giovedì 24 maggio 2012

Repubblica 24.5.12
La sorella Maria Falcone: commossa per la grande partecipazione
"Il calore di questi giovani è stato il più bel regalo alla memoria di Giovanni"
di Alessandra Ziniti


Quella del Capo dello Stato è una chiamata alle armi: dobbiamo scendere in campo per difendere la democrazia
Il Presidente ha ragione: Palermo ha fatto un salto di qualità. Oggi siamo tutti molto più forti rispetto al ‘92

PALERMO - Le lacrime del Presidente hanno commosso anche lei. «Quella del capo dello Stato è una chiamata alle armi, in senso metaforico naturalmente, una chiamata a tutti noi, a tutti gli italiani perché scendano in campo a tutti i livelli per difendere il nostro paese, per difendere la democrazia». Alle tre e mezza del pomeriggio, ancora negli occhi l´emozione per la mattinata nell´aula bunker dell´Ucciardone, Maria Falcone si prepara al corteo del pomeriggio, all´appuntamento delle 17.58 sotto l´albero di via Notarbartolo, che da vent´anni i palermitani hanno scelto come tazebao per dimostrare al magistrato ucciso a Capaci insieme alla moglie e agli uomini della scorta quell´affetto e quella solidarietà che non ebbe in vita.
Signora Falcone, il presidente ha esortato i giovani a scendere in campo ma non ha nascosto la sua preoccupazione per un possibile ritorno agli anni bui dello stragismo.
«Non si può mai escludere nulla, la storia ci ha insegnato che lo stragismo nasce nei periodi di difficoltà e questo certamente per Palermo, per la Sicilia, per il Paese tutto è un momento di grande crisi, economica, sociale, politica. Oggi, alle date del 23 maggio e del 19 luglio 1992 purtroppo si è aggiunto il 19 maggio 2012 con il vile attentato di Brindisi. L´Italia è stanca di piangere, non si possono mostrare segni di debolezza, bisogna identificare subito i colpevoli. È vero, il Presidente non ha nascosto la sua preoccupazione per un possibile ritorno del periodo stragista, ma vorrei mettere in risalto un altro passaggio del suo discorso, quando ha detto che Palermo, la Sicilia non sono sempre le stesse, sono cambiate».
Un pensiero che evidentemente lei condivide a differenza di quanti continuano ad esprimere pensieri critici nei confronti della città.
«È sotto gli occhi di tutti che Palermo ha fatto un gran salto di qualità, bastava vedere cosa c´era oggi nell´aula bunker. Una folla così, una partecipazione così numerosa ma soprattutto così emotivamente apprezzabile da chiunque io non l´avevo mai vista. Sì, forse il giorno dei funerali, ma quello era un altro momento, la città, il Paese intero era indignato, impaurito, sconvolto. È verissimo quello che dice Napolitano: oggi siamo molto più forti del 92, la società italiana ha fatto tesoro dell´esperienza. Oggi, dopo vent´anni, sentire attorno a noi questo calore, questa partecipazione, questa attenzione è la dimostrazione del cambiamento, è il più bel regalo che si poteva fare a Giovanni, Francesca e Paolo anche se la società civile nella consapevolezza della legalità è più avanti della politica che ancora non ha fatto piazza pulita».
Napolitano si è commosso due volte proprio quando si rivolgeva in modo particolare ai giovani che aveva davanti. Che sensazione ha provato?
«È stato entusiasmante e sono infinitamente grata al Presidente. Quello che ha dimostrato non nascondendo la sua commozione è il sentimento di chi vede, di chi vuole una società giovane a difesa della nostra democrazia, di quella democrazia per la quale si sono sacrificati Giovanni e Paolo. E per chi, come noi, da anni e anni lavora instancabilmente con i giovani, con i bambini, nelle scuole, questo è un grande riconoscimento».

il Fatto 24.5.12
Luciano Canfora
Gramsci, il finto giallo del quaderno sparito
“l dubbi e le discontinuità sono sempre presenti in lui: ipotizzare un anello mancante, magari per insinuare un’abiura dal marxismo, non serve”
di Luca Telese


E poi alla fine della nostra intervista, Luciano Canfora sorride e trae le sue conclusioni. In primo luogo sulla montagna di polemiche nate, dalla proliferazione di pubblicazioni incandescenti e contrapposte sul pensatore di Ales. Gramsci attuale, Gramsci controverso, Gramsciancorauna volta conteso. Gramsci avvolto nel mistero, da quando lo storico Franco Lo Piparo ha posto un interrogativo fondato sulla possibile sparizione di uno dei quaderni: “Vede–diceCanfora-iomirendo conto che questo possa dare fastidio a qualcuno, e scompigliare le teorie preconfezionate di altri: Antonio Gramsci non è stato un pensatore settario, e nemmeno un precursore del pensiero liberaldemocratico. Non ha avuto conversioni in punto di morte, o se così è stato, come proverò a dimostrare, per ora non ce ne sono prove”. Chiedo al più raffinato professoredellafilologiacomunista cosa sia stato Gramsci per lui. Il professore sorride, dietro le sue lenti: “Un comunista eretico in tempi di ortodossia. Le pare poco? Basta questo a renderlo terribilmente contemporaneo”. Il filosofo barese ha appena pubblicato un libro (Gramsci in carcere e il fascismo, Salerno editrice, 14 euro) sul fondatore de l’Unità. Un libro che si inserisce nella contesa storiografica con una tesi “neoclassica”, che ha già fatto arrabbiare Gianni Riotta e Europa, e che invece è piaciuta a l’Unità (recensione entusiasta di Giulio Ferroni).
Professore, la divertono stroncature ed elogi?
Guardi, l’articolo di Ferroni mi ha reso felice, quello di Europa mi è sostanzialmente indifferente. Spero che questo tale che ha firmato la recensione sia un uomo di lettere, sono certo che ha scritto del mio libro senza peritarsi di leggerlo, visto che mi rimprovera di aver omesso temi e problemi a cui dedico un intero capitolo del libro!
Provo a semplificare la disputa: alcuni polemisti, in questi mesi, sostengono che ci sia un quaderno che è stato occultato da Palmiro Togliatti. E che gli studiosi “di sinistra”, fra cui ovviamente anche lei, tendano ad occultare questa verità.
Ovviamente la seconda cosa è una sciocchezza. La prima mi pare non impossibile, ma altamente indimostrabile.
Proviamo a spiegarlo ai lettori de Il Fatto come se fossero i suoi studenti….
Primo fatto. Lo Piparo, che è uno studioso molto serio, e che io stimo, si pone un interrogativo filo-logicamente corretto. Quale? Se fosse un mistero, il giallo comincerebbe così: nel celebre discorso di Napoli del 20 Aprile 1945, Palmiro Togliatti esibisce un quaderno e dice: “Gramsci ci ha lasciato 34 grossi quaderni come questo – eccone uno! – coperti di scrittura minuta, precisa e uguale”. Solo che proprio qui iniziano i problemi: perché, come nota correttamente lo Piparo, i quaderni di cui oggi siamo a conoscenza sono solo 33. Ne manca uno? È stato trafugato? Censurato? C’è un errore di numerazione, come sostengono altri?
Non mi sembra convinto di queste tesi.
Infatti. Però, se restiamo nel campo della scienza, la cosa più improbabile è partire da un dato vero per sostenere un’idea non provata né dimostrabile. Che il quaderno mancante sia l’ultimo, quello in cui Gramsci avrebbe esplicitato la sua inverosimile presa di distanze dal comunismo, fino ad abbracciare improbabili conversioni.
Mi spieghi perché è così scettico.
I quaderni sono un corpus in evoluzione, non un fotoromanzo a puntateanimatodacolpidiscena. Come provo a ricostruire nel mio libro, gli strappi e i passaggi di discontinuità di Gramsci sono tanti, e molteplici. Non serve ipotizzare un quaderno segreto, per apprezzarli, basta leggere per trovare una miniera di pensieri non conformi ai suoi tempi e alla disciplina del partito in cui militava.
Mi faccia un esempio…
Basta legge la pagina 1949-1950 dell’edizione di Gerratana per trovare una riflessione perfettamente sistematizzata sui sistemi politici. Gramsci descrive quelli che definisce “sistemi totalitari”: ‘Entrambi fanno pedagogia alle massechevengonoviziate’. Èevidente che sta parlando sia del comunismo reale che del nazismo. Ma che quel giudizio riferito al paese di Stalin, ed espresso da un comunista, è durissimo….
In quella pagina si parla male anche dei sistemi liberali, dicendo che non sono rappresentativi
Oh, sì. Le ripeto, Gramsci resta comunista, senza dubbio. Ma visto che bisogna leggere il contesto, aggiunga anche che le stesse coselepensavaunostudiosonon sospetto di ostilità al pensiero liberale come Benedetto Croce, che lo aveva scritto già nel 1910.
I “revisionisti” dicono: Gramsci supera il marxismo.
Partiamo da un altro dettaglio: nelle lettere a Mussolini Gramsci chiede a Mussolini di poter leggere testi di De Man, un pensatore che teorizza il superamento del marxismo. Ma il fatto che Gramsci leggesse idee diverse dalle sue non prova nulla sulla presunta conversione.
E se invece dovesse rispondere con una pagina a quelli che contestano la modernità di Gramsci?
Indicherei la sua riflessione attualissima sul “Cesarismo”. Una interpretazione che, sia detto per inciso, veniva sconsigliata da Togliatti e anche da Marx. Mentre i materialisti dialettici esaltano il ruolo delle masse e sottovalutano quello dei leader, Gramsci nel quaderno 11 prende a modello Napoleone III per uno studio attuale sul carisma del capo.
Sarei blasfemo se dicessi che in questa categoria potrebbe trovare posto anche Berlusconi?
Il paragone con Napoleone III sarebbe troppo lusinghiero per lui, a mio parere. Gramsci ipotizza un cesarismo regressivo e uno progressivo, e forse ha più in mente Mussolini.
Perché Gramsci oggi torna prepotentemente sulla scena?
Perché come vede ha delle cose da dire. Ci sono tanti testi dimenticati che saltano fuori. Ci sono dei classici, delle perle come “Odio gli indifferenti”, pubblicato da Chiarelettere e. Oppure la preziosa antologia di D’Orsi e Chiarotto. Anche quella è una miniera di idee.
Quindi le polemiche non la preoccupano?
No. Perché credo che le crisi finanziarie e i popoli in rivolta, ovvero i due elementi su cui pensatori come Gramsci si sono rotti la testa sono i ferri del mestiere contemporanei. Non un Gramsci liberale, quindi, ma un Gramsci più attuale: proprio perché passa dieci anni a interrogarsi su quale rivoluzione sogna, e su come realizzarla.

FERRONI

l’Unità 24.5.12
Legge editoria inizia l’esame «Ma servono risorse certe»
di Roberto Monteforte


ROMA «Entro la fine del mese dovremmo approvare il bilancio. Sarò costretto a mettere in liquidazione il giornale. Questa incertezza sui fondi ci uccide tutti». Non si trattiene il presidente della cooperativa e direttore di Qui Magazine di Ravenna, Salavatore San- germano. Con i tagli degli anni scor- si e i ritardi dei finanziamenti non ce la fa più. Lancia il suo allarme.
Occorre sciogliere subito il nodo delle risorse da destinare e in modo certo all’editoria che non risponde al- le logiche del mercato. Altrimenti ogni riforma del settore rischia di es- sere celebrata «sul cimitero delle te- state che ne dovrebbero beneficia- re». Lo hanno sottolineato ieri anche il senatore Pd Vincenzo Vita e Beppe Giulietti, deputato e portavoce di Ar- ticolo 21, primi firmatari delle due proposte di legge «bipartisan» (da parlamentari di tutti i gruppi, com- preso quello Idv precedentemente contrario) che nei due rami del Parla- mento accompagneranno la discus- sione del decreto legge sui nuovi cri- teri per accedere al Fondo editoria e del disegno di legge di riforma del settore presentati dal governo. Han- no dato atto al sottosegretario per l’Editoria Paolo Peluffo del suo impe- gno, ma hanno sottolineato come lo stesso decreto rischi di non poter es- sere applicato per l’insufficienza dei 52 milioni di euro messi a bilancio per il 2012. Ne servono almeno 155 per assicurare un minimo di certez- ze al settore. Soprattutto occorre ri- pristinare quel diritto soggettivo per accedere al finanziamento, la cui cancellazione è stata devastante per il settore. «Senza dati certi non si pos- sono impostare le politiche di riorga- nizzazione del processo produttivo» ha ricordato il presidente di Media- coop, Mario Salani.
Il percorso è avviato. Si partirà al Senato, dove ieri la Commissione Af- fari costituzionali, ha «incardinato» i provvedimenti, relatori Marilena Adamo (Pd) e Lucio Malan (Pdl). Il decreto legge dovrà essere converti- to entro 60 giorni. L’auspicio espres- so da Vita e Giulietti è che si proceda in modo rapido e aperto nella discus- sione, sottolineando che i ddl da loro presentati sono «espressione della cultura riformatrice cresciuta in que- sti anni in Parlamento e fuori».
Vi sono sintonie con il testo del go- verno, ma anche esigenze di corre- zione importanti. Intanto quella bar- riera di due milioni di euro come ri- conoscimento massimo per i dipen- denti assunti a tempo indeterminato che finisce per penalizzare le impre- se con un maggior numero di addetti e con costi maggiori. Quindi pare ina- deguato il rimborso di 0,20 centesi- mi per copia venduta. Nei conteggi andrebbero riconosciute anche le co- pie vendute a blocco ma a prezzo pie- no e gli abbonamenti online

