martedì 22 maggio 2012

l’Unità 22.5.12
Grillo vince Parma, il Pd il resto
14 a 5: il Pd ribalta la partita con Pdl e Lega
Il centrosinistra conquista numerose roccaforti del centrodestra
Ora governa in 100 Comuni con più di 15mila abitanti
Il Pdl era in netto vantaggio ma ha vinto solo in 44 centri
È finita la Seconda Repubblica
di Pietro Spataro


La tendenza è chiara: vince il Pd, è una disfatta per il Pdl e un ko per la Lega, il movimento «5 stelle» si afferma come «partito della protesta». Finisce un modello di governo, si sgretola il blocco sociale che il centrodestra aveva creato attorno a un’idea carismatica, proprietaria e liberista. Cambia tutto, ma come avviene in tutti i cambiamenti troppo veloci e disordinati, restano troppe incognite che impediscono di prevedere quale sarà l’esito di questo difficile passaggio. Il Paese è come sospeso tra ieri e domani, ma su un filo troppo sottile che può spezzarsi in qualunque momento se non si avrà la forza e l’ambizione di mettere al suo posto una corda robusta.
Non c’è dubbio che il Pd ha oggi la responsabilità principale della transizione. Gira in rete un grafico che illustra bene il nuovo scenario: c’è una colonnina rossa molto alta, molto più alta delle altre, e rappresenta il numero dei Comuni che saranno governati dal centrosinistra. Sono 92, erano 45 nelle precedenti elezioni. Molto più giù una serie di tante basse colonnine tra le quali spicca quella del centrodestra con 34 sindaci e poi una piccolissimi numeri che riguardano tutti gli altri, liste civiche comprese. È l’immagine di un bipolarismo muscolare sconfitto. Ma anche di un Pd che, tra le macerie di una pericolosa polverizzazione, resta l’unica forza in grado di aggregare una alternativa alla crisi del sistema.
Ma il risultato di ieri è una sfida per Bersani. Che richiede una risposta aperta e una capacità di correggere le debolezze di cui il Pd soffre e che infatti gli impediscono di intercettare l’elettorato che abbandona il centrodestra. Sin da oggi ci sarà bisogno di una «scossa civica» che sia in grado di far sentire ai cittadini, con maggiore convinzione, che il Pd c’è. E c’è sui loro problemi, sulla crisi del Paese, sul malessere che serpeggia nelle famiglie. C’è con un’idea chiara sul nuovo sistema politico. C’è nell’opera di rinnovamento e di ricambio generazionale indispensabile. Il Pd, insomma, dovrà evitare di coccolarsi con gli allori di questa vittoria e saperla usare, invece, per offrire una proposta credibile.
Il successo di Grillo a Parma è sicuramente un fatto importante e una novità di rilievo. Il movimento «5 stelle» è riuscito (anche con un consistente aiutino del Pdl) a intercettare il malumore e la protesta che agitano l’Italia in crisi. Lo ha fatto, spesso, usando slogan populisti, affidandosi alla facile arma del «siamo contro tutti»: e tutti ladri, venduti e incapaci. Ora però anche per il movimento cambierà musica. Diciamo che da oggi il «5 stelle» diventa ufficialmente un partito, esce definitivamente dallo «stato nascente» dei vaffa-day ed entra nell’età adulta. Dovrà misurarsi con i bilanci, con i tagli di spesa, con le scelte urbanistiche, dovrà trattare e scendere a compromessi: dovrà sporcarsi le mani. Su questo verrà giudicato dagli elettori e non più sulla battuta meglio azzeccata. Ma il risultato di Grillo dimostra anche che nel Paese c’è un malumore diffuso nei confronti della politica che non è solo e tutta antipolitica. Tra gli elettori che a Parma hanno scelto Pizzarotti sono molti quelli che vogliono una politica diversa. Anche a questi, evitando pregiudizi a volte troppo politicisti, il centrosinistra deve saper parlare.
Se un’indicazione di tendenza si può ricavare da questo voto locale è che il passaggio al post berlusconismo non è per niente un pranzo di gala. È invece un processo difficile, che comporta alti rischi e presenta spinte e controspinte incontrollabili che possono condurre anche a esiti imprevisti. La frammentazione è talmente forte e la tentazione per alcune forze di giocare al "tanto peggio tanto meglio" così accattivante, che serve un grande spirito di responsabilità nazionale. Ma servono anche grandi scelte strategiche che diano al Paese la certezza che un nuovo cammino è possibile. Il Pd alla fine resta l’unico «partito della nazione» e dovrà essere all’altezza di questa delicata dimensione rafforzando nello stesso tempo il suo rapporto con i progressisti europei e con le loro battaglie contro il «partito dell’austerità» che rischia di strangolare il Vecchio Continente. Riuscirà a fare tutto ciò se presenterà un programma di governo chiaro e alternativo: equità, uguaglianza, lavoro, diritti, welfare. Se sarà la forza centrale di un sistema di alleanze coerente e non conflittuale come fu la vecchia Unione. E se si batterà con determinazione per la cancellazione del Porcellum e per una riforma del sistema istituzionale che garantisca al tempo stesso la centralità dei partiti, che restano i capisaldi della rappresentanza politica, e la forza serena di un bipolarismo di tipo europeo dove l’elettore sceglie da chi essere governato e i parlamentari non siano più nominati. Al forte vento astensionista che soffia nelle nostre città bisogna rispondere con la forza della buona politica e non con le sue troppe debolezze.
Dieci mesi ci separano ormai dal voto del 2013. Dieci mesi in politica sono un tempo breve, quasi un lampo. Ma occorre andare controvento per riuscire a valorizzare il messaggio positivo che viene da questi ballottaggi e per eliminare le troppe incognite che ancora pesano sul futuro. Nel Paese c’è una spinta certo, spesso nascosta e a volte disordinata per il cambiamento. Se il centrosinistra saprà sintonizzarsi con essa forse potrà cominciare finalmente il tempo nuovo.

l’Unità 22.5.12
Bersani: una vittoria senza se e senza ma
«Da 45 comuni a 92: non è una vittoria?»
Su Parma: «Il Pdl si è nascosto dietro Grillo»
Renzi insiste: primarie
di Simone Collini


ROMA «Abbiamo vinto senza se e senza ma. Capisco il simpatico tentativo di rubarci la vittoria ma non sarà consentito». Tre ore dopo la chiusura dei seggi elettorali Pier Luigi Bersani sale al terzo piano del quartier generale del Pd con sotto il braccio una cartellina. Ad attenderlo ci sono decine di giornalisti, telecamere, fotografi. Il leader dei Democratici si siede al tavolo di fronte a loro e mette in bella vista un grafico a colori. Schematizza il risultato elettorale complessivo, i Comuni andati al voto che da oggi saranno governati dal centrosinistra, quelli riconfermati e quelli strappati al centrodestra. «Abbiamo vinto le amministrative 2012: 177 Comuni al voto sopra i 15 mila abitanti, 92 vinti dal centrosinistra; l'altra volta erano 45. Questi sono i fatti». E Parma? «Abbiamo non vinto», sorride Bersani. «Lì governava da dieci anni il centrodestra, che è stato sconfitto e si è rimpannucciato dietro a Grillo. Non è che abbiamo perso».
Anche questa seconda tornata elettorale viene commentata positivamente dal gruppo dirigente del Pd. Si partiva da una situazione, guardando ai Comuni capoluogo, di 18 a 8 a favore del centrodestra. Oggi il risultato è ribaltato, col centrosinistra che governa in 18 di essi, mentre al Pdl ne rimangono 5, uno alla Lega (Verona) e uno al Movimento 5 stelle (Parma). I riflettori sono tutti puntanti sull’exploit dei grillini, ma al Pd si guarda soprattutto al fatto che nel Nord sono state conquistate importanti città come Alessandria, Asti, Como, Monza, Belluno, e che l’asse Pdl-Lega che ha dominato la scena politica per gran parte dell’ultimo ventennio oggi è in frantumi.
Al di là del buon risultato ottenuto, nella sede del Pd si guarda non tanto all’affermazione del movimento di Beppe Grillo, che per Bersani ora «dovrà dire cosa intende fare perché solo gli slogan servono a poco» (e la sfida che gli lancia il leader dei Democratici è per un confronto su un tema «inevaso» dal comico genovese, quello del lavoro), ma al dato dell’astensionismo. «È preoccupante ma non allarmante», dice Bersani, giustificando questa frase con la media che si registra in questa fase nelle elezioni a livello europeo e con il fisiologico calo che c’è sempre nel secondo turno.
MESSAGGIO ANCHE PER IL GOVERNO
Ma quel 49% di elettori che ha scelto di non votare non lascia proprio sereni i dirigenti del Pd, che ora imposteranno la strategia delle prossime settimane incalzando gli altri partiti sulle riforme da approvare in Parlamento e l’esecutivo sulla necessità di approvare in tempi rapidi misure che diano un segnale chiaro al disagio sociale che c’è nel Paese. «Mi auguro che il governo capisca che viene un messaggio anche per lui da queste elezioni», dice non a caso Bersani commentando il risultato dei ballottaggi.
Il leader del Pd tra oggi e domani vedrà Mario Monti e i leader dei partiti progressisti europei, discutendo in entrambi i casi di come far fronte alla crisi e di come favorire la crescita. «Il Paese vive una sofferenza acuta, alcuni problemi non si possono risolvere, altri sì, e bisogna porre un grande orecchio sui temi sociali». Bersani insisterà con il presidente del Consiglio sulla necessità di rivedere il patto di stabilità interno che impedisce ai Comuni di fare investimenti, di trovare una rapida soluzione al problema degli esodati, di accelerare i pagamenti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. «Il Paese ha bisogno di segnali concreti che riguardano la vita di ogni giorno».
Ma la richiesta di «cambiamento» che è arrivata dagli elettori investe anche i partiti, che hanno pochi giorni di tempo per approvare riforme di cui da troppo tempo si discute senza arrivare a meta. Per questo Bersani sollecita le altre forze parlamentari a smetterla di rallentare l’iter del dimezzamento dei rimborsi elettorali (oggi comincia la discussione in aula) e delle altre riforme (a cominciare dalla legge elettorale) che a parole tutti dicono di volere ma che nei fatti rimangono ferme al palo. Il Pd è convinto che gli elettori abbiano «compreso» il sostegno a Monti e che non tutti i partiti sono uguali. Ma se entro i prossimi mesi non arriveranno risultati concreti, è il timore che circola al Nazareno, l’ondata di antipolitica non farà troppe distinzioni. E il lavoro, per Bersani, andrà condotto sia con le altre forze parlamentari che all’interno del Pd: «Siamo in una situazione in cui la destra non risponde più alle aspettative dell'elettorato, c'è disaffezione e protesta verso la politica e tocca a noi interpretare un cambiamento credibile in vista di un appuntamento storico che è il 2013».
Il gruppo dirigente del Pd, che ora si riunirà per esaminare più approfonditamente il risultato elettorale e per decidere i prossimi passi (dopo il voto di Palermo c’è chi, come Bindi e Veltroni, chiede di rompere con Lombardo in Sicilia), sa che servirà il massimo della coesione per far fronte alle sfide che attendono il partito nei prossimi mesi, sul piano del rapporto col governo come nel confronto con le altre forze politiche. L’unica voce fuori dal coro, in queste ore, è quella di Matteo Renzi, per il quale «se Atene piange Sparta non ride», «l’usato sicuro va in pensione» e ora il Pd ha di fronte a sé due strade: «O si arrocca nella propria fortezza oppure prende atto dei risultati e indice per ottobre le primarie in modo da prepararsi per le prossime elezioni politiche». Bersani, a chi gli chiede un commento sulle parole del sindaco di Firenze, risponde con una sola battuta, che delinea la strategia per i prossimi mesi: «Se gli alleati vorranno faremo le primarie».

l’Unità 22.5.12
Nuova sfida per Bersani
Soprattutto quando un partito vince deve riflettere sulle incognite del cammino che resta da compiere.
di Michele Prospero


Soprattutto quando un partito vince deve riflettere con freddezza sulle incognite del cammino che resta ancora da compiere fino al voto. In ogni sua mossa, deve avere un quadro nitido circa le prospettive del sistema politico. Come scaltro partito cerniera, che mette insieme ovunque delle coalizioni altamente competitive, il Pd di sicuro incassa una grande affermazione. I giornali, che non lo amano troppo, faranno a gara per oscurare il successo o persino per negarlo con artifici retorici, ma il dato resta comunque, ed è inconfutabile. O direttamente con i suoi uomini, o cedendo ad altri alleati la guida dello schieramento (fanno ridere certi commentatori che presentano Genova come uno smacco), il Pd si conferma il pilastro di una aggregazione ampia della sinistra capace di sfondare nell’intero territorio nazionale.
Il primo dato che il ballottaggio amplifica è che esiste un grande blocco del centrosinistra che il Pd, nonostante la difficile esperienza di un governo tecnico, riesce a coagulare e portare a vincere, secondo la specifica logica competitiva della elezione diretta del sindaco. Questa persistenza di una vasta sinistra (che rende meglio dove non ha attraversato il deserto rancoroso delle primarie di coalizione), capace spesso di accogliere movimenti e aree moderate, è un punto d’analisi inamovibile. Il secondo dato da evidenziare è che il Pd rimane il solo partito con un qualche profilo organizzato entro un sistema ormai franato e irriconoscibile nelle sue stabili linee di demarcazione. La mancanza di competitori temibili (la Lega perde in tutti i ballottaggi, il Pdl è solo un cumulo di rovine, il terzo polo è un’incompiuta) però non deve autorizzare una sensazione di onnipotenza, che si sa è sempre l’anticamera della sconfitta più rovinosa. Proprio quando un partito è solo, e il sistema attorno pare indecifrabile, deve aumentare la diffidenza su ciò che il Paese profondo potrebbe avere in gestazione e all’occasione decisiva potrebbe tirarlo fuori con un impeto distruttivo.
Poiché la destra non è scomparsa (e come potrebbe in un avvelenato clima di antipolitica che nella storia è sempre l’alimento vitale per la conservazione?) e gli interessi prosaici sui quali essa poggiava non sono affatto in silenziosa ritirata, è presumibile che emergeranno altri investimenti politici per rinserrare le fila oggi disperse. Ancora esiste una destra sociale (e d’opinione) che però non ha più referenti politici credibili e leader efficaci (perciò si aggrappa in maniera gattopardesca persino ai seguaci locali di Grillo) e quindi naviga alla cieca, in attesa di nuove offerte simboliche nelle quali riconoscersi. Non è esclusa la ricomparsa in vesti magari inedite di devianti scorciatoie fiabesche capaci di farsi largo per la difficoltà di curare l’alienazione politica della vasta neoborghesia che non comprende la grammatica della rappresentanza e del generale. Fin quando permane una emergenza democratica, resta aperta la questione storica di impedire l’aggregazione del centro moderato con le manifestazioni di una inquietante destra che non riesce a resistere al richiamo perverso del dialetto del populismo e della farsa dell’antipolitica.
Che fare? Non servono gocce di civetteria nuovista, di sicuro subalterna all’epoca decadente. Inefficaci sarebbero pure le trite metafore reticolari, destinate a perdersi nell’oceano dell’antipolitica perché del tutto incapaci di rifondare una democrazia rappresentativa matura. Al Pd tocca agire come un partito-sistema che progetta una repubblica finalmente affrancata dall’incantesimo di regressive avventure carismatiche. La sua funzione storica di argine al primitivismo di movimenti personalistici, risiede nella capacità di organizzare la rappresentazione credibile del mondo del lavoro minacciato da una crisi micidiale e di delineare, in antitesi allo strapaese incombente, la necessaria proiezione dei partiti rinnovati verso le grandi culture politiche europee.

l’Unità 22.5.12
Una valanga travolge la destra in Lombardia
Il secondo turno del voto amministrativo conferma e accentua la crisi della Lega e del berlusconismo
Ma il Pd non deve illudersi, la battaglia è solo all’inizio
di Rinaldo Gianola


Si rompe il blocco sociale e d’interessi della destra, milioni di voti in fuga Svanisce l’asse del Nord
Il risultato, piaccia o no, riconosce i Democratici come primo partito del territorio

MILANO Certo, oggi tutti hanno in mente Parma e la bella vittoria del grillino Pizzarotti. Giusto. Ma, forse, se vogliamo capire cosa è successo di rilevante in tutto il Nord, nei due turni delle amministrative, se vogliamo immaginare quali bandierine potrebbe piantare Bruno Vespa in uno speciale “Porta a porta” sul voto in Lombardia, nei santuari del Pdl e della Lega, allora dobbiamo partire dal comune di Tradate, nel varesotto. Qui inizia il ribaltone. Perchè il voto non si misura solo in percentuale, ma anche in valenza politica e simbolica. Ci sono vittorie, e sconfitte, che sono più vittorie e sconfitte di altre perchè anticipano il cambiamento, sono il segno della svolta, della novità attesa e finalmente manifesta.
SI RICOMINCIA DA TRADATE
Tradate, dunque? Sicuro. In questo ricco comune, di capannoni e imprese, ha vinto Laura Cavallotti, impiegata comunale, che ha mandato a casa il sindaco leghista e ha messo ko il boss locale della Lega, Dario Galli, presidente della provincia di Varese e consigliere di amministrazione di Finmeccanica perchè anche la Lega di lotta e di governo sa benissimo che i consigli delle grandi imprese pubbliche sono la continuazione della politica con altri mezzi. Tradate era un bastione inattaccabile della destra, oggi crolla sotto i colpi degli scandali, della paghetta del “Trota”, ma soprattutto rappresenta la mutazione politica del territorio, la rottura del blocco sociale leghista e berlusconiano che porta imprenditori, artigiani, professionisti, lavoratori a spostarsi altrove, soprattutto verso il Pd che, piaccia o no ai commentatori del Corriere della Sera vince in 17 comuni su 20 in Lombardia ed è oggi il primo partito della regione.
Certo nessuno nel Pd e nel centrosinistra deve farsi illusioni di poter riprendere la regione più importante, più ricca con un colpo di bacchetta, immaginando candidati improbabili che si autopromuovono con certe interviste che vien voglia di scappare... E non si può dimenticare, proprio nel momento di un successo importante, che la rotta della destra si accompagna con una crescita enorme dell’astensionismo, un segnale palese del distacco dei cittadini dai partiti che deve interessare e preoccupare la sinistra. Ma non c’è dubbio che oggi appare una grande occasione per le forze progressiste, c’è la strada aperta per riconquistare la Lombardia e da qui anche la guida del Paese. La Lombardia ha prodotto Craxi, Bossi, Berlusconi, Tremonti, oggi il tecnico Monti, è necessario creare le condizioni affinchè possa maturare un candidato progressista alla guida del Paese. L’anno scorso la conquista di Milano con Giuliano Pisapia ha segnato un percorso che merita di essere seguito.
I ballottaggi, infatti, offrono uno scenario politico nuovo e in evoluzione, accentuano le difficoltà politiche della coalizione che sostiene Roberto Formigoni e lasciano la destra in piena crisi. Al netto della vittoria chiara, al primo turno, del sindaco di Verona il leghista anomalo Tosi, il movimento di Umberto Bossi registra una frana totale, in particolare nelle proprie roccaforti. Perde nei grandi centri e perde voti, consensi nei comuni della fascia pedemontana, quella dove i sociologi della politica individuano la base, la forza, lo zoccolo duro della Lega.
Il terremoto del voto in Lombardia vede la Lega perdere tutti i ballottaggi in cui era impegnata. La sola consolazione è che a Cassano Magnago, la culla di Bossi, non passano i “rossi”, ma la spunta il candidato del Pdl appoggiato malvolentieri dai leghisti. Il resto è un disastro, per Bossi e per Berlusconi che, infatti, non si fa più vedere in giro perchè ha capito che per lui e i suoi sodali tira una brutta aria.
LA BRIANZA SALUTA SILVIO
La sinistra vince nettamente a Monza con Roberto Scanagatti, territorio considerato berlusconiano anche per la vicinanza con Arcore. La bella e produttiva Brianza dei mobilieri, delle fabbrichette, volta pagina e si affida al Pd, come era già emerso al primo turno. Un caso incredibile è quello di Meda, grande centro brianzolo, dove vince per un solo voto il candidato del centrosinistra Gianni Caimi e riprende il municipio che dal 1992 era in mano alla Lega. Una vittoria storica è quella di Mario Lucini che porta le forze progressiste al governo della città, dopo oltre vent’anni. I successi del Pd e dei suoi alleati sono rilevanti in Lombardia e altrove, hanno una valenza storica perchè mettono fine a un lungo dominio della destra.
Poi ci sono anche delle belle conferme. A Sesto San Giovanni il Pd mantiene il sindaco, esce Giorgio Oldrini e il suo posto viene preso da Monica Chittò, che vince con largo distacco. Gli elettori sestesi, dunque, hanno preferito confermare la loro fiducia verso chi ha ben governato la città e le inchieste giudiziarie che hanno coinvolto anche Filippo Penati non hanno prodotto conseguenze sul voto. In Lombardia le elezioni amministrative 2012 dicono che il Pd si prende pure la guida di Abbiategrasso, Buccinasco, Castiglione delle Stiviere, Cernusco sul naviglio, Cesano Maderno, Crema, Desenzano sul Garda, Garbagnate milanese (dove il candidato grillino sostenuto dal pdl è arrivato al 48% ), Legnano, Lissone, Magenta, Meda, Palazzolo sull’Oglio, Pieve Emanuele, San Donato Milanese, Senago e Tradate. È un buon inizio.

