martedì 29 maggio 2012

l’Unità 29.5.12
Direzione Pd: «Prima la società poi le alleanze»
Di Pietro lancia nuovi ultimatum, ma Bersani non raccoglie
In agenda incontri con associazioni, movimenti e intellettuali sul programma
della «ricostruzione»
di Maria Zegarelli


Appelli, ultimatum e ri-ultimatum: grande pressing sul segretario del Pd in vista della direzione dei democratici di oggi. Secca la risposta di Pier Luigi Bersani a chi vuole almeno intuire le carte che verranno scoperte: «Domani (cioè oggi, ndr) ci sarà la direzione del partito e vi comunicheremo le nostre decisioni». Bersani insisterà sulla necessità di dare la precedenza al rapporto con tutto ciò che si muove al di fuori dei partiti, riattivando il dialogo con la società spezzato da una profonda sfiducia verso i partiti. Soltanto dopo anche quando si saprà con quale legge elettorale si andrà al voto si aprirà il capitolo del patto di legislatura tra progressisti, moderati e società civile per avviare la fase costituente di riforme istituzionali ed economiche con il prossimo governo. Al Pdl, invece, ribadirà che la priorità deve essere la riforma elettorale, il Pd rilancerà sul doppio turno di collegio, e su questo sfiderà Berlusconi a venire allo scoperto perché il sospetto che l’ex premier abbia messo sul piatto della discussione il semipresidenzialismo per far arenare il lavoro avviato per il superamento del Porcellum e la riduzione del numero dei parlamentari è fortissimo.
Bersani oggi illustrerà il percorso da qui alle elezioni, parlerà degli incontri già fissati con «autorevoli» esponenti del mondo della cultura e della società civile per annodare i fili in vista del 2013 e per un confronto sul programma, sull’impegno e il coinvolgimento di movimenti, associazioni e quel pezzo di società che fino ad ora è rimasto in finestra. In programma in autunno anche una tre giorni proprio con tutti coloro che si sentiranno impegnati per «la ricostruzione del Paese».
Ma se il segretario rimanda ad oggi le risposte, Antonio Di Pietro e Nichi Vendola premono per uno scatto in avanti. «Assieme a Sel dice il leader Idv riferendosi alla convention di settembre abbiamo aperto il cantiere sui temi del lavoro, dell’occupazione e della legalità. Non vogliamo tirare per la giacchetta nessuno e neanche continuare ad aspettare... Per questo, a Vasto chi vuole venire è bene accetto. Chi non vuole esserci, non ci impedirà di fare il nostro lavoro». Da Sel accenti più soft ma il senso è lo stesso: «Vanno immediatamente convocati gli stati generali del futuro, come luogo per salvare il Paese. È una proposta di cui non vogliamo essere “proprietari”, poiché vogliamo sia a disposizione della società italiana. Se Bersani e il Pd dicessero di no, Sel e Idv sono pronti ad aprire il cantiere e a metterlo a disposizione di chi voglia contribuire a cambiare il Paese». Toni che piacciono poco al segretario che ieri a proposito di sagoma di cartone che lo rappresentava esposta in mezzo a Vendola e Di Pietro nella trasmissione de La7 ha commentato: «Il buon gusto è facoltativo, non è obbligatorio». E sono in parecchi nel Pd a frenare su Vasto, da Beppe Fioroni a Paolo Gentiloni. Walter Verini, molto vicino a Walter Veltroni, dice: «Si parta dal Pd e dal suo profilo riformatore e innovatore». E per dare un segnale in tal senso, aggiunge, oggi chiederà che il «partito esca da tutti i consigli di amministrazione pubblici, dalla Rai alle partecipate comunali». Solo dopo aver definito il suo profilo riformatore, sostiene Verini, si potrà parlare «di alleanze e anche di primarie».
Da Areadem, la corrente di Franceschini che si è riunita ieri sera, parla Marina Sereni: «La destra ha fallito in Italia e in Europa e ora tocca a noi proporre idee e valori per uscire dalla crisi, durissima, di questa fase. Da qui il Pd deve partire, con una iniziativa aperta al mondo delle competenze, del lavoro, dell’impresa, della cultura. Non possiamo decidere a tavolino alleanze sommatorie né liste civiche».
L’APPELLO DI MICROMEGA
Intanto Paolo Flores D’Arcais, Giorgio Airaudo, Margherita Hack, Gad Lerner e Arturo Parisi da Micromega si rivolgono Pd, Idv e Sel per fare al più presto, entro giugno, «primarie di coalizione per scegliere il candidato premier». Primarie «vere», con un comitato dei garanti scelto dalla società civile, «di indiscussa imparzialità e autorevolezza», con candidati che partecipano a titolo individuale e non come competitor sponsorizzati dai partiti, aperte a iscritti e non, con un tetto contenuto per le spese. E se nessun candidato raggiunge il 50% al primo turno si va al ballottaggio la domenica successiva. All’appello «primarie subito» si aggiunge anche Pippo Civati dal suo blog annunciando di rilanciare il tema nella direzione di oggi. «Prima si decidono le alleanze e poi insieme agli alleati le primarie», replicano dal Nazareno. Ma certo, fanno sapere, Bersani «non ha alcun problema a fare le primarie, anzi...».

l’Unità 29.5.12
Ora una lista unica democratica
di Goffredo Bettini


RARAMENTE, COME IN QUESTE SETTIMANE, LA PROSPETTIVA POLITICA APPARE INCERTA E SFILACCIATA.
Ogni giorno emergono molteplici pressioni per stipulare alleanze, si avanzano scenari improbabili o nuove proposte elettorali e istituzionali, si annunciano entrate in campo di inediti protagonisti. Tutto ciò sarebbe utile, se non avesse ancora una volta il maledetto sapore del tatticismo, del posizionamento contingente o in qualche caso della convenienza di parte o personale.
Nel complesso, tranne qualche eccezione, le grandi manovre appaiono assai poco consapevoli del vero e proprio dramma che l’Italia sta vivendo: la decomposizione del tessuto e della rappresentanza democratica, del sistema politico e delle istituzioni. Poco aiuta l’invettiva contro Grillo: è come voler curare la febbre rompendo il termometro. Anche la sinistra e il Pd continueranno a dare una sensazione di paralisi, di imbarazzo, se non
decideranno prima di tutto di intervenire in modo credibile su questa questione che non è stata per nulla risolta dal governo Monti, accolto da alcuni “pifferai”, anche di casa nostra, come una riedizione dei passaggi alti e fondanti della nostra democrazia, invece che come un’ulteriore sconfitta della politica, incapace di assumere provvedimenti sgradevoli ma obbligati per l’Italia. Mi permetto, in questo quadro, di segnalare alcuni punti.
1) Le elezioni amministrative vanno lette bene. Si sfasciano Pdl e Lega. La destra è allo sbando. Ma vincono l’astensionismo e la rabbia, quella nascosta e quella palese, con il voto ai grillini. La sinistra perde di meno. Conquista tante città. Ma il suo logoramento dentro ai vecchi schemi e contenitori è del tutto evidente. Tant’è che ogni qual volta emerge qualcosa di nuovo, tutta la sua impalcatura ufficiale entra in tensione. Nelle grandi città (Genova e Palermo), di nuovo, candidati alternativi a quelli del Pd stravincono. Nel cuore dell’Emilia Romagna, a Parma, si verifica una vera e propria ribellione elettorale che, secondo me, in quella regione è assai più diffusa di quanto si possa pensare. Quindi, va evitata una risposta trionfalistica, conservatrice e di chiusura ai risultati elettorali: buoni rispetto agli attuali eserciti in campo, ma assai precari se si considera che la battaglia si è svolta su un terreno friabile, che può rapidamente sprofondare.
2) Unire la sinistra è la premessa di un’alternativa credibile. Tuttavia mettere insieme Sel, Idv e Pd così come essi si presentano oggi appare un’operazione vecchia, poco espansiva, statica e verticistica. Il tema è infatti come questi tre partiti, superando egoismi, resistenze apparatizie e gelosie tra leadership, possano mettere a disposizione se stessi per unire il variegato, ricco e combattivo popolo democratico, aprendosi al dialogo anche con i ceti moderati. Alle elezioni non serve un’alleanza tra partiti, ma un campo unico e democratico del cambiamento che mescoli energie diverse unendole in una lista unica, aperta e rappresentativa, come è successo a Torino, Milano, Cagliari, Napoli, Genova e Palermo. Un processo impegnativo ma per nulla impossibile. Da costruire dal basso, con primarie non solo per i leader o gli eletti, ma anche i contenuti programmatici fondamentali. Questa impostazione è assai più ricca e credibile rispetto a quella (vedi Emiliano) di lasciare i partiti come stanno e organizzare a latere liste civiche imperniate sulle singole persone, e quindi inevitabilmente personalistiche. La nostra politica deve ridare spazio ai cittadini: di protagonisti solitari, credibili o meno, ne abbiamo fin troppi.
3) Questa lista dovrebbe avanzare proposte chiare sull’emergenza democratica. Prima di tutto di autoriforma della nostra parte politica: primarie aperte, nessuna eccezione sui mandati parlamentari, tranne che per i segretari dei partiti, impegno per costruire dopo le elezioni un soggetto politico unico del cambiamento che bandisca correnti, intercapedini burocratiche e che si fondi sulla libera responsabilità individuale degli iscritti, dentro pratiche di democrazia integrale che decidono programmi, dirigenti ed eletti. In secondo luogo, proposte per il Paese: nell’immediato una riforma elettorale (che sta naufragando per i reciproci rilanci tra destra e sinistra che mal nascondono la voglia di mantenere tutto com’è) sulla quale un accordo si era raggiunto. E poi riduzione dei parlamentari, con una
condivisa modifica costituzionale. Per la prospettiva, si può pensare di eleggere un’Assemblea costituente insieme al nuovo Parlamento, per mettere mano seriamente nella prossima legislatura al rinnovamento dell’impalcatura istituzionale, senza tabù e calcoli di partito. Svolgere le elezioni politiche nel quadro di un pressante impegno di tutti per cambiare la democrazia italiana sarebbe una prima vera risposta alla campagna in atto di protesta demagogica e distruttiva. Infine scelta netta da parte del campo democratico di battersi, nell’orizzonte europeo, per costruire gli Stati Uniti d’Europa e per l’elezione diretta del Presidente della Commissione europea.
Ogni punto avanzato andrebbe discusso ed approfondito. Ma il succo è chiaro: la nostra tenuta può essere una grande occasione o una trappola mortale. Se la interpretiamo come autosufficienza per presentarci con il vecchio volto e la vecchia sostanza, dentro l’alleanza dei tre partiti della sinistra così come essi si presentano oggi, rischiamo di perdere; di fronte ad avversari che non avendo più nulla da difendere potrebbero ancora una volta trovare vie, magari fatue e dannose ma accattivanti, in grado di interpretare la voglia di rottura con il passato che i cittadini italiani in tutti i modi ci stanno trasmettendo.

