mercoledì 23 maggio 2012

l’Unità 23.5.12
Passa la proposta Pd
Finanziamento pubblico dimezzato
Sì della Camera: il taglio scatta già con la rata di luglio
Contrari Lega, Idv, radicali e Noi Sud, si astiene Fli
di Natalia Lombardo


I partiti si sono dimezzati i finanziamenti pubblici, da 182 milioni di euro scendono a 91 nel 2012; il taglio della metà scatta da luglio, con il pagamento dell’ultima rata di rimborsi elettorali.
Ieri l’aula della Camera ha votato l’articolo 1 del testo di legge scritto da Bressa del Pd e Calderisi, Pdl, approvato con 372 sì, 97 no e 17 astenuti. Contrari la Lega, i Radicali, Noi Sud e Italia dei Valori. Per il sì hanno votato Pd, Pdl, Udc, Api, mentre Fli si è astenuta, a riprova che il Terzo Polo è finito.
Decisamente soddisfatto Pier Luigi Bersani che per primo aveva proposto il tagli della metà: «Avevo detto dimezzamento e ci siamo arrivati». La settimana prima, quando l’ostruzionismo leghista aveva causato il rinvio del voto, il segretario Pd si era infuriato. Ora «si comincia a vedere qualche fatto. Siamo riusciti ad arrivare a un risultato concreto e vero», ha commentato ieri: «Per noi questa misura vuol dire anche tagliarci un braccio», ha ammesso, «ma la spesa più grossa che affrontiamo è la formazione di 2.000 giovani, nell'iniziativa Finalmente Sud, e quella la salveremo».
Il Pd infatti ha lavorato perché il taglio passasse senza altri tentennamenti, e ieri il voto è stato anticipato per lo slittamento delle nomine per le Authority. Si continua oggi, all’esame anche l’aumento delle detrazioni fiscali per le donazioni ai partiti e alle Onlus.
Ora dei 91 milioni il 70% (63.700.000 euro) andrà come rimborso per le spese elettorali e per l'attività politica. Il restante 30%, cioè 27.300.000 euro, viene erogato a titolo di cofinanziamento. Il taglio ai rimborsi procederà a scalare negli anni, secondo il testo Bressa-Calderisi, e secondo i conti della Ragioneria dello Stato, a regime, nel 2016 i risparmi per lo Stato saranno di 11 milioni di euro.
Nel pomeriggio sono stati bocciati tutti gli emendamenti presentati dalla Lega e da qualche pidiellino per l’abrogazione totale del finanziamento, così da cavalcare l’onda populista contro i partiti, tanto più con il successo di Grillo. Il governo si era rimesso all’aula. «Ancora oggi c'è chi promette una raccolta di firme per una legge che verrà, c'è chi, demagogicamente, perché forse sa che non passerà, mette ai voti un emendamento che dovrebbe cancellare il contributo pubblico ai partiti», ha commentato Michele Ventura, vicecapogruppo Pd che ricorda: «Il Pd si è battuto dimezzamento delle risorse subito, e da subito, il contributo passa da 182 a 91 milioni».
Ma quando è stata bocciata la proposta di non dare più soldi ai partiti nella Rete è scattato il tam tam delle critiche, mentre la Lega con faccia tosta accusava di «bluff» e «demagogia» Pd, Pdl e Udc, che hanno votato contro gli emendamenti. A favore Lega, Idv, Radicali e NoiSud. I deputati di Fli si sono astenuti, propensi ad abolire il finanziamento come «segnale forte» ai cittadini sfiduciati dalla politica. Ma in aula un leghista ha balbettato che «sull’uso che ne hanno fatto i partiti dei fondici sarà un dibattito. Se ne sono viste di tutti i colori». Verde, soprattutto.
È passato invece l’emendamento di Sesa Amici, del Pd, per la parità di genere, che «sanziona» del 5% il partito che presenta un numero di candidati dello stesso genere superiore a due terzi del totale.
SCINTILLE IN AULA
L’atmosfera si è scaldata per un botta e risposta tra Roberto Giachetti e Roberto Maroni: «C’è chi ha preso doppie razioni. La Lega oggi deve tacere», ha detto il deputato del Pd, l’ex ministro leghista gli ha urlato «bravo, bravo» e dai banchi della Lega è volato uno «stai zitto» a Giachetti. E Maroni ha annunciato che oggi La Padania in prima pubblicherà «l’elenco di chi ha votato contro l’abrogazione» dei finanziamenti, la lista di proscrizione.
Tagli anche ai fondi della Camera: il presidente, Gianfranco Fini, ha proposto il taglio del 5%, pari a 50 milioni l’anno su 992: un totale di 150 milioni di risparmi nel triennio 2013-2016.

«Matteo Orfini: “Abbiamo vinto, ma a Parma abbiamo combinato un casino. Non dobbiamo andare dietro all’agenda di Grillo e inseguirlo sul terreno dell’antipolitica, altrimenti non otteniamo altro che legittimarlo e far lievitare i suoi consensi”»
il Fatto 23.5.12
L’angoscia democratica si chiama “Grillo”
Il comico dà a Bersani dello zombie ma il segretario Pd ha problemi in casa
di Wanda Marra


Non facciamoci mettere nel mucchio di tutti gli altri partiti. Dobbiamo riconoscere che il fenomeno da cui nascono i grillini è la grande rabbia che attraversa il paese. E dunque, comprendere le loro ragioni e interpretarle”. Pier Luigi Bersani nella segreteria convocata all’indomani del voto, che ha visto i grillini trionfare a Parma e sparigliare tutte le carte e il Pd vincere ovunque, ma perdere non solo una città che considerava già sua, ma soprattutto la partita rispetto all’astensionismo (i democratici sono stimati al 25,4% su base nazionale), mantiene una linea morbida. Nessun anatema, nessuno sdegno, ma un atteggiamento di fondo dialogante con il Movimento 5 Stelle. D’altra parte, l’aveva già detto lunedì, a risultato conclamato: “Adesso sono un partito. Ci facciano vedere qual è la loro proposta”.
UNA SFIDA, ma anche un’apertura di credito. Che non può che suonare vagamente autolesionista mentre dall’altra parte Beppe Grillo lo insulta “senza se e senza ma”: “Il non morto (ma quasi) di un partito mai nato Bersani ha detto di aver ‘non vinto’ a Parma, Comacchio e Mira. Chiamate un’ambulanza per un TSO”. E mentre lo definisce “il pollo che si crede un’aquila” attacca a man bassa: “Bersani è affranto: non potrà più costruire l’ennesimo inceneritore nella sua Emilia, a Parma non ci sarà un tumorificio come in altre città governate dal Pdmenoelle come con l’ebetino a Firenze (Matteo Renzi, ndr) ”. Per essere più chiaro pubblica la definizione di “morto vivente” (“creatura mostruosa generata dalla resurrezione di un cadavere”) e dice che si può riferire “a vari tipi di creature fantastiche, come ad esempio zombie, vampiri, mummie, o pdmenoellini”. Uno sbeffeggiamento dopo l’altro, mentre invita ad “accompagnare alla prima panchina con un sacchetto di becchime per i piccioni”. Rispetto a cotanta energia, la risposta pacata del segretario Democratico non può che suonare sotto tono: “Grillo stai sereno. Ormai sei un capo partito, devi dimostrare cosa sai fare”. Insomma, la risposta di chi ancora una volta invece di andare all’attacco frontale, sceglie di portare la croce della comprensiva “responsabilità”. Nella segreteria della mattina questa posizione era stata netta. Anche rispetto a richieste d’altro tipo. Esordiva Davide Zoggia, responsabile Enti Locali, analizzando i risultati del voto: “Abbiamo vinto ovunque, tranne a Palermo, dove avevamo una candidata fortissima alle primarie (la Borsellino) ” che avrebbe perso per mala gestione. E a Par-ma, dove “Grillo ha intercettato i voti del Pdl”. Ma sono i 5 Stelle al centro del dibattito democratico. La posizione dura e pura la incarna Matteo Orfini: “Abbiamo vinto, ma a Parma abbiamo combinato un casino. Non dobbiamo andare dietro all’agenda di Grillo e inseguirlo sul terreno dell’antipolitica, altrimenti non otteniamo altro che legittimarlo e far lievitare i suoi consensi”. Non solo, non va sopravvalutato: “Grillo ha vinto solo al Centro Nord”. Morbida appunto la risposta di Bersani. Anche sulla valutazione geografica: “Grillo vince al Nord, perché al Nord si sente di più la crisi”.
SE IN SEGRETERIA altri giovani come Matteo Mauri ed Ettore Martinelli prendono la palla al balzo: “Serve rinnovamento, i 5 stelle vincono se noi siamo gli stessi da decenni”, senza pietà anche il responsabile Economico, Stefano Fassina (Grillo e i suoi vanno prosciugati). Nel resto del partito il dibattito è aperto. Anzi, divaricato. C’è chi come Pippo Civati da anni sostiene che “bisogna occuparsene”, perché “non si può far finta che non ci siano degli argomenti alla base di quel movimento”. E gli emiliani, “freschi” della sconfitta parmense mediano: “La politica è di per sé competitiva e quelli che non sono alleati, sono avversari”, dice Raffaele Donini. Ma con i distinguo tende una mano: “Loro che ormai sono una forza politica matura dovrebbero dissociarsi dal modo di fare politica del loro guru”. In Emilia, il Pd da una parte aspetta i grillini al varco, dall’altra ha un atteggiamento di chi sa di incarnare il potere costituito. Posizione quanto mai scomoda in questa fase. Molto più passionale era stata Rosy Bindi: "Anche Berlusconi ha cominciato con i voti antisistema e ora con Grillo siamo al completamento dell'antisistema”. E se Veltroni è silente, ma chi lo conosce racconta che reputa sbagliata la lettura antipolitica del grillismo, Beppe Fioroni insospettabile: “Loro hanno trovato un nome, 5 stelle, che evoca un albergo di qualità. A me piacciono le novità e con i grillini che ho incontrato io discuto simpaticamente. Su Grillo no comment”. Chissà se alla luce di quel che sta accadendo qualcuno tra i Democratici si sta pentendo del fatto che nel 2009 a Grillo, che voleva iscriversi al partito e poi partecipare alle primarie, fu negata la tessera per “mancanza di requisiti”.

Repubblica 23.5.12
Per chi suona la campana
di Ezio Mauro


La questione non è Grillo. È la richiesta esasperata di cambiamento che i cittadini rivolgono alla politica dopo anni di occasioni perdute che hanno divorato la fiducia nei partiti e nel Parlamento, portandola al livello più basso d´Europa. La crisi fa il resto, erodendo le basi stesse della democrazia, come accade quando la perdita del lavoro si rivela perdita della libertà materiale, senza la quale non c´è libertà civile. Ci si può stupire, a questo punto, se il voto diventa un ciclone in grado di cambiare il panorama politico italiano?
In realtà siamo solo all´inizio. Non ci sono più strutture politiche e culturali in grado di reggere (si chiamavano partiti), lo Stato è indebolito, la democrazia infragilita. Mezzo Paese, addirittura, non crede più nel voto, come se scegliere chi ci governa non fosse importante. Come se il cambiamento fosse impossibile, o peggio, inutile. È facile prevedere che in questa crisi acuta di rappresentanza ogni voto diventerà un redde rationem, ogni antagonista al sistema verrà applaudito, ogni semplificazione sarà premiata. Non si capisce per quale strada e con quali strumenti si potrà costruire una nuova classe dirigente del Paese, perché la protesta non lascia intravvedere nessuna proposta. Ma si capisce benissimo che per la classe dirigente attuale sta suonando il segnale dell´ultimo giro.
Grillo è la spia di tutto questo, ed è una valvola di sfogo.
L´impoverimento progressivo della politica, la sua perdita di efficienza, la sua separatezza dai cittadini ha prodotto negli ultimi anni solitudini civiche sparse, smarrimenti individuali del sentimento di cittadinanza, secessioni personali: la platea italiana ideale per essere radunata ogni volta che la politica si riduce ad uno show, quando la battuta di un comico cortocircuita in una risata una situazione complessa, mentre il cittadino è trasformato in spettatore, la partecipazione diventa audience, la condivisione prende la forma di un applauso. È questa la nuova politica, o è la sua caricatura estrema e paradossale? E tuttavia quanti cittadini delusi e comunque interessati alla cosa pubblica accettano questo elettrochoc per desiderio di cambiamento, per una sacrosanta voglia di facce nuove, di criteri di selezione aperti e trasparenti? Per una domanda - ecco il punto - di autonomia e libertà della politica, aperta alla società e alla sua disponibilità a trovare nuove forme di coinvolgimento, di responsabilità e di impegno?
Il paradosso è vedere ciò che resta dell´armata berlusconiana votare Monti alla Camera, con il rigore e l´austerità, e votare nello stesso tempo Grillo a Parma, con il vaffa e lo sberleffo. Come l´impiccato che compra la corda per il suo boia. Forse il Pdl pensa che i populismi siano tutti uguali, interscambiabili, perché parlano alla pancia degli elettori, ne sollecitano gli istinti, si presentano come alieni al potere, come esclusi, o almeno come outsider. Grillo ha favorito questa scelta, senza mai distinguere tra destra e sinistra, anzi facendo di Parma una questione nazionale ha trasformato il Pd nel suo principale avversario. Ma questo non basta per spiegare la nemesi del grande populista italiano che va politicamente a morire in braccio ad un comico scegliendolo per disperazione come leader-rifugio, mentre qualche anno fa gli avrebbe offerto tutt´al più un ingaggio serale in qualche drive-in.
In realtà il Pdl cammina barcollante come un partito cieco, senza rotta e senza guida, polverizzato nel voto dei cittadini e nel consenso dei gruppi sociali: non esiste più. La crepa che gli scandali privati (in realtà tutti politici) di Berlusconi hanno aperto tre anni fa nel suo rapporto con gli italiani si è allungata fin qui, fino a decretare dentro le urne municipali quella sconfitta definitiva che l´ex premier e i suoi cantori cercano di dissimulare nella larga coalizione che sostiene Monti. Berlusconi ha perso il vero piffero magico che aveva nel ´94, quando è sceso in campo, e che ha conservato in tutti questi anni: il potere di coalizione. Oggi non coalizza più a destra, con la Lega spappolata dagli scandali contronatura, e nemmeno al centro, dove Casini ogni giorno chiude la porta in faccia ad Alfano, perché non intende tornare sotto padrone, finché Berlusconi rimarrà proprietario dei resti del suo partito.
Il potere di coalizione è invece la vera arma che tiene in piedi il Pd, vittorioso in tutti i calcoli elettorali: ma spesso con candidati altrui, come succede a Palermo e Genova dopo Milano e Napoli. Tuttavia il Pd resiste più degli altri partiti, proprio perché ha una naturale capacità di coalizzare a sinistra, con Di Pietro e Vendola, e un´ipotesi addirittura di allargamento al centro, verso un centrosinistra europeo con Casini. In più, Bersani gode della rendita di posizione di chi vede il suo avversario affondare: anche se dovrebbe domandarsi perché della crisi di Berlusconi beneficia spesso (e clamorosamente) Grillo, mentre dopo l´anomalia berlusconiana in un sistema che funziona dovrebbe essere la sinistra ad avvantaggiarsi direttamente della scomparsa della destra.
Tutto questo dovrebbe consigliare al Pd di non fare sonni tranquilli. La spinta al cambiamento investe di petto anche la sinistra, le domande di rinnovamento sono qui anzi più radicali e più motivate. Perché la grande novità rispetto allo sconvolgimento post-Tangentopoli del ´92-94, è che questa volta sono in crisi i valori dell´individualismo, del desiderio, del privato e del liberismo che consentirono a Berlusconi di incanalare a destra il malcontento, di modellarlo sulla sua figura, di ricostruirlo come struttura doppia di ribellione e di consenso per una leadership fortemente anomala rispetto ai partiti moderati e conservatori occidentali. Oggi questa stagione è tramontata, sepolta in Italia dalla prova di malgoverno e dagli abusi, nel mondo dalla crisi. Il sentimento dominante è quello della percezione della disuguaglianza, con il rifiuto della sproporzione di questi anni, della dismisura, con la richiesta di equità, di giustizia sociale. La vera domanda è una domanda di lavoro, e cioè di obbligazione reciproca davanti alla necessità, di legame sociale, di dignità e di responsabilità. Ecco perché la sinistra è direttamente interpellata dall´esigenza di cambiamento, a cui in questi anni non ha saputo rispondere ma a cui non può più sottrarsi oggi. O si cambia, semplicemente, o si muore. Bisogna ridare un senso alla politica, alla funzione democratica dei partiti, rendendoli forti perché contendibili, sicuri perché scalabili, finalmente aperti. Bisogna recuperare "l´onore sociale" dei vecchi servitori dello Stato, il potere in forza della legalità, in forza della "disposizione all´obbedienza", nell´adempimento di doveri conformi ad una regola. Il senso dello Stato e del suo servizio: separandosi - e già il ritardo è colpevole - dagli abusi dei costi troppo alti della politica, dai riti esibiti del potere, da tutto ciò che rende la classe politica "casta", cioè qualcosa di indistinguibile, che nel privilegio e nella lontananza annulla opzioni, voti e scelte diverse, che pure esistono, e contano. Se il Pd pensasse che la domanda di cambiamento radicale della politica non lo riguarda, si suiciderebbe consegnando il campo all´antipolitica. Anche perché la geografia dell´Italia che andrà al voto non sarà quella di oggi. Il vuoto e i voti in libertà a destra cercano un autore, un padrone, un idolo, magari anche soltanto un leader: e qualche nuovo pifferaio sta sicuramente preparando il suo strumento. Se il Pd non cambia, rischia di risultare vecchio davanti a qualche incarnazione post-berlusconiana spacciata come novità.
L´antipolitica genera storie più che biografie, personaggi più che uomini di Stato, semplificazioni più che progetti. Ma un Paese disorientato e disancorato da ogni tradizione politica e culturale occidentale, può finir preda di qualsiasi illusione. Perché l´antipolitica è sempre la spia dell´indebolimento di un sentimento pubblico e di una coscienza nazionale. Per questo l´establishment italiano (che prepara la corsa ad ereditare qualche spazio politico di supplenza dal vuoto dei partiti) non può ritenersi assolto gettando tutte le colpe sulla politica: ma deve rendere conto di questo deficit complessivo di rappresentanza, di questo improverimento del sistema-Italia, dello smarrimento di ogni spirito repubblicano condiviso. O si cambia, o la campana suona per tutti.