Repubblica 22.5.12
Sindaci scelti da meno della metà degli elettori anche a Alessandria, Como, Monza, Belluno, Lucca, Taranto e Trapani
Da Genova a Palermo, lo sciopero del voto a quota 60
di Alberto Custodero


ROMA - Crollano gli elettori. L´astensionismo sale a un livello definito dai politici di tutti i partiti «preoccupante». A Genova ha toccato livelli record del 61 per cento: per il ballottaggio vinto dal sindaco Marco Doria si sono recati alle urne complessivamente 197 mila votanti (il 39 per cento) su un totale di 504 mila, il 15 per cento in meno rispetto al primo turno. Sei genovesi su dieci non si sono recati alle urne. E Doria è stato eletto circa da un genovese su 5, 114 mila cittadini. Per capire l´entità del fenomeno nel capoluogo ligure, basta confrontare i dati con la precedente tornata: nel 2007 avevano votato il venti per cento di elettori in più, 323.289, il 61,75%. Secondo i dati del Viminale (che non tiene conto della Sicilia), in termini assoluti calano del 13,98 per cento gli elettori rispetto alla precedente elezione di cinque anni fa. «Un messaggio chiaro da prendere sul serio», ha commentato Angelo Bagnasco, il presidente della Cei.
Ma ci sono città, dal Nord Est al Sud, dove ha votato meno di un elettore su due. La fuga di elettori ha portato a Belluno meno di uno su due a votare (il 53 per cento, per l´esattezza). E l´affluenza è calata del dieci per cento rispetto al primo turno. Cinque anni fa l´astensionismo era stato appena del 34%. Anche a Palermo, come Belluno, ha votato solo il 47%, 531.631 elettori. Rispetto al primo turno, s´è registrato un calo complessivo, quindi, del 20,11%.
Stessa situazione di astensione quasi del 60 per cento accomuna Como (dove, però, nel 2007 avevano votato quasi 7 su dieci) a Taranto (dove cinque anni fa 5 elettori su dieci avevano votato al secondo turno di due anni fa). In entrambe queste città il calo rispetto alla primo turno è stato quasi del 20%. Anche in Emilia crolla l´affluenza: a Parma l´astensionismo s´è assestato intorno al 39 per cento: i votanti (61 per cento) sono diminuiti di sei punti percentuali rispetto a cinque anni fa (67 per cento). Appena uno su tre circa ha votato il sindaco del Movimento 5 Stelle di Grillo, 51 mila voti su 142 mila aventi diritto.
Crolla quasi del 16 per cento la partecipazione al voto anche a Monza: solo il 44 per cento s´è recato a votare ieri, contro il 60 per cento del primo turno. «Il dato preoccupante - ha commentato Rosy Bindi, presidente del Pd - è l´astensionismo o il rifugio in liste che hanno il sapore di una protesta o il tentativo di una risposta sbagliata all´antipolitica che va crescendo».

Corriere 22.5.12
L’ultimo avviso
di Massimo Franco


Ogni analisi dei risultati rischia di apparire statica e dunque infedele: soprattutto se si legge con le lenti del passato. Quanto è successo fra il 6 maggio e ieri riflette un'Italia cambiata in profondità; ed esplicita nel dire almeno quello che non vuole più. La disintegrazione del centrodestra è ormai un dato di fatto che né le difficoltà del voto amministrativo né l'uscita di scena di Silvio Berlusconi bilanciano. Anzi, forse il Pdl ha perso troppo tempo prima di voltare definitivamente pagina.
Quanto alla Lega, le inchieste giudiziarie sono state solo la ciliegina velenosa su una crisi di identità che dura da tempo: le sue sconfitte a catena suonano come una conferma. La frattura della Seconda Repubblica di centrodestra col suo blocco sociale del Nord, prima che col suo elettorato, si è ormai consumata. Il travaso massiccio di voti nel Movimento 5 stelle del comico Beppe Grillo è l'indizio che il Carroccio non era credibile neppure come partito di protesta contro il governo di Mario Monti.
Il Pdl può anche sperare che si tratti di voti «in libera uscita», come teorizzava alla fine del secolo scorso una Dc in declino. Per il momento, sono usciti e basta. E non sarà facile calamitarli di nuovo senza un esame impietoso dei motivi della sconfitta e del ruolo che un post berlusconismo acefalo e sbandato vuole esercitare in una stagione di vacche magre e di tensioni sociali. L'impressione è che le posizioni di rendita siano finite per tutti, perché l'elettorato ha scelto un nuovo terreno di gioco.
È questo a spiegare l'ambiguità dell'Udc quando si rifiuta di decidere fra uno schieramento e l'altro. In realtà, Pier Ferdinando Casini è convinto che i due fronti del 2008 si siano sbriciolati; e dunque fa di necessità virtù, non riuscendo a riplasmarli come vorrebbe. E a sinistra, la stessa evocazione della «foto di Vasto» da parte di Antonio Di Pietro, con Pd, Idv e Sel trionfalmente uniti, va ingrandita al microscopio dei nuovi paradigmi. I grillini attingono anche nel serbatoio dipietrista e sono ai ferri corti con la sinistra. E a Parma, col loro sindaco, dovranno dimostrare di saper governare, strappati dalla sponda dell'antipolitica.
È un rifiuto delle vecchie logiche perfino il trionfo di Leoluca Orlando a Palermo, sindaco già un quarto di secolo fa. La sua vittoria è figlia della rivolta contro il candidato imposto alle primarie dal vertice nazionale del Pd: un fenomeno un po' troppo frequente, al punto da confondere i contorni della leadership. Il segretario, Pier Luigi Bersani, rivendica, con qualche ragione, di essere il meno ammaccato fra i partiti tradizionali. Eppure il Pd sa di doversi affrancare da «cartelli elettorali» superati.
Nelle urne sono stati smaltiti i cascami di una Seconda Repubblica in agonia. Ma questi detriti possono depositarsi e diventare le basi degli equilibri che verranno, se le forze politiche non saranno capaci di interpretare le dinamiche di un'Italia che ha mandato l'ultimo avviso prima dello sfratto.

Corriere 22.5.12
La complessa vittoria dei democratici turbati dall'effetto contagio
«Ora dobbiamo fare le riforme»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Può sembrare un paradosso, ma non lo è. Il crollo del centrodestra preoccupa i massimi dirigenti del Partito democratico. Nei sondaggi riservati che circolano nel Pd il Pdl è sotto quota 20 per cento (in alcuni è al 19, in altri addirittura al 18). E insieme alla Lega supera di poco il 25. Il risultato di Monza, tanto per fare un esempio, ha lasciato basito lo stesso Pier Luigi Bersani: «Non pensavo che finisse così: quella è pure l'unica città in cui Berlusconi ha fatto un comizio».
Lo stato d'allarme del Partito democratico si intuisce chiaramente dalle parole del vice segretario Enrico Letta: «Centrodestra e centrosinistra devono riflettere e fare le riforme altrimenti l'Italia diventerà come Parma». Paolo Gentiloni è ancora più esplicito: «La crisi del centrodestra è talmente grave che rischia di essere pericolosa anche per il Pd. L'elettorato di Pdl e Lega è in libera uscita, non viene da noi ma confluisce sui grillini, su Orlando o preferisce l'astensionismo. In questo mare in tempesta noi non possiamo stare fermi pensando che la nostra barca, che è l'unica che è rimasta a galla, sia in un porto sicuro. Qualcuno potrebbe rifondare il centrodestra, fare una nuova offerta politica a quell'elettorato e noi potremmo ritrovarci impreparati alle elezioni nella primavera del 2013». Anche Matteo Renzi la pensa così: «Abbiamo già fatto un errore esiziale nel '93, evitiamo di perdere come allora, sottovalutando quello che può succedere adesso nel mondo del centrodestra».
Sebbene al Partito democratico ognuno parli con il suo linguaggio la preoccupazione per quello che può avvenire nell'altro campo c'è. E c'era anche prima del risultato dei ballottaggi, peraltro ampiamente scontato. Lo dimostra la «velina» che ogni giorno parte dall'ufficio stampa del Pd, la cosiddetta «Nota del mattino», che è destinata ai circoli sparsi sul territorio. Quella di ieri, per esempio, puntava l'indice sui tentativi «dietro i quali si nasconde il ritorno del centrodestra». E ammoniva: «Mentre si agita il bastone dell'antipolitica e si usano parole di fuoco, mentre la Lega Nord si dibatte in una crisi devastante, si prepara la "discesa in campo" del campione della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo, pronto a offrire un volto moderato alla rappresentanza della destra».
Insomma, la preoccupazione è comune. Ma ognuno, nel Partito democratico, indica soluzioni diverse tra di loro, se non opposte, benché tutti abbiano capito che restare fermi sarebbe la fine. «Bisogna spingere sull'acceleratore dell'innovazione», è il convincimento di Walter Veltroni. «Dobbiamo rinnovare e rinnovarci», sottolinea Beppe Fioroni. Renzi non ha dubbi al riguardo e torna a chiedere a Bersani di indire le primarie in autunno. Di questo tema parla anche Letta, pure per lui questo è un utile strumento per coinvolgere l'elettorato e combattere le tentazioni astensioniste. Bersani invece frena e sembra non voler più sentire «questa giaculatoria delle primarie». Ma l'ascolterà ancora. Su questo non c'è dubbio. Renzi ha preparato per giugno un mega convegno con mille amministratori del Partito democratico. Lì verranno chieste di nuovo, e a gran voce, le primarie. Da lì partirà un movimento che tenterà di scuotere il «partito romano». E lì difficilmente il sindaco di Firenze potrà sottrarsi all'inevitabile, candidandosi alla corsa per la premiership del centrosinistra. Potrà il Pd fare finta di niente quando saranno i suoi amministratori, e non più il solo primo cittadino del capoluogo toscano, a chiedere primarie vere? Difficile. Tanto più che quello strumento è caldeggiato anche da altri esponenti del partito. Da Debora Serracchiani, per esempio, che è una delle poche ad ammettere senza peli sulla lingua: «Non nascondiamo la testa sotto la sabbia: il risultato di Parma offusca ogni altra vittoria del Pd».
Non bisogna però pensare che Bersani abbia in mente di restare fermo. Il segretario è convinto che adesso il Pd debba «aprire un confronto» non solo con i possibili partner politici, ma anche «con intellettuali, economisti, organizzazioni civiche». Insomma il leader punta a coinvolgere altri soggetti. A Largo del Nazareno c'è chi giura che si stia vagliando l'idea di andare alle elezioni alleandosi con un listone civico nazionale. E in quei corridoi si sussurra il nome di uno dei possibili candidati di questa formazione: Roberto Saviano.

Repubblica 22.5.12
La strategia del segretario democratico per frenare l’avanzata dei grillini e intercettare il voto in uscita dal centrodestra
 Il fantasma del ’94 spaventa Pierluigi "Se stiamo fermi, verremo travolti"
I democratici temono che Berlusconi faccia saltare il banco sfiduciando Monti
Una parte del Pd ha paura che l’alleanza con dipiestristi e Sel non sia sufficiente
di Goffredo De Marchis


ROMA - L´immagine che gira nella sede del Partito democratico è quella della barca che resta a galla (il Pd), di un´altra che affonda (Pdl e Lega) e di un mare molto agitato che preoccupa anche i vincitori. È l´immagine di uno spavento più che di una vittoria. «Devo sottolineare il nostro successo. Perché è vero e perché il risultato di Parma viene usato dalla tv e dai giornali per nascondere i nostri numeri. Questo è inaccettabile, la mia reazione era sacrosanta. Ma se restiamo fermi non andiamo lontani». Sono le riflessioni di Pier Luigi Bersani dopo la breve soddisfazione per i tabulati. «Siamo noi l´unica alternativa, ma abbiamo un più di responsabilità. La frammentazione la vedo anch´io». Bisogna rompere il muro tra guelfi e ghibellini, parlare anche al popolo del centrodestra in rotta, offrire un progetto al Paese. E va fatto di corsa. Nel Pd il nuovo grande timore è che Berlusconi faccia saltare il banco e stacchi la spina al governo Monti. Spingendo il partito verso l´alleanza con Idv e Sel, un centrosinistra classico sul modello del ´94, senza allargamenti di campo.
C´è una larga fetta del gruppo dirigente che guarda le percentuali e non sorride affatto. Va da Walter Veltroni a Enrico Letta, da Francesco Boccia a Paolo Gentiloni. Stavolta l´analisi critica non nasce dalla voglia di mettere in discussione la leadership o dalla tentazione di spaccare il partito. Nessuno invoca le primarie o un cambio di linea. Con l´eccezione di Matteo Renzi, l´offensiva contro il segretario sembra oggi l´ultimo dei problemi. I risultati delle comunali disegnano alcuni aspetti preoccupanti, questo è il punto. Il centrosinistra vince ai ballottaggi dove si scontra con il centrodestra «distrutto, liquefatto». Ossia un non avversario. Perde invece quando affronta Grillo come a Parma, le liste civiche come a Belluno, o i centristi come a Cuneo. Nelle grandi città, Genova e Palermo, vincono candidati di quell´area ma che si sono presentati in opposizione o al Pd o alla vecchia amministrazione guidata dal Pd. L´astensionismo record e il crollo del Pdl quindi viene raccolto dal Movimento 5 stelle o da sindaci anti-sistema. In misura molto minore dal Partito democratico. Ecco l´analisi che allarma Largo del Nazareno in vista del 2013.
In questo senso Grillo è la punta dell´iceberg, il fantasma che agita i sonni di Bersani. Ma dietro di lui si nasconde il pericolo di una novità che spazzi via tutto l´esistente. «Il vento dell´anti-politica soffia fortissimo», dice Boccia. Lo può raccogliere il comico, oppure qualcun altro. Renzi ricorda: «Non abbiamo stravinto, attenti a non commettere lo stesso errore del ´94». Cioè considerare finito il blocco moderato e perdere con il Cavaliere di Arcore. L´antidoto suggerito dal sindaco di Firenze è sempre uguale: «O il Pd si arrocca o fa le primarie a ottobre». È la voce di chi vuole sostituire Bersani. Ma al netto dell´attacco al leader, è una voce che si alza anche altrove. Raffaele Donini, segretario provinciale di Bologna, se l´è vista brutta a Budrio prima di tirare un sospiro di sollievo. La paura ce l´ha ancora addosso. «Abbiamo schivato l´uragano. Ma adesso o si cambia o si muore». Gentiloni rilancia la strategia di una mutazione profonda: «Questa vittoria indubbia ci deve servire per cambiare, non per resistere». Visti i risultati del Terzo polo e dell´Udc salta anche lo schema dell´alleanza con i partiti moderati. Bersani lo sa. Sa che serve un´apertura profonda delle liste elettorali alla società civile, una risposta di governo alle domande dei grillini alcune ineluttabili. «Abbiamo stravinto. A Monza e Como non avevamo mai governato. Ma non è un trionfo», insiste Boccia. Debora Serracchiani mette il dito nella piaga: «Il risultato di Parma offusca qualsiasi altra vittoria». È proprio l´umore che Bersani vuole arginare perché il Pd ottiene «un successo nazionale , che va dal Nord al Sud, omogeneo». In parole povere, una base solida per l´alternativa. Che però è ancora da costruire.

