lunedì 28 maggio 2012

l’Unità 28.5.12
Il sondaggio conferma le tendenze registrate alle amministrative di maggio
La sfiducia azzera il centrodestra ma minaccia tutti
Non bastano grandi leader per frenare il non voto. Occorre ricucire il rapporto con la società
E fare in fretta
di Carlo Buttaroni


Un forte calo dei consensi ai grandi partiti, la crescita dell’astensionismo e l’affermazione di un voto di protesta, che esprime un bisogno di discontinuità rispetto al passato: questo, a livello macro, le intenzioni di voto per le prossime elezioni politiche.
Più o meno, la stessa fotografia restituita dalle urne amministrative il 6 e 7 maggio scorso.
D’altronde, i segnali che le elezioni amministrative sarebbero state elezioni-terremoto c’erano già stati nei mesi precedenti, sia perché i sondaggi lo avevano ampiamente anticipato, sia per il clima politico generale, con la crescita della temperatura sociale e le concatenazioni tra scosse, più o meno forti, determinate dal succedersi degli eventi.
Le dimensioni e l’ampiezza non erano però preventivabili. Ed è sui grandi partiti che il terremoto ha scaricato la sua forza disgregativa. Un impatto che risulterebbe altrettanto forte anche nel caso di elezioni politiche, come registra l’indagine realizzata da Tecné.
Pdl e Pd, rispetto alle politiche 2008, se si votasse oggi, perderebbero rispettivamente il 68% e il 52% dei propri consensi (analogamente a quello che è accaduto alle elezioni amministrative) mentre la Lega perderebbe tre quarti dei suoi voti.
Il dato interessante è che la grande maggioranza degli elettori in uscita, però, non sceglierebbe un’opzione politica diversa, ma tenderebbe a collocarsi prevalentemente nell’area del non voto e dell’indecisione (+27,3% rispetto al 2008 e +1,6% rispetto a un mese fa).
In termini relativi, considerando cioè tutti gli elettori, il terzo polo farebbe timidi passi avanti, intercettando solo in minima parte i flussi di voti in uscita dai grandi partiti. Lo stesso Movimento 5 Stelle, in occasione di un appuntamento politico nazionale, risulterebbe con un bagaglio elettorale decisamente minore rispetto a quello che è stata, invece, la sua ribalta mediatica alle amministrative, amplificata dalla vittoria a Parma.
L’indagine restituisce una fotografia della crisi politica del Paese, un quadro quanto mai mutevole, dove un assestamento dello scenario appare lontano da venire.
Tanto è vero che, pochi giorni dopo il voto amministrativo, e pochi mesi prima di quello che rinnoverà Camera e Senato, altre scosse di rilievo – però di natura politica si stanno susseguendo, interessando leader, alleanze, assetti interni dei partiti e riforme istituzionali.
Voci insistenti, ad esempio, indicano il Pdl come un partito destinato a cambiare profondamente, per volontà dello stesso Berlusconi, e a trasformarsi in un movimento “leggero”. Una corrente senza una dirigenza politica vera e propria, pronto a chiamare a raccolta esponenti della società civile, per una soluzione fluida e “all’americana” alla crisi politica e di consensi che l’ha travolto. Al contrario, i dirigenti della Lega Nord, discutono su come ridare forza alla struttura organizzativa, in deficit di fiducia e di motivazioni, cercando una soluzione che rimotivi i militanti e riabiliti i suoi leader. E per fare questo, secondo indiscrezioni, potrebbero anche decidere di non presentarsi alle prossime elezioni politiche. Quasi un’espiazione dai peccati “romani”, per concentrarsi invece sui territori e sulla questione settentrionale.
Nel frattempo, nel centrosinistra il dibattito ruota, invece, prevalentemente sulle alleanze: l’Idv e Sel spingono per una coalizione di “sinistra”, mentre il Pd si divide tra chi sposa questa ipotesi e chi è orientato a soluzioni che coinvolgano l’Udc e il terzo polo.
Sul fronte istituzionale il fermento è analogo: si discute di cambiare la legge elettorale, di riformare il profilo giuridico dei partiti e persino di cambiare la Costituzione riducendo il numero dei parlamentari o trasformando la Repubblica da parlamentare a presidenziale (o semi-presidenziale), come ha proposto recentemente il Pdl con Alfano e Berlusconi.
A fronte di tanto fermento dialettico, riforme vere che riguardano il sistema politico non sono state fatte e, mentre il conto alla rovescia verso le elezioni politiche è iniziato il giorno stesso dei ballottaggi, a livello parlamentare tutto è ancora fermo ai nastri di partenza, con l’aggravante che il tempo passa e i nodi, anziché sciogliersi, si fanno più stretti.
Nel momento in cui il sistema dei partiti è attraversato da una crisi profonda, varrebbe la pena rileggere Tocqueville e il suo studio sulla rivoluzione francese, quando spiega che a causare il crollo del regime aristocratico fu la debolezza politica che la caratterizzava più che i privilegi di cui godeva. Una debolezza che sembra caratterizzare anche il sistema italiano dei partiti, dove la rigidità e l’incapacità di interpretare i nuovi bisogni e i nuovi scenari si sposa con l’eccessiva estensione delle responsabilità e con il deficit di legittimità che l’accompagna. È da qui che nasce la crisi di rappresentanza che il Paese sta attraversando, in uno squilibrio tra ciò che porta in dote il mandato elettorale e il suo ritorno in termini di legittimità. La crisi di legittimità si riflette nel calo della partecipazione che non è, però, rifiuto della politica, come troppo frettolosamente è stato titolato, quanto piuttosto un cambiamento di prospettiva e di modalità espressive. Un cambio che si è espresso in una direzione esterna ai circuiti politici tradizionali, orientandosi verso nuove forme d’impegno, perché se la politica tradizionale perde importanza e la militanza cambia, questo non fa venire meno la voglia di partecipare.
Una partecipazione che oscilla da forme più impegnate a forme più leggere, con modalità di mobilitazione più discrete, dove manca un carattere ideologico strutturato, tanto che i cittadini faticano persino a definirsi «politicamente attivi».
Un attivismo che corrisponde a un’articolazione multi-dimensionale della società, dove le attività sono ispirate da motivazioni differenti e persino divergenti all’interno dello stesso ambito.
Se si assiste a un progressivo indebolimento della fedeltà di partito è perché il focus dell’impegno si è spostato progressivamente da azioni partecipative dentro i partiti, ad azioni auto-dirette all’interno dei nuovi ambiti in cui si articola la società.
Mentre in passato i partiti garantivano l’inclusione di larghe fasce di popolazione, anche socialmente periferiche, attraverso la mobilitazione ideologica e una capillare presenza sul territorio, oggi i cittadini vivono le condizioni di una partecipazione atomizzata, che da un lato si alimenta di maggiori opportunità e canali per esprimersi, ma dall’altro si presenta più irregolare, episodica, meno vincolante, quasi completamente protesa fuori dai tradizionali luoghi della politica.
Per ricucire il legame con i nuovi cittadini, meno sensibili al richiamo ideologico, occorre rovesciare i paradigmi che hanno ispirato le scelte dei partiti negli ultimi anni, puntando sulla realizzazione di reti orizzontali piuttosto che su intelaiature verticali, portando la politica nei luoghi, anziché i luoghi alla politica.
Lo scenario politico attuale testimonia che non basta un grande leader se non si attivano legami associativi “forti” in grado di avviare un contatto diffuso e un dialogo attivo con i soggetti che sonoportatoridelleprincipali domande sociali. E non servono, o comunque non bastano, i migliori sondaggi a colmare questo vuoto. sondaggi funzionano benissimo per quei partiti cui è sufficiente cogliere l’espressione spontanea delle domande, ma non per quelli che, ai fini stessi dell’acquisizione del consenso, hanno bisogno di aggregare le richieste e trasformare le istanze che nascono dalla società, partendo dal basso, dai territori e dalle città.
Può sembrare del tutto fuori tempo, oggi, prospettare modelli alternativi di partito rispetto a quello che appare ampiamente egemone.
Si può ritenere oramai irreversibile una visione elitaria di democrazia, diffidente e scettica sul grado di competenza dei cittadini.
Ci si può sentire rassegnati all’idea che i partiti usando le parole di Schumpeter – altro non sono che gruppi di persone tese alla conquista di cariche pubbliche, oppure all’interpretazione di Downs, secondo il quale i partiti formulano proposte politiche per vincere le elezioni ma non cercano di vincere le elezioni per realizzare proposte politiche.
Ci si può arrendere a tutto questo. Oppure si può cambiare, perché non è ancora troppo tardi. Ma occorre avere coraggio. E bisogna fare in fretta.

l’Unità 28.5.12
Bersani e la sfida di un Pd aperto «Le alleanze dopo»
Il segretario vuole raccogliere le istanze delle associazioni, dei movimenti e degli elettori delusi
Confronto su coalizioni e programmi. I democratici rilanciano: crescita e equità
Alla direzione rilancio sui temi della crescita e delle riforme
Il leader non sottovaluta la «novità» delle liste civiche ma non intende lasciare praterie ad altri
di Maria Zegarelli


La parola d’ordine sarà aprirsi. Ai movimenti, alla società civile, alle associazioni, a chi ha voglia di rinnovamento ma non vuole chiudersi nella formula di un partito, a chi ha votato Movimento 5 Stelle perché disamorato da tutto il resto, a chi prima votava Pdl perché moderato e poi ha smesso perché ci ha visto solo il populismo. Ecco perché il tema delle alleanze non è la priorità in questo momento per Pier Luigi Bersani, che non ha gradito né l’ultimatum di Sel e Idv né la sua sagoma di cartone piazzata tra Nichi Vendola e Antonio Di Pietro.
Se qualcuno dalla direzione di martedì si aspetta la definizione della mappa delle alleanze rimarrà a bocca asciutta, perché «non può esserci una soluzione politicista, di formule e sigle. Non è questo di cui c’è bisogno ora. Noi dobbiamo aprirci a una platea vasta, mettendo in atto una politica davvero partecipata». E pensare che proprio ieri il governatore pugliese durante la direzione nazionale di Sel, riferendosi a Bersani, ha detto di aspettarsi «molto» dalla direzione nazionale del Pd proprio sul tema delle alleanze. Ma per il segretario Pd in questo momento la priorità è riallacciare i fili tra cittadini e democrazia e non c’è che una strada per riuscirci: rimettere il tema sociale al centro della politica.
Solo in questo modo, è la convinzione, si può accorciare la distanza tra la società civile e la politica, riconciliando i cittadini con la democrazia per respingere le spinte populiste che arrivano dal profondo del Paese. «Noi parleremo al Paese con un programma di governo alternativo, parleremo di crescita, solidarietà, impegno comune, una politica che rimette al centro il lavoro, le riforme e un nuovo assetto democratico. Di questo parleremo e chi condividerà questo progetto sarà con noi», ha spiegato in questi giorni il segretario. Non gli va di essere tirato per la giacca, né gli piacciono i tentativi di chi cerca di mettere il Pd nell’angolo dove sono finiti tutti gli altri partiti: «Non siamo tutti uguali e non ci sto a finire nel mucchio». Sa bene che le liste civiche da più parti ipotizzate e in qualche caso anche abbozzate possono essere un’insidia o un’opportunità. Bersani non sottovaluta la portata di una tale novità sulla scena politica, né il potenziale di elettori che potrebbero attirare pescando nomi e volti nuovi dalla società civile. Proprio per questo il segnale che il segretario vuole mandare ai dirigenti del Pd è quello di un partito che non si chiude in formule politiciste, né intende lasciare praterie a disposizione di altri, Grillo compreso. Bersani non esclude intese politiche: anzi, vuole fare dell’apertura alle esperienze civiche un tratto importante della direzione di martedì. La questione delle alleanze comunque non può che venire dopo. Intanto ci sarà un richiamo all’unità interna e alla condivisione di un progetto ambizioso che parli ai progressisti, ai moderati e, appunto, al civismo.
Significative le parole della presidente Pd Rosy Bindi a Repubblica: «Il Pd ha un progetto che Bersani ha chiamato il nuovo Ulivo: un’alleanza dai confini molto larghi. Per tenere insieme il centrosinistra, con tutte le sue forze, ma che punti anche a coinvolgere i moderati, le forze di centro, quelle che dopo aver staccato la spina a Berlusconi appoggiano il governo Monti per portare in sicurezza i conti dello Stato disastrati dalla stagione del centrodestra».
LE PROPOSTE
Bersani rilancerà anche le proposte a cui il suo partito lavora da tempo, «non le cambiamo sulla scia dei sondaggi, noi siamo un partito serio» e allora le proposte sono quelle di cui il numero uno del Nazareno ha più volte parlato anche con il premier Mario Monti: investimenti per far ripartire l’economia, alleggerimento dell’Imu attraverso la patrimoniale, misure per i giovani; un piano di politiche industriali; piano energetico, razionalizzazione e efficienza della pubblica amministrazione e, nell’immediato, risposte certe per gli esodati, «e quello che non si riuscirà a fare adesso con questo governo lo faremo noi, quando vinceremo le elezioni».
Ma dato che non puoi dire gatto se non l’hai nel sacco, le elezioni si vincono se gli elettori ti votano e se tornano a fidarsi della politica tutti quelli che fino ad ora se ne sono tenuti a distanza e hanno disertato le urne. «Per questo spetta a noi del Pd è convinto il segretario portare avanti la battaglia per le riforme, a cominciare da quella della legge elettorale». Il Pd ha una sua proposta, il doppio turno di collegio con quota proporzionale, che metterà di nuovo sul tavolo attorno a cui dopo il 2 giugno torneranno a sedersi gli sherpa incaricati di trovare un accordo sulla riforma che deve superare il Porcellum. «Ma per cambiare la legge da soli non bastiamo, serve la maggioranza», e quanto sia vera l’apertura di Silvio Berlusconi al sistema francese si vedrà presto. Di margini per accordicchi non ce ne sono. Per ora la sensazione condivisa tra i democratici è che l’ex premier abbia messo sul piatto la proposta di riforma costituzionale del semipresidenzialismo soltanto per prendere tempo sulla riforma elettorale e arrivare alle elezioni del 2013 con il Porcellum. Mettere ora in discussione l’intero assetto della Repubblica, come vorrebbe l’ex premier, di fatto potrebbe tradursi nell’immobilismo. Da qui la convinzione che sia soltanto l’ennesimo bluff di un Pdl alla disperazione. Ma stavolta gli elettori, soprattutto di centrosinistra, non perdonerebbero ingenuità. E Beppe Grillo non aspetta altro che un passo falso.

Corriere 28.5.12
E Bersani congela le scelte sulle alleanze «Sbagliato farle oggi»
Renzi torna alla carica: ora le primarie
di Maria Teresa Meli


ROMA — Nichi Vendola rischia di rimanere deluso. «Da Bersani mi aspetto molto», ha dichiarato il leader di Sel. Ma il segretario del Partito democratico non ha intenzione alcuna di dire di sì all'ultimatum lanciatogli dal governatore della Puglia e da Antonio Di Pietro.
Con il primo non è arrabbiato con il secondo, invece, lo è molto. Lo hanno offeso i toni e le parole del capo dell'Idv. Ma non è certo per questo motivo che Bersani risponderà di no, domani, in Direzione, ai due esponenti della sinistra. Non è tipo da buttarla sul personale: ci sono ragioni squisitamente politiche e tattiche dietro il suo comportamento. Come ha spiegato ai suoi più stretti collaboratori: «Cristallizzare oggi la foto di Vasto non ha nessun senso, di più: sarebbe un errore. Innanzitutto perché otterremmo il risultato di vedere coalizzati tutti contro di noi. E poi ci sono troppe variabili per decidere come presentarci alle elezioni».
Ma quali sono le «variabili» di cui parla il segretario del Pd? Il leader ne individua tre: «Primo, non sappiamo quale sarà la legge elettorale. Se andiamo al voto con il doppio turno noi ci presenteremo da soli e le alleanze verranno con i ballottaggi. Se invece rimarrà il Porcellum, perché il Pdl non vuole la riforma, bisognerà pensare ad altre soluzioni ancora. Lo capiremo presto, ma ancora non abbiamo tutti gli elementi in mano. Secondo, non abbiamo idea di quale sarà l'offerta politica. Montezemolo scenderà in campo? Vi saranno delle liste civiche? Terzo e ultimo punto, occorre vedere quale sarà tra qualche mese la situazione economico-sociale nel nostro Paese e in Europa».
Dunque, Bersani è convinto che la strada da percorrere sia quella di rivolgersi a un ampio schieramento di forze sociali ed economiche, ma anche ai movimenti, alle associazioni di base e alla società civile con «un appello-programma e un invito a confrontarsi sul merito di questo manifesto». Il leader del Pd ha per interlocutori «i progressisti, i riformisti, e pure i moderati». Dove per tali non si intendono Casini e Cesa, bensì i loro elettori, e più in generale quei cittadini che hanno dato i loro voti al centro o al Pdl e che ora sono delusi. «Si parte dal basso — ha spiegato ai suoi il segretario — e non dagli accordi di vertice». Dopodiché il Pd andrà avanti assieme a chi condividerà il suo appello programmatico, cercando di innescare un processo di rinnovamento. Non è il listone proposto da Nicola Latorre, ma non è nemmeno un progetto diametralmente opposto a quella proposta.
Bersani in Direzione dirà la sua anche sulle riforme. «La prossima — è il succo del suo ragionamento — dovrà essere una legislatura costituzionale. Noi abbiamo chiesto il doppio turno, il Pdl ha tentato di fare più uno proponendo il semi-presidenzialismo. Noi non siamo pregiudizialmente contrari, però siamo realisti: bisognerebbe cambiare almeno 20 articoli della Costituzione e non lo si può fare con un emendamento in questo breve lasso di tempo. Ora potremmo fare il doppio turno, mentre nella prossima legislatura si può discutere del semi-presidenzialismo». E il segretario ha già in mente «dieci proposte di riforme istituzionali, ma anche economiche e sociali a cui si potrebbe decidere di dedicare la prossima legislatura». Che saranno alla base del suo appello programmatico. I progressisti, i riformisti e i moderati che vorranno condividerle sono i benvenuti.
Stando così le cose appare improbabile che in Direzione vi siano aspre critiche nei confronti del segretario o polemiche laceranti. Il che non significa che scorrerà tutto liscio come l'olio. Anche perché proprio lo stesso giorno della Direzione sarà a Roma Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze presenterà all'Auditorium il suo ultimo libro, «Stil novo». Ed è difficile che non intervenga nel dibattito in corso nel centrosinistra. Renzi continua a ritenere che l'unica strada, «anche per coinvolgere l'elettorato popolare che ha abbandonato Berlusconi» sia quella delle primarie. «Primarie, come quelle che hanno eletto Prodi e Veltroni: nessuno si azzardi a cambiare le regole ora e limitarle ai soli iscritti del Partito democratico e non agli elettori. Bersani vuole essere il leader del Pd? Ebbene lo faccia sul serio indicendo queste benedette primarie». Il sindaco di Firenze non ha ancora detto se scenderà in campo. Ma ne ha tutta l'intenzione come ha confidato agli amici: «È difficile che io possa sottrarmi». E su questo tema ha trovato un insospettato alleato: il leader di Sel. Nichi Vendola, che aveva per un po' di tempo smesso di parlare dell'argomento, tant'è che correva voce di un patto tra lui e Bersani, ieri invece ha dichiarato: «Non possiamo uscire dal recinto delle primarie».

l’Unità 28.5.12
Intervista a Stefano Fassina
«Non serve un’altra lista ma un partito rinnovato»
Il responsabile economico dei Democratici: «Non possiamo rinunciare alle ragioni del Pd. Ma serve una nuova conessione sentimentale coi cittadini»
di Maria Zegarelli