il Fatto 29.5.12
Il partito della Fiom
Il sindacato delle tute blu propone un patto a sinistra. E annuncia: se salta, corriamo da soli
di Luca Telese


La Fiom si mette a fare politica? Condiziona la politica? Le chiede di cambiare rotta? Si candida a commissariare la politica sui temi del lavoro? Si candida e basta? Da domani, c’è da giurarci, anche questa variabile entrerà come una bomba nel dibattito politico del paese aggiungendo un nodo di complessità (ma anche di ricchezza) alla tessitura del nuovo centrosinistra. Da domani, c’è da giurarci, se ne discuterà, se non altro perché - dopo un dibattito approfondito - il sindacato di Maurizio Landini ha deciso di rompere gli indugi e di muovere un primo passo che (consapevolmente) potrebbe fargli piovere sulla testa una grandinata di polemiche, ma che, ancora una volta, accenderà l'attenzione sui metalmeccanici della Cgil e sulle loro battaglie.
STA DI FATTO che da domani comincia il conto alla rovescia per un appuntamento che nell’ultimo mese è stato preparato da una serie di incontri riservati con tutti i principali leader di partito del centrosinistra, di cui - quasi incredibilmente - fino ad oggi non erano trapelate né la notizia né il contenuto. Sta di fatto che, il 9 giugno, a Roma, il gruppo dirigente della Fiom ha convocato a Roma Pierluigi Bersani, Antonio Di Pietro, Nichi Vendola, i movimenti, i sindaci progressisti. Non sarà una passeggiata per nessuno. E il dato clamoroso è che se non ottenesse quello che chiede, una parte del gruppo dirigente non esclude di promuovere un cartello elettorale.
Così, per capire quale sia la posta in palio bisogna tornare all’ultimo comitato centrale del sindacatone rosso, meno di un mese fa, quando Giorgio Airaudo, il numero due della Fiom costruisce uno slogan che riassume mesi di discussioni: “In questi anni abbiamo fatto una battaglia per difendere i diritti, e per questo sempre inseguiti dall’accusa di fare politica. Da oggi in poi, visto che le nostre battaglie non hanno trovato sponda - dice - dobbiamo puntare a inserire i diritti e il lavoro nell’agenda della politica. Dobbiamo fare politica, quindi, a viso aperto, perché il sindacato e i lavoratori non restino più soli”. Anche chi non conosce il lessico sindacalese si può rendere conto che il teorema Airaudo apre una strada a una piccola rivoluzione. Ma il fatto che nel parlamentino delle tute blu della Cgil nessuno quel giorno sollevi delle critiche, rende l’idea di quanto questa svolta sia maturata in profondità nell'ultimo anno. Lo scenario è quello delle battaglie legali, dei referendum nelle fabbriche, delle sentenze dei giudici disattese dalla Fiat, nel disinteresse pressoché generale dei dirigenti del centrosinistra. “Dobbiamo riscrivere la lista delle priorità - ama ripetere Landini - e i primi due punti più importanti si chiamano lavoro e diritti”. Insomma, un mantra. Quel giorno, nel comitato centrale non c’è più nemmeno Fausto Durante, leader dell'ala “Camussiana” della Fiom, la destra interna appena assurto ad un nuovo incarico confederale. Ma nessuno dei suoi eredi solleva dubbi. Anche quelli abituati al gioco delle parti fra il gatto e la volpe, a cui Landini e Airaudo si sono specializzati in questi anni, restano stupiti quando Landini conclude dando la linea: “Dobbiamo costruire una iniziativa forte attorno alla Fiom che abbia un peso sulla politica”. Come, e in che modo?
In realtà, dal referendum Fiat fino al convegno di Monte Silvano Landini si sta arrovellando intorno a questa domanda. La prima formula a cui la Fiom ha pensato è quella di un “Patto su lavoro e diritti” da proporre a tutti i candidati del centrosinistra nessuno escluso. Una sorta di bollino di garanzia certificato dal sindacato, o - se volete un modello - un remake sociale di quello che fu il patto Segni nel 1993. Al posto dei vincoli sulla riforma elettorale, la Fiom vuole organizzare un impegno su questi temi: 1) La riscrittura della riforma previdenziale sui lavori usuranti e sul riconoscimento differenziato della fatica del lavoro 2) Un pacchetto di leggi per il riconoscimento della democrazia sindacale 3) Una legge sui precari 4) La modulazione di un salario di cittadinanza 5) Un impegno del governo a sostenere un piano strategico sulle politiche industriali.
LA PRIMA NOTIZIA è che nessuno dei leader ha rifiutato l’invito o ha pronunciato un ‘no’ preliminare. Anzi, il leader che potrebbe avere qualche problema alla sua “ala destra”, a sottoscrivere il patto - Bersani - non ha chiuso nessuna porta. Anzi, ha detto: “Ci sarò”. La seconda è che la sortita Vendola-Di Pietro con l'ultimatum al Pd forse avviene anche perché in questo scenario complesso sono molti i protagonisti che si muovono. Non è un caso che Landini e Airaudo abbiano incontrato anche il gruppo dei professori de l’Alba (la Fiom era presente all'assemblea fondativa con il suo numero due) e il gruppo di MicroMega di Flores D’Arcais. L’incontro con Vendola, fra l'altro è avvenuto subito dopo il primo turno delle elezioni francesi. Dove gli uomini della Fiom hanno osservato con molta attenzione il risultato di Jean Luc Melenchon, che con il suo Front de Gauche ha ottenuto un risulto a due cifre (federando tutte le sinistre radicali) e riuscendo nel risultato politico, per loro ancora più importante, di spostare “a sinistra” il baricentro della campagna di Francois Hollande. Infine il rischio: con questa iniziativa la Fiom bypassa anche la Cgil della Camusso. Un leader storico delle tute blu come Gianni Rinaldini, ascoltatissimo padre politico di Landini, non nasconde la sua visione, molto critica sulle scelte di corso Italia: “La Cgil avrà motivo per interrogarsi sui suoi rapporti di subalternità ai partiti. Vedo grande agitazione e slogan - osserva l'ex numero uno della Fiom - ma un sindacato che alla fine ratifica le mediazioni della maggioranza”. Anche Rinaldini sogna un ruolo propositivo: “Nel mondo dove la sinistra funziona i sindacati fanno questo: pensate al Brasile, dove nel Pt questo schema ha funzionato, eccome”. Già. Perché nella Fiom, e nei movimenti che ha aggregato, sono molti a credere che Landini possa essere un nuovo Lula. Magari anche nelle prossime elezioni.