La Stampa 22.5.12
Il timore di Bersani “Ma gli altri partiti non ci sono più”
Il rischio: soli nel mirino dell’antipolitica
di Carlo Bertini


ROMA In pubblico Pierluigi Bersani rivendica che «il Pd ha vinto senza se e senza ma», non vuole sentir storie e non accetta che questo risultato sia offuscato dalla «non vittoria» di Parma. In privato, mentre scorre le agenzie con le ultime buone nuove dal fronte, il suo volto non è però quello di un leader che si prepara a brindare con le bollicine. E se in mezzo a tanti fattori di tensione se ne deve cercare uno che fa premio su tutti gli altri, forse più di Parma quello è lo sgretolamento generale del Pdl. Che mette il Pd nella scomoda posizione di restare l’unico bersaglio visibile per l’antipolitica montante, con tutti i rischi che ciò può comportare. «Il dato di Monza ragiona Bersani - è quello che mi ha impressionato di più: speravo di vincere, ma prendere quasi il 70% proprio lì, nell’unico posto dove lui (Berlusconi) ha fatto un comizio... ».
Ecco, stazionando nelle stanze della sede del Pd, registrando i discorsi fatti a caldo dal segretario con i suoi uomini, si capisce che a impensierire di più è ciò che può riservare il futuro prossimo, malgrado il presente regali una vittoria in 14 capoluoghi su 26, in 92 comuni su 177 «e la volta scorsa erano solo 45». L’analisi che si sente fare dalle parti di Bersani non è tanto un’autocritica su Parma, dove «tra un cambiamento soft e un cambiamento hard hanno scelto il secondo, perché il candidato del Pd era il migliore possibile», ma al secondo turno è cambiato schema di gioco e c’è stata una confluenza di interessi per architettare una sconfitta simbolica del Pd; quanto piuttosto l’amara constatazione che Grillo è l’unico a pescare voti a destra e sinistra; che non esistono più Pdl e Lega e si aprono spazi enormi nelle loro roccaforti, che il Pdl si nasconde dietro Grillo ma rischia di essere sostituito da quei movimenti lì. Insomma, il fatto che il centrosinistra vinca in comuni come Monza, Como, Rieti, Lucca o Taranto, certo fa piacere ma non entusiasma. Perché è vero che il Pd «resta l’unico partito in campo», e che batte quasi ovunque il centrodestra. Ma è vero pure che quando si trova di fronte altre realtà, per dirla con Fioroni, o fatica o perde: «Dove il Pd si scontra con i partiti della seconda repubblica vince, dove lo scontro è tra noi e Grillo prevale l’antipolitica di destra e di sinistra».
A far capire la preoccupazione che agita la plancia di comando del Pd è Enrico Letta al Tg3, quando in una delle tante dirette della giornata dice chiaro e tondo che «è sbagliato dare una lettura burocratica di un voto che mostra un impatto violento verso la politica». E che per dare una risposta a Parma e all’astensione, vanno fatte subito le riforme chieste dai cittadini, legge elettorale, finanziamento dei partiti, «altrimenti Parma sarà l’Italia», una sorta di avanguardia inquietante. Bersani la mette giù così: «Grillo non si riduce solo al sostegno del Pdl, c’è una domanda che dobbiamo saper interpretare. Ma noi siamo una forza capace di aggregare liste civiche e di reggere il confronto con le novità, non tutte chiare a dire il vero, con cui avremo un rapporto combattivo ma serio». E a lenire la ferita di Parma c’è il fatto che il Pd non ha pagato il sostegno al governo, altrimenti non si spiegherebbero questi risultati in giro per l’Italia. «Un impegno che noi vogliamo onorare - chiarisce Bersani in una situazione in cui la destra non ha la capacità di rispondere alle aspettative dei suoi elettori e dove tocca a noi interpretare un cambiamento credibile».
Ma quale saranno gli scenari di qui al 2013? «Sotto la pelle del Paese corrono tensioni che sarà difficile interpretare con politicismi salottieri e le politiche saranno un confronto aspro su temi cruciali. Basta qualunquismo, i partiti ci vogliono anche il Movimento 5 Stelle lo è: da qui in poi dovrà fare proposte, dire alla gente cosa si vuol fare che gli slogan servono a poco. Noi li sfidiamo a confrontarsi sul tema del lavoro e vogliamo vedere se la democrazia vuole riformarsi o se si vogliono cercare altre scorciatoie».
Poi basta dirigere le antenne su radio Pd e si registrano le dimissioni polemiche del segretario provinciale di Parma, gli slogan dei giovani come la Serracchiani, «rinnovarsi o morire», quelli dei più maturi come Marino che chiede «facce nuove» e niente deroghe al limite delle tre candidature. E a Renzi che chiede primarie e rinnovamento, Bersani replica gelido: «Se gli alleati vorranno, non ci sono problemi a fare le primarie e quanto al rinnovamento è vero che servono forze fresche ma farei presente che a Monza abbiamo vinto con una persona sperimentata che ha una sessantina d’anni e che il primo ministro francese è capogruppo dal ‘96... ».

l’Unità 22.5.12
Brindisi
Tra le ombre della verità
di Claudia Fusani


Fra tanti allarmi manca ancora una verità
Controlli a tappeto e perquisizioni. «Ma non c’è nessun sospettato»
Interrogati per ore due fratelli residenti nella zona vicino
la scuola. Sono stati poi rilasciati in serata: non c’entrano con l’ordigno

Se le indagini fossero il disegno di un puzzle, possiamo dire che i pezzi ci sono tutti ma che il lavoro da fare per trovare gli incastri giusti è ancora molto lungo. Complesso. E la figura narrata ancora molto sbiadita. Almeno tanto quanto quella dell’uomo
con il telecomando.
Che è stata restituita dalla memoria delle due telecamere del chiosco “Il panino dei desideri”. Che ieri polizia scientifica e Ris dei carabinieri sono andati a cercare anche tra i volti delle migliaia che hanno affollato la chiesa e la piazza di Mesagne durante i funerali di Melissa. Microtelecamere hanno filmato decine e decine di volti di uomini di mezza età somiglianti all’immagine diffusa ieri da tv e giornali. L’attentatore potrebbe anche essere andato ai funerali. Ipotesi da non scartare. Compatibile con il profilo psicologico di uno che arma un ordigno come quello esploso davanti alla scuola “Morvillo Falcone” e si ferma quel tanto che basta per vederne gli effetti.
In tre giorni i duecento investigatori specializzati di Ros dei carabinieri e Sco della polizia spediti a Brindisi da Roma hanno sentito a verbale 162 persone, numero fissato alle cinque di ieri pomeriggio e destinato a crescere ora dopo ora. Qualcuna di queste è stata, almeno per qualche ora, più sospettata di altre. Ma nessuna di queste risulta al momento indagata nonostante gli allarmi e le voci che si rincorrono da giorni. «Non abbiamo il fiato sul collo di nessuno» taglia corto un inquirente alla fine di un’altra giornata frenetica, piena di notizie farlocche. Che ha raffreddato gli entusiasmi e riporta le pedine di questa indagine alla casella di partenza. Anche nella forma visto che il fascicolo, sempre contro ignoti cioè senza nomi di indagati, torna sulla scrivania del procuratore antimadia di Lecce Cataldo Motta, lascia l’ufficio del procuratore di Brindisi Marco Dinapoli che però applica il sostituto antimafia Milto De Nozza. «Allo stato non è possibile escludere alcuna ipotesi» dice il ministro della Giustizia Paola Severino che racconta, dopo il vertice in prefettura, «di una magistratura unita che lavora di comune accordo». «Faremo il focus sulla criminalità nella tre province pugliesi più a rischio crimine organizzato, Brindisi, Lecce e Taranto» assicura il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri. Tutto. E nulla. Schema classico quando le indagini non stringono sul risultato sperato.
UN’IMMAGINE SBIADITA
L’elemento più forte al momento nelle mani degli investigatori è e resta l’immagine dell’attentatore ripresa dalle telecamere del Chiosco che dista venti metri dalla scuola. «Siamo stati fortunati a trovare quell’immagine» spiega un investigatore, «ma anche sfortunati perché quelle immagini, tre quelle utili, non sono di buona qualità. Dicono ma non a sufficienza per vedere in faccia chi ha premuto il telecomando che ha fatto esplodere le tre bombole del gas». La tecnologia è al lavoro. Ma anche lavorando di pixel e cercando di riempire i vuoti, «possiamo arrivare al 55 per cento dell’immagine». Adesso è al 50 per cento. Non c’è un volto. C’è una persona. Un uomo di circa 55 anni, alto più o meno un metro e 65, caratteri europei, giacca blu, camicia chiara, pantaloni chiari, scarpe sportive con suola chiara. Tiene la mano destra in tasca e usa solo la sinistra. Ha una menomazione? «Possibile, ma non ne siamo sicuri». Da ieri mattina quell’immagine è sulle locandine di tutti i giornali locali e sulle porte dei bar, la gente cammina lungo Corso Roma, si ferma, osserva, punta il dito e comincia a ricordare. «Ci arrivano decine di segnalazioni, chiamano il poliziotto o il carabiniere amico, stiamo valutando tutto».
In questo «tutto» c’è anche l’ipotesi sempre più forte che l’attentatore non abbia agito da solo. E ci sono due casi più clamorosi degli altri. Il primo riguarda un sottufficiale dell’Aeronautica, espulso anni fa per un’indagine sull’immigrazione clandestina, esperto di circuiti elettrici ed esplosivi, parente di persone che hanno un commercio di bombole del gas. «Non solo – racconta un investigatore quando siamo arrivati in casa sua aveva sul tavolo un ritaglio di giornale del 2004 relativo alla scuola “Morvillo Falcone”». L’uomo ha un alibi di ferro. Già verificato e riscontrato.
Il secondo caso ha tenuto in scacco matto l’informazione per tutta la giornata di ieri. Riguarda due fratelli, uno dei quali leggermente claudicante dalla parte destra del corpo e residente a 200 metri dalla scuola, entrambi somiglianti con l’uomo del telecomando. Li hanno portati in questura dove un gruppo di giovani ha anche assalito un’auto civetta pensando ci fopsse dentro l’attentatore. Lungo interrogatorio. Rilasciati con tante scuse in serata. Quando si diffonde un altro allarme. Dalla questura la solita risposta: «Accertamenti di routine». Tra le persone sentite, due studentesse della scuola hanno riconosciuto nelle immagini «un uomo che in settimana ha sostato a lungo nei giardini davanti alla scuola». Ci sono immagini. Ci sono impronte e Dna ricavate dai mozziconi di sigaretta lasciati intorno al chiosco. Elementi utili per fare un confronto quando ci sarà un sospettato. Certo, riflette un inquirente, «più il tempo passa e più si concretizza l’ipotesi che possa non essere di Brindisi». Gli investigatori sono al lavoro. Con un ausilio inedito. Il boss della Sacra Corona Raffaele Brandi lunedì ha avvicinato il caposcorta di un pm e gli ha promesso: «Se li troviamo ce li mangiamo».

l’Unità 22.5.12
L’orrore e gli errori
di Giovanni Pellegrino


Le stragi sono lo strumento più raffinato di terrore, quando colpiscono un obiettivo indiscriminato: la clientela di una banca, un’assemblea democratica riunita in una piazza, il microcosmo che si costituisce in un vagone ferroviario o nella carlinga di un aereo, la folla festosa, che in una stazione attende di partire per le ferie.
Ciascun membro della comunità si sente esposto al rischio di essere vittima di un prossimo attentato. Nell’esperienza italiana degli anni di piombo a ciò si aggiungeva la mancanza di rivendicazioni: le stragi restavano misteriose, perché tali si voleva che fossero, lasciandone inconoscibili i fini. L’evento brindisino ha avuto questi caratteri per la natura del suo obiettivo: un gruppo di studentesse, che scendeva da una autobus recandosi a scuola. Ciò ha determinato una ovvia reazione di dolore, sdegno ed angoscia, cui si aggiunge nell’immediatezza dell’evento la difficoltà di inquadrarlo in una sia pur generica matrice.
L’essere la scuola intitolata ad uno dei magistrati uccisi a Capaci e il suo situarsi in un contesto cittadino interessato nello stesso giorno da una manifestazione in favore della legalità spingono a prospettare una origine mafiosa dell’attentato, ipotesi, con cui stridono però la natura dell’ordigno e la difficoltà di individuare una credibile strategia della cosca, in cui l’attentato possa logicamente inserirsi.
È pur vero che nei primi anni novanta la mafia dei corleonesi si spinse a compiere stragi con obiettivi indiscriminati in una logica di innalzamento dello scontro militare con lo Stato. Ma i bersagli furono non a caso individuati in Roma, Milano e Firenze e cioè in luoghi lontani da quelli tradizionali dell’insediamento mafioso. Una cosca non può infatti avere credibile interesse ad attirare sul proprio territorio la pressione degli organi di polizia, per la banale ragione che ciò nuoce allo svolgimento dei suoi affari.
D’altro lato il luogo in cui è stato collocato l’ordigno, spinge ad escludere anche che si sia in presenza del non voluto effetto collaterale di un attentato di tipo estorsivo.
Difficile appare anche ipotizzare di essere in presenza di un atto attribuibile ad un terrorismo di matrice ideologica o politica. Si tratterebbe infatti di un atto di propaganda armata, che necessita di un target determinato come nel recente attentato genovese, che non a caso è stato credibilmente rivendicato. Attentati terroristici che colpiscono obiettivi indiscriminati, quale una scolaresca, hanno senso in fenomeni di terrorismo irredentista (Eta, Ira, Olp), che in Italia non hanno ragion d’essere. Più opportuno, almeno allo stato delle acquisizioni, risulta riflettere come nella contemporaneità scuole e scolaresche siano state spesso bersagli di azioni stragiste da parte di attentatori isolati o da gruppi estremamente esigui (ma non per questo meno pericolosi) di esaltati. I primi riscontri indagativi sembrerebbero confermare la validità della ipotesi, evidenziando come all’indubbia preparazione dimostrata nell’approntamento dell’ordigno si sia accompagnata la colossale imprudenza di un attentatore, che si espone all’occhio vigile di una pluralità di telecamere di sicurezza.
È prevedibile e auspicabile che tutto ciò sia confermato da una rapida individuazione dell’autore dell’attentato e di un possibile numero ridottissimo di complici. Se ciò non avvenisse, l’aver reso noto che si era in possesso di immagini dell’attentatore in azione si rivelerebbe una clamorosa imprudenza indagativa.
Certo è che il contrasto che si è acceso su questo punto tra Procura ordinaria e Procura distrettuale antimafia rende incomprensibili le ragioni, per cui ci si attardi nell’estendere la competenza della Procura nazionale antimafia e delle Dda ad una più ampia gamma di reati.

Corriere 22.5.12
Quel viso in un video che ci fa scoprire la normalità del Male
Quando il mostro è uno come noi
di Mauro Covacich

Pensavamo che immaginare fosse peggio che vedere. Pensavamo che il dato reale fosse sempre meno disturbante della fantasia. Ci sbagliavamo, ora possiamo dirlo. La cara vecchia fede illuminista deve fare i conti col più atroce dei disvelamenti: il Male ripreso live, in piano americano. Succede oggi, nella fantascienza inverata dell'anno 2012. La grande vetrina in cui ci muoviamo fornisce un volto alle ombre oscure del nostro immaginario e quello che vediamo fa ancora più paura. L'entità che ha fatto esplodere un gruppo di ragazzine dirette a scuola non è un mostro a tre teste, non ha le mani artigliate, non vola e non scompare negli abissi. È un uomo di corporatura media, vestito in modo distinto. Un mio vicino di casa, io stesso.
La ricostruzione del crimine, nell'era precedente ai circuiti di videosorveglianza, si fermava per forza all'incognita dell'omicida: dai bossoli si poteva risalire alla pistola, non certo alla faccia di chi la impugnava. Salvo flagranza di reato, la fisionomia dell'assassino era affidata alle coraggiose e spesso contraddittorie testimonianze della strada, nonché agli identikit dei disegnatori della Polizia. Le ombre alimentavano l'inquietudine, ma ora che la tecnologia può diradarle, è fortissima la tentazione di coprirci gli occhi. C'era qualcosa di fantasmatico nella figura dell'assassino, qualcosa che lo teneva in una dimensione aliena, tutto sommato rassicurante. L'aura mistificante del malvagio era anche garanzia della mia normalità. Chi agiva nel buio non apparteneva al mondo dei terrestri, non frequentava le nostre strade, non respirava con i nostri stessi organi. Solo un demone o un marziano poteva puntare il suo telecomando sul portone affollato di una scuola. Ora invece le cose si complicano, l'altro ci assomiglia moltissimo, è diventato uno di noi.
Nel primo fotogramma un uomo brizzolato compare dall'angolo dietro la saracinesca, la giacca scura, la camicia bianca senza cravatta, i pantaloni beige, le scarpe sportive da relax. Nella mano sinistra impugna un oggetto e lo maneggia come se dovesse cambiare canale. Nel secondo fotogramma si allontana trattenendo a stento la corsa, almeno a giudicare dall'ampio compasso della falcata. Ogni dettaglio lascia pensare a una vita da «integrato e/o allineato», non un sovversivo con obiettivi politici precisi, non un nemico dichiarato del Sistema, semmai un piccolo ingranaggio impazzito, il solerte funzionario della grande macchina universale che d'un tratto si sente usato — lo stesso profilo di Unabomber, l'uomo (o la donna?) che per anni ha seminato il panico nel Triveneto con piccole bombe fatte in casa. Se non sai con chi vendicarti, sparare nel mucchio diventa una soluzione accettabile.
Le immagini di Brindisi fanno venire in mente altri delitti immortalati di recente dai circuiti di sicurezza: l'omicidio nel bar del quartiere Sanità a Napoli, l'attentato al consigliere comunale Alberto Musy a Torino, la bomba della ‘ndrangheta alla procura di Reggio Calabria. Di quest'ultima ricordo bene il video: lo scooter che arriva nel cuore della notte, alla guida una donna, o comunque un pilota coi capelli lunghi e i tacchi a spillo. Il tizio dietro scende con il panetto di tritolo che gli ingombra le mani, accende la miccia prima ancora di abbandonare il pacco sulla porta, e poi l'esplosione davanti alla Procura deserta. Quindi è possibile? È possibile vedere in Male in azione sul set della realtà reale? È possibile vedere in faccia il mio prossimo mentre fa esplodere le sue, le nostre figlie? Sì, ora si può.
Agli inquirenti sembra strano che non si sia accorto della telecamera, ipotizzano una sfida, o addirittura la prova estrema di un disperato pronto al suicidio. Io credo alla distrazione, in parte dovuta a un gesto che farebbe perdere il controllo al più lucido degli assassini, in parte dovuta alla diffusione delle telecamere nel paesaggio urbano. Ecco un'altra novità. La videosorveglianza non è più appannaggio esclusivo di banche e centri commerciali, anche un chiosco delle bibite ha il suo bravo circuito di sicurezza. La città è una grande vetrina illuminata, l'uomo mascherato non va lontano. Eppure, ora che lo vediamo bene in faccia, vorremmo dimenticarlo in fretta.

il Fatto 22.5.12
Come la Prima, finisce nel sangue anche la Seconda repubblica
Le analogie col ’93: i partiti crollano e arrivano le bombe
di Gianni Barbacetto