ROMA «Io penso ai “meet up”, se li ricorda? Li inventò Howard Dean nel 2004 per utilizzare le possibilità connettive della rete e organizzare sedi discussione reale su tutto il territorio partecipate da milioni di persone lontane dalla politica». Risponde così Stefano Fassina, responsabile Lavoro Pd, alla domanda sulle alleanze dei partito democratico. Fassina, Vendola e Di Pietro vi chiedono di stringere e lei evoca i “meet up”?
«Se non si inquadra bene il problema che abbiamo davanti ogni discussione è inutile. Qui siamo di fronte ad una crisi della democrazia di cui quella dei partiti è solo la punta dell’iceberg. Il circuito virtuoso previsto dall’articolo 1 della Costituzione è oggi è un circuito vizioso in tutta Europa. Sono il lavoro e la democrazia a regredire insieme mentre la politica si vuole ridurre a tecnica neutra, l’ambito in cui si traducono le lettere dalle tecnostrutture scritte a Bruxelles o Francoforte».
Polemico con il governo tecnico?
«No, dico semplicemente come stanno le cose. Altro problema: gli strumenti della democrazia costruiti nello Stato nazionale sono inefficaci. Allora, di fronte a questi due fattori, la crisi della democrazia e l’inefficacia degli strumenti, la prima domanda da porsi è come restituire alla politica la dimensione della scelta tra opzioni alternative e come permetterle di intervenire sulla dimensione economia. Per questo credo che il Pd debba affrontare questo passaggio storico in cui in Europa è in gioco la civiltà del lavoro costruita dopo la Seconda guerra mondiale e della conseguente civiltà della democrazia».
E i “meet up” sarebbero un modo?
«Sarebbero uno strumento fondamentale per rimettere in connessione i cittadini, anche quelli che non fanno politica, con la politica e quindi partecipare alla costruzione di una fase innovativa. Aprire una fase di ascolto e di dialogo attorno alla nostra proposta programmatica per il futuro del Paese è fondamentale. Noi abbiamo una nostra piattaforma, progressista e europeista, che va aperta al confronto con i cittadini non in maniera passiva ma con la voglia di ascoltare quello che arriva dal basso, da quanti finora si sono tenuti alla larga dalla politica per renderli partecipi di un cambiamento che come partito intendiamo guidare. Abbiamo bisogno di energie fresche».
È proprio alle energie fresche che pensano quanti propongono le liste civiche nazionali. Lei che ne pensa?
«Io penso a quello che serve al Pd e al Pd in questo momento serve una rigenerazione morale e culturale e questo coinvolgimento di cui parlo deve essere in grado di attrarre le forze della società civile, dei movimenti e della cultura che intendono partecipare alla ricostruzione dell’Italia e dell’Europa. Attrarlo nel Pd non al di fuori».
Ma neanche lei vuole rispondere a Sel a Idv.
«Non mi è piaciuto il format utilizzato da Vendola e Di Pietro, questo stile “Bagaglino” a cui si presta anche il governatore pugliese. La politica deve recuperare sobrietà e autorevolezza e prestarsi a operazioni di quel tipo non aiuta. Il nostro compito non è soltanto quello di mettere insieme dei partiti, dobbiamo avviare un processo di aper-
tura e confronto che deve vedere protagonisti sia Sel sia l’Idv ma non soltanto loro. Non abbiamo tentennamenti, il segretario in direzione sarà chiaro, ma il percorso va misurato rispetto alla sfida che abbiamo di fronte e non possiamo permetterci chiusure».
Bersani lancerà un patto tra progressisti, moderati e forze civiche. Ma come si concretizzerà?
«Il Pd dovrà avviare questa nuova fase di dialogo, confronto e coinvolgimento di tutte le forze di cui abbiamo parlato ponendosi come punto di riferimento, un partito in grado di raccogliere le istanze che arrivano dalla società». Montezemolo si pone grosso modo lo stesso obiettivo...
«Noi non offriamo un format neutro: siamo il partito democratico che si muove per affermare un modello progressista, come quello contenuto nella dichiarazione di Parigi. Noi ci misureremo su questo progetto: ci sarà una proposta di centrosinistra e una di centrodestra. Non sarà la stessa cosa scegliere noi o altri».
Nicola Latorre propone una lista che parta dal basso che tenga dentro anche Vendola. Emiliano insiste con la sua idea, una lista civica nazionale con i sindaci che non si candidano ma che danno il loro contributo.
«Noi dobbiamo costruire un sistema politico normale dove ci sono grandi partiti che fanno funzionare la democrazia, non servono continue deviazioni». Quindi non condivide Giuliano Pisapia quando sostiene che i partiti da soli non bastano?
«Se stiamo parlando di questi partiti non ho dubbi, ha ragione Pisapia. Per questo insisto sulla necessità per il Pd di avviare una fase di coinvolgimento delle forze che oggi nei partiti non ci sono per rafforzare “la connessione sentimentale con il Paese”, come sosteneva Gramsci nei suoi quaderni dal carcere. Spetta al Pd farlo senza delegare ad altri questo compito. Ci dobbiamo presentare alle elezioni con il nostro simbolo, un partito profondamente rinnovato nella sua classe dirigente e con un programma definito, netto».
«Nei Comuni le abbiamo fatte tante volte le liste dei sindaci, la mia a Bari nel 2004 ha preso più voti di Ds e Margherita ma poi abbiamo vinto. Il problema è che qualcuno dei partiti potrebbe non essere eletto. Sarebbe una straordinaria occasione di ricambio della classe dirigente con metodo democratico».
Andreste in cerca dei voti di Grillo?
«Al contrario, io al movimento 5 stelle farei un discorso chiaro: “Vi va di sedervi al tavolo con noi, per fare un patto d’onore su un programma per cambiare l’Italia?”. Bisogna includere, mostrarci disponibili a discutere insieme il programma. Io nel gruppo vorrei anche il nuovo sindaco di Parma. Se poi loro non ci stanno pazienza. Ma se continuiamo a demonizzarli facciamo triplicare i loro voti. Grillo dal palco alza un po’ i toni, ma chi di noi non lo fa? Poi quando ci parli al telefono è uno ragionevole...».
Vuol mettere allo stesso tavolo Grillo e Enrico Letta?
«Io sono sempre per cercare un minino comune denominatore. Nei Comuni si governa così...».
E Montezemolo sarebbe un alleato o un avversario?
«Potrebbe essere un partner. Stavolta serve una larga maggioranza per aprire una stagione costituente, per questo dico a Vendola e Di Pietro che non s’illudano: la foto di Vasto non ci basta».
Italia Futura ha un programma decisamente liberista...
«Anche nel Pd convivono molte anime. Se riusciamo a trovare la quadra dentro il partito possiamo farlo anche all’esterno. Guardi Vendola: come governatore è molto più realista che come leader».
Pisapia dice: sì al progetto, no ai sindaci leader.
«Ha ragione, noi dobbiamo tirare la volata al velocista e poi sparire pochi minuti prima della premiazione».
E chi lo deve fare il leader?
«Il capo del partito che prende più voti. Le primarie si possono fare, ma rischiano di aprire un conflitto interno senza avere poi il tempo necessario per metabolizzarlo. La gente non ne può più delle nostre discussioni da alchimisti...».

l’Unità 28.5.12
La Costituzione secondo Schifani
di Emanuele Macaluso


Il Corriere, con un gran titolo, ci informa che il presidente del Senato Renato Schifani «ritiene ammissibile presentare in aula il semipresidenzialismo alla francese proposto dal Pdl attraverso un emendamento alla riforma Costituzionale già all'esame di Palazzo Madama». Quindi, secondo Schifani, basta un emendamento per cambiare la Repubblica parlamentare in Repubblica semipresidenziale . I costituenti che discussero il tema lavorarono mesi. Fra loro c'erano Costantino Mortati, Giorgio La Pira, Palmiro Togliatti, Aldo Moro, Vezio Crisafulli, Bozzi, Petrassi, Dossetti, Calamandrei, Gaspare Ambrosini, Vittorio Emanuele Orlando, Nitti, Paolo Rossi, Meuccio Ruini.
Potrei continuare ad elencare i grandi costituzionalisti e uomini politici che affrontarono con competenza e rigore l'assetto politico-costituzionale da dare allo Stato. E lo fecero con coerenza, per cui ciò che segue alla scelta del sistema parlamentare ha una logica spiegazione. Se bisogna cambiare, occorre cambiare tutto l'assetto dato dai costituenti. E chi può assolvere a questo compito se non un'assemblea eletta dal popolo con il mandato di rifare la Costituzione? Invece, dopo una penosa conferenza stampa di Berlusconi e Alfano, i quali affannati da un tracollo elettorale fanno proposte che serviranno solo per la prossima campagna elettorale, c'è chi, senza sapere di cosa si parla (penso a Montezemolo e soci), si mettono in pista per correre dietro il Cavaliere disarcionato.
Ormai non mi stupisco di nulla: l'attuale scena politica ci offre spettacoli e spettacolini di ogni genere. Ma che il presidente del Senato comunichi agli italiani che con un emendamento a una legge in discussione, in una assemblea di nominati, alla scadenza della legislatura, si possa cambiare la forma della Stato, è enorme. Incredibile, ma è avvenuto.

Repubblica 28.5.12
I partiti, più si somigliano più sono corrotti
di Mario Pirani


Ha ben ragione Curzio Maltese (Repubblica, 25 maggio) nello smascherare i trucchi escogitati dai partiti per eludere qualche norma limitatrice della vorace bulimia partitica a carico delle varie forme di finanziamento pubblico della politica. L´unica buona cosa della nuova legge dovrebbe alla fine risultare (anche se non è detto) dal dimezzamento dei rimborsi elettorali. Il secondo trucco risiede nel rendere fiscalmente più che convenienti i finanziamenti privati nei confronti di quelli pubblici. Il terzo marchingegno (togliere i fondi a chi non ha uno statuto di partito - vedi i "grillini" - ) è semplicemente una forma di autogol. Vale la pena proseguire in questa squallida casistica o tentare di riproporsi l´interrogativo di fondo sul dilagante processo di corruzione della vita politica italiana? Perché se non rispondiamo sulle ragioni, sul come e su quando una simile infezione ha cominciato a prendere piede, non saranno le panacee applicate lì per lì a lenire la piaga. Ora, alla base di tutto, vi è la trasformazione di una nomenclatura innervata fino a cavallo degli anni Settanta nel militantismo politico cattolico, comunista e socialista, che aveva trovato il suo equilibrio in una spartizione del potere più o meno automatica (manuale Cencelli) ma pur sempre sublimata da un impegno partitico vidimato da vertici riconosciuti, accettati e chiaramente riconoscibili, se non da quella pozzanghera sporca che tutti li marchia, fin dal primo vagito.
A tutto questo ha fatto seguito, attraverso progressivi slittamenti, un amalgama confuso e privo di valori distintivi. Scomparsa la Dc, dissolto il Psi, evaporati i partiti minori, soggetti a ricorrenti mutazioni botaniche o semantiche (Quercia, Ulivo, Cosa 1 e Cosa 2) ciò che restava di un mondo politico che aveva occupato per decenni l´attenzione internazionale sotto l´egida del Pci, si è disgregato in un carnevale ridicolo e impudico, recitato su copioni ormai spogli di ogni autoidentificazione. La comparsata al proscenio di "partiti di passaggio", battezzati su qualche predellino, non ha salvato neppure la memoria storica di antiche sigle, un tempo gloriose. Nemmeno gli "ex" (fossero riformisti o craxiani, "miglioristi" o "rifondaroli") hanno trovato lo spazio pietoso del ricordo. Eppure siamo pronti a scommettere che questa generale scomparsa dei partiti non corrisponde a una totale fame di assenza quale risulterebbe dalla nostra denuncia e, ancor più, dalle molteplici forme assunte dall´anti politica. Crediamo che il bisogno di un nuovo affaccio su un panorama attraente e non sul déjà vu resti forte nella fantasia di chi anela a nuove forme di democrazia diretta, ad un partito che accenni come l´araba fenice a rinascere dalle sue ceneri, a presentarsi davvero contendibile e non sottraibile dai faccendieri di lungo corso e di poco fiato. Se qualcuno se la sente di differenziarsi nettamente dagli altri, in primo luogo ripudiando ogni forma di finanziamento spurio, cominciando a farne un motivo di lotta fin dal prossimo Parlamento non è detto che la scommessa sia perduta. Certo, non presentandosi con vecchi compiti che neppure il più diligente degli alunni ha più voglia di recitare a memoria, così il buon Bersani la smetta di riproporci la parte del direttore di una Coop emiliana, incerto tra una forma di culatello ed una di parmigiano. Non c´è bisogno di guastarsi il gusto con le spezie vecchie di Grillo. Anche a Reggio e Modena sanno riconoscere un buon piatto di tortellini.


Sulla tempesta sul Vaticano due pezzi sull’Unità di oggi: prima un ”articolo” che non è che un molto rispettoso riassunto del discorso di Ratzinger di ieri e poi un commento che è affidato al super cattolico Svideroschi, già direttore dell’Osservatore Romano. Ancora una lettura unilaterale dei fatti, dunque, come nei giorni scorsi...
Sapevamo invece che All’Unità erano presenti culture “plurali”, ma adesso dove sono finiti i commentatori non allineati con il «pensiero-unico» cattolico? Dobbiamo cercarceli in altre testate, e non ci fa affatto piacere...

l’Unità 28.5.12
Il richiamo del Papa: «Stiamo vivendo nella nuova Babele»
di Roberto Monteforte

CITTÀ DEL VATICANO Siamo al regno di Babele, al tempo dell’«incomprensione» e dell’umanità divisa, dove l’uomo fa a meno dell’amore e pensa di poter fare a meno anche di Dio. Non è solo un rischio. Nella domenica di Pentecoste, «la festa dell’unione, della comprensione e della comunione umana», è netta la denuncia di Papa Benedetto XVI. Nella sua omelia pronunciata nella basilica di San Pietro richiama l’attualità di quel pericolo. Parla dell’uomo contemporaneo, ma anche del dramma che vive la Chiesa. «Assistiamo a fatti quotidiani in cui ci sembra che gli uomini stiano diventando più aggressivi e più scontrosi; comprendersi sembra troppo impegnativo e si preferisce rimanere nel proprio io, nei propri interessi» scandisce il pontefice. Si è persa la rotta. Il suo è un richiamo amaro e severo. «Stiamo rivivendo la stessa esperienza di Babele» riconosce, laddove «gli uomini hanno concentrato tanto potere da pensare di potersi mettere al posto di Dio». Ricorda cosa accade a Babele: «Mentre gli uomini stavano lavorando insieme per costruire la torre, improvvisamente si resero conto che stavano costruendo l’uno contro l’altro. Mentre tentavano di essere come Dio, correvano il pericolo di non essere più neppure uomini, perché avevano perduto un elemento fondamentale dell’essere persone umane: la capacità di accordarsi, di capirsi e di operare insieme». Non è quanto ci racconta la cronaca di questi giorni? Non sono forse logiche di potere, conflitti di interesse, se non l’idea di perseguire la «vera giustizia» che ha portato alla guerra tra bande che ha scosso i Sacri Palazzi e la credibilità della Chiesa universale?
Il Papa insiste. Invoca unità e concordia nella Chiesa. Nel tempo della comunicazione paradossalmente cresce l’incomprensione e con essa i conflitti. «Tra gli uomini non sembra forse serpeggiare un senso di diffidenza, di sospetto, di timore reciproco, fino a diventare perfino pericolosi l’uno per l’altro? Ritorniamo allora alla domanda iniziale: può esserci veramente unità, concordia? E come?».
L’INVITO ALLA CONVERSIONE
Torna l’invito alla «conversione» e a cercare la verità vera, «superando il fascino di seguire le nostre verità». Quindi ad agire senza superbia. Ad avere «un cuore nuovo e un lingua nuova, una nuova capacità di comunicare». Invoca la trasformazione che libera e dà coraggio, che aiuta a parlare con franchezza e ad essere capiti», come ai discepoli di Gesù con la Pentecoste. Benedetto XVI invoca una Chiesa, che grazie allo Spirito, diventa «il luogo dell’unità e della comunione nella Verità». Non sono possibili compromessi. Occorre decidere da che parte stare, dalla parte dello Spirito o da quello della «carne», vale a dire dell’egoismo e della violenza, dove prevalgono «inimicizia, discordia, gelosia, dissensi».
Sono richiami che portano al grande scandalo che ha sconvolto i Sacri Palazzi: la caccia ai «corvi», a chi ha trafugato e diffuso documenti riservati di Benedetto XVI e della Segreteria di Stato. È evidente che l’inchiesta non si ferma all’arresto di Paolo Gabriele, l’ex maggiordomo del pontefice.
Continua il lavoro degli inquirenti. Va scoperta la «rete» dei corvi e gli eventuali mandanti, perché è evidente che si è di fronte ad una strategia precisa e sofisticata. Lo stesso Gianluca Nuzzi giornalista di Libero, autore del libro «Sua Santità» che pubblica molti di questi documenti, in un’intervista ad «corvo» parlava di circa venti persone, presenti nei vari uffici, che hanno inviato documenti riservati. Nuovi sviluppi sono nell’aria. Ed è pressochè sicuro che il cerchio si stia stringendo intorno ad altre persone operanti negli uffici vaticani e che si stia esaminando il possibile coinvolgimento anche di alti prelati.
Alcuni organi di stampa hanno parlato anche di una «giovane donna residente in Italia» che «ha un lavoro anche fuori dal Vaticano» e che sarebbe alla base della fuga di notizie da lei deliberatemente orchestrata nella convinzione che ciò servirà a far pulizia del «marcio che c'è nella Chiesa». Una notizia che, però, ieri non ha trovato conferma in Vaticano.

l’Unità 28.5.12
Intervista a Gian Franco Svidercoschi, ex vicedirettore dell’Osservatore Romano: «Questa è la dimostrazione della caduta della leadership nella Chiesa, che un tempo era centro di una grande diplomazia»
«Troppi poteri alla Curia Si ritorni al Concilio»
Con gli ultimi Concistori sono cambiati gli equilibri nella Chiesa. Diffuso è il malcontento
di Roberto Monteforte


Non pare poi così sorpreso il vaticanista e scrittore Gian Franco Svidercoschi dagli scandali vaticani. Ma amareggiato sicuramente. L’ex vicedirettore dell’Osservatore Romano è autore di un libro «Mal di Chiesa. Dubbi e speranze di un cristiano in crisi» che ha suscitato molte discussioni.
Il dolore e il degrado che lei ha denunciato hanno a che fare con le vicende di oggi?
«Con quello che sta accadendo il mio libro sembra scritto da educande. La crisi che attraversa la Chiesa è molto più grave anche di quella forse ipotizzata dallo stesso pontefice che ha indetto per il prossimo settembre l’Anno della fede. È vero che siamo in presenza di una crisi della fede. Ma è lo sbocco finale di tante cose. Non solo di crisi individuali. Nella Chiesa vi è sicuramente anche una crisi di strutture, una crisi di progetti, e soprattutto di leadership. Troppe cose sono successe negli ultimi anni per non pensare che chi doveva supplire a un Papa anziano, che preferiva dedicarsi alla predicazione e alla scrittura, dovesse invece far funzionare la macchina della Curia. Così non è stato. Negli ultimi tempi la segreteria di Stato pare abbia assunto un’autonomia e una predominanza eccessiva...». Si spieghi meglio..
«Guardiamo gli ultimi due Concistori, entrambi tenuti con il cardinale Bertone segretario di Stato. Il suo parere ha indubbiamente pesato nella scelta dei cardinali. Oltre il 40% dei nominati sono italiani e il 50% della Curia romana. È stato lo stravolgimento del volto del collegio cardinalizio che ha eletto Papa il cardinale Joseph Ratzinger dove gli europei non avevano la maggioranza. Ora, invece, sono tornati ad averla. Nell’ultima tornata di nomine non vi è stato neanche un nuovo cardinale africano. E poi le lotte per bande...»
A cosa si riferisce?
«Non credo che il maggiordomo del Papa sia stato solo a prendersi la responsabilità di tirar fuori i documenti. Intanto perché non poteva arrivare da solo a tutti i documenti usciti. Poi perché mi sembra eccessivo pensare che Paolino avesse un amore infinito per il Papa e con queste uscite di documenti pensasse di attaccare i presunti nemici del Papa. Ci deve essere qualcuno dietro. Questa è la dimostrazione della caduta di leardeship nella Chiesa, un tempo conosciuta come il centro di una grande diplomazia e di governo. Ora sono questi gli uomini giunti al potere. E non per niente gli ultimi due pontefici hanno più volte condannato esplicitamente il carrierismo. È il segno che tra le gerarchie il carrierismo esasperato è presente, con un sottogoverno che, magari per ingraziarsi un “capo” o l’altro, arriva alla guerra per bande di cui vediamo gli esiti».
Con quali obiettivi agirebbero? Gli effetti sono comunque devastanti per la credibilità per la Chiesa.
«Vi è la pochezza della visuale di queste persone. Le gaffe in cui, suo malgrado, è incorso Benedetto XVI, chiamano in causa la segreteria di Stato. C’è chi pensa di creare in Curia “territori privati” riservati agli italiani. Così è stato con le ultime nomine. È evidente l’influenza del segretario di Stato su scelte specifiche. Questo può aver causato una reazione da parte di chi tende a resistere a quella che possono ritenere una prepotenza, un’arroganza della segreteria di Stato. Vi sono cardinali che hanno già chiesto a papa Ratzinger le dimissioni di Bertone. A capo della Curia sarebbe servito un politico di livello internazionale: in questo modo, invece, lo stesso Papa è stato alla fine appiattito in una dimensione italiana».
Giustifica i corvi?
«Nella nota vaticana di condanna alla pubblicazione delle lettere trafugate in Vaticano pubblicate dal libro di Nuzzi, e lo dico da credente, mancava un minimo di spiegazione sui contenuti critici presenti in quelle lettere. Sono lettere vere. Vi sono accuse precise. Qualcuno le ha smentite? No. Penso a Viganò o a quanto è scritto nella lettera di Boffo. È incredibile quello che sta succedendo. Occorre più trasparenza. E poi si va attaccare chi tira fuori le notizie senza spiegarle?»
La responsabilità è solo della gestione della Curia romana?
«In questi ultimi anni vi è stato un impoverimento del vertice vaticano con un’immissione di persone molto vicine al segretario di Stato. Sono amici del cardinale Bertone i tre cardinali collocati nei posti chiave dell’organizzazione in Vaticano. Oltretevere è entrata la fragilità umana. Sia Wojtyla che Ratiznger, con le loro sensibilità, si sono resi conto dell’impossibilità di cambiare la Curia romana».
Cosa propone?
«Una premessa. Il vero problema è la clericalizzazione della Chiesa. È il ritorno di un male antico: il dominio dei chierici. C’è un ritorno di individualismo e clericalismo anche tra i giovani preti. È la Chiesa gerarchica che si sente padrona della verità e non al servizio degli altri. Quello che nella Chiesa doveva essere servizio, si è fatto potere. L’uso del potere sacro da parte dei chierici. Questo è il tarlo. Determinando così una reazione uguale e contraria da parte di chi deteneva il potere e ora si sente emarginato. La segreteria di Stato non è al servizio del Papa, è diventato un potere. La risposta è tornare veramente al Concilio Vaticano II e alla collegialità».