Repubblica 24.5.12
Vincere male il tormento del Pd
Il Pd e la paura da rinnovamento "Possiamo battere Berlusconi ma contro il nuovo perdiamo"
L’allarme: abbiamo i Pizzarotti e li emarginiamo
di Concita De Gregorio


Il partito oscilla tra l´orgoglio della vittoria e lo spavento, perché sa di aver vinto male. E cresce la voglia di cambiamento
A Parma si comincia 15 anni fa, quando allo psichiatra amato in città si preferì un candidato più ortodosso, che perse
Bersani è in campo ma c´è incertezza. E il tempo stringe, a settembre deve esserci il nome del candidato premier

A METÀ strada fra l´orgoglio di bandiera e lo spavento. Fra la soddisfazione di aver vinto nella stragrande maggioranza dei comuni (persino Monza, persino Como, persino Crema) e la certezza di aver vinto male.
Con la metà degli italiani astenuti, con un milione di voti in meno rispetto all´ultima volta e gli iscritti dimezzati, con un avversario politico dissolto, il Pdl e la Lega che non ci sono più. E con l´onda della sfiducia che sale, ormai gigantesca, e che fra Cinque Stelle si incarna in volti e in nomi fino a ieri sconosciuti: Pizzarotti, chi è mai costui? Alvise Maniero di anni 26, nuovo sindaco di Mira già feudo del Pci? Ma il Pd non ce l´aveva un Pizzarotti, un Maniero?
Nel giorno in cui la Camera vota la legge che riduce il finanziamento ai partiti, boccone amaro ma dati i tempi necessario, i deputati del Pd si muovono nel cortile di Montecitorio in mezzo al guado tra la Repubblica finita e quella non ancora cominciata. Amara e mesta la sensazione, dice il capogruppo Dario Franceschini reduce dal voto di drastica austerity, «di fare la cosa giusta ma inutile». Perché il disamore per chi ha condotto i giochi della politica fino ad oggi accomuna «chi ha combattuto Berlusconi e chi lo ha assecondato senza più neppure distinguere il tesoriere che compra diamanti da quello che paga i manifesti elettorali al suo partito». E allora il vuoto attorno cresce e cresce fino ad alimentare la fastidiosa sensazione che il Pd sia un luogo, come dicono coloro che conoscono solo questo linguaggio, "contendibile". Che sia un mezzo di trasporto ancora buono ma privo di una dirigenza all´altezza del compito che l´aspetta. Bersani? Forse, ma forse anche no. Chi altro allora? E attraverso quali metodi di selezione? Perché il tempo è poco, se si vota fra dieci mesi, dice ancora Franceschini, «a settembre al massimo il nome del candidato premier deve essere sul tavolo» e ad oggi il candidato del Pd è Bersani, il segretario. Ma i giovani scalpitano, e non solo loro. Renzi è pronto per primarie che pretende, Civati ha una sua proposta e "Prossima Italia" - un sito, un libro, un progetto - al varo. I "giovani turchi" di Rifare l´Italia (che hanno in antipatia sia l´uno che l´altro) promettono «un grande evento a metà luglio a Milano», annuncia Stefano Fassina che ci lavora con Matteo Orfini, Andrea Orlando, Gianni Cuperlo. Walter Veltroni commemora Falcone e pensa a un listone civico da affiancare a quello del Pd, in Transatlantico mormorano che persino D´Alema si sia infine convinto che senza un rinnovamento visibile la prospettiva dell´alleanza al Centro sia poca cosa e del resto è proprio Fassina, l´ortodosso Fassina a dire «basta pensare a Casini, il "patto di sindacato" che governa il partito deve lasciare campo alla realtà che si muove là fuori. Quello di cui abbiamo bisogno, oggi, è di premere sul governo perché siano rinegoziati con l´Unione europea gli obiettivi di crescita. Anche noi, come la Spagna, dobbiamo ottenere una deroga, spostare in avanti gli obiettivi economici e nel frattempo lavorare a valorizzare i tanti bravissimi dirigenti che abbiamo sul territorio». Il "patto di sindacato" sarebbe la non belligeranza fra Veltroni e D´Alema. Tra i bravissimi dirigenti, Fassina lo elenca fra gli altri, il sindaco dimissionario di Siena, Franco Ceccuzzi, appena caduto sotto i colpi dell´epocale battaglia fra Ds e Margherita all´ombra del Monte dei Paschi, una storia esemplare che intreccia politica ed economia e che si combatte in queste ore nel silenzio quasi assoluto della dirigenza nazionale del partito.
Di storie esemplari, nel Pd, la stagione è colma. Prendiamo Parma, non si può non partire da lì. Parma dove Bersani dice: «Abbiamo non vinto». La storia della sconfitta di Parma, a volerla raccontare tutta, comincia 15 anni fa quando a Mario Tommasini, amatissimo psichiatra basagliano, la dirigenza del partito preferì un candidato più ortodosso e affidabile, che perse. È la regola del cursus honorum, ferrea fin dagli anni del Pci, alla quale ancora adesso è difficile sfuggire. Parti dalla Provincia, passi dal Comune, approdi in Parlamento. A Parma Vincenzo Bernazzoli, presidente della Provincia a fine carriera, era il candidato pd alle primarie. Le ha vinte, ed ha perso le elezioni. Pizzarotti, il candidato Cinque stelle, ha vinto facendo campagna contro il termovalorizzatore che Bernazzoli considerava invece inevitabile. È vero che l´elettorato di centrodestra ha votato Cinque Stelle ma questo non toglie senso al risultato, semmai lo aggiunge. Ascoltiamo cosa dice Laura Puppato, oggi capogruppo Pd nel Veneto, che qualche anno fa, giovane ambientalista, strappò alla destra il comune di Montebelluna proprio con una campagna contro il termovalorizzatore. «Qui dal Veneto è chiarissimo: gli elettori della Lega e del Pdl non hanno più come riferimento Bossi e Berlusconi. Ne cercano un altro. Aderire alla proposta di Grillo è per molti naturale, una sorta di continuità ideale: consente loro di non ammettere di aver sbagliato in passato, di dire che destra e sinistra sono uguali e che appoggiano il nuovo. Mettono tutti sullo stesso piano, la "vecchia politica", e aderiscono ad una proposta che, sotto il profilo del populismo e della demagogia, è in continuità con le loro scelte trascorse. Il Pd vince contro il centrodestra ma perde contro chi si propone come "nuovo": questo è quel che ci dice il risultato elettorale. Da Genova a Parma, perchè anche la vittoria di Genova è una vittoria a metà. Quindi mi pare chiaro che la risposta debba essere questa: rinnovare la classe dirigente, che non vuol dire azzerarla, ma rimettere al centro tutte le persone piene di entusiasmo e di capacità che, per paura del confronto con l´opacità di certi profili promossi per logiche interne alle carriere di partito, sono state fino ad oggi confinate ai margini». Cioè a dire: nel Partito democratico le persone ci sono, di Pizzarotti il Pd è pieno. Solo che stanno di lato, per non fare ombra ai funzionari affidabili. Quelli che vincono magari le primarie col sostegno dell´apparato e la disciplina dell´elettorato, ma poi perdono le elezioni.
Marta Meo, una giovane dirigente del Veneto che - delusa - si è ultimamente fatta da parte pur restando in direzione Pd, aggiunge che «il sindaco di Mira, Alvise Maniero, se fossimo un partito accogliente sarebbe stato uno di noi. E invece no, perchè io capisco che dobbiamo giustamente sostenere questo governo e dunque non possiamo fare quella politica radicale oggi molto richiesta, ma dovremo pur dire al nostro elettorato come la pensiamo sulle cose, dobbiamo pur dire dei sì e dei no. Sul lavoro, sulle tasse, sui diritti civili, sull´ambiente e sulle grandi opere. Sono questi i temi: i "no questo e no quello" hanno trovato humus e si sono rivolti altrove perchè non abbiamo saputo gestire, coinvolgere, dare un posto a preoccupazioni che non sono anti-sviluppo, o almeno non solo: sono legittime paure per la salute per l´ambiente in cui viviamo, per il mondo che abitiamo. I giovani sono lì, giustamente».
Pippo Civati scrive oggi sul suo blog: «Ripeto ormai da anni, perfettamente inascoltato: che bisogna attaccare la Lega (non farle pesanti ammiccamenti), che il Terzo Polo esiste solo nei politicismi di Palazzo e che si deve interpretare il voto al M5S prima che, superando una certa soglia, diventi una forza alternativa al centrosinistra (che poi, come corollario, ci conduca tutti alla sconfitta alle elezioni politiche). Che il Nord non lo rappresenta più nessuno e il Sud si è auto-organizzato intorno a formule di difficile comprensione non appena si supera il Volturno. Che si vede una certa sclerotizzazione al Centro, nel senso geografico del termine: e un drappo pietoso copra Siena e le sue ricchezze perdute».
Siena, la prossima frontiera. Gli antichi responsabili del disastro Monte dei Paschi oggi tacciono. Tace il segretario, impegnato piuttosto a disegnare in relativa solitudine un percorso di galleggiamento fino alla prossima formazione delle liste per le politiche. Vasco Errani e Migliavacca i suoi consiglieri. Errani, al terzo mandato. Migliavacca, custode delle alchimie e dei dosaggi numerici. Salvatore Caronna, europarlamentare, è stato segretario regionale emiliano del Pd. Li conosce bene entrambi. «Accontentarsi di come sono andate le cose non va bene - dice - Nessuno è entusiasta. La scomparsa del Pdl e la crescita della protesta mettono in pericolo la tenuta stessa del sistema paese. Dobbiamo andare ad elezioni con una nuova legge elettorale. E´ dirimente. Bisogna mettere la riforma elettorale come condizione per il sostegno a questo governo». Se no? Perchè non è detto che ci si riesca a fare questa riforma. Anzi. «Se no non esiste. Non è un problema che si risolva attraverso le primarie, questo. Le primarie i candidati perdenti le hanno vinte a Parma come a Palermo. Non si risolve un problema di identità con le primarie. Siamo a un cambio d´epoca, siamo davanti a un vuoto. Qualcuno presto lo riempirà. Il centrodestra, Berlusconi, troverà un nome facendolo uscire dai sondaggi, ci metterà i milioni, sembrerà nuovo. Qualcun altro arriverà. A sinistra bisogna dare una fisionomia alla proposta che vogliamo fare. Subito. Non con un altro giro di giostra fra capi e capetti, no. Con una legge elettorale. Il tempo è scaduto. Il maquillage non serve». Il maquillage, qualunque cosa sia, non serve. Il tempo è scaduto.

Repubblica 24.5.12
Astensionismo
Se il partito del non voto diventa maggioranza
di Carlo Galli


Il record raggiunto alle ultime amministrative in un paese dove l´affluenza alle urne è invece sempre stata altissima fa discutere sullo stato di salute della democrazia italiana
Il rancore di chi pensa che rimane solo questo mezzo per protestare contro i partiti ormai screditati e le istituzioni barcollanti
Un vuoto politico pauroso che presto sarà riempito da poteri che ancora non si vedono, ma sono già pronti a entrare in scena