Milano Quando un sistema crolla, grande è il caos sotto il cielo. C’è chi si mette il cuore in pace pensando che sia tutta colpa dei Maya e spiegando in un colpo solo terrorismo e terremoto, bombole esplosive e incidenti stradali. Tutto decifrato a suon di piramidi precolombiane, fattori astrali e serpenti piumati.
Dall’altra parte, c’è chi fa dell’ironia sul “grande complotto”, sulle “fantasticherie” e “dietrologie” degli “orfani della mafia” (titolo del Giornale di ieri, pagina 2). Ora, per avere degli orfani, la mafia dovrebbe essere morta: una buona notizia che evidentemente hanno in esclusiva solo quelli del Giornale. E allora, che cosa c’è da festeggiare, se anche si scoprisse che l’attentato di Brindisi lo ha realizzato un cane sciolto e non una cosca mafiosa? Resta grande il caos sotto il cielo. La crisi economica non è affatto risolta. La crescita non c’è. Uno su tre dei ragazzi italiani non ha alcuna prospettiva di lavoro. In questo contesto, il sistema politico si sfalda. Tramonta il berlusconismo, dopo un triste naufragio a base di barzellette e bunga-bunga. La Lega non riesce più neppure a riempire il “sacro pratone” di Pontida, dopo gli investimenti in Tanzania e le vacanze del Trota in Marocco. Le alternative (centrosinistra o terzi poli) non sanno occupare la scena abbandonata dai loro avversari, se è vero quello che sostengono alcuni sondaggi, per i quali addirittura il 96 per cento degli italiani non ha più alcuna fiducia nei partiti.
Dei tre ballottaggi cruciali (Genova, Parma, Palermo), non uno è stato vinto dal candidato previsto dalle segreterie romane. C’è il governo tecnico, d’accordo, che aveva goduto di una buona apertura di credito da parte dei cittadini. Ma ora anche il suo gradimento è in caduta libera. In questa situazione liquida, ognuno può cercare di costruirsi una sua ipotesi di transizione. Le nuove Brigate rosse lanciano a Milano, da un’aula del Palazzo di giustizia, proclami per tornare a costruire il partito comunista combattente. A Genova gli anarchici informali scavalcano i cugini e li anticipano: passano ai fatti, sparando alle gambe al manager dell’Ansaldo nucleare Roberto Adinolfi; poi diffondono un documento furbo e post-ideologico che fa proseliti nell’area.
QUANDO poi una strana bomba fatta in casa semina il terrore nel Paese, uccidendo una ragazza che stava per entrare a scuola e ferendo le sue compagne, non è poi così fuori dal mondo interrogarsi su che cosa stia succedendo in questi mesi in Italia. Saranno le indagini a spiegare chi è entrato in azione a Brindisi, se un pazzo o una mente raffinatissima, un solitario o un’organizzazione. Ma intanto è bene chiedersi chi si stia muovendo per orientare, ancora una volta, l’eterna transizione italiana. Chi non è senza memoria ricorda il biennio di fuoco 1992-’93. Anche allora la crisi economica prostrava il Paese. Anche allora la corruzione politica bruciava risorse e lasciava le istituzioni allo sbando. Anche allora tramontava un sistema dei partiti e si aprivano spazi per nuove avventure. Furono i boati delle bombe e il sangue delle stragi (a Palermo, a Firenze, a Milano, a Roma) a tenere a battesimo il nuovo sistema politico, nato nel fuoco di una trattativa tra apparati dello Stato, boss mafiosi, imprenditori intraprendenti. Cosa nostra ci mise il tritolo, ma altri soggetti tentarono di giocare le loro carte, lanciando segnali, intorbidando le acque, accettando ricatti, rivendicando presenze, in un complesso intreccio di sistemi criminali. E quella trattativa non è mai finita. Si può ridicolizzare tutto, sostenendo che è solo complottismo, paranoia dietro-logica. Ma se invece si allineano pazientemente i fatti e s’incrociano scelte politiche e azioni mafiose, allora ci si convince che la strategia della tensione è una costante della storia italiana, che si dispiega, poi s’inabissa, poi torna ancora a seminare paura e incertezza. Chi questa storia la conosce non ritiene affatto fuori luogo le dichiarazioni di Antonio Ingroia: “Siamo in una fase di passaggio politico e istituzionale molto delicato, con la formazione di nuovi partiti politici, di nuove maggioranze e coalizioni. Siccome, come sappiamo, la mafia non riesce a fare a meno di rapporti con la politica, come dire, si mette sul mercato... ”.
BISOGNA ascoltare i fatti. Sempre e comunque. Anche quando smentiscono le proprie teorie. Ma senza lettura d’insieme e memoria storica non si riesce a vedere le connessioni e si resta miopi davanti ai fatti. “Grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente”, diceva Mao Tsetung. Ora il caos è davvero tanto, in questa nuova svolta dell’interminabile transizione italiana. E la situazione è proprio eccellente, per chiunque, pazzo o raffinatissimo, solo o in compagnia, voglia seminare paure o tentare nuove avventure.

l’Unità 22.5.12
Il caso dei documenti riservati
Messaggio cristiano e trasparenza della Chiesa
di Domenico Rosati


L’EPISODIO DELLA PUBBLICAZIONE, IN UN LIBRO FORTEMENTE PUBBLICIZZATO, DI DOCUMENTI RISERVATI DI FONTE VATICANA E DELLE CONSEGUENTI REAZIONI DELLA SANTA SEDE SI PRESTA A CONSIDERAZIONI DI DIVERSA INDOLE CHE VANNO, secondo il punto d’osservazione, dal piano deontologico a quello penale investendo persino, data la natura del maggior soggetto coinvolto, la Santa Sede, la dimensione internazionale.
Inoltrarsi in una disputa tanto impegnativa può tuttavia risultare fuorviante e, malgrado ogni buona intenzione, alimentare una non desiderabile amplificazione del caso. Con in più il rischio di perdere di vista il nucleo del problema che resta quello del rapporto tra segreto (o riserbo) di Stato e circuito dell’informazione. Al segreto di Stato e non al riserbo ecclesiale ci si riferisce infatti quando si denuncia, come ha fatto anche il cardinale Bagnasco, il tentativo di «costruire colpi di scena con l’arma impropria di un’informazione “rubata” a sedi istituzionali altissime, che hanno status internazionale».
Ora, una regola non scritta ma ben frequentata nel mondo della comunicazione è che quanto maggiore è la corazza del segreto che si pone a presidio di non importa quale entità o potere, tanto più appetibile diventa la notizia che la... perfora, non importa se con l’ausilio di «corvi» o «gole profonde». Di più: da quando la libera stampa ha preso consistenza, si può dire che il suo ambito privilegiato di ricerca è costituito, dovunque, dagli arcana imperii, intesi di volta in volta o come la faccia oscura del potere o come la descrizione, da Trimalcione in qua, delle abitudini e frequentazioni meno virtuose dei ceti dirigenti.
Per la Santa Sede, come per ogni struttura statuale, presidiare le propria zona di rispetto era più facile in un regime limitato di circolazione dell’informazione, ma le difficoltà crescono nel tempo della comunicazione diffusa e della rete telematica. Grandi sono stati gli sforzi compiuti, specie dal Concilio in poi per realizzare un habitat di relativa trasparenza all’interno delle comunità cristiane e di conseguenza un sistema di relazioni meno ostiche col mondo contemporaneo. Era stato del resto Pio XII a dettare il tema fin dal 1955: «Occorre, aveva detto, formare un’opinione pubblica che, senza cercare lo scandalo, indichi con franchezza e coraggio le persone e le circostanze che non sono conformi alle giuste leggi ed istituzioni, o che nascondono slealmente ciò che è vero».
Va anche aggiunto che anche prima del Concilio c’era l’abitudine imitando più o meno degnamente santa Caterina da Siena di rivolgersi direttamente al Papa per sottoporgli questioni ritenute presuntivamente importanti per il bene della chiesa. E non sempre su tale corrispondenza veniva mantenuto il segreto. Ho memoria di una lettera (anni 50) dell’allora presidente della Confindustria Angelo Costa che segnalava il caso di preti bergamaschi che celebravano la Messa alla fabbrica «Dalmine» occupata dagli operai in lotta. E si chiedeva come inculcare nei lavoratori il sano rispetto dell’autorità se i preti erano i primi a dare il cattivo esempio.
Bisogna ammettere che il tema della trasparenza è stato svolto solo parzialmente e che più di una volta a richieste di chiarimento, ormai in sede storica, su vicende controverse, è stata opposta la consegna del silenzio anche quando il tempo trascorso avrebbe suggerito il contrario. Per cui l’auspicio non può che essere quello di una sempre maggiore apertura e disponibilità delle istanze ecclesiali verso l’opinione pubblica, al netto, beninteso dei comportamenti calunniosi e diffamatori che, come è noto, hanno già il loro giudice naturale.
C’è invece un punto che rischia di essere sopraffatto dai rumori della polemica e che invece merita di essere messo a fuoco nella prospettiva di una chiesa di popolo. Come mai, ci si può chiedere, fanno notizia fino alla speculazione fatti e circostanze della realtà ecclesiale che normalmente non hanno rilievo se riguardano il costume sociale diffuso? Si può rispondere in vari modi, ma uno non può essere escluso. Per quella chiesa di cui pure si denunciano incongruenze e malefatte, si adotta una unità di misura più esigente proprio perché in essa si scorge, o si intuisce (anche se lo si nega) un grande deposito di valori, una riserva etica che non si ravvisa altrove; e dunque ci si scandalizza per fatti che se riscontrati altrove non fanno battere ciglio. La domanda è: perché non sostare, in positivo, su questa constatazione, partendo da essa per aiutare, nel dialogo, la società a guardare davvero più alto e più lontano?

il Fatto 22.5.12
Sopire, troncare e denunciare
di Marco Lillo


Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo... si fa peggio”. Il Conte zio di manzoniana memoria, ha ispirato la Santa Sede nella sua reazione alla pubblicazione di documenti inediti da parte del Fatto Quotidiano e del libro Sua Santità di Gianluigi Nuzzi. Certe cose, spiegava il Conte zio al Padre provinciale, vanno seppellite ed è stato esattamente quello che la Santa Sede, sotto la guida del Segretario di Stato Tarcisio Bertone, ha deciso di fare con gli scandali documentati articolo dopo articolo, documento su documento, su queste pagine negli ultimi mesi.
Il mestiere del giornalista è evidentemente diverso da quello del cardinale e forse non si può pretendere che in Curia si osservino le regole di trasparenza e responsabilità che vigono nelle società democratiche. Eppure, la reazione delle gerarchie ecclesiastiche di fronte ai fatti gravi che siamo riusciti a documentare è davvero inadeguata.
LA RICETTA del Conte zio poteva forse andar bene ai tempi del Manzoni, ma non è più sostenibile nell’era della comunicazione globale. Proviamo a ricapitolare: sul Fatto Quotidiano abbiamo pubblicato per la prima volta i seguenti documenti: 1) la nota in tedesco sulle presunte rivelazioni dell’arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo, consegnata dal cardinale colombiano Dario Castrillon Hoyos al segretario del Papa (vedi Il Fatto del 10 febbraio 2012) nella quale veniva ipotizzato un complotto omicidiario ai danni di Ratzinger;
2) la lettera (vedi Il Fatto del 27 gennaio 2012) nella quale l’ex segretario del Governatorato, monsignor Carlo Maria Viganò, denunciava furti nelle ville pontificie coperti dal direttore dei Musei Vaticani, monsignor Paolo Nicolini. E poi fatture contraffatte all'Università Lateranense a conoscenza addirittura dell'arcivescovo Rino Fisichella; 3) la lettera di fuoco sulla lotta per la poltrona dell’Istituto Toniolo di Milano, nella quale il cardinale Dionigi Tettamanzi veniva sfrattato da Bertone con un ultimatum che sarebbe stato benedetto, a suo dire, dal Papa. Lettera seguita da una replica di fuoco al Papa di Tettamanzi;
4) la raccomandazione del capo di Comunione e Liberazione don Julian Carrón (vedi Il Fatto del 5 maggio 2012) a favore del cardinale ciellino Angelo Scola per sponsorizzare la sua nomina ad arcivescovo di Milano anche per la vicinanza al centro-destra. Lettera seguita da quella in cui Bertone garantisce la presenza del Papa al meeting di CL a Rimini;
5) le mail del cardinale Attilio Nicora, presidente dell’AIF, l’autorità anti-riciclaggio vaticana, nella quale si descriveva il dietrofront del Vaticano sulla legge anti-riciclaggio;
6) il memo concordato dal presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi con il ministro di allora, Giulio Tremonti, per attutire gli effetti sulle casse vaticane dell’offensiva europea per abolire le agevolazioni Ici (Il Fatto del 20 febbraio 2012) ;
7) la lettera dell’ex direttore dell’Avvenire Dino Boffo al presidente della Cei Angelo Bagnasco nella quale l’ex direttore dell’Avvenire minacciava di rivelare il ruolo svolto dal direttore dell’Osservatore Romano Gian Maria Vian nella pubblicazione degli articoli diffamatori sulla presunta omosessualità di Boffo da parte del Giornale di Feltri. Questi documenti sono riproposti con l’aggiunta di altre carte riservate nel libro di Gianluigi Nuzzi, la cui pubblicazione da parte di Chiarelettere, ha indotto la Santa Sede a emanare un comunicato nel quale si annuncia una denuncia penale: “La nuova pubblicazione di documenti della Santa Sede e di documenti privati del Santo Padre non si presenta più come una discutibile e obiettivamente diffamatoria iniziativa giornalistica, ma assume chiaramente i caratteri di un atto criminoso”.
IL VATICANO nel suo comunicato non esclude persino il ricorso alla “cooperazione internazionale”. A prima vista l’inchiesta della gendarmeria vaticana e forse, mediante la “cooperazione internazionale” anche della Polizia italiana per perseguire i giornalisti e le loro fonti potrebbe sembrare eccessiva. In realtà è la necessaria e logica conseguenza della scelta della Santa Sede di lasciare le cose come stanno.
Quando Dino Boffo accusa Gian Maria Vian di avere passato al Giornale la velina falsa contro di lui, quando il segretario del Governatorato accusa il direttore dei Musei Vaticani di coprire i ladri, quando il presidente del Toniolo sospetta il segretario di Stato di millantare il mandato del Papa, non si può far finta di nulla. Oggi gli accusatori (Viganò e Boffo) dopo avere scritto cose gravissime su Vian e monsignor Nicolini, sono stati promossi rispettivamente nunzio a New York e direttore della tv del Vaticano. Gli accusati sono al loro posto, come l’arcivescovo Romeo. Per il Vaticano, semplicemente, non è successo nulla, nonostante tutti i segreti siano stati svelati.
Ecco perché la denuncia è in fondo la logica conseguenza della politica dello struzzo. Il Conte zio poteva permettersi di suggerire: “Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire”. Ma allora nessuno pubblicava le lettere del padre provinciale. Ora che invece tutto è uscito alla luce del sole, grazie anche al Fatto, il Vaticano, è stato costretto ad aggiornare la strategia: “Sopire troncare e denunciare”.

La Stampa 22.5.12
Padre Amorth: “Orlandi, fu un delitto a sfondo sessuale”
Il capo degli escorcisti: “Attirata in una trappola”
di Giacomo Galeazzi


«Coinvolto anche personale di un’ambasciata straniera presso la Santa Sede»
«Anche un archivista del Vaticano parla di un reclutatore di ragazze»

CITTÀ DEL VATICANO «E’ un delitto a sfondo sessuale», sostiene il capo mondiale degli esorcisti, padre Gabriele Amorth. L’anziano sacerdote, molto stimato da Benedetto XVI, rivela a La Stampa una pista interna per la scomparsa nel 1983 della cittadina vaticana davanti alla chiesa di Sant’Apollinare, da poco riferita riservatamente ai familiari della ragazza.
«Come dichiarato anche da monsignor Simeone Duca, archivista vaticano, venivano organizzati festini nei quali era coinvolto come “reclutatore di ragazze” anche un gendarme della Santa Sede. Ritengo che Emanuela sia finita vittima di quel giro - spiega padre Amorth - Non ho mai creduto alla pista internazionale, ho motivo di credere che si sia trattato di un caso di sfruttamento sessuale con conseguente omicidio poco dopo la scomparsa e occultamento del cadavere». E ancora: «Nel giro era coinvolto anche personale diplomatico di un’ambasciata straniera presso la Santa Sede».
Una testimonianza che padre Amorth ha reso pubblica ora nel suo libro «L’ultimo esorcista» e che presenta tratti in comune con la lettera anonima arrivata alla madre di Emanuela Orlandi nella quale si riferisce di una trappola nella quale fu attirata la quindicenne nella sacrestia di Sant’Apollinare. Monsignor Pietro Vergari, parroco della basilica negli Anni 80, continua a protestare la sua estraneità ai fatti («Sono tranquillo, non ho nulla da nascondere»), ma è considerato dagli inquirenti un elemento centrale nella sparizione. «Nell’ispezione nella cripta non hanno trovatonulla se non appunto il corpo di De Pedis - afferma don Vergari -. Tutte quelle ossa ritrovate non sono altro che ossa antichissime, risalenti a secoli fa quando anche i laici venivano sepolti nelle chiese. Ora dicono che faranno indagini approfondite ma non vedo proprio che cosa possano trovare».
Il prelato è finito nel registro degli indagati della procura di Roma, per concorso nel sequestro della ragazza, in concomitanza di una perquisizione presso il suo domicilio nel corso della quale è stato sequestrato un computer. Vergari, già sentito nel 2009 come testimone a proposito del seppellimento del capo della banda della Magliana, De Pedis nella cripta di Sant’Apollinare, sarà presto convocato in procura per essere interrogato, questa volta nella veste di indagato, dai pm Capaldo Maisto. Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ricorda che suor Dolores, la direttrice della scuola di musica frequentata dalla sorella nel palazzo di Sant’Apollinare, raccomandava alle studentesse di stare alla larga dal rettore della basilica. Nell’inchiesta sulla scomparsa della figlia di un commesso pontificio, un gendarme vaticano è stato sentito in procura come persona informata dei fatti, mentre su una decina di ossa ritrovate a Sant’Apollinare sarà effettuato il test del Dna per compararlo con quelli della Orlandi e di Mirella Gregori, l’altra ragazza scomparsa 29 anni fa a Roma. I resti saranno analizzati a Milano dagli esperti del Labanof, il Laboratorio di antropologia e odontologia forense. Il coinvolgimento di don Vergari apre scenari inquietanti. Osserva Pietro Orlandi: «Emanuela scomparve alla sette di sera. Mai sarebbe salita su una macchina con un sconosciuto. Se l’avessero presa con la forza, a quell’ora in pieno centro qualcuno se ne sarebbe accorto. L’ipotesi della basilica ha un senso. Se a Emanuela qualcuno avesse detto di seguirlo a Sant’Apollinare non si sarebbe insospettita. Un luogo sacro non dovrebbe spaventare nessuno». Dunque potrebbe essere caduta in un tranello teso da qualcuno che era in rapporti con l’allora rettore della basilica. «Che a Sant’Apollinare ci fossero giri strani e gravitasse un pezzo di malavita romana, non solo De Pedis con cui don Vergari era in confidenza, è purtroppo qualcosa di risaputo», precisa Pietro Orlandi: «Le amiche della scuola di musica di Emanuela mi dissero che suor Dolores, la direttrice, non le faceva andare a messa o cantare nel coro a Sant’Apollinare ma preferiva che andassero in altre chiese proprio perché diffidava, aveva una brutta opinione di monsignor Vergari».
Per il momento gli indagati restano cinque: don Vergari, Angelo Cassani, Gianfranco Cerboni, Sergio Virtù e Sabrina Minardi.