il Fatto 23.5.12
Caduta libera
Astensionismo record e fuga dai partiti Oltre il 14% di votanti in meno del primo turno
di Luca De Carolis


Da piccolo, fisiologico numero, a una doppia e ingombrante cifra. L’astensionismo in Italia si è gonfiato con gli anni, sino a diventare un protagonista di queste amministrative. Tra domenica e lunedì il 49% degli aventi diritto, sbuffo più sbuffo meno, non è andato a votare. Un crollo di oltre il 14% rispetto al primo turno, e di oltre il 12% rispetto ai ballottaggi del 2007. Cifre che valgono un tasso di astenuti tra i più alti dal dopoguerra ad oggi. Anche se la natura delle amministrative (con un campione di elettori molto variabile) rende arduo stilare classifiche sul vuoto nelle urne. La certezza è la voragine scavata da disaffezione e protesta. Quasi smisurata, se confrontata a quel 6,6% di astenuti del 1976, l’anno delle Politiche con il maggior numero di voti espressi.
LA CRISI INIZIA subito dopo, sul declinare degli anni ‘70 della crisi economica e del terrorismo. E, calo dopo calo, porta i votanti alle Politiche molto sotto quota 90%. Di gran lunga più bassa la soglia nelle amministrative, che pure sono le elezioni più affollate dopo quelle per Camera e Senato. Ma la caduta verticale dei ballottaggi, pure fiutata dai sondaggisti, supera le più pessimistiche previsioni.
E pone scenari sinora inediti, agli elettori come agli analisti. Gianluca Passarelli, dell’Istituto Cattaneo, segnala: “In questi ballottaggi, l’astensionismo è stato superiore al Nord, con la punta eclatante di appena il 39% di votanti a Genova. Ed è una novità importante: sinora, gli astenuti erano stati pressoché sempre di più al Sud”. Il calo nelle urne ha sovvertito le più elementari geografie elettorali. Passarelli non nasconde la sorpresa per le dimensioni dell’astensione: “Di solito, tra il primo e secondo turno il calo di votanti oscilla tra il 2 e il 5%. E poi, l’anno scorso c’era stato un referendum con percentuali enormi”. Passa alle conseguenze. Evidente il prezzo altissimo pagato da Pdl e Lega, franati soprattutto sopra Roma. Ma a colpire sono sempre i casi di Par-ma e Genova. “In entrambe le città, i voti della Lega sono andati in buona parte ai grillini” sostiene Passarelli, convinto che i bacini elettorali dei due movimenti “si fiutino parecchio”. Lo confermerebbe non solo la vittoria di Federico Pizzarotti a Parma, ma anche il ballottaggio sfiorato a Genova dal grillino Paolo Putti. Supportato, secondo il Cattaneo, da un abbondante 20% di elettori leghisti. Mentre un terzo di elettori della Lega è rimasto a casa. La società Demos, assieme a LaPolis, ha riassunto i ballottaggi in una teoria di tabelle. La percentuale di voti per i singoli partiti su scala nazionale (in 157 Comuni, sopra i 15mila abitanti), ovvero la percentuale più precisa che si può fare, colpisce l’occhio. Il Pd guida la classifica con un fiacco 15,7%, mentre il Pdl affoga al 12,2% e la Lega agonizza al 2,4%. L’Udc non può ridere con il suo 6%, mentre il Movimento 5 Stelle può brindare per parecchio con l’8,3%. Fabio Bordignon (LaPolis, università di Urbino) mette in chiaro: “Le Amministrative sono elezioni molto particolari, con un forte peso delle liste civiche e alleanze talvolta molto particolari”. Il raffronto con Regionali e Politiche insomma è impervio. Ma la conta dei voti, e soprattutto dei Comuni passati da uno schieramento all’altro, qualcosa dice. Su 26 capoluoghi di provincia, 15 sono di centrosinistra, sei di centrodestra e solo uno va in dote alla Lega. L’Udc si consola con due città, Cuneo e Agrigento, mentre a Belluno vincono liste civiche.
IL CASO Parma, è noto. “Il Pd può dire di aver vinto” traduce Bordignon, che però aggiunge: “Ad aiutare i Democratici in molti casi è stata la coalizione di centrosinistra. O meglio, la sua permanenza in un certo schema di alleanze, in diverse realtà locali”. Passaggio successivo: la foto di Vasto è un totem da non sfiorare? Bordignon ci va cauto: “Bisogna vedere come potrebbe funzionare in uno schema nazionale, per le Politiche. Con equilibri e numeri molto diversi”.

il Fatto 23.5.12
Il paradosso democratico: perdere vincendo
di Pino Corrias


A PARTE L’ALLEGRO Fassino che governa nell’ombra la lucentezza di Torino, non c’è una sola grande città che il Partito democratico di Pier Luigi Bersani guidi con forze proprie e quel che più conta con un progetto proprio, qualche nuova idea, magari lontana dalle banche, dai banchieri e da quegli apparati che campano sulle ruote dei rimborsi elettorali. Anche in questo giro sono riusciti a perdere vincendo. Hanno perso Parma con una miopia così selettiva da sfiorare il masochismo. Non hanno capito gli umori di Palermo, restituita a Orlando. E a Genova non hanno azzeccato il candidato. Bersani oggi si rallegra delle vittorie di Budrio e Garbagnate, beato lui. Ma alle scorse amministrative suonava la stessa musica in quelle grandi città che sono lo spartito della nazione. A Milano puntavano su Stefano Boeri e ha vinto Pisapia. A Napoli contrastavano a brutto muso De Magistris. A Cagliari non volevano saperne del giovane Zedda. A Roma sono riusciti nell’impossibile: perdere contro il tetro Alemanno, uno che gira con la croce celtica al collo, puntando sull’unico candidato in grado di fare l’impresa: Rutelli, quando ancora si rimborsava il pranzo e la cena con il suo amico Lusi.

La Stampa 23.5.12
Primarie in autunno Democratici in agitazione
Renzi di nuovo all’attacco. E Serracchiani: rinnoviamoci o si muore
di Fe. Ge.


Matteo Renzi Il sindaco di Firenze: «In vista delle politiche del 2013 è strategico avviare subito la discussione perché si arrivi alle primarie già in autunno...»

Non si sa ancora quando si voterà; non si conosce la legge elettorale con la quale si tornerà alle urne per rieleggere Camera e Senato; sono ancora incerte - per usare un eufemismo - le alleanze (o, nel caso, le coalizioni) che saranno portate al giudizio degli elettori: eppure - alla maniera di un fiume carsico e nonostante le ripetute assicurazioni di disponibilità fornite da Bersani - la discussione nel Partito democratico sulle primarie per la scelta del candidato-premier torna a far capolino, rischiando di seminare nuovo nervosismo.
A mezza voce se ne è tornato a parlare all’indomani del turno di ballottaggio che pure, per quanto riguarda proprio il rapporto Pd-primarie, non è che abbia consegnato indicazioni particolarmente brillanti. A Genova, infatti, è stato eletto sindaco il candidato che aveva battuto alle primarie i candidati Pd (sindaco uscente compreso) ; a Parma è stato invece sconfitto da Federico Pizzarotti (Movimento 5 stelle) l’esponente pd che - al contrario - era uscito vincitore dalle primarie; e a Palermo, infine, è stato eletto sindaco Leoluca Orlando, che alle primarie non aveva partecipato affatto e che ha poi stracciato il giovane candidato Pd (Fabrizio Ferrandelli) che quelle primarie le aveva vinte...
Ce ne sarebbe a sufficienza, insomma, per qualche riflessione intorno allo strumento ed al suo uso: a partire dal funzionamento e dall’efficacia di questo tipo di consultazione nelle città. La discussione, invece, si va rapidamente spostando sul livello nazionale: sulle vie e i metodi, insomma, per scegliere il futuro candidato del Partito democratico alla guida del Paese.
A riaprire la querelle ci ha pensato, naturalmente, Matteo Renzi, che non fa mistero di considerare le primarie uno strumento essenziale e magari di volersi addirittura candidare (la conclusione del suo ultimo libro, «Stil Novo», lascia pochi dubbi: «Non so come andrà a finire la mia esperienza di governo a Firenze, né che sapore avrà la sfida per cambiare il Paese. So che prima o poi ci proveremo. Col sorriso sulle labbra... ». In una intervista a «Il Mattino»”, Renzi dice di ritenere che il Pd sia addirittura già in ritardo: «In vista delle politiche del 2013 è strategico avviare subito una discussione perché si arrivi alle primarie già in autunno... Bersani non può pensare di non farle».
In verità, il leader del Pd non ha mai affermato di non volere le primarie per la scelta del candidato premier. Si è limitato a ricordare - anzi - di esser stato eletto segretario proprio attraverso le primarie e che lo Statuto del Pd prevede che sia appunto il leader del partito il candidato alla guida del governo. Certo, non ha mai nemmeno detto che le primarie si terranno certamente e che si svolgeranno in autunno (così da dare tempo al candidato vincente di preparare strategia, programma e squadra per le elezionivere): ed è questo, forse, a tenere aperta una incertezza (o addirittura una ambiguità) che, secondo molti, sarebbe meglio rimuovere quanto prima.
Veltroni non ha mai fatto mistero di considerare le primarie elemento fondante del nuovo partito. E ieri Debora Serracchiani, commentando la sconfitta di Parma, ha lanciato un messaggio chiaro al segretario del partito: «Non nascondiamo la testa sotto la sabbia: il risultato di Parma offusca ogni altra vittoria del Pd... Dopo questo voto, il motto “rinnovarsi o morire” non è una critica alla segreteria ma una proposta concreta... ».

Repubblica 23.5.12
Renzi
“Il Pd si illude di aver vinto: senza gesti forti grillini al 20%"
di Giovanna Casadio


Una cosa dovrebbe essere tassativa: chi è già stato candidato tre volte, alle prossime politiche si fa da parte. E niente deroghe
Per riguadagnare terreno servono scelte simboliche: per esempio rinunciare all’ultima rata dei rimborsi e destinarla ai terremotati

ROMA - Sindaco Renzi, Grillo la chiama “l’ebetino di Firenze", lo sa?
«Me lo dice da un paio d´anni, è un´espressione alla quale mi sono affezionato».
E sempre Grillo attacca Bersani: forse non le dispiace?
«Dal mio punto di vista, Grillo è ingrato se attacca Bersani, perché deve tutto il suo successo alle incertezze dei dirigenti dei partiti tradizionali. Il trionfo del MoVimento 5 Stelle deriva dal fatto che i partiti tradizionali non hanno colto la richiesta di cambiamento profondo che viene dalla gente. Quando due anni fa abbiamo parlato di "rottamazione", ci hanno dato dei maleducati. Dopo vent´anni che le stesse facce stanno in Parlamento, che i partiti cambiano nome e simbolo però i problemi restano uguali, o si ha il coraggio di una radicale rivoluzione delle forme della politica e dei volti dei politici, oppure ci troviamo Grillo al 20%».
Il Pd ha vinto "senza se e senza ma" queste amministrative?
«Pd ha vinto la sfida dei numeri, ma non ha convinto nella sfida politica. Se Bersani e i suoi colleghi segretari di partito si rendono conto che la somma di astenuti, grillini e outsider rende i partiti, tutti insieme, minoranza nel paese, allora abbiano il coraggio di alcuni cambiamenti simbolici subito. Rinunciare ad esempio, all´ultima tranche di finanziamento ai partiti a luglio, destinandola ai terremotati. Il governo ha stanziato i primi 50 milioni, i partiti possano raddoppiare la posta. C´è bisogno di segnali netti, se no non si va da nessuna parte».
E vincono i grillini.
«I grillini che vanno al governo di una città per me sono una benedizione, così anche loro si mettono alla prova. Vedremo inoltre, come risolveranno le discussioni che già ci sono al loro interno. Il successo dei grillini da un lato, di Pizzarotti che ha due anni più di me a Parma, ma anche di tanti under 40 dello stesso Pd, segnala che la questione generazionale è ormai impostata. Ora ci vuole il confronto sui progetti, e il terreno in cui si gioca questa partita sono le primarie».
Lei si candiderà?
«Di cosa faccio io, non gliene frega nulla a nessuno».
Però risponda.
«È secondario se mi candido o meno. Aggiungo che non è che sono un feticista delle primarie, ma ci vuole il ricambio generazionale».
Ricambio generazionale con chi? Con Matteo Richetti, presidente dell´assemblea regionale emiliana, Andrea Ballarè, sindaco di Novara, Graziano Delrio, presidente dell´Anci, Roberto Reggi, ex sindaco di Piacenza, Jacopo Massaro, neo sindaco di Belluno? E nel ricambio c´è anche Chiamparino?
«Non partecipo al festival delle figurine Panini, tipo: metti due sindaci della provincia al posto di D´Alema e Veltroni... però una cosa è certa: chi è stato candidato tre volte, alle prossime politiche salta, niente deroghe».
Uscirebbe dal Pd, se non ci fossero le primarie?
«Non esco dal Pd neanche se mi cacciano, questa è casa mia. Mi chiamano sondaggisti tre volte al giorno e mi dicono: "Matteo, questa è la tua grande occasione, hai un´autostrada". Il Pdl ormai lo puoi trovare solo alla trasmissione "Chi l´ha visto" - anche se io temo le trovate di Berlusconi. Ma non mi interessa l´ambizione personale. Ci si contende la leadership nel partito. Non sono tentato da nessun tipo di lista civica né di visione cinica. Noi - un gruppo di amministratori di diversa provenienza geografica, anagrafica, culturale - chiediamo al segretario Bersani di aprire una leale competizione interna convocando le primarie aperte a tutti i cittadini a ottobre/novembre».
Sta dicendo a Bersani: «Fatti da parte»?
«Al contrario. Sto dicendogli: «Vieni dentro». Ma non si pensi che bastino le primarie vinte nel 2009 per avere risolto il problema della leadership: quella era un´altra epoca. Né pensino i capi corrente romani di vivere questo passaggio come il loro ultimo giro di giostra».
Alleanza con Vendola o con Casini?
«È un modello vecchio quello in cui si decidono le alleanze a tavolino. Qui a Firenze io sto con Sel e non con l´Udc. Ma alle primarie chi vince fa il programma. E se il Pd fa il suo mestiere, attrae sia i moderati che quelli di sinistra più radicale, non parlando ai leader ma alla gente».

Repubblica 23.5.12
De Benedetti
"I democratici ora riflettano sulla frattura cittadini-partiti"


ROMA - «Bersani ha detto di aver vinto "senza se e senza ma", io dico che ha avuto un buon risultato in alcune città, ma con candidati talvolta non nelle intenzioni del partito». Così Carlo De Benedetti, presidente del Gruppo editoriale l´Espresso. «Non vorrei che, a fronte delle dichiarazioni di vittoria, non ci si rendesse conto della frattura profonda tra cittadini e rappresentanza politica. Anche nel Pd questo richiede profondi cambiamenti per ritrovare il dialogo con i cittadini».

l’Unità 23.5.12
Emiliano, Travaglio, Ginsborg e gli altri
A ciascuno la sua lista civica
Mentre Di Pietro e Vendola chiedono al Pd di stringere i tempi sul programma dell’alternativa proliferano nuove formazioni e movimenti
di Maria Zegarelli


Anche da “Repubblica” caldeggiano un’iniziativa da affiancare al Pd. Intanto Enrico Letta si fa fotografare con i leader Sel e Idv: è la «foto vasta»

All’indomani del voto amministrativo Nichi Vendola arriva a Montecitorio, incontra Antonio Di Pietro e insieme annunciano che chiederanno un incontro con Pier Luigi Bersani «si deve dare una mossa»per iniziare a mettere nero su bianco il programma dell’alternativa. Ed ecco che proprio davanti la sala stampa della Camera passa Enrico Letta, abbraccio e click! un cellulare immortala il momento. Dalla foto di Vasto che Di Pietro rilancia oggi più di ieri a quella «vasta», cioè allargata a quel mondo dei moderati a cui Letta non smette di guardare. Ma lo scatto finisce su Facebook e poi su twitter, insomma fa notizia. Letta ha cambiato idea su Di Pietro? No. Vendola, poi, si affretta a segnare il confine che rende così complicato il gioco di incastri. A proposito dell’Udc, a cui Letta guarda, il governatore ragiona: «La geografia del voto dal punto di vista delle alleanze è molto mossa. L'alleanza di centrosinistra classica miete i successi più significativi. Quando confonde invece le acque, si muove con il piombo nella ali e non riesce a volare». E anzi, «puzza di conservatorismo» quando conia alleanze «ibride». Per questo, dice, «ora si tratta di superare le alleanze territoriali con Pd e Idv con una più convinta alleanza a livello nazionale che sia capace di intercettare la questione sociale rappresentata dalle troppe ingiustizie». Incalza di Pietro: «Dove eravamo uniti il centrosinistra ha vinto. Dove il Pd ha voluto fare da solo, come a Palermo e Parma, è stato sconfitto. Per questo rilancio una alleanza riformista sulla prospettiva della giustizia sociale e del lavoro».
LE LISTE CIVICHE NAZIONALI
E mentre i due leader lanciano l’appello a Bersani per dare il via al «cantiere dell’alternativa» in vista del 2013, altrove si lavora per cercare di intercettare quell’enorme fetta di elettori che hanno abbandonato il voto e la fiducia verso i partiti. Variano i soggetti, i promotori, ma la formula è la stessa: il listone. Valutazione elettorale: 20% di consensi. Il sindaco Michele Emiliano che lanciò l’idea lo scorso gennaio aprendo anche al Terzo Polo l’altro ieri è tornato alla carica: «Spero che Bersani e D'Alema ammettano che li avevo avvertiti: la lista civica nazionale composta dall'Italia migliore è indispensabile» ha cinguettato dopo la vittoria del candidato di Grillo a Parma. Idea che è sempre piaciuta al suo collega di Napoli, Luigi De Magistris, convinto, soprattutto dopo le amministrative, che «sia necessario un nuovo soggetto politico di centrosinistra» ma aperto anche ai grillini, perché ormai, dice, «vengono premiate le persone non più i partiti. Straordinario in tal senso il risultato di Leoluca Orlando a Palermo, un’affermazione che fa capire bene il crollo delle primarie così come concepite finora». Ipotesi, quella del listone che viene vista dal Nazareno con una certa preoccupazione, il partito dei sindaci, ma che non dispiace a molti primi cittadini, come Massimo Zedda, il giovane sindaco di Cagliari ma che vede contrario il collega di Firenze Matteo Renzi. E se al Pd hanno lasciato cadere nel vuoto la proposta di Emiliano anche nell’Idv non è che scalpitino: è evidente che una scesa in campo di De Magistris non sarebbe affatto gradita da Di Pietro.
Poi, c’è «Alba» (per un soggetto politico nuovo, alleanza lavoro beni comuni), un manifesto firmato da alcuni professori, tra cui Paul Ginsborg, Ugo Mattei (autore del libro «Beni comuni», pubblicato da Laterza), Paolo Cacciari, Luciano Gallino, Stefano Rodotà, Guido Viale e Alberto Lucarelli, assessore ai Beni comuni del Comune di Napoli. Anche in questo caso l’obiettivo è quello di presentarsi alle elezioni per rivolgersi ai disamorati dei partiti in cerca di nuova rappresentanza. «Sarebbe ora di riattivare scrivono i profe riapplicare quella rivoluzionaria intuizione del movimento delle donne degli anni ’60 e ’70: il
“personale è politico”».
Il 27 maggio a Roma primo incontro nazionale «Per una lista civica nazionale», promosso da una rete di cittadini, associazioni,, movimenti, liste civiche (tra cui Associazione Articolo 53, Azione Civica per l’Umbria, Cittadini Ecologisti, Cittadini Esasperati, Codifas, Coscienza Comune, Ecoistituto del Veneto, Federazione Civica. Noi Meridionali, Partito Umanista) per un nuovo soggetto elettorale per le prossime elezioni politiche mentre Elio Veltri, Marco Travaglio, Oliviero Beha, Dario Fo, e molti altri intellettuali, hanno lanciato il Manifesto per la Riforma della politica. Scopo: arrivare alle elezioni del 2013, con «una lista nazionale fuori dai partiti», come spiega Veltri. E infine, dalle colonne di Repubblica, Eugenio Scalfari lo scorso 13 maggio ha sponsorizzato l’idea di una «lista civica apparentata con il Pd (fuori tutti gli altri) e rappresentativa del principio di legalità». In molti hanno pensato al coinvolgimento di Roberto Saviano, oltre a diverse firme di largo Fochetti con aspirazioni politiche. I più maligni lo hanno già definito il partito di Repubblica.