La Stampa 28.5.12
A San Pietro un popolo disorientato
In piazza San Pietro lo scandalo che scuote il Vaticano preoccupa i fedeli
I fedeli traditi e disorientati “Alla deriva come l’Italia laica”
E in piazza San Pietro le sacre mura non riescono a contenere la “crisi parallela”
di Federico Geremicca


Ver-go-gna, ver-gogna, ver-go-gna». Le urla cattive si alzano dalla piazza assieme ai palloncini bianchi ai quali è legata la solita foto - foto di trent’anni fa - di Emanuela Orlandi. Il Papa è lassù, in alto, come al solito troppo in alto per poter sentire il coro che si leva, ora che è mezzogiorno. Protesta e gesticola Pietro, il fratello di Emanuela. E protestano e urlano i cittadini arrivati per l’ennesima volta fin qui a chiedere verità e giustizia. E’ vero, ci sono giornate che sarebbe meglio non cominciassero mai. Per Papa Ratzinger e la sua cittadella assediata, questa è una di quelle: e al di là delle mura, anzi, cancellerebbero con un amen l’intera settimana, se solo si potesse.
Ci sono giornate che sarebbe meglio non cominciassero mai. E fatti che si vorrebbe scolorissero in fretta. I fatti, solo gli ultimi fatti, sono questi: il presidente del potentissimo Ior rimosso dal suo incarico come un fannullone qualunque, sepolto da accuse infamanti, infedele e sfaccendato; il maggiordomo del Papa spiato, perquisito e arrestato per aver «passato ai media» documenti riservati e personali del Santo Padre: alla stregua di un cancelliere infedele che distribuisca intercettazioni e verbali a questo o a quel cronista.
Guerra tra bande Verrebbe voglia di non crederci: e la voglia riguarda tutti, atei e fedeli. E invece, purtroppo, in questa piazza San Pietro inondata di sole, non solo ci credono, ma ricordano quando la Chiesa si divideva - è vero - ma su ben altro: se sostenere e come Solidarnosc, oppure cosa fare con quei «ribelli» della teologia della liberazione. Oggi, in quelle stesse stanze drappeggiate di scuro, si trama per il controllo di una banca, tutto è ridotto a una guerra per bande bande sante, naturalmente - e si corrompono e utilizzano funzionari infedeli e (pare) senza scrupoli. Come in un film. E proprio come al di là delle mura benedette.
Che è pur sempre una spiegazione, oltre che una inevitabile constatazione. E che magari può aiutare a capire l’incredulità, lo smarrimento e la rabbia - la rabbia anche, certo di un altro popolo che si sente tradito, e che quasi non ci crede. E’ una suggestione che si insinua ascoltando una signora anziana, nonna Luigina, arrivata fin qui da un paesino vicino Como: «E’ che al Papa - dice sicura - lo vogliono fregare come hanno fregato su da noi l’Umberto. Guai a fidarsi dei figli, dei maggiordomi e ascolti me: anche delle mogli le dico... ». Un popolo disorientato, quello di Piazza San Pietro, come disorientato è il «popolo di Pontida», una fede tradita, due fedi tradite, e non capisci ancora né come nè perché.
Senso di vergogna La lotta - presunta - tra il cardinal Bertone e il Papa, come la lotta - accertata - tra il «cerchio magico» e il resto della Lega. E la delusione del popolo di San Pietro un senso di vergogna - che fa tornare in mente lo smarrimento rabbioso del fu popolo berlusconiano, di fronte all’inefficienza e ai bunga bunga, un Paese che tira la cinghia e gli altri che ballano, cantano e si travestono. Può sembrare un paradosso unire così il sacro e il profano: ma le mura sante del Vaticano sembrano non bastar più ad arginare la «crisi parallela» della più antica istituzione del mondo.
«La fede non basta» E’ quel che teme Marco, che ha i capelli scuri, è giusto al centro della piazza e veste una maglietta nera con la scritta «Viareggio Marineria». E’ preoccupato, e guarda con timore un angolo di folla che rumoreggia: «E’ terribile. Se diventiamo come gli altri è finita ed è terribile. La fede da sola non basta, perché non può camminare sulle gambe di gente cattiva e di uomini infedeli». Il Papa, intanto, è lassù e parla. Prima, dentro San Pietro, aveva celebrato la Pentecoste con parole amare: «Sembra che gli uomini stiano diventando più aggressivi e più scontrosi... C’è un senso di diffidenza, di sospetto e di timore reciproco che ci fa diventare pericolosi gli uni per gli altri».
E’ quel senso di diffidenza - quella mancanza di orizzonti certi e di fiducia, insomma - che l’Italia laica conosce già. Ora, questa maledetta crisi di credibilità sembra investire - autoinvestire - anche la cittadella circondata da mura sante. Come se la Chiesa fosse un partito e il Papa il suo segretario, ombre tetre si allungano sugli uomini a lui più vicini: che siano leader anch’essi, che siano tecnici arrivati dal mondo dell’economia e delle banche, che siano amici e servitori del cerchio stretto che vigila sul Santo Padre. Non è che ci si debba soprendere chissà quanto, dopo la sconfinata bibliografia (e filmografia) sui misteri, gli scandali ed i segreti del Vaticano: però sia lecito e sia lecito soprattutto al popolo che riempie questa piazza - dirsi sconcertato e ferito dall’idea che corvi neri abbiano preso (ripreso) a volteggiare dentro le mura sante, come fossero un tribunale, una Procura o perfino la sede di un partito.
Il viaggio a Milano Lassù - intanto - il Papa parla, annuncia un viaggio a Milano, saluta i fedeli in più lingue, ringrazia e rende omaggio alle forze di polizia per il loro «compleanno» e perfino alla Federazione di tiro con l’arco. I palloncini con la foto di Emanuela Orlandi gli passano quasi davanti e salgono al cielo, segno di un passato che continua a inseguire un incerto presente. Il fratello Pietro aspettava dal Papa un segno, una parola. Ma il vento impiega un attimo a portar via la foto. E’ mezzogiorno e un quarto, la messa è finita: e chi riesce, allora, vada in pace..

Corriere 28.5.12
Carte rubate, cardinale italiano finisce nella lista dei sospettati
Le voci in Vaticano: il quadro delle accuse già definito
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — Che nell'indagine sui corvi si facesse sul serio lo si era capito già il mese scorso, quando Benedetto XVI istituì la commissione cardinalizia con pieni poteri presieduta dal porporato dell'Opus Dei Julián Herranz e con il prefetto emerito di Propaganda Fide Jozef Tomko e Salvatore De Giorgi, già arcivescovo di Palermo. In apparenza poteva sembrare pletorica, da settimane erano già in corso l'indagine penale del Tribunale vaticano e quella amministrativa della Segreteria di Stato. Ma una commissione simile ha due caratteristiche fondamentali: risponde direttamente al Papa e, con piena autorità, può indagare su chiunque. Gia allora si era messo in conto che l'inchiesta sulla fuga di notizie, al di là della manovalanza, potesse toccare livelli più alti, fino al Collegio cardinalizio: «Agirà in forza del mandato pontificio a tutti i livelli». E ora a quei livelli si è arrivati, almeno come «ipotesi investigativa» che riguarda un porporato, e non uno in astratto: nel linguaggio felpato di Oltretevere, «non si esclude» il coinvolgimento di «un cardinale» nel complotto.
E questo significa, nel caso, una procedura totalmente diversa, rispetto all'arresto del maggiordomo del Papa o agli interrogatori di funzionari proseguiti anche ieri: se il codice penale del Vaticano recepisce nella sostanza quello italiano, il codice civile, per dire lo status, prevede (articolo 113, paragrafo 2) che «i cardinali di Santa Romana Chiesa, i vescovi e le persone illustri» siano «dispensati dall'obbligo di comparizione avanti al giudice per deporre come testimoni» e possano «scegliere il luogo dove essere interrogati», magari a casa.
In Vaticano il segreto istruttorio è totale ma nessuno si straccia le vesti all'idea di un cardinale coinvolto nell'inchiesta: si parla, anzi, di un italiano. Forse perché «questa faccenda è essenzialmente tutta italiana», sospira un monsignore (italiano) della Curia. Del resto non solo si è «appena all'inizio» ma il quadro generale «è già definito», altrimenti «non si sarebbe proceduto col primo arresto». Il primo: altri se ne attendono. E non è solo per quello che potrà dire l'«aiutante di Camera» Paolo Gabriele agli investigatori. In queste ore gli uomini della Gendarmeria stanno controllando i documenti trovati a casa del maggiordomo, ne hanno portate via «quattro casse». Ma soprattutto si compulsano tabulati telefonici, email, computer e «supporti magnetici» vari alla ricerca dei suoi contatti. Si cercano i complici, altri corvi, soprattutto nessuno crede che Gabriele possa avere orchestrato da solo la fuga di documenti: «Se si arriva in quella posizione, in Vaticano, si è debitori nei confronti di qualcuno».
Il maggiordomo è sempre in camera di sicurezza, ha parlato con i suoi avvocati e ieri sera filtrava la voce che avesse cominciato a dire infine qualcosa, a fare nomi dopo tre giorni di silenzio e preghiera nella cella di quattro metri per quattro. Dal punto di vista formale, per ora è accusato «soltanto» di furto aggravato. Ad incastrarlo, si spiega, sono state delle carte che potevano trovarsi solo nello studio privato del Papa perché non erano state ancora archiviate nella segreteria di Stato: come un documento di bilancio della «Fondazione Joseph Ratzinger-Benedetto XVI» appena pubblicato nel libro di Gianluigi Nuzzi «Sua Santità, le carte segrete di Benedetto XVI». Non sono invece considerate rilevanti le apparecchiature fotografiche e di ripresa, «strumenti che hanno tutti, una falsa pista».
La fase di «istruttoria formale», condotta dal giudice istruttore Piero Antonio Bonnet, comincia di fatto oggi. Ma Paolo Gabriele non è l'unico ad essere messo sotto torchio. Nonostante la festa di Pentecoste, il lavoro e gli interrogatori sono andati avanti anche ieri. La prudenza è d'obbligo, il fatto di essere stati sentiti non significa nulla e ci sono funzionari che sono stati interrogati e poi scagionati. Quando le indagini si sono concentrate sull'Appartamento, sono state ascoltate (e subito escluse) perfino le quattro Memores Domini. Certo non tutti i documenti sono usciti dallo studio violato del pontefice. Le falle si sono aperte in vari uffici, a cominciare dalle due sezioni della Segreteria di Stato, Affari generali e Rapporti con gli Stati. Un «corvo» intervistato da Nuzzi diceva: «Siamo una ventina». Vero o falso che sia, il clima Oltretevere è pessimo, si dà per scontato che ogni telefono o ambiente sia intercettato, cresce quella diffidenza che ieri Benedetto XVI ha tratteggiato nell'evocare l'«esperienza» di Babele: «Tra gli uomini non sembra forse serpeggiare un senso di diffidenza, di sospetto, di timore reciproco, fino a diventare perfino pericolosi l'uno per l'altro?».
Durante la messa, ieri, si sono così notate alcune assenze di cardinali importanti della cosiddetta «vecchia guardia», cosa strana per una celebrazione così importante per la Chiesa: quasi fosse un altro segnale di malumore interno. Una persona vicina all'Appartamento, che conosceva bene Gabriele, esclama: «Com'è possibile che sia stato già condannato prima del processo, che abbiamo lasciato filtrare il suo nome? Non vorrei che fosse un tentativo di bloccare tutto, una sentenza anticipata per chiudere la vicenda e impedire si arrivi alla verità». Le cose non sembrano andare così, peraltro. Il pontefice per primo desidera che si proceda, «addolorato» ma «sereno» e ben «determinato» a «guardare avanti». Sabato Benedetto XVI ha invitato i fedeli ad avere fede e fiducia, la Chiesa è fondata evangelicamente «sulla roccia». Oltre la guerra che si è consumata negli ultimi anni, tra chi ha raggiunto il potere e chi non lo ha più, o vorrebbe averlo. Tra le Mura leonine, di questi tempi, è citatissimo l'aneddoto attribuito al cardinale Ercole Consalvi, grande segretario di Stato di Pio VII, la sua risposta a Napoleone che minacciava di distruggere la Chiesa: «Non ci riuscirà, maestà. Non ci siamo riusciti neanche noi».

La Stampa 28.5.12
E spunta un anonimo “Siamo in tanti vogliamo aiutare il Papa”
“L’obiettivo è fare pulizia, documenti scambiati a mano”
di andrea Tornielli


Quattro giorni dopo l’arresto dell’aiutante di camera Paolo Gabriele, al quale sono stati trovati «documenti illecitamente posseduti», nel clima di veleni e di sospetti che si respira in Vaticano, i «corvi» tornano a farsi sentire.
«Sono uno di loro», dice una persona che lavora Oltretevere e che chiede l’anonimato assoluto. Non vuole che si dica alcunché sull’età, sull’ufficio in cui lavora, sulla sua nazionalità, se sia laico o sacerdote. Da come parla, appare come qualcuno che si muove molto bene nell’ambiente vaticano e lo conosce piuttosto a fondo. «Siamo in tanti, e a tanti livelli – sussurra – e abbiamo deciso di agire per aiutare il Papa». La stessa motivazione che la fonte «Maria» ha confidato a Gianluigi Nuzzi, e che si trova stampata nelle pagine di «Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI». L’obiezione è scontata: come si può pensare di aiutare il Papa facendo apparire il Vaticano un colabrodo e finendo per screditare l’intera istituzione, presentata come teatro di lotte all’ultimo sangue? Il presunto «corvo» non risponde, convinto com’è, invece, che i vatileaks siano quasi una necessità. L’obiettivo dichiarato è la rimozione del cardinale Tarcisio Bertone, il Segretario di Stato che Benedetto XVI si è scelto pochi mesi dopo l’inizio del suo pontificato, nominato nel giugno 2006 e insediatosi nel settembre successivo.
«Tutto è cominciato l’estate scorsa – continua il “corvo” – quando il segretario generale del Governatorato, monsignor Carlo Maria Viganò ha perso la sua battaglia contro la corruzione». Il caso è noto: il prelato lombardo era all’origine di una politica di risanamento dei bilanci e di razionalizzazione delle spese, peraltro condivisa dal suo superiore diretto, il cardinale Lajolo. Il Papa aveva deciso di allontanarlo, nominandolo nunzio a Washington. «È stato allora che abbiamo capito che il Papa non sarebbe riuscito a imporsi a Bertone e abbiamo deciso di agire. Le lettere spedite da Viganò a Benedetto XVI e al Segretario di Stato sono le prime che abbiamo fatto uscire…».
«Lo ripeto, siamo in tanti, anche molto in alto, ci scambiamo i documenti a mano. Vogliamo aiutare il Papa a fare pulizia. Dopo Viganò c’è stato il caso IOR, e la capitolazione di Gotti Tedeschi, un uomo di Bertone che ha avuto il torto di muoversi autonomamente e di scavalcare il Segretario di Stato arrivando direttamente al Papa».
Non può mancare una domanda sull’aiutante di camera Paolo Gabriele, agli arresti Oltretevere. Come si inserisce lui in questa rete? «Non c’entra». Prego? E come si spiegano i documenti di cui è stato trovato in possesso? «Lui non ha sottratto documenti, è stato coinvolto per far arrivare dei documenti al Papa». Quella delle denunce riguardanti «fatti gravi» fatte pervenire dal maggiordomo al Pontefice all’insaputa di tutti, è una vicenda già raccontata da alcuni degli amici più vicini a Gabriele. E se queste uscite del presunto «corvo» fosse soltanto un tentativo di difendere «Paoletto» dalle gravi accuse che gli sono mosse? Un modo per cercare di ridimensionare le sue responsabilità scaricando la colpa su una rete più vasta? «Non è così, e si vedrà, la storia non è ancora finita…».
Che il caso vatileaks non sia finito e che l’aiutante di camera non fosse isolato, sono in molti a pensarlo in Vaticano, ben più in alto dei veri o presunti «corvi». Ciò che emergerebbe dal racconto dell’interlocutore è l’esistenza di un vero e proprio movimento sotterraneo, che parte dal basso, ma arriva a coinvolgere persone vicine a vescovi e cardinali, intenzionate ad aiutare il Papa. Anche se l’esito di questa battaglia sarà quello di indebolirlo.

Repubblica 28.5.12
"Confesso: uno dei corvi sono io lo facciamo per difendere il Papa e denunciare il marcio della Chiesa"
Vatileaks, parla un delatore: Bertone ha troppo potere
di Marco Ansaldo


Siamo un gruppo: le vere menti sono porporati, poi ci sono monsignori, segretari, pesci piccoli Il maggiordomo è solo un postino che qualcuno ha voluto incastrare
Le carte escono fuori a mano. L´intelligence vaticana ha sistemi di sicurezza più evoluti della Cia, ma i cardinali sono ancora abituati a scrivere i loro messaggi a penna e a dettarli
Il pontefice è molto amico di Gotti Tedeschi: quando ha saputo che era stato licenziato dallo Ior si è messo a piangere Poi però si è arrabbiato e ha reagito: la verità verrà a galla, ha detto
Ormai è diventata una guerra di tutti contro tutti. E c´è una fazione che ha messo nel mirino perfino padre Georg, il segretario di Ratzinger, per il suo ruolo di consigliere
«Ci sono i cardinali, i loro segretari personali, i monsignori e i pesci piccoli. Donne e uomini, prelati e laici. Tra i "corvi" ci sono anche le Eminenze. Ma la Segreteria di Stato non può dirlo, e fa arrestare la manovalanza, "Paoletto" appunto, il maggiordomo del Papa. Che non c´entra nulla se non per aver recapitato delle lettere su richiesta».
Un quartiere alto di Roma nord, un tavolino di un bar, sempre un po´ di traffico intorno. All´ora di pranzo di una domenica mattina finalmente tersa uno dei "corvi", gli autori della fuoriuscita di lettere segrete dalla Santa Sede, spiega i dettagli dell´operazione.
«Chi lo fa - dice subito - agisce in favore del Papa».
Per il Papa? E perché?
«Perché lo scopo del "corvo", o meglio dei "corvi", perché qui si tratta di più persone, è quello di far emergere il marcio che c´è dentro la Chiesa in questi ultimi anni, a partire dal 2009-2010».
Ma chi sono? Chi siete?
«Ci sono quelli che si oppongono al segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Quelli che pensano che Benedetto XVI sia troppo debole per guidare la Chiesa. Quelli che ritengono che sia il momento giusto per farsi avanti. Alla fine così è diventato un tutti contro tutti, in una guerra in cui non si sa più chi è con chi, e chi è contro».
La persona è tormentata. Vuole parlare, ma allo stesso tempo ha paura, e ha forti dubbi. Niente nomi da pubblicare, ne andrebbe della sua sicurezza. Molti silenzi, molti sguardi. «Posso fidarmi di lei? Questa cosa è terribilmente delicata». Proviamo.
Com´è nata la fuga dei documenti dal Vaticano?
«Nasce soprattutto dal timore che il potere accumulato dal Segretario di Stato possa non essere conciliabile con altre persone in Vaticano».
Ma c´è anche una pista dei soldi?
Una mano nei capelli, gli occhi guardano intorno, le mani tormentano un anello.
«C´è sempre una pista dei soldi. Ci sono anche interessi economici nella Santa Sede. Nel 2009-2010 alcuni cardinali hanno cominciato a percepire una perdita di controllo centrale: un po´ dai tentativi di limitare la libertà delle indagini che monsignor Carlo Maria Viganò stava svolgendo contro episodi di corruzione, un po´ per il progressivo distacco del Pontefice dalle questioni interne».
Le macchine intorno strombazzano. Due cani finiscono per azzannarsi. Cambiamo posto. Saliamo. Altro bar, giardino all´interno, un po´ di quiete. Il discorso prosegue più fluido.
«Che cosa è successo a quel punto? Viganò scrive al Papa denunciando episodi di corruzione. Chiede aiuto, ma il Papa non può far nulla. Non può opporsi perché questo significherebbe creare una frattura pubblica con il suo braccio destro. Pur di tenere unita la Chiesa sacrifica Viganò. O meglio, finge di sacrificarlo perché, come si sa, la nunziatura di Washington è quella più importante. Così i cardinali capiscono che il Papa è debole e vanno a cercare protezione da Bertone».
Che cosa fa a questo punto il Pontefice?
«Il Papa capisce che deve proteggersi. E convoca cinque persone di sua fiducia, quattro uomini e una donna. Che sono i cosiddetti relatori. Gli agenti segreti di Benedetto. Il Papa cerca consiglio da queste persone affidando a ciascuno un ruolo, e alla donna quello di coordinare tutti e cinque».
C´è una donna che aiuta il Papa in questo?
«Sì, è la stratega. Poi c´è chi materialmente raccoglie le prove. Un altro prepara il terreno, e gli altri due permettono che tutto ciò sia possibile. In questa vicenda il ruolo di queste persone è stato quello di informare il Papa su chi erano gli amici e i nemici, in modo da sapere contro chi combattere».
E intanto la fuoriuscita dei documenti come va avanti?
«Cominciano a uscire. Sono individuati dei canali e dei giornalisti».
Come escono?
«A mano. L´intelligence vaticana, che ha sistemi di sicurezza integrati nei sotterranei del Palazzo apostolico guidati da un giovane ex hacker di 35 anni, e sono addirittura più evoluti della Cia, con sistemi sofisticatissimi, non possono farci nulla. Perché i cardinali sono abituati a scrivere i loro messaggi a penna e a dettarli. Li fanno poi recapitare a chi vogliono brevi manu. E i documenti fuoriusciti sono lo strumento con cui si sta combattendo questa guerra. L´obiettivo primario era quello di colpire il Papa. Di fiaccarlo e convincerlo a mollare le questioni politiche ed economiche della Chiesa. Bisognava reagire».
E il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, letteralmente cacciato?
«È accaduta la stessa cosa. Eppure era vicinissimo al Papa: hanno steso insieme l´enciclica Caritas in veritate. Gotti non rispondeva a nessuno, ma lo faceva direttamente al Papa, a cui mandava anche dei memorandum per descrivere la situazione interna allo Ior. E così anche le operazioni che fallivano, come la legge antiriciclaggio o la scalata per il San Raffaele. Bertone si ingelosisce, accusa Gotti, e decide di tagliargli la testa. Quando giovedì scorso il Papa ha saputo del licenziamento di Gotti, si è messo a piangere per "il mio amico Ettore"».
Il Papa che piange?
«Sì, ma poi si è arrabbiato moltissimo e ha reagito dicendo che la verità su questa vicenda sarebbe venuta fuori».
Ma non si poteva opporre?
«Avrebbe potuto farlo, ma opporsi avrebbe significato una frattura clamorosa con il suo Segretario di Stato».
E poi, il giorno dopo?
«E il giorno dopo il Papa è stato nuovamente colpito, e nel personale, quando è stato arrestato Paoletto. Ora il Papa è disperato. Ma Paoletto non è il corvo, i corvi sono tanti, tutt´al più è stato usato da qualcuno».
Hanno detto di Gotti che è uno dei corvi.
«Gotti è una persona onesta, che tace, come ha fatto anche nel mezzo dell´indagine della magistratura sullo Ior. E come sta facendo adesso dopo la sua defenestrazione. Non si è prestato a nessun gioco, non è lui il corvo».
Anche padre Georg, il segretario del papa, è nel mirino?
«Per una fazione è stato uno degli obiettivi da colpire: rappresenta oggi più che mai l´elemento di congiunzione fra tutti i dicasteri all´interno del Vaticano e il Papa, fa da filtro, decide e consiglia il Papa».
Siamo ormai da tre ore a colloquio, in pieno pomeriggio, al terzo caffè. La persona è molto informata, conosce dettagli, meccanismi, persone interne alla Santa Sede come pochi.
Perché ha deciso di uscire allo scoperto?
«Per far emergere la verità. E quindi far cessare la gogna mediatica alla ricerca estrema di un colpevole nelle vesti di un corvo (il maggiordomo), di un prete (don Georg), o di un alto funzionario o di un cardinale (Gotti, il cardinale Piacenza o altri). Il ruolo fondamentale della Chiesa è di difendere il valore del Vangelo, non quelli di accumulare potere e denaro. E quello che faccio è fatto in nome di Dio, io non ho paura».