Corriere 29.5.12
Di Pietro avvisa il Pd: attenti, senza noi e Sel si perde
«I nostri elettori non sono scartine. In tanti casi i vincenti non erano vostri»
di Monica Guerzoni


ROMA — «La sagoma di Bersani in tv, a La7? Non ce l'abbiamo messa io e Vendola, né siamo stati noi a richiederla».
Il segretario del Pd ha trovato la cosa di cattivo gusto.
«Noi invece ci saremmo aspettati di trovare lui su quella sedia, in carne e ossa...».
Per Antonio Di Pietro il tempo sta scadendo. Il presidente dell'Idv non vorrebbe polemizzare con il leader dei Democratici, ma ha fretta di gettare le fondamenta del centrosinistra e siglare un accordo di governo per il 2013. E se oggi Bersani deciderà di sfilarsi dalla cosiddetta «foto di Vasto» dovrà vedersela — avverte Di Pietro — con gli elettori del centrosinistra.
Oggi, alla direzione del Pd, il segretario dirà probabilmente di no alla proposta di lanciare gli stati generali del centrosinistra.
«Se dice no, non muore nessuno. L'importante è saperlo. Ci auguriamo da Bersani una parola definitiva, perché la politica è fatta anche di credibilità e di tempestività. Non si può pensare di fare una coalizione all'ultimo momento, magari come risultante di altre aspettative non riuscite. È un po' come pensare di sposarsi con la prima che passa perché non sei riuscito a trovare di meglio».
La data del matrimonio è già fissata.
«Appunto, le elezioni politiche ci saranno al massimo nella primavera del 2013 e gli italiani hanno diritto di sapere chi si presenterà davanti all'altare».
E se la risposta di Bersani non arriva?
«Saranno i cittadini a punire chi non si dovesse mostrare all'altezza della situazione. Noi sappiamo per certo che gli elettori dell'Idv, di Sel e del Pd riconoscono questa coalizione come l'unica possibile, l'unica in grado di rappresentare il ceppo portante dell'alternativa di governo. E anche sul piano matematico i numeri ci danno ragione».
Ha messo in conto l'ipotesi che il Pd non voglia allearsi con l'Idv?
«Vorrei ricordare a Bersani che non c'è solo il Pd e che gli elettori non sono di proprietà dei partiti. Gli italiani hanno dimostrato di saper scegliere da soli, a prescindere da formule e sigle. I dirigenti del Pd hanno dimenticato che a Parma, Palermo e prima ancora a Milano, Genova, Napoli, Cagliari e in mille altri posti è stato possibile sconfiggere le destre con una candidatura che non era del Pd?».
Non hanno dimenticato, no.
«In tutte quelle città la guida è stata assunta da una personalità che nulla aveva a che fare col Pd. E in alcuni casi, come Orlando a Palermo e de Magistris a Napoli, era addirittura alternativa. Risultati alla mano noi non abbiamo bisogno di supplicare Bersani di stare con noi, chiediamo solo di sapere cosa intenda fare. Un'alleanza non si può costruire il giorno dopo le elezioni. Il rischio è arrivare tardi e io non ci sto ad accasarmi solo in via residuale. Gli elettori dell'Idv non sono delle scartine».
Lei e Vendola avete lanciato un ultimatum, ma Bersani non sembra essersi spaventato troppo.
«È una parola che non abbiamo mai usato e che non intendiamo usare. Certamente andremo avanti da soli, ma non in contrapposizione con il Pd. Andremo avanti specificando le nostre proposte anche agli elettori del Pd, attraverso iniziative politiche e un cantiere programmatico aperto anche alle realtà che non erano presenti l'anno scorso a Vasto».
Gentiloni ha detto che la foto di Vasto è un déjà vu...
«Noi non intendiamo racchiuderci nella foto di Vasto. Vogliamo aprirci alla società civile, ai movimenti di Grillo, alle liste dei sindaci. Vogliamo favorire il ricambio della classe politica a partire dalle primarie».
Primarie a prescindere dal Pd?
«L'assemblea di Vasto, convocata per il 22 e 23 settembre, e il cantiere programmatico di Vendola, sono prodromici alle primarie. Prima bisogna definire la coalizione. Anche perché, se si cambia la legge elettorale e si fa il doppio turno, le primarie diventano un controsenso».
Renzi scenderà in campo. Chi vincerà tra lui e Bersani?
«Non lo so e non mi interessa. Renzi non lo conosco. Con Bersani invece ho lavorato al governo e so che è una persona migliore di quanto appaia».
Grillo intanto continua a crescere nei sondaggi...
«Noi prima e più di lui ci siamo opposti al governo Monti, facendo sentire la voce della gente stanca e disperata. A Grillo dico: "Beppe, se tu continui a raccontare la falsità che i politici sono tutti uguali finisci per spezzare il movimento di opposizione, col rischio che vinca chi ci ha portato al disastro"».
È un appello?
«Conosco Grillo e so che non farà mai fronte comune, per questo mi rivolgo al suo potenziale elettorato. L'unione fa la forza, anche l'unione dei deboli e degli arrabbiati».

Repubblica 29.5.12
Oggi anche il sindaco di Firenze alla direzione. Sul tavolo primarie, alleanze e Pd, in direzione rinnovatori alla carica
Bersani a Renzi: dai giovani più umiltà
di Giovanna Casadio


ROMA - Dall´ultima direzione Pd a cui ha partecipato è passato quasi un anno, ma Renzi fa sapere che oggi ci sarà, «impegni istituzionali da sindaco di Firenze permettendo». Ad attendere "il rottamatore" nella riunione al Nazareno ci sono i trenta/quarantenni che hanno preparato un documento da mettere ai voti. I "rinnovatori" alla carica. Dopo le amministrative, dopo il boom di Grillo e gli ultimatum di Vendola e Di Pietro, chiedono al segretario tre cose: in autunno primarie per il candidato premier e per la scelta dei parlamentari («Tanto la riforma elettorale chissà dove finirà») e rendere perentoria la regola dei tre mandati parlamentari. Chi li ha superati - Veltroni e D´Alema, ad esempio - a casa. Il documento ha l´adesione di Pippo Civati, di Sandro Gozi, di Paola Concia, di Ivan Scalfarotto (con alcuni distinguo), di Andrea Sarubbi, ma tenta molti altri piddì. Ricambio, apertura, rinnovamento e primarie sono le parole d´ordine che girano nel dibattito sul web, attorno al post di Civati dal titolo "In direzione (ostinata e contraria)" .
Per Bersani non sarà una giornata facile. L´aut aut sull´alleanza politica che gli hanno posto Vendola e Di Pietro (e la frenata speculare che gli chiede Casini) ha sortito un unico effetto: il segretario democratico prende tempo. Per cominciare, non gli è piaciuta la sagoma di cartone che lo ritraeva, nel dibattito tv durante "In Onda", tra Nichi e Tonino: «Il buongusto è facoltativo, non è obbligatorio», è la frecciata. Però la crisi italiana è talmente seria, lo spettro della Grecia, la difficoltà della crescita sono tali, da non consentire di perdersi in provocazioni. Ma c´è una battuta per Renzi da parte del leader Pd: sia più umile. «Lo diciamo a qualcuno dei nostri tra i più giovani: non sprecare i tuoi talenti, mettici un po´ di umiltà al servizio della collettività».
Oggi Bersani parlerà di alleanze, cioè di come intende riorganizzare il campo del centrosinistra («L´offerta politica va aggiornata»), con un Patto democratico che raduni progressisti, moderati, liste civiche e che abbia il Pd alla guida. Una lista civica d´appoggio è all´orizzonte? di certo non piace al dalemiano Matteo Orfini e neppure a Stefano Fassina, che pensa al metodo MeetUp per svecchiare il partito, Grillo docet. «Ci sarà la direzione e dopo comunicheremo le decisioni», si è limitato a replicare ieri Bersani a proposito di alleanze. Ma il leit motiv del segretario sarà il seguente: nel tempo dell´antipolitica, i politicismi non hanno alcun appeal.
Sul tavolo della direzione anche l´offerta di Berlusconi di scambiare il semi-presidenzialismo con la riforma elettorale a doppio turno, che sta a cuore al Pd . I veltroniani ritengono che, per non restare con il cerino in mano, bisognerebbe andare a vedere. Ma lo stesso Veltroni frena: «Fermo restando che il merito risponde alle esigenze vere di governabilità del paese, il rischio bluff è altissimo e può servire a non cambiare nulla. Berlusconi è un ostacolo a qualunque accordo serio. Se il Pdl avesse voluto fare sul serio, avrebbe preso contatti con le altre forze politiche non convocato una conferenza stampa con Berlusconi».Tuttavia stamani al centro della riunione democratica (forse a porte aperte, dopo che la precedente direzione a porte chiuse era stata un delirio di tweet), c´è il ricambio dei dirigenti, le primarie a cui lo stesso Bersani dovrebbe sottoporsi dopo averle vinte nel 2009. «Da allora è passata un´era - afferma Renzi - Grillo vince perché sbagliamo noi». Di rinnovamento si è già parlato ieri sera nella riunione di Areadem, la corrente di Franceschini. «Il ricambio deve avere spazio, non si può ignorare», ammette Antonello Giacomelli.