Esiste anche una politica dell´astensione. Di astensioni è piena la storia, infatti; di secessioni, defezioni, emigrazioni, fughe: cioè di atti deliberati di abbandono del campo, per proseguire la partita altrove – o per cambiare profondamente le regole di quella in corso –. Alle logiche-chiave della politica, inclusione ed esclusione, subordinazione e uguaglianza, particolarismo e universalismo, si può quindi aggiungere anche l´allontanamento, nelle sue varie forme. La politica di chi non ci sta, di quelli che si chiamano fuori.
E sono stati molti, anche senza risalire alla plebe romana che secede sull´Aventino, o ai puritani che si imbarcano sul Mayflower verso il Nuovo Mondo. Sono stati, per rimanere a tempi e a modi a noi vicini, coloro che hanno disertato le urne delle democrazie rappresentative per i più svariati motivi. Per ostilità ideologica, come gli anarchici, che si sono fatti, e si fanno, un punto d´onore di boicottare le elezioni, cioè l´evento attraverso il quale, secondo loro, il sistema del potere attrae a sé i cittadini, e li rende suoi schiavi e suoi complici; o come i cattolici che attraverso la pratica del "né eletti né elettori" rifiutavano il loro consenso al neonato Stato italiano, reo di avere leso i diritti del papa-re; o come i socialisti che davanti alla prima guerra mondiale si misero nella posizione del "non aderire, non sabotare".
Ma l´astensione dalla politica attiva è stata motivata da forme di distacco ancora più profonde, cioè non solo dall´estraneità a uno specifico assetto istituzionale ma alle logiche stesse del politico. Di questa estraneità partecipano in generale le società ricche, affluenti, i cui cittadini si sono a tal punto intossicati con il consumo di beni materiali da non avere più motivazioni a prendere parte attiva alla politica: un disinteresse da bulimia, insomma, un´accidia derivante da un peccato di gola. Nelle democrazie occidentali ben funzionanti è da tempo fisiologico che l´astensione elettorale sia alta; la massa accudita e gratificata è più soggetta all´inerzia e all´apatia che capace di energia e di dinamismo.
Ancora diversa è l´astensione di chi fa proprio il motto "I would prefer not to", "avrei preferenza di no", con cui lo scrivano Bartleby, immaginato da Melville, si sottrae al lavoro, alla responsabilità, e infine al suo tempo, in una sommessa ma ferma prefigurazione americana dell´impoliticismo tedesco di Thomas Mann. E c´è, infine, l´astensione rancorosa di chi pensa di avere solo questo mezzo per protestare contro i partiti screditati e contro le istituzioni barcollanti; di chi, cioè, ha fame di politica ma non trova pane per i suoi denti, e si lascia sfinire per debolezza, fino a quando qualcuno cucinerà il manicaretto che stuzzicherà nuovamente l´appetito a questo elettorato volatile e fluttuante, in momentaneo sciopero della fame. Insomma, le ragioni dell´exit, della defezione vanno dall´apatia per sazietà al digiuno per mancanza di cibo, dall´ascetismo virtuoso all´antagonismo variamente motivato. E soprattutto – è il caso italiano – alla protesta sterile, sostanzialmente irresponsabile.
Dopo avere a lungo virtuosamente esibito alte percentuali di affluenza alle urne – soltanto dopo il 1993 il voto è stato definito solo un diritto, mentre in precedenza era anche un dovere – l´Italia, infatti, registra oggi improvvisamente un tasso record di astensionismo, accelerando drammaticamente rispetto al trend occidentale. La critica alla politica – ai partiti, al ceto politico – si è trasformata in disinteresse di massa, in qualunquismo diffuso. Davanti a questo dato c´è da chiedersi se l´astensione, in Italia, è ancora una politica, o almeno una richiesta di politica, o se non è piuttosto il segno dell´esaurirsi della percezione della necessità della politica. Il quesito è legittimo, nel momento in cui l´astensione nel nostro Paese non è più l´esilio, interno o esterno, a cui si consegna una minoranza, anche consistente, ma è la fine di ogni lealtà politica, la defezione di massa e la muta passiva protesta di una (quasi) maggioranza silenziosa che si sottrae allo spazio politico in quanto tale, facendo così collassare, in prospettiva, l´intero sistema politico. È questa fuga dalla politica la vera antipolitica: non un Gran rifiuto, né un gesto di sfida, ma la scrollata di spalle di chi – in preda a ben più gravi preoccupazioni – liquida come irrilevante la dimensione stessa della politica, delle istituzioni, della vita in comune. In Italia l´astensionismo è la crisi della democrazia, che si somma alla crisi dell´economia: una società frantumata che – avendo sperimentato solo cattiva politica – non crede più di aver bisogno di politica.
Ma se questa astensione è davvero un´astinenza totale dalla politica, se non prepara né una nuova forma di presenza né una richiesta di nuova rappresentanza, se siamo di fronte a un´inerte implosione e non a un´esplosione, allora si deve dire chiaramente che è ingenuo e irresponsabile pensare di sottrarsi dalla politica – che in ogni caso si ripresenta inesorabilmente, come puro potere del più forte –, e che una società senza politica è una società fantasma, che abdica a se stessa, che rinuncia alla propria libertà, o alla propria liberazione. Non esiste una democrazia dell´assenza: questo vuoto politico pauroso sarà presto riempito, probabilmente da poteri che non si vedono ancora ma che certamente si presenteranno sulla scena. Molto presto, insomma, l´Italia sarà messa davanti a queste ipotesi: o la massa astensionistica potrà scegliere offerte convincenti di nuova politica, o sarà capace di immaginare da sé nuove ragioni di politica, o continuerà a costituire la minacciosa e incontrollabile zavorra della politica futura, materia passiva di nuove avventure, presumibilmente sfortunate.

Repubblica 24.5.12
Ma in America è un’abitudine
di Nadia Urbinati


Nella tradizione dei padri fondatori e in quella liberale il suffragio universale e la sovranità popolare sono visti come un pericolo che può aprire la strada alla tirannia della maggioranza
Le radici della scarsa partecipazione negli Usa

L´astensionismo è una malattia cronica della democrazia. Nell´antica Atene lo si curò pagando l´equivalente di una giornata lavorativa ai cittadini che si recavano in assemblea; in alcune democrazie moderne il diritto di voto lo si rende un dovere, multando chi non si reca alle urne. Ma nella patria della democrazia moderna, gli Stati Uniti, non si sono mai usati né incentivi né punizioni per impedire quello che è sempre stato un fenomeno corrente e perfino stimolato. La partecipazione al voto era bassissima anche nel Settecento, negli anni della fondazione, quando a rigor di logica ci si poteva attendere che la passione politica albergasse nei cuori degli ribelli di Sua Maestà britannica e soprattutto quando erano ancora pochi a godere del diritto di voto, del resto associato alla tutela degli interessi dei proprietari. Contrariamente agli stati europei che sono diventati democratici lottando contro nemici interni (gli aristocratici), una situazione che spiega sia la forte motivazione ideologica che l´identificazione del diritto di voto con la libertà politica, lo stato americano è nato repubblicano, opera di pochi virtuosi in reazione contro una monarchia degenerata, ma senza per questo volere un governo democratico. I padri fondatori erano decisamente diffidenti verso la democrazia, nel loro secolo qualificata come dispotismo della massa. Quindi quando misero nel consenso il fondamento della loro repubblica lo fecero senza pensare che nella partecipazione politica risiedesse la libertà. L´appello alla partecipazione era raro negli scritti dei padri fondatori. Del resto, il diritto di voto è stato da subito concepito come un diritto dell´individuo, simile a quello di parola o di religione; un diritto che lo stato si impegnava a garantire rendendone l´uso sicuro, non facile. Per essere liberi è sufficiente avere un diritto, non è necessario usarlo. Questa visione – che si regge su una diffidenza profonda verso la politica istituzionalizzata – non è cambiata quando dopo la guerra civile agli schiavi è stato concesso il diritto di voto, passo decisivo verso il suffragio universale. L´associazione della libertà con l´avere, non l´esercitare, il diritto di voto spiega perché nonostante le lotte pionieristiche delle suffragiste americane l´affluenza alle urne non è mai stata ampia neppure nei momenti politicamente più attivi.
La scienza politica americana riflette il timore della democrazia partecipativa dei padri fondatori. Per autori liberali come Walter Lippmann, la sovranità democratica e l´espressione della volontà popolare erano sinonimi di tirannia della maggioranza, non di buon governo né di libertà. Per molti autori del ventesimo secolo, la politica era un´attività di secondaria importanza: se le cose vanno bene, questa la loro convinzione, non c´è ragione che il popolo si affanni a perdere tempo con la politica. Negli anni ´30 e ´40, in risposta ai dispotismi di massa europei, si consolidò la convinzione che quando l´attività politica è vigorosa, come per esempio nella Germania che portò a Hitler, la democrazia è in imminente pericolo. L´apatia venne per questo ritenuta un segno di salute della democrazia, un indicatore che non c´erano problemi per i quali mobilitarsi. Oggi sembra vero l´opposto. La disaffezione degli elettori è un segno nemmeno troppo criptico di un profondo senso di malessere politico. E preoccupa il presagio che la robusta partecipazione elettorale (57%) che segnò la vittoria di Obama non sarà replicata il prossimo novembre. La defezione elettorale è a tutti gli effetti il segno dell´insoddisfazione dei cittadini verso una classe politica timida e poco competente, quando non disonesta, e verso le sue promesse non mantenute.

Repubblica 24.5.12
Un nuovo patto
di Nadia Urbinati


C´è ancora spazio per una politica progettuale in Occidente? Dopo la stagione riformatrice guidata dalla terna Clinton-Prodi-Blair sarà la volta di Obama-Hollande-Monti? L´analogia tra i due tempi del riformismo occidentale ha fatto timidamente capolino in alcuni blog stranieri in coincidenza con il recente summit di Chicago che ha, da un lato, rilanciato il ruolo internazionale del nostro paese e, dall´altro, decretato la sconfitta dell´austerità senza espansione. Il bisogno di immaginare una nuova strada dove sicurezza sociale e libertà riprendano a marciare insieme non è solo dell´Europa. Gli Usa non ne hanno meno bisogno. Senza giri di parole, soprattutto dopo la vittoria di Hollande e le sconfitte elettorali del partito della Merkel, un nuovo New Deal sembra meno utopistico oggi di quanto non lo fosse qualche mese o poche settimane fa. L´opinione pubblica è sempre più convinta che i governi debbano riprendere in mano la progettualità sociale ed economica e soprattutto togliere alla agenzie private di rating il potere arbitrario della reputazione (e della sfiducia). I governi sembrano meno entusiasti dell´opinione dei loro paesi ma non è chi non veda che è nel loro interesse riaffermare l´orgoglio della politica democratica come fece il governo federale americano quando negli anni ´30 e ´40 lanciò una campagna poco tenera contro i "grandi papaveri della finanza".
Il bisogno di un nuovo New Deal pare far breccia anche in Europa, costringendo governi poco immaginativi a rivedere la loro tradizionale percezione della politica europea come non-politica o, al massimo, politica-cerotto. Di fronte al bivio di perire o riprendere il filo interrotto della costituzione politica, è probabile che la necessità riesca a fare ciò che la volontà è stata fin qui incapace di fare: dare corpo al progetto di un´Europa politica democratica. Al progetto federale. Dove ispirarsi se non agli anni Trenta in America, dove la distruzione fu come oggi causata non da una guerra ma dalla mancanza di regole e di governo dell´economia. Allora, la depressione causò migliaia di suicidi e una disoccupazione che in due anni passò dal 6% al 25%. L´emergenza fu domata con la politica non dell´eccezione ma della progettualità sociale. Nacque così la democrazia che è a noi familiare.
New Deal vuol dire "nuovo patto" fra il governo e i cittadini. Quando venne messo in cantiere, in due fasi, tra il 1933 e il 1938, non c´era ancora la guerra ma la distruzione del sogno americano era già iniziata da qualche anno. Franklin Delano Roosevelt fece comprendere ai suoi concittadini che c´era un solo modo per rispondere all´emergenza: diventando più, non meno, democratici. In Europa, già sotto il tallone dei totalitarismi, a comprendere per primi questa sfida furono i liberal-socialisti italiani. In articoli illuminanti di Carlo Rosselli e di alcuni collaboratori dei "Quaderni di Giustizia e Libertà" venivano nei primi anni ´30 messi nero su bianco i criteri che, dopo la guerra, avrebbero consentito ai paesi europei di ricostruirsi su basi democratiche: primo fra tutti la responsabilità del governo di garantire la sicurezza sociale e la libertà.
Tre libertà furono messe in campo da quei visionari: quella politica, quella civile e quella economica. Per far sì che queste tre libertà operassero insieme essi compresero che occorreva garantire tre sicurezze: l´azione del governo, la responsabilità dei cittadini, le garanzie economiche o del lavoro. Il problema che si era posto il presidente Roosevelt era di fare interagire queste tre libertà e queste tre sicurezze, usando le istituzioni non come guardiani inattivi. La strategia fu una sinergia federativa, politica e sociale.
L´esito del New Deal, un programma non tanto di incentivi all´occupazion ma di creazione di lavoro (per infrastrutture soprattutto, ma non solo) da parte del governo, fu l´opposto di quel che i suoi nemici liberisti temevano: uno stato democratico. E in effetti, Roosevelt dovette convincere i suoi concittadini che egli non aveva alcuna intenzione di diventare un dittatore, che guidare uno Stato non-interventista non era la stessa cosa che dar vita al fascismo. E così pure Rosselli, che proprio in quegli anni chiarì la differenza tra stato democratico che interviene nell´economia e dittatura o totalitarismo.
Di qua e di là dell´Oceano (benché in diversissime condizioni) venne messo in quegli anni in piedi l´architrave di una concezione bipolare del liberalismo: uno non-interventista e indifferente alla democrazia, e uno sociale e naturale alleato della democrazia. La differenza tra i due stava proprio nel modo di interpretare la libertà. E la domanda che pose Roosevelt era molto ben posta: siamo sicuri perché siamo liberi o siamo liberi perché siamo sicuri? Che cosa deve fare un governo democratico perché la sicurezza della libertà dei suoi cittadini sia vissuta, non solo sancita?
Nella repubblica federale americana l´esito della grande depressione fu l´irrobustimento della democrazia e il rafforzamento della solidarietà: la realizzazione di quella "più perfetta unione" enunciata nella Dichiarazione di Indipendenza. L´esito fu la reinterpretazione del liberalismo come "libertà dalla paura" non dello Stato, ma, ora che lo Stato democratico era costituzionale, dell´irresponsabilità di alcuni a scapito dell´interesse generale. Salvare la democrazia dal collasso del capitalismo senza regole fu la scommessa vinta dal primo New Deal, l´architrave della nostra democrazia. È ragionevole pensare che la rinascita della legittimità democratica in Europa richieda un nuovo New Deal.

l’Unità 24.5.12
Lusi, nuovo memoriale «Querelo Renzi e Rutelli»