La Stampa 27.5.12
Il caso Ior
La sfida di Gotti Tedeschi “Commissione d’inchiesta”
L’ex presidente: a capo Ruini, Scola o Sodano. Sospetti su Geronzi
di Giacomo Galeazzi


Si sente colpito dalla nemesi che in poche ore l’ha trasformato da uomo della trasparenza a nemico della «glasnost» finanziaria della Santa Sede. Il presidente sfiduciato dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, non ci sta a passare per ostacolo alla «purificazione» delle finanze vaticane e annuncia battaglia. Agli ex collaboratori che nell’Istituto gli sono ancora legati, spiega di attendersi una commissione di inchiesta che lo ascolti e chiarisca le accuse mosse alla sua gestione triennale. A presiederla dovrebbe essere non un esponente dell’attuale dirigenza d’Oltretevere ma una figura indipendente, una «personalità di indiscusse autonomia e autorevolezza» come l’ex cardinale vicario Camillo Ruini, l’arcivescovo di Milano Angelo Scola o il decano del Sacro Collegio, Angelo Sodano. Un soggetto terzo, quindi, rispetto allo scontro che ha contrapposto il segretario di Stato, Tarcisio Bertone a Gotti Tedeschi, sostenuto dal presidente dell’Autorità d’informazione vaticana (Aif), Attilio Nicora. Alla commissione chiederebbe di comparare le due leggi antiriciclaggio (la sua e quella del board) e di valutare il report del 27 aprile di Moneyval, il gruppo del Consiglio d’Europa che sta vagliando le procedure e le normative della Santa Sede. Prima di entrare ieri pomeriggio in clinica per un intervento al colon, il banchiere piacentino, duramente provato da mesi di tensioni e conflitti, ha espresso profonda amarezza per la pubblicazione del memorandum (un vero e proprio «j’accuse» con una lunga lista di addebiti) attraverso cui il cda della «cassaforte del Papa» gli ha voltato faccia giovedì. E’ combattuto interiormente tra l’ansia di spiegare la sua verità e la volontà di non turbare il Papa. Alle persone a lui vicine assicura che prevale il suo «amore per la Chiesa», soprattutto perché sa che se parlasse pubblicamente alimenterebbe ulteriormente «una vicenda che fa il danno della Chiesa e del Pontefice». Intanto all’interno dell’Ior affiorano vicende e circostanze che proiettano una luce diversa sulla defenestrazione del banchiere piacentino. Alcuni dipendenti, per esempio, raccontano di come non sia solo la JP Morgan ad aver chiuso i rapporti con la banca vaticana in seguito all’inchiesta della procura di Roma per violazione della normativa antiriciclaggio. «Ormai lavoriamo quasi esclusivamente con la Deutsche Bank, da cui proviene l’ex vicepresidente che ha sostituito “ad interim” Gotti Tedeschi», spiega un funzionario. E poi ci sono le causali «improbabili» per i bonifici all’estero, come i 20 mila euro per sante messe in Africa o i 250 mila euro per «vino da messa» in America Latina. A dicembre, durante il pranzo per gli auguri natalizi ai dipendenti, il bertoniano Paolo Cipriani e Gotti Tedeschi fecero due discorsi «praticamente antitetici». Il primo tracciò un quadro estremamente positivo della situazione dell’Istituto, mentre l’allora presidente dello Ior non ne nascose le difficoltà e i punti critici. E, in effetti, si apprende adesso che la strada verso la «white liste» dell’Ocse, cioè la lista dei paesi virtuosi, è tutt’altro che spianata per la Santa Sede. In base al questionario degli esperti europei sulle norme in materia finanziaria e di antiriciclaggio, il Vaticano corrisponde solamente a due dei dieci parametri richiesti dalle autorità internazionali. Ma ciò su cui principalmente Gotti Tedeschi intenderebbe riferire, prove documentali alla mano, ad un «Ombudsman» indipendente della Santa Sede è l’operazione che lo ha portato in rotta di collisione con Bertone. E cioè il gravoso salvataggio dell’ospedale milanese San Raffaele. Il banchiere piacentino ha fatto proprie le critiche all’operazione dei cardinali Nicora, Scola e Bagnasco. Così il San Raffaele è sfuggito al controllo dello Ior ed è andato al miglior offerente, il re delle cliniche, Giuseppe Rotelli. Bertone, che ne voleva fare il fiore all’occhiello della sanità cattolica (con l’ospedale vaticano Bambin Gesù, il polo Gaslini-Galliera di Genova,la Casa sollievo della sofferenza di San Giovanni Rotondo e il Policlinico Gemelli di Roma) se l’è legata al dito. Anche per questo Gotti Tedeschi scorge nella defenestrazione «l’ombra di Cesare Geronzi e del suo fidatissimo Marco Simeon». La caduta in disgrazia nelle Sacre Stanze, ritiene, sarebbe iniziata lì. «La commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior si è spaccata sulla gestione della sfiducia a Gotti Tedeschi, quindi i tempi per la nomina del suo successore non saranno brevi - evidenzia uno stretto collaboratore di Benedetto XVI -. E’ una situazione senza precedenti, non esistono regole codificate per uscire da questa crisi. Più è grande la responsabilità che si ha, maggiore deve essere il senso dell’istituzione».

Corriere 28.5.12
«Nessuna divisione al vertice dello Ior su Gotti Tedeschi»
La Santa Sede: voti contrari? Gossip Il banchiere: sono amareggiato
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — Il Vaticano nega che ci siano state divisioni tra i cardinali del consiglio di sorveglianza dello Ior, riunito venerdì scorso, in relazione alla destituzione di Ettore Gotti Tedeschi dalla carica di presidente e membro del board dell'istituto. Un esponente autorevole della segreteria di Stato liquida le voci in tal senso come «solo gossip».
Ribadendo semmai che la verità di questa storia «è quella scritta nella lettera di sfiducia» firmata da Carl A. Anderson, il Cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo, nelle funzioni di segretario del consiglio di amministrazione dello Ior e pienamente sottoscritta, oltre che dagli altri esponenti del board, anche dalle alte sfere vaticane. Mentre Gotti Tedeschi si è detto «amareggiato» per la pubblicazione (ieri dal Corriere della Sera) delle accuse del board. Un documento invece così condiviso dai cardinali da rendere superflua la stesura di un comunicato in questa fase interlocutoria, mentre ancora si stanno definendo le formalità legali ed economiche per la chiusura del rapporto con Gotti Tedeschi e non essendo ancora chiaro se gli verrà darà la possibilità di dimettersi, senza una formale destituzione da parte della Commissione cardinalizia (cui spetta in ogni caso l'ultima parola).
Questo vuol dire che potrebbe essere data a Gotti Tedeschi la possibilità che sia lui stesso a prendere atto della sfiducia del board contenuta nel memorandum. Anche se non risponde al vero che abbia mai offerto nei giorni scorsi le sue dimissioni. Il memorandum, che è stato notificato dal board a Gotti Tedeschi e alla Commissione cardinalizia, contiene un vero e proprio j'accuse con una lista di 9 addebiti in cui il board dell'istituto ha definito l'ex presidente come «inaffidabile e imprudente».
L'economista cattolico risponde al telefono con un filo di voce («Non fatemi parlare, per favore») e anche se ancora combattuto interiormente se spiegare o meno la «sua» verità, tuttavia, affermano persone a lui vicine, «prevale il suo amore per la Chiesa». Egli peraltro comprende benissimo che messe nero su bianco le «contestazioni» che gli sono state fatte da personalità molto autorevoli del mondo economico e finanziario internazionale (oltre ad Anderson, Ronaldo Hermann Schmitz, ex ad della Deutsche Bank, Manuel Soto Serrano, spagnolo, presidente del Santander, la banca da cui proveniva Gotti Tedeschi, e dall'avvocato e notaio italiano Antonio Maria Marocco) lasciano poco margine. Del resto è stata proprio la sua reazione («pago per la mia trasparenza») ad aver convinto il vertice della banca vaticana a rendere noto il documento per tagliare le gambe a illazioni e sospetti sulla decisione.
Ieri, rispondendo a questa stessa logica, sono state subito smentite, sia pure ufficiosamente, le voci di una presunta spaccatura tra i cardinali supervisori dello Ior, il segretario di Stato Tarcisio Bertone (che è anche il presidente della Commissione cardinalizia di sorveglianza), Attilio Nicora (presidente dell'Autorità finanziaria di controllo, Aif), Jean Luis Tauran (francese, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso), Telesphore Placid Toppo (indiano, arcivescovo di Ranchi), e Odilo Pedro Scherer (brasiliano, arcivescovo di San Paolo del Brasile). «Ciò è assolutamente falso», sottolinea una fonte molto autorevole e «tirare fuori un voto contrario di cardinali è gossip per nascondere la verità» messo in giro ad arte. Come falsa, viene aggiunto, sarebbe l'immagine di Gotti Tedeschi «campione della trasparenza». «È tutt'altro», afferma, senza remore, la fonte.
Nel memorandum di Anderson si evince tutta la tensione che ha caratterizzato la destituzione dell'economista cattolico perché non solo gli si contesta, tra le altre cose, di «non aver svolto le funzioni base che spettano al presidente», ma peggio ancora nel momento in cui in Vaticano si procede ad arresti per le fughe di notizie da parte dei corvi, lo si «incolpa» di «non aver potuto fornire giustificazione formale per la diffusione di documenti in possesso del presidente».
Anderson ha ribadito ieri alla Reuters che «la decisione del board non ha nulla a che fare, in modo categorico, con il fatto che Gotti promuoveva la trasparenza». Anzi di fatto «egli stava diventando un ostacolo a raggiungere una maggiore trasparenza con la sua incapacità di lavorare con il vertice della banca». Anderson ha anche detto che il «Vaticano aspira ad entrare nella white list dei paesi Ocse con trasparenza finanziaria». «Adesso cercheremo come presidente una persona — ha concluso — con le competenze e il profilo per proseguire sul nostro cammino di trasparenza, che è il nostro maggiore desiderio: a fatti però e non a parole».

Corriere 28.5.12
Le zone d’ombra e la deriva da fermare
di Massimo Franco


L'arresto del maggiordomo di Benedetto XVI, e prima il siluramento stranamente brutale di Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, la «banca del Vaticano», vorrebbero essere gesti di forza e di trasparenza: mosse tese a cancellare con la platealità l'alone di confusione e fango che da troppi mesi avvolge e appanna il papato.
Eppure, è difficile non avvertire l'inadeguatezza e l'ambiguità di queste decisioni. Non perché non siano clamorose: lo sono, e in maniera sconcertante. Ma perché il modo in cui sono state prese aumenta le domande sulle oscure dinamiche interne alla Curia; sulle zone d'ombra che rimangono; e sulle reticenze e le complicità di Paolo Gabriele, tutte da accertare: sempre che il cameriere personale del Papa sia davvero uno dei colpevoli. Non si può tacere l'impressione che vicende come quella di Gotti Tedeschi aggiungono interrogativi, invece di esaurirli. Non fa onore a un'istituzione come lo Ior l'uso della mano pesante e di parole al limite dell'insulto verso il suo presidente fino a poche ore prima. Si indovina un accanimento tipico di una Chiesa che tende a divorare i suoi figli, specie se non ecclesiastici; e l'eco del conflitto fra il banchiere e il segretario di Stato Vaticano, Tarcisio Bertone. Il torto principale di Gotti Tedeschi sembra quello di essersi opposto ad alcune controverse operazioni finanziarie dello Ior. Insomma, quanto accade è figlio di un vertice della Santa Sede in profonda crisi di identità e di credibilità. Il tentativo di velare questa realtà additando i responsabili non chiude la questione, al di là di eventuali colpe o errori: soprattutto se il Vaticano pensa di cavarsela senza dare segnali meno «decisionisti» e più convincenti. La Santa Sede non è uno Stato qualsiasi. Ha un profilo morale col quale parla a una platea sterminata di fedeli, e che le garantisce una statura internazionale unica. Dal 30 maggio Benedetto XVI sarà a Milano per la Festa mondiale delle famiglie. Ma arrivarci offrendo un'immagine del cuore della Chiesa cattolica diviso, avvelenato dai sospetti, prigioniero di logiche finanziarie e di potere opache, sarebbe un altro passo verso la delegittimazione. Forse solo il Pontefice può fermare e invertire questa deriva, offrendo un messaggio più radicale e profondo a un'opinione pubblica esterrefatta. Se esiste davvero un complotto contro il Vaticano, è inevitabile ormai pensare che i primi alleati dei cospiratori siano al suo interno. Alcuni forse per dolo, altri per inettitudine.

Corriere 28.5.12
La forza tranquilla (scambiata per apatia) di Benedetto XVI
di Vittorio Messori


È il riflesso condizionato della professione. Comprensibile, forse doveroso, ma che talvolta pare un po' abusivo. Parlo del setaccio cui i giornali sottopongono i testi papali per trovarvi qualche allusione agli eventi dell'attualità ecclesiale. Al proposito, ho letto con attenzione il testo completo dell'omelia pronunciata ieri da Benedetto XVI alla messa di Pentecoste. Dicono che l'abbia scritta tutta di suo pugno, a differenza di molte altre cose in cui si limita a rivedere quanto preparatogli secondo le sue istruzioni, orali o scritte. Vi ho trovato una pagina di alta spiritualità, un pressante appello non solo ai fedeli ma all'umanità intera a ritrovare comprensione e comunione, abbandonando tanti contrasti, risolti magari con la violenza. Anche il confronto tra Pentecoste, segno di unione, e Babele, segno di disunione, è un classico dell'arte omiletica. Vi fece ricorso pure il maestro inarrivabile del genere, il mitico Bossuet, predicatore alla corte del Re Sole. Ma — e se sarò smentito non me ne lagnerò — non mi è parso di trovarvi qualche aggancio all'attuale cronaca nera ecclesiale. E dico nera in modo intenzionale, perché mi sembra di ricordare che sia una delle pochissime volte, dalla fine del potere temporale, che si parla di qualcuno, per giunta un laico, rinchiuso dai «preti» in un loro carcere. Non sono le Segrete del palazzo del Sant'Uffizio, dove il cardinal Ratzinger ha lavorato per un quarto di secolo, ma, insomma, la cosa ha fatto impressione.
La cella del cameriere personale, tra l'altro, ci ricorda una realtà spesso dimenticata: il Vaticano, nonostante lo scarso mezzo chilometro quadrato di superficie, è uno Stato tra gli Stati, siede all'Onu, ha una bandiera, un blasone, un inno, ha un quotidiano e una gazzetta ufficiale, ha ambasciate, polizia, forze armate, tribunali, una radio, una stazione ferroviaria. Ha anche la chiacchierata banca centrale; e, per l'appunto, ha una prigione. Importante, dico, non dimenticarlo, perché (come è stato osservato anche di recente) si continua a far confusione tra Città del Vaticano e Chiesa, mentre non sono la stessa cosa. Così, ad esempio, le questioni dello Ior o dell'Osservatore romano o delle ambasciate nel mondo, le nunziature, concernono lo Stato, non la Chiesa. Anche l'episodio clamoroso dell'arresto di questi giorni e la fuga di documenti che l'ha preceduto non hanno alcuna rilevanza religiosa, riguardano la polizia e i magistrati vaticani, dunque lo Stato, non certo la Chiesa.
Ma, per tornare all'omelia di ieri di Benedetto XVI. Probabilmente era stata scritta tempo fa ma, anche se la sua stesura fosse stata recentissima, era ben improbabile trovarvi cenni alla cronaca. Anche perché, lo ribadiamo, non si tratta di eventi che riguardino l'insegnamento di quel Custode della fede e della morale che è il successore di Pietro.
L'occasione liturgica, poi, era quella della Pentecoste che, lo ha ricordato il Papa stesso, è come il «battesimo» della Chiesa, nata pochi giorni prima, cioè dopo l'Ascensione al Cielo di Gesù. Il professor Ratzinger era, ed è, grande esperto di teologia dogmatica e aveva — e ha — un'ottima preparazione in esegesi biblica, come ha confermato anche nei due volumi sinora usciti sul Gesù storico. Non è specialista in storia ecclesiastica, ma è anche questa una disciplina in cui si muove con disinvoltura. Dunque, sa bene che è in gran parte abusivo quel mito della Chiesa primitiva, composta tutta di santi, coltivato anche oggi da chi contesta la Santa Sede attuale, invocando il ritorno alle origini. Il mito nasce da alcuni versetti degli Atti degli Apostoli che descrivono l'idillica comunità primitiva di Gerusalemme, dove tutti si amano e mettono ogni bene in comune. Purtroppo, durò poco, perché le comunità iniziali, composte da ebrei, si dilaniarono subito al loro interno tra «ellenisti» e «giudaizzanti», senza esclusione di colpi. Tanto che ci fu subito uno scisma, quello dei giudeo-cristiani. Le lettere di Paolo ci danno un quadro inaspettato e un po' avvilente: le chiese, spesso da lui stesso fondate, dunque appena nate, non erano solo già divise sul piano dottrinale ma spesso non brillavano neppure per moralità e l'Apostolo deve rimproverare, esortare, stigmatizzare comportamenti peccaminosi.
Facendo un salto temporale, non si dimentichi che in molte città dell'Africa settentrionale, dove il cristianesimo si era subito impiantato, furono spesso dei cristiani ad aprire le porte ai musulmani, acclamandoli al loro ingresso. Meglio loro, dicevano, dei bizantini che spadroneggiavano su quelle terre; e meglio anche delle continue lotte, assai spesso sanguinose, e della immoralità, delle infinite sette e fazioni che si affrontavano all'interno della Chiesa. Vengano dunque, gridavano i battezzati stanchi di quelle violenze, vengano i discepoli di Muhammad a mettere un po' d'ordine tra quei sedicenti seguaci del Vangelo e carichi invece di ogni peccato.
Perché ricordare queste cose? Ma perché la serenità di Benedetto XVI nasce dalla consapevolezza che, sin dagli esordi — proprio alla Pentecoste — l'istituzione ecclesiale è stata di rado all'altezza dell'ideale. L'imperfezione è la norma, ovunque ci siano uomini. Qualcuno è giunto al punto di parlare di una sorta di sua apatia davanti ai recenti, gravi episodi che non toccano, certo, la teologia ma che feriscono la macchina istituzionale, con pericolo di scandalo per i fedeli e di perdita di credibilità dell'intero cattolicesimo. C'è addirittura chi, dicendo di parlare da amico del Papa e per il bene della Chiesa, si è augurato delle dimissioni che lo portino a riprendere, finalmente, la sua vocazione vera: quella dello studioso, ritirato in un eremo, solo con i suoi libri. Lasciando a qualcun altro, più attivo e attento alla vita concreta della Chiesa, la gestione delle cose. Ma questi amici di Joseph Ratzinger e della cui buona fede non vogliamo dubitare non si rendono conto che, in questo modo, fanno proprio il gioco dei suoi antagonisti, se davvero lo vogliono indurre ad andarsene con vicende come la fuga dei documenti privati. Quanto all'apatia, chi ne parla ignora che Benedetto XVI non ama il clamore ma il lavoro paziente, meditato, rispettoso delle persone e che quanto ha fatto, e fa, sfugge spesso ai media ma non è affatto irrilevante. E presto, si dice, se ne avrà una prova che sorprenderà chi lo accusa di distanza dai fatti.
Resta comunque il fatto che un teologo come lui è del tutto consapevole che la Chiesa è stata, è, e sarà sempre, come dicevano i Padri, «immaculata ex maculatis»: senza macchia nel suo Mistero, che è Cristo stesso, e troppo spesso sudicia nel suo involucro istituzionale, composto da uomini che i sacramenti non hanno reso tutti santi. Sa bene, il Papa, che la Persona della Chiesa non va confusa con il suo personale. Addolorato, certo e lo ha detto senza esitare davanti alla pederastia di troppo clero e davanti ad altri fatti penosi. Ma è un dolore che non scalfisce in alcun modo la sua convinzione che, per quanto facciano gli uomini di Chiesa, per quanto pecchino gli uomini dell'istituzione, mai riusciranno a scalfire ciò che conta. La fede, cioè, nell'Innocente per antonomasia che proprio il giorno di Pentecoste ha iniziato la sua marcia missionaria nel mondo intero. Ciò che conta, ha detto una volta, è la perla, non lo sgraziato involucro.

Repubblica 28.5.12
"Il Vaticano è rimasto una corte medioevale e Ratzinger non ha più la forza di governarla"
Il teologo Küng: un legame tra Ior, Vatileaks e lefevriani
di Andrea Tarquini


Dedica ogni giorno ore e ore alla scrittura di libri ma così non è in grado di guidare la Chiesa
Invece di ricucire con gli ultratradizionalisti dovrebbe avvicinarsi alle chiese riformate e all´ambito ecumenico

BERLINO - «È una situazione molto grave e dolorosa, e come si dice in tedesco mancano cinque minuti alla mezzanotte: il tempo massimo non è ancora scaduto per salvare la Chiesa e la Fede dal sistema della Curia romana». Il professor Hans Küng, forse il massimo teologo ribelle del nostro tempo, in gioventù amico e compagno di studi di Benedetto XVI. Analizza così a caldo lo scandalo del Vaticano. Ascoltiamolo.
Professor Küng, quanto è grave secondo lei la situazione creatasi in Vaticano con lo scandalo della fuga di notizie?
«È triste quando, proprio in coincidenza con la festa dello Spirito Santo, dal Vaticano apprendiamo di tanti eventi e comportamenti avvenuti là, che davvero non sono proprio qualcosa di santo né di sacro. Gli scandali relativi alle fughe di notizie confidenziali ad opera del servitore di camera, le questioni che hanno investito la banca Ior, e anche in contemporanea l´intenzione apparente di papa Benedetto di andare alla riconciliazione con la confraternita dei fratelli di San Pio X (ndr: gli ultraconservatori epigoni di monsignor Lefèbvre) secondo la mia opinione tutto questo purtroppo è un insieme di eventi, scelte, tendenze che fa parte di un tutto, non sono casi isolati l´uno dall´altro».
E lei che opinione ha maturato di questa situazione, che lei appunto descrive come coincidenza di eventi legati l´un l´altro?
«Tutti questi eventi mi appaiono come sintomi della crisi di un sistema intero nel suo complesso. Io parlo del sistema della curia romana, del sistema romano delle cui caratteristiche negative soffre la Chiesa cattolica tutta, nel mondo intero. E naturalmente questi eventi contemporanei danno l´impressione di una incapacità papale. Di avere a che fare con un pontefice incapace. Su questo ho appena scritto un libro, "Salviamo la Chiesa", in Italia sta per uscire. Quel che mi sta a cuore è approfondire la problematica dell´indispensabile riforma della Chiesa».
Lei cioè intravede sullo sfondo anche un problema personale per Benedetto XVI?
«Sicuramente sì. C´è anche questo. Egli dedica ore e ore ogni giorno alla scrittura di libri, anziché governare la Chiesa. E nei ranghi della Curia è diffusa l´opinione che egli non governa. Se vuole scrivere libri, avrebbe fatto meglio a restare un grande professore e teorico».
Perché parla al tempo stesso di crisi strutturale, di sistema?
«Perché la struttura e l´organizzazione della Curia romana cerca facilmente ma invano di ingannarci, di nascondere il fatto-chiave: che il Vaticano nel suo nocciolo è restato ancora oggi una Corte. Una Corte al cui vertice siede ancora un regnante assoluto, con costumi e riti medievali, barocchi e a volte moderni e tradizioni cristallizzate, consuetudini. Nel suo cuore il Vaticano è rimasto una società di Corte, dominata e segnata dal celibato maschile, che si governa con un suo proprio codice di etichette e atmosfere. E quanto più ti avvicini al principe regnante salendo nella carriera ecclesiastica, tanto più in prima linea non vale e non conta più la tua competenza, la tua forza di carattere, le tue capacità e talenti, bensì conta che tu abbia un carattere duttile con una capacità di adattarsi soprattutto ai voleri del regnante. È lui solo, il regnante, a stabilire se tu sei persona grata o invece persona non grata».
E più specificamente, i problemi della Banca vaticana?
«Il Vaticano vive in gran parte di donazioni dei fedeli, da spese delle Diocesi. E amministra miliardi di euro di risparmi di istituzioni ecclesiastiche, di ordini e diocesi di tutto il mondo, e pone gli utili a disposizione del Papa. Quanto fu chiesto al Cremlino lo si può chiedere anche al Vaticano: primo la glasnost, cioè trasparenza, il Vaticano dovrebbe preoccuparsi per primo della Trasparenza degli affari finanziari davanti all´opinione pubblica. E secondo la perestrojka, ricostruzione, ristrutturazione: il Vaticano dovrebbe ristrutturare le sue finanze e riorientare i fini della sua politica finanziaria. E infine ma non ultimo, la riconciliazione con l´ordine di Pio X. Il Papa accoglierebbe definitivamente nella Chiesa vescovi e sacerdoti la cui consacrazione non è valida, in base alla Costituzione apostolica di Paolo VI, Pontificalis romani recognitio, del 18 luglio 1968 le ordinazioni sacerdotali ed episcopali compiute da Lefebvre sono non solo illecite ma anche nulle. Piuttosto che riconciliarsi con quella confraternita ultraconservatrice, antidemocratica e antisemita, il Papa dovrebbe preoccuparsi della maggioranza dei cattolici che è pronta per le riforme, e della riconciliazione con tutte le chiese riformate e con tutto l´ambito ecumenico. Così unirebbe anziché dividere».
Secondo un´analisi così pessimista non è tardi per salvare questo Pontificato e la credibilità del Vaticano?
«Mancano cinque minuti appena alla mezzanotte, ma la mezzanotte non è ancora scoccata. Un solo atto costruttivo di riforme lanciato da questo Papa aiuterebbe a ristabilire la fiducia. Io spero che il mio ex collega Joseph Ratzinger non resterà nella Storia della Chiesa come un papa che non ha fatto nulla per la riforma della Chiesa».