l’Unità 23.5.12
Gli appelli alla politica dei sostenitori dell’antipolitica
di Francesco Cundari


SUI GRANDI QUOTIDIANI CHE IN QUESTI MESI HANNO MAGGIORMENTE SOSTENUTO IL GOVERNO MONTI, BUONA PARTE DEI COMMENTATORI si è esercitata ieri in quello che è ormai un vero e proprio topos del giornalismo italiano: l’appello alla politica affinché riformi se stessa. Lo spunto di attualità, questa volta, era offerto dai risultati del secondo turno delle elezioni amministrative, ma l’effetto prodotto dalla combinazione di notizie nuove e impreviste con i canoni classici di un genere ormai codificato era davvero singolare: di fatto, molti autorevoli commentatori partivano dall’affermazione che i ballottaggi avevano segnato la sconfitta di tutti i partiti che sostenevano il governo Monti e si concludevano con l’affermazione che i partiti, per rispondere alla richiesta di cambiamento venuta dagli elettori, dovevano sostenere di più il governo Monti.
Sulla stessa linea si è schierato subito Pier Ferdinando Casini. «Il modo migliore per recuperare il terreno perduto e rispondere all’ultima chiamata che il successo di Grillo e del Movimento 5 Stelle ha rivolto alle forze politiche – ha dichiarato ieri il leader dell’Udc – è fare le cose concrete come i decreti per pagare i debiti della Pubblica amministrazione verso le imprese, fare la legge anticorruzione o dimezzare il finanziamento pubblico ai partiti. Esattamente quello che in queste ore stanno facendo governo e maggioranza». Appunto.
Va detto che non da oggi, ma sin dalla formazione del governo tecnico, Casini ha scelto di caratterizzarsi come il suo maggiore sostenitore. Dunque non può stupire che si unisca al coro di chi vede persino nei voti per Grillo la richiesta di un maggiore sostegno a Monti (con buona pace di Grillo e dei grillini, e di tutto quello che hanno fatto, scritto e detto fino a oggi). Tanto meno può stupire che a sposare una simile lettura del voto,
che di fatto assolve il governo e condanna i partiti che lo sostengono, sia il presidente del Consiglio. Quello che stupisce è che una simile teoria sia avanzata da tanti autorevoli analisti e commentatori nel momento stesso in cui fanno appello alla politica – sempre intesa come unico insieme omogeneo, comprendente tutti i partiti – affinché accolga la richiesta di cambiamento evidenziata dal successo del Movimento 5 stelle.
Ora, se l’intero repertorio della propaganda grillina dovesse essere riassunto in un solo slogan, non può esserci dubbio sul fatto che si tratterebbe del buon vecchio «sono tutti uguali». Di conseguenza, il modo più semplice di rispondere alla richiesta di cambiamento espressa dagli elettori con il voto ai grillini sarebbe anzitutto quello di togliere il sostegno al governo Monti e tornare a dividersi nel modo più radicale.
Fino a oggi il Pd ha tentato di mantenere un difficile e sempre precario equilibrio tra sostegno a Monti in nome del superiore interesse nazionale (in breve: evitare la bancarotta dello Stato) e battaglia politica e parlamentare sui singoli provvedimenti (anche con successi non trascurabili, come sull’indicizzazione delle pensioni minime prima e sull’articolo 18 poi). Ma non può non pagare il prezzo di una posizione scomodissima, com’è quella di chi è costretto ogni giorno a rispondere di decisioni su cui può esercitare soltanto una parziale influenza, condivisa per giunta con gli avversari.
Gli appelli alla politica che dovrebbe ascoltare la richiesta di cambiamento, da parte di quegli stessi commentatori che esortano il Pd ad appoggiare senza un fiato qualsiasi proposta del governo, somigliano sempre di più alla classica invocazione dello spadaccino Tecoppa: «Fermati, che t’infilzo». E nascondono una concezione della politica che al cambiamento è del tutto impermeabile: l’idea cioè che la ricetta delle riforme e del rinnovamento sia una sola, la stessa di sempre. E che i partiti – tutti i partiti – non debbano fare altro che applicarla.

l’Unità 23.5.12
Pedofilia
La Cei: non c’è obbligo di denuncia
R.M.


CITTÀ DEL VATICANO I vescovi non sono pubblici ufficiali e pertanto non hanno obbligo di denuncia di fronte a presunti casi di pedofilia. Ma devono però collaborare con le autorità civili ed anche aiutare le vittime a sporgere denuncia. Lo stabilisce il documento presentato ieri all’assemblea generale dei vescovi italiani. Ieri lo ha annunciato ieri il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, che presentando i lavori dell’assise ha spiegato che «formalizzare l’obbligo di denuncia per i vescovi avrebbe significato introdurre qualcosa che contrasta con l’ordinamento del diritto canonico».
La Chiesa italiana si adegua. Fa sue le indicazioni della Congregazione per la Dottrina della Fede e con le «Linea guida sui casi di abusi su minori» presentate ieri e ora anche formalmente operative, indica a ciascun vescovo come procedere in caso di preti pedofili. Si continua a non enfatizzare il problema e a presentare una Chiesa in grado di fronteggiare il fenomeno senza ricorrere a strumenti straordinari. Così a differenza di altre conferenze episcopali, in particolare quella tedesca indicata come modello nella lotta contro la pedofilia, non prevede l’istituzione di uno «sportello» nazionale con un vescovo che potesse essere punto di riferimento per le vittime. «In Italia non se ne sente il bisogno visto il rapporto stretto che si ha con la Congregazione per la Dottrina della Fede. La situazione è sotto controllo» ha assicurato monsignor Crociata ribadendo che le competenze per ciascuna diocesi sono tutte nelle mani dei singoli vescovi ed anche le eventuali responsabilità.
Quindi ha fornito la mappa dei «casi di pedofilia» emersi nell’ultimo decennio. Sono stati 135 i sacerdoti «segnalati all’ex Sant’Uffizio». Di questi 53 sono state le condanne «canoniche», quattro le assoluzioni e i restanti casi risultano ancora «in istruttoria». Di questi 135 casi 77 sono state le denuncie alla magistratura ordinaria con 22 condanne in primo grado, 17 in secondo, 21 patteggiamenti, cinque assoluzioni e 12 archiviazioni.
La Chiesa assicura Crociata presta la massima attenzione alla «prevenzione e alla formazione» del clero, anche per quei preti accusati di pedofilia. Per loro sono previsti percorsi di recupero, anche periodi di isolamento. Ma non torneranno alla pastorale ordinaria. Non potranno più avere contatti con i minori. Alle vittime è assicurato pieno sostegno.

Corriere 23.5.12
Cei, le linee guida sulla pedofilia «Non c'è l'obbligo di denunciare»
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — Un vescovo in Italia «non è un pubblico ufficiale» e quindi «non ha l'obbligo giuridico» di denunciare alle autorità civili un prete pedofilo, ma questo la Cei lo aveva detto fin dall'inizio. Eppure il testo delle «linee guida» antipedofilia, presentato ieri, non mancherà di far discutere, anche perché è molto più tiepido di documenti analoghi presentati in questi mesi dai vescovi in altri Paesi, a cominciare dalla collaborazione con le autorità civili. E non è tanto per il riferimento all'articolo 200 del codice di procedura penale sul «segreto professionale» o alla revisione del Concordato dell'84, dove all'articolo 4 si dice che «gli ecclesiastici» non sono tenuti a dare a magistrati e altre autorità informazioni conosciute «in ragione del loro ministero». La Congregazione per la dottrina della fede, l'anno scorso, aveva chiesto a tutte le conferenze episcopali di preparare entro maggio 2012 linee sul modello di quelle dell'ex Sant'Uffizio. Già si era detto che avrebbero tenuto conto delle diverse legislazioni: in Italia non ci sarebbe stato l'obbligo previsto ad esempio in Germania o in Irlanda. Eppure, di là dall'obbligo formale, resta la «responsabilità morale» perché «il principio deve rimanere lo stesso», diceva il cardinale William Levada, prefetto della Congregazione. Il vescovo che non denuncia può raccomandare alle vittime di farlo, o intimare al pedofilo di costituirsi. Nel testo approvato dal consiglio della Cei non compare nessuna raccomandazione in tal senso, anche se il segretario generale Mariano Crociata rassicura: «C'è un'assoluta volontà di collaborare che sta nell'azione ordinaria». Del resto «non possiamo chiedere a un vescovo di diventare un pubblico ufficiale» perché «contrasta con l'ordinamento». Così il testo scritto si limita a dire che «risulterà importante la cooperazione del vescovo con le autorità civili» solo nel caso in cui siano già «in atto indagini o sia aperto un procedimento penale». I vescovi «sono esonerati dall'obbligo di deporre o di esibire documenti» su quanto conosciuto «in ragione del loro ministero», gli atti canonici non possono essere sequestrati, l'«archivio segreto» del vescovo è «inviolabile». L'unico responsabile nella diocesi è il vescovo, non si prevedono né referenti nazionali né sportelli diocesani per segnalazioni né i programmi di «assistenza spirituale e psicologica alle vittime» suggeriti dalla Santa Sede. Per lo più si parla delle norme canoniche. Il testo è stato comunque visto dall'ex Sant'Uffizio, «passaggio informale ma autorevole». In compenso la Cei ha fornito per la prima volta dati sui preti pedofili. Tra il 2000 e il 2011 risultano 135 casi, solo 77 quelli denunciati alla magistratura: non si sa quanti degli altri 58 fossero prescritti e quanti invece ignoti alle autorità italiane.

il Fatto 23.5.12
Pedofilia, il clero non denuncia
I vescovi non vogliono indagare
di Marco Politi


Molte parole, ottime intenzioni, nessun meccanismo concreto per portare alla luce i crimini di pedofilia commessi dal clero attraverso i decenni. Le Linee-guida “per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici”, emesse ieri dalla Conferenza episcopale italiana, deludono quanti dentro e fuori la Chiesa cattolica si aspettavano che anche in Italia l’istituzione ecclesiastica si attrezzasse per rendere efficacemente giustizia alle vittime e scoprire i criminali nascosti al proprio interno. Si fa prima a elencare quello che non c’è nel documento che indicare le novità. Positivo è certamente l’incitamento ai vescovi a essere sollecitamente disponibili ad ascoltare le vittime e i familiari, ad offrire sostegno spirituale e psicologico, a proteggere i minori e a procedere immediatamente ad una “accurata ponderazione” della notizia del crimine per aprire altrettanto rapidamente un’indagine ecclesiastica. Poi, se del caso, si passa al processo diocesano, allontanando nel frattempo il prete da ogni contatto con minori per evitare il “rischio che i fatti delittuosi si ripetano”.
DOPO DUE anni di riflessione e un anno di elaborazione del testo, la Conferenza episcopale si ferma qui. Chiudendo ostinatamente gli occhi di fronte alle esperienze più avanzate realizzate in altri paesi come gli Stati Uniti, la Germania, l’Austria, il Belgio, l’Inghilterra. In Belgio e in Austria hanno formato commissioni di inchiesta nazionali, guidate da personalità laiche indipendenti? Pollice verso dei vescovi italiani. In Germania esiste un vescovo incaricato a livello federale di monitorare il dossier pedofilia e di intervenire nelle diocesi – diciamo così – poco attente? In Italia non se ne parla nemmeno. In Inghilterra operano gruppi di vigilanza nelle parrocchie? La Cei si guarda bene dal suggerirlo. Nella diocesi di Bressanone era stato istituito un indirizzo mail e un referente per le vittime? La Cei non istituisce neanche questo piccolo strumento operativo.
Don Fortunato Di Noto, il prete siciliano impegnato nel contrasto alla pedofilia, aveva proposto che in tutte le diocesi venisse istituito un “vicario per i bambini”, una sorte di angelo custode per prevenire e vigilare. Proposta cestinata. Spira in tutto il documento un vento difensivo, concentrato nel respingere interventi energici delle autorità giudiziarie. “Eventuali informazioni o atti concernenti un procedimento giudiziario canonico possono essere richiesti dall’autorità giudiziaria dello Stato, ma non possono costituire oggetto di un ordine di esibizione o di sequestro”. È la paura che – come è accaduto in America – i tribunali possano ottenere la documentazione delle manovre che hanno portato a insabbiamenti. Impedito anche l’accesso agli archivi vescovili.
Altrove nel mondo gli episcopati si preoccupano di approntare anche un equo risarcimento per le vittime. Le Linee-guida si preoccupano di proclamare che “nessuna responsabilità, diretta o indiretta, per gli eventuali abusi sussiste in capo alla Santa Sede o alla Conferenza episcopale italiana”. Il culmine del documento si raggiunge nell’affermazione lapidaria che nell’ordinamento italiano il vescovo non riveste la qualifica di pubblico ufficiale e perciò “non ha l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti”.
È vero, in Italia l’obbligo non c’è. (Lo potrebbe introdurre il Parlamento!) Ma come dimenticare le migliaia di vittime soffocate dal silenzio. Sarebbe stato un gesto di responsabilità se la Cei, liberamente, avesse impegnato tutti i vescovi a denunciare i criminali. Non accadrà. Nonostante episodi vergognosi di inrzia verificatisi in passato. Si chiama – lo si legge nelle Linee – “rispetto della libertà della vittima di intraprendere le iniziative giudiziarie che riterrà più opportune”. Dice mons. Crociata, segretario della Cei, che non va dimenticato che gli abusi del clero sono un “delitto”. Aggiunge che la pedofilia è un fenomeno che “purtroppo ha un’estensione enorme e richiede uno sforzo collettivo per combatterlo” e che la cooperazione tra autorità ecclesiastiche e civili è prassi.
MA QUANDO gli si chiede perché i vescovi non sentono il dovere della denuncia, risponde: “Non possiamo chiedere al vescovo di diventare un pubblico ufficiale”. Una spiegazione razionale, giuridica o evangelica non c’è. C’è solo la grande paura dell’episcopato italiano di affrontare un bagno di verità. Dopo due anni (due anni!) la Cei ha fornito qualche cifra: 135 casi di abusi di chierici avvenuti tra il 2000 e il 2011 e portati alla Congregazione per la Dottrina della fede. “53 condanne, 4 assolti e gli altri casi in istruttoria”, spiega Crociata. E ancora: delle settantasette denunce alla magistratura: 2 condanne in primo grado, 17 in secondo, 21 patteggiamenti, 5 assolti e 12 casi archiviati.
Il rapporto tra la maggioranza dei colpevoli e la piccola percentuale di innocenti è palese. La grande paura di scavare nella realtà nasce da qui.

La Stampa 23.5.12
Scontro sull’obbligo di pagare i contraccettivi per i dipendenti delle organizzazioni religiose
La Chiesa denuncia Obama “Strangola la libertà di fede”
Il cardinale Dolan: vuole decidere quali associazioni sono cattoliche
di Paolo Mastrolilli


È guerra aperta tra la gerarchia cattolica e l’amministrazione Obama, almeno nei tribunali. Infatti 43 diocesi e organizzazioni religiose hanno fatto causa al Department of Health and Human Services, per la parte della riforma sanitaria che richiede a tutti i datori di lavoro di pagare ai propri dipendenti i contraccettivi e la sterilizzazione. Uno scontro frontale, che avrà un impatto sulle elezioni di novembre.
La decisione del governo era stata annunciata all’inizio dell’anno, provocando una reazione negativa abbastanza compatta da parte della comunità cattolica, che la considerava un’ingerenza nella propria fede. Il provvedimento infatti esentava per ragioni di coscienza le chiese, ma toccava tutti gli ospedali, le scuole e le altre organizzazioni for profit di matrice religiosa. Dopo qualche giorno l’amministrazione era tornata sui propri passi, proponendo un compromesso che assegnava alle assicurazioni il dovere di pagare i contraccettivi, e aprendo una finestra fino al 19 giugno per discutere altre eventuali correzioni. I vescovi hanno deciso che le offerte di Obama li obbligavano comunque a violare i loro principi, e quindi hanno scelto la via legale. La Conferenza episcopale non ha presentato la causa, ma tra i firmatari c’è il suo presidente, il cardinale e arcivescovo di New York Dolan. Con lui ci sono diocesi come Washington, università prestigiose come Notre Dame, ospedali e gruppi di assistenza come Catholic Charities. «Non è una battaglia che abbiamo voluto ha detto Dolan - ma la combatteremo fino in fondo. L’amministrazione ci strangola, vuole decidere quali organizzazioni possono definirsi religiose e quali no. Continueremo a negoziare, ma mai prima d’ora si era visto un simile attacco alla libertà di religione, protetta dalla Costituzione». L’argomento dei vescovi è che il governo ignora l’obiezione di coscienza dei fedeli, e vuole imporre il suo punto di vista, decidendo quali sono le organizzazioni a carattere abbastanza religioso per essere esentate, e quali no. Secondo Mary Ann Glendon, giurista dell’università di Harvard, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali ed ex ambasciatrice Usa presso la santa Sede, «l’obiettivo del governo non è la salute delle donne, ma coscrivere le organizzazioni religiose in un’agenda politica, obbligandole a facilitare e finanziare servizi che violano il loro credo». Le istituzioni cattoliche più liberal non si sono unite alla causa, e questo è il calcolo politico fatto da Obama. Nel 2008 aveva ottenuto il 54% del voto cattolico, perché i fedeli meno conservatori non avevano seguito le indicazioni dei vescovi, ma ora secondo la Gallup è sceso al 46%. Il presidente sa di aver peggiorato il rapporto con la gerarchia con questa decisione e quella sui matrimoni gay, ma è andato avanti perché ha ritenuto che le donne e gli omosessuali fossero gruppi di elettori più importanti per lui. I cattolici conservatori li avrebbe comunque persi, ma spera che quelli liberal e moderati decidano ancora di non seguire i vescovi.

