto chiare e impara tutto molto in fretta. Anziché essere divorata dalla città, la conquista. Sotto la guida di Valtesse de la Bigne, amante di Napoleone III, cortigiana d’alto bordo e notissima lesbica (a lei si ispirò Emile Zola per Nanà ), scala alla svelta la Parigi della «galanteria», e prima dei vent’anni fa già parte di una ristrettissima élite mondiale, visto che la Senna in quel periodo, quanto a questi piaceri, è la capitale universale.
Marcel Proust la fissa nella Recherche in un ritratto di Odette: «Un’intera scia di uomini la circondava; la loro obbediente costellazione nera e grigia, eseguendo i movimenti quasi meccanici di un quadro inerte attorno a Odette, dava un contegno a questa donna, che da sola aveva uno sguardo abbastanza profondo per guardare avanti a sé, attraverso tutti questi uomini come attraverso una finestra alla quale si fosse avvicinata, e la faceva risaltare, fragile, senza timore, nella nudità dei suoi colori tenui, come l’apparizione di una creatura di un’altra specie, di una razza sconosciuta, e dalla potenza quasi guerresca, grazie alla quale compensava lei da sola la sua scorta multipla».
Lei, che per chissà quale sfida mondana aveva tentato di sedurgli il compagno senza riuscirci pienamente, da quel momento avrebbe chiamato cameratescamente lo scrittore «il mio caro compagno di sventure». Quali? Almeno fino alla prima guerra mondiale (dove morì il figlio avuto dal primo matrimonio) non si può dire che ne avesse particolarmente sofferto. Ma come negare al fascino della donna più bella nel secolo (come la definì Edmond de Goncourt) anche quello supremo della malinconia?

La Stampa 20.5.12
Aosta, l’ultimo ventennio di Kandinsky

L’ultimo ventennio della produzione di Kandinsky, nel confronto con gli artisti dell’epoca, è il tema della mostra «Wassily Kandinsky e l’arte astratta tra Italia e Francia», che sarà allestita nel Museo archeologico regionale di Aosta dal 25 maggio al 21 ottobre (tutti i giorni dalle 9 alle 19). Curato da Alberto Fiz, il percorso espositivo si sviluppa dal 1925, anno in cui l’artista russo terminò il manoscritto Punto, linea e superficie , al 1944, quando morì. Saranno presentati al pubblico oltre 40 capolavori realizzati da Kandinsky tra gli anni 30 e 40, alcuni mai esposti prima d’ora in Italia - tra dipinti a olio, acquerelli, gouaches, disegni e incisioni (nell’immagine Au milieu , 1942, olio su cartone su tela). A questi saranno accostate le opere di altri significativi artisti suoi contemporanei come Hans Arp, Joan Miró, Francis Picabia, Piero Dorazio, Gillo Dorfles e Alberto Magnelli. Pittore e teorico, Kandinsky passò da una fase iniziale simbolista all’esperienza del Bauhaus, fino al periodo parigino. Tra i più celebrati maestri del secolo scorso, era una personalità dedita a diversi interessi, tra cui la musica e la scenografia.

Corriere La Lettura 20.5.12
Il fenomeno Mancuso: l’aspirante eretico sogna una condanna
di Alberto Melloni


Sono circa centoquarant'anni che l'Italia ha cancellato le facoltà di Teologia dalle università. I vescovi, che se ne dolsero, alla fin fine si sono crogiolati nell'illusione di formar meglio il clero nei seminari propri, fatta salva la formazione in franchising dei movimenti, in anni recenti. Gli anticlericali, che credevano di aver espunto la superstizione dal sapere, si godono l'oroscopo di Stato e pagano la parcella a «Jupiter e le sue stelle» ogni mezzanotte. La Santa Sede non ha mai mancato di far passi ufficiali presso il Governo italiano ogni qual volta in una forma o nell'altra s'è adombrata l'idea che l'Italia potesse avere una Divinity School, come quelle che formano il sapere critico sul fatto religioso di cui la società ha bisogno per riempire il vuoto dove l'ignoranza secolarista e l'arroganza bigotta si intrecciano voluttuosamente, pericolosamente. In quel vuoto prospera una nuova letteratura che potremmo dire «profondista». Libri, spesso libroidi (il copyright è di Gian Arturo Ferrari), che esplorano con leggiadra superficialità temi immensi, e si aggiungono con tutta la loro superba insignificanza in fondo a lunghissimi scaffali nei quali s'è stratificato il più fine ed umile rovello intellettuale. I «profondisti» sono di due generi. Da un lato ci sono i «profondisti» ecclesiastici, non di rado vescovi, che ci aggiornano sorridenti sui loro pensieri. Come quelli — è solo l'ultimo caso, non l'unico o il più grave — raccolti da monsignor Giovanni D'Ercole, missionario, telepredicatore, arcivescovo dell'Aquila, nelle 223 pagine di Nulla andrà perduto (Piemme), pensate per rispondere non solo ad Alice (che in una email gli ha confidato di non avere «più niente da chiedere a questa vita di merda», pagina 7), ma agli «uno, nessuno, centomila!» sui quali si distende il suo sguardo. Dall'altro c'è Vito Mancuso, creatore di un «profondismo» tutto suo, benedetto dal successo. Dopo qualche opera più tecnica, il suo primo bestseller s'impose ai tanti che, seguendo Giuliano Ferrara, si convinsero che chi parla molto di Dio probabilmente «fa» teologia. Nel 2011, dopo una decisiva intervista con Corrado Augias, usciva Io e Dio. Una guida dei perplessi (Garzanti): che ha avuto ottima risposta, ma ha mancato l'obiettivo che traspariva da ogni pagina — e cioè ottenere quella condanna vaticana che avrebbe confermato l'importanza eversiva delle tesi dell'autore. Per fortuna, verrebbe da dire, l'autorità ecclesiastica ha concentrato attenzioni e censure su un teologo vero come Andrés Torres Queiruga, messo sotto processo per la sua «ponerologia». Il successo dell'ultimo Obbedienza e libertà (Fazi) — neppure questo riuscirà ad ottenere la sanzione cui ambisce l'autore — conferma l'esistenza di un «fenomeno Mancuso». Perché il pubblico adora sentirsi dire da un «io» convinto che lui ha «sottoposto a critica» e liquidato questo o quel dogma e che per ciò stesso chi prende quell'«io» sul serio partecipa del riscatto degli eretici ammazzati dall'Inquisizione. E piace al lettore la semplificazione giustiziera della storia, grazie alla quale l'autore «dimostra» incongruenze ed errori del magistero cattolico in una anti-apologetica non meno stucchevole di quella che si vorrebbe ripudiare. Chi volesse davvero riflettere troverà dei libri utili — la Prima lezione di teologia di Giuseppe Ruggieri (Laterza) è uno di questi: ma sono profondi, non profondisti. Vuoi mettere?