Repubblica 28.5.12
Delitti e castighi sul soglio di Pietro
Dai Borgia a papa Luciani otto secoli di intrighi e misteri all’ombra del trono di Pietro
Quando il male si infiltra in quella corte chiusa al mondo
Ritrosia a collaborare con le indagini e gli ostinati silenzi a costo di alimentare le ipotesi peggiori
di Corrado Augias


PIÙ volte nel corso dei secoli il vento ha scosso la casa di Dio con raffiche anche più intense di quelle attuali. Più volte il fumo di Satana si è infiltrato nelle stanze più sacre dei sacri palazzi, come ebbe a lamentare Paolo VI.
Un ambiente come quello vaticano sembra fatto apposta per scuotimenti e infiltrazioni data la sua scarsa trasparenza, l´ostinata paura di aprirsi al mondo, l´atmosfera che sempre si crea in una corte dove un sovrano assoluto regna su uomini senza famiglia e dipende dal suo favore l´intera loro vita. Il che spiega quasi da solo perché le storie vaticane abbiano dato vita ad un intero filone narrativo che vede nei romanzi di Dan Brown (celebre "Il Codice da Vinci") solo gli ultimi esempi di un´amplissima casistica.
Uno degli esempi più antichi di violenza e tradimento consumati per la conquista del soglio di Pietro è quello di cui fu protagonista Benedetto Caetani che costrinse il suo predecessore Celestino V (Pietro da Morrone) ad abdicare per l´impazienza di salire al trono dove regnerà col nome, famigerato, di Bonifacio VIII (1235-1303). Il povero Celestino era un uomo umile e pio, certamente inadatto all´incarico. Ma la violenza con la quale il futuro Bonifacio lo scalzò rimane degna delle più sinistre tradizioni del potere. Dante infatti lo caccerà, ancora vivo, all´inferno.
Il periodo più fecondo dal punto di vista narrativo è quello rinascimentale quando la corte di Alessandro VI Borgia divenne sede di intrighi e di delitti commessi a volte alla stessa presenza del papa. Celebre l´episodio di quando Cesare, figlio del papa e fratello di Lucrezia, assalì nei corridoi vaticani un tal Pedro Caldes, detto Perotto, 22 anni, primo cameriere del pontefice proprio come il Paolo Gabriele di cui si parla in questi giorni. Perotto si tratteneva affettuosamente con Lucrezia cosa che rischiava di compromettere il matrimonio al quale la bellissima donna era stata destinata.
Un giorno che Perotto passava per un corridoio s´imbatté casualmente in Cesare. Intuì da uno sguardo ciò che stava per accadere e cominciò a correre gridando a perdifiato, inseguito dall´altro che aveva estratto il pugnale. La corsa ebbe termine nella sala delle udienze dove Perotto si gettò ai piedi del pontefice implorando protezione. Non bastò. Cesare si avventò su di lui trafiggendolo con tale impeto che "il sangue saltò in faccia al papa" macchiandogli di rosso la bianca tonaca.
Non solo delitti ma anche orge caratterizzavano in quegli anni la corte. Preti e cardinali mantenevano una o più concubine "a maggior gloria di Dio", come scrive sarcastico lo storico Infessura, mentre il maestro di cerimonie pontificio Jacob Burchkardt nota che i monasteri di donne erano ormai "quasi tutti lupanari" poco o nulla distinguendo le religiose dalle "meretrices".
Cronache vivacissime ha lasciato il protonotario apostolico Johannes Burchard. Racconta ad esempio che una sera, a una delle consuete feste date dal papa: «Presero parte cinquanta meretrici oneste, di quelle che si chiamano cortigiane e non sono della feccia del popolo. Dopo la cena esse danzarono con i servi e con altri che vi erano, da principio coi loro abiti indosso, poi nude». La serata si concluse come si può immaginare, il protonotario riferisce dettagli che richiamano altre e assai recenti serate di ugual tenore.
Del resto fu questo tipo di atmosfera, aggiunto alla vendita scandalosa delle indulgenze, a convincere il frate agostiniano Martin Lutero a proclamare quella Riforma (1517) che avrebbe drammaticamente spaccato la cristianità fino ai nostri giorni.
Per venire ad anni a noi vicini, una vasta eco ha sollevato una mossa assai ambigua dell´allora segretario di Stato Eugenio Pacelli. Nel 1939, papa Pio XI avrebbe voluto pronunciare un discorso nel decennale del Concordato dove tra l´altro avrebbe denunciato le violenze del regime fascista e la persecuzione razziale dei nazisti contro gli ebrei. Alla vigilia dell´importante allocuzione papa Ratti venne però a morte e Pacelli, che sarebbe stato suo successore, fece prontamente sparire il discorso avendo in mente un diverso tipo di rapporti con le due dittature. Divenuto papa a sua volta col nome di Pio XII, lo dimostrerà.
Intrighi e tradimenti all´ombra del trono di Pietro sono tutti accomunati da elementi rimasti invariati nel tempo: ritrosia a dare informazioni e addirittura a collaborare ad eventuali indagini, ostinati silenzi a costo di alimentare le ipotesi peggiori.
Se n´è avuta una prova in occasione della morte, altrettanto repentina, di Giovanni Paolo I, papa Luciani. Ancora una volta l´evento si verificò alla vigilia di una decisione importante con la quale il papa avrebbe riorganizzato la famigerata banca vaticana, in sigla Ior. Così oscure le circostanze dell´evento che i media anglo-sassoni avanzarono apertamente l´ipotesi di un assassinio. L´autopsia avrebbe probabilmente fugato le voci ma le gerarchie vaticane la rifiutarono preferendo mantenere un silenzio che le ha ulteriormente alimentate.
Il caso più grave di reticenza si è però avuto quando, la sera del 4 maggio 1998, tre cadaveri vennero trovati in una palazzina a pochi metri dagli appartamenti pontifici. Il colonnello Alois Estermann, 44 anni, comandante delle "guardie svizzere"; sua moglie, Gladys Meza Romero di origine venezuelana; il vice-caporale Cédric Tornay, nato a Monthey (Svizzera), 24 anni. Poche ore dopo il portavoce vaticano Joaquin Navarro Valls dette ai giornalisti questa versione: il caporale, in un accesso di collera incontrollata, aveva ucciso il colonnello e sua moglie per poi togliersi la vita. Invano l´avvocato francese Luc Brossolet ha fatto eseguire (in Svizzera) perizie che dimostrano l´incongruenza grossolana di quella versione. Da allora non è più stata cambiata.

Corriere 28.5.12
Dario Antiseri, filosofo cattolico:
«Un partito di cattolici, così si salva la Chiesa»
di Armando Torno


Rivolgiamo a Dario Antiseri, filosofo cattolico tra i più noti, la domanda che corre di bocca in bocca in questi giorni: che cosa sta accadendo nella Chiesa? Studioso di epistemologia, proconsole di Popper in Italia, è un liberale convinto e i suoi libri sono tradotti in una quindicina di lingue. Risponde senza ricorrere a circonlocuzioni: «Le notizie dei media raccontano miserie umane all'interno della Chiesa. Corvi, veleni, intrighi. Cose che sembrano tratte da romanzi. Parlavo con il mio parroco: era addolorato, soprattutto pensava alle sofferenze del Papa. Dico queste cose a lei non da ateo devoto ma da devoto peccatore».
Tutti si chiedono come si possa uscire da questo stato frastornante. Antiseri osserva: «Il vecchio Popper era dell'opinione che "Le istituzioni sono come le fortezze; resistono se è buona la guarnigione". Di conseguenza, va sostituita quella guarnigione che si rivela inaffidabile. In ogni caso, la missione della Chiesa è predicare e testimoniare il Vangelo, nella consapevolezza che il regno di Dio non è di questo mondo». Un sospiro. Prosegue: «E se per il credente il messaggio evangelico è la via, la verità e la vita, anche per grandi intellettuali laici è, e resta, un punto di riferimento. Tre esempi: Croce, Salvemini e lo stesso Popper. Il primo sosteneva che la religione di Gesù sia stata la più grande rivoluzione dell'umanità; il secondo, un anticlericale convinto, riteneva di non aver mai avuto nessun dubbio sulla necessità di seguire la moralità insegnata dal Cristo; il terzo, Popper appunto, ricordò che gran parte degli scopi e dei fini occidentali, come l'umanitarismo, la libertà e l'uguaglianza, li dobbiamo all'influenza del Cristianesimo».
«Insomma — sottolinea Antiseri riprendendo un'espressione di Eliot — senza Cristianesimo non ci sarebbe l'Occidente». Per tali motivi, quando la Chiesa versa in difficoltà, «siamo dinanzi a una malattia che contagia tutto l'Occidente». Certo, si sono visti tempi peggiori, con Pontefici avvelenati o assassinati, periodi nei quali — incalza Antiseri — i cristiani «in nome della religione dell'amore o hanno scannato o si sono scannati a vicenda». Tuttavia, non va dimenticato che «se il Cristianesimo ha attraversato mari in burrasca, il messaggio di Gesù ha sempre saputo creare energie migliori, rinnovamenti, cultura. O più semplicemente: amore».
Cosa è possibile concretamente fare in questo momento? La politica in Italia sta passando un periodo di sofferenza e anche la credibilità delle istituzioni sta attraversando una crisi senza precedenti. «La Chiesa — prosegue Antiseri — ha una missione religiosa ed etica, non direttamente politica. La questione, però, riguarda i cattolici, i quali rimasti orfani di un partito di riferimento si sono dispersi, e tali rimangono. Bravi ovunque e inefficaci dappertutto. La testimonianza morale non si identifica con l'azione politica, perché questa ha bisogno di un'organizzazione, ovvero di un partito. È quello che fece don Sturzo. E poi De Gasperi. E ancora Adenauer in Germania. I cattolici devono agire, aiutare praticamente le gerarchie della Chiesa a non immischiarsi nel pantano della politica, come appunto diceva don Sturzo». Antiseri ripropone una sua provocazione: «Occorre costituire, lo ripeto, un partito di cattolici liberali e solidali di tipo sturziano e trovo sorprendente l'idea, sovente ribadita, che i cattolici non debbano costituirsi in partito. In Italia tanti l'hanno fatto. Ma il destino di questi benedetti cattolici è quello di restare degli ascari? Un nuovo taciturno e irresponsabile non expedit rappresenta un veleno per la politica italiana e si trasforma — lo stiamo vedendo — in guai per la Chiesa, che si spende in politica spicciola. E ci rimette continuamente».
I fedeli, ricorda Antiseri, sanno benissimo «che la Chiesa — lo ha ribadito Benedetto XVI — è fondata sulla roccia e che la speranza non verrà meno. Ma è altresì vero che la speranza si nutre di impegno». Di più: «Come nella scienza si progredisce eliminando gli errori commessi, allo stesso modo nella vita e nella Chiesa si va avanti non coprendo gli scandali ma correggendoli e guardando oltre. Impariamo nuovamente a chiedere perdono, come ha insegnato Giovanni Paolo II, a non aver paura e ad avere fiducia nel tempo che verrà. E a non credere che occorra accumulare potere sulla Terra per essere più tranquilli in cielo».

La Stampa 28.5.12
Riforme e assetti, la ripartenza
I cattolici in campo alla ricerca del “federatore”
Oggi verrà presentato il Manifesto per la buona politica in attesa di un secondo appuntamento in ottobre a Todi
di Amedeo La Mattina


«Non so se ci sarò» Il cardinal Bagnasco, Presidente della Cei, in dubbio per l’appuntamento di ottobre

Il Pdl prova a risorgere dopo lo scivolone elettorale delle amministrative, il Terzo Polo, ormai in ordine sparso, cerca nuove alleanze, si profilano nuovi protagonisti, come Italia Futura di Montezemolo, in vista delle politiche 2013. Sono in molti alla ricerca di una ripartenza, ma il campo alternativo alla sinistra non ha ancora una bussola attorno alla quale costruire un nuovo soggetto politico. Ecco, i cattolici che si riunirono lo scorso ottobre a Todi provano a fornire questa bussola, non solo programmatica ma anche organizzativa.
A mezzogiorno, alla Fondazione Sturzo, intanto verrà presentato il Manifesto per la «buona politica» che vede tra i protagonisti il leader della Cisl Bonanni, il presidente delle Acli Olivero, della Coldiretti Marini, della Confartigianato Guerrini, della Confcooperative Marino e il portavoce del Forum delle associazioni cattoliche Forlani. Verrà lanciata una campagna di adesione al manifesto per poi tornare ad incontrarsi, dopo l’estate, nella cittadina umbra. E’ una chiamata a raccolta con lo scopo di determinare i futuri assetti della politica italiana. Ma il vero titolo del manifesto dovrebbe essere «AAA leader cercasi».
Sono tante le iniziative volte a costruire un Polo dei moderati, tutte separate l’una dalle altre. «Quello che manca spiega Bonanni - è il “federatore”, una personalità che sappia mettere insieme il progetto e l’organizzazione politica». Lui dice di non essere interessato ad un impegno in prima persona, di voler rimanere al sindaco nei prossimi anni. Assicura però il suo massimo impegno personale per dare corpo e testa alla nuova fase politica, convinto com’è che gli attuali partiti sono in coma. Chi potrebbe essere il federatore non lo dice, ma tra i nomi che circolano tra le associazioni cattoliche di Todi spicca quello di Passera. Non si esclude Montezemolo e nemmeno Casini, ma il segretario dell’Udc viene visto più interessato a incarichi istituzionali (la presidenza della Repubblica?).
Alfano non è contemplato, ancora meno Berlusconi.
Il 16 e il 17 ottobre del 2011 a Todi erano presenti il cardinal Bagnasco e tre personaggi che da lì a poco sarebbero diventati ministri (Passera, Ornaghi e Riccardi). Allora venne «sfiduciato» il governo Berlusconi e si aprì la strada ai tecnici di Monti. Molte cose sono cambiare: il collasso del Pdl, la rottura dell’alleanza forzaleghista, l’affacciarsi di movimenti antisistema come quello di Grillo, il braccio di ferro in corso nella Chiesa. Molte incognite e nuove variabili con le quali ora Todi 2 dovrà i conti. Da dove ricominciare? Come si dice sempre in queste occasioni, dalle idee, dal programma e dunque da un manifesto, quello appunto che verrà presentato stamane, in cui si parla di «rispetto della vita in ogni sua fase» e della «predilezione della famiglia naturale». C’è anche un capitolo dedicato alla «politica buona, saggia e moderata» capace di esprimere «una visione sobria dell’esercizio del potere». Si affronta in profondità la questione economica, a partire da quella fiscale («un sistema da rimodellare profondamente»). Il decalogo entra anche nel merito di una nuova legge elettorale che dovrebbe «ripristinare il voto di preferenza». Ma non basta indicare «ambiziosi obiettivi»: il manifesto di Todi 2 ritiene necessario dotarsi di «modalità organizzative». Un programma ampio, con 10 pagine di sintesi ma molto più corposo: sono infatti quasi 300 le cartelle scritte da professori, intellettuali e dirigenti associazioni. Insomma, non è proprio un nuovo partito, ma poco ci manca. Le iscrizioni sono aperte. "La priorità è il rispetto della vita «in ogni sua fase» e la «predilezione della famiglia naturale» Il decalogo parla di legge elettorale che dovrebbe «ripristinare il voto di preferenza»"

La Stampa 28.5.12
Fecondazione, cosa divide l’Italia dall’Europa?
di Vladimiro Zagrebelsky


Il sintetico comunicato stampa con cui la Corte costituzionale ha dato notizia della restituzione degli atti ai giudici che hanno sollevato questione di costituzionalità del divieto di fecondazione assistita di tipo eterologo (con gameti di persona estranea alla coppia), intendeva certo corrispondere all’attesa ansiosa dei molti che sono oggetto di quel divieto e che speravano che esso fosse levato. Accanto a costoro, ma con speranza opposta, stavano gli altri, che ritengono fondamentale mantenere in Italia quel divieto. E le dichiarazioni rese dagli uni e dagli altri, oltre che le posizioni espresse dai commentatori, hanno spesso riempito di contenuti opposti quelle poche righe di comunicato, interpretando la decisione della Corte alla luce delle proprie speranze.
Ma a ben vedere la decisione interlocutoria della Corte è affatto neutra e non lancia segnali circa il suo orientamento sul merito della questione. Ed è persino possibile che un orientamento non si sia ancora formato e maturi solo quando le eccezioni di costituzionalità della legge 40 del 2004 verranno riproposte e riprese in esame. L’unica cosa che si può ora dire è che la Corte non ha deciso. Si può aggiungere che avrebbe potuto farlo, in un senso o nell’altro, ma non è contrario alla prassi il fatto di restituire gli atti ai giudici remittenti quando nel frattempo si sia verificato un fatto nuovo e potenzialmente rilevante.
Nel caso specifico il fatto nuovo è formalmente di grande rilievo. Tutti i giudici che avevano posto alla Corte costituzionale il quesito di costituzionalità del divieto di quel particolare tipo di fecondazione medicalmente assistita, si erano riferiti anche al tenore di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, richiamandola a sostegno della tesi della incostituzionalità. Ma la sentenza citata non era ancora divenuta definitiva e nel frattempo è stata riformata dalla Grande Camera della Corte. Venuto meno il punto d’appoggio di uno degli argomenti sviluppati dai giudici remittenti, si può comprendere che la Corte costituzionale attenda la riconsiderazione del quadro di riferimento per pronunciarsi sul fondamento delle eccezioni di costituzionalità.
Il fatto nuovo è però solo formalmente rilevante. Nella sostanza invece credo che lo sia ben poco. Le due sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano la condizione di due coppie che, secondo la legge austriaca, non possono ricorrere in patria all’inseminazione eterologa, unico modo per esse di procreare. La legge austriaca applicata a quei ricorrenti non è identica a quella italiana, che prevede un generale divieto di fecondazione eterologa. Non solo, ma la differenza di valutazione che ha portato la Corte europea prima a pronunciarsi nel senso che il divieto ledeva il diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare e poi, con la successiva sentenza definitiva, a negare invece che l’Austria avesse violato quel diritto, riguarda il cosiddetto «margine di apprezzamento nazionale» nella protezione dei diritti fondamentali della persona. Un margine che la prima sentenza aveva ritenuto oltrepassato nel caso concreto e che invece la Grande Camera ha giudicato compatibile con il sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le particolarità dei diversi casi concreti sono quindi di speciale importanza.
Naturalmente la questione del margine di discrezionalità lasciato ai singoli Stati nella scelta delle modalità di protezione dei diritti e delle libertà che essi hanno «riconosciuto» ratificando la Convenzione europea, è tutt’altro che irrilevante. Per un suo allargamento anzi premono gli Stati per svincolarsi quanto più possibile dal controllo che in sede europea svolge la Corte. Ma ciò che in proposito ha detto la Corte europea nel caso austriaco, non può avere meccanica trasposizione nella situazione italiana. Toccherà invece alla Corte costituzionale valutare se, con riferimento alle norme costituzionali italiane, il complessivo sistema della legge n. 40, con i valori e le esigenze che essa esprime, sia equilibrato e proporzionato nella limitazione del diritto individuale al rispetto delle scelte di vita privata e famigliare che si proiettano nelle scelte procreative (quanto alle restrizioni possibili la Convenzione europea richiede che esse siano «necessarie di una società democratica»).
Ciò che invece vincola la Corte costituzionale è il principio di diritto affermato dalla Corte europea, quando ha detto che rientrano nell’ambito della vita privata e familiare protetta dalla Convenzione le decisioni di diventare o non diventare genitori. Si tratta di affermazione che la Corte ha fatto nella prima, come nella seconda e definitiva sua sentenza nel caso austriaco (richiamando anche suoi precedenti in casi relativi all’Irlanda e al Regno Unito). Nello stesso senso si era pronunciata la Corte costituzionale austriaca e il principio non era stato negato dal governo austriaco nello svolgimento della procedura davanti alla Corte europea. E’ difficile immaginare che la Corte costituzionale italiana vada in altra e contraria direzione su questo punto.
Dunque la Corte costituzionale esaminerà la questione del divieto imposto dalla legge italiana in rapporto ai diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e anche in relazione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima ha già detto la Corte costituzionale va intesa «come interpretata dalla Corte europea». E a questo proposito - se non altro per non esporre l’Italia al rischio di una sentenza di violazione della Corte europea - la Corte costituzionale terrà certo conto dei criteri seguiti in sede europea nella gestione del difficile criterio del margine di apprezzamento nazionale. Nel definire i limiti della discrezionalità nazionale, la Corte europea fa sempre riferimento al «consenso europeo», per come esso emerge dalle legislazioni e dalle prassi dei quarantasette Paesi del Consiglio d’Europa. Più chiaro l’orientamento europeo, più ristretto l’ambito della discrezionalità dei singoli Stati nel separarsene, e viceversa. Non solo, ma la Corte europea sottolinea sempre che la sua giurisprudenza è evolutiva e cerca di seguire le dinamiche culturali e sociali che emergono dagli Stati europei. Nel caso austriaco la Corte europea, invitando gli Stati europei a un costante aggiornamento, ha riconosciuto che è evidente una tendenza europea nel senso di autorizzare pratiche di fecondazione eterologa. Un orientamento che non è smentito da differenze riguardo ai limiti alla possibilità di conoscere l’identità del donatore e talora alla diversa considerazione della donazione di sperma maschile o di ovuli femminili. Oggi un divieto come quello posto dalla legge italiana è presente solo in Lituania e Turchia. In questo quadro europeo dovrebbero essere molto forti le esigenze nazionali italiane, per separarsi dall’orientamento che assolutamente prevale in Europa. Tanto più che quel tipo di fecondazione è facilmente disponibile in tanti Paesi a noi vicini e quindi utilizzabile, sol che se ne abbiano le possibilità economiche e pratiche. Il divieto, che si giustificherebbe per la «non naturalità» del procedimento e per l’inusuale rapporto che si instaurerebbe tra il nato e coloro che hanno contribuito a generarlo, resta quindi sterile questione di principio. Essa è imposta da chi la condivide a coppie che già soffrono della infertilità e che vorrebbero realizzare il loro legittimo desiderio di divenir genitori usufruendo, come è garantito dal Patto internazionale dei diritti economici e sociali delle Nazioni Unite, della possibilità di «godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni».