Corriere 23.5.12
Consulta, rimane il divieto della fecondazione eterologa
Salva la legge 40, atti ai tribunali. Roccella: caso chiuso
di Margherita De Bac


ROMA — Il fronte del sì alla fecondazione eterologa ci sperava e si diceva ottimista. Invece i giudici della Corte costituzionale che ieri si sono riuniti per discutere la legittimità del divieto previsto dalla legge italiana non si sono pronunciati nel merito.
Hanno rinviato la decisione ai tribunali ordinari di Firenze, Catania e Milano che, nel valutare i ricorsi di tre coppie, avevano avanzato richiesta di incostituzionalità di quel divieto alla Consulta. In pratica, tutto resta come prima. Le coppie infertili non potranno utilizzare nei nostri centri la tecnica che impiega gameti (ovociti e spermatozoi) appartenenti a individui estranei alla coppia.
Saranno necessari almeno dodici mesi, secondo la previsione degli avvocati coinvolti in questa battaglia legale, per sapere se potrà essere abbattuto l'ultimo pilastro della legge 40 che dal 2004 regola il sistema della procreazione medicalmente assistita in Italia. La rigidità del provvedimento è stata via via ammorbidita a colpi di sentenze. Prima è saltato il limite di fecondare tre ovociti, poi quello di fare diagnosi sull'embrione prima di trasferirlo nell'utero e di conseguenza è stato riammesso il congelamento degli ovuli fecondati e non utilizzati subito. Ma per il definitivo ed eventuale ultimo colpo di spugna bisogna aspettare. Ieri la Corte ha richiamato in gioco i giudici civili ritenendo che spetti a loro «valutare la questione alla luce della sentenza, risalente allo scorso novembre, dunque successiva ai ricorsi, pronunciata dalla Corte Europea sui diritti dell'uomo di Strasburgo». Ora i tre tribunali dovranno riformulare la richiesta di illegittimità del divieto. Gli atti esaminati ieri dalla Consulta non prendevano infatti in considerazione la sentenza della Grande Camera di Strasburgo (una specie di Corte costituzionale europea), che accogliendo un ricorso del governo austriaco appoggiato da quello italiano, aveva affermato la legittimità del divieto (parziale) di eterologa. E aveva raccomandato di rivalutare comunque la legge alla luce delle recenti evidenze scientifiche sulle tecniche. Un invito vincolante per gli Stati membri.
Per i sostenitori del no all'eterologa è un successo: «Avrebbero potuto respingere le nostre obiezioni», commentano con ottimismo in una nota congiunta Filomena Gallo, vicepresidente dell'associazione Luca Coscioni, Giandomenico Caiazza e Gianni Baldini, gli avvocati che assistono le coppie dei ricorsi a Milano, Catania e Firenze. La ginecologa Mirella Parachini, vicepresidente di Fiapac (Federazione internazionale degli operatori dell'aborto e della contraccezione) è soddisfatta: «Sono stati tutelati i diritti delle coppie sterili, costrette ad emigrare per realizzare i progetti di famiglia». Secondo Livia Turco, deputata del Pd, «è evidente che il Parlamento deve assumersi la responsabilità di rivedere la legge 40. La politica non può permettere che l'equilibrio di quel testo sia trattato dai tribunali». Tutto il contrario per Eugenia Roccella, ex sottosegretario alla Salute, che sostiene la validità dell'impianto originario delle norme del 2004: «La questione è nella sostanza chiusa. Noi avevamo affiancato l'Austria presso la Corte di Strasburgo. Un nuovo ricorso non avrebbe basi. Certo resto sempre sorpresa dalla capacità dei tribunali di arrampicarsi sugli specchi con interpretazioni creative su leggi che non piacciono».

l’Unità 23.5.12
Eterologa, la Consulta salva la legge 40
La Corte Costituzionale ha rinviato il quesito ai tribunali: «Valutate la sentenza di Strasburgo», per la quale il divieto è legittimo
I legali delle coppie: «Non è un sì, ma neppure un no. La strada è ancora aperta». E intanto 5mila italiani vanno all’estero
di Mariagrazia Gerina


Le coppie che chiedono di poter accedere alla fecondazione eterologa, nonostante il divieto imposto dalla legge 40, non hanno ottenuto un sì dalla Corte Costituzionale. Ma neppure un no. «È una sentenza interlocutoria e dunque positiva», li incoraggiano gli avvocati, che li hanno assistiti in questo lungo percorso legale giunto fino alla Suprema Corte.
I giudici della Consulta, dopo due ore di udienza e una camera di consiglio meno lunga del previsto, infatti, per ora, non si sono pronunciati sulla compatibilità con la Costituzione di quell’articolo 4 comma 3 della legge 40 che recita: «È vietato il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo». Ma con la sentenza di ieri sera si sono limitati a rinviare nuovamente il quesito sulla legittimità del divieto imposto dalla legge 40 ai magistrati che, sollecitati dalle stesse coppie, lo avevano formulato. Nella richiesta delle coppie, inoltrata dai magistrati alla Consulta nei primi mesi del 2010, infatti, ci si appellava tra l’altro a un pronunciamento della Corte europea a favore del “diritto all’eterologa”, poi però come fanno notare i Supremi giudici corretto dalla Grande Chambre. Dunque, in sostanza, i giudici della Consulta chiedono ai magistrati di riconsiderare il loro quesito alla luce di quella sentenza.
Severino Antinori parla di una decisione «pilatesca». Ma i difensori delle tre coppie una di Catania, una di Firenze, l’ultima di Milano -, che, in tempi diversi, due anni fa, al no ricevuto dai centri di procreazione assistita avevano risposto facendo ricorso ai rispettivi tribunali, sono decisamente meno tranchant. Il divieto imposto dalla legge 40 vive. Non è stato corretto dalla Corte Costituzionale. Ma la strada per le coppie che chiedono di rimuoverlo non è sbarrata. «Si tratterà solo di riformulare meglio il quesito», spiega l’avvocato Filomena Gallo, uno dei legali delle coppie. Che incassa: «La Corte non ha rigettato la nostra richiesta». Mentre la stessa sentenza della Grande Chambre, citata dai Supremi giudici spiega non pregiudica nulla.
La vicenda è complessa. L’11 marzo 2010 la Corte europea, a cui si erano rivolte due coppie austriache, aveva dato loro ragione e si era pronunciata contro il divieto all’eterologa imposto anche dalla legge austriaca (che consente però la cosiddetta eterologa «in vivo»). Ma quella sentenza a cui avevano fatto riferimento le coppie italiane era stata poi corretta il 13 novembre 2011 dalla Grande Chambre della stessa Corte europea, a cui si era appellata con l’Austria anche l’Italia, ottenendo ragione. «Vietare l’eterologa è legittimo», avevano esultato i sostenitori nostrani del no all’eterologa. «Quella sentenza ha stabilito la autonomia legislativa degli Stati membri e la plausibilità di vietare la fecondazione artificiale eterologa», ha ripetuto ieri Scienza e Vita.
E però «come abbiamo fatto notare durante l’udienza spiega l’avvocato Giandomenico Caiazza, legale di una delle coppie quella sentenza della Corte va storicizzata: il caso sollevato dalle due coppie austriache risaliva alla fine degli anni 90,oggi 39 Paesi del Consiglio europeo consentono l’eterologa, mentre il divieto assoluto resta solo per l’Italia, la Lituania e la Turchia».
Oltretutto fa notare Filomena Gallo la Grande Chambre in quella sentenza invitava anche gli Stati membri a legiferare «tenendo conto dell’evoluzione scientifica delle tecniche e delle rispettive Costituzioni nazionali». E proprio dalla Costituzione italiana spiega citando il diritto all’uguaglianza, alla famiglia e alla salute dovrà essere riscritto a suo avviso il nuovo quesito. «Si tratta di attendere ancora qualche mese», dice. Le coppie che hanno fatto ricorso sono giovani. Almeno altre 5mila nel 2011 sono andate oltrefrontiera per fare quello che in Italia non si può, ma all’estero sì.

Repubblica 23.5.12
Lo spiraglio della Corte
di Stefano Rodotà


La decisione della Corte costituzionale sulla legge in materia di procreazione assistita lascia aperta la questione della legittimità del divieto della fecondazione eterologa. Infatti, invitando i tribunali che avevano sollevato la questione a riesaminarla tenendo conto di una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell´uomo, i giudici della Consulta hanno ritenuto necessario un ulteriore approfondimento, così mostrando di considerare insufficienti gli argomenti di chi aveva chiesto una sentenza che riaffermasse senz´altro la costituzionalità di quel divieto.
Come si sa, il divieto di ricorrere alla procreazione assistita è all´origine di un consistente «turismo procreativo», che obbliga ogni anno migliaia di donne italiane a recarsi in altri paesi per ricorrere ad una tecnica ormai accettata quasi ovunque. Non volendo continuare a subire questo stato delle cose, alcune coppie si sono rivolte ai tribunali che, non ritenendo infondata la questione di illegittimità riguardante quella norma, hanno investito del problema la Corte costituzionale.
L´ulteriore approfondimento richiesto ieri è basato su una sentenza della Corte di Strasburgo che, modificando un suo precedente orientamento, in un caso riguardante l´Austria ha riconosciuto agli Stati la possibilità di vietare la fecondazione eterologa.Molte sono le ragioni che inducono a ritenere che questo rinvio non possa essere inteso come il segno di un orientamento comunque negativo della Corte costituzionale di fronte alla richiesta di rimuovere quel divieto dal nostro ordinamento. Nella sentenza europea, tecnicamente assai complessa e che si è attirata critiche ben argomentate, si trova infatti più di un elemento che consente di darle una lettura non necessariamente preclusiva della possibilità di allineare il nostro agli altri sistemi giuridici, con una decisione rispettosa dei diritti fondamentali delle persone. Interpretando quella sentenza, e chiedendosi fino a che punto possa essere ritenuta vincolante in Italia, non si può dimenticare che, «laddove una aspetto particolarmente importante dell´esistenza e dell´identità dell´individuo sia in gioco, il margine consentito ad uno Stato sarà di norma limitato».
Queste sono parole contenute in altre sentenze della Corte europea, che i giudici di Strasburgo questa volta sembrano aver dimenticato e che, tuttavia, consentono di utilizzare brani dell´ultima sentenza in modo da poter giungere alla conclusione che essa non debba essere intesa come un via libera a qualsiasi divieto che il legislatore italiano voglia imporre. Pur non potendo qui analizzare nei dettagli tecnici quella decisione, si può ricordare che proprio la Corte di Strasburgo ha riconosciuto che le scelte procreative sono espressione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, affermato dall´articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell´uomo. E che, in materie caratterizzate da forti dinamiche determinate dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche, è indispensabile tener conto del contesto e della sue variazioni. Argomento non trascurabile in via generale, e che appare particolarmente rilevante in questo caso, visto che la legge austriaca era del 1999 e che in questi anni molte cose sono radicalmente cambiate nel mondo della procreazione assistita.
Ma vi è un altro punto, davvero essenziale, che non può essere trascurato.
Il riferimento alla sentenza di Strasburgo e il suo necessario approfondimento non cancellano il fatto che la legittimità del divieto impugnato deve essere valutata alla luce dei principi fondamentali della Costituzione italiana.
Principi che, questa volta, riguardano in particolare l´eguaglianza e il diritto fondamentale alla salute. L´eguaglianza è violata perché il divieto della fecondazione eterologa discrimina le coppie alla cui infertilità può essere posto rimedio solo con questa particolare tecnica, che offre loro la possibilità di rendere concrete le loro scelte procreative al pari di ogni altra coppia. La legge 40 sulla procreazione assistita, peraltro, è concepita come strumento per la «soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità e dalla infertilità umana», ed è dunque collocata nel quadro della tutela della salute.
Poiché l´articolo 32 della Costituzione qualifica la salute come diritto «fondamentale», il divieto di accesso a determinate tecniche viola proprio questo diritto. Si deve aggiungere che, con la sentenza n. 151 del 2010, che ha dichiarato illegittime altre norme della stessa legge 40, la Corte ha ricordato che «la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente posto l´accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l´arte medica; sicché, in materia di pratica terapeutica la regola di fondo deve essere l´autonomia e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali». Le pretese del legislatore-scienziato, che vuol definire che cosa sia un trattamento terapeutico, e del legislatore-medico, che vuol stabilire se e come curare, vengono esplicitamente dichiarate illegittime.
La Corte non ha deciso di non decidere, ma di avviare una fase di ulteriore riflessione, durante la quale le questioni qui accennate potranno essere meglio approfondite. Ma un Parlamento degno di questo nome, consapevole della continua delegittimazione che gli deriva dal fatto che una sua legge obbliga le persone ad aggirarla per far valere i propri diritti, dovrebbe esso stesso porre fino a questo stato delle cose. Che mortifica le persone e fa rinascere la cittadinanza «censitaria», perché solo chi è fornito di adeguate risorse finanziarie può recarsi all´estero e rendere effettivo un proprio diritto.

Repubblica 23.5.12
Il ginecologo Flamigni: la società civile italiana è più avanti della politica
"Ma la norma è destinata a saltare non possiamo isolarci dall’Europa"
Anche qui il concetto di genitorialità è cambiato. Essere padre o madre non è soltanto una questione di gameti


ROMA - «Mi sa che vado a vivere a san Marino. Siamo un paese assurdo, siamo l´unica nazione in Europa, a parte forse Andorra, a vietare qualsiasi tipo di eterologa». Il professor Carlo Flamigni, tra i pionieri dalla fecondazione assistita e tra i primi a fare l´eterologa in Italia quando non c´era ancora la legge 40, scherza ma non troppo.
Cosa pensa della sentenza?
«Credo sia un modo di prendere tempo, vista la situazione internazionale l´Italia non può restare così al di fuori dell´Europa con una legislazione cosi profondamente diversa e lontana dalla società civile. Sono convinto che alla fine il divieto di eterologa salterà».
Società più avanti della politica?
«Non solo all´estero, anche qui è ormai cambiato il concetto di genitorialità, insomma essere padre o madre non è mica questione solo di gameti».
Ora cosa accadrà?
«Ripartiranno, a migliaia andranno all´estero con alti costi finanziari e umani, col rischio di finire in centri poco seri, come quella coppia che si è ritrovata sola in difficoltà con un figlio malato forse perché non gli hanno fatto gli esami giusti. E invece noi come Stato abbiamo l´obbligo di tutelare i nostri concittadini e non solo».
Non solo?
«Quando ci decideremo ad essere un stato veramente laico in cui i cittadini hanno diritti e libertà di scelta?»
E a chi parla di vendita di ovociti?
«All´estero in alcuni casi è vero. Da noi, prima che la legge 40 la vietasse, a Bologna per anni abbiamo fatto l´eterologa e le donazioni erano tutte gratuite, nessuna donna ha mai preso una lira. C´era il senso del dono, della solidarietà nel dare gli ovociti in sovrannumero, regalare speranza. Le venete erano le più generose».
(c.p.)

Repubblica 23.5.12
Roccella (Pdl): per chi vuole ribaltare la legge 40 la strada è in salita
"Troppa ideologia in quelle richieste ora non ci sono più appigli giuridici"
Può ancora accadere di tutto: da noi i magistrati pretendono di fare le norme invece di limitarsi ad applicarle
di Elena Dusi


ROMA - «Decisione molto ragionevole» è il commento a caldo di Eugenia Roccella, deputato del Pdl. «È la dimostrazione che i tribunali da cui il ricorso era partito hanno agito con troppa fretta. Una fretta che dimostra tutte le loro motivazioni ideologiche».
In realtà la Consulta non è entrata nel merito. Perché allora definisce la decisione ragionevole?
«Perché i tribunali avevano fatto ricorso sulla base di una sentenza della Corte Europea che nel frattempo è stata ribaltata. La prima decisione era favorevole all´eterologa, quella finale contraria. Come avrebbe potuto la Consulta accogliere il ricorso alla luce della nuova situazione? È logico che abbia restituito la palla ai giudici».
Però la Corte Costituzionale non ha chiuso definitivamente la porta all´eterologa.
«È vero, la porta non è chiusa, ma la strada per chi volesse presentare un nuovo ricorso si presenta ora molto in salita. Ribaltata la decisione della Corte Europea, non esistono più appigli giuridici per rimettere in discussione il divieto di fecondazione eterologa».
Perché si è arrivati a questo stallo?
«È evidente che i tribunali ricorrenti hanno agito su base ideologica. Altrimenti non avrebbero avuto tanta fretta e avrebbero atteso la sentenza definitiva della Corte Europea. Da noi i tribunali pretendono di fare le leggi, invece di limitarsi ad applicarle».
Forse i giudici volevano solo tutelare l´interesse di coppie per le quali il tempo è un fattore importante.
«Forse, ma non mi pare che ci siano riusciti. E comunque avrebbero dovuto agire seguendo la legge».
Cosa si aspetta ora?
«In questo paese dove i tribunali hanno tale eccesso di creatività può accadere di tutto. Ma ne sono convinta: per loro la strada ora è tutta in salita».