Repubblica 29.5.12
La motivazione del proscioglimento dell´ex capo della Polizia dall´accusa di falsa testimonianza sui fatti del G8
Cassazione: alla Diaz violenza inusitata contro De Gennaro non ci sono prove
Critiche dei giudici alla deposizione del vicecapo della polizia, il prefetto Andreassi
di Marco Preve


GENOVA - «Violenza inusitata» e «inqualificabili violenze sugli occupanti», ma anche «nessuna prova contro Gianni De Gennaro» nonché «sommarietà valutativa e palesi lacune» nella sentenza di secondo grado che condannava l´ex capo della polizia, oggi sottosegretario, per il reato di istigazione alla falsa testimonianza.
Sono alcuni dei passaggi contenuti nelle motivazioni con cui la Cassazione ha assolto il prefetto De Gennaro cancellando la condanna a un anno e due mesi (assieme all´ex capo della Digos Spartaco Mortola, anche lui prosciolto) della Corte d´Appello di Genova. Ma a leggere bene le 36 pagine si nota come la Suprema Corte si sia spinta oltre il caso che riguarda De Gennaro soffermandosi diffusamente sia sull´irruzione alla scuola Diaz, vicenda sulla quale di nuovo la dovrà esprimersi a metà giugno, e poi sindacando sulle dichiarazioni di un teste eccellente. De Gennaro e Mortola erano accusati di aver convinto l´ex questore di Genova del G8, Francesco Colucci, a dire il falso durante la deposizione al processo per la notte cilena del 2001.
I giudici ritengono che il cambio di versione di Colucci non sia stato suggerito da De Gennaro con il quale il questore ebbe un colloquio telefonico prima dell´udienza. Un «contegno» quello di Colucci «che entrambe le sentenze di merito giudicano senz´altro inopportuno per essersi manifestato in un contatto concernente l´esame testimoniale di un teste... ma che è privo di autonomo rilievo penale». Colucci è ancora sotto processo a Genova in attesa di sentenza di primo grado.
La Cassazione poi dedica molte pagine alla ricostruzione dell´antefatto, ovvero lo sciagurato blitz nella scuola dormitorio del G8. E seppur stigmatizzando le violenze e i falsi come l´introduzione da parte della polizia delle bottiglie molotov, si insinua in una vicenda sulla quale proprio la Cassazione deve ancora pronunciare la parola fine. Per altro, in questa ricostruzione viene dato spazio alle brutalità poliziesche ma assai meno alle responsabilità gerarchiche e a i comportamenti omertosi successivi.
Altro passaggio rilevante quando la Corte critica le dichiarazioni di un testimone che era il vicecapo della polizia, il prefetto Ansoino Andreassi. L´argomento affrontato riguarda l´oggetto della presunta falsa testimonianza, ovvero chi la notte della Diaz inviò sul posto Roberto Sgalla capo ufficio stampa della polizia? In un primo tempo Colucci disse che fu De Gennaro e per la corte d´Appello era la dimostrazione che la polizia voleva gestire mediaticamente la disastrosa operazione per manipolare l´informazione. Colucci successivamente disse che fu lui a chiamare Sgalla. Andreassi, a verbale, sostenne che ciò fosse improbabile. Ma la Corte quasi lo rimbrotta definendo la sua deposizione: «... generica indicazione del Prefetto Andreassi».

Repubblica 29.5.12
Perché serve un altro New Deal
di Nadia Urbinati


Il dramma della Grecia – poiché la vita quotidiana dei greci è drammatica – rappresenta una prova evidente della crisi di questa Europa. Crisi di ispirazione e di guida, di leadership e di competenza. Ma fino a quando non si manifesta con esplicita chiarezza un´altra visione di come l´Europa dovrebbe essere, questa crisi non potrà che avere solo e soltanto esiti drammatici. Eppure l´Europa è nata come progetto di pace nella libertà e si è consolidata come un progetto di democrazia sociale. Ed è a questa Europa che i leader politici nazionali dovrebbero rilanciare se vogliono sollevare le loro popolazioni da una politica di sacrifici senza scopo se non l´abbassamento dello spread.
Il bisogno di immaginare una nuova strada dove sicurezza sociale e libertà riprendano a marciare insieme è essenziale. Senza giri di parole, dopo la vittoria di Hollande e le sconfitte elettorali del partito della Cancelliera tedesca, un nuovo New Deal sembra meno utopistico oggi di quanto non lo fosse qualche mese e perfino poche settimane fa. Dalla crisi può nascere qualcosa di buono e forse sono proprio i Paesi più in difficoltà che possono più contribuire a imporre un´altra direzione politica del continente. Ma l´opinione pubblica e i governi non sembrano purtroppo parlare la stessa lingua.
L´opinione pubblica degli Stati membri è sempre più convinta che i governi debbano riprendere in mano la progettualità economica e soprattutto togliere alla agenzie private di rating il potere arbitrario della reputazione (e della sfiducia). Invece i governi sembrano meno entusiasti dell´opinione dei loro Paesi, ma non c´è chi non veda che è nel loro interesse riaffermare l´orgoglio della politica come fece il governo federale americano quando negli anni ´30 e ´40 del ventesimo secolo lanciò una campagna poco tenera contro i "grandi papaveri della finanza".
Il bisogno di un nuovo New Deal (molto bene argomento da Luciano Gallino su questo giornale) pare far breccia nell´opinione pubblica del vecchio continente, costringendo governi poco immaginativi a rivedere la loro tradizionale percezione della politica europea come non-politica o, al massimo, politica-cerotto. Di fronte al bivio di perire (poiché la sconfitta europea in Grecia può essere la premessa di un fallimento ben più radicale) o riprendere il filo interrotto della costituzione politica dell´Unione, è probabile che la necessità riesca a fare ciò che la volontà è stata fin qui incapace di fare: dare corpo al progetto di un´Europa politica democratica. Riprendere in mano il progetto federativo, a partire dal Trattato di Lisbona e rivedere radicalmente quello che eufemisticamente è stato battezzato come "patto di stabilità".
Dove ispirarsi se non agli anni Trenta in America, dove la distruzione fu come oggi in Europa causata non dalla guerra ma dalla mancanza di regole e di governo dell´economia. Allora, negli Usa la depressione causò migliaia di suicidi, con una disoccupazione che in due anni passò dal 6% al 25% per cento, e con uno stato federale ostaggio del dogma del liberalismo agnostico e anti-governativo. L´emergenza fu domata con la politica non della contingenza e dell´eccezione ma della progettualità sociale. Nacque così la democrazia che è a noi familiare.
New Deal vuol dire "nuovo patto" fra il governo e i cittadini. Quando venne messo in cantiere, in due fasi tra il 1933 e il 1938, non c´era ancora la guerra ma la distruzione del sogno americano era già iniziata da qualche anno. Il grande presidente Franklin Delano Roosevelt comprese e fece comprendere ai suoi concittadini che c´era un solo modo per rispondere all´emergenza: diventando più, non meno democratici. In Europa, che era già sotto il tallone dei totalitarismi, a comprendere prima degli altri questa sfida furono i liberalsocialisti italiani. In articoli illuminanti Carlo Rosselli e alcuni collaboratori dei "Quaderni di Giustizia e Libertà", che si stampavano clandestini a Parigi, mettevano negli anni ´30 nero su bianco i criteri che dopo la guerra avrebbero consentito ai Paesi europei di ricostruirsi su basi democratiche: primo fra tutti la responsabilità del governo di garantire la sicurezza e la libertà.
Dove per sicurezza si intendeva non semplicemente quella fisica e per libertà non solo quella privata. Tre libertà furono messe in campo da quei visionari: quella politica, quella civile, e quella economica o sociale. Per far sì che queste tre libertà operassero insieme essi compresero che occorreva garantire tre sicurezze: l´azione del governo, la responsabilità dei cittadini, le garanzie di sicurezza economica o del lavoro. Il problema che si era posto il presidente Roosevelt era di fare interagire queste tre libertà e queste tre sicurezze, usando le istituzioni politiche non come guardiani agnostici. La strategia fu una sinergia federativa, della politica e della società.
L´esito del New Deal, un programma non tanto di incentivi all´occupazione ma di creazione di lavoro (per infrastrutture soprattutto, ma non solo) da parte del governo, fu l´opposto di quel che i suoi nemici liberisti temevano: non uno Stato tirannico ma uno Stato democratico. E in effetti, Roosevelt dovette convincere i suoi concittadini che egli non aveva alcuna intenzione di diventare un dittatore, che guidare uno stato non-interventista non era la stessa cosa che dar vita al fascismo. E così pure Rosselli, che proprio in quegli anni chiarì la differenza tra Stato democratico che interviene nell´economia e dittatura o totalitarismo.
Di qua e di là dell´Oceano (benché in diversissime condizioni) venne messo in quegli anni in piedi l´architrave di una concezione bipolare del liberalismo: uno non-interventista e indifferente alla democrazia, e uno sociale e naturale alleato della democrazia. La differenza stava proprio nel modo di interpretare la libertà. E la domanda che pose Roosevelt era molto ben posta ai liberali del primo tipo: siamo sicuri perché siamo liberi o siamo liberi perché siamo sicuri? Che cosa deve fare un governo democratico perché la sicurezza della libertà dei suoi cittadini sia vissuta, non solo sancita?
Nella repubblica federale americana, l´esito della grande depressione fu l´irrobustimento della democrazia e il rafforzamento della solidarietà: la realizzazione di quella "più perfetta unione" enunciata nella Dichiarazione di Indipendenza. L´esito fu la reinterpretazione del liberalismo come "libertà dalla paura" non dello Stato, ma dell´irresponsabilità degli interessi dei pochi a scapito dell´interesse generale. Salvare la democrazia dal collasso del capitalismo senza regole fu la scommessa vinta dal primo New Deal, l´architrave della nostra democrazia. È ragionevole pensare che la rinascita della legittimità democratica in Europa richieda un nuovo New Deal.