l’Unità 28.5.12
Intervista a Jody Williams
Nobel per la pace 1997, presidente del Nobel Women’s Iniziative, americana, è tra i 50 firmatari di un appello sulla repressione in Siria
«Criminali di guerra i killer di Hula»
«Non c’è una via militare alla democrazia. Russia e Cina tolgano la licenza di uccidere al regime»
di Umberto De Giovannangeli


Come è possibile chiudere gli occhi di fronte a quei corpi martoriate di bambini. Come è possibile non provare sdegno, rabbia, dolore di fronte a stragi come quella consumata a Hula? La real politik non può calpestare i sentimenti, non può violentare il diritto-dovere all’indignazione che deve riguardare l’opinione pubblica come coloro che esercitano il potere. Chi si è reso responsabile di questo massacro come dei tanti che hanno segnato la Siria, deve essere considerato un criminale di guerra e come tale trattato». A parlare così è una donna coraggiosa, impegnata in prima fila in battaglie di civiltà, come quella per la messa al bando delle mine anti-uomo: Jody Williams, premio Nobel per la pace 1997, presidente del Nobel Women’s Iniziative. La Nobel americana è stata tra le 50 personalità internazionali firmatarie di un appello in cui definiscono la brutale repressione ordinata dal presidente siriano Bashar al-Assad contro il suo popolo come «il peggior caso possibile di violenza deliberata contro la popolazione civile cui abbiamo assistito negli ultimi anni» e parlano di «dovere morale» del mondo di trovare una via d'uscita, perché «ne va anche dell'immagine internazionale delle Nazioni Unite e di ogni nazione che resta indifferente a guardare davanti a una tragedia».
Il mondo è inorridito di fronte alla strage di Hula, in cui sono stati uccisi 32 bambini.
«L’indignazione non basta. Essa deve essere la leva per agire affinché sia posta fine a questi crimini e giudicati autori e mandanti. Non esistono giustificazioni di fronte a uno scempio di vite umane come quello perpetrato a Hula. L’indignazione non può durare un giorno, e poi finire nel dimenticatoio. Perché quella di Hula non è la prima strage di civili in Siria: esistono rapporti documentati delle Nazioni Unite, delle più accreditate associazioni per i diritti umani, che danno conto di bombardamenti contro popolazioni civili in diverse città siriane, dell’uso sistematico della tortura contro civili, in molti casi donne e bambini. Per questo occorre dare forza e voce a quanto ribadito recentemente dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani: in Siria sono stati commessi crimini contro l’umanità e i responsabili devono renderne conto».
Con quali strumenti agire per porre fine a questa mattanza? C’è chi invoca una ingerenza umanitaria armata.
«La forza del regime siriano è innanzitutto nella divisione della comunità internazionale. Penso agli scontri nel Consiglio di Sicurezza anche solo per convergere su una risoluzione di condanna. Assad deve sentire su di sé una pressione totale, condivisa. Altrimenti, penserà sempre di poter avere una chance per continuare a governare con la forza più brutale».
Lei è stata una delle firmatarie dell’appello di 50 personalità internazionali rivolto ai leader mondiali. Cosa chiedete eachi?
«La nostra richiesta è rivolta al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: togliete ad Assad la licenza di uccidere. La divisione della comunità internazionale ha finora garantito l’impunità al governo di Bashar al-Assad. È tempo che questa licenza di uccidere sia revocata. Un appello che è rivolto soprattutto a quei Paesi, Russia e Cina,
che continuano a sostenere o comunque a fare scudo al regime di Bashar al-Assad».
Lei ha sostenuto gli sforzi dell’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan. Ma il piano Annan sembra destinato al fallimento.
«Sarebbe una sciagura, un danno irreparabile. Il fallimento di Kofi Annan sarebbe il fallimento dell’intera Comunità internazionale e aprirebbe la strada a una nuova, devastante escalation di guerra che dalla Siria potrebbe estendersi all’intero Medio Oriente. Annan non va lasciato solo. Occorre far tacere le armi, esigere il ritiro dell’esercito dai centri abitati, predisponendo un meccanismo di controllo sul territorio che per essere efficace non può essere affidato solo a un centinaio di osservatori Onu. Non sta a me indicare gli strumenti per raggiungere questo obiettivo, ma nel vicino Libano le Nazioni Unite hanno schierato caschi blu (la missione Unifil nel Sud Libano ndr) per garantire sicurezza e stabilità. Di certo, la situazione in Siria non è meno grave».
L’opposizione siriana chiede un sostegno militare.
«Non credo che esista una via militare alla democrazia. Chi ha pensato di poterla imporre dall’esterno, ha determinato solo nuove sciagure, come è accaduto in Iraq con la guerra voluta da George W. Bush. Continuo a ritenere che esistano altri strumenti di pressione che per essere esercitati con efficacia hanno bisogno di una piena condivisione internazionale. È questa volontà politica che continua a essere monca. E di questo traggono vantaggio solo i signori della guerra. Una cosa è certa: non bastano gli appelli per fermare le armi. Non è con le parole che si renderà giustizia ai bambini di Hula».

La Stampa 27.5.12
Intervista
“A nessuno conviene che il regime crolli”
Gilles Kepel: Damasco è centrale negli equilibri della regione
«La borghesia è terrorizzata dai massacri ma anche dal “dopo”, dal caos»
«L’esercito è sempre saldamente controllato dalla minoranza al potere»
«L’opposizione ha scatenato la guerra quando ancora non aveva la forza per vincerla»
«I paesi amici considerano l’attuale regime meno pericoloso di uno islamista»
di Alberto Mattioli


Islamista L’accademico francese Gilles Kepel è specialista di Islam e del mondo arabo È autore di «Jihad» un saggio sulla deriva radicale dell’Islam politico
Per la Siria, l’Amministrazione Obama pensa a una soluzione yemenita? Non sono sicuro che siano situazione paragonabili. Il piccolo Yemen non minacciava che l’Arabia Saudita. La Siria è la chiave di volta di tutto il Medioriente».
Gilles Kepel è considerato il massimo esperto francese della regione. Ascoltandolo, si capisce anche perché: lucido, cartesiano, non si fa illusioni né induce a farsene.
Professore, dopo l’orrore di Hula come cambia lo scenario?
«Il problema è di sapere se un massacro è ancora capace di modificare la situazione in Siria. È chiaro che la violenza è deliberatamente gestita dal regime per terrorizzare l’opposizione e la popolazione in generale, secondo un meccanismo spiegato da Michel Seurat, il ricercatore francese assassinato dagli Hezbollah in Libano, nel suo saggio “L’état de barbarie”».
Di fronte alla ribellione interna e alla mobilitazione esternailregimediGheddafiècrollato, quello di Assad regge. Perché?
«Intanto perché l’opposizione ha scatenato la guerra quando non aveva ancora i mezzi militari per vincerla. Le Forze armate, o almeno le loro élite, sono saldamente controllate dalla minoranza alawita, che alza la repressione e la sua spettacolarità per far capire che il prezzo da pagare per la libertà sarebbe elevatissimo. Così si spiegano le immagini raccapriccianti che si vedono in tivù. O i video su Internet, con gli oppositori torturati e sepolti vivi».
Insomma, la dissuasione sembra pagare.
«La borghesia sunnita di Damasco o di Aleppo, anche se adesso, dalle ultime notizie, Aleppo sembra muoversi, non è solo terrorizzata: ha anche paura del “dopo”, del caos, di uno sbocco tipo Libano o Iraq. Assad ha liberato un certo numero di prigionieri jiadisti per screditare l’opposizione e impaurire le classi medie, che temono il regime ma ancora di più il vuoto politico. E poi la Siria non è del tutto isolata all’estero».
Infatti ha la Russia e l’Iran al suo fianco...
«La Russia sosterrà fino alla fine il regime. Perché è l’ultimo alleato che le resta in Medioriente o anche solo perché la sua caduta sarebbe una vittoria americana. L’Iran, non dimentichiamolo, significa anche due Paesi che confinano con la Siria: Iraq e Libano, dove il governo è controllato dagli Hezbollah».
Poi ci sono gli altri due vicini: Turchia e Israele.
«La Turchia ha preso una posizione netta contro Assad, ma ha serie difficoltà a gestire la sua frontiera. Quanto a Israele, è tutto sommato soddisfatta di questa situazione di caos controllato. Finché la Siria non diventerà un corridoio per gli Hezbollah dall’Iran al Libano, Israele non interverrà. Il regime di Assad è comunque meno pericoloso di uno islamista. Come vede, la Siria è centrale per tutto il Medioriente. E infatti qualche tempo fa Assad ha fatto scoppiare la violenza in Libano per mandare un messaggio: attenzione, se cadiamo noi l’onda d’urto investirà tutta la regione».
Quindi bisogna rassegnarsi a vedere in tivù dei bambini assassinati?
«Temo che per ora il ciclo della violenza non si arresterà. A meno che l’opposizione non riesca a convincere le minoranze che, in caso di vittoria, le rispetterà e non istituirà un regime islamista. E gli alawiti, ottenute queste garanzie, non scarichino il clan di Assad. Il tentato avvelenamento del suo cognato, il generale Assef Shawkat, capo dell’Intelligence militare, dimostra che forse qualche crepa nel regime di sta aprendo. Ma in tutta la regione c’è una certa disillusione per gli esiti della primavera araba. Non c’è più l’atmosfera delle rivolte in Tunisia, Libia ed Egitto. Perciò no, non credo che la fine dell’orrore sia vicina».

Repubblica 28.5.12
Tunisia
“Non abbiate paura delle rivolte arabe è la nostra strada verso la democrazia"
l presidente tunisino Marzouki: “L’Europa ci aiuti a fermare le migrazioni"
di Giampaolo Cadalanu


È ridicolo pensare che qui si possa imporre la legge islamica. Questo Paese è aperto e tollerante da tre secoli
Ci vorrà una transizione per arrivare a un regime stabile. La Primavera non è un pericolo ma una opportunità

TUNISI - L´Europa non deve aver paura delle rivoluzioni arabe, se queste portano la democrazia. Il presidente tunisino Moncef Marzouki non parla di quello che succede in altri paesi, ma ci tiene a sottolineare che attraverso i movimenti della "Primavera" la sponda Sud del Mediterraneo è diventata più vicina.
Presidente, che cosa succede nel mondo arabo, fra rivoluzioni laiche ed estremismo islamico?
«L´Europa si chiede se quello che succede sia o no un bene. Credo che debba essere molto contenta: per la prima volta il vecchio continente e il Sud del Mediterraneo condividono gli stessi valori di democrazia. Anche le nazioni europee sono dovute passare attraverso la guerra per liberarsi delle dittature. E i paesi democratici possono godere di stabilità e sviluppo».
Che cosa direbbe a chi, in Europa, guarda al trionfo dei movimenti islamici con una certa inquietudine?
«Non è corretto parlare di trionfo dell´islamismo, è la vittoria della democrazia. Una parte molto importante del mondo islamico ha accettato il sistema democratico, tenendo ferma l´identità musulmana. Da noi Ennahda è un po´ come in Italia era la Democrazia cristiana. Poi ci sono altri piccoli partiti, pericolosi dal punto di vista dei diritti umani, dei diritti delle donne. Ma chi usa la democrazia ne diventa ostaggio. Ci vorrà un periodo di transizione, altre elezioni, per arrivare a un regime stabile e democratico. E assieme alla stabilità arriverà lo sviluppo, con gli investimenti stranieri. Insomma, la "Primavera" non è un pericolo, ma un´opportunità».
Lei è un laico, come convive con le tensioni religiose?
«Una parte della popolazione tunisina è laica, secolare, modernista. L´altra è più tradizionale, legata all´identità islamica. Contrariamente a quello che succede in Egitto, queste due parti convivono tranquillamente. Io voglio essere il presidente di tutti i tunisini».
Ma come vanno interpretate le spinte dei radicali, per esempio dei salafiti tunisini?
«Oggi siamo una democrazia, c´è il diritto a manifestare il pensiero, e anche i salafiti lo possono sfruttare. Anche se le loro idee mi disgustano, rispetto il loro diritto di esprimerle. La linea rossa è la violenza, che non sarà tollerata. Ma non si ritornerà ai metodi di un tempo, con la tortura. Se i salafiti vogliono una rappresentanza politica, perché no? Così seguono le regole della democrazia. Urlano forte, ma non credo siano un pericolo reale. La società tunisina è fondamentalmente moderata, i salafiti sono giovani poco istruiti, poveri, a volte disperati. Non sono un movimento politico, ma sociale. La reazione dev´essere tolleranza, sviluppo, difesa dei diritti. Ben Ali usava la repressione, ma non ha funzionato».
Però ci sono anche segnali inquietanti: i predicatori che chiedono la caccia agli ebrei, che invitano a prendere le armi, che attaccano chi vende alcolici. L´ultimo è il leader del partito Jebher Al Islah che vuole abolire l´obbligo di monogamia. Che ne pensa?
«La poligamia in Tunisia è sparita prima che la vietasse Habib Bourghiba. La monogamia è semplicemente un adattamento alla situazione reale. Sono solo chiacchiere per attirare attenzione».
I salafiti vogliono la sharia, non c´è il rischio che impongano misure incompatibili con la presenza dei turisti, una risorsa fondamentale per il paese?
«E´ ridicolo pensare che qui si possa imporre la legge islamica. Questo paese è aperto e tollerante da trecento anni, continueremo ad avere ospiti europei senza problemi. Mi dispiace che i media seguano troppo le sciocchezze che dicono certi personaggi, perché possono danneggiare l´economia tunisina. Immagini come cambierebbe lo scenario se il paese restasse senza turisti, se mancasse lo sviluppo economico, se le famiglie non potessero permettersi di mandare i ragazzi a scuola».
C´è anche un altro aspetto che inquieta l´Europa, e l´Italia in particolare, quello delle migrazioni incontrollate. Qual è secondo lei la soluzione possibile?
«In passato una delle ragioni più importanti per il sostegno alle dittature in Libia, in Tunisia, in Egitto - mi dispiace molto dirlo - era che i dittatori difendevano l´Europa dalle migrazioni illegali, perché fermavano i poveri e i disperati. Ma ora se l´Europa vuole fermare le migrazioni, l´unica strada è quello dello sviluppo e della democrazia».
Che cosa si aspetta la Tunisia dalla comunità internazionale?
«Maggior sostegno economico e politico. Ma anche maggior comprensione di quello che accade. La paura è inaccettabile, quello che succede nel mondo arabo è un bene per tutti, anche per l´Europa».

l’Unità 28.5.12
Il caso greco
Europa attenta, con la crisi rischi per la democrazia
di Augusto D’Angelo


LA GRECIA IN EUROPA O FUORI NON È SOLO UN PROBLEMA ECONOMICO-FINANZIARIO. La crisi accresce il senso di fragilità, e quindi la ricerca di risposte certe e a effetti rapidi. E i rischi per la democrazia si innalzano come lo spread. Qualche giorno fa il «Camilleri greco», Petros Markaris, ha raccontato di un suo amico che aveva una casa vuota ad Atene, e che ha trovato occupata da un trentina di immigrati. Questi, rivoltosi alla polizia locale, ha registrato l’impossibilità di intervenire. L’amico del padre letterario del celebre commissario Charitos si è rivolto a Crisi Avgi (Alba Dorata), il movimento di estrema destra che nelle elezioni di 6 maggio ha ottenuto il 6,97% delle preferenze e 21 parlamentari: i militanti neo-nazisti gli hanno sgombrato la casa in tre giorni. Giungono le notizie degli scontri nella città portuale di Patrasso degli scontri tra polizia e manifestanti che chiedono l’allontanamento degli stranieri da stabilimenti abbandonati che avevano occupato. Aggressori col viso coperto hanno assalito le forze dell’ordine con lancio di oggetti e bombe molotov. Le autorità sostengono che agli incidenti hanno partecipato oltre 350 militanti di Alba Dorata. Questi segnali sono estremamente preoccupanti e devono ricordarci che l’Europa negli anni ’80 ha aperto le porte alla Grecia, alla Spagna e al Portogallo perché erano Paesi usciti dalle ultime dittature fasciste del continente, e che andavano ancorate alla democrazia.
La Grecia si era liberata nel 1974 del regime dei colonnelli, la Spagna, dopo la morte di Franco si era incamminata sul sentiero della democratizzazione guidata da Juan Carlos, il Portogallo, con la «Rivoluzione dei garofani» abbandonava l’eredità del regime di Salazar e dava l’indipendenza alle sue ultime colonie africane. L’Europa era l’approdo che garantiva il radicamento della dialettica democratica contro i rischi delle svolte autoritarie. E in quel processo l’Italia fu generosa: favorì l’ingresso di partner che avevano produzioni agricole e ittiche che facevano concorrenza a quelle di casa nostra. Ma la difesa della democrazia, per le classi dirigenti dell’epoca, italiane ed europee, era la priorità.
L’integrazione europea è nata per superare le rivalità franco-tedesche, che dalla metà del XIX secolo avevano a più riprese insanguinato il continente e provocato due conflitti mondiali. Il sogno europeo si è allargato perché rappresentava un approdo democratico capace di sostenere i Paesi che aderivano, e di contribuire a risolverne i problemi. Se l’Europa smarrisce quello spirito si trasforma in altro, e mette a repentaglio la sua ragione sociale, che fu, per l’appunto, la difesa della pace e della democrazia. Se i greci non troveranno in Europa le soluzioni ai loro problemi ne cercheranno altre: come Alba Dorata. E la crisi economico finanziaria diventerà una crisi della democrazia europea.