La Stampa 23.5.12
L’uccisione di donne non accenna a rallentare
Come le donne possono difendersi
di Giovanna Zincone


L’uccisione di donne non accenna a rallentare. Durante la presentazione del Rapporto annuale Istat si è evidenziata una diminuzione generale degli omicidi nell’ultimo ventennio, ma non di quelli femminili. Nel 2011 sono state 137 le vittime in Italia, dieci in più dell’anno precedente, e nei primi mesi del 2012, già più di 50 donne hanno perso la vita, uccise da un maschio. Quasi sempre da un marito, un compagno, un ex. Sono diminuiti alcuni reati, ma gli stupri sono aumentati.
Stando a una ricerca del 2006, il rischio di essere oggetto di qualunque tipo di violenza cresce con il crescere della vicinanza del colpevole. Una donna su tre (tra i 16 e i 70 anni) è stata vittima di comportamenti lesivi più o meno gravi. La diffusa sopraffazione sulle donne costituisce non solo un terreno di coltura che può generare esiti letali, ma un male sociale in sé.
Si moltiplicano appelli e mobilitazioni contro questo intollerabile fenomeno. Ma perché abbiano un impatto rilevante non basta che risveglino le coscienze e attraggano la pigra attenzione dei media, devono anche informare le vittime sugli strumenti a loro disposizione, convincerle a reagire, spingere gli addetti a trovare nuovi strumenti di tutela. Inasprire ulteriormente le pene carcerarie è una scorciatoia inefficiente: i tempi di detenzione sono già stati allungati.
Nel 2009, con una maggioranza bipartisan, è passato il provvedimento contro la violenza sessuale che prevede da 6 a 12 anni di carcere. Sempre nel 2009 è stato introdotto con voto quasi unanime il reato di stalking (molestie di vario grado): il carcere va da 6 mesi a 4 anni, aumentabili fino a 6 se il colpevole è un partner o un ex, in larghissima maggioranza si tratta maschi. Le pene detentive non costituiscono un deterrente efficace e non arginano la forma estrema di violenza, l’omicidio, che prevede sanzioni ben più gravi.
Che fare? Partiamo dai casi che presentano maggiori rischi. In base alla legge anti-stalking, il giudice può imporre ai responsabili di atti persecutori l’obbligo di tenersi a distanza dalla vittima, ma ovviamente non si può contare sul fatto che proprio i soggetti più pericolosi lo facciano, né si può prospettare una sorveglianza continua e capillare delle forze dell’ordine. Nelle situazioni di maggior pericolo si potrebbero dotare le donne di strumenti di comunicazione semplice e immediata con il 113 o con lo speciale numero verde 1522 che, a sua volta, può attivare un intervento immediato. Occorre, però, che le donne stesse siano consapevoli dell’entità del rischio che corrono.
Questo vale anche per i casi, almeno inizialmente, meno gravi: l’1522 può metterle in contatto con i Centri antiviolenza specializzati nel seguire questi fenomeni. Nella quasi totalità dei casi le donne maltrattate non lo fanno. Molte evitano persino di parlarne con amiche e parenti.
Per spezzare il silenzio occorre partire dalla constatazione che parlare, a loro avviso, potrebbe avere costi troppo alti. Il primo costo, il più difficile da contenere è il rischio della perdita affettiva, la rinuncia a una relazione per quanto malata. Un secondo costo, temuto dalle vittime di aggressioni da parte di coniugi o conviventi, consiste nella perdita dello status sociale e della sicurezza economica garantiti dal partner. All’interno della coppia è ancora frequente uno squilibrio di genere di risorse e di status. Il rapporto annuale dell’Istat ha fotografato ancora una volta questo squilibrio. L’Italia è seconda solo a Malta per la presenza di famiglie in cui solo l’uomo lavora. La proprietà della casa in cui la coppia vive è più spesso del maschio. A picchiare non sono soltanto spiantati ubriaconi, ma anche individui benestanti, stimati lavoratori, professionisti apprezzati. E il divario di reddito tra maschi e femmine cresce con il crescere della posizione sociale. La legge prevede l’obbligo di versare un assegno periodico alle vittime di stalking, ma la denuncia, se si tratta di un convivente, potrebbe coincidere comunque con una rinuncia al benessere e alla considerazione sociale di cui la donna indirettamente gode. I centri anti violenza servono anche a far capire che le strategie sono molte e non necessariamente comportano una definitiva rottura. Perciò è necessario che i centri si rafforzino.
Per arginare i costi temuti che favoriscono il silenzio, bisogna evitare almeno nei casi meno gravi ricorsi troppo immediati al giudice e alle misure detentive. Quello che vale nelle relazioni conflittuali internazionali, può valere anche nelle relazioni conflittuali di genere. Funziona meglio l’escalation piuttosto che la deterrenza dell’arma estrema.
Occorre che le donne vittime di abusi sappiano che la normativa italiana prevede già la possibilità di chiedere aiuto senza pagare e far pagare subito costi troppo alti. Non infligge immediatamente ai colpevoli punizioni che le stesse vittime possono considerare troppo pesanti e con effetto boomerang.
La legge anti stalking è uno strumento flessibile. Quando le donne si rivolgono alle forze di polizia, invece di sporgere immediatamente querela, e con ciò attivare un procedimento penale, possono fare una richiesta di ammonimento. E il questore può cercare di dissuadere il responsabile attraverso questo strumento. Il questore può anche aprire un’istruttoria, convocare il colpevole e la vittima per approfondire la questione. In molti casi l’ammonimento ha dimostrato di funzionare. E, comunque, a fronte di recidiva o di comportamenti gravi, non occorre neppure la querela, scatta la denuncia di ufficio e si apre il procedimento penale.
Si potrebbe riflettere sulla possibilità di affinare ulteriormente le armi leggere di dissuasione, modulando ancora di più l’escalation: ad esempio, colpendo in misura crescente il capitale di onorabilità e di stima dei colpevoli.
Se il questore rafforzasse le misure di sorveglianza, questo servirebbe non solo a tutelare materialmente la vittima, ma anche a estendere la conoscenza dei misfatti. I vicini potrebbero interrogarsi sul perché una macchina della polizia si trova di fronte a quel portone. La stessa estensione della conoscenza potrebbe essere attuata attraverso un allargamento delle testimonianze nel corso dell’istruttoria. La possibilità di modulare il numero e il tipo di persone coinvolte offrirebbe al Questore uno strumento dissuasivo di potenza variabile ed eventualmente crescente. Ma la minaccia o l’attuazione di un danno di immagine è efficace solo a tre condizioni. La prima è che le vittime la mettano in moto: che si rivolgano al numero verde o alle forze dell’ordine, che accettino almeno questa modica sanzione per il colpevole. La seconda si collega alla prima: le donne abusate non devono vergognarsi di essere vittime. Purtroppo spesso capita. La vergogna dovrebbe essere monopolio assoluto dei colpevoli. La terza è forse la condizione chiave e si collega alla seconda: comportamenti come lo stalking e la violenza domestica dovrebbero essere considerati vergognosi persino a giudizio degli stessi autori, o almeno agli occhi della stragrande maggioranza dell’universo maschile. Ma lo sono?

Repubblica 23.5.12
Se l’Europa ricordasse Keynes
di Barbara Spinelli


Si dice spesso che l´Europa unita ha perso potere di attrazione, adesso che gli europei non si fanno più guerre. Ma è difficile chiamar pace, quello che stiamo vivendo.
Guerresco è il modo in cui da due anni Greci e Tedeschi si parlano. Guerresco il clima di depressione, di paura. Guerresco, soprattutto, il trattamento riservato ai paesi indebitati, non a caso chiamati con l´acronimo Pigs, maiali: considerati alla stregua di popoli vinti con le armi, da ostracizzare, punire. I piani di austerità, come la guerra di Clausewitz, stanno diventando la continuazione della politica con altri mezzi, e l´Europa, associata a tali piani, subisce lo stesso destino. Il che vuol dire: austerità e bellicosità soppiantano la politica, la sopprimono. C´è dominio tedesco, ma l´egemone non ha progetti di rifondazione della civiltà europea. È tragicamente assente un potere europeo che rappresenti tutti, democraticamente legittimato, che sia pronto a fronteggiare la buona sorte e la cattiva. Latitano istituzioni sovranazionali forti, che nella sciagura di uno Stato riconoscano la sciagura dell´intero sistema. Ci sono innocenti e colpevoli, vincitori e vinti: l´idea stessa di solidarietà, più morale che politica, oscura pericolosamente l´interesse, le responsabilità, gli obblighi condivisi.
Fu trattata così la Germania, nel trattato di Versailles del 1919, e sappiamo quel che seguì, il rancore nazionalista che il castigo suscitò. Hitler sfruttò tale risentimento, dando al popolo non solo una crescita trainata dalle spese militari ma dignità e senso di appartenenza perduti. Manca oggi il Keynes della situazione, che denunci le calamità ineluttabilmente provocate da penitenziali terapie deflazionistiche. Conseguenze economiche della pace s´intitolava il libro pubblicato nel ´19, e oggi potrebbe esser scritto tale e quale, con le periferie sud-europee al posto della Germania.
Keynes aveva partecipato alla conferenza di Versailles come rappresentante del Tesoro britannico, ma il 7 giugno 1919 si dimise, e scrisse il suo libro denuncia. Le sue idee, respinte dai vincitori, furono straordinariamente veggenti: non si può chiedere l´impossibile a un popolo vinto, demoralizzato, devastato, e dare al diktat il nobile nome di trattato. Non è pace, se la crisi non è vissuta come dramma comune a debitori e creditori. In queste condizioni era una beffa, il proclama del Presidente Usa Wilson: il ´14-18 avrebbe «messo fine a tutte le guerre». Altre conflagrazioni sarebbero venute, precipitando l´Europa in una guerra di trent´anni.
I ricordi giocano brutti scherzi, proprio alla Germania che dopo il ´45 ricostruì una democrazia modello, forgiata dalle introspezioni della politica della memoria. Ma col tempo la memoria si è fatta come emiplegica: come se solo una parte della storia venisse trattenuta. Resta l´assillo dell´iperinflazione fra il 1914 e il 1923, ma svapora la deflazione cominciata nel ´29 e finita con l´avvento di Hitler. Lo stesso vale per le riparazioni che frantumarono la democrazia di Weimar, e per la sconfitta di Keynes a Versailles: si dimentica la vittoria tardiva, ma pur sempre vittoria, che questi conobbe dopo la seconda guerra mondiale. Stavolta Europa e America cambiarono rotta: nacquero il Piano Marshall, il Fondo monetario internazionale, l´unità europea. Vinse il New Deal di Roosevelt, non l´ottimismo cieco di Wilson. Di nessuna guerra si poteva dire che sarebbe stata l´ultima, tantomeno in Europa, se tra ex belligeranti non si concordavano una comune crescita e comuni istituzioni, nella consapevolezza che sempre può arrivare qualcuno che alla politica preferisce altri mezzi.
Il Cancelliere sembra indifferente alle lezioni di ieri, se non ignaro. La stanchezza europea del suo popolo è anche opera sua. In parte, forse, pesa il suo apprendistato nella Germania comunista. Se si esclude l´attuale governo polacco, i governi dell´Est tendono a diffidare di un´Unione sovranazionale. Sono i più puntigliosi difensori delle decisioni unanimi, dei veti nazionali, dell´Europa impolitica. Coltivano sovranità illusorie, e non vedono che il presente crollo è crollo ormai palese degli Stati nazione.
Tanto più succube è la Merkel verso la Germania della Banca centrale tedesca e della vecchia dottrina che la pervade: prima viene la casa in ordine, poi la comunanza transnazionale. La Bundesbank sta prendendo la sua rivincita sull´internazionalismo di Brandt, Schmidt, poi di Kohl che volle la moneta unica contro l´istituto di emissione. La storia contava ancora, a quell´epoca: Kohl disse che bisognava «liberare l´Europa dal problema tedesco» e creare gli Stati Uniti d´Europa, di cui la moneta unica sarebbe stata la molla inaugurale. Il trattato di Maastricht doveva preparare ben più radicali trasformazioni istituzionali, e se il disegno naufragò fu perché - per colpa del nazionalismo francese - rimase a metà strada.
Lo stesso Patto di stabilità e di governo della crisi (fiscal compact), approvato a marzo da 25 Stati, disciplina le singole economie con nuovi trasferimenti di sovranità ma non crea né le istituzioni comuni (Commissione che risponda ai deputati europei più che ai governi, Parlamento con partiti europei, vera Costituzione) né gli strumenti finanziari (eurobond, project bond) che permettano all´Unione di far politica e unire quel che è sfaldato. È così che la Grecia è divenuta capro espiatorio, che il male interno s´è fatto esterno, che sono state innalzate fallaci linee Maginot (il cosiddetto firewall) per impedire contaminazioni già in atto.
Naturalmente è molto rischioso prendersela solo con l´Europa, non fosse altro perché sono ancora gli Stati o i direttorii di Stati a determinarla. Anche l´Unione, come Atene, rischia di divenire capro espiatorio, nemico esterno. La crescita invocata da Hollande e dai socialdemocratici tedeschi, dai Democratici italiani e dal Syriza di Tsipras a Atene, dovrà scaturire da iniziative europee ma anche da mutazioni nazionali, necessarie in un´economia-mondo dove l´Occidente non è più centro.
Fatto sta che le due cose - l´ordine in casa e l´iniziativa europea - dovranno andare insieme: non domani, ma subito. Che le riforme strutturali fatte in Germania nel 2002, presentate come esemplari, sono impraticabili in tempi di recessione (da ben 5 anni la Grecia è in recessione). Non c´è tempo. Dietro l´angolo c´è la bancarotta non solo ellenica ma europea, e cittadini impauriti già fuggono dalle banche greche e spagnole.
Quello di cui c´è bisogno sono istituzioni europee che rilancino in proprio l´economia: con eurobond, con comuni tasse sulle transazioni finanziarie e sulle emissioni di biossido di carbonio. O in assenza di eurobond, con un patto significativamente detto «di redenzione», suggerito dal Consiglio tedesco degli esperti economici: la parte dei debiti eccedente il 60 per cento del prodotto interno diverrebbe debito dell´Unione, gestito da un Fondo comune di 2.300 miliardi di euro, per la durata di almeno 25 anni. Comunitarizzazione di una parte del debito, rilancio dell´Unione: lo propongono oggi Hollande, Monti, i socialdemocratici e Verdi tedeschi. Lo chiede anche Obama, che da anni propugna un New Deal alla Roosevelt: per non naufragare nella crisi e perdere le elezioni, implora una rapida ripresa europea. La Merkel è isolata, in casa e fuori. Oggi al vertice informale di Bruxelles vedremo se qualcosa si muove.
Una nuova politica della memoria urge in Germania. Non per ultima, la memoria dei debiti bellici tedeschi, estinti a Londra nell´accordo del 1953, anche grazie alla Grecia che rinunciò alle riparazioni. Non per ultimo, il ricordo del monito di Keynes contro gli assolutisti del contratto, portati a trasformare i patti (il fiscal compact, oggi) in «usura ininterrotta».

Corriere 23.5.12
Figli ancora casa a 34 anni Pochi matrimoni, più divorzi

Occupazione Potere d'acquisto
In ritardo sulle donne al lavoro. L'Ocse: Pil -1,7%, pareggio nel 2014
di Lorenzo Salvia