La Stampa 22.5.12
Il teologo stimato dal Papa
di Gia. Gal.


Una vita contro Satana. Don Gabriele Amorth, sacerdote paolino, è il fondatore e il presidente onorario dell’Associazione internazionale degli esorcisti. All’età di 86 anni esegue ancora dagli 8 ai 10 esorcismi al giorno. E’ il più autorevole esorcista a livello mondiale: prima di diventare sacerdote fece la guerra, fu partigiano e prese una laurea in giurisprudenza. Fine teologo mariano, è stato per molti anni direttore della rivista «Madre di Dio» poi il cardinale vicario di Roma Ugo Poletti gli affidò l'incarico ufficiale di esorcista nella diocesi del Papa. Molto stimato da Benedetto XVI.

l’Unità 22.5.12
Etica e libertà
Il perdono è rivoluzionario
Un concetto spiazzante, una sfida per il pensiero
È un «dono» difficile da interpretare: si perdona la malvagità o l’incoscienza? L’azione o l’agente? Per ricostruire, ricominciare, comprendere o per dimenticare?
di Laura Boella
, Docente di Filosofia morale alla Statale di Milano

IL PERDONO RAPPRESENTA UNO DEI DILEMMI PIÙ LACERANTI DELL’ETICA CONTEMPORANEA, MA È ANCHE UNA DELLE FIGURE MORALI CHE SVOLGONO UN RUOLO, A VOLTE CONTRADDITTORIO, MOLTO FORTE NELLA SOCIETÀ E NELLA POLITICA. Il perdono oggi non viene evocato solo in relazione a offese, torti, malvagità individuali e private, ma spesso in relazione al male commesso in nome di un’idea di civiltà, di un’ideologia totalitaria, di una fede religiosa, di un progetto politico, e anche in sede legale e processuale, ogni volta che la trasgressione della norma ha un effetto destabilizzante sulla convivenza. Sappiamo quanto le azioni umane e i loro “errori” mettano direttamente in questione la storia, la politica, la sopravvivenza e l’identità di individui e gruppi, la lacerazione e la ricomposizione del legame sociale.
Non bisogna poi dimenticare che la questione del perdono si è posta con particolare forza dopo la Shoah, collegandosi strettamente all’ imprescrittibilità del male. Dopo gli eventi che hanno segnato la storia del ‘900 non è pertanto più possibile pensare il perdono senza il concetto di imperdonabile.
L’autentico significato del perdono deve in effetti districarsi dalle implicazioni molteplici e a tratti contraddittorie di una nozione drammaticamente intrappolata nelle maglie del rancore e dell’oblio, della brama di vendetta e della facile liquidazione o della rinuncia ai propri diritti. Una nozione che, oltretutto, appare difficilmente isolabile da altri nuclei tematici, legati a concetti di ordine spirituale e religioso, quali l’espiazione, la redenzione, la remissione dei peccati, l’assoluzione, la pietà, l’amore del prossimo. Per fare qualche esempio: si perdona l’incoscienza (non sapeva quello che faceva) o la malvagità? L’azione o l’agente? Per ricostruire, ricominciare, comprendere, convertire o semplicemente per dimenticare? Il perdono presuppone una relazione con un altro oppure è l’affermazione della propria superiorità? Chi viene perdonato può anche non sentirsi destinatario di un atto di amore, bensì oggetto di invadenza, di intrusione nella sua coscienza, nel suo mondo affettivo. Nell’idea di perdono può essere infatti contenuto un giudizio di valore: colui che perdona si colloca dalla parte del bene, quindi al di sopra di colui che viene perdonato. Da questo punto di vista, il perdono può apparire un atto unilaterale, una concessione che annulla ogni scambio e comunicazione tra due soggetti. A complicare le cose contribuisce l’urgenza dell’appello che il male morale continua a rivolgere all’azione: cosa fare per impedire altre sofferenze causate dalla malvagità? Qual è l’imperativo prioritario: la carità cristiana o la resistenza contro il male? Porgere l’altra guancia o ristabilire la giustizia violata?
Il perdono è sicuramente un concetto spiazzante, una sfida per il pensiero, il cui autentico significato deve essere riappreso. Ciò significa riprendere l’eredità della tradizione ebraico-cristiana, che ne costituisce la fonte, e riscoprirlo in condizioni nuove, quelle del mondo attuale che ne ha un gran bisogno.
Non è certo un caso che i (rari) pensatori che nel ‘900 si sono occupati del perdono siano quelli a cui tutti riconoscono una spiccata sensibilità per i problemi del nostro tempo, e insieme il coraggio di affrontare le zone più rischiose dell’etica, senza cedere a nessuna scorciatoia moralistica. Penso in particolare a Hannah Arendt, a Vladimir Jankélévitch , a Emanuel Lévinas, a Paul Ricoeur, a Jacques Derrida. La loro vitale inquietudine ha accompagnato la consapevolezza che il perdono sia un tessuto fittissimo di conflitti e di paradossi che chiama radicalmente in causa la coscienza di ognuno e ne sconvolge le convinzioni più solide.
Fin dalla sua etimologia il perdono è attraversato dal contrasto tra la logica della pena e della riparazione propria della giustizia, e la logica della gratuità, dell’amore. Perdonare rimanda alla “rinuncia” (a un diritto o a un credito), allo scusare, e al tempo stesso si associa al dono un dono in eccesso, il dono d’amore disinteressato delle chansons dei troubadours (ti amerò en perdos, in perdita, gratuitamente).
L’autentico significato del perdono può essere oggi affermato considerandolo una potenzialità dell’azione: esso rappresenta infatti l’altra faccia del rischio dell’agire, che salva la libertà umana in nome di una nuova forma di responsabilità. È impossibile revocare la storia, fare in modo che le azioni non siano accadute, ma si può continuare ad agire andando in un’altra direzione. L’essenza del perdono consiste nel restituire la capacità di agire a un soggetto che resterebbe inchiodato all’azione compiuta, se non gli si offrisse la possibilità di diventare qualcosa di diverso da ciò che ha fatto.
Il perdono è dunque un dono, un dono di libertà, il dono del potere di ricominciare e insieme il tentativo di ricostruzione di una relazione interrotta in seguito a un’offesa. Come se si richiamasse in vita la possibilità di una libertà autenticamente umana, anche per chi ha sbagliato. È innegabile che si tratti di passaggi difficili tra agire, sentire e pensare, ma dotati di una grande forza etica: quella di assumersi il rischio, o meglio, di immaginare un futuro diverso da quello imposto dal passato.

il Fatto 22.5.12
La vita dopo le bombe
di Gian Carlo Caselli


Vent’anni fa le stragi di Capaci e via d’Amelio hanno radicalmente cambiato la mia vita. La ferocia spietata dei corleonesi e dei loro complici voleva cancellare libertà e diritti, aprendo sotto i piedi dell’Italia l’abisso spaventoso di uno Stato-mafia o narco-Stato. Mi sembrò doveroso mettermi a disposizione e chiedere di essere trasferito da Torino a Palermo, nella convinzione che proprio da Palermo doveva ripartire la strada che avrebbe consentito alla nostra democrazia di resistere. Cominciò così la mia esperienza di capo della Procura di quella città. Una fatica, nel ricordo di Falcone e Borsellino, condivisa per quasi sette anni con un’infinità di persone coraggiose.
UNA FATICA supportata all’inizio dalla concordia granitica sugli obiettivi antimafia che cementò l’intiero nostro Paese. Resa poi più gravosa dal progressivo allentamento di tale concordia, col riaffiorare di antiche posizioni (che già avevano intralciato il lavoro di Falcone e Borsellino) preoccupate di bloccare l’applicazione diffusa e intransigente delle regole anche nei confronti degli imputati “eccellenti” accusati di collusione con la mafia. Proprio l’eredità di Falcone e Borsellino imponeva di non arrendersi nonostante l’infoltirsi delle schiere degli oppositori dichiarati e dei finti neutrali. E se oggi possiamo ancora discutere di contrasto alla mafia (senza essere stati irreversibilmente travolti dalle stragi) è appunto merito della “resistenza” che ha caratterizzato l’azione dei pezzi più responsabili dello Stato italiano.
Palermo, in questi sette anni, mi è entrata nell’animo. Ma già prima si era impressa dentro di me. Ho fatto parte del Csm (1986-1990) che – chiamato a nominare il successore di Nino Caponnetto – scelse di umiliare Falcone consentendo lo smantellamento del “pool”.
Ricordo bene la protervia istituzionale e l’insopportabile arroganza con cui la maggioranza del Csm innalzò una frontiera di incomprensione contro le buone ragioni di Falcone e del “pool” di Palermo. Dentro di me (che in quel Csm ero minoranza) si frantumò qualcosa, per la constatazione – mai come in quel caso evidente – dell’influenza di un mondo limaccioso popolato di personaggi che temono la rottura di antichi equilibri attraverso l’intraprendenza di magistrati indipendenti. Fu così che Palermo, già allora, acquistò nei miei pensieri un posto preminente.
QUANDO POI, dopo le stragi del 1992, presi possesso del nuovo incarico a Palermo, nel corso di un interrogatorio del 23 ottobre 1993 – cominciato alle ore 01.41 e concluso alle 04.10 – toccò a me raccogliere la prima confessione di uno degli autori materiali della strage di Capaci. La prima in assoluto, decisiva per ricostruire in ogni dettaglio le responsabilità degli esecutori di quel gravissimo attentato. Provai un insieme di sensazioni che nonostante i tanti anni allora già trascorsi in magistratura non avevo mai avvertito. Da un lato l’orrore e l’emozione incontenibile per la rievocazione di un fatto tanto tragico e coinvolgente; dall’altro la soddisfazione professionale di essere il primo a raccogliere la confessione che ricostruiva con precisione un episodio così influente sulla storia del Paese.
Un “risarcimento” alle vittime della strage, immensamente sproporzionato rispetto al danno causato dall’“attentatuni”, e tuttavia assai significativo. Anche se poco dopo avvelenato dalla rappresaglia nazista dei mafiosi contro Giuseppe Di Matteo, il figlio tredicenne di colui – Santino Di Matteo – che aveva chiesto di parlare proprio con il procuratore di Palermo per rivelargli un segreto (l’attacco al cuore dello Stato del 23 maggio 1992) che Cosa Nostra avrebbe voluto non fosse mai svelato.

Repubblica 22.5.12
Netanyahu ha spiazzato tutti: governo di unità nazionale e rimpasto
Ora è più forte e ha l’appoggio di chi vuole la guerra agli ayatollah
Nella stanza di "Re Bibi" dove Israele studia l´attacco
A Gerusalemme nel suo studio privato solo poche foto, un proiettore e una cartina che al centro ha proprio l’Iran
di Fabio Scuto


Nel cuore di Gerusalemme, a due passi dalla Custodia di Terrasanta, c´è la residenza del primo ministro d´Israele. Lo studio privato di Benjamin Netanyahu è al primo piano. È modestamente arredato, sulle pareti dipinti di artisti israeliani contemporanei e una copia della dichiarazione di indipendenza di Israele del 1948. È un ambiente piccolo - ci sta a malapena un lungo tavolo di legno, alcune sedie in pelle marrone - appoggiato da un lato il vecchio schermo di un proiettore. Il Sancta Sanctorum d´Israele è qui, dove una delle decisioni più epocali del decennio, una delle azioni militari più audaci, e forse la più fatidica nella Storia dello Stato di Israele, potrebbe presto essere presa: un attacco israeliano contro gli impianti nucleari dell´Iran. Il tempo si sta rapidamente esaurendo. Anzi sostiene qualcuno, la decisione che cambierà completamente il volto del Medio Oriente, è già stata presa. Ma lo scopriremo solo mentre gli eventi saranno già in corso.
L´Iran continua ad arricchire l´uranio a dispetto delle pressioni internazionali, dicendo che serve al suo programma nucleare civile. L´Occidente è convinto che il vero obiettivo di Teheran sia quello di costruire una bomba atomica, cosa che lo Stato ebraico non accetterà mai perché i suoi leader considerano un Iran dotato di armi nucleari, una minaccia alla sua stessa esistenza. Il ruolo centrale che l´Iran gioca nelle decisioni di Netanyahu si riflette bene nella grande mappa del Medio Oriente che campeggia su una parete del suo ufficio. Israele si trova su un bordo vicino alla cornice, l´Iran ha il posto d´onore al centro.
Gli esperti e l´intelligence israeliana dicono che entro pochi mesi, gran parte del programma nucleare iraniano sarà stato spostato in profondità sotto la montagna Fordo, rendendo così un attacco molto più difficile. Per quanto il termine per una decisione si avvicini, le dichiarazioni pubbliche di alti funzionari e militari sono cambiate in queste settimane. Dopo gli avvertimenti pubblici, le indiscrezioni su un possibile attacco all´inizio di quest´anno, con "l´orologio dell´Apocalisse" fermo a soli sei minuti dall´ora X, adesso il loro linguaggio si è fatto più cauto, ermetico. E gli indizi sulle vere intenzioni di Israele sono più difficili da discernere. «Il governo ha messo il silenziatore», dicono al Centro di Studi Strategici di Herziliya, «nessuno dice più nulla pubblicamente. E questo dice già molto».
La scorsa settimana Netanyahu ha tirato fuori dal cilindro una spettacolare sorpresa politica, la creazione di una coalizione di unità nazionale e le elezioni che tutti credevano ormai inevitabili sono saltate. "King Bibi" l´ha incoronato nella sua copertina il settimanale americano Time, l´uomo che ha governato Israele più a lungo di David Ben Gurion. Certo la mossa piuttosto spregiudicata ha provocato molte speculazioni sul fatto che Netanyahu volesse subito una maggioranza forte per condurre una campagna militare contro l´Iran senza aspettare il 2013. L´inclusione nel Gabinetto di Guerra dell´ex generale ed ex ministro della Difesa Shaul Mofaz ha modificato gli equilibri fra sostenitori e oppositori dell´attacco.
Dietro il linguaggio evasivo dei politici, i fatti di base sono chiari. "Time is running out", il tempo sta scadendo e le opzioni per lo Stato ebraico si stanno restringendo. Il programma nucleare iraniano verrà presto interrato ad una profondità sotterranea da rendere quasi impossibile un attacco. «È un silenzio inquietante», spiega Nahum Barnea, columnist di Yedioth Ahronoth. «Qualunque cosa accada, qualunque cosa sia stata decisa, noi non scopriremo nulla finché non succederà». In Israele ci sono anche coloro che vedono nell´atteggiamento verso l´Iran un "bluff", destinato a pressare le potenze mondiali per infliggere sanzioni più severe a Teheran ed evitare la guerra. Alcuni esperti militari e dell´intelligence, poi, hanno espresso dubbi sui danni che Israele sarebbe in grado di infliggere agli impianti iraniani. Il rischio di un fallimento è grande.
Forse il maggiore indizio sulle reali intenzioni di Netanyahu si trova proprio nel suo ufficio privato. Su una mensola dietro la scrivania, insieme con le immagini della moglie Sara e dei figli, di suo padre Benzion - storico del sionismo morto lo scorso mese a 102 anni - , c´è una fotografia in bianco e nero. Ritrae Winston Churchill, di cui Netanyahu è da sempre un grande ammiratore. Il premier britannico, che vide i pericoli posti dalla Germania nazista in un momento in cui molti altri politici sostenevano invece la trattativa per placare Hitler. I paralleli con l´Iran dei nostri giorni sono evidenti per Netanyahu e il premier è esplicito sui pericoli per l´Occidente e Israele di una visione dell´Islam militante: come dice lui, la sua potenza convulsa, il suo culto della morte e il suo zelo ideologico. Ma Churchill non riuscì a evitare l´ascesa di Hitler, la Guerra Mondiale o l´Olocausto. E "King Bibi" non vuole passare alla Storia come l´uomo che ha perso la sua occasione per fermare la bomba degli ayatollah.