Luigi Lusi non ha firmato i verbali della sua audizione in Giunta per le immuni- tà del Senato. L'ex tesoriere della Mar- gherita ha invece preteso alcune corre- zioni al “brogliaccio” delle sue dichiara- zioni di mercoledì scorso. La nuova ver- sione del testo dovrà essere ora distri- buita ai componenti della Giunta e, se sarà condivisa, verrà finalmente invia- ta ai pm romani, che ne hanno fatto ri- chiesta. Sul verbale dell'audizione di mercoledì scorso, la Giunta aveva ieri dato via libera con un voto, così come, sempre votando, aveva autorizzato all' unanimità la tramissione dei testi alla Procura di Roma.
Intanto ieri sera si è riunita la giunta per le Immunità del Senato. Dove Lusi avrebbe presentato un nuovo memoria- le difensivo, nel quale insiste sulla «ab- normità» della richiesta di arresto ema- nata nei suoi confronti dalla Procura di Roma. Lusi, rispondendo alla domanda di un senatore, avrebbe nuovamente sottolineato l'evidente intento persecu- torio dei magistrati nei suoi confronti, il «fumus persecutionis» e la totale as- senza, secondo lui, di pericolo di fuga o di inquinamento delle prove, le due ra- gioni per cui i magistrati romani hanno spiccato il mandato d'arresto. Mentre sull'immobiliare canadese al centro dell'inchiesta a carico dell'ex tesoriere della Margherita, ha detto: «Servono chiarimenti. C'è una commistione che non è stata valutata adeguatamente».
E ieri mattina Lusi ha annunciato querela contro Matteo Renzi e France- sco Rutelli: «Mi hanno detto cose vergo- gnose. Ho dato mandato ai miei avvoca- ti di querelare tutti coloro che mi han- no attribuito frasi inappropriate». Re- plica il sindaco di Firenze: «La querela mi sembra una cosa fantastica, così fi- nalmente faremo chiarezza di tutte le cose che ha detto su di me. Mi sembra una cosa positiva». E poi: «Lusi ha pre- so dei soldi che non erano i suoi, erano i soldi della Margherita, e si è comprato le case; una, due non si sa, saranno i giudici a vederlo. Per me uno che pren- de soldi che non sono suoi e li mette sulla casa privata è un ladro. Per com- prare la casa si fa il mutuo, come ho fatto io; se invece si prendono i soldi de- gli altri è inutile poi sentirsi diffamati. Lusi ha detto delle cose non vere su di me: che mi sono fatto dare da lui i soldi della campagna elettorale, mentre ho dimostrato dove sono stati presi. Il fat- to che la Margherita abbia finanziato delle iniziative a Firenze dal 2004 è na- turale, non lo è che abbia pagato la casa al tesoriere».
Sulla questione interviene anche la senatrice dell'Api Cristina De Luca: «La querela per diffamazione presenta- ta da Lusi nei confronti di Rutelli e Ren- zi si commenta da sola. Oltre al danno la beffa»

il Fatto 24.5.12
Lusi: “I pm sono stati manovrati da Rutelli”
di Davide Vecchi


 I pm sono stati manovrati dagli ex vertici della Margherita”: l’ex tesoriere Luigi Lusi non arretra di un passo e anzi alza il tiro, puntando sempre a Francesco Rutelli e chiedendo perché finora gli inquirenti non hanno avviato accertamenti anche sul presidente dell’Api. La seconda audizione in Giunta per le autorizzazioni al Senato, ieri, ha visto nuovamente un Lusi agguerrito nel difendersi attaccando i vertici della fu Margherita. E se è vero, come sostiene l’ex tesoriere, che la procura non ha ancora avviato accertamenti a carico di altri esponenti del partito oltre a lui, è altrettanto vero che Lusi in nessun interrogatorio ha riferito di aver dato soldi a Rutelli, Bianco, Renzi e altri.
SOLO IN PRIMA audizione in Giunta (mercoledì 16 maggio) l’ex tesoriere ha fatto nomi e rivelazioni. “Io ho sempre risposto alle domande che mi sono state poste” ha ripetuto Lusi. Tradotto: i pm non mi hanno mai chiesto nulla sugli altri esponenti del partito.
La linea difensiva dell’ex tesoriere, chiaramente illustrata nelle 35 pagine di memoriale consegnate ai suoi colleghi della Giunta mercoledì 16 e aggiornate ieri, punta a dimostrare l’esistenza del “fumus persecutionis” da parte della magistratura. “Ne è riprova il rifiuto di concedere l’incidente probatorio sui movimenti economici come richiesto dai miei legali”, ha spiegato Lusi. Non solo, ma la persecuzione sarebbe confermata anche dalla richiesta di misure cautelari nei confronti dell’ex tesoriere, della moglie, Giovanna Petricone, e dei due commercialisti che hanno curato gli interessi delle società immobiliari riconducibili al senatore. E ancora: il reato inizialmente contestato a Lusi di appropriazione indebita “non prevede la misura cautelativa dell’arresto”, ha spiegato ieri il senatore in Giunta. L’imputazione “è stata trasformata solo in un secondo momento in associazione, comunque non nata per delinquere”. Tutto questo dimostrerebbe, secondo l’ex tesoriere, un accanimento nei suoi confronti da parte dei pm che lo indagano per appropriazione indebita dei circa 21 milioni di euro che mancano dai conti del partito. Indagini “a senso unico nei miei confronti, di mia moglie, dei miei familiari, delle persone a me più care con l’intento di voler addebitare esclusivamente a me le responsabilità della gestione dei fondi della Margherita”, si è difeso Lusi. “Ma non ero solamente io ad approvare i bilanci e le verifiche dei movimenti sarebbero anche semplici: basta andare a controllare gli estratti conti e i movimenti del partito”. Quindi una domanda: “Perché nessuno ha avuto interesse finora a compiere delle verifiche approfondite? ”. Il nessuno è, ancora una volta, la Procura a cui, secondo Lusi, Rutelli ha dettato la linea.
Il segretario dell’Api, intanto, ha presentato una seconda querela (questa volta per calunnia) contro l’ex tesoriere e a questo punto è plausibile ne arrivi un’altra. Ma solamente dopo che sarà trascritta e trasmessa la registrazione della audizione di ieri sera che sarà trasmessa ai pm.
SULLA DECISIONE di inviare i documenti della seduta alla Procura è sorto un piccolo giallo: della prima audizione non c'è né resoconto stenografico né registrazione, ma solo uno scarno reso-conto sommario che lo stesso Lusi, come ha riferito, ha provveduto a correggere. Il regolamento del Senato prevede infatti che i suoi componenti possano rileggere il testo dei loro interventi, anche se solo per modifiche migliorative e comunque non per stravolgere il senso di quanto affermato in aula o in commissione. Così per la seduta di ieri sera è stata predisposta la registrazione per consentire la redazione di un resoconto stenografico, vale a dire letterale, da poter trasmettere agli inquirenti.
“Spero autorizziate l’arresto”, ha detto Lusi. Ed è plausibile che sarà accontentato. il Pdl non ha visto di buon occhio il sì agli arresti domiciliari espresso dalla Giunta nei confronti del senatore pidiellino Sergio De Gregorio, rimasto invischiato nello scandalo legato a Valter Lavitola. La decisione sembra dunque scontata, perchè la maggioranza dei commissari, a cominciare dallo stesso presidente della Giunta Follini, non vede “fumus persecutionis”. Il senatore tenta comunque di difendersi. E, come minacciò mesi fa, “se parlo io crolla il centrosinistra”.

il Fatto 24.5.12
Montecitorio
“Diaz” alla Camera Lo guardano solo tredici deputati
di Paola Zanca


Le luci si sono già accese, ma Roberto Menia non applaude. Resta fermo qualche secondo con gli occhi di ghiaccio persi nel vuoto, poi prende la giacca e dice ai suoi due accompagnatori: “Andiamo, va”. Ha appena finito di vedere “Diaz”. Per la prima volta in un’aula della Camera. Paola Binetti invece è rimasta immobile per tutta la proiezione, aggrappata alla sua borsetta nera. Poi è corsa via, senza salutare nessuno. Menia è ancora lì, “perplesso”. Agitato perché “la polizia italiana sembra una banda di delinquenti”. Nervoso perché “manca il clima di quei giorni”. Irriguardoso quando tira in ballo Carlo Giuliani che “non è un martire” e “faceva l’elemosina” e sua madre Heidi che è pure “finita a fare la parlamentare europea”. Ermete Realacci, però, lo abbraccia perché una cosa gli fa onore: almeno lui – finiano, missino fin da piccolo – a vedere il film sugli orrori della polizia nell’ultima notte del G8 c’è venuto. Gli altri no. Alla prima assoluta delle immagini sul massacro di Genova ci sono, udite bene, 13 parlamentari. Facciamo i nomi: Walter Veltroni (accompagnato dalla figlia), Andrea Sarubbi, Ermete Realacci, Francesco Ferrante e Roberto Della Seta. Sono i cinque democratici che hanno coltivato il sogno di “portare Diaz dentro un luogo delle istituzioni”. Ma la loro bellissima idea, il loro lodevole impegno, non è servito a trascinare le folle. Li hanno seguiti solo i pd Walter Verini, Antonio Misiani, Federica Mogherini, Manuela Granaiola e Rosa Calipari, l’idv Pierfelice Zazzera, la Binetti e Menia.
TREDICI su 915: l’1,4 per cento. Numeri da tracollo elettorale. “L’indignazione è viva: chi la ignora merita di scomparire – dice il regista Daniele Vicari – Per me queste cose sono determinanti quando devo scegliere: la Diaz è un fatto che è entrato nella coscienza civile, chi vede il film si commuove, si arrabbia, si sente male: è un problema della politica non saperlo interpretare”. Lui e Domenico Procacci, produttore del film con Fandango, non si aspettavano di vedere chi era ministro, come Gianfranco Fini, Claudio Scajola, Roberto Castelli. I “nomi della politica” non li hanno messi nemmeno nel film “e ce lo hanno rimproverato – spiega Procacci – Ma noi in Diaz raccontiamo l’assenza della politica”. Oggi come allora: assente alla proiezione del film, assente sulla tortura, il reato sconosciuto al nostro codice che avrebbe evitato molte prescrizioni, assente sui segni di riconoscimento con cui si sarebbero potuti identificare un po’ più dei 29 poliziotti (su 300) in servizio a Genova, assente sulla commissione d’inchiesta, bocciata due volte. Lode ai 13, davvero troppo pochi.

Repubblica 24.5.12
Quando tutti i medici sono obiettori di coscienza
Il San Camillo di Roma è l’unico ospedale del Lazio a usare la Ru486, ma le donne devono subire ricoveri impropri
"Io, ginecologa isolata dagli obiettori con l’aborto ho perso pazienti e carriera"
di Adriano Sofri


Il racconto di Giovanna: così in Italia l´interruzione di gravidanza è sempre più difficile
Ai movimenti contro la 194 arrivano ingenti sovvenzioni mentre il nostro lavoro, pubblico, viene ostacolato