Corriere La Lettura 20.5.12
La nuova disobbedienza civile
La fioritura degli Indignati e le azioni di «Occupy» costringono a riflettere sulla lezione di Antigone e Thoreau
di Ennio Caretto


Dopo quella degli anni Sessanta, l'attuale fioritura di movimenti populisti e autonomisti in Europa è forse la più caotica e ingovernabile dalla fine della guerra mondiale. Dai Nimby ai No Tav ai «grillini» in Italia, dagli Indignados di Spagna ai «Pirati» in Germania, la protesta non solo contro l'establishment finanziario e industriale e i partiti, ma anche contro le istituzioni, si articola attraverso canali sempre più spontanei e assume dimensioni sempre più inquietanti. Figlia dell'attuale crisi economica, la più grave dalla Grande Depressione degli anni Trenta, minaccia la stessa stabilità sociale. E la minaccia senza offrire la prospettiva di grandi e giusti cambiamenti alla maggioranza dei cittadini, che osserva le leggi, quella «maggioranza silenziosa» elogiata dal presidente Richard Nixon proprio nei vulcanici anni Sessanta. Cambiamenti che nel corso della storia, quando non sono stati portati dalle rivoluzioni e dalle guerre, sono stati portati solo da pacifiche e massicce, non frammentate, campagne di disobbedienza civile.
«Disobbedienza civile» — o «Resistenza civile» come preferì chiamarla Gandhi, che ne fu un maestro — è un termine oggi in disuso. Ma rimane il migliore strumento a disposizione dei cittadini contro il «sistema» quando esso assuma aspetti iniqui. La disobbedienza civile, sottolineò il filosofo inglese Bertrand Russell, che se ne servì fin dagli anni Cinquanta per promuovere la causa pacifista, è il rifiuto attivo di obbedire a certe leggi, una opposizione non violenta a certi poteri, un rispettoso disaccordo con certi governi. Per avere successo deve possedere tre qualità: rispondere ai dettami condivisi della coscienza; essere un movimento di massa; e possedere capacità di persuasione. Chi la pratica, inoltre, deve essere pronto a pagare le proprie violazioni della legge anche con il carcere. In casi estremi, essa è una responsabilità morale di tutti i cittadini, come affermò Gandhi nella sua campagna contro il regime coloniale inglese.
Alcune delle pagine più luminose dello scorso secolo furono scritte proprio grazie alla disobbedienza civile. All'inizio dalle suffragette negli anni Dieci, il movimento che favorì l'estensione del diritto di voto alle donne, e più tardi dai sindacati, che ottennero il riconoscimento dei diritti dei lavoratori. Dopo la Seconda guerra mondiale — in America — dal Movimento dei diritti civili di Martin Luther King per l'integrazione razziale, e dai «Figli dei fiori» per la fine della guerra in Vietnam; nonché — in Sudafrica — dalla resistenza civile di Nelson Mandela. Queste pagine luminose furono macchiate da moti violenti, come quello all'interno del movimento studentesco francese nel '68. Ma dopo il crollo del Muro di Berlino e dell'Urss, interi popoli dell'Europa dell'Est dimostrarono di avere appreso la lezione della disobbedienza civile, dalla «Rivoluzione di velluto» della ex Cecoslovacchia alla «Rivoluzione arancione» dell'Ucraina.
Fenomeni di disobbedienza civile si riscontrano com'è noto già nell'antichità, per esempio nell'Antigone di Sofocle, dove la figlia dell'ex re Edipo sfida il nuovo re che le nega gli onori funebri al fratello Polinice, e paga con la propria vita. Ma in epoca moderna, la disobbedienza civile è costante compagna della democrazia. La auspicò il poeta inglese Percy Bysshe Shelley nel 1819 in The mask of anarchy («La maschera dell'anarchia»), una delle letture preferite di Gandhi, e la teorizzò un altro poeta, l'americano Henry David Thoreau, in Civil disobedience del 1848, pubblicato solo anni dopo: Thoreau rifiutò di pagare le tasse per protesta contro la schiavitù, e fu giustamente imprigionato.
Tutti questi precedenti indicano che è giustificata la protesta pacifica degli Indignati in Europa e di Occupy Wall Street in America, ma assolutamente non lo è la violenza dei No Tav e degli attentati a Equitalia, o degli anarchici greci. Per non parlare delle formazioni terroristiche che stanno rialzando il capo.
Sulla disobbedienza civile devono riflettere chi oggi protesta e coloro contro cui la protesta è diretta, affinché la loro dialettica dia frutti utili alla società. Nell'ultimo mezzo secolo si sono verificate due rivoluzioni contrarie: quella sociale e culturale degli anni Sessanta, scaturita dal basso; e quella economica degli anni Ottanta, imposta dall'alto, che ha ridotto i poteri dei cittadini facendo di loro innanzitutto dei consumatori. C'è il pericolo che la protesta degeneri, e che per neutralizzarla gli Stati la demonizzino. L'attuale maggioranza silenziosa, che in parte si sta allontanando in modo irresponsabile dalle urne, deve farsi sentire, come si era fatta sentire con le generazioni precedenti. Solo così restituirà alla politica il primato che le compete.