ROMA — È la molla che spinge i genitori a far studiare i figli, lo stimolo che porta ragazzi e ragazze a cercare un lavoro migliore. Fino agli anni Settanta ha funzionato, consentendo alle famiglie di salire qualche gradino, generazione dopo generazione. Adesso l'ascensore sociale si è bloccato. Anzi, va in direzione opposta, dall'alto verso il basso. Dice il rapporto Istat 2012 che se la «mobilità ascendente si è ridotta» è invece «aumentata la probabilità di sperimentare una mobilità discendente». Specie per i figli della «classe media impiegatizia e della borghesia». E non è certo l'unica notizia negativa che arriva dalle 300 pagine del lavoro presentato ieri dall'Istituto nazionale di statistica.
Figli a casa
Aumenta ancora il numero dei giovani che restano a vivere con i genitori: sono il 41,9% nella fascia che va dai 25 ai 34 anni, contro il 33,2% del 1993. Non chiamiamoli bamboccioni, però. La metà di loro, il 45%, resta da mamma e papà non per scelta ma perché non ha un lavoro e non può mantenersi, figuriamoci pagare un affitto. Aumentano anche i cosiddetti Neet, i giovani che non studiano e non lavorano: tra i 15 e i 29 anni hanno superato i 2 milioni, più di uno su cinque. Il guaio è che il momento del distacco si allontana sempre di più: se guardiamo la fascia d'età fra i 35 e i 44 anni, i figli che restano in casa sono arrivati al 7%, il doppio del 1993.
Matrimoni in calo
Scende di parecchio il numero delle coppie sposate che ha figli: appena il 33,7% nel 2010-2011 contro il 45,2% del 1993. La famiglia tradizionale diventa minoranza anche nel Mezzogiorno dove rappresenta poco più del 40% contro il 52,8% di vent'anni fa. Raddoppiano invece le nuove forme familiari: tra single, single con figli, convivenze e nuclei allargati siamo a 7 milioni su un totale di 24 milioni. I matrimoni sono in continua diminuzione: poco più di 217 mila nel 2010, nel 1992 erano 100 mila in più. Mentre aumentano le separazioni: ci si arriva tre volte su dieci, una proporzione raddoppiata in 15 anni. In media ci si separa dopo 15 anni di matrimonio: i mariti ci arrivano a 45 anni, le mogli a 41.
Donne come a Malta
Non c'è più l'alibi di un tempo quando il loro livello di istruzione era mediamente più basso. Ma ancora adesso per le donne il mercato del lavoro è più difficile. Siamo il Paese europeo dove è più alto il numero di coppie in cui la donna non ha uno stipendio. Il 33,7%, una su tre, come noi riesce a fare solo Malta. In un terzo delle coppie il lavoro domestico è tutto a carico della donna e spesso «tale asimmetria è associata con un più limitato accesso al conto corrente della famiglia, basse quote di proprietà dell'abitazione, scarsa libertà di spesa per se stessa, poco coinvolgimento nelle scelte importanti che riguardano il nucleo familiare». Una condizione di moderna schiavitù che può arrivare anche nel corso della vita: a due anni dalla nascita di un figlio quasi una madre su quattro (il 22,7%) ha lasciato il lavoro.
Povero Mezzogiorno
Bastano due numeri per capire come l'Italia sia ancora a due velocità: al Sud le famiglie povere sono 23 su 100, al Nord scendono a 4,9 su 100. Ed è proprio nel Mezzogiorno, dove ce ne sarebbe più bisogno, che i servizi sociali funzionano peggio. Qualche esempio. Gli asili nido ci sono soltanto in due comuni su dieci, nel Nord Est sono otto su dieci. Per i disabili i Comuni del Mezzogiorno spendono otto volte meno di quelli settentrionali. Più in generale la spesa sociale è scesa dell'1,5% al Sud, mentre nel resto d'Italia è cresciuta, fino a un massimo del 6% registrato sempre nel Nord Est.
Famiglie più povere
L'Italia produce più ricchezza ma le famiglie italiane sono diventate più povere. Sembra una contraddizione e invece è il succo, amarissimo, del confronto fra l'Italia di oggi e quella del 1992. Il primo indicatore da guardare è il Pil pro capite, il prodotto interno lordo che misura la distribuzione media della ricchezza in un Paese. In termini reali, cioè neutralizzando gli effetti dell'inflazione, dal 1992 al 2011 è cresciuto dell'11,6%. Il secondo indicatore, invece, è il reddito disponibile procapite, cioè i soldi che restano in tasca alle famiglie e che possono essere spesi davvero. Sempre in termini reali, tra il 1992 e il 2011, è sceso del 4%. Italia più ricca ma italiani più poveri, dunque. Come è possibile? In questi 20 anni sono aumentate tre voci che in qualche modo «dirottano» la ricchezza prodotta nel Paese, non la fanno arrivare nelle tasche degli italiani. «La prima — spiega il presidente dell'Istat Enrico Giovannini — è la pressione fiscale, ma poi ci sono le rimesse agli immigrati che spediscono nel loro Paese buona parte di quello che guadagnano da noi e soprattutto i profitti delle multinazionali che, su scala più vasta, fanno la stessa cosa».
Ultimi per la crescita
Negli ultimi dieci anni, in realtà, anche il Pil ha stentato parecchio. Tra il 2000 e il 2011 il Prodotto interno lordo è salito a un ritmo dello 0,4% l'anno, il più lento tra i 27 Paesi dell'Unione Europea. Anche se ci sarebbe da considerare pure l'economia sommersa che l'Istat stima nel 2008 pari a 275 miliardi di euro. Sarebbe il 17,5% del Pil, mezzo punto in meno rispetto al 2000. Ma l'istituto di statistica sottolinea che con la crisi il peso del nero si è «verosimilmente allargato».
Previsioni
Per la prima volta il rapporto annuale dell'Istat contiene anche le previsioni sull'andamento dell'economia nei prossimi mesi. Nel 2012 il Pil dovrebbe scendere dell'1,5% per poi risalire di mezzo punto nel 2013. Quest'anno scenderanno ancora i consumi delle famiglie, si prevede un meno 2,1%, e soprattutto gli investimenti per i quali viene stimato un crollo del 5,7%. L'unica voce a reggere sono le esportazioni con una domanda estera netta che dovrebbe far segnare un +1,2%. Mentre le importazioni continueranno a scendere con un -4,8%.
Ocse
Ancora peggiori le cifre che arrivano dall'Ocse, l'organizzazione che raggruppa 34 Paesi a economia avanzata. La previsione è che il Pil calerà di più nel 2012 (-1,7%) e continuerà a scendere anche l'anno prossimo con un flessione dello 0,4%. Per questo, sempre secondo l'Ocse, l'obiettivo del pareggio di bilancio è da rinviare almeno di un anno, al 2014. E anzi «potrebbe essere necessaria una manovra fiscale ulteriore, in considerazione della recessione prevista». Un'ipotesi che il presidente del consiglio Mario Monti dice di «non vedere all'orizzonte».

Corriere 23.5.12
Precari, mai così tanti Dal '93 saliti del 48%
di L. Sal.


ROMA — Il Parlamento continua a discutere (faticosamente) la riforma del mercato del lavoro. E intanto l'Istat certifica che i precari non sono mai stati così numerosi. Dal 1993 ad oggi sono cresciuti del 48,4%, molto di più rispetto all'aumento dei numero dei lavoratori dipendenti, pari al 13,8%. E, forse non solo per la congiuntura economica sfavorevole, il primo contrattino funziona sempre meno come primo passo per trovare un lavoro vero.
Nei primi anni Novanta un terzo dei giovani con un contratto atipico ne trovava uno stabile nel giro di un anno. Adesso questa quota dei fortunati è scesa al 18,6%. Anzi, a dieci anni dal primo lavoro atipico quasi un terzo degli occupati è ancora precario mente uno su dieci è disoccupato. Ma sempre più spesso si comincia proprio da qui. Più di un terzo dei ragazzi fra i 18 e i 29 anni ha proprio un contratto flessibile o precario, mentre se guardiamo all'intera forza lavoro scendiamo al 13,4%.
Ha iniziato con un contratto atipico il 44,6% degli italiani nati dal 1980 in poi. Una fetta che scende al 31,1% per la generazione degli anni 70, al 23,2% per chi è nato negli anni '60 e al 16% per le generazioni precedenti quando il termine precariato forse non si usava nemmeno.

Repubblica 23.5.12
"Diritto al sesso in carcere, intervenga la Consulta"
Firenze, ricorso del tribunale di sorveglianza: "I detenuti abbiano relazioni familiari normali"
Nel mirino la norma che impone colloqui controllati dal personale di custodia
di Michele Bocci


FIRENZE - Il carcere come luogo dove si può esprimere l´affettività verso i familiari e dove è possibile fare l´amore con la propria compagna o il proprio compagno. In un ricorso alla Corte costituzionale partito a fine aprile da Firenze è prefigurata una novità che potrebbe cambiare la vita di molte delle quasi 70mila persone che vivono nelle prigioni italiane. Sarebbe una rivoluzione se venisse cancellato il secondo comma dell´articolo 18 della legge 345 del 1975, come chiesto nell´eccezione di incostituzionalità sollevata dal presidente del tribunale di sorveglianza fiorentino Antonietta Fiorillo. Quella norma impone che i colloqui si svolgano «in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia». Per ragioni umanitarie, sanitarie, legate al diritto alla famiglia e alla stessa necessità del recupero dei detenuti, si sostiene nell´ordinanza, gli incontri si dovrebbero svolgere lontani dagli occhi degli agenti o delle telecamere. In spazi dedicati, come già avviene in quasi tutti i paesi europei. Sarebbe così possibile per chi è in prigione fare una chiacchierata in tranquilla solitudine con il fratello o il figlio oppure avere un momento di intimità con la moglie.
«Credo che sia arrivato il momento di avvicinarci laicamente a questa questione - spiega Antonietta Fiorillo - Dopo anni in cui non si è nemmeno affrontato il problema delle espressioni di sessualità, a volte anche coartata». Omosessualità ricercata o imposta e masturbazione sono problemi reali e sentiti da chi vive il carcere, detenuti e operatori. Poi c´è la difficoltà nei rapporti con i familiari. «Dobbiamo recuperare queste persone - spiega il magistrato - e per farlo bisogna iniziare a far vivere loro dei rapporti il più possibile normali con i propri cari. Mi sembra una cosa logica. Nell´ordinanza sono partita dalla più ampia categoria dell´affettività, di cui fa parte anche la sessualità. Il problema riguarda principalmente persone con pene definitive, circa il 60% del totale, e che non hanno accesso a permessi, pensati proprio per la risocializzazione».
Il ricorso alla Corte costituzionale è nato da un detenuto sessantenne del carcere fiorentino di Sollicciano che ha chiesto al direttore di essere autorizzato ad incontrare la moglie fuori dalla vista della polizia penitenziaria. Al primo no è seguito un reclamo al tribunale di sorveglianza. Durante l´udienza, con l´accordo del pm, il magistrato ha deciso di interpellare la Consulta. L´articolo 18 della legge sull´ordinamento penitenziario violerebbe gli articoli 2, 3, 27, 29, 31 e 32 della Costituzione perché tra l´altro impedirebbe il pieno sviluppo della persona umana, non farebbe tendere la pena alla rieducazione del condannato e ne comprometterebbe la salute psicofisica. «Sarebbe più facile di quanto si crede creare aree isolate destinate alle visite - dice sempre Antonietta Fiorillo - Del resto praticamente siamo l´unico paese europeo che non le prevede». Nel ricorso presentato alla Consulta si citano le raccomandazioni del Consiglio d´Europa, come quella che chiede di «migliorare le condizioni per le visite, in particolare mettendo a disposizione luoghi in cui i detenuti possano incontrare le famiglie da soli». E ancora: «Le modalità delle visite devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali». In Italia, salvo incontri premio decisi dai singoli penitenziari, le visite generalmente durano due ore e si svolgono una volta alla settimana. In Olanda, Norvegia, Danimarca e alcuni lander della Germania ci sono piccoli appartamenti dove i detenuti condannati a lunghe pene possono incontrare i propri cari. Francia e Belgio sperimentano abitazioni dove stare insieme alla famiglia 48 ore, Croazia e Albania ammettono colloqui non controllati di 4 ore. Usa e Canada prevedono incontri in prefabbricati all´interno degli istituti.

Corriere 23.5.12
Il sindaco vendoliano e pacifista con la pistola alla cintola
di Goffredo Buccini


Stefàno: mi prendono a schiaffi se qualcosa non va, 14 aggressioni

TARANTO — È come scoprire che Bambi gira con arco e frecce. Che la nave di Greenpeace trasporta bazooka nella stiva. Che don Abbondio mena sciabolate peggio del Griso. Incredibile, no? Eppure non si scappa, le foto sono inequivocabili e... a mano armata: lui, Ippazio Stefàno, detto per comodità «Ezio» da fan e detrattori, appena rieletto sindaco di Taranto, devoto vendoliano e pacifista della prima ora, se ne sta in mezzo ai suoi a festeggiare quel quasi 70 per cento di voti con cui ha chiuso senza se e senza ma la formalità del ballottaggio; alza le braccia trionfante nel suo comitato elettorale di via Principe Amedeo, sfodera un ghignaccio da coniglio feroce, e, tac, sulla camicia ancora candida a fine giornata gli si staglia il calcio d'una pistola a tamburo infilata nei pantaloni.
Roba degna di Cito senior, che governò la città dei Due Mari negli anni Novanta e adesso, in galera per un cumulo di reati e pene, ha tentato invano di spedire in cima al municipio il figlio Mario con lo slogan surreale «Cito libero, Cito sindaco»: ma Cito, si dirà, era un ex mazziere fascista, il primo telepredicatore del «vaffa» in diretta, uno che faceva le ronde e non disdegnava di allungare qualche sberla anche dopo avere indossato la fascia tricolore, insomma un tipaccio di strada. Cosa c'entra il vellutato Stefàno con gli stereotipi dello sceriffo giustiziere?
«Che domande, vuol farmi ammazzare?», sbuffa lui, dalla poltrona con vista sull'incerto futuro dei tarantini, dove s'è seduto nel 2007 e da cui non s'è più alzato. Ma, scusi, conferma? La foto è vera? «Certo che confermo, ho una vecchia pistola a tamburo, con regolare porto d'armi: no, non so la marca, non sono un guerriero». E qui bisogna capire lo stupore dei suoi concittadini che, per ore, quando un paio di giornali locali hanno fatto uscire l'immagine, continuavano sul web a considerarla taroccata, insomma una truffa della Spectre contro il sindaco della pace. Stefàno è un tipo che negli spot elettorali vi apparirà aggressivo quanto Nonna Papera, un non belligerante che, per dribblare le rogne sui fumi assassini dell'Ilva, può sostenere coi cronisti di non avere «letto i giornali». E' tuttavia anche molto amato perché, da pediatra, ha la lodevole abitudine di battere le periferie curando gratis i bambini delle famiglie meno abbienti. Lo chiamano U' Dotto' e lo votano in massa. Eppure... «Eppure mi hanno minacciato, durante la campagna elettorale m'è arrivata una lettera a casa: ritirati, mi dicevano, se no tu e la tua famiglia rischiate. Io ho denunciato tutto alla Digos, ma non voglio la scorta, non voglio che qualcuno si giochi la pelle per me, non uso nemmeno l'auto di servizio. E non mi sono ritirato. Quindi...». Quindi? «Mica posso avere scariche di adrenalina ogni volta che uno mi viene incontro». Ma Vendola lo sa che lei gira armato? «Uffa. Adesso l'ha saputo, dai giornali! Senta, avrei potuto strillare in campagna elettorale, prendevo dieci punti in più. Invece sono stato muto. Non volevo infangare il nome di Taranto, non volevo che si pensasse che i tarantini sono violenti».
In verità non è la prima volta che la pistola fa capolino dalla cintura del buon Ezio. In un'altra foto, meno recente, il sindaco è in marcia con i compagni di lotta e di governo, e la dannata berta gli s'affaccia da sotto la giacchetta conferendogli un'aria da comparsa in Le mani sulla città. Certo, tocca ammetterlo: è anche facile fare gli spiritosi quando non si è costretti a vivere giorno per giorno in una bolgia di duecentomila anime avvelenate dall'inquinamento e dalla disoccupazione e tutte, una per una, decise a darti la colpa di quanto succede. «Sa, ho cominciato trent'anni fa... presi la pistola quando giravo di notte per i quartieri degradati e facevo la campagna contro l'Aids. Poi l'ho tenuta nel cassetto, chiusa lì per un sacco di tempo. L'ho ritirata fuori da sindaco. Lei non lo sa, ma mi hanno fatto di tutto».
Vita agra a Palazzo di Città, eh? «Può dirlo forte. Quattordici aggressioni m'hanno fatto, quattordici. Coi coltelli, a schiaffi, pure la benzina addosso m'hanno tirato. Poi non le dico gli insulti. Lo Stato non consegna le case? E quelli vengono da me. Sprofonda la statale? Sempre da me, vengono. Quindici vigili urbani sono finiti in ospedale, e allora io dicevo: ragazzi, scansatevi, me la vedo io. Tutti sanno dove abito, e mi aspettano sotto il portone, quasi sempre per parlarmi, ma certe volte non solo per parlare. Io sto lì». Con la pistola, però. «Mai tirata fuori». Nemmeno davanti ai ceffoni e ai coltelli? «Nemmeno. Sono molto equilibrato, sa? Mi controllo, faccio le visite. Poi, dovessi tirarla fuori, magari è la volta che mi ammazzano, mica sono sicuro che avrei il coraggio di usarla». L'uomo è un paradosso vivente. Sobriamente descritto appena pochi anni fa come «il sindaco dei miracoli» da qualche giornale amico, questo medico tarantino dal viso mansueto e dal baffetto morbido si ritrova nella bizzarra posizione di succedere a Giancarlo Cito nella fama di pistolero. Persino l'Africa a volte, gli appare un posticino tranquillo, stretto com'è tra sfrattati, senza lavoro, cassintegrati e attaccabrighe professionali d'una città che cova brace sotto l'apparente rassegnazione. «In Africa ho fatto il volontario per un anno, mai nessuno ha provato ad assalirmi». Qui, invece... «Sono diventato iperteso. Fare il sindaco al Sud è un inferno. Ho perso quattordici chili». Un chilo ad aggressione, di questo passo rischiava di diventare l'Uomo Invisibile. Meglio Tex Willer.

Corriere 23.5.12
Il console fascio rock rimane in diplomazia
di Maurizio Caprara


ROMA — Nella Repubblica nata dalla Resistenza, chi inneggia alla Repubblica sociale e definisce quella successiva «fondata sulle menzogne e i tradimenti» e «da mafiosi italiani riportati a casa dagli americani» può continuare a rappresentare l'Italia all'estero, anche se questo comporterà inevitabili contatti con istituzioni di Stati stranieri che hanno sofferto e combattuto il nazifascismo. Mario Vattani, che un anno fa, prima di insediarsi come console generale d'Italia a Osaka, fu filmato in un raduno tra saluti romani mentre inneggiava alla «bandiera nera» con evidente apologia di fascismo, deve lasciare la sua sede e viene sospeso dal servizio per qualche mese, ma non perde il suo posto di diplomatico. Né viene privato del suo rango di ministro plenipotenziario che equivale, nell'amministrazione pubblica, a quello di generale di corpo d'armata o prefetto di prima classe.
A circa dodici mesi da una sua esibizione su un palco di Roma, finita sui giornali nel dicembre scorso e dalla quale risultò ancor più palese che Vattani cantava da tempo inni del genere sotto lo pseudonimo di Katanga e con il gruppo Sottofasciasemplice, il ministero degli Esteri ha ritenuto di non dover ricorrere a sanzioni più consistenti.
Fino ai giorni scorsi il figlio suonatore dell'ex segretario generale della Farnesina Umberto rischiava dalla lettera di richiamo alla destituzione, ossia il licenziamento, passando per sospensione dello stipendio o dal servizio. La commissione di disciplina della Farnesina, a quanto risulta al Corriere, ha ritenuto sufficiente la sospensione dal servizio. La quantità di mesi massima prevista è sei, e comporta anche la sospensione dello stipendio. La durata esatta decisa nella procedura disciplinare dovrà essere resa pubblica dall'amministrazione quando l'iter sarà stato ultimato con l'avallo del ministro degli Esteri Giulio Terzi, il quale ha la facoltà di confermare o di alleggerire quanto stabilito dalla commissione. Terzi ieri era negli Stati Uniti.
Ex consigliere diplomatico del sindaco di Roma Gianni Alemanno, il console nel marzo scorso ottenne dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio una sospensione della sospensione temporanea dal servizio a Osaka adottata dalla Farnesina. Poi il Consiglio di Stato ha sospeso la misura del Tar, tenuto comunque a pronunciarsi nei prossimi mesi.