«È successo a Napoli, a marzo: un ginecologo del Policlinico Federico II è morto, investito sulle strisce, e per due settimane non si sono fatte interruzioni di gravidanza», racconta Giovanna Scassellati. A stare ai numeri dell´obiezione di coscienza, l´Italia è più rigorosa della Ginevra di Calvino. Purché si tratti dell´obiezione all´interruzione di gravidanza regolata da una legge dello Stato.
Lungi dall´affrontare la persecuzione, i medici obiettori vedono favoriti carriera e guadagni. Sono obiettori il 71 per cento dei ginecologi italiani. In Basilicata 9 su 10, l´84 per cento in Campania, più dell´80 in Lazio e nell´Alto Adige-Sud Tirolo. All´ospedale di Fano tutti i medici sono obiettori. A Treviglio, Bergamo, sono obiettori 24 anestesisti su 25. Una dose modica di ipocrisia è essenziale alla convivenza civile. L´eccesso di ipocrisia la degrada. Giovanna Scassellati dirige dal 2000 il Day Hospital-Day Surgery della legge 194 al San Camillo di Roma, che dal 2010 fa da centro regionale per chi non trovi accoglienza in altri ospedali, dove i reparti sono stati chiusi. Su 316 ginecologi nel Lazio 46 non sono obiettori, e in 9 ospedali pubblici non si fanno interruzioni di gravidanza, come imporrebbe la legge a tutti gli ospedali non religiosi.
«Siamo come panda, al San Camillo su 21 i non obiettori sono 3, io, che vinsi il concorso, e 2 a contratto biennale. E gli aborti coprono il 40 per cento delle operazioni di ostetricia».
«Io sono specializzata in ginecologia, ostetricia e oncologia medica e faccio quello che pressoché nessuno vuole fare: manovalanza. Nelle coscienze non si entra, ma nelle predilezioni per le ecografie, per gli ambulatori privati, per l´intramoenia, quello sì. E le cose peggiorano. Avevamo un progetto che, da Veltroni sindaco in qua, diede risultati importanti: finanziava l´opera di mediatrici culturali, rumena, marocchina, albanese, che incontravano le donne, ne conoscevano istruzione, condizioni di famiglia, se avessero o no un medico cui rivolgersi, la prevenzione delle interruzioni di gravidanza. C´era una cinese bravissima, agopuntrice, pubblicavamo articoli sui loro giornaletti. Una cooperativa, scelta con un bando, dava la copertura assicurativa. I fondi dei progetti sociali sono stati tagliati dalla giunta Alemanno. Abbiamo raccolto 120mila firme contro la proposta di legge di una consigliera regionale che di fatto abolisce i consultori. I movimenti contro la 194 ricevono sovvenzioni ingenti, mentre il nostro lavoro, pubblico e, per quanto mi riguarda, attento a non derogare mai alla legge, viene così ostacolato. Di serie politiche sulla famiglia, come quelle francesi o anche inglesi, non si vede l´ombra. La 194 è una legge giusta, passò per la caduta di tre governi, la firmò Andreotti, certo che fu un compromesso, il vero compromesso storico. Al San Camillo mi raccontarono che nel 1977 (la legge è del 22 maggio 1978) morirono di setticemia tre donne, senza dire chi aveva procurato l´aborto».
Le avranno chiesto quanti aborti ha assistito. Ha un gesto di impazienza. «Non lo so, e non so nemmeno quanti bambini ho aiutato a far venire al mondo. Mia madre era di Savigliano, nel cuneese, è stata una delle prime ginecologhe. Seguì i corsi di preparazione al parto a Parigi, a Roma fu assistente ospedaliera al Sant´Anna. Le mie scelte sono state legate a lei, e al primo figlio che ebbi quando ero ancora al terzo anno di università. Mi trasferii a Chieti, ci restai 4 anni. C´erano bravi professori, dal Gemelli o da Bologna, ero interna all´ospedale, avrei potuto fare lì la mia carriera. Ero femminista, partecipavo degli impegni di allora, i viaggi a Londra, i radicali. Mia madre ha sempre fatto le interruzioni di gravidanza. Mio padre era molto cattolico e contrario, ma sapeva che l´aborto è un enorme problema personale e sociale e culturale, che non basta esorcizzarlo. Ho lavorato tanto con mia madre. Non c´era solo un rapporto madre-figlia fra noi, né una competizione: volevamo far andare le cose nel modo migliore. Lei è morta nel 1996, di uno dei più aggressivi tumori all´utero. A San Camillo c´era la vasca, l´avevano sovvenzionata le elette del Comune di Roma, vi sono avvenuti 300 parti, ora è in soffitta. C´è la parte sporca dell´ostetricia, il lavoro sociale, quello che coinvolge le emozioni. La maternità ti fa diventare amica della donna che assisti, per sempre. Con l´aborto non ti fai clienti: succede che non abbiano più voglia di vederti, dopo. E la gente per lo più sceglie questo mestiere per fare i soldi. Prova a dare un incentivo materiale a chi non obietta, e vedrai».
Lei non è diventata primario. «Non ci sono primari non obiettori. Poi sono donna. Poi forse non ci tenevo. Io faccio le guardie, regolarmente, cinque o sei notti al mese, e vado ancora a fare i parti a casa. Ho ereditato la direzione del reparto da uno che aveva avuto guai con la giustizia. Accettava pochissime donne e faceva gli aborti privatamente, a Villa Gina, nel 2000 scoppiò lo scandalo. Ero l´unica non obiettrice, fui nominata con un´ordinanza. Fino ad allora, per dieci anni, avevo lavorato anche volontariamente in un ambulatorio nella ex centrale del latte, con le donne straniere, venivano a decine, specialmente il giovedì, che è il giorno libero delle badanti. Il reparto al San Camillo è squallido, nel sotterraneo, ma è bello che abbia accessi indipendenti, l´ambulatorio di contraccezione ecc. I pavimenti sono rattoppati, ci ho messo tre anni a ridipingere le pareti».
«Una questione cruciale è l´aborto farmacologico, la Ru 486. Siamo l´unico ospedale nel Lazio che lo fa. L´Agenzia del farmaco suggeriva che andasse fatto col ricovero. Dunque si fa in regime di ricovero - i tre giorni prescritti - dopo di che le donne firmano e vanno a casa, dopo 48 ore tornano per il secondo farmaco e restano fino all´espulsione, poi a casa. Le donne sono responsabili, tornano tutte. Si è fatta una campagna sui rischi micidiali di questo metodo. Si è poi accertato che le morti (7 certificate in tutto il mondo) derivavano dalla somministrazione per via vaginale nelle prime settimane, invece che per via orale. Così le donne devono subire questi ricoveri impropri. La firma è un escamotage ultra-ipocrita, e significa apertura e chiusura di cartelle, per noi che abbiamo due letti e facciamo ruotare le donne, 30-35 al mese, e le richieste sono più numerose, perché nessun altro lo fa, né l´università né gli ospedali. In tutta l´Umbria non una sola struttura. Le straniere la chiedono meno, perché bisogna che conoscano bene la lingua e capiscano a fondo le istruzioni, e poi preferiscono l´aborto chirurgico per non perdere 3 o 4 giorni di lavoro. Le donne ricche vanno a Marsiglia, e amen. Come per la legge sull´eterologa, tornata d´attualità oggi. E pensare che uno dei fondatori era italiano, il prof. Lauricella, primario di mia madre. Ogni tanto penso che vorrei andare via. Ho diretto per tre mesi, da volontaria, un ospedale dei comboniani a Moroto, Uganda, 60 posti letto di ostetricia e ginecologia, e ho lavorato in Etiopia e in Eritrea per la prevenzione dei tumori del collo dell´utero. Le donne povere del mondo povero muoiono di aborto proibito».

l’Unità 24.5.12
Ancora guerre e morte La geografia atroce dell’umanità violata
Una delle piaghe denunciate da Amnesty riguarda gli eserciti
di bambini soldato sparsi nel mondo
Il rapporto di Amnesty traccia il quadro delle libertà e dei diritti
Ma il 2011 è stato anno di lotta e ribellioni
di Umberto De Giovannangeli


ROMA RADIOGRAFIA DI UN MONDO ALLA RICERCA DI DIRITTI NEGATI E DI POPOLI che lottano per conquistarli. Il mondo visto da Am- nesty International. Restrizioni alla li- bertà d'espressione in almeno 91 Paesi; maltrattamenti e torture in almeno 101 Paesi, soprattutto nei confronti di per- sone che avevano preso parte a manife- stazioni antigovernative; condanne a morte eseguite in 21 Paesi ed emesse in 63; almeno 18.750 prigionieri nei brac- ci della morte.
Sono questi i principali dati contenu- ti nel Rapporto annuale 2012 di Amne- sty International. Almeno il 60% delle violazioni dei diritti umani - prosegue il Rapporto - è legato all'uso di armi di piccolo calibro e armi leggere; almeno 55 tra gruppi armati e forze governati- ve arruolano bambini come soldati o au- siliari; solo 35 Paesi pubblicano rappor- ti nazionali sui trasferimenti di armi convenzionali e ogni anno 500mila per- sone muoiono per atti di violenza arma- ta. Per quanto riguarda in particolare le Americhe, Amnesty documenta che sono stati fatti alcuni passi avanti nella lotta contro l'impunità, ma le forze di sicurezza hanno proseguito a commet- tere torture, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni.
TROPPI CONFLITTI
Difensori dei diritti umani in America Latina e nei Caraibi hanno subito mi- nacce, intimidazioni e attacchi mortali. I popoli nativi hanno continuato a lotta- re per i loro diritti, specialmente quello alla terra, ma gli interessi delle aziende hanno spesso prevalso sulle loro riven- dicazioni. Migranti in transito per il Messico sono stati attaccati, stuprati e uccisi. In molti paesi dell'Africa Sub- sahariana si sono svolte manifestazioni antigovernative, represse con la violen- za dalle forze di sicurezza che hanno usato armi letali contro i dimostranti ri- manendo quasi sempre impunite. La violenza e i conflitti armati hanno pro- vocato indicibili sofferenze e innumere- voli vittime in Costa d'Avorio, regione orientale della Repubblica Democrati- ca del Congo, Somalia, Sud Sudan e Su-
dan. In Medio Oriente e Africa del Nord le rivolte popolari hanno deposto regi- mi al potere da decenni. Manifestanti e dissidenti hanno subito violenza e re- pressione e scarsi tentativi sono stati fatti per chiamare i responsabili a ri- spondere del loro operato.
In Egitto, Libia e Tunisia, migliaia di prigionieri politici sono stati rilasciati e la libertà d'espressione è stata amplia- ta. Tuttavia, sono proseguite le violazio- ni che avevano luogo sotto i precedenti regimi, come la tortura e l'uso eccessi- vo della forza contro i manifestanti e le restrizioni alla libertà di parola. In tutta la regione, la radicata discriminazione contro donne, minoranze e migranti è rimasta diffusa. Sono aumentate le ese- cuzioni capitali, in particolare in Iraq, Arabia Saudita, Iran e Yemen. In Asia e nel Pacifico la libertà d'espressione ha subito restrizioni. In India sono state in- trodotte nuove restrizioni ai social me- dia.
Migliaia di dissidenti sono rimasti nei campi di prigionia della Corea del Nord. In Thailandia sono state inflitte dure pene detentive per offese alla fami- glia reale. In Pakistan due politici sono stati assassinati per aver contestato l'uso delle leggi sulla blasfemia. Tortu- re e maltrattamenti sono stati docu- mentati in numerosi paesi, tra cui Co- rea del Nord e Cina.
Ultimo focus sull'Europa e l'Asia Centrale: in tutto lo spazio ex sovietico i difensori dei diritti umani e i giornalisti sono stati perseguitati, intimiditi e pic- chiati. In Kazakistan, Turkmenistan e Uzbekistan persone che avevano criti- cato le autorità sono state sottoposte a processi irregolari e a persecuzioni. Le proteste antigovernative in Bielorussia e Azerbaigian sono state stroncate con la violenza o dichiarate illegali e i loro organizzatori imprigionati. In Russia persone che prendevano parte a mani- festazioni contro il governo hanno subi- to violenza. Almeno 1500 migranti e ri- fugiati, tra cui donne incinte e bambini, sono annegati mentre cercavano di rag- giungere l'Europa via mare. L'Italia ha espulso molte persone arrivate dalle Tunisia e altri Paesi, come Francia e Re- gno Unito, hanno rifiutato di reinsedia- re migranti libici. Le minoranze, come lesbiche, gay, bisessuali e transgender hanno subito ampie discriminazioni. «Il 2011 è stato un anno davvero pro- rompente. Le persone sono scese a mi- lioni in strada per pretendere libertà, giustizia e dignità e in alcuni casi hanno conseguito risultati memorabili», ricor- da Amnesty. Una battaglia di libertà che non conosce confini.

Katharina Schwabedissen (a sinistra) e Katja Kipping, due delle tre candidate ai vertici della Linke, la sinistra radicale oggi in crisi

La Stampa 24.5.12
Germania, i maschi sconfitti cedono il potere alle donne
In politica nei posti-chiave. L’ultima sfida: la guida della Linke
di Alessandro Alviani


BERLINO A tirar fuori dalla crisi il partito che più di ogni altro si richiama oggi in Germania alla tradizione di Rosa Luxemburg dovrebbe essere una donna. O forse due. Per la prima volta i vertici della Linke potrebbero essere infatti tutti femminili: Katja Kipping e Katharina Schwabedissen, rispettivamente vice presidente nazionale e segretaria regionale in Nordreno-Vestfalia, si sono candidate insieme alla guida della sinistra radicale tedesca. Le due avvierebbero non solo un ricambio generazionale in una formazione tutt’altro che giovane (la prima ha 34 anni, la seconda 39), ma porterebbero uno stile diverso, «non autoritario», per dirla con le loro stesse parole. Niente a che fare, insomma, con la leadership dell’ex numero uno Oskar Lafontaine, che non a caso è soprannominato «Il Napoleone della Saar» e martedì, a sorpresa, ha rinunciato a tornare a capitanare la Linke.
Per scoprire se Frau Kipping e Frau Schwabedissen ce la faranno bisognerà attendere il congresso del 2 e 3 giugno. A soffiar loro il posto potrebbe essere un’altra donna: Sahra Wagenknecht, la neo-comunista più famosa della Germania, nonché compagna di Lafontaine. L’attuale leader Klaus Ernst ha proposto lei come nuovo presidente. Non solo: in lizza c’è anche la deputata della Sassonia Sabine Zimmermann. In un caso come negli altri un punto è chiaro: almeno una donna sarà chiamata a tirar fuori la Linke dal profondo caos e dalle lotte intestine in cui è precipitata. «Due uomini li abbiamo già avuti», ha chiarito Ernst. È quindi ora di voltar pagina. E di scriverne una nuova nella storia politica tedesca.
Se la Linke si affiderà a una leadership femminile, infatti, per la prima volta la maggioranza dei cinque partiti presenti al Bundestag (contando insieme la Cdu e la sua gemella bavarese Csu) avrebbe almeno una donna ai suoi vertici: la Cdu con Angela Merkel, i Verdi con Claudia Roth (che si divide il posto con Cem Özdemir) e, appunto, la Linke. Senza contare il fatto che anche la grande speranza della Spd è una donna: quella Hannelore Kraft che ha appena trionfato alle regionali in Nordreno-Vestfalia e che oggi, sondaggi alla mano, batterebbe Frau Merkel in un’ipotetica corsa a due per la cancelleria (anche se lei insiste di non volersi trasferire a Berlino).
«Ormai non si può più fare a meno delle donne», sorride nel suo ufficio la socialdemocratica Petra Merkel, presidente della Commissione Bilancio del Bundestag. Sembra pensarla così anche la sua omonima, Angela Merkel: nessuno nel governo federale ha promosso tante donne quanto lei. Dal 2009 la percentuale nelle posizioni di vertice della cancelleria è salita del 35%, ha rivelato un recente studio della società di consulenza Kienbaum. Peccato solo che, mentre la politica tedesca chiede alle aziende quote rosa del 30%-40%, l’intero esecutivo conti, ai vari livelli ministeriali, appena il 25% di donne. La strada da fare resta insomma lunga.