Repubblica 29.5.12
Cosa fare "dopo", un´exit strategy per le vittime
La gran parte dei maltrattamenti e degli stupri avviene in famiglia o per opera di conoscenti
Solo nel 4 per cento dei casi scatta la denuncia
Dai Centri antiabusi alle sedute con gli esperti fino al supporto legale e psicologico:
ecco come aiutare le vittime ad affrontare il trauma
di Caterina Pasolini


Il numero 1522 e la rete dei Centri forniscono assistenza in caso di emergenza ma anche consulenza psicologica e legale E se è necessario anche un alloggio

Aiutare a trovare le parole, per dire l´indicibile. Per raccontare la brutalità e la vergogna, e superare quell´assurdo senso di colpa che spesso la prende, neanche fosse stata lei a volere quelle attenzioni pesanti, come se non si fosse difesa abbastanza dalla violenza e dalle botte. Parole pensieri da mettere in ordine per ricominciare, per ricostruirsi sfuggendo a depressione e ansia, per rimettere assieme i frammenti di una vita, di un´anima segnata dalla violenza, dallo stupro di chi, troppo spesso, conosce e ama.
Ogni anno in tutta Italia più di 250 donne denunciano violenze sessuali, ma solo al Centro antiviolenza della clinica ginecologica Mangiagalli di Milano, il primo pubblico nato nel ´96, ne visitano 600. Perché la verità è una: solo il 4 per cento, dicono le stime, arriva a denunciare chi l´ha violata, picchiata, abusata. L´Istat descrive una realtà agghiacciante: in Italia le donne tra i 17 e i 70 anni vittime di violenza sono 6 milioni 743 mila. Di queste 5 milioni sono vittime di violenza sessuale. Un milione di donne ha subito uno stupro.
Un esercito silenzioso in lotta per ricostruirsi una vita. Ma non ci sono ricette standard, non ci sono schemi, certezze, soluzioni facili e immediate, dicono gli esperti. Ogni donna ha la sua storia, i suoi tempi di elaborazione e il suo passato, ogni stupro ha sue origini, le sue devastanti modalità. E la visita medica (importante non lavarsi perche il prelievo del dna può incastrare l´aggressore) è solo il primo passo, le cure fisiche la cosa più semplice. Poi, tornate fuori, nel mondo, un punto fondamentale di appoggio sono i Centri antiviolenza (telefono 1522) che ogni anno accolgono 14mila donne, dove si può trovare ascolto, gruppi di autoaiuto con donne che hanno vissuto lo stesso inferno, consulenza psicologica e legale ma anche un tetto quando c´è bisogno di un rifugio e per sopravvivere bisogna andarsene di casa.
Perché chi stupra e picchia, è nella maggior parte dei casi, ben il 70%, il marito, il fidanzato, un ex, un amico, un parente. Per questo aiutare chi ha subito violenza è difficile, complesso, dice Alessandra Kustermann, responsabile del Pronto soccorso violenza sessuale e domestica della clinica ginecologica Mangiagalli a Milano: «Molte non considerano infatti stupro se è il marito il fidanzato a farlo». Ed è proprio in questo ospedale, dove lavorano 6 psicologhe e 4 assistenti sociali che vengono accolte le donne violentate, maltrattate. Dopo la visita medica le psicologhe cercano di fare una terapia immediata per aiutare a superare lo shock, la paura. Per tutte ci sono poi garantite 6-10 sedute per cercare di elaborare il trauma, e terapie più lunghe, anche di tre anni, sono garantire dalla Onlus Cerchi d´acqua. Un modello elaborato negli anni per stare giorno dopo giorno accanto alle donne. A quelle che decidono di denunciare viene poi offerto il patrocinio legale gratuito mentre chi ha bisogno di fuggire dal compagno che abusa trova un tetto alla Casa delle donne maltrattate o alla Caritas.
Le donne che subiscono violenza hanno reazioni diverse tra loro, in alcuni casi reagiscono nell´immediato, in altri invece possono rimuovere il fatto per molto tempo. Sono in preda alla confusione, shock, vittime di ansia o smarrimento, paura o depressione. «Così un modo per salvaguardarsi da tanto orrore, è quello di negare a se stesse l´accaduto o minimizzare l´esperienza vissuta, questo succede frequentemente quando l´aggressore è un conoscente». Ana Maria Galarreta Echegaray, lavora alla fondazione Pangea che da anni si impegna a sostenere alcuni dei numerosi centri anti violenza sparsi per l´Italia (la rete si chiama A. D. I. R. E), non ha dubbi: se la donna non se la sente ancora di raccontare, ci vuole, tempo, pazienza, ascolto. Senza mai forzare, Rispettando scelte e volontà di chi ha subito. Il suo bene lo può decidere solo lei.
Una cosa però è certa. Dopo, uscita dall´ospedale, quando le ferite del corpo saranno rimarginate e apparentemente tutto sarà come prima, comincerà il momento più difficile e complicato. Il lungo cammino per ritrovare fiducia in se stessi e negli altri. «Perché lo stupro è uno di quei reati che coinvolge tutta la persona, il suo rapporto col corpo, la fiducia nel mondo. E per aiutarle e aiutare chi sta vicino a loro in questo cammino, il Centro antiviolenza di Bologna ha pubblicato un vademecum, una sorta di decalogo sottolineando come «bisogna avere tempo e disponibilità all´ascolto, dire alla vittima chiaramente che si crede al suo racconto. Mai dare giudizi, e soprattutto ripeterle che non c´è nessuna giustificazione alla violenza e qualsiasi cosa abbia fatto non è colpa sua. Facendole capire che è lei l´attrice della sua vita, della sua felicità. E che potrà farcela».

Repubblica 29.5.12
I disturbi e la sofferenza, come affrontare il trauma con la psicoterapia
Le ferite che passano e quelle con cui convivere
L’approccio sensomotorio, la mindfulness e l’Emdr sembrano i più efficaci
di Francesco Cro
, Psichiatra, Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, Viterbo

La violenza subita lascia tracce profonde nel corpo e nella mente. Disturbi psichici di vario tipo, insonnia, incubi e flashback ricorrenti, depressione, insicurezza e incapacità di affrontare la situazione sono alcuni dei sintomi più frequenti nelle donne vittime di violenze, che rappresentano purtroppo una larga parte della popolazione femminile. Secondo l´Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, una donna su tre è, o è stata, vittima di violenza da parte di un partner o di un ex partner. Gli stereotipi culturali impediscono alle vittime di chiedere aiuto: la paura delle rappresaglie, la vergogna di mostrare il lato oscuro o il fallimento della propria unione coniugale, il senso di colpa interiorizzato sono solo alcuni dei vissuti emotivi "paralizzanti". A questo si aggiungono spesso la dipendenza economica dal partner e la perdita di ogni riconoscimento sociale in caso di separazione.
Un efficace programma di prevenzione dovrebbe agire sui determinanti culturali della violenza "di genere", facilitando il monitoraggio del fenomeno, coinvolgendo i servizi sociosanitari e le famiglie e mantenendo l´attenzione alle politiche sociali. L´istruzione delle donne e l´indipendenza economica appaiono cruciali per non cadere vittima dell´uomo con cui ci si trova a condividere la vita. Vanno inoltre combattute le forme contemporanee di sessismo, come la discriminazione negli ambienti accademici, segnalata da Bonita London, docente di Psicologia Sociale alla Stony Brook University di New York, o la crescente diffusione della violenza sulle donne nei videogiochi, sottolineata da Victoria Simpson Beck, del Programma di Giustizia Criminale dell´Università del Wisconsin. Le persone che vengono in contatto con donne vittimizzate devono avvicinarsi a esse con cautela e senza spaventarle; quando le violenze subite hanno un impatto significativo sulla salute psicofisica è necessario rivolgersi a specialisti psicologi o psichiatri. Le psicoterapie focalizzate sul trauma e, in alcuni casi, un trattamento con antidepressivi, possono aiutare le pazienti ad affrontare un´esperienza altrimenti molto difficile da elaborare. Gli approcci psicoterapeutici più efficaci, come la psicoterapia sensomotoria, elaborata dalla psicologa statunitense Pat Ogden, le terapie basate sulla mindfulness (consapevolezza non giudicante) e la "desensibilizzazione oculare" (Emdr), che si propone di rielaborare le esperienze traumatiche attraverso i movimenti oculari, sono centrati, sia sull´analisi degli aspetti psicologici ed emotivi del trauma, che sul corpo, oggetto della violenza. Rivivere le sensazioni fisiche provate in quel momento, nel contesto sicuro di una relazione terapeutica, aiuta a sviluppare la consapevolezza di come le reazioni corporee alle esperienze passate continuino a influenzare il presente e a mantenere la sofferenza emotiva. Si può superare il trauma anche in pochi mesi, anche se a un livello più profondo alcune ferite non si dimenticano.