La Stampa 23.5.12
Fra Corano e Parlamento, gli altri modelli
L’Egitto al voto per sposare Islam e democrazia
In corsa 13 candidati per le presidenziali
di Francesca Paci


Che tipo di Paese sarà l’Egitto il primo luglio 2012, quando la giunta militare al potere dalla caduta di Mubarak dovrebbe passare il testimone al presidente «civile» scelto veramente e per la prima volta dagli elettori? Musulmano, certo. Ma del genere democrazia islamica alla malese? Multiconfessionale come l’Indonesia? Oppure religioso sotto l’egida dell’esercito alla maniera turca?
Sin dall’inizio della primavera araba il dibattito sulla compatibilità fra Islam e democrazia ha anticipato lo sviluppo delle rivoluzioni tunisina, libica, yemenita e soprattutto egiziana, quella destinata a influenzare la geopolitica dell’intera regione. Mentre 50 milioni di figli di piazza Tahrir si recano oggi alle urne orgogliosi di dire la loro sui 13 candidati alla poltrona che per trent’anni fu del Faraone, gli studiosi interrogano i sia pur poco affidabili sondaggi per capire l’indirizzo politico del Paese nel caso vincesse il Fratello Musulmano ultraortodosso Morsi o quello rinnegato Abdel Fotouh, l’ex leader della Lega Araba ed esperto diplomatico Amr Moussa o l’ultimo premier del vecchio regime, l’antislamista giurato Shafik.
Posto che qualsiasi analisi sull’Egitto dovrà verosimilmente attendere il secondo turno previsto per metà giugno, i non ancora definiti poteri del presidente e la riscrittura della Costituzione, il mondo contemporaneo propone tre principali esempi di democrazia islamica: la Turchia, l’Indonesia e la Malaysia.
«I Fratelli Musulmani egiziani non sono pronti al modello turco, prova ne sia che fischiarono Erdogan quando al Cairo parlò di Stato laico» ragiona l’economista venticinquenne Ahmad Eid seduto al caffè Belady, il quartier generale dei rivoluzionari aperto a gennaio in piazza Tahrir dall’attivista Ahmad Badaui.
Sebbene sporadiche frange radicali siano tentate da Teheran, l’Islam arabo guarda ad Ankara, più vicina delle estremità asiatiche dove pure vive metà della umma. Da oltre un secolo la Turchia presenta una sintesi di relativo successo tra militari e Corano secondo la cosiddetta Turkish Islamic Synthesis, un mix di nazionalismo, espansione economica e contenuta cultura islamica teorizzato all’inizio degli Anni 70 e, grazie alla crescita del 7% annuo, divenuto la piattaforma delle ambizioni neottomane di Erdogan&C. Funzionerebbe senza il fucile dell’esercito puntato? La risposta toccherà all’Egitto nel caso trionfasse uno dei due candidati islamisti, scenario su cui alcuni osservatori costruiscono addirittura l’ipotesi di un golpe militare.
C’è poi il modello indonesiano, quello preferito da Obama e orientato alla tolleranza religiosa sin dalla Costituzione che, con l’articolo 36A, sancisce la Bhinneka tunggal ika, il motto indigeno del «molti ma uno» con cui si riconoscono altre 5 confessioni oltre l’Islam professato dall’86% della popolazione. Tuttavia, osserva sul «New York Times» Andreas Harsono, la continua pressione cui sono sottoposte le minoranze non depone proprio a favore della democraticità del Paese, come dimostra anche la fatwa di Giacarta contro il concerto di Lady Gaga. Difficile applicare questo modello all’Egitto dove oltre 10 milioni di copti si fidano dei connazionali musulmani quanto di Giuda.
E Kuala Lumpur, con la sua rara coabitazione costituzionale di legge secolare e sharia? La Malaysiasia si regge su un atipico equilibrio tra etica islamica, Common Law d’eredità britannica e potere autoritario incombente al tempo stesso su oppositori politici, gay e blasfemi. Ma il timone, a differenza di quello turco, punta grossomodo a Occidente. Che direzione indicherà domani la bussola egiziana?

Corriere 23.5.12
La paura dei cristiani costretti a rimpiangere l'epoca di Mubarak
I copti: «Difenderemo i nostri diritti»
di Lorenzo Cremonesi


ALESSANDRIA (Egitto) — Non ci sono sentinelle troppo visibili all'entrata. Ma il cartellone con le foto delle vittime dell'attentato della notte di Capodanno 2010 domina il portone di accesso alla chiesa dedicata a San Marco e San Pietro nel centro della città. A contarli sono 22 volti: donne ben vestite, visi ridenti di bambini, un paio di sacerdoti, uomini dall'aria compita, austera. Un bambino sui 10 anni indossa i vestiti della cresima. «Tecnicamente eravamo già nel 2011. La bomba esplose sulla strada proprio di fronte al portale 20 minuti dopo mezzanotte. L'attentatore cercava la strage. Provò ad entrare. Ma la folla stava già defluendo. Allora lasciò l'ordigno innescato e scappò via. I morti furono venti. Abbiamo aggiunto i volti di altri due cristiani assassinati dagli estremisti musulmani solo pochi mesi prima. Sono bene in vista. Che la loro memoria serva da guida per i fedeli che andranno alle urne», spiega Hani Mikhail Butrus, ingegnere meccanico 56enne che si è offerto volontario per sorvegliare i lavori di restauro all'edificio.
Proprio di fronte al cartellone, dall'altra parte della strada, sta il portone di accesso alla moschea Sharq al Medina. «Ci sarà spazio per i cristiani anche nel governo dei Fratelli Musulmani», sostengono tre giovani barbuti. Però il tono cambia quando si parla dell'attentato: «Non sono morti solo cristiani per quella bomba. Ci sono state almeno quattro vittime musulmane». Una versione totalmente smentita dai sacerdoti dirimpetto.
La basilica copta di Alessandria è un luogo particolarmente indicato per capire paure, preferenze e aspettative dei quasi 9 milioni di cristiani egiziani (il 10 per cento della popolazione) alla vigilia del primo voto libero nella storia del Paese. Il massacro non fu uno dei più gravi. Ma avvenne mentre già la primavera araba soffiava forte sul Medio Oriente. Dalle piazze di Tunisi stava raggiungendo il Cairo. Quaranta giorni dopo l'ondata di violenze tra copti e islamici radicali, seguita all'attentato, Hosni Mubarak lasciava la presidenza. E da allora la minoranza cristiana cerca disperatamente di ritrovare un proprio ruolo, addirittura una propria identità, in questo Egitto che cambia tanto repentinamente e rischia seriamente di essere dominato dalle forze dell'integralismo musulmano. Da sempre i cristiani locali insistono nel ripetere che sono loro gli autentici egiziani originari. «Copto significa egiziano. L'islam è arrivato dopo il cristianesimo», ripetono in ogni occasione. Ma la vittoria del blocco religioso islamico alle elezioni parlamentari nel dicembre scorso (assieme Fratelli Musulmani e salafiti sfiorano il 70 per cento dei 498 deputati) scuote antiche sicurezze. Una debolezza acuita dalla morte per malattia il 17 marzo di Papa Shenouda III, il leader massimo dei copti, che lascia la comunità ancora più esposta in attesa di un successore. E ad Alessandria questa caducità, questa insicurezza esistenziale, è ancora più evidente. Con i palazzoni decadenti, sporchi e scrostati sul lungomare, testimoni tristi dell'antico splendore cosmopolita ormai svanito da un pezzo. Con l'eclissi delle comunità di italiani, greci, ebrei, russi, inglesi, francesi aperti al mondo e da decenni via via sostituti da una massa di fellah impoveriti che hanno definitivamente obliterato i caffè letterari, il libertinismo sessuale tutto mediterraneo e il terreno di incontro tra Occidente e Oriente. «Una città da raccontare al passato», scriveva Lawrence Durrell con nostalgia già sessant'anni fa.
L'urbanistica della disperazione, i pochi barlumi di quell'obsolescente trascorso che non tornerà più, sembrano simboleggiare le incognite della politica. «Era meglio ai tempi di Mubarak. Per noi la rivoluzione è stata una catastrofe. Non ho paura a dirlo, anche se tanti cristiani ora fanno buon viso a cattivo gioco e cercano di cavalcare la tigre del movimento del cambiamento in nome di una finta democrazia che obbligherà alla fine tutte le donne, senza distinzione di credo, a indossare il velo. Ma io resterò qui, non me ne andrò, lotterò per la difesa dei nostri diritti», dice tra i denti Anna Refat, farmacista 23enne che lavora solo a pochi isolati dalla basilica. Un altro giovane, Rami Ashraf, diciottenne studente alla scuola alberghiera, sembra invece molto più arrendevole: «Se dovesse diventare presidente Mohammed Morsi, il candidato dei Fratelli Musulmani, o anche Abul Futuh, che pur presentandosi come più moderato viene dalla stessa organizzazione, io emigrerò all'estero. Magari in Canada, o in Brasile, dove esistono già popolose comunità di copti. Non c'è futuro per i cristiani in un Egitto dominato dagli islamici».
Le loro preferenze? Ci pensano un poco. Non è strano. Tanti egiziani sembrano ancora indecisi di fronte alla scelta dei 13 candidati presidenziali. Poi entrambi recitano il mantra più diffuso tra i copti: «Se fosse più giovane sceglieremmo Amr Mussa. È uno statista serio, garantisce stabilità. Ma ha 76 anni, è troppo anziano. Abbiamo bisogno di un leader energico per far fronte ai radicali islamici. E il migliore è Ahmed Shafiq, il premier che era stato scelto da Mubarak l'anno scorso. Ha un ottimo rapporto con l'esercito, l'unica forza in grado di garantire la stabilità dello Stato e i diritti delle minoranze».

l’Unità 23.5.12
Ecco la vera notizia: il Pci salvò le idee di Gramsci
di Bruno Gravagnuolo


MA CHE RAZZA DI MANIERA È quella di Europa di recensire libri? Specie un libro su Gramsci? Perché non discutono civilmente, invece di buttarla in rissa? Corrivi e faciloni in riferimento all’«infortunio» di Dario Biocca sul presunto «ravvedimento» del prigioniero, svelata da chi scrive e da altri: «Eccoli, sempre i soliti vetero...». Raffazzonati e propagandistici, nel recensire con Nunzio dell’Erba l’ultimo libro di Canfora (Gramsci in carcere e il fascismo, Salerno): «Tesi stranote, massacro editoriale di Togliatti su Lettere e Quaderni...». Slogan, giustappunto. Che prescindono dal merito. Prescindono da quel che Canfora stesso racconta nel suo libro e che Giulio Ferroni, nel recensirlo su l’Unità di ieri, mette in luce: l’uso politico di Gramsci da parte di Togliatti, con filtri, censure, centellinamenti di lettere. Nel quadro di una verità da far fruttare e difficile da gestire nel quadro a) di un aspro dissenso di Gramsci nel 1926 col Komintern sulla rivoluzione in occidente b) di un dissenso ancora più aspro sul tema della svolta e del socialfascismo negli anni 19281930 c) della guerra fredda e delle resistenze ortodosse dentro il Pci, contro il Marx-revisionismo di Gramsci. Di fatto Togliatti pone le basi dell’edizione critica di Gramsci, e ne sdogana le concenzioni sul terreno ideologico e strategico: Fronte antifascista e Costituente, facce di un’unica idea-forza. Che Gramsci, come mostra Giuseppe Vacca in Vita e pensieri di Antonio Gramsci (Einaudi) affida a Togliatti. Tramite lettere e messaggeri: Tania, Athos Lisa, Ceresa, Sraffa... Non c’è massacro editoriale, ma diffusione delle linee maestre di un nuovo pensiero democratico-egemonico. E graduale disvelamento del dissidio con Gramsci a far data dal 1964, con la pubblicazione da parte di Togliatti della «famigerata» lettera di Grieco del 1928. Che indusse il prigioniero a ritenere compromesso un tentativo di liberazione in corso. Come altri in seguito, stroncato e lasciato cadere da Mussolini e dall’Urss. Insomma, se Gramsci è vivo e lotta insieme a noi lo dobbiamo anche al suo Pci.

La Stampa 23.5.12
Tzvetan Todorov
Le serpi in seno della democrazia
“Messianesimo politico, ultra-liberismo, populismo xenofobo:

sono perversioni dei suoi stessi principi, nemici intimi, oggi più pericolosi del fascismo e del comunismo”
intervista di Alberto Papuzzi


Il filosofo domani a Torino Filosofo, storico, antropologo, letterato, autore di una trentina di libri, dagli Anni 60 in poi, Tzvetan Todorov (foto sotto) è un caso quasi unico nella storia della cultura europea, per la ricchezza di orizzonti del suo eclettismo. Nato a Sofia 73 anni fa, residente a Parigi (dove dirige il Centro di ricerche su arti e linguaggio), si è occupato, fra l’altro, di Michail Bachtin, della conquista dell’America, di Lager e gulag, dei movimenti di migrazione, del nuovo disordine morale mondiale. Domani, alla Scuola di Studi Superiori dell’Università di Torino, terrà una conferenza su «Il futuro della democrazia in Europa» (aula magna del Rettorato, ore 17,30).

“I nemici più pericolosi della democrazia, al giorno d’oggi, non sono più quelli che ne minacciavano l’esistenza una volta, il fascismo e il comunismo, né i diversi gruppi estremisti e terroristici del nostro tempo, che possono ferirla ma non farla morire», dice il professor Tzvetan Todorov, l’intellettuale bulgaro, ma francese di elezione, che a gennaio ha pubblicato il saggio Les ennemis intimes de la démocratie (Editions Robert Laffont) e che domani terrà una lezione alla Scuola di studi superiori di Torino.
Chi sono allora, professore, i nuovi nemici della democrazia nel mondo?
«I nuovi nemici sono piuttosto figli della democrazia stessa, perversioni dei suoi principi. Nel mio libro ne considero tre: il messianesimo politico, l’ultra-liberismo e il populismo xenofobo. Li definisco “intimi” nel senso della prossimità che hanno con la democrazia. Avanzano sotto apparenze democratiche, ma ogni volta spingono un’idea democratica fino al parossismo».
Come possiamo affrontarli e combatterli?
«In quanto figli della democrazia sono difficili da combattere; spesso non sono nemmeno percepiti come nemici. Si deve prendere coscienza del pericolo che rappresentano e cercare di ridurre la loro influenza. Non sono invincibili».
Ma la democrazia che cos’è: un modello ideale di organizzazione della società o il livello minimo di regole e garanzie che rendono possibile la convivenza umana?
«La democrazia non è la sola forma di governo legittimo, altri regimi hanno anch’essi regole e garanzie. D’altra parte la democrazia non ci promette il paradiso in terra: d’emblée si presenta come un regime imperfetto fatto per esseri imperfetti, e non per degli angeli o degli eroi, che però si è dato i mezzi legali per correggere i propri errori e debolezze, cambiando i governi o modificando le leggi, e riconoscendo la libertà di criticare i potenti».
A proposito di democrazia, lei pensa che sia possibile esportarla? O invece pensa che dovremmo diffidare dalla «tentazione del Bene», come suona il titolo di uno dei suoi libri?
«L’esportazione del Bene con la forza è proprio ciò che io chiamo “messianesimo politico”. Gli esempi di Iraq, Afghanistan e Libia mostrano che non è stato coronato dal successo. Perché la violenza di cui ci serviamo per promuovere il Bene, e all’occorrenza la democrazia, lo corrompe dall’interno. Si pretende di difendere i diritti dell’uomo, ma si finisce per praticare la tortura e sbeffeggiare la legalità, come illustrano Abu Ghraib e Guantanamo».
In Francia, Italia, Germania, Inghilterra e altri Paesi, c’è una tendenza a considerare barbari gli immigrati dalle aree povere del mondo. Questo sentimento sta crescendo o lei vede anche emergere un movimento di ospitalità?
«Il mondo d’oggi conosce movimenti di popolazioni senza precedenti e nel futuro questi movimenti non potranno che accelerare. Se l’assenza di discriminazioni verso gli stranieri e gli immigrati deve venire solo dalla nostra virtù morale e da un moto di generosità, c’è da temere che non si imporrà mai: la buona volontà non è sufficiente per superare i nostri egoismi. Ma l’apertura agli altri può essere nel nostro interesse, spirituale e materiale. La ricchezza d’un Paese è creata dalla gente che lo abita e vi lavora, non è una torta di dimensioni stabilite in anticipo che bisogna ripartire tra un minimo di convitati».
Cosa pensa, lei, dell’Europa in questa fase piuttosto critica? È come un gigante dai piedi d’argilla?
«L’Unione Europea soffre del fatto che l’integrazione tra le nazioni che la compongono non procede allo stesso ritmo nei vari dominî. All’unificazione commerciale e monetaria non corrisponde una sufficiente unità sul piano economico né su quello politico. Certi pensano che si debba smantellare la Ue, io sono invece persuaso del contrario: abbiamo bisogno di più Europa, non di meno Europa. Ma deve essere rinforzata la sua funzione democratica, si deve permettere alle popolazioni di esprimere la propria volontà. L’Unione Europea non deve essere comandata dai dirigenti dei Paesi più potenti, per esempio Germania e Francia. Il suo organismo più democratico è il parlamento, ma non ha sufficiente potere. Bisognerebbe eleggere nel suo seno il presidente d’Europa, una funzione che rimpiazzerebbe il presidente della Commissione e il presidente del Consiglio».
Lei ha definito il Novecento il secolo delle tenebre. Dopo i Lager, i gulag e altri orrori alle nostre spalle, è ancora possibile creare un sistema di valori morali?
«Le manifestazioni estreme del Male, come i campi di concentramento, non impediscono di pensare ai valori morali. Di fronte all’estremo, certi esseri umani hanno coltivato ciò che io chiamo le “virtù quotidiane”, di cui noi abbiamo sempre bisogno: la dignità, la cura dell’altro, la protezione delle attività spirituali. Primo Levi, Etty Hillesum, Germaine Tillion, Vasilij Grossman sono luminosi esempi di comportamento morale in condizioni estreme».
I suoi scritti coprono un largo spettro di argomenti, dai formalisti russi alla conquista dell’America alla memoria del Male: quale forza li tiene insieme?
«È vero che mi sono interessato a molteplici argomenti, ma il tema al quale ho consacrato il mio lavoro ritorna costantemente: si tratta dei rapporti tra individuo e società, tra etica e estetica, tra politica e morale. Ho l’impressione di essere impegnato, attraverso differenti esempi, nello stesso combattimento per un po’ più d’umanità».