Corriere La Lettura 20.5.12
L'oppio che consola (pure) Dio
Thomas Dormandy racconta come lo stupefacente amato da Sumeri, imperatori e chirurghi abbia cambiato la medicina
di Giuseppe Remuzzi


«Non chiamatemi professore e nemmeno dottore: potete scegliere fra Thomas e Tom Dormandy, the former after Aquinas, not the doubter apostole»: insomma Thomas nel caso di Dormandy viene da San Tommaso d'Aquino, non dall'apostolo che voleva vedere per credere. È così che ci ha accolto nel suo laboratorio al Wittington Hospital la prima volta. Sono passati più di trent'anni, Dormandy era già una celebrità, noi dei ragazzi appena laureati. Thomas Dormandy ha passato i 90 adesso, e scrive ancora. L'ultimo suo libro — Opium, Reality's Dark Dream — non è soltanto una storia di medicina, è una storia dell'umanità. Di guerre, di letteratura, di mafia, di mercato nero e tanto altro, ed è una storia che parte da lontano: Ferdinand Keller ha trovato in un lago alpino fossili con semi di papavero bianco (indubbiamente coltivato) che si possono datare intorno al sesto millennio prima di Cristo.
«Se Dio dovesse mai avere bisogno di cure, la sua medicina sarebbe l'oppio» amava dire ai suoi studenti William Osler, il padre in un certo senso della medicina moderna che fu a capo di Johns Hopkins a Baltimora. Tanti medici ancora prima di Sir William Osler hanno benedetto l'oppio: «Non avremmo mai potuto fare questo lavoro se non ci fosse stato l'oppio ad alleviare le sofferenze dei malati». Nel reparto di Joseph Lister (Sir anche lui) nel 1877 al King's College di Londra, il reparto di chirurgia più avanzato del mondo, non c'era ammalato che non avesse la sua dose di oppio. L'oppio è la pianta della felicità nelle iscrizioni dei Sumeri, all'epoca di Abramo mescolato al latte calmava le «coliche» dei neonati, lo si trova in un papiro del tremila avanti Cristo. Dal papiro di Edwin Smith viene fuori che gli Egizi sapevano già come per malattie comunque incurabili serva la preghiera più che le medicine, salvo una, l'oppio, per rendere più facile il passaggio all'aldilà.
E nessun faraone sarebbe mai stato sepolto nell'antico Egitto senza il suo corredo di papaveri d'oppio. Solo l'oppio, secondo Jean Cocteau, poteva avere l'effetto descritto da Omero quando racconta di Elena, figlia di Zeus, che mette qualcosa nel vino di Telemaco capace di attenuare l'angoscia dei ricordi. Più tardi, a Roma, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio consumavano tanto oppio quanto vino, ma anche la gente comune aveva il suo dolce di oppio e zucchero oltre a miele, succo di frutta e fiori: tutto mescolato in una specie di marzapane.
Forse non tutti sanno che la farmacologia viene dall'Islam — più di tremila preparazioni contro le meno di mille dei Romani — e c'erano farmacie famosissime al Cairo, a Damasco, a Bagdad, dove si discuteva fra l'altro di letteratura e di filosofia (siamo intorno al 900 dopo Cristo). «Gli ammalati vengono da te per due cose di solito, per il dolore o perché hanno paura», scrive Avicenna in un monumentale testo di medicina: «L'oppio funziona per tutte e due, ma ci vuole grande prudenza». E spiega come prepararlo e il dosaggio giusto e come accorgersi delle contraffazioni.
Nella letteratura moderna gli effetti dell'oppio li descrive per la prima volta Alfano, un monaco benedettino, nel suo libro Premnon Physicon del 1063. Ed è un altro monaco, Costantino Africano, a dilungarsi sulle proprietà quasi magiche dell'oppio nel Liber Isagogarum. Paracelso ha scritto dell'oppio dopo averlo provato su se stesso: «È la medicina ideale, addormenta le malattie senza uccidere l'ammalato». L'oppio serviva ai chirurghi per operare e a metà del '600 Christopher Wren e Robert Boyle a Oxford hanno dimostrato con studi sui cani che l'oppio al cervello arriva attraverso la circolazione: «Ma allora lo si potrebbe iniettare in una vena e usarlo come anestetico», hanno pensato. Fu così; e quell'esperimento cambiò la storia della medicina (prima senza anestetici non si poteva operare).
Nelle regioni cattoliche l'oppio si è diffuso di meno non per scelta ma perché c'era più povertà, i ricchi (Gian Gastone, l'ultimo dei Medici e Pierre Pomet a capo delle farmacie di Luigi XIV in Francia, per esempio) sapevano persino distinguere quello del Cairo da quello di Tebe o della Turchia. Un medico famosissimo, Renè Theophile Hyacinthe Laennec, inventore dello stetoscopio, era solito dire ai suoi studenti che «la morte è parte della vita». Si ammalò di tubercolosi, «era sereno fino all'ultimo — scrisse la moglie più tardi — con due alleati, il buon Dio e l'oppio».
Dove va a parare col suo libro Thomas Dormandy? Mi ha raccontato che voleva finire con l'immagine di un contadino afghano dalla barba incolta che fuma la pipa e sorveglia i suoi campi di papavero ben conscio che sono loro a proteggere dalla fame lui, le sue mogli e la sua famiglia. Poi ci ha ripensato, «it would be fraudulent», e negli ultimi capitoli scrive come nessun'altra droga come l'oppio sia in grado di produrre una distorsione del reale che arriva alla mente e dappertutto e ti coinvolge. Nessuna prende così saldamente possesso di te, nessuna ti distrugge così senza curarsi di etnia, classe, virtù. Milioni di persone adorano la droga, altrettante la odiano. Non ci sono argomenti che convincono le prime, e nessuna statistica convince le seconde a un atteggiamento permissivo. E quelli che sono vittima dell'oppio, in modo diretto o indiretto, continuano a soffrire e a morire.