l’Unità 29.5.12
Anche la Chiesa soffre della crisi di classi dirigenti
di Emma Fattorini


C’È CHI, IN QUESTE ORE, SI COMPIACE DI QUELLA CHE IN VATICANO CHIAMANO ORMAI VACATIO PRINCIPIS E CHI SI ADDOLORA NEL VEDERE UMILIATA LA PERSONA DEL PONTEFICE e con lui mortificata la Chiesa che sarà certo ben altro da quella rappresentata dalle sue gerarchie ma che pure, non fosse altro che per il senso comune, continua a mantenere un rapporto con esse.
C’è chi in questo bailamme ricostruisce più o meno maldestramente la storia dei Papi per concludere che delatori e spie, invidiosi e ambiziosi, mediocri e profittatori hanno sempre abitato i sacri palazzi e chi, invece, libri alla mano, sostiene che almeno nel Novecento non si era mai vista una cosa del genere. C’è chi, insomma, pensa che, per quanto destabilizzanti, si tratti pur sempre di fibrillazioni e chi invece vede in esse una crisi sistemica molto profonda che non si spiega solo con la mancata riforma della curia e con la promozione di «personale» sempre più modesto e di poco spessore.
Nessuna fine del potere temporale del papato potrà mai abolire il fatto che nella Chiesa cattolica e apostolica romana l’istituzione del papato eserciti un potere e implichi un governo. Chi lo auspica non sa di cosa parla. Certo se ne può valere con più o meno autorevolezza e forza, debolezza e arbitrio, delegando molto al suo segretario di Stato o centralizzando le decisioni come fu per Pio XI verso Pacelli o per Pio XII verso quelli che volle fossero, come egli ebbe a dire, solo esecutori e non collaboratori e rimanendo così, in qualche modo segretario di Stato di sé stesso. Insomma la storia dei rapporti di vertici della Chiesa novecentesca è sempre stata molto intricata, poco pacifica, ma mai penosa.
E ciò che ha reso davvero la lotta di potere di una qualità e natura «diversa» è sempre stata la sua capacità a farsi «trasparente al soprannaturale» in modo che proprio ai massimi vertici dell’istituzione fosse più evidente lo sforzo di fare parlare la fede e non la convenienza, la voce di Dio e non la furbizia. E il fatto che ciò non riguardasse solo il Papa, come nel caso della fede profonda di Ratzinger, ma i vertici tutti. Le vere discontinuità sistemiche, significative anche da un punto di vista storico si addensano tutte in questa tensione tra potere, governo e profezia. E invece sulla curia più che lo Spirito Santo sembra soffiare quello spirito del tempo, che oggi non è affatto buono e non ci consegna quei segni dei quali Giovanni XXIII auspicava si mettesse in ascolto il popolo di Dio.
Sempre in questi giorni sentiamo ripetere da tutte le parti che l’eccessiva ingerenza delle gerarchie nella politica fa malissimo alla Chiesa (e alla politica, secondo la sempre troppo poco ascoltata lezione di Luigi Sturzo). È naturalmente sacrosanto, anche se è un’ammissione che avviene un po’ in ritardo. Ma anche in questo caso potere e politica in che senso vanno intese?
Dopo Napoleone i traumi sono serviti. Hanno fatto bene alla Chiesa. Il cardinale Montini nel 1962 aveva giudicato provvidenziale per la Chiesa la fine del suo potere temporale. Eppure il futuro Paolo VI fu il Papa più politico del Novecento nel senso di una politica che non voleva tradisse il messaggio spirituale che avrebbe dovuto veicolare. E quanto soffrì per questo. Nel Novecento i conflitti sono stati fortissimi, le differenze di personalità non di meno, tra pontefici ed esponenti di primo piano della curia: pensiamo solo a personalità come Pio XI e un Pacelli o a Giovanni XXIII e un Tardini. Scontri molto duri vissuti però nella completa e radicale lealtà, mai fine a sé stessi, perché i contenuti erano più importanti delle lotte di potere e delle cordate. E questo era possibile perché la qualità, la statura e lo spessore delle persone era altissimo, qualunque fossero le posizioni che esse esprimevano. Sì, è ancora una volta una questione di persone. Anche la Chiesa risente di quella crisi delle «classi dirigenti» che segna in modo così devastante tutte le èlite del nostro Paese.

l’Unità 29.5.12
«Ci sono componenti tradizionaliste che vogliono colpire il Concilio»
Gian Luca Potestà, storico del cristianesimo: «Per la prima volta cade il velo di mistero: dietro c’è il problema del confronto con la modernità»
intervista di Cristoforo Boni


«Da tempo è diffusa l’impressione di uno stato di insoddisfazione esteso e profondo nella curia romana. In ogni istituzione ci sono motivi di insoddisfazione. Un principio elementare di governo esigerebbe che le criticità vengano per quanto possibile superate, e che le insoddisfazioni insanabili restino confinate nei rispettivi ambiti. Ora le paratie in Vaticano si sono infrante, e la diffusione di documenti riservati mostra la portata generale dei contrasti e delle recriminazioni: conflitti di competenza tra cardinali e cardinali, fra gendarmeria e guardie svizzere, scontri e paralisi fin negli uffici numismatici e filatelici del Vaticano». Chi parla è Gian Luca Potestà, docente di Storia del cristianesimo all’Università cattolica di Milano.
Secondo lei, chi ha diffuso questi documenti lo ha fatto per screditare il Papa, mostrando la sua distanza dall’esercizio effettivo del governo?
«Non ne sarei così certo. E, nel caso, il risultato non mi pare raggiunto. Secondo una tradizione ecclesiastica affermatasi fin dall’Alto Medioevo, il Papa ha una funzione di arbitro supremo tra i confltti intraecclesiastici, è l’ultima istanza cui ci si può appellare nella Chiesa. Quindi, nessuna meraviglia che a lui giungano continui appelli a rimettere le cose a posto, come si rileva dai documenti pubblicati. E a quanto pare Benedetto XVI prende in conside-
razione richieste e lamentele, si documenta, cerca di mediare tra soggetti a volte aspramente contrapposti». Quanto è dirompente nella vita della Chiesa la novità a cui stiamo assistendo? «La novità sta nella violazione del segreto sistematica, non sporadica e occasionale, come fu invece nel caso della pubblicazione delle foto di Pio XII morente scattate dal suo medico. Più di ogni altra istituzione umana, la Chiesa romana vive, per costituzione propria e per antica tradizione, in una dimensione di mistero, permanentemente sospesa tra il visibile e l’invisibile. Ora questo velo è caduto, perché un muro di riservatezza e di fedeltà è venuto meno. L’interesse planetario per la questione del responsabile, o dei responsabili, della fuga di notizie nasce proprio dalla convinzione quasi atavica che sia stato violato lo spazio più sacro, il sancta sanctorum del cattolicesimo».
Lei ritiene che ci sia stata una forma di manipolazione?
«Non direi. I falsi sono comparsi precedentemente lungo altri canali. Penso al testo con cui tre mesi fa un cardinale di curia denunciò al Papa che lo scorso anno un altro cardinale, l’arcivescovo di Palermo, durante un viaggio in Cina avrebbe profetizzato che il Papa era destinato a morire entro un anno, e rivelato i piani di Benedetto XVI per la successione. Il messaggio, recapitato dal cardinale Castrillon Hoyos, mirava in quel caso a liquidare due avversari in
una volta sola: il cardinale che avrebbe avventatamente divulgato notizie infauste sulla salute del Pontefice, e il candidato dal Papa a succedergli: una candidatura bruciata, nelle intenzioni di chi ha allestito la pseudoprofezia. In questo caso tutto fa pensare che l’operazione sia stata concepita in ambienti tradizionalisti, in continuità ideale con quelli preconciliari. Una mossa sgangherata e fuori tempo, o un segnale di fumo in vista del prossimo conclave?» Ma si tratta solo di scontri di persone e gruppi di potere, o piuttosto di conflitti tra le concezioni della Chiesa nel mondo?
«Sullo sfondo resta il problema del confronto con la modernità. Tra ‘800 e ‘900 tale confronto ha assunto da parte romana la forma di un vero e proprio rigetto, culminato nella condanna del modernismo. Il Concilio Vaticano II ha segnato il superamento dello schema intransigente ed è stato letto come un’accettazione, sia pur condizionata, del mondo moderno e dei suoi valori positivi. Ma negli ultimi decenni lo scontro è riemerso. Il Papa ha cercato di disinnescare il conflitto, proponendo una linea di recezione e valorizzazione del Concilio in continuità con la tradizione della Chiesa, e nel contempo cercando di recuperare a Roma i settori intransigenti riferibili alla galassia del lefevrismo. Mi pare questa la fondamentale posta in gioco».
Ma le carte pubblicate da Gian Luigi Nuzzi offrono elementi di conoscenza a ri«Nel merito, senz’altro no. La problematica risulta quasi del tutto assente dalla documentazione raccolta. Tuttavia due notizie minori, fornite quasi incidentalmente nel libro, mi sembrano rivelatrici di questo clima. La prima riguarda la vagheggiata celebrazione in gran pompa degli zuavi pontifici caduti a Porta Pia, che settori di curia e della nobiltà romana avrebbero voluto realizzare in occasione dei festeggiamenti del 150 ̊ dell’unità d’Italia, prendendo spunto dalla restituzione del vessillo pontificio ammainato nel 1870. Lo scorso anno a quanto pare il Papa fu tra i primi a rilevare quanto una cerimonia del genere, vagheggiata in curia, potesse apparire stonata. La seconda attesta la sorda ostilità di settori curiali al conferimento di un premio prestigioso al professor Manlio Simonetti, in quanto una sua recente opera non sarebbe stata pienamente in linea con il Gesù di Nazareth di Benedetto XVI. Simonetti è il decano degli studi sul cristianesimo antico e la letteratura cristiana dei primi secoli, professore per molti anni alla Sapienza, maestro di una generazione di studiosi, fra cui Gian Maria Vian. Le riserve elevate nei confronti di uno specchiato studioso cattolico, quale egli è, denotano uno zelo smisurato. E l’eccesso di zelo può giovare alle carriere dei singoli, ma certo nuoce alla vitalità delle istituzioni».