Repubblica 22.5.12
Quello Schindler italiano che sfidò la dittatura di Pinochet
di Stefano Malatesta


La vicenda è stata a lungo segreta: ma a Santiago è considerato un modello da seguire
L’edificio della rappresentanza si trasformò in un ostello per disperati

I diplomatici non devono dimostrare di avere coraggio. Non è questo il loro compito. Ma può succedere in situazioni particolari che un diplomatico sia costretto a prendere dei rischi superiori a quelli normalmente dovuti. Nel 1974, a un anno dal golpe, il Cile sembrava sempre di più sprofondare in un buco nero di terrore e ferocia. A Santiago le ambasciate erano affollate di dissidenti, e la più affollata era quella italiana con una media di 250 cileni che aspettavano il visto di espatrio. Le vaste sale dell´edificio erano state liberate di tutte le suppellettili, mobili e quadri, era rimasto solo un enorme busto del Duce in pietra nera che veniva accarezzato dai rivoluzionari miristi. Si viveva nella promiscuità e nella sporcizia, con i bambini sdraiati per terra sui lettini dati dalla Croce Rossa. L´atmosfera all´interno era insopportabile e le donne dicevano che tra le torture dei militari fuori e lo spasimo dell´attesa per entrare in bagno dentro non sapevano cosa scegliere. I comunisti e i miristi si erano accordati per una tregua all´interno della residenza, ma le risse continuavano ad essere frequenti.
Emilio Barbarani, giovane e aitante diplomatico, ex console in Argentina, arrivò nella residenza in quei giorni: «Venni accolto da Chàvez, il capo dei comunisti, un uomo massiccio e taciturno che parlando esordiva sempre con lo slogan "El pueblo unido jamàs serà vencido". Mi consigliò di guardare ogni sera sotto il letto prima di dormire e di chiamare un falegname di fiducia per cambiare la serratura della porta della mia camera da letto e di non parcheggiare mai la macchina nel giardino ma sul marciapiede accanto alla carretta dei carabineros, altrimenti al mattino accendendo il motore invece di andare in ufficio sarei andato al creatore. I rifugiati non erano solo politici: mescolati tra loro si potevano riconoscere delinquenti comuni e anche infiltrati della polizia. Bisognava stare attenti anche ai cecchini che sparavano da lontano per intimidire. Qualche tempo prima all´interno della residenza era stato ritrovato il cadavere di Lumi Videla, una giovane donna attivista del Mir che portava evidenti tracce di torture. L´indomani la polizia aveva accusato i nostri rifugiati di essere stati loro ad aver assassinato la ragazza al termine di un´orgia a base di droga. Era un´accusa inverosimile, ma poteva nascondere la volontà della giunta di trovare un pretesto per invadere l´ambasciata».
«Noi eravamo in una posizione debole. C´era un brillante ambasciatore che non era un ambasciatore. Tomaso de Vergottini era stato mandato in sostituzione del vero capo della missione, partito per Roma pochi giorni prima del Golpe dopo aver spedito un messaggio alla Farnesina dicendo che in Cile era tutto tranquillo. Tuttavia l´Italia non aveva riconosciuto la giunta militare e così de Vergottini non poteva presentare le sue credenziali. Dal punto di vista diplomatico contava quanto uno zero. Ma nello stesso tempo doveva contattare, secondo le indicazioni contraddittorie della Farnesina, tutti gli alti papaveri militari e polizieschi per ottenere i visti di espatrio dei rifugiati. Una specie di quadratura del cerchio. Chiedere consigli a Roma era inutile: nell´ultimo anno erano cambiati 4 governi con 4 ministri degli Esteri differenti e non si capiva chi comandava chi. L´unica cosa certa era che noi dovevamo arrangiarci. Quando si profilò la minaccia reale dell´invasione dei carabineros alla residenza dissi subito che mi sarei difeso ad oltranza con tutte le armi che avevo e andai dal Commissario politico dei rifugiati chiedendo se erano d´accordo. Ci fu una lunga discussione e alla fine venni autorizzato ad aprire la cassaforte e a distribuire le quindici pistole che erano custodite. Da allora ho girato sempre armato».
«L´attacco non è mai avvenuto. L´Italia e il Cile avevano 2 posizioni diametralmente opposte. Da parte nostra bisognava capire quale contatto andava scelto e quale percorso era percorribile con più probabilità di successo. Una volta ad un ricevimento avevo incontrato il famoso colonnello K., uno degli uomini più potenti del paese, uno dei capi della DINA, l´onnipossente agenzia dei servizi segreti. E io come de Vergottini non ero accreditato. Durante l´incontro nel suo studio pochi giorni più tardi feci millantato credito, fingendo una sicurezza che non avevo e dando fondo alle mie capacità istrioniche. Avevo capito che se non mostravi i denti i militari non avrebbero nessuna esitazione ad eliminarti. Attaccai con una certa determinazione il comportamento della giunta dicendo che non era degno di un paese civile e nemmeno della tradizione dei soldati cileni che non contemplava massacri e esecuzioni sommarie. E lui rispose che noi italiani eravamo tutti comunisti o subornati dai comunisti e dovevamo essere trattati come meritavamo. Poi andò alla scrivania, aprì un cassetto, e tirò fuori dei soldatini di piombo con le divise delle SS che mise in fila per farmi capire meglio l´antifona».
«Ci sono stati molti momenti difficili. Quando arrivarono i visti per l´espatrio accompagnai personalmente quelli che partivano in aereo. All´aeroporto venni intercettato dal comandante dell´area che mi disse di aver notato cecchini appostati con fucili ad alta precisione. La polizia non era d´accordo sui permessi di espatrio concessi ad attivisti dei partiti di sinistra già condannati a morte ed erano pronti a eseguire loro la sentenza, da lontano. Lui non voleva stragi nel suo aeroporto e sperava che mi dessi da fare per impedirlo. Fu una partenza drammatica. Avevo detto a tutti di mescolarsi con gli altri passeggeri in modo da impedire ai tiratori di scegliere con accuratezza il bersaglio. Ma all´ultimo momento un cretino salì da solo in cima alla scaletta dell´aereo facendo grandi gesti della mano per salutare i parenti, rimanendo completamente scoperto. Tentai di coprirlo con il mio corpo attendendo che i cecchini sparassero. Non dovevano essere della tempra dello Sciacallo di Forsyth che tentò di uccidere de Gaulle, perché nessuno sparò. E i rifugiati riuscirono tutti ad imbarcarsi senza danni».
«Un altro momento difficile fu durante la partenza dell´ultimo mirista chiamato Emanuel rimasto a Santiago per fare da guardia alle donne nella residenza mentre tutti erano andati via. Eravamo d´accordo che sarebbero venute 2 auto di scorta a prenderlo, ma all´ora convenuta non c´era nessuno. In quel momento incrociai un alto ufficiale dei carabineros che conoscevo. Vedendomi fece una faccia sorpresa e disse: "Barbarani ero informato della vostra partenza, ma come mai siete ancora qui?". -"Ne so meno di lei." - risposi. La faccia del militare da sorpresa diventò preoccupata. "Bisogna fare una telefonata immediatamente. Posso entrare per trovare un telefono?". Io dissi se era pazzo. Voleva entrare in ambasciata in divisa, dove c´era gente che era stata torturata da loro? Lo avrebbero fatto fuori subito. -"Barbarani non perdiamo tempo, l´aereo non aspetta. Mi scorti dentro. E visto che lei è armato se qualcuno mi attacca faccia finta di difendermi!".
Così aprii il cancello, passammo per il giardino, raggiungendo un primo salone, fortunatamente non incontrammo nessuno. Poi attraversammo un secondo salone, arrivando nella biblioteca completamente vuota. Trovato il telefono il carabinero si mise a telefonare mentre io uscì dalla stanza ponendomi di guardia davanti all´entrata con la pistola in mano mentre pregavo Dio di non far apparire nessuno. Dopo due minuti il carabinero ricomparve e lo portai fuori dall´ambasciata. Qui c´era il capo dei comunisti Chàvez che mi disse: "Dottore lei è matto, matto da legare, noi la tenevamo d´occhio, noi sapevamo tutto di questa operazione segretissima. Sapevamo anche che qualcuno lo voleva morto. Quando è entrato in ambasciata il militare noi eravamo tutti pronti a intervenire se lei e il poliziotto foste stati aggrediti. Noi comunisti abbiamo sempre saputo in anticipo tutto».
Barbarani rimase a Santiago due anni. Quando partì per un´altra destinazione, tutti i rifugiati, oltre 750, erano già all´estero sani e salvi. Emilio Barbarani tornò in Cile, dove è considerato un eroe, nel 1998 come ambasciatore. Queste vicende sono narrate in un avvincente libro, scritto 40 anni dopo e uscito in questi giorni intitolato "Chi ha ucciso Lumi Videla?". (Mursia Ed., 19 euro).

l’Unità 22.5.12
Il sospetto e l’intrigo
Gramsci, il Pci, Stalin negli scritti del carcere
Con gli strumenti del filologo Luciano Canfora offre una ricostruzione originale della genesi, della pubblicazione e della delicata gestione politica dell’opera del leader comunista
Dalla lettera di Grieco al ruolo di Togliatti: tensioni, provocazioni e tradimenti nella lunga notte degli anni 30
di Giulio Ferroni


FILOLOGIA E POLITICA SONO DUE COSE CHE NON SIAMO TANTO ABITUATI A METTERE IN RAPPORTO: ma proprio a proposito della vicenda della pubblicazione delle lettere e dei Quaderni del carcere di Gramsci questo rapporto viene messo in nettissima evidenza da Luciano Canfora, la cui ottica di storico e filologo (e di studioso dell’antichità) giunge a districare nel modo più concreto questioni che troppo spesso vengono affrontate in modo esteriormente polemico. Il nuovo libro Gramsci in carcere e il fascismo (Salerno Editrice, pagine 304, euro 14,00) ha al suo centro la ricostruzione della travagliata storia di alcune lettere di Gramsci, escluse dalla prima edizione (1947) delle Lettere dal carcere: con un seguito di trascrizioni, copie fotografiche, esitazioni, reticenze, occultamenti, determinati dal fatto che, nel caso di un leader come Gramsci, la gestione stessa della sua eredità e quindi ogni scelta editoriale non poteva non essere sentita come un atto politico. Si tratta in primo luogo di tre lettere del ’28, del ’32 e del ’33, in cui Gramsci si riferiva al danno causato alla sua situazione di prigioniero da una lettera inviatagli a San Vittore con data 2 febbraio 1928 da un dirigente del partito, Ruggiero Grieco, «con informazioni politiche un po’ aberranti e un po’ iattanti», che gli diedero l’impressione di una deliberata malevolenza del partito nei suoi confronti e di essere state causa del fallimento della trattativa con l’Urss per la sua liberazione.
È una vicenda in cui sono in scena moltissimi attori e si esibiscono moltissime carte, con tanti passaggi, nella vita e nei rapporti del prigioniero, nella storia del partito in quegli anni e in quelli successivi, con le varie edizioni delle lettere fino a quella definitiva curata da Chiara Daniele e Aldo Natoli. Ma al centro di tutto è naturalmente Gramsci, con l’eroica tensione di un pensiero capace di resistere alle tremende difficoltà della situazione carceraria. Dopo aver notato che la grandezza dei Quaderni non sta tanto nell’indicazione di immediati modelli politici e programmatici, quanto nella sua tesa problematicità, Canfora insiste sull’interpretazione che vi viene data del fascismo come «rivoluzione passiva», reazione diventata maggioritaria nella società (interpretazione ben diversa da quella data allora dal movimento comunista internazionale).
LA LETTERA DI GRIECO
Molti dubbi si affacciano su Grieco e sulla sua lettera: e si ricorda che, quando egli diresse il partito (tra il ’35 e il ’37), pubblicò dopo la guerra d’Etiopia un appello al popolo italiano per la conciliazione nazionale, in cui si rivolgeva anche «ai fratelli in camicia nera», affermando addirittura l’intenzione dei comunisti di fare proprio «il programma fascista del 1919», che sarebbe stato tradito dal fascismo al potere. Questo appello fu motivo di sbandamento per molti militanti: è un documento poco noto e quasi inquietante, che Canfora riporta in appendice, insieme ad altri documenti spesso sorprendenti (come quelli che riguardano Ezio Taddei, figura di anarchico autore di vari atti di provocazione e di denigrazione, anche nei confronti di Gramsci, ma riuscito nel dopoguerra ad approdare nel Pci).
La linea indicata in quell’appello di Grieco era del tutto contraddittoria rispetto alla politica di adesione ai fronti popolari, allora sostenuta dal Komintern: ed è indice di un momento di grande confusione nel partito (in parte superata dalla rimozione di Grieco dalla segreteria). Ma tutto ciò (proprio a partire da quella famosa lettera del 2 febbraio 1928) trova radice nel difficile groviglio della lotta politica di quegli anni, tra attività del Centro Estero del partito in Urss e nei paesi democratici europei, clandestinità, comunicazioni reticenti o indirette, azioni poliziesche, presenze di infiltrati, provocatori, delatori, ecc.: un mondo con cui Gramsci prigioniero ha rapporti inevitabilmente indiretti (a parte le visite che può ricevere), mentre le sue lettere approdano in mani diverse.
In questo difficile groviglio, che Canfora ripercorre approfondendo e illuminando in modo nuovo anche tanti dati già noti, sta forse una delle ragioni essenziali della sfasatura tra la posizione di Gramsci in carcere (anche dopo la sua tardiva liberazione prima della morte) e quella del partito, del senso di dissidio, di sospetto, di ostilità di cui egli sentì la traccia più pesante in quella lettera del ’28: sfasatura che paradossalmente alimentò il suo originale pensiero, lo portò in un certo senso al di là della stessa situazione politica contingente da cui pure era scaturito e a cui cercava di rispondere. Per questo nella storia dell’edizione delle Lettere dal carcere (come in quella dei Quaderni) il nesso tra filologia e politica risulta determinante. Il tardo emergere di molte lettere (tra cui quelle tre che toccano il caso della lettera di Grieco) trova una sua giustificazione proprio nel carattere politico che il lascito di Gramsci assume nella storia del Pci del dopoguerra: Canfora mostra che il progressivo e faticoso disvelamento storiografico si legava a un impegno a mettere il pensiero di Gramsci «ogni volta in accordo con la trasformazione in atto», riconoscendo nel contempo in esso «la sola “forza intellettuale” capace di garantire continuità e unità nel corso della trasformazione».
In questa operazione è stato centrale il ruolo di Togliatti, che, dopo aver tenute nascoste le lettere in questione, decise negli ultimi anni di fornirle a nuovi editori (sulle cui reticenze e incertezze Canfora dà molte pungenti indicazioni). A Togliatti, del resto, Canfora riconosce il merito di aver compiuto, già con la prima pubblicazione dei Quaderni, un atto di grande «autonomia intellettuale» dal modello sovietico, primo passo verso il contrastato distacco politico, che avrebbe ricondotto il Pci «nell’alveo principale del movimento operaio, cioè nella socialdemocrazia distaccandosi dalla quale il partito era nato». Anche questo, nel solco del pensiero di Gramsci: ma qui la discussione è aperta, con gli stimoli nuovi garantiti da questo libro ricco di tanti anche particolarissimi dati storici e testuali.

La Stampa 22.5.12
C’è la crisi e anche l’inconscio si sente poco bene
La Società psicoanalitica italiana a congresso su un tema di drammatica attualità: parla il presidente Stefano Bolognini
di Egle Santolini


Il senso di malessere. «Non ricordo niente di simile tra i pazienti neanche all’epoca dell’inflazione al 18 per cento»
Diceva Freud: «Chi non lavora non può neppure amare. Nel senso profondo del prendersi cura di chi si ama»

Alla Sapienza di Roma da venerdì a domenica Il XVI Congresso Nazionale della Spi, Società Psicoanalitica Italiana (nella foto, il presidente Stefano Bolognini»), si tiene a Roma, presso l’Università La Sapienza, il 25, 26, 27 maggio. È intitolato «Realtà psichica e regole sociali - Denaro, potere e lavoro fra etica e narcisismo». Sono previsti interventi e comunicazioni, tra gli altri, del segretario generale della Cgil Susanna Camusso, del banchiere Alessandro Profumo, del poeta Valerio Magrelli, dei filosofi Silvana Borutti e Ferruccio Andolfi e dello psichiatra Vittorio Lingiardi, a colloquio e a confronto con gli psicoanalisti italiani. Nell’occasione, verrà conferito a Luciana Sica e a Felice Cimatti il premio Cesare Musatti 2012.
Racconta Stefano Bolognini, presidente della Società psicoanalitica italiana e primo italiano salito al vertice anche dell’International Psychoanalytical Association, che il tema del sedicesimo congresso dei freudiani di casa nostra era deciso da un pezzo, ma in qualche modo è scoppiato in mano a chi l’aveva scelto.
Mentre i relatori lavoravano sul titolo «Realtà psichica e regole sociali - Denaro, potere e lavoro fra etica e narcisismo», e si elaboravano, sui tempi lunghi richiesti da queste manifestazioni, gli interventi anche di alcuni ospiti «laici», tra cui sindacalisti, banchieri e poeti, la situazione finanziaria ed emotiva del Paese si addentrava infatti in territori angosciosi e forse inesplorati. Una tempesta che, a memoria di analista, offre pochi paragoni possibili nel tempo: «Non ricordo un tale senso di malessere dei pazienti neppure all’epoca dell’inflazione al 18 per cento», riconosce Bolognini.
Presidente, come incide la crisi sull’inconscio degli italiani?
«Rode il narcisismo fino al midollo. Quello “cattivo” ma anche quello “buono”, quello di morte e anche quello di vita. Mi spiego. Noi distinguiamo tra due tipi di narcisismo, un po’ come accade per il colesterolo: c’è quello ridondante, malato, esibito in maniera patologica e impudica, come è accaduto anche nella recentissima vita politica italiana. E poi c’è il narcisismo che ha a che fare con l’identità e con il riconoscimento delle proprie risorse e dei propri progetti. Ecco: a questo punto, la crisi sta ferendo anche il senso di sé, in maniera vasta e preoccupante. Si instaura una cappa pesante di svalutazione, di mortificazione. Questa ondata di suicidi è il segno inquietante di uno stato di sofferenza diffuso».
Il tema del Congresso mette in relazione narcisismo ed etica.
«Se la nazione è in stato di sofferenza, diventano più acute anche le questioni di tipo etico. Che, in questa fase, sembrano assumere il tono della frusta nei confronti dei politici. Si è come arrivati a un clima da resa dei conti. E i soggetti più deboli, quelli dall’ego meno saldo, soccombono».
La perdita del posto di lavoro coincide con la perdita d’identità?
«Purtroppo sì, è quello che accade molto spesso. In questa società, spesso non riusciamo a valutarci se non per quello che realizziamo professionalmente. Vede, Freud diceva che l’analista doveva mettere il paziente in condizione di fare quattro cose: amare, lavorare, godere e soffrire. E aggiungeva che, se non si è in grado di lavorare, non si può neppure amare. Nel senso profondo, complessivo, del prendersi cura di chi ama».
Quali sono le generazioni più colpite?
«I giovani che sentono di non avere prospettive, i genitori terrorizzati dal futuro dei figli. Ma anche chi di figli non ne ha, perché è in gioco il senso stesso di progetto di un’intera società».
Come si manifestano queste ferite nel suo studio di analista? Le raccontano molti sogni ambientati nell’ufficio del personale o, magari, alla mensa dei poveri?
«No, questo non succede. Il lavorìo dei sogni prende un andamento autonomo, più profondo, non rispecchiando direttamente le vicissitudini quotidiane. L’angoscia emerge dalle comunicazioni dei pazienti più che dal loro materiale onirico».
Qualche esempio, al riparo del segreto professionale?
«Molti casi di oppressione emotiva perché ci si rende conto di non poter portare a termine dei progetti creativi. Di non poterci neanche più pensare».
Visti i costi dell’analisi, ci saranno quelli che non sanno più come proseguirla, oltre a quelli che stanno male, la vorrebbero ma non la cominciano. A proposito, quanto costa oggi una seduta?
«Certi giovani colleghi la fanno pagare anche 30 o 40 euro. In media direi che siamo sui 50».
Per una frequenza di… «Tre o quattro volte la settimana, nello schema classico. Ma dati i tempi, si negozia, si arrangiano degli aggiustamenti. Certamente c’è un po’ più di cautela del solito nel cominciare una terapia».
Capita il paziente che arriva e le dice: dottore, non la posso più pagare?
«Capita sì. È allora che si pensa a qualche compromesso, magari tagliando una seduta o due. So di colleghi che si abbassano i prezzi. Ma è difficile che un soggetto in grave sofferenza rinunci al rapporto con l’analista. Di solito si trova il sistema».
Ha riscontri nel lavoro degli analisti di altri parti del mondo?
«Oh sì. Ci si dispera in tutta Europa, ora perfino in quelle società scandinave che tradizionalmente godevano di un welfare molto efficiente. D’altro canto, in certe nazioni giovani come il Brasile la situazione è più positiva».
Presidente, un paio di anni fa, proprio in occasione di un altro congresso della Spi, lei ci aveva descritto certi soggetti caratterizzati dalla paura del pensiero, estroflessi, incapaci di interiorizzazione, che vivevano una vita finta, incentrata sul look o su rapporti virtuali e non autentici. La crisi ne ha fatto piazza pulita?
«Per considerare come un’opportunità la situazione che stiamo sperimentando direi che, se non altro, abbiamo la chance di tornare all’essenziale: alla qualità delle relazioni, all’apprezzamento di ciò che si ha. Stiamo imparando che la felicità non sta nel vestire griffato o nel viaggiare intorno al mondo come trottole. E allora sì: a un prezzo altissimo, questa può essere l’occasione per liberarci dalla volgarità generalizzata. E dallo spreco anche emotivo».