Corriere La Lettura 20.5.12
Vieni avanti, Critone Quando il dialogo è un «monologo assistito»
di Guido Vitiello


«Una confessione per iscritto è sempre menzognera». Lo diceva Italo Svevo, o meglio lo diceva Zeno, o forse entrambi, e questo è solo il primo di molti tranelli. Non per nulla l'autobiografia ha fama di essere il più malfido dei generi letterari; si presta a tutte le reticenze e le compiacenze, agli accomodamenti retrospettivi, alle civetterie. Qui si lascia osservare l'analogia fondamentale tra l'ego umano e il soufflé in cottura, che è tutto un informe gonfiarsi e ribollire finché non lo trafigga la punta di una forchetta. Ecco, questa forchetta potrebbe provvederla il formato del libro-intervista, dove il narcisismo dell'autore cozza a ogni pagina con un emissario del principio di realtà, l'intervistatore. In altre parole, l'unico rimedio all'espansione incontrollata del soufflé è il dialogo, e anche per questo c'è chi mette in capo all'albero genealogico degli intervistatori Platone, fondatore del libro-intervista in forma di dialogo filosofico. Genealogia rivelatrice da qualunque lato la si guardi, perché 1) Platone scriveva sia le domande sia le risposte, se la suonava e se la cantava; 2) certi intervistatori di Socrate erano, per dire il meno, piuttosto accomodanti: Critone non fa che punteggiare gli sproloqui del maestro con i suoi «vero», «è chiaro», e «come no?». Ergo, dire che Platone è il padre del libro-intervista equivale a dire, grosso modo, che ogni intervista è un'intervista immaginaria o un monologo camuffato.
Nella nostra epoca, il modello platonico puro va ricercato nelle interviste ai leader politici, e in particolare in un sottogenere assai nutrito: l'intervista a Fidel Castro. Il Critone di turno si è chiamato di volta in volta Frei Betto, Gianni Minà o Tomás Borge, tutti impegnati in una strenua gara di resistenza. Minà resse sedici ore, tanto che Valerio Riva lo candidò al Guinness dei primati per «la più lunga intervista fatta in ginocchio». Ma i record sono fatti per essere battuti, e così Ignacio Ramonet accumulò tra il 2002 e il 2005 ben cento ore di conversazione con il facondo líder maximo, che divennero un libro di settecento pagine. Ma lo si dovrebbe squalificare dalla competizione: come dimostrò all'epoca il giornalista spagnolo Arcadi Espada, l'intervista dell'allora direttore di «Le Monde diplomatique» era per buona parte un copia-e-incolla di vecchi discorsi di Castro e articoli usciti sulla stampa di regime. Il libro, ironicamente, s'intitolava Autobiografia a due voci. Presentandolo, Ramonet si premurava di ricordare che anche «i dialoghi platonici erano interviste». Appunto, e le scriveva tutte Platone.
Se non piace il modello asimmetrico maestro-discepolo, con Socrate che sproloquia e Critone che annuisce, il panorama dei libri-intervista offre soluzioni più franche, paritarie, intonate al fair play. Esempio insuperato è la vecchia conversazione tra il magistrato Marcello Maddalena e un Marco Travaglio poco più che trentenne, pubblicata da Donzelli nel 1997 con il titolo Meno grazia, più giustizia. Qui si respira tutt'altra aria, non è l'Accademia, è un tavolo da ping-pong: domanda, risposta, domanda, risposta. Senonché, dopo un po' di scambi, siamo costretti a notare che i due giocatori sono sulla stessa metà del campo, e che il modello occulto non è il ping-pong ma la pallavolo: io alzo, tu schiacci, io alzo, tu schiacci. «Ma insomma, avete o no invaso il campo della politica, svolgendo un "ruolo di supplenza"?» ; «Direi proprio di no». «Siamo il paese più garantista del mondo?»; «Che io sappia, sì». Pare un dialogo, ed è un altro monologo assistito.
Accanto al Critone e al Pallavolista, la tradizione del libro-intervista conosce almeno una terza variante, assai diffusa in quel regno dell'adulazione reciproca universale che è la società delle lettere. Qui l'effetto monologo si ottiene alla radice, per via di blandizie e ammiccamenti, dalla fusione genetica tra gli interlocutori: erunt duo in carne una. La progressione ricorda quello sketch dei Monty Python in cui un intervistatore si rivolge all'intervistato chiamandolo prima sir Edward Ross, poi Edward, poi Ted e infine «zuccherino» e «micetto». Un esempio estremo, aggravato dal cameratismo da corregionali, è il libro-intervista di Marcello Sorgi ad Andrea Camilleri, La testa ci fa dire (Sellerio). Si parte in guardia: «Per prima cosa, scambiamoci una raccomandazione: di non esagerare, da siciliani». Ma non c'è verso, la compenetrazione del giornalista palermitano e dello scrittore di Porto Empedocle è tale che dopo neppure trenta pagine, tra pacche sulla spalla e divagazioni sulla sicilitudine, il Dna siciliano, l'amicizia siciliana e la diffidenza siciliana, le due voci risuonano indiscernibili, come se i parlanti si fossero fusi a livello genetico (il Dna siciliano, appunto). Risultato? Pare un dialogo, ed è di nuovo un monologo a due.
Si dirà che un'intervista non è un interrogatorio, che una disposizione accomodante è un'astuzia per conquistare la fiducia dell'interlocutore ed estorcergli confidenze. Sarà. Ma perché privare il lettore dell'occasionale spettacolo di una forchetta che affonda nel soufflé? Per questo c'è una sola via: che l'intervistatore esca dall'angolo e si faccia sotto. Vieni avanti, Critone.