La Stampa 29.5.12
Lo sfogo del monsignore “Peggio del caso pedofilia”
Panico nella Curia, si ipotizza il divieto di uso dei cellulari
di Andrea Tornielli


CITTÀ DEL VATICANO. L’ aria è mefitica, il clima pesantissimo, c’è chi dice che potrebbero in futuro proibirci di portare in Vaticano cellulari con la macchina fotografica». Quella del divieto di accesso ai telefoni con fotocamera è soltanto una voce, che prende corpo nei corridoi della Segreteria di Stato nei giorni più difficili che si siano vissuti Oltretevere negli ultimi anni. «In qualche modo è ancora peggio della bufera per lo scandalo della pedofilia», dice uno dei monsignori che con passo rapido e sfuggente infila il grande cancello di Porta Angelica.
Corvi parlanti
In tanti oltre le mura vaticane continuano a dubitare del ruolo dell’aiutante di camera Paolo Gabriele e nessuno pensa davvero che possa essere la mente della fuga di documenti pubblicati nel libro di Gianluigi Nuzzi. Anche se nulla è trapelato su quanto gravi siano le sue responsabilità, se l’inchiesta rimarrà a questi livelli, i dubbi sono destinati a crescere. La rete dei «corvi», che sarebbe composta da svariate persone, è tornata a farsi sentire, di fatto riproponendo le stesse motivazioni messe nero su bianco dal noto giornalista investigativo nelle pagine di Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI: avrebbero agito «per aiutare il Papa». Sono in pochi a ritenerlo vero, perché se c’è un risultato ottenuto in questi mesi di Vatileaks è il discredito generalizzato sulla Santa Sede, la cui immagine esce devastata.
Licenziato con infamia Ieri padre Lombardi ha detto che non c’è collegamento tra la sfiducia al presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi e il caso Vatileaks. Il banchiere, scelto dal cardinale Bertone nel settembre 2009, editorialista de «L’Osservatore Romano» e amico del suo direttore Gian Maria Vian, è stato destituito giovedì scorso dal consiglio di sovrintendenza composto da membri laici. Il giorno dopo si è riunita la commissione cardinalizia chiamata a ratificare la sfiducia, ma dai loro lavori non è ancora uscito alcun comunicato. È stato invece fatta volutamente filtrare la durissima lettera di Carl Anderson – uno dei quattro membri del board – contenente le ragioni del licenziamento di Gotti Tedeschi, la cui figura viene distrutta professionalmente. Il banchiere viene anche accusato di non aver fornito «spiegazioni sulla diffusione dei documenti» in suo possesso. La modalità del licenziamento è inedita nella tradizione della Santa Sede e potrebbe avere effetti dirompenti, se e quando Gotti Tedeschi uscirà dal silenzio.
Il cardinale pensionabile
Il Segretario di Stato Tarcisio Bertone sarebbe, a detta dei «corvi», il vero obiettivo dell’operazione, studiata per accelerare il suo pensionamento. Anche se oggettivamente, il fuoco di fila dei Vatileaks appare sproporzionato per sfiduciare un cardinale che a dicembre compirà 78 anni. A meno di non ipotizzare, come qualcuno ha fatto, che dietro a subbugli curiali ed extra-curiali vi siano le ambizioni in vista del cambio e, sullo sfondo, anche della successione all’anziano Pontefice. Ratzinger, che ha voluto Bertone al suo fianco, si fida di lui e non sembra intenzionato a cambiarlo, nonostante lo stesso porporato canavese si sia offerto di ritirarsi. La sua gestione della Segreteria di Stato è nel mirino di molte critiche. Come altre volte è accaduto però, nel momento della bufera, l’istituzione ecclesiastica si chiude a riccio, per difendere i suoi membri con la tonaca.
Il segretario nel mirino
Don Georg Gänswein, il segretario privato di Benedetto XVI, sta affrontando una prova difficile in queste ore, dato che per sei anni Paolo Gabriele è stato al suo fianco nell’appartamento papale. L’influenza di don Georg è cresciuta negli ultimi due anni e sono cresciute anche le voci sui tentativi per allontanarlo dal Papa, nominandolo vescovo in Germania, ora che si renderà vacante la diocesi di Regensburg e il suo titolare verrà a Roma a ricoprire un incarico cardinalizio. Ma sono in pochi a credere che il Papa si privi del suo fidato segretario.

La Stampa 29.5.12
Vaticano. Scandali e indagini
Venti sospettati per la fuga di notizie. Interrogato un laico
Il funzionario sentito dagli investigatori soffriva di un grave esaurimento nervoso
La collocazione a riposo di Bertone potrebbe far cessare le faide, ipotesi sul successore. Papa disponibile alla grazia
di Giacomo Galeazzi


CITTÀ DEL VATICANO L’enigma è come le carte incriminate siano uscite dalle Sacre Stanze. «Non è una caccia alle streghe, si lavora su concreti elementi di indagine: c’è una “filiera” da ricostruire», assicurano gli inquirenti, ovvero la catena di responsabilità di quanti, per motivi d’ufficio, hanno avuto a che fare con i documenti trafugati. Della ventina di sospettati, al momento, solo uno ha un «profilo» che lo espone più degli altri. E’ un funzionario laico della Segreteria di Stato, che recentemente ha sofferto di un grave esaurimento nervoso. E’ già stato sentito e non ha saputo fornire giustificazioni attendibili, anzi si è abbandonato ad uno sfogo dai toni apocalittici, alternando momenti di esaltazione e manie di persecuzione. Intanto le indagini si estendono, senza però la certezza che esista una cabina di regia, un livello superiore che tiri le fila di Vatileaks. I magistrati lavorano all’istruttoria formale dopo l’arresto del maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele, mentre la commissione dei tre cardinali (Herranz, De Giorgi, Tomko) prosegue colloqui e approfondimenti.
Il Pontefice è «ovviamente informato», «consapevole della situazione delicata» per la Chiesa, e la sua linea è la «trasparenza», assicura il portavoce vaticano padre Federico Lombardi.
Al momento l’aiutante di camera è l’unico indagato: non c’è nessun cardinale e nessuna donna invischiati in questa vicenda. «Paoletto» ieri ha ricevuto la visita della moglie e anche dei due legali che potranno chiedere gli arresti domiciliari. Significativamente è proprio padre Lombardi a presentare la dichiarazione di «ampia collaborazione» dell’avvocato Carlo Fusco. L’impressione è che, al termine del processo, possa giungere la grazia papale. Obiettivo della Santa Sede è stabilire la verità dei fatti, stanare eventuali altre talpe in uffici e organismi vaticani e soprattutto chiarire se esista una trama di complicità organizzate, o se siamo in presenza semplicemente di una o più persone che hanno agito per motivi magari più banali: scontento per non aver ricevuto qualcosa che era stato loro promesso, avidità di danaro, necessità di ricambiare un favore, magari appoggiando «bande» all’interno della curia.
In Vaticano comunque non si hanno dubbi sulla determinazione di Benedetto XVI ad andare a fondo di questa vicenda, che lo addolora, e per ristabilire un «clima di trasparenza, verità e fiducia». Lo si è ben inteso da quanto ha detto domenica, chiedendo di passare dalla Babele delle inimicizie alla unità dello spirito di Pentecoste.
La fine delle faide in Curia potrebbe offrirla lo stesso Pontefice accettando il prossimo dicembre il collocamento a riposo del Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, epicentro di tutte le ultime guerre in Curia. Una «exit strategy» che prevede un passaggio di consegne ad un successore non sgradito a Bertone, come l’attuale ministro degli esteri Dominique Mamberti. Un pensionamento onorevole a 78 anni, senza «spoil system», né allontanamento dai posti di responsabilità dei propri fedelissimi (Calcagno, Versaldi, Bertello, Vian). «Su Bertone pende la spada di Damocle dell’età, basta avere un po’ di pazienza», osserva lo scrittore cattolico Vittorio Messori, co-autore di Joseph Ratzinger, che attribuisce gli scandali vaticani di questi giorni a un problema di fondo: quello del reclutamento del personale di Curia. Messori esclude un passo indietro del Papa: «Solo chi non conosce Ratzinger pensa che potrebbe dimettersi per vicende come queste. Se un cardinale è stato coinvolto, non lo ha fatto per denaro o per potere, un cardinale al massimo può diventare Papa». Piuttosto «qualcuno è convinto di fare il bene della Chiesa, persuaso che il fine giustifichi i mezzi e che se certe persone si tolgono di torno fanno il bene della Chiesa».
Per ora di «salto di livello» nell’inchiesta non c’è traccia. «I corvi non volano quasi mai da soli ma non è detto che seguano la rotta indicata da un’aquila», chiosa un porporato di Curia.