Corriere 22.5.12
E Roman firma il corto «A Therapy»: incubi e ironie su Freud
di G. Ma.


Di psicanalisi e psicanalisti il dottor Polanski se ne intende. Tutto il cinema del grande Roman è lì a dimostrarlo. Ma stavolta il regista si diverte a scherzare con Freud e i suoi seguaci. Acciuffando al volo la proposta di un corto offertagli da Miuccia Prada, Polanski firma A Therapy, quattro minuti di ironia pura presentati a sorpresa ieri al Festival. Protagonisti due attori straordinari: Ben Kingsley ed Helena Bonham Carter (assieme nella foto). Il primo nei panni di un compito strizzacervelli, la seconda in quelli di una paziente bella quanto danarosa. Così, mentre lei si stende sul lettino e inizia a raccontare i suoi incubi, lui via via si distrae, attratto più che dai meandri dell'inconscio femminile, dal suntuoso piumone lilla bordato di pelliccia appeso dalla cliente all'attaccapanni. Senza farsi scorgere, mentre lei continua a parlare, si avvicina all'oscuro oggetto del desiderio e se lo infila, rimirandosi allo specchio. «Un gioco, un pensiero, realizzato grazie all'amicizia e al rispetto reciproco. La totale libertà che mi è stata concessa, mi ha dato l'occasione di riunire sul set il mio gruppo di lavoro preferito e divertirmi con loro», dice Polanski. Dopo Cannes il corto si potrà vedere sul Web e su Arte, la tv culturale franco-tedesca. Quanto al magnifico soprabito, niente da fare. Quello prodotto da Prada per il film è un pezzo unico. Creato solo per il sogno di un regista.

Corriere 22.5.12
Colm Tóibín: la letteratura? Serve a uccidere la madre
Il romanzo come resa dei conti in famiglia
di Livia Manera


«Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita», diceva il poeta polacco Czeslaw Milosz. E che non fosse soltanto una battuta, lo dimostra lo scrittore irlandese Colm Tóibín col suo libro uscito in Gran Bretagna, che dietro l'irresistibile titolo New ways to kill your mother, indica tra i «nuovi modi di uccidere una madre» — o un padre, o dei figli, secondo gli scrittori e i casi — quello, innocente solo agli occhi degli ingenui, di prendere carta e penna e darsi alla letteratura.
In una conversazione che abbiamo avuto tempo fa da qualche parte (Tóibín è forse il più cosmopolita degli scrittori contemporanei, sempre in movimento tra Dublino, dove è nato e vive parte dell'anno, New York e Manchester, dove ha insegnato e insegna creative writing, e, tra gli altri posti dove lo portano le amicizie e i festival letterari, la Toscana), l'autore del super premiato romanzo The Master (Fazi) raccontava che a ogni nuovo libro sua madre gli scriveva una lettera piuttosto seria soffermandosi sullo stile, per evitare di toccare i contenuti che trovava un po' tristi e troppo personali. «Poi un giorno disse che avrebbe scritto lei stessa un libro suo. E lo disse in un modo che faceva sembrare un libro un'arma».
Forse la signora Tóibín, che aveva dovuto interrompere gli studi a quattordici anni, ma aveva continuato a scrivere poesie, la sapeva semplicemente lunga, tanto quanto Milosz, e Borges, e Naipaul, e Beckett e Henry James e James Baldwin e John Cheever e W.B. Yeats e Tennesse Williams e tutti gli altri romanzieri, poeti o drammaturghi a cui Tóibín ha dedicato questi saggi apparsi in buona parte sulla «New York Review of books» e sulla «London Review of books». Ma il rapporto tra la famiglia e lo scrittore, ci spiega in queste pagine Tóibín, essendo strettamente legato ai motivi che lo portano a scrivere, non si esaurisce al tradimento: è più complesso, e più interessante.
In primo luogo c'è la questione dell'uovo e la gallina: è l'infelicità familiare a fare lo scrittore o lo scrittore a fare l'infelicità familiare? La risposta di Tóibín è che al di là del dubbio vi è la certezza che il modo in cui gli autori si rapportano alle loro famiglie vi è una chiave d'interpretazione del loro lavoro. E poi ci sono le similitudini, i percorsi paralleli. C'è chi scrive, per esempio, perché la generazione precedente non ha potuto farlo — come nel caso di Tóibín stesso, figlio di gente per cui la cultura era in primo luogo un mezzo per trovare un lavoro «al coperto, con le ferie e la liquidazione» e soprattutto per non essere costretti a emigrare dall'Irlanda.
Ma c'è anche ci scrive per vendicare le aspirazioni frustrate dei padri, come V.S. Naipaul o come il padre di Borges, che un romanzo lo pubblicò, ma a proprie spese. Ed è delizioso scoprire che sia Naipaul che Borges vendicarono i fallimenti dei propri padri prendendo i loro scritti e riscrivendoli con successo: il primo nel romanzo che gli ha dato la fama, Una casa per Mister Biswas, e il secondo nel racconto Il congresso.
Ma non tutti gli scrittori sono così «generosi». Il poeta irlandese W.B. Yeats, per esempio, che era figlio di un uomo petulante e bisognoso di attenzione fino all'esasperazione, un uomo che si era auto esiliato a New York per non essere influenzato dal figlio, sparò un siluro attraverso l'Atlantico quando scrisse che l'opera teatrale che il padre aveva terminato dopo infiniti anni di lavoro non valeva nulla: «Hai scelto un soggetto molto difficile e la più ardua delle forme di scrittura, per cui era prevedibile che questo sarebbe stato il meno buono dei tuoi scritti… ci vuole una vita per imparare a scrivere per il teatro». Questo a un uomo di ottant'anni.
E le madri? Le madri sono un problema. Anzi, sono il problema maggiore. Della sua Beckett diceva: «Non le auguro nulla, né di bene né di male. Io sono il prodotto del suo affetto selvaggio, ed è un bene che uno di noi accetti finalmente che non desidero più vederla né sentirla né avere sue notizie». Quanto alle madri nella letteratura, Tóibín ci fa notare che nei grandi romanzi dell'800 (Jane Austen, Henry James) semplicemente non ci sono, in quanto muoiono di parto e vengono sostituite dalle zie, molto più facili da gestire per lo scrittore, e da «sessualizzare» con beneficio della trama.
Questa necessità di fare fuori le madri prima che inquinino un testo, «è un'esigenza del romanzo, non del romanziere», scrive Tóibín. Il quale si avventura a sostenere, in modo evidentemente provocatorio, che «il romanzo non è una favola morale o un'esplorazione del ruolo dell'individuo nella società; e non sta a noi amare o detestare i personaggi di una fiction, o giudicare il loro valore o usarli come modello per imparare a vivere. Queste sono cose che possiamo fare con la gente reale o, nel caso, con i personaggi storici, che sono carne da banchetto per moralisti. Un romanzo è un disegno, è un insieme di strategie, ed è in qualche modo più vicino alla matematica o alla fisica dei quanti che all'etica o alla sociologia».
Un disegno un po' particolare, viene voglia di commentare: che risponde, sì, a equilibri e simmetrie, ma richiede soprattutto sacrifici umani.

Repubblica 22.5.12
Il nuovo saggio sul corpo del francese Michel Onfray
Edonisti e pragmatici i filosofi della felicità
Dell’utilitarismo di Bentham bisogna conservare la vera preoccupazione per il concreto, l’accostamento materialista
Contro l’idealismo che rende tutto astratto
di Michel Onfray


La lettura idealista della bioetica produce dissertazioni teoriche, casuistiche raffinate, retoriche brillanti, ma pochi risultati concreti. La filosofia viene praticata nell´astrazione pura, consacrando sempre un culto allo Spirito assoluto. Si commentano i grandi testi, si riprendono gli autori canonici, si producono dei concetti, ci si muove nella storia della filosofia proprio come fa un pesce nell´acqua, si aspetta il proprio turno...
Dall´altra parte del pianeta, agli antipodi di questo pensiero, Peter Singer insegna all´università di Melbourne (Australia) e dirige il centro di bioetica umana nel rispetto della tradizione utilitaristica anglosassone. Lì non disserta sugli autori canonici dei programmi universitari, ma su casi concreti. L´analisi dei testi serve a monte, e, nel caso particolare, serve a fabbricare un´intelligenza analitica che possa essere applicata ai fatti. leggere Platone, sì, ma non come un professore che sia costretto a commentare e a citare per tutta la vita questo o quel frammento della Repubblica...
Tesi contro fatti, un concetto contro delle analisi, autori morti contro figure attuali, professori di fronte a filosofi – idealismo tedesco versus utilitarismo anglosassone: l´alternativa non permette ambiguità e mette una contro l´altra una filosofia per filosofi e una filosofia pubblica, un discorso chiuso, riservato, elitario e un discorso aperto, in condivisione e democratico. Pensare per la casta o per il maggior numero di persone: non si sfugge ai termini di questa antinomia.
Per praticare una filosofia popolare, non c´è nessun bisogno di diminuire o di impoverire il quadro generale, basta soltanto volere una forma accessibile, un´espressione generosa e per niente autistica. L´utilitarismo rifiuta le finzioni semantiche che servono a selezionare il pubblico e a rivolgersi solamente alla propria consorteria filosofica, nella maggior parte dei casi anch´essa costituita da gente di potere. Prendiamo in mano un testo qualsiasi di Jeremy Bentham, di John Stuart Mill – oppure anche di Peter Singer, Thomas Nagel o Stanley Cavell, solo per citare qualche vivente; di fatto, constateremo una filosofia incarnata...
La Francia filosofica vive in regime di scrittura idealista. Subisce la legge dei vincitori – una mania... a mo´ di punizione – o si condanna a celebrare una tradizione di filosofi oscuri, illeggibili, fumosi, brillanti ma superficiali, concettuali e a loro agio nel cielo degli intellettuali ma incomprensibili ai più – una prosa che trasforma lo psittacismo in norma –, oppure si costruisce un discorso generale vagamente infarcito di autori canonici e ci si accontenta di spillare i luoghi comuni del momento. Evito i nomi...
Fondamentale per l´utilitarismo è che, quando si scrive in una lingua semplice e ripulita da quelle che Bentham chiama le finzioni utili alla riproduzione del mondo com´è, non deve essere sacrificata la profondità. Nella storia delle idee, la sua traccia viene cancellata sotto i solchi scavati dalla colonna dei blindati idealisti: per esempio, Bentham produce gli idéologues francesi. ma chi è che legge ancora Cabanis, Destutt de Tracy o Volney, materialisti impenitenti? Chi è che conosce l´ottimo Rapporti del fisico e del morale dell´uomo (1802) del primo? D´altra parte, nessuno ignora l´esistenza della Fenomenologia dello spirito (1807)...
Nel 1792, la rivoluzione francese dà la cittadinanza francese a Jeremy Bentham – dopo di che, la sua patria d´adozione non è stata più adatta per lui... L´utilitarismo – sensualista, materialista, edonista, ateo – propone un´alternativa concreta al cristianesimo, anche alla sua versione laicizzata e kantiana. Forse è proprio in questa sua potenzialità che bisogna vedere una delle ragioni dell´oblio, della disaffezione, del discredito o della cattiva reputazione filosofica di cui gode da due secoli. Karl Marx presenta il filosofo inglese come modello del pensiero borghese, come il suo pedante oracolo, come il genio della sua stupidità – quante violenze si trovano nel Capitale – e Michel Foucault lo fa uscire dall´anonimato solo per farlo precipitare di nuovo nella vergogna: di fatto, Sorvegliare e punire lo trasforma nell´inventore della società poliziesca, nello scienziato impazzito per la prigione a causa del suo panopticon, trascurando, in maniera incomprensibile, tutto il suo lavoro di umanizzazione delle pene e della giustizia, o anche – Reati contro se stessi: la pederastia (1785) – la sua battaglia contro la persecuzione, la reclusione e la condanna a morte degli omosessuali...
Dell´utilitarismo, quindi, io voglio conservare lo spirito, i modi e i metodi: la preoccupazione per il concreto, l´uso dei concetti non tanto per se stessi, quanto per le possibilità di analisi e di riflessione, l´accostamento immanente e materialista al mondo, la preferenza per le causalità pragmatiche e non per i giochi teoretici sul linguaggio. E poi: io sottopongo i miei propositi alla finalità edonista. La bioetica deve puntare alla felicità del maggior numero possibile di persone. Non fosse per questo imperativo categorico, non meriterebbe un istante di fatica.
(Traduzione di Michele Zaffarano e Luigi Toni)

La Stampa 22.5.12
Per non farci travolgere dalle immagini
di Federico Vercellone


Siamo avvolti dalle immagini. Ci attorniano da ogni parte. Influiscono a tal punto sulla nostra vita che la generazione nata con i computer è stata definita la «generazione digitale». L’inedito potere delle immagini ha fatto sì, tra l’altro, che nascesse addirittura un nuovo genere di studi, i visual studies. Dinanzi a questa condizione imposta dal nuovo status dell’immagine nella nostra cultura diviene inevitabile prendere le misure della situazione. Il rischio è infatti quasi esistenziale: quello di essere travolti dalla massa dei simulacri privi di carne e spessore provenienti da ogni passato e dai più diversi presenti. Il rischio è dunque quello di trasformarci in una civiltà mortuaria letteralmente travolta dal ritorno dei revenants .
È pertanto necessario anche volgere lo sguardo verso la tradizione, e affrontare i problemi classici della storia dell’immagine, per esempio quello fondamentale della descrizione delle opere d’arte figurativa, dell’ ekphrasis, al quale Michele Cometa, uno dei massimi studiosi italiani dell’immagine, ha dedicato un libro davvero importante uscito ora da Cortina: La riscrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale. Quello dell’ ekphrasis è un capitolo assolutamente cruciale nell’ambito della storia della cultura visuale. È una questione che si propone sin dall’antichità, e che mette in campo la relazione tra immagine e discorso, tra immagine e concetto.
Si tratta di un problema centrale per la cultura contemporanea. Siamo infatti nati entro una cultura ispirata all’illuminismo, e dunque a una razionalità concettuale e discorsiva. Può resistere nel mondo dell’immagine? I due universi sono a contatto o siamo dinanzi a uno scollamento di significato epocale? Questo ci rinvia per altro a un’altra questione molto cara alla tradizione filosofica, quella concernente l’ontologia dell’immagine, il suo peculiare modo di essere. La tematizza in modo molto affascinante e ricco di suggestioni, in particolare inoltrandosi nella tradizione tedesca tra Otto e Novecento, Giampiero Moretti in Per immagini pubblicato ora da Moretti & Vitali.

Corriere 22.5.12
Tra nazismo e comunismo una analogia, una differenza
risponde Sergio Romano


Quando crollò il muro di Berlino lei scrisse che il comunismo era peggiore del nazismo dato che il secondo consentiva almeno di arricchirsi, mentre il primo lo impediva. Un concetto simile lo espresse un israeliano di cui ora non ricordo il nome, che affermò che fuggendo dalla Germania e riparando in Urss era caduto dalla padella nella brace. I concetti espressi valgono sempre o le idee hanno subito una evoluzione?
Ubaldo Di Ubaldo

Caro Di Ubaldo,
Non ricordo di avere scritto la frase da lei citata e spero di non averlo fatto. Se mi fossi espresso in quei termini, avrei dimenticato che fra il nazismo e il comunismo vi è una importante differenza. La strategia di Hitler presupponeva l'esistenza di una razza superiore che aveva il diritto d'imporre la propria volontà al mondo. Quella di Lenin e di Stalin si proponeva la realizzazione della società dell'eguaglianza. Posso rimproverare al regime sovietico il terrore, le purghe, il gulag e un numero di vittime considerevolmente superiore a quello, pur così elevato, del regime nazista. Posso sostenere che l'ideologia dei bolscevichi era una pericolosa utopia. Ma non posso ignorare che fra la teoria della razza superiore e l'aspirazione all'eguaglianza vi è, sul piano morale, una abissale distanza.
Ho certamente pensato e scritto, tuttavia, che il nazismo, pur creando uno Stato totalitario e moltiplicando gli interventi pubblici nella vita economica, non aveva interamente distrutto l'economia di mercato e il concetto stesso di proprietà privata. Gli industriali dovettero piegarsi alla volontà del regime, gli operai, gli artigiani, i contadini e i liberi professionisti furono inquadrati nelle istituzioni del partito. Ma il regime dovette conservare quel patrimonio di libera iniziativa che la Germania aveva accumulato nel corso dei secoli. Terminata la guerra, i tedeschi, quindi, avevano tutti gli strumenti culturali necessari per ripartire; e stupirono il mondo, nel giro di pochi anni, con una miracolosa crescita economica.
Per la Russia post-sovietica il percorso fu molto più difficile. Settantacinque anni di regime comunista avevano privato il Paese dell'esperienza fatta nel periodo, tra l'Ottocento e il Novecento, in cui il mondo aveva assistito alla nascita di un interessante capitalismo russo. L'uscita dal comunismo è diventata così uno spericolato e spregiudicato arrembaggio ad aziende pubbliche troppo maldestramente privatizzate. Mentre la Germania poteva contare su vecchi e nuovi imprenditori, la Russia cadde nelle mani di un clan composto da pirati dell'economia e della finanza, politici spregiudicati, funzionari corrotti. Per un drammatico paradosso il comunismo sovietico è responsabile del peggiore capitalismo. Vladimir Putin ha avuto il merito di mettere in riga gli oligarchi, ma li ha sostituiti con persone che appartenevano alla sua cerchia politico-clientelare. E la sua casa-madre (i servizi di sicurezza) è ancora, per molti aspetti, una istituzione sovietica. I progressi fatti dalla Russia negli ultimi anni sono importanti, ma il peso del passato comunista continua a condizionare la vita del Paese.