Corriere La Lettura 20.5.12
Anna Bolena, la concubina sul trono Il fallimento di una ragazza in giallo
Il re d'Inghilterra Enrico VIII lasciò la moglie Caterina per sposarla ma si stancò presto. Fu eliminata con una falsa accusa di adulterio
di Claudia Durastanti

Un re che si innamora troppo facilmente e una regina incapace di generare eredi maschi. Il figlio di un maniscalco che mira a fare carriera e una ragazza in grado di compromettere un matrimonio reale. Una casata che acquista potere e un'altra che progressivamente lo perde. Sembra una puntata del Trono di spade — la serie televisiva tutta sangue e Medioevo maschio prodotta negli Usa da Hbo e trasmessa in Italia da Sky Cinema — ma si tratta di un pezzo molto noto della storia inglese. Il re volubile non è altri che Enrico VIII, Caterina d'Aragona è la moglie in disgrazia, mentre Thomas Cromwell è l'umile stratega che si fa largo sfruttando le debolezze altrui. La ragazza è Anna Bolena, un giorno diventerà regina. Neanche a dirlo, è il personaggio più affascinante del lotto.
Lo sa bene Hilary Mantel, che le dedica ampio spazio nel romanzo storico Bring up the Bodies, appena uscito in Inghilterra. Il libro è il sequel di Wolf Hall, incentrato sull'ascesa di Thomas Cromwell, che diventa braccio destro del re dopo avergli consegnato quanto bramava di più: una via di uscita da un matrimonio disastroso.
La trama è intricatissima; a corte si continuano a rimuovere le tracce di Caterina d'Aragona per non urtare la sensibilità della donna che l'ha soppiantata (non che al popolo importi molto dei sentimenti di «Anna la concubina»), Enrico VIII non dorme di notte, teme di finire all'inferno per colpa del divorzio. Su di lui pende una minaccia di scomunica della Chiesa di Roma, ci sono re in Europa pronti a strappargli il trono. La vicenda viene raccontata attraverso la prospettiva di Cromwell, l'uomo che trama nell'ombra e deve tutto proprio ad Anna Bolena («Ricorda che ti ho creato io», «Posso dire lo stesso», «Sì, ma io me ne sono pentita per prima» è la riposta della regina). Nell'immaginario popolare Anna Bolena è stata tante cose: una protofemminista, una prostituta, una strega, qualche volta una vittima. Nel romanzo di Mantel è meno attraente del solito; quando Cromwell la vede vestita di rosa e di grigio, non può fare a meno di pensare alle viscere di un animale: poca roba, per una sfascia matrimoni che ha mandato in rovina la nazione.
Anna è una regina «tutta spigoli e gomiti» che non puoi toccare né consolare; ha un grottesco senso dell'umorismo (la sua nana di compagnia si chiama Mary, come la primogenita del marito e della precedente regina) e si aliena l'affetto dei parenti perché non vuole dividere i proventi del successo. Per essere una sovrana come si deve le manca una qualità fondamentale: «Una regina, se soffre, soffre da sola e deve possedere la grazia necessaria per sopportarlo. La figlia dei Bolena non ha questa grazia».
C'è un dettaglio che dice molte cose: la sera del debutto Anna Bolena indossa un vestito giallo, tonalità popolare in tutta l'aristocrazia. Dopo 15 anni la ragazza, diventata regina, continua a mettere abiti di quel colore, ma nei territori del Sacro romano impero ormai viene indossato solo dalle prostitute. La donna che aveva affascinato Enrico VIII, perché così diversa «dalle bionde dolci e remissive che attraversano la vita di un uomo senza lasciare alcun segno», diventa gradualmente una forza spenta. «In lei ci sarà sempre una leggerezza forzata, una modestia simulata ad arte. Diventerà una di quelle donne che a cinquant'anni sono ancora convinte di essere in gara».
Solo che a cinquant'anni Anna Bolena non arriverà mai. Enrico VIII si è stancato, le regine vanno e vengono. La ex concubina non si ribella all'accusa di adulterio (un pretesto escogitato da Cromwell per farla fuori) «non per ammettere la colpa, ma per dire questo: non sono degna, non sono degna perché ho fallito. Una cosa doveva fare, prendere Enrico e tenerselo. Sa che l'adulterio è un peccato e il tradimento un crimine, ma essere una perdente è molto più grave».
Hilary Mantel imbottisce Anna Bolena di tratti altamente desiderabili in un personaggio di finzione (l'indomabile fierezza, la capacità di piangere per un cane e non per un figlio morto) quanto improbabili nella realtà, e così facendo la rende sempre più evanescente e immateriale nel mondo della storia. Bring up the Bodies funziona talmente bene da farci dimenticare che una donna così pittorescamente crudele è esistita davvero. E non potrebbe essere altrimenti, dato che qualche dubbio ce lo aveva persino lei, «era convinta che quando sarebbe diventata regina, avrebbe tratto conforto dal ricordo dei giorni dell'incoronazione, ora dopo ora. Ma dice di averli dimenticati. Quando si sforza di ricordare, è come se fosse accaduto a qualcun'altra. Come se lei non fosse mai stata lì».