La Stampa 28.5.12
Il terzo mandato di Putin riparte con un giro di vite
Ricatti, arresti e minacce, ma l’opposizione non cede e torna in piazza
La Duma vuole aumentare la sanzione per chi sfila senza permesso da 50 a 25 mila euro
di Mark Franchetti
, corrispondente da Mosca del Sunday Times di Londra

Il braccio di ferro Ieri i critici di Putin sono tornati a protestare contro il suo regime e stavolta sono riusciti a farlo proprio sotto le mura del Cremlino

Che tipo di Presidente sarebbe stato Vladimir Putin, dopo aver conquistato un terzo mandato da record? È la domanda che tutti si ponevano al suo ritorno al Cremlino. Avrebbe proceduto a un giro di vite contro l’opposizione che ha lanciato l’inverno scorso le più grandi manifestazioni anti-governative dopo il collasso dell’Urss, vent’anni fa? Oppure avrebbe fatto concessioni mostrando un lato liberale del suo volto imperscrutabile?
Poco meno di un mese dopo l’inaugurazione di Putin - uno spettacolo surreale nel corso del quale la polizia ha paralizzato l’intero centro di Mosca, ripulendolo da automobili e passanti - molti pensano di aver avuto la risposta. I primi segni non promettono bene per la neonata opposizione russa. La Duma ha messo in cantiere una legge controversa che aumenterebbe significativamente le multe per i partecipanti alle proteste non autorizzate (in Russia le manifestazioni che non ricevono un permesso dalle autorità sono fuorilegge). Le multe attuali sono di circa 50 euro per i partecipanti e di 125 per gli organizzatori. Il progetto legge prevede di elevare le multe a 25 mila euro per i partecipanti e 37 mila euro per gli organizzatori. Putin ha appoggiato la proposta.
Uscendo di prigione dopo essere stato arrestato due settimane fa a una manifestazione anti-Putin, Alexey Navalny, l’attivista anti-corruzione diventato uno dei volti del movimento di protesta, ha raccolto la sfida. «Non ci spaventeranno con brande di ferro e razioni da carcerato. Se dobbiamo tornare in carcere per altre due, o 22 volte, lo faremo», ha detto il carismatico avvocato a una folla di sostenitori che lo aspettava fuori. «E’ chiaro cosa vogliono ottenere con queste multe, ma non funzionerà», ha aggiunto, annunciando che avrebbe partecipato alla prossima grande manifestazione di protesta, prevista per il 12 giugno.
Ma anche Navalny è sotto pressione. Un deputato del partito governatori Russia Unita - che il blogger aveva ribattezzato «il partito dei ladri e dei cialtroni» - ha chiesto all’Fsb (l’ex Kgb) di investigare sui finanziamenti che riceve, con sospetti di riciclaggio. L’attivista anti-corruzione guida Rospil, un sito Internet che ricorre alle segnalazioni degli utenti per individuare e investigare i concorsi statali manipolati da burocrati corrotti. Il sito viene finanziato con donazioni da russi comuni.
Anche Serghey Udaltsov, controverso radicale di sinistra diventato uno dei leader non ufficiali del movimento anti-Putin, è sotto inchiesta. Viene accusato di aver percosso una giornalista filo-governativa e rischia una lunga condanna. Udaltsov - appena rilasciato anche lui dopo due settimane in carcere - sostiene che le accuse hanno una motivazione politica. E, in quello che sembra sempre più una campagna per mettere sotto pressione tutti i leader della protesta, le autorità hanno preso di mira Ghennady Gudkov, ex ufficiale del Kgb oggi deputato che ha preso parte a tutte le manifestazioni degli ultimi mesi. La sua società privata di security, una delle più grosse a Mosca e che offre servizi a molte grandi corporation occidentali, viene minacciata con il ritiro della licenza per il porto d’armi, che porterebbe di fatto alla sua chiusura. Le guardie della società avevano garantito la sicurezza alle manifestazioni anti-Cremlino. «Negli ultimi vent’anni ho lavorato per costruire un’azienda che potrebbe venire distrutta in 20 giorni. Questo è il clima per gli investimenti in Russia! », dice Gudkov. E prosegue: «I miei ragazzi alle manifestazioni hanno protetto il palco, e li ho pagati... Capisco perché vogliono punirmi, ma chi c’è dietro? ». Alla domanda se pensa di assumere un profilo più basso nell’opposizione, risponde: «No, assolutamente no».
Anche Xenia Sobchak, probabilmente la donna più famosa della Russia, e secondo voci diffuse figlioccia di Putin, è sotto tiro. Suo padre è stato il mentore politico di Putin e fino a poco tempo fa era nota ai suoi compatrioti - che la amano e la odiano in egual misura - come la celebrity più glamour del Paese. Ma in una clamorosa metamorfosi - un segnale dei tempi - si è trasformata in un’attivista sociale e politica. Ha partecipato alla maggior parte delle manifestazioni e la sua vena sardonica le ha fatto guadagnare in pochi mesi più di 400 mila seguaci su Twitter. La percezione di lei come una «intoccabile» a causa dell’amicizia della sua famiglia con Putin, è stata messa presto in dubbio, appena ha cominciato a criticare pubblicamente il Presidente. In un incidente che molti ritengono essere un chiaro avvertimento che il suo neo-impegno politico infastidisce Putin, la procura ha aperto un’indagine contro Sobchak, con il sospetto di ricorso alla violenza contro due croniste di Lifenews, un sito tabloid vicino al governo. La trentenne celebrity, nota una volta come la Paris Hilton russa, stava cenando al suo lussuoso ristorante di Mosca con due importanti esponenti dell’opposizione, quando le guardie del corpo hanno scoperto le giornaliste che stavano filmando in segreto la scena. Sobchak ha confiscato la scheda di memoria della loro videocamera e le ha cacciate.
LifeNews ha fatto denuncia alla polizia, sostenendo che la donna fosse ubriaca e avesse aggredito le giornaliste tenendole in ostaggio. E il giorno dopo l’incidente, Ghennady Onishenko, capo del servizio sanitario nazionale, ha detto che il ristorante di Sobchak dovrebbe venire indagato in quanto lei e i suoi ospiti hanno abbandonato il locale attraverso la cucina, violando numerose regole sanitarie. L’accusa è suonata talmente assurda da venire interpretata come un avvertimento a Xenia: la sua stella al Cremlino stava tramontando.
Intanto il sistema politico costruito da Putin continua come sempre. La settimana scorsa, completando finalmente il tanto discusso scambio di lavori con Dmitry Medvedev, ex presidente e protetto di Putin che ha lasciato la poltrona per permettere al suo capo di ritornare al Cremlino ed è entrato formalmente in Russia Unita per diventarne il leader. Una posizione occupata finora da Putin. L’opposizione ha definito lo spettacolo una «farsa».
Per ora, il nuovo Putin sembra proprio il vecchio Putin.

Corriere 28.5.12
Tutto su Severino, dall'Essere al capitalismo
di Armando Torno


Oggi all'Università di Venezia si tiene un incontro preparatorio, con molti giovani ricercatori, per il convegno di studi «Il destino dell'essere. Dialogo con (e intorno al pensiero di) Emanuele Severino», che si svolgerà domani e dopodomani a Ca' Dolfin. È stato organizzato dal dipartimento di Filosofia, dove si è formato e insegna un gruppo di docenti di alto profilo che sono stati, appunto, studenti di Severino.
Non capita, se non raramente, che si organizzi un convegno su un filosofo vivente, ma per Severino si è fatta un'eccezione. Del resto i suoi allievi, oltre che da Venezia, giungono da ogni parte d'Italia (da Milano, Bari, Padova e Verona) e da atenei europei e americani. Non manca nemmeno un professore che ha insegnato a Pechino. Le due giornate si chiuderanno con una tavola rotonda (il 30 maggio alle 15) alla quale, oltre una dozzina di ex allievi della prima generazione, parteciperà lo stesso protagonista.
Non si tratterà comunque di un incontro «in famiglia». Ci saranno anche economisti, esperti di diritto, psicologi, eccetera, estranei alla «covata di Severino». Il quale si sente, al tempo stesso, «stuzzicato» a proseguire le sue indagini sulla società. Ed esse si dimostrano particolarmente attuali, avendo egli trattato i rapporti tra capitalismo, politica e tecnica. Tale incontro offre inoltre la possibilità di far luce sulla filosofia italiana, nella quale il dipartimento di Venezia (fondato dal medesimo Severino nel 1970, allorché lasciò la Cattolica di Milano) ha una posizione di spicco. Di più: in questo momento — usiamo le sue parole — «la filosofia italiana non ha nulla da invidiare alle ricerche che si fanno all'estero e i nostri pensatori, pur con lo svantaggio della lingua, offrono una serie di contributi degni della massima attenzione».
Emanuele Severino, che è un giovanotto di 83 anni, sta ultimando tre libri. Stando alle indiscrezioni, che sempre vagolano nel mondo dell'editoria, sappiamo che uno uscirà da Adelphi alla fine dell'anno (entrerà a far parte della collana a lui dedicata da questo editore); il secondo vedrà la luce in autunno da Rizzoli e tratterà di capitalismo e tecnica; il terzo sarà una intervista edita da La Scuola di Brescia, dedicata al rapporto tra educazione e pensiero.
A Venezia — ed è l'unico nome che qui ricordiamo — non potrà esserci purtroppo Italo Valent, scomparso da qualche anno, allievo tra i cari a Severino, che fra l'altro fu direttore del dipartimento che si appresta a dar vita all'incontro di Ca' Dolfin. Tutte le sue opere sono in corso di pubblicazione da Moretti & Vitali. Severino lo ricorda con tre densi aggettivi: «Dolce, profondo, originale».

Corriere 28.5.12
È morto da uomo libero il boia degli ebrei olandesi
L'ex SS Klaas Faber operò nel lager di Anna Frank
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — L'operazione Last Chance non è riuscita: Klaas Carl Faber, l'SS che ammazzava gli ebrei olandesi e forse internò Anna Frank, è riuscito a fuggire per sempre. Sconsolato Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal, l'ultimo cacciatore di nazisti che teneva Faber al posto numero 3 della lista: «Pensare che, un anno e mezzo fa, avevo scritto una lettera anche ad Angela Merkel…». Sono giorni di feste a Gerusalemme, ma Zuroff riapre subito il suo computer in Mendele Street: «Ecco qui… Avevo lanciato l'operazione Ultima Possibilità, per prendere i criminali ancora in giro: chiedevo alla Cancelliera di risolvere proprio il caso Faber, un suo cittadino. Ebbi risposte solo formali. Non che mi stupisca: negli anni 50, i servizi tedeschi sapevano dove stava Eichmann ben prima che il Mossad lo catturasse. Ma il fatto che questi assassini siano stati protetti per tanti decenni, è una farsa. Si fa passare un messaggio: può farla franca perfino chi fa sterminio di massa».
Bastardi senza gloria, ma con molta boria. Il novantenne Faber s'è spento serenamente giovedì, in una clinica bavarese dov'era ricoverato per blocco renale, assistito dall'affetto della moglie Jacoba. Se n'è andato senza una parola di pentimento e come ha vissuto i suoi ultimi sessant'anni: libero e indisturbato. Non che lo meritasse: olandese, figlio d'un panettiere collaborazionista ucciso dai partigiani, fratello d'un nazista spedito alla forca, Faber s'era arruolato volontario nelle SS quando la Germania aveva invaso l'Olanda; quindi l'avevano promosso spia dell'unità speciale Abete d'Argento, incaricata di colpire la Resistenza; infine era passato a smistare ebrei nel campo di Westerbork, quello di Anna Frank. Riconosciuto colpevole d'almeno 22 omicidi, condannato a morte da un tribunale olandese nel '47 («un SS dei peggiori», motivarono i giudici), Faber cominciò subito la sua fuga dalle responsabilità: nel '48, con la pena commutata in ergastolo; nel '52, evadendo con altri sei nazi dal carcere di Breda e rifugiandosi in poche ore in Germania, aiutato dai neofascisti.
Per quanto incredibile, da quel momento nessuno l'ha più riacciuffato. L'ex nazista s'è potuto rifare casa e famiglia nella tranquillità d'Ingolstadt, la cittadina dove Shelley ambientava gli esperimenti di Frankenstein, trovando pure lavoro nella grande fabbrica che laggiù occupa tutti: l'Audi. Per decenni, l'Olanda ha chiesto l'estradizione, spiccato mandati d'arresto, elevato proteste, presentato prove. Tutto inutile. Israele ha raccolto petizioni, fatto pressioni, offerto informazioni: ancora più inutile. Per un paradosso, e fino alla morte, Faber è stato considerato dai tedeschi un cittadino tedesco a tutti gli effetti, perciò non estradabile, nemmeno nell'Ue. E questo nonostante il passaporto gli fosse stato concesso solo nel 1943 e per una direttiva di Hitler, quella che garantiva l'automatica cittadinanza a tutti gli stranieri che collaboravano col Terzo Reich. Nel dopoguerra, il caso Faber è stato più volte riesaminato con puntiglio, ma un processo a Düsseldorf (1957) stabilì l'insufficienza di prove e il non luogo a procedere, un altro a Monaco di Baviera (2006) riconobbe sì una responsabilità nella morte di tanti ebrei, ma solo per omicidio colposo: un reato ormai prescritto.
Ultima chance: quanti Faber ci sono in giro, ancora? Qualcuno: il kapò danese Soeren Kam, pure lui diventato cittadino tedesco, libero in Baviera; il croato Milivoj Asner, che l'Austria non consegna perché malato, eppure paparazzato in buona salute agli ultimi Europei di calcio… «Casi che dimostrano come si faccia pochissimo per punirli», commenta Nadav Eyal, editorialista della tv israeliana: «Troppe ombre, da troppi anni. Chi sa come fuggì Mengele? E chi sa se c'era davvero, e come funzionava, la rete di protezione di certa Chiesa cattolica?». Lo scorso gennaio, per la verità, c'era stato un giudice a Berlino. Che a sorpresa aveva finalmente riaperto il caso Faber. E aveva deciso, okay, che bisognava fargli scontare l'ergastolo: «Se per lui non c'è ancora un posto all'inferno — aveva detto il magistrato —, glielo troveremo in una cella». Il diavolo ha fatto prima.

Corriere 28.5.12
Porzûs
Il crollo dell'ultimo muro della memoria
di Giovanni Belardelli


È davvero il caso di dire che domani, con la visita del presidente Giorgio Napolitano a Faedis, in provincia di Udine, crolla per il nostro Paese l'ultimo muro della memoria, almeno in relazione ai fatti legati alla Seconda guerra mondiale e alla Resistenza. Fu infatti nei pressi di quel luogo, alle malghe di Porzûs, che nel febbraio 1945 un centinaio di partigiani comunisti uccise una ventina di partigiani di orientamento diverso, cattolico e azionista, appartenenti alle formazioni Osoppo. Si trattò del più grave scontro interno alla Resistenza italiana, destinato da allora in poi ad alimentare infinite polemiche. Ancora negli anni 90 il regista Renzo Martinelli, dopo il rifiuto di molti sindaci della zona a concedergli i necessari permessi, fu costretto a girare in Abruzzo il suo film «Porzûs». La stessa storiografia ha spesso evitato di ricostruire la dinamica e le cause dell'eccidio: nel libro «Una guerra civile», l'opera assai nota che Claudio Pavone dedicò alla Resistenza venti anni fa, ci si limitava a un cenno, del tutto eccentrico, in nota. La ragione principale, quella che agli occhi di molti ha reso l'eccidio di Porzûs un vero e proprio tabù storiografico, ha a che fare con la difficoltà o l'imbarazzo di riconoscere che, sul confine orientale, la politica del Pci aveva sostanzialmente accettato la strategia di Tito che puntava ad annettere il territorio italiano fino all'Isonzo. Non a caso in quella zona le formazioni garibaldine, cioè comuniste, erano passate alle dipendenze dell'esercito di liberazione sloveno. E i comunisti giuliani non solo erano usciti dal Cln di Trieste ma avevano scatenato contro quest'ultimo, cioè contro gli antifascisti non comunisti, una violenta campagna diffamatoria (ad esempio accusandone i componenti di «collaborazionismo») in accordo con il Partito comunista sloveno.
Come ha di recente scritto uno storico, Raoul Pupo (nel volume «Porzûs», a cura di T. Piffer, Il Mulino), nel Friuli e nella Venezia Giulia «accadde quel che successe non nel resto d'Italia, ma nel resto della Jugoslavia»: vale a dire che quegli italiani che, come i partigiani della Osoppo, combattevano i tedeschi ma cercavano anche di difendere l'integrità territoriale del loro Paese vennero considerati da Tito come un ostacolo per i propri obiettivi, dunque come «nemici del popolo» da eliminare. L'eccidio di Porzûs non fu dunque il frutto di una generica rivalità tra formazioni diverse, ma si legava appunto alla logica terribile di uno scontro tra quanti accettavano la strategia jugoslava volta al controllo della Venezia Giulia e del Friuli orientale e quanti vi si opponevano. Tra questi ultimi vi furono anche dei militanti comunisti i quali non accettavano che, nella lotta partigiana, la difesa dell'integrità nazionale italiana dovesse essere sacrificata alla solidarietà ideologica con gli jugoslavi.
Ancora oggi, soprattutto a livello locale, c'è chi non riesce a inquadrare nel suo vero contesto la matrice dell'eccidio di Porzûs, restando abbarbicato a una memoria conservatrice e nostalgica, troppo spesso caratteristica di un Paese che fatica a lasciarsi alle spalle i conflitti del passato. Ma certamente le cose sono molto cambiate rispetto a qualche tempo fa: nel 2001, ad esempio, l'ex commissario politico garibaldino Giovanni Padoan, incontrandosi con il cappellano delle formazioni Osoppo, don Redento Bello, definì l'eccidio «un crimine di guerra che esclude ogni giustificazione». La visita del presidente Napolitano, che scoprirà una lapide in ricordo delle vittime di Porzûs e del loro «sacrificio per la libertà del Friuli e dell'Italia intera», sta a significare come anche quell'episodio tragico faccia ormai parte pienamente della memoria dell'Italia democratica.

La Stampa 28.5.12
E la Cia ci provò con Sartre: contro l’Urss
1958, un numero speciale di Paris Review in difesa di Pasternak. Ora si scopre da dove venivano i fondi per la rivista «al di sopra delle parti»
di Maurizio Molinari


Durante la Guerra fredda la Cia sfruttò l’apolitica Paris Review come strumento per la proiezione del «soft power» americano in Europa: a rivelarlo è Salon.com sulla base di alcuni documenti conservati negli archivi della Morgan Library di New York. A gettare nuova luce sul ruolo della «più grande piccola rivista della Storia», come la definì Time, è una corrispondenza fra Nelson Aldrich, il direttore di base a Parigi, e GeorgePlimpton, capo dell'ufficio di New York.
È il 1958, il Nobel per la Letteratura è stato assegnato allo scrittore russo Boris Pasternak per il Dottor Zivago ma poiché il testo è uscito clandestinamente dall’Urss, il Cremlino lancia una violenta campagna di propaganda contro l’autore, che è obbligato a declinare con una lettera al comitato di Oslo in cui ammette che sono state le pressioni sovietiche a determinare la decisione. Per Plimpton si tratta di «un’occasione da cavalcare» e propone a Aldrich di realizzare un numero ad hoc, o magari un pamphlet, con i contributi dei maggiori scrittori viventi per difendere Pasternak e condannare l’Urss. I nomi che suggerisce sono quelli di Sartre, Aragon, Neruda, Waugh. E poi, in fondo alla lettera, aggiunge che i fondi per pagare la pubblicazione potrebbero arrivare dal «Congress for Cultural Freedom».
Il punto è che all’epoca questo «Congresso per la libertà culturale» altro non era che un’organizzazione creata dalla Cia per finanziare in Europa attività tese a contrastare l’influenza sovietica nei Paesi alleati. Altri documenti relativi a Paris Review documentano frequenti contatti con il Congress for Cultural Freedom sin dalla fondazione della rivista nel 1953, incluse alcune occasioni in cui si parla di attività congiunte, come ad esempio condividere le spese dei viaggi di lavoro di giornalisti della rivista in Europa. Da qui l’impressione che Paris Review possa essere nata con l’avallo della Cia nel bel mezzo della Guerra fredda riuscendo a diventare una delle operazioni culturali più riuscite, in quanto avrebbe ospitato scrittori come Roth, Naipaul, Boyle, Jones, Moody, Kerouac, Carroll, Franzen e Eugenides, guadagnandosi la credibilità di magazine al di sopra delle parti.

Repubblica 28.5.12
I tre muri d’Europa
Ecco perché solo l’apertura verso “l’altro" può salvarci
Anticipiamo parte del nuovo libro del sociologo. I rischi dell´ostilità contro stranieri, Islam e Bruxelles
di Ulrich Beck


Proprio la minaccia esistenziale causata dalla crisi finanziaria e dalla crisi dell´euro ha reso gli europei nuovamente consapevoli di non vivere in Germania o in Francia, ma in Europa. La gioventù europea esperisce per la prima volta il proprio "destino europeo": disponendo di una formazione migliore di quella di un tempo essa va incontro, carica di aspettative, al declino dei mercati del lavoro determinato dall´incombente minaccia di bancarotta degli stati e dalla crisi economica. Un europeo su cinque sotto i venticinque anni è senza lavoro.
Come il precariato accademico ha innalzato le barricate e fatto sentire la propria voce, così anche tutte le proteste dei giovani rivendicano soprattutto giustizia sociale. In Spagna, in Portogallo, ma anche in Tunisia, in Egitto, in Israele (a differenza della Gran Bretagna) queste proteste sono condotte in maniera non violenta, ma potente. L´Europa e la sua gioventù sono accomunate dalla rabbia nei confronti della politica che stanzia somme di denaro esorbitanti per salvare le banche e mette a repentaglio il futuro dei giovani. Ma se persino la speranza rappresentata dalla gioventù europea cade vittima della crisi dell´euro, quale futuro potrà mai esserci per un´Europa che diventa sempre più vecchia?
Di fatto la sociologia non se n´è proprio accorta; e ora come allora continua a operare e a elaborare le proprie riflessioni nella prospettiva di un nazionalismo metodologico. Considerando che in Europa le relazioni giuridiche e sociali sono vicendevolmente intrecciate e non possono più venire diversificate a livello nazionale, persino i conflitti nazionali scaturiti dalla disuguaglianza (come, ad esempio, nel caso della Germania) possono essere compresi solo tenendo conto della dimensione europea. Analizzando le situazioni dei singoli stati nazionali diventa pertanto imprescindibile fare riferimento all´Europa.
Vedo tre processi sovrapposti che determinano una nuova effettiva minaccia dell´Europa per l´Europa. Innanzitutto l´ostilità verso gli stranieri, poi l´antisemitismo e l´antiislamismo, infine l´ostilità verso la stessa Europa. Il primo fenomeno non è nuovo e si manifesta di continuo. Rispetto all´antisemitismo noi sociologi siamo abbastanza tranquilli fintantoché rimane circoscritto in determinate zone marginali. Nel frattempo il problema ha però assunto dimensioni esorbitanti nella forma dell´antiislamismo. Gli avversari dell´Islam sono infatti riusciti a presentare il loro rifiuto della dimensione religiosa di determinati gruppi emigrati in Europa come una sorta di atteggiamento illuministico. In Germania è ben noto il nome di Thilo Sarrazin, ma non è il solo. In situazioni di crisi le file degli xenofobi, degli antisemiti, degli antiislamici e degli antieuropei si ingrossano, si sovrappongono e si inaspriscono vicendevolmente. Così facendo tra la popolazione si fa via via più labile il sostegno all´Europa – fino ad assumere proporzioni che non mi sarei mai immaginato.
Ma oggi in Europa ci sono almeno altri due esempi di politica della violenza che occorrerebbe ricordare: il colonialismo e lo stalinismo, ai quali viene di fatto riconosciuto un peso diverso. La memoria della colonizzazione è presente in maniera assolutamente marginale nella costituzione dell´Unione europea. Finora non si è affatto messo in luce né il significato che i paesi colonizzati hanno avuto nel processo di formazione degli stati nazionali all´interno dell´Europa, né quale significato hanno avuto i paesi postcoloniali nella formazione dell´Unione europea. Rispetto all´olocausto e allo stalinismo le cose sono diverse. Tuttavia la memoria del colonialismo potrebbe verosimilmente esercitare un ruolo nell´atteggiamento dell´Unione europea di fronte agli eventi della primavera araba nei paesi nordafricani. Ci si dovrebbe domandare per quale ragione l´Europa non sfrutti la propria situazione particolare (ossia le sue tre memorie storiche) come fonte per nuovi orientamenti e progetti per il futuro.
Rispetto alla Germania, ora come ora, posso solo pronosticare un amore inarrestabile per lo status quo. Siamo senz´altro uno dei paesi industrializzati più dinamici del mondo, e tra quelli più vincolati al mercato globale. Con la riunificazione si è però evidentemente esaurito ogni bisogno di cambiamento. Si fa strada, nell´agire e nel pensare, un atteggiamento di totale disimpegno. Persino in ambito scientifico le teorie che da tempo trattano della fluidificazione e dello sgretolamento dei rapporti sociali vengono recepite in maniera molto marginale. Le figure chiave tra gli intellettuali, la politica e la sfera pubblica nutrono un disinteresse incredibile di fronte a ciò che sta accadendo in ambito politico e intellettuale nelle altre regioni del mondo. Ma questa Germania disorientata, che ora come ora geme, tartaglia e pencola nella nebbia, non è caduta dal cielo. Elaborando la teoria della modernizzazione riflessiva e della società globale del rischio siamo riusciti a individuare un fenomeno che è diventato ormai di esperienza comune: la marcia trionfale della modernità radicalizzata genera una serie di effetti collaterali che demoliscono i fondamenti e le coordinate delle istituzioni e delle singole esistenze private, tramutandoli in elementi politici. Improvvisamente si fanno urgenti questioni come queste: a che cosa serve l´Europa? La crisi finanziaria mina alla base la democrazia? Ma pure: che cos´è la famiglia? Dal canto mio ho tentato di distinguere tra il "cosmopolitismo", inteso come una teoria normativa e politica, e la "cosmopolitizzazione" come sviluppo de facto sociale. La cosmopolitizzazione, nelle varie forme in cui si realizza, può ad esempio essere descritta a partire dal caso del capitalismo fondato sull´outsourcing. In quel caso non si tratta infatti solo di una variante della globalizzazione, ma di una forma di cosmopolitizzazione in cui i lavoratori dei paesi ricchi, europei, si percepiscono come intercambiabili ed entrano in relazione diretta con l´"altro globale". Questa relazione non è né un´interazione né uno scambio comunicativo, bensì una messa in discussione dell´interesse esistenziale dei lavoratori per un posto di lavoro sicuro. Da ciò deriva, seppur detto in maniera un po´ diretta, un´ostilità economica che riveste un´importanza quotidiana per gli atteggiamenti xenofobi, antisemiti, antiislamici e persino antieuropei. Questa ostilità economica è una forma di cosmopolitizzazione priva di interazione e di comunicazione. Essa non ha nulla a che spartire con il cosmopolitismo filosofico, anzi, ne è l´esatto opposto. Nondimeno si tratta di una relazione nuova, molto concreta, in cui l´"altro globale" è pienamente presente in Europa, al di là di ogni frontiera, ed è al centro della nostra vita. Basandomi sulla distinzione tra cosmopolitismo e cosmopolitizzazione avevo creduto di poter dar vita a una discussione su tali forme di sviluppo, soprattutto in Germania, essendo il cosmopolitismo una delle grandi tradizioni tedesche. Nei secoli XVIII e XIX grandi pensatori – Kant, Heine, Goethe, Schiller e altri – discutevano del modo in cui il cosmopolitismo, il patriottismo e il nazionalismo potessero realmente rapportarsi l´uno all´altro. Mi ero figurato che la grande tradizione culturale tedesca, continuamente celebrata, potesse offrire lo spunto per ripensare l´Europa e la percezione di sé come nazione nell´epoca globale in una maniera nuova e sorprendente. Devo però constatare che la Germania è completamente sorda a questo dibattito, che viene invece condotto in maniera assai vivace in molte altre lingue.