Repubblica 24.5.12
"Il futuro lo decidiamo noi" viaggio tra i seggi del Cairo presi d’assalto dalle donne
Egitto, alle presidenziali è battaglia tra laici e islamici
Youssra è una rappresentante di lista: "Non riesco a credere che stia succedendo"
di Fabio Scuto


IL CAIRO - Eccitati, ansiosi e talvolta anche un po´ smarriti, oltre cinquanta milioni di egiziani hanno iniziato a votare ieri per la prime elezioni presidenziali dopo la caduta di Hosni Mubarak. Alla scuola "Gamal Abdel Nasser", nel quartiere di Dokki, ieri mattina molti elettori sono arrivati anche un´ora prima dell´apertura delle urne. Uomini e donne, come si conviene in un Paese islamico, sono allineati in due file differenti, sotto l´occhio vigile dei soldati armati.
Rania Mohammed, elegante signora in tailleur grigio e foulard sul capo, sembra esitare tra due candidati. «Deciderò nella cabina elettorale. Si può dire che sarà la penna a decidere». Una ragionamento che riflette perfettamente gli umori degli elettori egiziani dominati dall´incertezza. Sono dodici, dopo un ritiro dell´ultimo minuto, i candidati che si sfidano per la presidenza. Tra loro difficilmente qualcuno raggiungerà il 50 per cento dei voti e il rinvio al ballottaggio del 16 e 17 giugno sembra inevitabile. La vittoria di un candidato islamico a queste presidenziali chiuderebbe un cerchio. La Fratellanza che già insieme ai salafiti domina il Parlamento eletto a novembre, sostiene che la religione avrà un peso relativo nel futuro Egitto, che nessuno costringerà le donne a indossare il velo, né verranno applicate le punizioni della legge islamica, come le amputazioni. Si pensa a una versione più moderata della Sharia, che però sostengono a ragione, liberali, moderati e laici, limiterà gravemente molti diritti, soprattutto delle donne, che non a caso ieri hanno votato in massa.
I due principali sfidanti islamisti sono Mohammed Morsi, dei Fratelli musulmani, e Abdel-Moneim Abol Fotoh, moderato che ha ottenuto anche il sostegno di parte di liberali, cristiani e intellettuali di sinistra. I candidati islamici sperano di bissare la quota di voti raggiunta nelle parlamentari di novembre, ma registrano un evidente calo; specie dopo che una delle tv pubbliche ha iniziato a trasmettere in diretta tutte le sedute del Parlamento - una novità assoluta per l´Egitto - mostrando a milioni di egiziani l´inanità del dibattito e l´assurdità delle proposte di legge di buona parte dei deputati islamici. I due candidati laici con speranza di arrivare al ballottaggio sono l´ex premier Ahmed Shafik e l´ex capo della Lega Araba Amr Moussa, entrambi veterani del regime Mubarak, per questo i loro oppositori temono che faranno poco per cambiare status quo. Soprattutto Moussa ha raccolto dietro di sé un fronte ampio di consensi, compresi alcuni religiosi moderati; conosce la macchina dello Stato, ha esperienza internazionale, gode di buona fama nel mondo arabo e in Occidente. I militari, i veri arbitri del futuro Egitto, ufficialmente non sostengono nessun candidato ma è innegabile che il prossimo 1 luglio - come promesso dai generali della Giunta - vorrebbero passare i poteri a un presidente non islamista.
All´interno della scuola "Nasser", dove le pareti sono coperte di manifesti sbiaditi e cartine geografiche ingiallite, un giudice controlla come in tutti i seggi nel Paese lo svolgimento delle operazioni di voto, uno scrutatore allunga schede agli elettori in cambio della carta d´identità. Dietro una cabina elettorale, gli elettori fanno la loro scelta e poi bagnano il dito con inchiostro indelebile (prova della partecipazione al voto) e recuperano il documento. Youssra Amin, 22 anni, è una rappresentante di lista per il candidato dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi. Tiene conto degli elettori che sono venuti a votare in questo seggio, dove sono registrati più di 4.000 cairoti. Indossa il velo e suoi occhi, evidenziati dall´eyeliner turchese, scintillano d´entusiasmo. «Non riesco a immaginare che stia succedendo davvero. Stiamo votando per eleggere il nostro primo vero presidente, solo molto felice».
Nella scuola "Chayma", nel quartiere operaio Sayeda Zeinab, le code sono più lunghe, gli elettori perdono la pazienza con l´aumentare della temperatura. Alla fine della giornata elettorale, che si è svolta nella massima calma, si registreranno in tutto l´Egitto solo 13 feriti per la ressa e per il caldo. Ahmed Gassan, architetto, sorride sulla porta del seggio mostrando il dito macchiato di inchiostro blu: «E´ stato perfetto, è così bello sentire che si può decidere qualcosa». Anche qui il giudice segue con attenzione il via vai dei votanti. Si avvicina un elettore piuttosto anziano, curvato dagli anni e da una vita di stenti. Sembra un po´ smarrito. «Posso scegliere più di un nome?», chiede al magistrato. Lui bonario replica sorridendo: «Dipende. Cosa vuole un presidente oppure due?».

Corriere 24.5.12
Denaro, potere e narcisismo: è tempo di rifondare le regole
La psicoanalisi al tempo della «speculazione sfrenata»
di Silvia Vegetti Finzi


«Uscire dalla galera terapeutica» e «prendere la via del largo» sono le colorite espressioni con le quali Freud, pur privilegiando il rapporto di cura, apre la psicoanalisi al confronto con altri ambiti disciplinari e a un più vasto contesto sociale. Un compito ineludibile negli anni 20-30 quando l'Europa si sta avviando, senza esserne pienamente consapevole, verso la catastrofe della Seconda guerra mondiale. Saggi quali Psicologia delle masse e analisi dell'Io (1921), Il disagio della civiltà (1929), Perché la guerra? Carteggio con Einstein (1932) rappresentano contributi fondamentali per comprendere l'interazione che intercorre tra individuo e società, mondo interno e mondo esterno, economia psichica e regole sociali.
Se ora quel compito si ripropone con forza è perché la crisi epocale che stiamo attraversando pone domande nuove e chiede più vaste assunzioni di responsabilità. Ne ha preso atto la freudiana Società psicoanalitica italiana decidendo, nel suo Congresso nazionale, non solo di affrontare temi inconsueti alla sua riflessione quali «Denaro, potere e lavoro tra etica e narcisismo», ma anche di sottoporli al dialogo e al confronto con istituzioni e protagonisti della scena sociale.
Benché eterogenei gli ambiti prescelti rivelano, alla luce dello scandaglio analitico, di condividere le dinamiche inconsce latenti in ogni esperienza umana. Sfuggendo al controllo della coscienza, l'inconscio introduce infatti, nei comportamenti individuali e collettivi, un fattore di onnipotenza che compromette, se non viene prontamente riconosciuto e governato, la razionalità dell'agire umano. Lo vediamo in atto nella speculazione finanziaria che produce a dismisura denaro dal denaro, lo riconosciamo nel potere che persegue forme di dominio assoluto, nel lavoro che cede alle esigenze del profitto, nel narcisismo patologico ove l'Io, oltrepassando l'amor proprio, si impone incondizionatamente, incurante delle esigenze altrui. Lasciata a se stessa, l'onnipotenza, incapace di scegliere — in quanto scegliere significa limitare le pretese e rinunciare alle altre alternative — finisce per tradurre il tutto in niente, trasformandosi alla fine in impotenza, inerzia, stagnazione. Se ne colgono gli effetti psichici più gravi in situazioni di eccitazione incontrollabile oppure di blocco e di vuoto dove la vita sembra girare su se stessa, incapace di ammettere la propria insufficienza e di procedere verso obiettivi parziali. Per evitare i danni provocati all'individuo e alla società dalla dismisura e dalla cancellazione dei limiti, appare necessario approntare nuove regole, valide per gli individui e per la collettività. Ma prima di affrontare i processi di decostruzione e ricostruzione dei sistemi normativi, il programma del Congresso affida alla filosofia il compito di fondare la necessità e il fine delle regole.
Silvana Borutti, docente di Filosofia teoretica all'Università di Pavia, le radica nell'incompiutezza del soggetto umano, sempre esposto al riconoscimento degli altri per costituirsi e realizzarsi. Di qui la necessità e la funzione di norme, non solo proibitive, ma anche capaci, proiettandosi al di là dell'esistente, di aprire nuovi orizzonti di valore e di senso. Non sarà certo possibile rispondere ai tanti interrogativi suscitati dal tema prescelto, ma confronto e dialogo con studiosi e rappresentanti della realtà sociale potrà essere sorprendente. La psicoanalisi, dopo più di un secolo di ascolto, ha maturato un patrimonio di conoscenza e sapienza che può costituire un «sistema di riferimento» sul quale riflettere. Senza dimenticare che, come sosteneva Elvio Fachinelli, si tratta di un «sapere della domanda» più che della risposta.
Dopo lo slogan antiautoritario del '68 «proibito proibire», di fronte a tante forme di deregulation, gli psicoanalisti freudiani valorizzano ora la funzione protettiva, contenitiva, strutturante delle regole. Anche nel momento più creativo l'artista riconosce le regole dell'arte, se non altro per infrangerle. L' «elogio delle regole» rischia però di risultare regressivo e reazionario se non viene sottoposto a una analisi critica, se non si confronta con le esigenze di liberazione insite nel pensiero di Freud e dei suoi successori. Di fronte all'eterna contesa tra Es e Super-io, tra istanze pulsionali e antipulsionali, l'analista, dice Stefano Bolognini, si propone, restando neutrale, di far raggiungere al paziente nuove forme d'equilibrio. Operando in un setting accuratamente regolato, la terapia psicoanalitica si propone come laboratorio sperimentale per un buon uso delle norme. Analista e analizzato si accordano infatti su spazio, tempo, denaro e la regola fondamentale delle libere associazioni. Ma non tutto è negoziabile. Anche nell'analisi più democratica le posizioni restano asimmetriche: l'analista si colloca in una posizione più alta rispetto all'analizzante. Non per autoritarismo ma per senso di responsabilità verso il più debole, per tutelarlo e aiutarlo ad esprimere tutte le sue potenzialità. Il paradigma di riferimento è quello parentale, riportato però alla forma edipica tradizionale contro le modalità paritetiche della famiglia tardo moderna, dove tutte le relazioni, come tra coetanei, si pongono come simmetriche. Ma in realtà non sono reciproche. Ho udito spesso un padre dire: «sono il miglior amico di mio figlio», mai il contrario.

Repubblica 24.5.12
Il disagio dell’inciviltà
“Riscopriamo le regole contro i narcisisti asociali"
Intervista a Stefano Bolognini, presidente dell’associazione che riunisce i freudiani del mondo alla vigilia del Congresso della Società psicoanalitica
"Oggi ci illudiamo di poter adeguare l’ordine esterno ai nostri desideri onnipotenti"
intervista di Luciana Sica