Corriere 22.5.12
L’Europa ritroverà la sua forza se tornerà allo spirito dei Lumi
di André Glucksmann


Quattro anni di crisi successive hanno innalzato gli esperti economisti al trono di profeti tuttofare e di consiglieri per eccellenza dei prìncipi che ci governano, a sinistra come a destra. Tuttavia, continuiamo ad essere alla mercé di una prossima sorpresa, imprevista quanto le precedenti. Rendiamo quindi omaggio alla originalità delle parole di Gian Arturo Ferrari che, sulla prima pagina di questo giornale (17 maggio, «L'orchestra senza musica»), ricusa il monopolio delle considerazioni di carattere puramente economico per scovare, alle radici delle difficoltà dell'Eurozona, una paralizzante «povertà culturale». Invitando a saltar fuori dal cerchio incantato delle valutazioni finanziarie e di bilancio, egli incrimina una subcultura che accumula pregiudizi e stereotipi: la Francia arrogante, la Germania intrinsecamente imperialista e i cosiddetti Paesi del «Club Méditerranée» irresistibilmente votati a vivere alle spalle di un Nord austero, virtuoso e protestante. Sì, all'origine del blocco economico c'è un blocco culturale. Come e perché mettersi d'accordo per salvare l'Unione europea, quando regna la diffidenza del ciascun per sé, caratteristica dei corsi di ricreazione infantili?
Secondo gli altri continenti, la nostra Europa costituisce davvero un caso così disperato, come suggerisce Gian Arturo Ferrari? Egli presenta un ritratto lusinghiero della Cina ritenuta culturalmente magnetizzata dalla propria ideologia comunista-confuciana. Allo stesso modo, i Paesi musulmani gli sembrano saldati insieme dall'Islam. E gli Stati Uniti dallo stendardo stellato, garanzia di libertà e sicurezza. Così, la nostra triste Europa frammentata sarebbe la sola a essere priva di tutta la coerenza culturale, religiosa o ideologica che assicura il dinamismo delle grandi potenze nel XXI secolo. Perdonatemi, ma non lo credo affatto. Liberiamoci dai nostri complessi! Più del famoso «scontro di civiltà» profetizzato vent'anni fa, scorgiamo scontri all'interno di ogni cosiddetta «civiltà». Le primavere arabe, le proteste di massa in Russia, la dissidenza crescente in Cina, ne sono la prova. Piaccia o meno alle teologie politiche ufficiali, gli autocrati postcomunisti — come i dispotismi etnico-religiosi — sguazzano in una corruzione inaudita, in conflitti al vertice dei clan, in contestazioni delle classi medie e in insurrezioni sporadiche della gente dei piani bassi. Da nessuna parte la mondializzazione è un lungo fiume tranquillo.
Vero è che mezzo secolo di cooperazione economica in seno all'Unione europea fu possibile solo nella prospettiva, oggi quasi dimenticata, di un progetto politico-culturale. All'inizio, dopo il 1945, avevamo: 1) il rifiuto di rivivere l'isteria xenofoba e razzista che generò Hitler; 2) l'opposizione ai regimi comunisti dall'altro lato della cortina di ferro; 3) la fine delle tentazioni imperialistiche (fu necessario che la Francia perdesse e la guerra d'Indocina e la guerra d'Algeria perché si decidesse a puntare sull'Europa). Oggi questo patto inaugurale non seduce più, la guerra fredda è finita, ma la democrazia è lungi dall'aver trionfato. Gli europei devono ridefinire l'esperienza comune che fonda la loro comunità di destino. Altrimenti, una «povertà culturale» ben condivisa li condanna a dilaniarsi l'un l'altro.
Gli europei contemporanei sono socialmente atei. Non cercano di imporre un modo di vivere monolitico, la loro insormontabile diversità non è un fattore di divisione: a ciascuno i propri gusti, a ciascuno il proprio modo di alimentarsi, di vestirsi, di educare i figli, di pregare o non pregare, di ridere o piangere. Da più di mezzo secolo, nessuna nazione impone ai vicini i propri dogmi e il proprio folclore. Il consenso continentale non si costruisce sulla domanda: come vivere? Ma sulla domanda: come sopravvivere? Quale sfida, quali rischi dobbiamo raccogliere e affrontare in comune? Davanti a quali pericoli mortali dobbiamo darci manforte?
Di fronte all'ignoto, cerchiamo spesso rifugio nel déjà vu, nel déjà connu, in quello che già abbiamo visto e conosciuto. Occorre però non sbagliare riferimento. La subcultura dei pregiudizi aggressivi e degli stereotipi che dividono rientra nel campo delle cattive inclinazioni del XIX secolo: «Right or wrong, my country». A costo di relativizzare, rivisiterei piuttosto il Settecento, ultimo secolo di una cultura transnazionale che si imponeva da Porto a Mosca e da Palermo a Stoccolma, senza curarsi delle frontiere tradizionali. Imperfetti, impigliati in molteplici contraddizioni, i Lumi restano il punto di partenza obbligato del progetto europeo di osar pensare con la propria testa (Kant) e di imporre rispetto reciproco e tolleranza collettiva (Locke e Voltaire). Non è sicuro che ci si arriverà: chiedete al signor Putin e ai suoi omologhi cinesi, e scoprirete quanto questa cultura democratica sia fragile e quanto meriti d'essere difesa.
Gian Arturo Ferrari ha ragione — e quanto ha ragione! — a sottolineare che la prosperità economica è una conseguenza, in nessun modo una causa, della nostra intesa intellettuale per quanto riguarda l'essenziale. Già indicata da Voltaire, la malattia che ci minaccia è quella di Pangloss, che immagina di esistere nel migliore dei mondi, come se una miracolosa provvidenza vegliasse sul suo benessere. Tale fu l'illusione generale quando cadde il Muro di Berlino. Credendo che il nostro vecchio continente fosse fuori pericolo, abbiamo vissuto senza preoccupazioni e senza precauzioni. Ed ecco che poi abbiamo ricevuto un colpo che ci ha tramortiti e abbiamo dovuto abbassare la cresta passando da un ottimismo eccessivo a un pessimismo non meno eccessivo. Immancabilmente immersa nel caos di una mondializzazione planetaria, l'Europa può tuttavia trovare nella cultura dei Lumi il principio della propria coesione.
(traduzione di Daniela Maggioni)

La Stampa 22.5.12
Artemidoro, non tutto il falso vien per nuocere
Da quando è scoppiata la disputa, tra gli studiosi si è imposta una nouvelle vague : sui documenti sospetti è finita l’era dell’omertà e del galateo accademico
di Silvia Ronchey


E’ cambiato qualcosa dal 2006, da quando si è aperta la querelle sul cosiddetto papiro di Artemidoro, del cui testo esce ora, curata da Luciano Canfora, l’attesa edizione critica (Pseudo-Artemidoro, Epitome: Spagna. Il geografo come filosofo, ed. Antenore, pp. 87, € 12). Forse «a suo tempo addirittura rubato» (p. 8), il falso Artemidoro si è in ogni caso rivelato frutto dell’assemblaggio di tre papiri confezionati nell’Ottocento da Constantinos Simonidis e conservati fino agli Anni 70 del Novecento nel fondo omonimo del Museo di Liverpool - i «tre grossi sigari» descritti da James Farrer (1907), poi risultati scomparsi - e delle aggiunte di un secondo falsario novecentesco. Ristabilendo l’ordine dei brani così come si presenta nel collage, l’opera di Canfora sigilla sei anni di discussioni e studi che hanno dato vita alla controversia scientifica giudicata più importante e metodologicamente più significativa, nel campo dell’antichistica, da un lunghissimo tempo a questa parte.
I fatti hanno dimostrato che anche le più sottili questioni erudite possono essere spiegate a un vasto pubblico di non specialisti. All’inizio della disputa a qualcuno sembrava sconveniente, se non pericoloso, consegnare alla piazza mediatica i dissidi e le accuse che si scambiavano nei templi, peraltro ormai semivuoti, dell’alta cultura classica. Ma in sei anni, a fronte di migliaia di pagine prodotte in sede accademica, gli articoli giornalistici, gli interventi televisivi e le pagine web hanno dimostrato la possibilità di una sintetica quanto rigorosa diffusione ai molti di conoscenze, se non arcane, certo elitarie.
L’esempio della controversia sul cosiddetto Artemidoro ha così dato vita a una nouvelle vague. Sommandosi forse alla diffusa esasperazione per le «bugie» dei politici, le «lobby» dei potenti, i «segreti» dei banchieri, certo all’insofferenza per la manipolazione e la mistificazione, una nuova meticolosa attenzione all’autenticità degli oggetti e tanto più dei beni culturali ha investito la psicologia collettiva, reclamando un’articolata distinzione del vero dal falso e spazzando via ogni misericordia accademica, omertà o galateo che dir si voglia.
In passato, nel mondo degli studi, un velo di discrezione avvolgeva l’onta di un falso. Si stentava a segnare a dito il re nudo. Perfino nei più rigorosi e paludati ambienti accademici una forma di solidarietà, individuale o di casta, ovattava ogni notizia e proteggeva chi, inciampato in un falso - si trattasse di un manufatto artistico o di un reperto manoscritto - avesse fatto l’ulteriore passo falso di proclamarlo tenacemente vero.
Oggi allo studioso che inciampa in un falso non si perdona più facilmente. Il caso del Crocifisso Gallino, che ha imperato sulle pagine dei giornali, negli ultimi tempi, quasi quanto l’Artemidoro, e la cui popolarità mediatica batte ogni falso precedente, compresi i falsi Modigliani, ha messo ai ferri corti il mondo degli storici dell’arte, e non solo. Forse perché, in questo caso, la somma - non molto diversa da quella pagata dalla Compagnia di San Paolo per il cosiddetto Artemidoro - è stata sborsata dallo Stato italiano, l’attenzione dedicata dal web allo pseudo-Michelangelo ha doppiato quella riservata al falso Artemidoro, con un rating di 22 mila risultati su Google (e ben 1.222 su Google Scholar), mentre nella corrispettiva voce di Wikipedia i nomi degli studiosi «favorevoli» e «contrari» si fronteggiano fitti come schieramenti campali, in contrasto con la polarità da antico duello del dibattito Canfora-Settis.
In passato, difficilmente era uno studioso a smascherare un suo simile. Se mai, ne attendeva l’autocritica, che prima o poi veniva fatta; tutto restava, comunque, interno al mondo degli studi. Potevano così darsi rigurgiti di sanfedismo, come quando, nel 1990, l’oxfordiano Carsten Thiede riabilitò come vero il falso papiro di Matteo, dichiaratamente prodotto dallo stesso Simonidis (1861-62), e ciò per ragion di Chiesa in senso stretto: per avvalorare cioè la datazione alta di presunti nuovi manoscritti, come il cosiddetto Markusfragment di Qumran, del Nuovo Testamento, il cui corpus non è testimoniato invece prima della fine del I secolo d. C.
Il falso papiro di Matteo è ancora nel Museo di Liverpool, accanto agli altri falsi di Simonidis collezionati dal suo protettore Joseph Mayer, e chiunque può vederlo. Contrariamente ai «tre grossi sigari» descritti da Farrer, ossia ai tre rotoli con cui è stato confezionato il cosiddetto papiro di Artemidoro. Che a sua volta però, a differenza di quello di Matteo, non può essere esposto senza timore in un museo, non potendosi appurare per quali vie i falsi papiri incompiuti siano scomparsi da Liverpool e arrivati nelle mani del moderno bricoleur che li ha trasformati in un papiro «unico» di immensa quanto falsa grandezza.

Repubblica 22.5.12
Studiamo le polis per capire il federalismo
Le città della Grecia classica facevano parte di un sistema più ampio che può insegnare molto
di Nadia Urbinati


Federare il vecchio continente sembra oggi un´impresa quasi disperata, residuo del sogno di visionari che hanno buttato l´occhio troppo lontano nel futuro. La crisi dell´Unione Europea può apparire a molti come una conferma che lo stato nazionale, erede di quello territoriale moderno, sia dopo tutto la forma più stabile di ordine politico, anche nell´età della globalizzazione dei mercati. L´anti-europeismo è imbastito su questa dottrina della sovranità assoluta degli stati. Per i teorici politici che situano lo stato all´apice della evoluzione dei gruppi umani associati, le forme federative o sono nuovi stati a loro volta o sono alleanze per ragioni di autodifesa la cui durata dipende dalla volontà e convenienza degli stati stessi. Quindi, o gli stati sono autonomi o non sono "stati". Questo schema modernista ha per decenni modellato la storia politica del mondo antico, immaginata come il tempo della nascita della polis indipendente proprio come uno stato secondo il dogma otto-novecentesco. Questa versione è stata smentita da ricerche molto puntuali che hanno dimostrato come le polis anziché essere entità autonome erano parti di ampie associazioni, forme federate, spesso nell´orbita egemonica di una polis centrale.
Come scrive Eva Cantarella nella prefazione al libro di Mogens Herman Hansen, Polis. Introduzione alla città-stato dell´antica Grecia (Università Bocconi Editore) con postfazione di Guido Martinotti, gli stati che gravitavano nelle costellazioni delle polis mediterranee erano né più né meno come gli stati europei oggi: individualmente nessuno di loro indipendente eppure indiscutibilmente "stati" che insieme cooperavano e si davano istituzioni comuni, come un esercito, una moneta, una divinità che li proteggesse tutti insieme, mentre individualmente avevano i loro sistemi di sicurezza e di governo delle loro popolazioni. Sovranità interna organizzata secondo le esigenze di politica domestica e sovranità esterna organizzata come sistema federato. Questa fu secondo Hansen, tra i più autorevoli storici e teorici politici dell´antichità, il modo organico di costituzione delle polis del Mediterraneo, un mondo di circa 4.500 città interrelate in qualche modo e con centri di riferimento che come costellazioni tenevano insieme gruppi di città. Il volume, uscito in inglese nel 2006 e appena tradotto dalla casa editrice bocconiana, è di straordinaria importanza. Raccoglie una sintesi dei risultati dell´enorme e complessa ricerca quantitativa e qualitativa sulle città e l´urbanizzazione messa in cantiere dalla Danimarca, che nel 1993 ha finanziato il Polis Centre affidandone a Hansen la direzione.
Il modello della città non appartiene solo al mondo mediterraneo, e greco in particolare, ma a tutti i continenti, ci racconta Hansen. Tuttavia la Grecia ci ha lasciato certamente il modello più straordinario e più documentato. Un modello federativo. E partendo da questa ipotesi Hansen ne formula altre, altrettanto suggestive e importanti: per esempio che la nascita delle istituzioni politiche non pare sia avvenuta al centro ma nelle colonie. La colonizzazione (per esempio quella greca nell´Italia meridionale) era un fenomeno diffuso nell´antichità. Consisteva nell´abbandono della madre patria di membri maschi della comunità che andavano a stanziarsi in un nuovo territorio, dove formavano una nuova città indipendente all´interno ma legata da stretti vincoli alla madre patria. I problemi associati alla nascita delle colonie (per esempio il rapporto conflittuale con le popolazioni locali che avevano lingua e tradizioni diverse) rendevano particolarmente urgente il bisogno di istituzioni politiche – cosicché non è fantasiosa l´idea di Hansen che le leggi scritte e le istituzioni di molte polis siano sorte proprio nella periferia, luogo dove non c´erano come nella madre patria tradizioni sedimentate che fungevano da norma e una popolazione omogenea linguisticamente. La politica e le istituzioni dunque come soluzione di conflitti e stabilizzazione di equilibri di potere fra classi e popolazioni non omogenee. Il lavoro di Hansen sfata poi un altro pregiudizio, ovvero che le polis fossero mondi chiusi e che l´autogoverno crebbe insieme ad un´economia cittadina autarchica (con l´eccezione miracolosa di Atene). Hansen ci mostra che le polis erano centri di scambi, di commerci, di norme, un sistema di inter-dipendenza. L´ideale di federazione europea, che tanto preoccupa gli stati forti dell´unione (forse più di quanto non preoccupi quelli deboli) ha una matrice antica, certo pre-romana. L´idea che il Polis Centre di Hansen sostiene con l´apporto di dati statistici e analisi comparate conferma un´intuizione ideale che ha accompagnato la cultura federalista e repubblicana da Kant a Sismondi al nostro Spinelli. Che cosa resterà di questo ideale è difficile dire oggi; ma è probabile che chi dopo di noi studierà l´Europa potrà constatare che nel ventesimo e parte del ventunesimo secolo i suoi stati si coordinarono e organizzarono per meglio affrontare le sfide del loro tempo e darsi istituzioni comuni. Proprio come molti e molti secoli prima fecero le polis che si affacciavano sul Mediterraneo.

Repubblica 22.5.12
Lega contro Bellocchio il Friuli chiude ai set
Il regista: portiamo il caso in tribunale
di Franco Montini


L’assessore Seganti azzera i fondi già stanziati per il cinema pur di non finanziare il film
"La bella addormentata" è ispirato alla drammatica storia di Eluana Englaro

ROMA È già un caso prima ancora di essere girato il film La bella addormentata di Marco Bellocchio, ispirato alla vicenda di Eluana Englaro. Nel mirino la Regione Friuli, accusata di un atto di censura preventiva, un segno di cultura dell´intolleranza. Così il produttore Riccardo Tozzi e Marco Bellocchio bollano la decisione dell´assessore leghista alle attività produttive del Friuli, Federica Seganti, che ha deciso di azzerare i fondi già previsti e stanziati per l´attività della Film Commission allo scopo di impedire il finanziamento del film di Bellocchio.
I fatti sono questi: Cattleya, società produttrice del film, aveva chiesto e ottenuto dalla Film Commission Friuli un finanziamento di 150mila euro a sostegno della realizzazione di Bella addormentata. Non potendo intervenire nelle autonome decisioni della commissione, l´assessore Seganti ha deciso di tagliare l´intero budget 2012 della Film Commission. «Di fatto - commenta Tozzi - il consiglio regionale del Friuli, che aveva istituito la Film Commission e predisposto la legge di sostegno al cinema, ha deciso di contraddire se stesso, impedendone l´applicazione. Le conseguenze sono devastanti: anni di buon lavoro della Film Commission, che aveva saputo attirare in Friuli produzioni importanti e qualificate, vanno in fumo per la perdita di autonomia e credibilità che le viene inflitta».
La decisione dell´assessore Seganti è arrivata proprio mentre a Cannes l´associazione delle Film Commission Italiane presentava agli investitori stranieri una serie di proposte ed iniziative destinate ad attrarre investimenti cinematografici nel nostro paese. Difficile pensare che, dopo quanto accaduto, i produttori internazionali si fideranno ancora dell´Italia. «A parte la palese illegittimità del provvedimento - commenta Bellocchio - contro il quale ricorreremo per vie legali, fiduciosi di ottenere risarcimento, nell´ingenuo tentativo di mascherare un evidente sospetto di intolleranza nei confronti del mio film, l´assessora Seganti, che ha deciso di intervenire per ragioni strumentali ed ideologiche e fini propagandistici, senza aver neppure letto il copione del mio film, ha finito per creare un danno enorme a tutto il cinema italiano perché in questo modo si è cancellato il sostegno finanziario già stabilito anche ad altri film, a cominciare da quello che sta girando Tornatore». Insomma dopo la querelle sul Festival di Roma, ancora un pessimo esempio di intervento della politica sul cinema.