Corriere La Lettura 20.5.12
Roma, la Manhattan dei Cesari
Venticinque anni di ricerche, sette di lavoro: è l'atlante dell'Urbe. Più di una biografia Andrea Carandini ha ricostruito monumenti e luoghi. «Scienza e divulgazione insieme»
di Paolo Fallai


Che effetto poteva fare passeggiare per il Foro romano nel secondo secolo? Alzare lo sguardo verso i palazzi imperiali, sulle pendici del Palatino, sfiorare la Basilica Emilia e alle sue spalle l'enorme complesso dei Fori imperiali; soffermarsi tra i templi della Concordia e dei Castori? E su tutto, sopra il Campidoglio, la massiccia imponenza del tempio di Giove Ottimo Massimo? Finora potevamo solo immaginare lo stupore di fronte alla Manhattan dei Cesari, adesso possiamo vederlo. Arriva in libreria il 12 giugno una delle opere più complesse che siano state concepite nell'ambito della storia e dell'archeologia romana: l'Atlante di Roma Antica. Biografia e ritratti della città, curato per Electa da Andrea Carandini, coadiuvato da Paolo Carafa, che gli è subentrato nella cattedra all'università La Sapienza.
Venticinque anni di ricerche, sette di lavoro sull'opera, un secolo di attesa: sono i tempi di questo Atlante che si ricongiunge a quello che Carandini chiama «un formidabile precedente». È la Forma Urbis Romae di Rodolfo Lanciani, pubblicata tra il 1863 e il 1901. Un lavoro straordinario, portato avanti da Lanciani in solitudine, fu lui stesso a pagare i disegnatori. Dopo quattro generazioni il moderno Atlante di Roma — frutto di un progetto che ha unito La Sapienza e la Soprintendenza archeologica sotto l'egida del MiBac — si avvale delle più moderne tecnologie, non solo per i rilevamenti e il disegno, ma soprattutto per la gestione di milioni di informazioni, dalle fonti letterarie ai saggi scientifici. «Mancava fino a oggi — spiega Andrea Carandini — uno strumento conoscitivo globale di Roma antica degno degli inizi di questo secolo». E senza tanti giochi di parole l'archeologo, che ha dedicato una vita al Palatino, spiega la filosofia dell'opera: «Un documento scientifico capace di soddisfare l'occhio, filtrato dalla filologia, dalla critica e dall'intelligenza storica, capace di comunicare visioni serie e attraenti dell'Urbe sia al mondo degli studiosi, sia al largo pubblico». Quella che Carandini fa emergere è una visione divergente dello studio archeologico: da una parte l'ossessione del particolare, del singolo scavo, i cui risultati sono comprensibili solo a pochi. Dall'altra la sua scelta di percepire Roma «come una entità complessa, che per essere capita va compresa nel suo insieme, viva e mutevole». Una città «da sottrarre ai segreti e gelosi possessi, ai rivali potentati delle conoscenze, per un interesse culturale generale in cui tutto sia finalmente di tutti».
Nasce così, sulle 1.120 pagine con quasi 400 tavole, una città raccontata per immagini viste «da lontano», con ricostruzioni affascinanti, in cui le figure umane sono essenziali a capire proporzioni e vita vissuta tra i monumenti. E una città vista «da vicino» in porzioni che isolano periodi e fasi, scendendo al particolare del singolo ritrovamento. In ogni pagina vengono indicate le fonti, che siano una moneta antica, un testo letterario o un saggio scientifico. In ogni disegno i colori evidenziano i reperti e la parte ricostruita. «Roma è un cumulo di materiali — chiosa Carandini — quindi una realtà solida che tuttavia scorre e si modifica nel tempo, come un fiume di pietre. Noi abbiamo cercato di cogliere questo movimento. E adesso chiunque abbia un'idea diversa, una interpretazione nuova, si faccia avanti».
È la conferma che «Roma è una scoperta continua». Così Paolo Carafa ha potuto evidenziare il pentimento del doppio frontone del Pantheon e accogliere le ultime scoperte di Maria Antonietta Tomei sulla Domus Tiberiana. E osservando la basilica civile del governo di Massenzio e Costantino, si scopre anche l'origine delle misure della basilica di San Pietro: sono uguali.
L'opera è suddivisa in tre parti. Nella prima sezione è indagata la città nel suo insieme: il paesaggio naturale e quello storico, i suoi confini sacri e le suddivisioni amministrative, i luoghi della produzione e del commercio, le abitazioni private, le mura, la viabilità, gli acquedotti e le aree verdi. Nella seconda sezione vengono descritte le quattordici regiones augustee dell'Urbs: ogni capitolo è composto da un testo narrativo che traccia la storia della singola regio, mentre schede descrittive e didascalie sono destinate ai monumenti e alle opere d'arte. Conclude il volume una terza sezione, dedicata agli indici analitici e alla bibliografia. Straordinarie le ricostruzioni tridimensionali eseguite appositamente per il volume che nel suo insieme esamina, scheda e ricostruisce 13.000 monumenti di Roma antica, dal IX secolo avanti Cristo, al VI d.C. inseriti nei paesaggi del loro tempo, dalle capanne più antiche a San Pietro.
Andrea Carandini e Paolo Carafa sono molto orgogliosi del gruppo di lavoro, una trentina di giovani e giovanissimi, che hanno dato anni di impegno e di ricerche. E sono preoccupati. «In un Paese normale i contenuti di quest'opera sarebbero su Internet e questi ragazzi potrebbero continuare a lavorare per un aggiornamento necessario e costante. Costerebbe pochissimo — sostiene Carandini — e ci permetterebbe di non aspettare un altro secolo per una revisione. Oltre tutto questo lavoro, come si dice oggi, è un format: se ha funzionato per Roma può funzionare per qualsiasi città del mondo».
Un'opera che, in fondo, vede realizzare un sogno che Roma non è stata capace di concretizzare: quel Museo della città, che aspetta di essere realizzato, trova posto in libreria. «L'Atlante è il museo virtuale di Roma antica. E risponde alla filosofia che ci ha sorretto in questi anni — conclude Andrea Carandini: — risarcire il passato, ricostruendolo. Di fronte all'immensa complessità di Roma, non ci disperiamo, non siamo indifferenti».