Perché da noi è così difficile rispettare le regole? Potrà sorprendere, ma la questione non è estranea alla psicoanalisi, perché questo fuggi fuggi generale da ogni responsabilità, nel privato e nel pubblico, dipende anche da una serie di processi mentali consci e soprattutto inconsci, normali e soprattutto perversi. È di questo che tratterà il congresso della Società psicoanalitica italiana, intitolato "Realtà psichica e regole sociali", in programma da domani a domenica alla Sapienza di Roma.
Ne parla Stefano Bolognini, alla guida della Società da tre anni e primo presidente italiano dell´Ipa, l´International Psychoanalytical Association, che riunisce i freudiani di tutto il mondo: «Per la prima volta affrontiamo in modo esplicito il rapporto tra l´interno e l´esterno, tra la vita più intima e scabrosa degli individui e l´osservanza o il rifiuto delle condotte richieste da ogni comunità. Di irrituale non c´è solo il tema del congresso, perché gli interventi in programma saranno brevi e puntiamo invece su un dialogo improvvisato tra noi analisti e i personaggi del mondo del lavoro e della cultura, nostri ospiti: da Susanna Camusso a Alessandro Profumo, da Silvana Borutti a Valerio Magrelli… Non mi piaceva l´idea della solita passerella in cui ognuno canta la sua canzone, saluta e se ne va».
Pensa che "i feticisti di Freud" saranno entusiasti di tanta spregiudicatezza?
«Non si tratta di essere spregiudicati, ma dell´esigenza di una discussione libera da steccati scolastici sulle ragioni che stanno sgretolando il senso profondo dell´identità e la nozione di bene comune. Da più parti si avverte il bisogno di sfondare il lessico sociologico e della filosofia politica aprendolo anche al contributo del linguaggio psicoanalitico. E comunque sin dall´inizio è stato proprio Freud a tenere in gran conto la realtà collettiva: pensi a Il disagio della civiltà, a quell´analisi del prezzo che si pagava in termini di repressione degli istinti a favore della convivenza sociale. Un secolo fa le regole erano molto rigide e il lavoro degli analisti tendeva a liberare gli individui da imperativi interni troppo opprimenti, da un Super-Io castrante».
Oggi la situazione si è ribaltata?
«Oggi c´è una patologia diffusa della perdita di ogni limite, tanto che qualcuno dovrebbe scrivere "Il disagio dell´inciviltà". Non è solo una battuta, visto che ormai il lavoro analitico è soprattutto rivolto a ricostituire dei confini, un senso minimo della realtà, a ridurre questa ondata di narcisismo sempre più asociale».
Saremmo tutti vittime di un desolante smarrimento dei "garanti metapsichici e metasociali". A cosa allude quest´espressione di René Kaes tanto in voga tra voi analisti?
«Dal nostro punto di vista, gli esseri umani hanno bisogno di contenitori psichici e sociali dentro cui far vivere il rapporto con se stessi e con gli altri. E invece tutto sembra scricchiolare, non abbiamo più appigli solidi, rischiamo di diventare bambini capricciosi senza genitori consistenti in famiglia e senza "equivalenti genitoriali" nelle istituzioni e nelle comunità sociali. Eccezioni ce ne sono, ma evidentemente non bastano, e al congresso è di questo che parleremo: delle ragioni profonde che rendono intollerabili le incertezze del mutamento, della rarefazione dei contatti reali, dell´assenza fisica che caratterizza il nostro universo relazionale».
L´opacità, se non lo spegnimento delle coscienze, si lega a una specie di infantilizzazione del vivere comune?
«Una volta il "fuori" si rifletteva moltissimo sul "dentro", mentre oggi ci illudiamo di poter adeguare l´ordine esterno ai nostri desideri onnipotenti. In questo clima psichico, che definirei di individualismo asociale, gli Altri così poco tollerati eppure decisivi per la nostra vita determinano un sentimento di disconferma e di frustrazione, con una inevitabile tendenza depressiva».
Secondo lei, che sta succedendo di fronte a un avvenimento traumatico come la crisi?
«Che la rabbia esplode anche contro di sé. L´ondata di suicidi e le tensioni diffuse hanno ragioni senz´altro complesse, ma si possono "leggere" anche così, come l´inaccettabilità di riconoscere quello che si è e soprattutto quella che in ogni caso è la condizione umana: sempre terribilmente fragile, incerta, dipendente… Se fino a qualche tempo fa si poteva dire spavaldamente "Sono fatto così", anche con la pretesa dell´accettazione del superamento di ogni limite etico, oggi la situazione è molto cambiata e ci si chiede "Chi sono io, visto che non so bene cosa sono e soprattutto cosa sarò domani?". La nostra è un´epoca di perturbazioni rapide dello status economico e sociale e questo implica un´insicurezza di fondo, una dolorosa indefinitezza, un sentimento di colpa e di vergogna che può anche diventare autoaggressivo».
È il burlesque di questi anni che ha irriso le regole, cancellando parole come merito, trasparenza, onestà. E anche oggi è diffusa la percezione che ogni potere venga esercitato in modo arbitrario, a favore di alcuni e a danno di altri. Come ristabilire un sentimento di fiducia e di coesione sociale?
«Sono indispensabili modelli di riferimento basati su convinzioni etiche, sul rigore del lavoro, sulla sobrietà dei comportamenti. Non vedo in che altro modo si possa rispondere ai bisogni emotivi di una collettività disincantata e costretta ad affrontare difficoltà e disillusioni a volte atroci. Nello stesso tempo non è però solo l´efficienza che andrebbe così tanto esaltata».
Cosa vuole dire?
«Voglio dire che il termine "regola" etimologicamente ha un´origine autoritaria. Ma non è la necessità di una seria struttura organizzativa a confliggere con i principi democratici, piuttosto è l´eccesso nella valorizzazione della "effectiveness", della prestazione efficace, è l´enfasi sull´autoaffermazione che tende a distruggere la creatività degli altri. Il rispetto delle regole non dovrebbe ingabbiare o mortificare la capacità inventiva. In termini analitici, a entrare in gioco sono sentimenti poco riconosciuti come l´invidia e la gelosia, che riguardano tutti. Ma qui la partita con l´inconscio risulta spesso perdente, perché è davvero molto difficile – anche per noi analisti – convertire l´invidia in ammirazione e la gelosia in tolleranza».

Corriere 24.5.12
E Tertulliano confutò le calunnie anticristiane
«Non siamo nemici del potere imperiale»
di Luigi Accattoli


L' Apologia del cristianesimo (Apologeticum) di Tertulliano, per quanto scritta a Cartagine nel 197 dopo Cristo, è un libro perfettamente fruibile anche oggi. Quinto Settimio Fiorente Tertulliano è un polemista nato, capace di tenere sveglio il lettore dalla prima all'ultima pagina e la materia che affronta in questo capolavoro — la difesa del cristianesimo dalla persecuzione dell'Impero romano e da violente aggressioni popolari — torna oggi calda in molte parti del mondo.
Tertulliano dev'essere stato, alla fine, un uomo impossibile nel suo rigorismo, ma di certo fu fin dall'inizio uno scrittore godibilissimo, ottimo erede della classicità latina e geniale esploratore delle possibilità della nascente lingua cristiana. Convertito da adulto, fu prima apologeta della Chiesa e poi eretico «montanista» e infine eretico in proprio, perché pare che stesse bene solo con se stesso: morirà essendo a capo di una chiesuola tutta sua, i cui aderenti presero il nome di «tertullianisti».
Ma questi passaggi avvengono nei decenni successivi di una lunga vita. Nell'Apologeticum, che è un'opera giovanile, non c'è lo spasmo del rigorismo apocalittico e visionario che un quindicennio più tardi lo porterà ad abbracciare l'eresia del Montanismo, che predicava la fine imminente del mondo. Nella sua giovinezza egli ci appare felicemente cristiano, convertito alla nuova fede dalla testimonianza eroica dei martiri, ben deciso a mostrare che i cristiani non sono «nemici del genere umano» né «improduttivi per l'economia della società»: sono queste due delle accuse che confuta.
Con straordinario gusto per la controversia — che forse gli viene dall'esperienza dei tribunali — respinge le accuse di infanticidio e di incesto che erano mosse ai cristiani dal popolino, che vociferava di «cene» al buio nelle quali ci si cibava del sangue e della carne di bambini: accuse forse dovute a una distorsione di vaghe notizie sulla «cena eucaristica» e sulle parole di Cristo «questo è il mio corpo» e «questo è il mio sangue».
Soprattutto Tertulliano confuta l'accusa ufficiale che considerava i cristiani nemici dell'imperatore: egli li dimostra «leali», praticanti ogni arte compresa quella militare: «Frequentiamo il foro, il mercato, le terme, le botteghe, le fabbriche, gli alberghi; navighiamo con voi, con voi prestiamo servizio militare e ci diamo all'agricoltura o alla mercatura». Afferma che i cristiani pregano per l'imperatore, pur rifiutando di prestargli qualsiasi forma di culto: «Noi per la salvezza degli imperatori invochiamo il Dio vero». Contrappone lo stile di vita dei cristiani a quello degli accusatori: «Tutto è da noi messo in comune fuorché le mogli».
Tertulliano sa essere epico: «Non vi è cosa a noi più estranea della politica. Noi non riconosciamo che una sola patria di tutti: il mondo». E non disdegna la vertigine metafisica: «Lo stesso nulla appartiene a Colui che è il tutto» dice della facoltà divina di operare la risurrezione dei corpi. È un maestro del paradosso: «Noi vinciamo quando siamo uccisi».
Una pagina di letteratura davvero fantastica è quella in cui Tertulliano svolge il paradosso che i cristiani potrebbero vincere la sfida con i pagani semplicemente «staccandosi» da loro per andarsene «in qualche remoto luogo del mondo», coprendo di «vergogna» l'Impero di Roma: «Senza dubbio vi sareste spaventati di fronte alla vostra solitudine, al silenzio di ogni cosa, ad una specie di intontimento quasi la terra fosse morta». Chissà quante volte Tertulliano l'avrà sognata negli anni questa partenza in massa dei cristiani per un luogo remoto, quasi a svuotare il mondo.
Condannato come eretico nel V secolo, Tertulliano ha però mantenuto una grande autorità all'interno delle Chiese cristiane fino a oggi. Benedetto XVI lo cita spesso in contesti favorevoli e senza problemi l'ha inserito nella sua rassegna dei «padri della Chiesa», con la catechesi del 30 maggio 2007, parlando di «frutti decisivi» della sua opera ma accennando anche a un suo «dramma personale» che lo fece «con il passare degli anni sempre più esigente nei confronti dei cristiani», pretendendo da loro «soprattutto nelle persecuzioni» un «comportamento eroico». «A me fa molto pensare — concluse il Papa — questa grande personalità morale e intellettuale» alla quale «alla fine manca l'umiltà di inserirsi nella Chiesa, di accettare le sue debolezze, di essere tollerante con gli altri e con se stesso».

Corriere 24.5.12
Arringa in nome della fede


«Il grande merito di Tertulliano è quello di aver forgiato praticamente dal nulla il vocabolario teologico del cristianesimo»: così Marco Rizzi, nella prefazione inedita, illustra l'importanza del testo proposto nel venticinquesimo volume della collana, la celebre Apologia del cristianesimo. Databile intorno all'anno 197 d.C., quest'opera è una difesa della nascente comunità dei credenti in Gesù, un'arringa in cui lo scrittore latino «denuncia agli stessi magistrati le contraddizioni giuridiche dell'atteggiamento persecutorio verso i cristiani», continua Rizzi. In tale difesa si trova la smentita delle credenze popolari intorno alle pratiche cristiane considerate pericolose, e la rassicurazione sulla fedeltà alle istituzioni. Studiata e copiata fino alla cinquecentesca edizione princeps, quella di Tertulliano è anche opera di rara cesellatura stilistica, che alle frasi di stile ciceroniano alterna suggestivi «slogan», brani divenuti proverbiali, come «hesterni sumus et omnia vestra implevimus» («siamo nati ieri e abbiamo già riempito tutto il vostro mondo»). (i.b.)

Corriere 24.5.12
Istruzioni per sedurre Il manuale di Ovidio
Astuzia e passione: le schermaglie d'amore
di Nuccio Ordine


«Prima fatica, o tu che vieni all'armi,/soldato nuovo per la prima volta,/è cercare colei che vuoi amare;/quindi piegarla con le tue preghiere;/per ultimo, far sì che il vostro amore/possa durare a lungo»: in questi versi, collocati nel proemio del primo libro, Ovidio sintetizza la materia discussa nella sua Ars amatoria, L'arte di amare (1 a.C.-1 d.C.).
Nelle vesti di «maestro dell'amore lascivo» (praeceptor amoris lascivi), il nostro poeta si propone di insegnare le raffinate arti della seduzione amorosa («Se c'è tra voi chi non conosca ancora l'arte d'amare/legga il mio poema»): i precetti da seguire per andare a caccia di donne riguardano i luoghi dove cercarle per poi sceglierle e assoggettarle (I libro) e le strategie per mantenerne a lungo la conquista (II libro). Un'ultima parte, aggiunta successivamente, si rivolge invece alle stesse donne («La causa vi dirò che vi perdette:/vi mancò l'arte, non sapeste amare») per insegnare loro come attrarre un uomo e avvincerlo con sicuri nodi (III libro). Tra i destinatari non figurano i ricchi che comprano l'amore solo con i doni («Io precetti non do d'amore ai ricchi»).
Lontano dalle pene e dagli strazi dell'amore-passione cantato nell'elegia (da cui, però, Ovidio riprende il metro composto da distici: un esametro e un pentametro) e sotto forma di un'opera didascalica (di cui, invece, scarta l'esametro, sua forma espressiva per eccellenza), il poema si presenta al lettore nelle sue vesti di genere ibrido, di manuale per uomini e donne che aspirano alle avventure d'amore. L'Ars amatoria, insomma, rivendica già nel titolo il suo ruolo: Ovidio vuole presentarla come una vera e propria «arte», come una tecnica fatta di regole e di prescrizioni. Pilotare una nave («Solcano l'onde con le vele o i remi,/sospinte ad arte l'agili carene») o guidare un carro («con arte noi guidiamo il lieve cocchio») richiedono un'abilità fatta di norme. Lo stesso accade nel complicato e complesso universo della seduzione amorosa («con arte dunque è da guidarsi Amore!»), in cui spesso ricorrono le comparazioni con altre artes: quella della caccia (fondata sulla cattura della preda), quelle della navigazione o dell'agricoltura (basate sulla conoscenza delle stagioni), quella della medicina (attenta alla scelta dei tempi).
Ma la prima abilità del seduttore risiede nella conoscenza di una regola «universalissima», che secoli dopo Baldassarre Castiglione chiamerà «sprezzatura»: «Giova l'arte, è vero,/ma solo se nascosta: quando appare,/reca vergogna e toglie poi per sempre/ogni fiducia nelle tue parole». Bisognerà parlare con eloquenza occultando l'eloquenza («Ma nascondi/questa tua forza, non far pompa inutile/della facondia»), pettinare i capelli dando l'impressione di non averlo fatto e truccarsi senza ostentare creme e unguenti («L'arte che vi fa belle sia segreta»). L'universo amoroso, dominato dalle simulazioni e dalle dissimulazioni, presuppone una faticosa militanza che si fonda soprattutto sull'ingannare chi ci inganna. Il seduttore o la seduttrice debbono saper recitare in ogni occasione: fingere di essere ebbri (mentre sono sobri), di essere amici dei mariti (mentre lavorano per disonorarli), di piangere (mentre avrebbero voglia di ridere), di ridere (mentre avrebbero voglia di piangere). E se è vero che «Venere aiuta e la Fortuna insieme/chi sappia osare» (audentem Forsque Venusque iuvat), è anche vero che molto spesso chi tende trappole e lacci può finire vittima dei suoi stessi inganni.
Per Ovidio ciò che conta è il «conoscere se stessi». Nell'Ars amatoria il precetto delfico (Nosce te ipsum) non viene piegato solo a generiche funzioni amorose («Solo chi si conosce saprà amare/e misurare al compito le forze»), ma diventa una preziosa guida pratica per le posture erotiche («E dunque cerca/di conoscerti bene; usa posture/secondo le tue forme:/non a tutte giova lo stesso modo»).
Nei versi finali, però, Ovidio rivela che il «suo gioco è finito» (Lusus habet finem). Ogni regola, infatti, dovrà fare i conti con il mutevole universo dell'amore. Se «tanti sono i volti/quanto nel mondo son diversi i cuori», bisognerà essere capaci, come Proteo, di adattarsi alle metamorfosi. E forse della lezione si ricorderà don Alfonso in Così fan tutte di Mozart: se «mille volte al dì cangiano amore», la colpa non è né delle donne, né degli uomini, ma di una naturale «necessità del core».