l’Unità 28.5.12
Che cervello quel computer
La macchina super intelligente funzionerà come i nostri neuroni
Intervista a Bandyopadhyay, lo scienziato che ha inventato le molecole artificiali che mimano il comportamento delle cellule cerebrali
di Cristiana Pulcinelli


I COMPUTER DI OGGI LAVORANO A VELOCITÀ IMPRESSIONANTI: ALCUNI DI ESSI SONO CAPACI DI ESEGUIRE 10MILA MILIARDI DI ISTRUZIONI IN UN SECONDO. TUTTAVIA, POSSONO ESEGUIRLE SOLO IN SEQUENZA, OVVERO UNA ALLA VOLTA. Le cellule del nostro cervello invece sono lente: «scaricano», cioè trasmettono impulsi elettrici, solo alcune centinaia di volte al secondo. Ma sono una squadra: milioni di neuroni lavorano in parallelo simultaneamente e questo fa sì che tutti insieme siano enormemente più efficienti di qualsiasi computer superveloce.
Ma non è finita qui. Le connessioni tra i neuroni si modificano, evolvono, rafforzandosi o indebolendosi a seconda dell’uso. In altri termini, la rete che formano, ovvero il cervello, impara.
Infine, il cervello è in grado, almeno in parte, di autoripararsi: se un neurone muore, un altro prende il suo posto. Allora, perché non prendere esempio da quella macchina biologica perfetta per progettare il computer del futuro?
È questa la domanda che si è posto Anirban Bandyopadhyay, fisico indiano di 37 anni che ha al suo attivo una carriera scientifica di tutto rispetto, tanto che si vocifera già di una sua candidatura al Nobel. Bandyopadhyay oggi lavora al National Institute for Materials Science in Giappone. Da lì ha creato, insieme a un gruppo di colleghi statunitensi, un nanocervello, ovvero un minuscolo computer costituito di poche molecole che mima le caratteristiche del cervello umano. Ogni molecola di questa macchina biologica interagisce contemporaneamente con le vicine facendole cambiare di stato e quindi funzionando come un interruttore di un computer che lavora in parallelo. Inoltre, anche il nanocervello evolve e si autoripara.
Per testare la sua potenza, i ricercatori lo hanno usato per simulare due fenomeni naturali: come il calore si diffonde in un materiale e come un cancro cresce nell’organismo. Ed è l’applicazione medica che ad Anirban Bandyopadhyay sta più a cuore da quando, nel 2010, ha perso suo padre per un ictus, come ha raccontato nel corso di un suo intervento al festival «Poiesis» di Fabriano. Il vostro studio apre la strada allo sviluppo del computer molecolare che secondo alcuni sarebbe la nuova rivoluzione in informatica?
«Noi crediamo di sì. Solo che non è chiaro se si potrà chiamarlo computer perché i computer esistenti risolvono problemi in cui l’algoritmo è ben definito, ad esempio l’addizione tra due numeri. Tuttavia, nel caso in cui non si possa definire bene il problema, questo nuovo apparecchio molecolare ci potrebbe accompagnare nel difficile compito di cercare e trovare le informazioni che ci sono necessarie tirandole fuori da una rete di informazioni astronomicamente grande e complessa. Si tratta del tentativo di sfruttare le tecnologie biologiche e il modo in cui funzionano. Finora noi sapevamo che i sistemi biologici erano molto superiori alla tecnologia inventata da noi, ma non sapevamo perché. Ora capiamo i motivi di questa superiorità».
Qual è il vantaggio del vostro nano cervello rispetto ai normali computer?
«I computer biologici sono più lenti dei normali computer, questo vale anche per il nano cervello. Ma, in effetti, non siamo tanto interessati alla velocità del computer, quanto piuttosto alla sua capacità di imparare che lo metterebbe in grado di risolvere problemi mai incontrati prima. D’altra parte, si è sempre sostenuto che solo il computer quantistico potrebbe generare una velocizzazione esponenziale dell’informatica classica. Tuttavia, è possibile velocizzare i computer anche usando oscillatori e sincronia, proprietà che troviamo in natura, ad esempio in uno stormo di uccelli o in un branco di pesci. L’uccello che migra è guidato da un orologio interiore, un oscillatore potremmo dire, che si sincronizza con quello di tutti gli altri uccelli. Usando questo meccanismo, invece di scrivere fantastiliardi di algoritmi sotto forma di proposizioni “se allora”, noi possiamo scrivere le istruzioni direttamente nell’hardware della macchina fissando particolari parametri di sincronia tra le molecole. Possiamo pensare agli oscillatori come a diapason, ma in questo caso sono progettati in modo che invece di un unico canale di risonanza o di comunicazione ne hanno molti. Questo favorisce l’elaborazione simultanea di molti livelli di informazione, o una logica di livello superiore. È un automa cellulare dotato di intelligenza».
Cosa sarebbe in grado di fare un computer costruito su questi principi?
«In teoria, potrebbe risolvere problemi che un computer classico non sarebbe in grado di affrontare neppure lavorando per tutti gli anni di vita dell’universo. Inoltre, mentre le future generazioni di computer “exascale” (ovvero computer mille volte più potenti degli attuali, n.d.r.) avranno bisogno di un’energia pari a 800-1000 mega watt, il nostro automa ha bisogno di pochi watt perché usa una comunicazione non radiativa, ovvero che avviene senza emissione di energia. Infi-
ne, l’hardware e i circuiti di questa macchina cambiano con il tempo, cosicché evolve».
Quali sono le applicazioni pratiche delle macchine molecolari che state studiando?
«Queste macchine potrebbero funzionare come un cervello robotico e quindi essere utilizzate nelle operazioni da svolgere nello spazio. Oppure per la chirurgia medica a distanza, anche se per fare questo dobbiamo prima raggiungere l’obiettivo di rendere la nostra macchina operativa in una cellula e non solo in laboratorio. Inoltre potrebbe essere utile per il risparmio energetico trasformando ogni singola macchina che vediamo intorno a noi e che opera utilizzando enormi quantità di energia.

Lo studioso della tecnologia «organica»
Anirban Bandyopadhyay, 37 anni, ricercatore del Nims di Tsukuba (Giappone), ha inventato i «nanobrain», molecole artificiali che mimano il comportamento dei neuroni cerebrali e si occupa di organizzare una piattaforma per creare un computer super intelligente. A «Poiesis» ha affrontato il tema delle decisioni, sottolineando come ogni scelta avviene selezionando tra un numero astronomico di alternative. La fisica quantistica potrebbe essere la soluzione, poicé ci consente di trattare vasti insiemi di stati possibili ad enormi velocità, grazie a processi come la sovrapposizione e la correlazione.

Corriere 28.5.12
La dodicenne anti-banche che conquista la Rete
Victoria e il video: «Perché ci truffano due volte»
di Giuseppe Sarcina


All'inizio sembra che stia leggendo su un tabellone nascosto dietro il pubblico. O almeno viene da sperarlo istintivamente, perché non si era mai vista una bambina di 12 anni pronunciare un discorso senza impappinarsi neanche mezzo secondo per sei minuti filati, mettendo sotto, in un colpo solo, il governo e il sistema bancario del Canada.
Victoria Grant, «una dodicenne canadese» come si presenta lei stessa, finora ha vissuto a Cambridge, nell'Ontario. Ma da qualche giorno spunta dappertutto sui siti di mezzo mondo, dopoché l'edizione canadese di «Huffington Post» ha ripreso il video postato su Youtube da suo padre, il signor Grant naturalmente. Nel filmato (Corriere.it) si vede una ragazzina spigliata, capelli sciolti, viso grazioso, perfettamente a suo agio davanti a un pubblico che le deve apparire di brontosauri inevitabilmente appannati. La scolaretta monta sul palco di un incontro organizzato a Filadelfia dal «Public Banking Institute», un'associazione che si «batte» affinché le «banche siano al servizio dell'interesse pubblico». «Ok, sentiamo ora Victoria», annuncia il presentatore.
L'attacco è folgorante: cinque domande secche in sequenza, seguendo lo schema retorico dell'anafora inventato dai sofisti dell'antica Grecia e rivisitato nei «Master» delle grandi università anglo- sassoni, dove insegnano ai manager come si tiene uno «speech» in pubblico. «Vi siete mai chiesti perché il Canada è indebitato?». «Vi siete mai chiesti perché il governo impone ai canadesi così tante tasse?». «Vi siete mai chiesti perché i banchieri delle più grosse banche canadesi siano sempre più ricchi e il resto di noi no?». «Vi siete mai chiesti perché il nostro debito nazionale supera gli 800 miliardi di dollari e perché noi versiamo 160 milioni di dollari ogni giorno ai banchieri privati per i soli interessi sul debito nazionale? Sono 60 miliardi di dollari l'anno». «Vi siete mai chiesti il perché di questi 60 miliardi di dollari?». La platea non fiata. Certo che ce lo siamo chiesto Victoria, non facciamo altro che chiederci tutto questo e altro ancora, da 3-4 anni. Ce lo stiamo chiedendo tutti, qualunque sia il lavoro (o non lavoro) che facciamo, qualunque sia il ruolo e il potere sociale: da Barak Obama al più giovane disoccupato greco.
Il problema è che, finora, nessuno (a cominciare dall'inquilino della Casa Bianca) sembra aver trovato una risposta davvero convincente. Ma Victoria Grant ha 12 anni e la mente sgombra. «Punto uno, punto due, punto tre». Potrebbe essere una lezione imparata a memoria, ma onestamente non è questa la prima impressione che rimane guardando il video. E forse per questo gli internauti non hanno avuto dubbi. Dal 27 aprile scorso i contatti aumentano con ritmi forsennati («virali», secondo il gergo di Internet). Se ne accorgono sia il «Financial Post» e, il 10 maggio, il sito canadese di «Huffington Post». La versione online di «Forbes» tiene i conti: prima 75 mila, poi un balzo fino a 200 mila. La scalata, è chiaro, è appena cominciata. I commenti arrivano a ondate, mescolati come sempre. Più approvazioni, più incoraggiamenti che dubbi.
Il tono assertivo della giovanissima «speaker», la grazia con cui frantuma concetti difficili, sminuzza tecnicismi e rende potabili, quasi familiari, cifre impossibili a base di «billion», fanno premio sulla solidità del ragionamento. Si resta come incantati, imbambolati per sei minuti. E ci vuole un po' per spostare la concentrazione sul significato di tutte quelle frasi così ben confezionate. Perché Victoria non lascia nulla di irrisolto. Il governo canadese prende denaro a prestito dal sistema privato delle banche, pagando, come è inevitabile, un tasso di interesse. «In questo modo le banche ci derubano due volte. Ci derubano come cittadini perché ci prestano soldi con alti tassi di interesse. Ci derubano come contribuenti, perché i soldi che il governo usa per ripagare i prestiti sono anche quelli nostri». Il tema è al centro del dibattito canadese. E il mestiere del banchiere forse non è mai stato così impopolare. Non solo nell'Ontario, evidentemente.
Ma Victoria sa anche come uscirne: semplicemente togliendo di mezzo le banche private e consegnando «il potere» di prestare denaro solo alle aziende di credito controllate dal governo. Qualunque «addetto ai lavori», un politico, un economista, un sindacalista, un imprenditore, avrebbe sintetizzato con il termine di «nazionalizzazione». Tra gli sbadigli. La nuova giovanissima star del web, invece, sa come farsi ascoltare. Ora sarebbe bello vedere anche chi glielo ha insegnato così bene.

Corriere 28.5.12
Se il web sceglie una dodicenne come simbolo dell’anti finanza
di Isabella Bossi Fedrigotti


Victoria Grant, 12 anni, canadese, non è una minimiss, non è vestita come una minimiss, non è truccata né boccoluta come lo sono in genere le minimiss, ha un bel sorriso, questo sì, e degli occhi allegri e svegli, ma non bamboleggia, non si atteggia, non accenna a mossette, porta un maglione di lana doppia stretto in vita da un cintura, eppure è ugualmente una minimiss, anzi una vera e propria miss. Lo è diventata nel giro di poche settimane grazie a un video postato su YouTube nel quale, con la sua piccola ma ferma voce di bambina determinata, fa le pulci al sistema bancario: e subito i click sono arrivati a decine di migliaia; che si sono trasformate in centinaia di migliaia quando il suo video è stato proiettato a un convegno bancario a Filadelfia. A quel punto se ne sono impadroniti il Financial Post e l'Huffington Post e tutto il mondo ha potuto ascoltare la lezione di finanza di miss Victoria Grant.
La rete ha, dunque, ancora una volta compiuto il miracolo-miracolo, per certi versi, forse, un poco inquietante — di dare voce e notorietà planetaria a un personaggio fino a ieri perfettamente (e, forse, felicemente) sconosciuto. Una scolaretta dodicenne è stata immortalata e consegnata ai posteri da YouTube grazie a un suo piccolo discorso sensato, scandito con diligenza e passione — è questo ciò che conta — e non grazie a uno scandalo, a una trasgressione, a qualche plateale gesto studiato per suscitare scalpore.
Trattandosi di una bambina, inquietante potrebbe essere il miracolo per le sue conseguenze nel tempo. Si sa, infatti, che all'improvvisa, folgorante notorietà, a maggior ragione se conquistata in rete, può seguire un sia pure meno improvviso e meno folgorante, però persistente e profondo oblio. Ce la farà, nel caso, Victoria, a sopportarlo serenamente? Riuscirà a smettere, con tranquilla saggezza, i panni della piccola miss e a ritornare la scolara (di certo brillante) di prima del ciclone? O si costringerà, invece, a inventare nuove perfomance, nuovi scoop, nuove esibizioni per mantenere vivo il portento elettrizzante di quei click che ora arrivano a centinaia di migliaia?

l’Unità 28.5.12
Viva l’«amour»
La Palma d’oro al regista austriaco Michal Haneke
Una vittoria meritata che premia una pellicola quasi tenera anche se dolorosa: la storia straziante di un uomo che uccide la moglie malata. Al film di Matteo Garrone il Grand Prix
di Alberto Crespi


CANNES. E DUE: SECONDA PALMA SFIORATA PER MATTEO GARRONE, SECONDO GRAND PRIX DELLA GIURIA – IL SECONDO PREMIO DEL PALMARÈS, COMUNQUE IMPORTANTISSIMO – DOPO QUELLO OTTENUTO PER GOMORRA NEL 2008. Il premio vero, la Palma d’oro, va per la seconda volta in tre anni all’austriaco Michael Haneke, per Amour. È l’ennesima riprova che le giurie cannensi non hanno memoria storica: anche i fratelli Dardenne e il danese Bille August (incredibile a dirsi!) vinsero a distanza di pochi anni, e forse è giusto che le giurie ragionino all’interno di una «bolla» temporale valutando solo i film che hanno davanti a sé, e non la filmografia dei loro registi. E poi, vogliamo dirlo chiaramente? Questa Palma, per Haneke, è meritata. Amour è un film bellissimo, mentre non era così travolgente Il nastro bianco premiato nel 2009. Ma allora Haneke vinse anche per un conflitto d’interessi evidente e poco simpatico (la sua attrice-feticcio Isabelle Huppert, presente anche in Amour, era presidente della giuria), mentre stavolta ha superato anche i gusti del presidente di turno, Nanni Moretti. Abbiamo ancora nelle orecchie quello che ci disse 15 anni fa, quando lo intervistammo dopo l’esperienza in giuria del 1997: Haneke era in concorso con Funny Games, film che non ci era dispiaciuto, ma Nanni lo distrusse con argomenti che a posteriori ci sembrano giustissimi. Quell’anno si battè per far vincere Kiarostami, ma il Kiarostami di quest’anno, Like Someone in Love, era indifendibile. Amour è per Haneke un film quasi tenero, anche se non mancano momenti dolorosi. Racconta l’amore estremo fra due persone anziane, un marito che uccide la moglie per risparmiarle l’umiliazione di una malattia senza ritorno. Preparatevi, perché quando uscirà in Italia i bigotti si scateneranno: questo è un paese che non sa fare i conti con la storia di Eluana Englaro, figurarsi se saprà accettare l’immagine di Jean-Louis Trintignant che soffoca per amore Emmanuelle Riva!
Il Grand Prix a Reality, il nuovo film di Matteo Garrone, è una bellissima sorpresa. Il film italiano non sembrava tra i favoriti. È il curioso destino dei titoli che passano a inizio festival: il prosieguo del concorso li sospinge in una zona grigia della memoria. Non abbiamo alcuna difficoltà a scrivere che la «nostra» Palma, per quello che conta, era Al di là delle colline di Cristian Mungiu (che comunque ha avuto due premi: bellissimo quello alle due giovanissime attrici, Cosmina Stratan e Cristina Flutur). Ma Reality, pur non avendoci convinto al 100 per 100, restava uno dei titoli di spicco di un concorso mediamente buono. Anche il premio all’attore danese Mads Mikkelsen per La caccia è azzeccato, soprattutto nel momento in cui la Palma ad Amour toglieva dai giochi l’immenso Jean-Louis Trintignant.
Alla luce dei premi assegnati, dove va il cinema secondo Cannes 2012? Va in luoghi molto dolorosi, dove si è costretti ad osservare i propri fantasmi, a fare i conti con gli aspetti meno pacificati delle nostre vite. Al di là delle colline e Amour sono storie di morti che non dovrebbero accadere: non dovrebbe essere umanamente necessario uccidere una persona amata per impedirle di soffrire, non dovrebbe essere eticamente pensabile uccidere per sbaglio una ragazza per liberarla, con la pratica dell’esorcismo, da un dolore insopportabile. Haneke e Mungiu ci spingono a guardare nell’abisso, a individuare il dolore, e a porci domande senza ritorno sui modi anche estremi di sconfiggerlo. Al confronto Reality potrebbe sembrare un film «leggero», ma nel cinema di Garrone non bisogna mai fermarsi all’apparenza delle trame, delle storie, delle facce dei personaggi. Nei suoi film, già ai tempi dell’Imbalsamatore, i personaggi varcano una linea d’ombra, si perdono in luoghi dove le pulsioni primarie, il sesso e la violenza possono portare ad azioni indicibili. Era questo, alla fin fine, che lo interessava in Gomorra, non certo l’inchiesta sociologica o la «denuncia» del crimine organizzato. Garrone è un cinesta ancora in qualche misura misterioso, e Reality è l’esatto opposto del suo titolo, è un viaggio nei sogni scombinati e ridicoli di un’Italia che ha perso ogni legame con la propria realtà. Non conta che il Grande fratello non sia più di stretta attualità: Reality è lo specchio deformante che, riflettendo le nostre facce grottesche, le fa ridiventare autentiche.

l’Unità 28.5.12
«Poiesis», la cultura a Fabriano


Una edita miscela di pensieri e visioni, di parole e di passioni: musica e teatro, cinema e poesia, arte e scienza. In concreto parliamo di incontri, dibattiti, concerti, proiezioni, mostre, letture e performance artistiche. Questo è «Poiesis», il Festival di Fabriano ideato e diretto da Francesca Merloni, che quest’anno ha chiamato ospiti illustri e di respiro internazionale come l’archistar olandese Rem Koolhaas, il filosofo Giulio Giorello, il teologo Vito Mancuso, gli scienziati Massimo Piattelli Palmarini, Giuseppe Vitiello, Anirban Bandyopadhyay, lo scrittore Raffaele La Capria che hanno illustrato l’idea di Grande Opera (tema di questa edizione) dal punto di vista logico, architettonico, filosofico, fisico-quantistico, letterario. Il lavoro, inteso come Grande Opera dell’uomo, è stato invece discusso, tra gli altri, da Guglielmo Epifani, il Ministro Corrado Clini e Giovanni Minoli. Tra i numerosi altri testimoni, sono saliti sul palco del festival Pierfrancesco Favino, Elisa, Paolo Fresu, Petra Magoni, Marracash, Alessandro Bergonzoni, i fratelli Taviani e Carolyn Carlson, che ha proposto una performance tra danza e poesia; i poeti Stefano Massari, Antonio Riccardi, Gian Mario Villalta; i fotografi Gabriele Basilico, Monika Bulaj, Giorgio Barrera, Andrea Jemolo.