Repubblica 20.5.12
Neuroletteratura
Quando leggiamo certe frasi si attivano alcune zone del cervello, proprio come se facessimo quelle azioni
di Annie Murphy Paul


Spesso diciamo che un romanzo ci conquista perché ci sembra di aver vissuto le emozioni che racconta. Ebbene secondo gli ultimi studi di psicologi e scienziati sarebbe davvero così. Ecco come

Perse tra gli squilli e i trilli dei nostri congegni digitali, le antiche virtù della lettura possono ormai apparirci remote – o addirittura obsolete. Dalla neuroscienza però emergono, inaspettatamente, alcuni dati che sembrano dimostrare il contrario, rivelando cosa accade nel nostro cervello quando leggiamo una descrizione particolareggiata, delle metafore evocative o un intenso scambio tra due personaggi. La letteratura, secondo la ricerca, stimola il cervello e modifica i nostri comportamenti.
I ricercatori sanno da tempo che le "classiche" aree del linguaggio, come quella di Broca e di Wenicke, giocano un ruolo importante nel modo in cui il cervello interpreta le parole scritte; tuttavia, solo negli ultimi anni si è appreso che la lettura attiva molte altre regioni del cervello – il che spiegherebbe perché rappresenta talvolta un´esperienza tanto vivida.
Ad esempio, parole come "lavanda", "cannella" e "sapone" suscitano una reazione non solo nelle zone del cervello adibite all´elaborazione del linguaggio, ma anche in quelle coinvolte nelle percezioni olfattive.
Uno studio condotto in Spagna nel 2006 e pubblicato dalla rivista NeuroImage ha preso in esame le reazioni di alcuni partecipanti, sottoponendoli a una risonanza magnetica funzionale (fMri) mentre leggevano alcune parole strettamente associate alla sfera olfattiva e altre, considerate neutre. Di fronte a termini quali "profumo" e "caffè", la corteccia olfattiva primaria dei soggetti si attivava, per poi tornare in ombra alla lettura delle parole "sedia" e "chiave".
Anche il modo in cui il cervello reagisce alle metafore è stato oggetto di studi approfonditi; mentre in passato alcuni scienziati sostenevano che le associazioni di tipo figurato – come "una giornata pesante" – risultano talmente familiari da essere elaborate dal cervello alla stregua di normali parole, lo scorso mese una squadra di ricercatori della Emory University ha reso noto, dalle pagine di Brain & Language, che la lettura di una metafora di tipo tattile causava nei soggetti da loro presi in esame l´attivazione della corteccia sensoriale, responsabile della percezione tattile. Così, mentre una metafora quale "il cantante ha una voce vellutata", o "aveva le mani ruvide" stimola la corteccia sensoriale, frasi come "il cantante ha una voce gradevole" e "aveva le mani forti" la lasciano indifferente.
Altre ricerche hanno poi evidenziato come le parole che descrivono il movimento stimolano le regioni del cervello diverse da quelle che elaborano il linguaggio. Uno studio condotto da Véronique Boulenger, scienziata cognitiva del Laboratorio francese delle dinamiche del linguaggio, ha rivelato attraverso delle scansioni cerebrali che la lettura di frasi come "Giovanni afferrò l´oggetto" e "Pablo diede un calcio alla palla" attiva la corteccia motoria: la stessa che coordina i movimenti del corpo. Non solo: quando il movimento descritto si riferisce a un braccio l´attività si concentra in una regione della corteccia motoria diversa da quella che reagisce quando il movimento descritto riguarda ad esempio la gamba.
A quanto pare, dunque, il cervello non scorge una grande differenza tra il racconto scritto di un´esperienza e il viverla in prima persona, dal momento che entrambi attivano le medesime regioni neurologiche.
Keith Oatley, professore emerito di psicologia cognitiva presso l´Università di Toronto (nonché autore a sua volta di romanzi), ipotizza che la lettura produce una vivida simulazione della realtà che «si proietta nella mente dei lettori esattamente come una simulazione al computer si proietta sul monitor». E i romanzi – ricchi come sono di dettagli fragranti, fantasiose metafore e descrizioni accurate dei personaggi e delle loro vicende – offrono un´esperienza particolarmente complessa.