Corriere 24.5.12
Spregiudicato e moderno


Sabato prossimo in edicola con il «Corriere della Sera» esce L'arte di amare del poeta latino Ovidio, celebre opera sull'attività amatoria, sulla seduzione e sul piacere, che costò all'autore l'esilio da Roma al Mar Nero, fino alla morte. Come ricorda Eva Cantarella nella prefazione inedita al volume, in quel tempo Ottaviano Augusto moralizzava l'Impero con una legge che puniva l'adulterio con l'esilio: ne era stata vittima anche la figlia dell'imperatore, Giulia. E il bando di Ovidio può ben essere dovuto alle parti dell'opera in cui il poeta, dopo i consigli agli «amatori», uomini e donne, offre anche suggerimenti per gli adulteri. È il poeta dei Fasti e degli Amores, e soprattutto delle meravigliose Metamorfosi, e in questo libro, spiega Cantarella, «quel che colpisce è la modernità con la quale Ovidio declina a suo modo i temi dell'etica sessuale romana». Tuttavia a rendere sgradito il poeta all'imperatore può esser stata proprio la frequentazione con gli ambienti vicini alla figlia Giulia, in odor di cospirazione contro il severo governo del padre. (i.b.)

Corriere 24.5.12
Ecco perché non ho tradito il sorriso di Eluana»
di Polo Di Stefano


Certo, è paradossale che dopo aver vissuto quel che ha vissuto negli ultimi vent'anni, Beppino Englaro possa parlare di felicità. Eppure lo fa, serenamente, sembra: «La vicenda dell'Eluana — dice — è stata tutta paradossale». L'ultimo paradosso è che proprio a Pesaro, dove si tiene il Festival della Felicità, Eluana, anzi l'Eluana con l'articolo (come la chiama suo padre), ha trascorso le poche estati della sua vita, finché l'incidente del '92, a ventidue anni, ha stroncato la sua esplosiva gioia di vivere. «Non c'era estate che non andasse lì con la mamma: la nonna era di Urbino e abitava a Pesaro. La prima volta, anzi, l'Eluana era ancora nella pancia di sua madre».
Paradossi e coincidenze. C'è un'altra coincidenza, che costringe l'autore di questo articolo a parlare di sé: per fare questa intervista ho chiamato papà Englaro da Solothurn (Soletta), in Svizzera, e proprio a Soletta il 26 gennaio 1966 il giovane Beppino conobbe la sua futura moglie Saturna, detta Sati, che lavorava lì in una fabbrica di macchine fotografiche: anche quella fu felicità. Strane coincidenze. Allora Englaro lavorava in un'impresa di costruzione a Basilea, la città più cosmopolita della Svizzera, all'incrocio tra Francia e Germania, un crocevia etnico.
«La mitica Pesaro», così Eluana chiamava, sorridendo, la città di sua nonna. «Io ero molto preso dal lavoro e andavo raramente, ma mia figlia e mia moglie stavano lì diversi mesi. Ricordo una scena: una sera l'Eluana voleva uscire con gli amici e con i cuginetti, ma io le dissi di no. Fu come spaccarle il cuore, non se lo sarebbe aspettato, perché era abituata al dialogo, reagì buttandosi sul divano. Aveva tredici anni, ma la sentì come una mancanza di fiducia, singhiozzava come se le venisse fuori il cuore, e per qualche giorno rimase zitta zitta. La nonna la viziava, e quel giorno mi avrebbe sparato con lo sguardo». Pentimenti, a distanza di tanti anni? «No, non ricordo perché le vietai di uscire, ma fu l'unica volta, anche se i contrasti c'erano specialmente per le discoteche... Sua madre era più tollerante, io venivo da un paesino della Carnia, ed ero un po' indietro...». Ride. «Il problema con l'Eluana è che ha sempre voluto essere trattata da persona libera, era un purosangue della libertà, lo splendore della vita senza malizia, madre natura le aveva fatto questo regalo straordinario, ma doveva trovare un equilibrio tra la sua voglia di libertà, il suo desiderio di scatenarsi e i limiti che le imponeva il mondo. Nella lettera c'è tutta la sua felicità di vivere, la prova provata del rispetto reciproco».
La lettera è quella che Eluana aveva scritto pochi giorni prima dell'incidente, nel Natale 1991, e che papà Beppino trovò per caso in un libro tredici anni dopo: «Ciao grandi. Ciao, cari genitori, vi volevo ringraziare per tutto quello che mi avete donato, insegnato e trasmesso in questi lunghi ventun'anni trascorsi insieme. Sì perché abbiamo avuto tante divergenze e tanti piccoli grossi problemi, ma li abbiamo superati grazie al bene che ci vogliamo». Anche il pensiero di quella lettera è felicità: «Io sapevo già tutto quel che c'era scritto in quella lettera, perché l'Eluana lo diceva spesso, ma vederselo scritto... Rimasi scioccato e mi dissi: ora la magistratura non può non capire. Noi l'Eluana non l'abbiamo snaturata, l'abbiamo solo affiancata, accompagnata in libertà. Quando voleva mollare la scuola della Don Bosco, perché diceva che le suore erano troppo rigide, l'abbiamo convinta a resistere. Alla fine mi ha detto grazie con il suo sorriso grande: le piaceva essere protetta da noi e insieme sentirsi al centro del mondo».
Ci sono poi altre felicità, nel ricordo e nel presente. La felicità di vedere mamma Sati e la figlia «vivere come in simbiosi»: «Il mare era la passione di Sati ma anche dell'Eluana. Chi la teneva! Pesaro era la sua gioia, un altro mondo, non ho mai visto tanta felicità come in estate, basta guardare le ultime foto, il suo sorriso che sprizzava entusiasmo e voglia di vivere». Nel presente la felicità, per papà Beppino, è incontrare tante persone che gli dicono grazie: «Mi dicono grazie per quello che ho fatto per loro: aver combattuto semplicemente perché ognuno abbia la libertà di disporre della propria salute. La cosa più ovvia del mondo, una questione cristallina. Quel che è mancato in tutta questa vicenda è il rispetto delle idee e della libertà degli altri: una barbarie, non si può essere schiavi dei limiti di chi non capisce o della malafede di chi non vuol capire, del Parlamento, di un presidente del Consiglio, della gerarchia ecclesiastica: la gente mi ha sempre detto che l'ultima cosa che interessava a Berlusconi era l'Eluana... Lo squallore umano è terribile e imporre di stare al mondo in una condizione di morte cerebrale è un crimine».

Corriere 24.5.12
Facebook
Zuckerberg e i suoi «amici» Quei guru della Rete come squali di Wall Street
di Massimo Gaggi


NEW YORK — Anche i «bravi ragazzi» molto social di Facebook si sono fatti prendere la mano dall'avidità dei banchieri di Wall Street. Ma Mark Zuckerberg, per anni restìo a quotare la sua creatura, è stato davvero giocato da Morgan Stanley che, mentre dava solo ad alcuni clienti le informazioni sulla ridotta capacità dell'azienda di produrre reddito, ha spinto il volume di azioni offerto e il prezzo oltre ogni ragionevolezza? O l'«anima nera» è il direttore finanziario di Facebook, David Ebersman, che ha approfittato dell'eccitazione di risparmiatori e speculatori, abbagliati dalla celebrità del marchio e dalla possibilità di un facile guadagno, per imporre una quotazione fuori mercato?
Lo stabiliranno le inchieste delle authority del mercato borsistico e della magistratura. Ebersman dovrà, ad esempio, spiegare perché, dopo aver mandato il 9 maggio alla Sec un aggiornamento del prospetto dell'Ipo nel quale avvertiva che la redditività dell'azienda è minata dalla maggior tendenza degli utenti a collegarsi al social network via cellulare anziché col computer (la pubblicità sul telefonino vale meno), ha ugualmente concordato con Morgan Stanley una supervalutazione. Non solo, ma ha anche avvertito i soci «storici» di Zuckerberg che potevano approfittare del momento della quotazione per vendere più azioni del previsto a un prezzo favorevole.
Non c'è bisogno, però, di indagini particolari per convincersi che i «bravi ragazzi» che volevano cambiare il mondo mandando in pensione il capitalismo novecentesco, facendo del bene (slogan di Google) e senza puntare al profitto (il mantra di Zuckerberg, fino a qualche tempo fa), al momento delle scelte cruciali si sono comportati in modo non troppo diverso dai vecchi «padroni del vapore».
Steve Jobs ha rischiato di finire in galera perché la sua Apple (non lui personalmente) ha battuto in spregiudicatezza perfino i finanzieri di Wall Street nell'uso dei «bonus esentasse» per i manager. Quanto a Zuckerberg, avendo dato pezzi di Facebook ai cofondatori e a diversi «compagni di strada» e avendo già venduto privatamente una parte della società a investitori e a banche come il tycoon russo Yuri Milner e la Goldman Sachs, è stato ben attento a non perdere il controllo della società, pur non avendo più la maggioranza del capitale. Prima di quotare Facebook, il fondatore ha fatto dividere le azioni in due classi: così, anche se ha solo il 28% di quelle di classe B, Zuckerberg ha in mano il 57% dei diritti di voto.
Espedienti vecchia maniera che ci riportano ai giochi delle scatole cinesi e agli artifici tipici del capitalismo familiare. Ma, anche se ora è accusato da Larry Page di essere una specie di padrone feudale che tiene sotto chiave i suoi utenti, in campo finanziario il fondatore e capo di Facebook si è ispirato proprio al suo collega di Google: è stata la società di Page e Brin, infatti, la prima a importare nella Silicon Valley dell'alta tecnologia la struttura finanziaria basata su due classi di azioni. Un modello «archeologico» prontamente seguito anche dalle società più cool dell'economia digitale sbarcate nel mercato: da LinkedIn a Groupon, da Zynga a Yelp.
Del resto l'abbinamento diavolo-acqua santa, Zuckerberg l'ha accettato quando ha aperto le porte a Milner e a un altro oligarca russo legato al Cremlino: Alisher Usmanov, un re dell'acciaio e delle miniere. Errori e furbizie che hanno fatto precipitare la situazione fin dal primo momento della quotazione andranno analizzati in profondità. I comportamenti a dir poco disinvolti della Morgan Stanley di James Gorman che in questa vicende si gioca la fama di banca d'affari specializzata nel collocamento di società tecnologiche, ma anche il black out del Nasdaq che venerdì mattina, mentre il suo capo, Bob Greifeld, brindava nel campus di Facebook con Zuckerberg, si è bloccato per più di mezz'ora perdendo un numero incredibile di ordini di acquisto e vendita. Ora anche il Nasdaq fa mea culpa, ma non sa come compensare chi è stato danneggiato. Altro lavoro per gli inquirenti.
Ma non c'è bisogno di aspettare l'esito delle indagini per sentire puzza di bruciato davanti alla decisione, presa a poche ore dal collocamento, di aumentare massicciamente la quantità di titoli Facebook venduti da alcuni suoi grandi azionisti storici, dallo stesso Milner alla Goldman Sachs. La banca regina di Wall Street che stavolta, in una vicenda che ricorda (per la logica non certo per le dimensioni) gli eccessi che hanno portato al crollo della Lehman e al crash del 2008, è rimasta nelle retrovie, lasciando il palcoscenico a Morgan Stanley. Ma che, all'improvviso, ha deciso di liberarsi non del 23% delle sue azioni Facebook, come previsto inizialmente, ma di quasi metà del suo pacchetto.