Corriere 23.5.12
«L'Europa prenda lezione dall'Unità d'Italia»
Le Goff: «Oltre gli steccati nazionali mantenendo la varietà culturale»
di Dino Messina


L'Europa raccontata da Jacques Le Goff, erede della scuola delle Annales, il maggiore storico francese vivente, non è un incubo, come le cronache degli spread di questi mesi ci fanno pensare, né un'«orchestra senza musica» come ha icasticamente sintetizzato Gian Arturo Ferrari nel suo editoriale sul Corriere del 17 maggio. L'Europa per Jacques Le Goff, sicuramente vicino alla visione «culturale» di Ferrari, è piuttosto una «speranza». E la parola «espoir» contrapposta a «cauchemar» ha il suono dell'ottimismo nel discorso di questo decano della storiografia, classe 1924, che ha dedicato la vita soprattutto agli studi sul Medioevo (esemplari i suoi saggi sul Purgatorio, sul rapporto tra denaro e religione, sul ruolo degli intellettuali) e che ha diretto per Laterza, suo principale editore italiano, la collana «Fare l'Europa».
Dunque, l'Europa, per Le Goff, appare a molti come un incubo, perché è stata troppo «ipnotizzata dalla crisi economica, di cui non è la sola responsabile, in quanto problema mondiale, e ha trascurato il suo punto di forza, la sua ricchezza maggiore, che risiede nella cultura. Se consideriamo il vecchio continente in rapporto alle altre aree del mondo, vediamo che in nessuna è così forte il legame culturale tra le nazioni. Solo in Europa le diversità nazionali si sono affermate, anche a costo di guerre durate sino alla metà del XX secolo, in un processo di unità culturale. La forza culturale europea viene da una serie successiva di civilizzazioni che si sono progressivamente sovrapposte e integrate».
La familiarità di Le Goff con il «lungo periodo» gli consente di saltare in pochi giri di frase dall'era neolitica, dove è già possibile individuare una caratteristica originale, ancora poco studiata, all'antichità greca e latina che ha dato un imprinting al vecchio continente non meno dei cosiddetti popoli barbari.
«È durante il Medioevo — continua lo storico francese — che avviene l'integrazione profonda tra la cultura greco-romana e le cosiddette civilizzazioni barbare che si uniscono per dar vita alle nazioni europee. Fondamentale per dare coerenza a questo processo è stato il cristianesimo. Su scala continentale anche gli altri grandi momenti della civilizzazione europea: il Rinascimento, partito dall'Italia e giunto sino alla Scandinavia; l'Illuminismo, che dalla Francia ha irradiato a Ovest la penisola iberica e a Est è arrivato sino alla Russia; per non parlare infine del Romanticismo, altro grande movimento culturale su scala europea».
L'Europa continente unita dalla cultura, dunque. E dalla laicità. È questo il secondo punto importante del ragionamento appassionato di Le Goff: «Quale che sia stata e sia l'importanza del cristianesimo, e oggi l'influenza delle religioni praticate dai nuovi immigrati — sostiene con forza lo storico — l'Europa è diventata un continente laico. La laicità è il comun denominatore della sua cultura».
Un'altra peculiarità europea che ad alcuni può sembrare un limite, è la pluralità linguistica. «Scartando le soluzioni dell'inglese e delle lingue inventate, tipo l'esperanto, la Commissione europea deve studiare un sistema per potenziare la pratica di diverse lingue in tutti i Paesi europei. Le letterature vernacolari rappresentano una ricchezza cui in alcun modo bisogna rinunciare». Così al modello multiculturale canadese e al melting pot nordamericano, Jacques Le Goff contrappone una civilizzazione multilinguistica basata sulla comune cultura europea.
Le Goff è convinto della bontà del progetto federale di Europa unita, la più ampia possibile, che arrivi sino ai confini dell'Ucraina e della Russia, ma il titolo di «europeo» ciascun Paese se lo deve meritare. Così lo storico francese, pur restio a dare giudizi politici, ricorda una risposta ricevuta da Jacques Delors, il primo commissario europeo, sull'Europa allargata: «Durante una conferenza, credo a Salamanca, ricordo che Delors mi espresse dubbi sulla Grecia. Quelle parole mi sono tornate alla mente in questi giorni».
L'identità europea, secondo lo studioso delle Annales, si accompagnerà sempre a un certo «patriottismo nazionale», che non significa «sciovinismo» né «nazionalismo». Sono questi rigurgiti del passato, dice Le Goff, i veri nemici del processo di integrazione europeo, non la mondializzazione: «La globalizzazione non è nemica dell'Europa, è un fattore neutro che può essere plasmato dalla nostra capacità politica».
I funzionari di Bruxelles e i rappresentanti di Strasburgo secondo Le Goff hanno in questo momento due compiti principali: da un lato rilanciare l'identità europea anche attraverso un «inventario della cultura», dall'altro quello di «avvicinare le istituzioni comunitarie alla gente. Per rendere possibile un processo simile a quello che ha portato gli italiani a passare dalle identità regionali a quella nazionale».

La Stampa 23.5.12
Così Napoleone previde Caporetto
Tradotto il primo volume delle Memorie, dedicato alla campagna d’Italia:

tra bugie e geniali intuizioni
di Alessandro Barbero


Nell’esilio di Sant’Elena l’imperatore costruisce la propria leggenda senza curarsi della realtà fattuale
La notte prima di Waterloo l’avrebbe passata tra i bivacchi dei soldati. Invece si guardò bene dall’uscire sotto la pioggia"

Per convincersene basta leggere il racconto emozionante da lui imbastito, a Sant’Elena, sulla notte che precedette la battaglia di Waterloo. Subito dopo cena, afferma, s’era coricato nel letto da campo allestito dai domestici, in una stanza della fattoria di Le Caillou, col fuoco acceso nel camino; ma prima dell’una era già di nuovo sveglio. Il timore che il nemico potesse rimettersi in marcia e sgusciar via nella notte gli impediva di riaddormentarsi; perciò uscì, raggiunse a piedi la linea dei bivacchi e la percorse tutta, scrutando l’orizzonte.
Negli intervalli fra un acquazzone e l’altro, i soldati di entrambi gli eserciti erano riusciti ad accendere il fuoco, e il chiarore di quelle migliaia di falò disegnava nitidamente le loro posizioni nell’oscurità. Napoleone descrive così quel momento magico: «La foresta di Soignies sembrava in fiamme; l’intero orizzonte era illuminato dai fuochi dei bivacchi; regnava il più profondo silenzio». Spingendosi a ridosso della linea nemica, verso le due e mezzo di notte, l’imperatore sentì il rumore di truppe in marcia e si allarmò; ma quasi subito quel rumore si spense, mentre la pioggia riprendeva più fitta che mai.
Questo, dicevamo, è quanto racconta Napoleone. Sennonché, di questa emozionante ricognizione notturna non c’è nessuna traccia nelle testimonianze dei suoi domestici: i quali affermano concordemente che l’imperatore si guardò bene dall’uscire sotto la pioggia, e se ne restò in casa fino al mattino. Il suo valletto, Marchand, lo vide aggirarsi svestito nella stanza, tagliandosi distrattamente le unghie con un paio di forbicine, e guardando dalla finestra il diluvio che continuava a flagellare la campagna. Intorno alle tre di notte, Napoleone decise davvero che una ricognizione era necessaria; ma ci mandò uno dei suoi ufficiali d’ordinanza, ed era di nuovo sotto le coperte quando costui tornò a riferire che a causa della pioggia il terreno era impraticabile.
Ha ragione Ernesto Ferrero, che più di chiunque altro nell’Italia di oggi, con il romanzo N. (Einaudi, vincitore nel 2000 del premio Strega) ha convissuto con l’imperatore e meditato sul suo insegnamento: Napoleone era un grandissimo manipolatore della parola. È opportuno tenerne conto prendendo in mano le sue Memorie, che si stanno ripubblicando in Francia dopo un lungo oblio, e di cui Donzelli traduce ora il primo volume ( Memorie della campagna d’Italia, pp. 344, € 32).
L’editore francese, Thierry Lentz, si stupisce che gli storici abbiano sempre considerato quest’opera con scarso interesse. Ma come dar loro torto? Non siamo, sia chiaro, sul piano dei fittizi Diari di Mussolini, perché l’autore di queste pagine è davvero Napoleone. Ma il titolo da lui stesso voluto e sempre accettato, Memorie, è del tutto inadatto per l’insieme magmatico di scritti che l’imperatore dettò a Sant’Elena: quello che Napoleone stava costruendo allora era la propria leggenda, e che le sue affermazioni avessero un rapporto più o meno stretto con i fatti era l’ultima delle sue preoccupazioni. Come lui stesso disse a Las Cases, «bisogna convenire, mio caro, che le verità vere, nella storia, difficilmente si conoscono. Ci sono tante verità! ».
C’è quasi da rimpiangere i tempi in cui la storia la scrivevano i vincitori: lo sconfitto di Sant’Elena è così bravo a presentare la sua verità che prende per il naso il lettore e lo porta dove vuole, e come se non bastasse si permette di bacchettare gli storici di professione, accusandoli di inventare. Ma bisognava essere molto spudorati e molto spavaldi per arrivare da Ajaccio fin dove arrivò Napoleone, e dunque è inutile recriminare.
Bisogna, invece, godersi questo testo straordinario, che non è, come ormai si sarà capito, una storia attendibile della Campagna d’Italia, e neanche «un eccellente libro di storia», come scrive, con una certa forzatura, il pur valoroso Lentz. È la testimonianza di un cervello infaticabile, che scelse di dedicarsi alla guerra e dimostra di conoscerne ogni aspetto, passato, presente e persino futuro (si vedano, qui, le pagine in cui accenna all’importanza di Caporetto per entrare in Italia sfondando la linea dell’Isonzo, e del Montello per difendere la linea del Piave!). È una meravigliosa descrizione dell’Italia del primo Ottocento, scritta da un uomo che la conosceva come le sue tasche e aveva la testa piena di dati e cifre. Ed è anche un po’, diciamolo, il canovaccio del romanzo che Napoleone avrebbe forse scritto se fosse rimasto un ufficialetto sconosciuto, e avesse deciso di cercare la gloria nella letteratura anziché nelle armi.

Repubblica 23.5.12
La civiltà dei robot che ci cambia la vita
Ma nell’era della recessione non serve un neo-luddismo
di Maurizio Ferraris


Facciamo quello che i filosofi chiamano "ragionamento controfattuale" e immaginiamo che il luddismo abbia la meglio. Più nessuna macchina per fabbricare altre macchine, più nessuna macchina per sostituire l´uomo. Intanto, a che livello ci si ferma? A prima dei computer? A prima dei trattori? A ben vedere, per assicurare piena occupazione sarebbe necessario tornare alle caverne. Lì disoccupati non ce n´erano. Tutti avevano il loro da fare a cercare di mangiare e di non farsi mangiare, le pensioni non erano un problema perché la gente moriva a quarant´anni, niente bollette da pagare, niente pubblicità, alimenti a chilometro zero.
Indubbiamente la crisi economica sarebbe risolta, così come il problema della sovrappopolazione del pianeta, ma c´è da dubitare sul fatto che sia una soluzione raccomandabile.
Nel passato si sono conosciuti molti modi per risolvere problemi di disoccupazione, il più noto è la guerra, ma ora anche qui ci sarebbe chi si lamenta del fatto che i droni portano via il lavoro ai soldati in carne ed ossa (lo si potrebbe consolare ricordandogli che i bersagli sono uomini veri e propri, dunque almeno lì l´innovazione tecnologica non fa perdere posti di lavoro). Ma sono persuaso che il punto non è nel tornare indietro e nel sospendere la produzione delle macchine, che in quanto tali sono fonte di ricchezza e di benessere, ma piuttosto nel trovare forme efficaci di ridistribuzione del reddito. Perché se il capitale si concentra in poche mani sarà poi molto difficile trovare qualcuno che compri i beni e adoperi i servizi. E´ in effetti quello che sta succedendo in questo momento, ma non è che ripristinando delle tecnologie obsolete ci sarebbe più lavoro, ce ne sarebbe meno.
Perché oggi un lavoro importantissimo, primario e profondamente democratico, è quello dell´acquirente. I centri commerciali hanno preso il posto delle fabbriche, più o meno negli stessi luoghi, e un´umanità immensa si riversa a spendere soldi. Ora, facciamoci caso, si tratta di un lavoro, con tratti compulsivi, e con una finalità economica primaria, nel senso che se non ci fosse tutta l´economia si paralizzerebbe. Un lavoro, soprattutto, in cui nessuna macchina potrà mai sostituire l´uomo, almeno come "utilizzatore finale". Certo, si possono immaginare delle macchine che comprano al posto nostro, ma non che paghino al posto nostro, e soprattutto in molti casi, per esempio in scelte che dipendono fortemente dai gusti individuali, non funzionerebbe.
Senza dimenticare che nella stragrande maggioranza dei casi le macchine hanno sollevato l´umanità da lavori insostenibili. Chi davvero desidererebbe ritornare in una fabbrica dell´Ottocento? O, senza andare tanto lontano, chi si rassegnerebbe ai ritmi di un operaio torinese degli anni Cinquanta, o di una impiegata milanese degli anni Sessanta? Il problema, dunque, non è la soppressione delle macchine e della tecnica in generale, che come tale è coestensiva al genere umano. Casomai si tratta di inventare delle macchine che permettano una più equa distribuzione del reddito. Per esempio delle macchine che non accettino tangenti e che paghino le tasse (questo potrebbe diventare molto più facile se si estendesse l´uso di pagare ogni transazione con il telefonino, che la registra scrupolosamente). Senza dimenticare però che questa ossessione delle macchine riguarda in ultima istanza una fetta di umanità irrisoria, e che la maggior parte dei nostri simili non può neppure porsi il problema delle macchine e della disoccupazione perché sono impegnati in una lotta per la sopravvivenza non lontana da quella dei nostri antenati nel paleolitico.

Repubblica 23.5.12
Poiesis
I 3 giorni di Fabriano che uniscono arte, scienza e letteratura
Dal 25 al 27 maggio il centro marchigiano ospita il festival dedicato alla "Grande Opera": un laboratorio di confronto tra più discipline
Da Boncinelli a Carolyn Carson da Vito Mancuso alle mostre di foto e di Julian Schnabel
Nascono le Officine scuole di formazione per l´alto artigianato legato alla carta
di Francesca Giuliani


Al passante che gli domanda «cosa stai facendo?», lo scalpellino non risponde «lavoro la pietra», ma «costruisco una cattedrale»: un aneddoto per ricordare come imprese imponenti nascano dal lavoro corale e dalla pazienza minuziosa di molti singoli che aggiungono il loro piccolo prezioso pezzo all´insieme. Specialmente quando l´Opera è destinata a diventare una Grande Opera: è questo il tema della quinta edizione del festival Poiesis, in programma il 25, 26 e 27 maggio a Fabriano. È forse il caso di ricordare come il termine poiesis indichi aristotelicamente «l´agire diretto alla produzione di qualcosa» e definisca, in questo caso, un appuntamento nella cittadina marchigiana che guarda caso ha anch´essa il «fare» nel suo etimo. Fondato sulla poiesis e sulla cultura dell´homo faber, ovvero su matrice e presupposti doppiamente classici, il festival intreccia generi, modi, discipline: scienza, arte, letteratura, poesia. Francesca Merloni ne è l´ideatrice: di solide e operose radici marchigiane, artefice di una maratona che per tre giorni trasforma la sua città in un laboratorio di idee e dialoghi, spettacolo e pensiero, musica e incontri. I numeri dicono che un anno fa nelle strade, nelle piazze, nelle sale di Fabriano hanno partecipato alle iniziative di Poiesis sul tema «Fratelli in Italia» oltre 33 mila persone, la maggior parte delle quali ha seguito fino a quattro appuntamenti in una giornata. Anche quest´anno, Poiesis è realizzato in larga parte da volontari, dà vita ad iniziative tutte ad ingresso gratuito e si avvale del sostegno dell´Unesco.
«Ormai non c´è pianerottolo di casa che non abbia un proprio festival – ironizza la Merloni – ma forse qui a Fabriano accade qualcosa di diverso, e tutto sommato credo che si dia vita a un inedito percorso di senso. In questo caso, un incontro fra alto e basso, entrambi ncessari. Perché la Grande Opera è il legame che tutto tiene, in un percorso di bellezza assoluta, dentro e fuori di noi, riflessione e insieme proiezione dell´infinito che ci costituisce». In nome della Grande Opera, metafora dell´alto destino dell´uomo, si possono mettere insieme un grande architetto come Rem Koolhaas e una coreografa-danzatrice come Carolyn Carlson, i registi di «Cesare deve morire», Paolo e Vittorio Taviani e la cantante Elisa, un attore sotto le luci della ribalta come Pierfrancesco Favino e un artista di fama internazionale come Julian Schnabel, uno scienziato come Massimo Piattelli Palmarini e un uomo di scena come Alessandro Bergonzoni.
«Dopo il successo dello scorso anno, Fabriano è diventata una importante realtà nella produzione culturale italiana: forti di questo risultato abbiamo studiato e lavorato per un´edizione 2012 che possa aprire nuovi percorsi espressivi», dice ancora Merloni. Ecco così le categorie classiche di arte, cinema, musica, poesia e teatro tradursi in Espressione, Parola, Pensiero, Proiezione e Visione: «Il festival si sta evolvendo, sta diventando un luogo di pensiero, un lungo percorso di riflessione". Ma sta diventando anche altro. Fedele alla sua vocazione del "fare" Poiesis ha gemmato un´iniziativa importante per Fabriano: la nascita di "Officine", centri di formazione di alto artigianato, che nascono sotto la protezione dell´Unesco e saranno presentate sabato. Saranno scuole legate alle radici di Fabriano, che è patria della carta: e quindi dedicate alla stampa, all´editoria di pregio, alla fotografia, a tutte le attività che hanno a che fare, appunto, con la carta.
Siccome a fare da scenario è la città intera, l´inaugurazione del festival sono tutte gratuite, è affidata a uno spettacolo multimediale in spazi diversi della città, con la musica di Fabrizio Bosso e le letture di Pierfrancesco Favino. Favino. Protagonisti del «Pensiero» saranno Koolhaas, il filosofo Giulio Giorello, il teologo Vito Mancuso. Grande Opera, a Fabriano è anche il tema del lavoro di cui parleranno Guglielmo Epifani, Corrado Clini e Giovanni Minoli. «Proiezione» oltre alla consueta programamzione cinematografica, prevede un incontro con i fratelli Taviani mentre Alessandro Bergonzoni propone una riflessione sulle carceri. La voce «Espressione» include la musica di Elisa e Marrakash, la performance di Carolyn Carlson e il jazz di Paolo Fresu. Ancora, la «Parola» è declinata da un gruppo di poeti fra cui Stefano Massari e Gian Mario Villalta, con omaggi ad Andrea Zanzotto e Wislawa Szymborska. Infine, la «Visione»: tra le mostre, quella fotografica con immagini fra gli altri, di Gabriele Basilico mentre dagli Stati Uniti arrivano per l´occasione alcune sgargianti tele di Julian Schnabel.