Esiste poi almeno un caso in cui i romanzi superano la realtà, offrendo ai lettori un´opportunità che questa invece nega: quella di potersi addentrare nei pensieri e nelle sensazioni di altri individui. La letteratura rappresenta uno strumento impareggiabile per esplorare la vita sociale ed emotiva degli uomini.
La scienza dimostra inoltre che il cervello, così come reagisce alle descrizioni olfattive, tattili e di movimento come se si trattasse di esperienze vissute in prima persona, risponde alle interazioni tra personaggi letterari quasi come se si trattasse di incontri in carne e ossa.
Lo scorso anno Raymond Mar, psicologo presso la York University, in Canada, ha pubblicato sulla Annual Review of Psychology uno studio basato sull´analisi di ottantasei fMRI che evidenzia una considerevole sovrapposizione tra i circuiti cerebrali impiegati nella comprensione di trame scritte e quelli utilizzati per gestire le "reali" interazioni con altri individui – e, in particolare, le interazioni che richiedono di indovinare i pensieri e i sentimenti degli altri.
Le trame letterarie, che ci portano a identificarci nei desideri e nelle frustrazioni dei loro personaggi, a indovinare le loro motivazioni recondite e seguire le loro interazioni con amici e nemici, vicini e amanti, offrono un´opportunità unica per esercitare quella che gli scienziati definiscono "teoria della mente", ovvero la capacità da parte del cervello di costruire una mappa delle intenzioni altrui.
Stando ad altre ricerche, la lettura affinerebbe le nostre competenze sociali. In due studi compiuti in collaborazione con altri scienziati e pubblicati nel 2006 e nel 2009, Oatley e Mar riferiscono che gli individui che si dedicano con assiduità alla lettura di romanzi sembrano dotati di una maggiore capacità di comprendere gli altri, identificarsi con loro e vedere il mondo dal loro punto di vista. E i risultati non cambiano anche se si tiene conto della possibilità che ad essere attratti dai romanzi siano degli individui naturalmente predisposti all´empatia.
Un risultato analogo è emerso da uno studio condotto da Mar nel 2010 su dei bambini di età prescolare: maggiore era il numero di storie che a questi erano state lette e più la loro teoria della mente risultava avanzata. Lo stesso effetto che si produce con la visione di film, ma, stranamente, non dalla televisione (a questo proposito Mar ha ipotizzato che dal momento che i bambini guardano la televisione da soli ma vanno al cinema in compagnia dei genitori, il grande schermo fornisce loro «maggiori spunti di conversazione con i genitori sugli stati mentali»).
I romanzi, suggerisce Oatley, «forniscono degli stimoli particolarmente utili, perché le interazioni sociali sono estremamente complesse e richiedono di valutare miriadi di interazioni tra causa ed effetto. Così come le simulazioni al computer possono aiutarci ad apprendere alcune competenze complesse, come pilotare un aereo o prevedere che tempo farà, così i romanzi e i racconti possono contribuire a farci cogliere le complessità delle interazioni sociali».
Tutte queste scoperte giungono come una conferma per chiunque si sia mai sentito illuminato e arricchito dalla lettura di un romanzo, o si sia mai sorpreso a paragonare una ragazza coraggiosa a Elizabeth Bennet o un uomo barboso e pedante a Edward Casaubon (personaggio di Middlemarch di George Eliot, ndT). Da tempo avevamo intuito che leggere le grandi opere della letteratura allarga i nostri orizzonti e ci rende persone migliori. Oggi la scienza dimostra che ciò è più vero di quanto immaginassimo.
© Nyt - la Repubblica (Traduzione di Marzia Porta)
L´autrice ha recentemente pubblicato "Origins: How the Nine Months Before Birth Shape the Rest of Our Lives" (Origini: in che modo i nove mesi che precedono la nascita condizionano il resto della nostra vita)