La Stampa 29.5.12
La Segreteria di Stato il luogo dei misteri e dei possibili complici
“Gabriele non può aver agito da solo”
di Marco Tosatti


CITTÀ DEL VATICANO L’ arresto di Paolo Gabriele, maggiordomo di Benedetto XVI, ha fatto tirare un grande e temporaneo sospiro di sollievo a molti che lavorano sulla stesso corridoio – ma lì si chiamano Logge, e sono affrescate da Raffaello – dove abita il Papa. E’ la Segreteria di Stato, l’organismo che rappresenta in buona sostanza il braccio destro del Pontefice. E’ il luogo in cui vanno a finire tutti i documenti che passano sulla scrivania di Benedetto XVI; una volta che una pratica è finita, mons. Georg la trasmette all’ufficio competente, che la archivia. E così quando nella trasmissione di Nuzzi è uscito un appunto riservato che il Direttore della Sala Stampa vaticana, padre Lombardi, aveva inviato all’appartamento, (a mons. Georg) per spiegargli in poche parole che cosa era il “caso Orlandi”, a molti in Vaticano la situazione è apparsa chiara: impossibile che la fuga fosse avvenuta dalla Sala Stampa, o dall’Appartamento; quindi restava in piedi solo la terza ipotesi, e cioè la Segreteria di Stato.
Un’ipotesi che sembrava aver acquistato ancora più consistenza quando, dopo una prima raffica di indagini, la Gendarmeria si è fermata. Voci interne al Vaticano accreditavano il rallentamento dell’inchiesta, paradossalmente, proprio a chi avrebbe dovuto esserne il promotore; e cioè il Sostituto alla Segreteria di Stato, Giovanni Angelo Becciu. Lo stop è durato qualche settimana; poi sotto la pressione dell’opinione pubblica e degli eventi si è avuta la creazione, un mese fa, della commissione cardinalizia, guidata dall’energico cardinale Julian Herranz, e gli sviluppi di queste ore.
Ora alla Terza Loggia sono sollevati; e amareggiati perché, comunque, l’immagine della Chiesa esce a pezzi da tutta questa vicenda. E il sollievo per l’arresto di Paolo Gabriele, che fino ad oggi resta il solo arrestato e indagato ufficialmente (anche se si parla di altre due persone, cittadini italiani, “attenzionati”, per usare un termine di gergo poliziesco) è palpabile, anche se non completo.
E questo perché anche fra i diplomatici collaboratori del Papa, che conoscevano bene i personaggi di questa tragedia, è ben presente la consapevolezza che il primo aiutante di camera di Benedetto XVI difficilmente potrebbe aver agito da solo. Si parla di indagini rivolte verso un prelato della Segreteria di Stato, ovviamente non confermabili, a questo livello delle indagini. Ma sono voci che da sole bastano a temperare il temporaneo sollievo della casta di diplomatici in talare che nelle scorse settimane sono stati accusati, e forse non sempre a torto, di alimentare sentimenti scarsamente evangelici verso il Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, ahilui non uscito dall’Accademia Ecclesiastica di Santa Maria sopra Minerva.
Ci si chiede come sia possibile che Paolo Gabriele, interrogato all’inizio della settimana scorsa, e quindi conscio di essere sospettato, non abbia fatto nulla per oltre due giorni per sbarazzarsi se non di tutti almeno di quei documenti che lo avrebbero messo nei guai senza possibilità di dubbio. Qualcuno gli ha garantito una “copertura”, rassicurandolo sul fatto che non gli sarebbe accaduto nulla. E chi, se non qualcuno dotato di autorità e prestigio avrebbe potuto tranquillizzarlo proprio mentre la Gendarmeria stava preparando l’ispezione che lo avrebbe portato in cella? Fra l’altro il primo aiutante di camera del Papa abita davanti all’abitazione del generale Domenico Giani, il capo della Gendarmeria. Ironia della sorte.

La Stampa 29.5.12
Intervista
“Papa vittima della Curia Oltretevere aria di golpe”
Il socialista Rino Formica punta il dito contro il “partito romano”
di Fabio Martini 


Per Formica, dietro agli ultimi eventi c’è una lotta per il potere senza esclusione di colpi

ROMA Con gli occhi di chi ha conosciuto da vicino tutti i poteri e i loro arcani, Rino Formica legge così la crisi in corso in Vaticano: «Il Papa ha finito per restare vittima dell’attuale tendenza della Curia, che oramai è diventata una cosa sola con l’eterno “partito romano”, quello che per decenni è prosperato in un intreccio di massoneria, clericalismo, affarismo. Per tanto tempo questo potere trasversale e senza principii è stato fonte di ricchezza materiale per la Chiesa, ma ha aperto la strada alla sua contaminazione e ora alla sua gravissima crisi». Più volte ministro socialista negli anni Ottanta, una vita di contrapposizioni con i poteri forti, da quando ha lasciato la politica, Formica si addentra in territori concettuali sconosciuti ai suoi ex colleghi.
Lei, per 20 anni, si è misurato con una Chiesa ancora forte: questa è una crisi seria?
«Sì, è la crisi molto grave di un potere chiuso, incapace di autoriformarsi. Nella Costituzione vaticana il potere del Papa è assoluto e dunque se si scoprisse che la cospirazione fosse rivolta contro di lui, si tratterebbe di un golpe. Dalle carte, per ora, risulta qualcosa di altrettanto eversivo: il Segretario di Stato disattendeva le disposizioni del Papa e spesso lo teneva all’oscuro. Si formavano catene di comando alternative e alcuni cardinali si rivolgevano al Papa come ad un pari: se non fai questo o quello, ti assumi delle gravi responsabilità».
Le questioni sulle quali si manifesta lo scontro appaiono molto concrete: Ior, potere sanitario, veline diffamatorie...
«C’è una questione che sta portando questo sistema di potere verso la sua fine: la Curia romana è diventata qualcosa di diverso dalla Chiesa. L’attuale tendenza filo-conservatice è la strada quasi obbligata per tenere i rapporti con un soggetto corrotto e senza principii come il “partito romano”».
Che cosa è stato e cosa è il «partito romano»?
«Un partito della capitale c’è in tutti gli Stati, ma in Italia la capitale ospita due Stati. Tutto questo ha consentito lo svilupparsi di alcune prestazioni occulte: nessuna capitale ospita una banca offshore. Cosa era il riciclaggio? Non c’era uno sportello vaticano con la mafia, c’era una intermediazione romama potente, politica, istituzionale che aveva lo sportello nel Vaticano. »
È ancora forte questo «partito»?
«Lei mi deve spiegare una cosa: per quale ragione nell’ultimo ventennio tutte le forze politiche, dalla mattina alla sera, stanno nell’anticamera di Gianni Letta? Entrando in una festa, accompagnato proprio da Letta, il cardinale Bertone ha detto: lui non è l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, come si dice, ma il nostro ambasciatore presso lo Stato italiano! ».
Da laico che ha combatutto per decenni contro le ingerenze della Chiesa, pensa che questa crisi possa avere effetti provvidenziali sullo spirito civico?
«I laici che hanno combattuto contro quelle ingerenze, in qualche modo potrebbero rimpiangerle. Un paradosso terribile... ».
Sarebbe a dire?
«Nella frantumazione della nostra società, davanti alla disperazione dei singoli e ai drammi sociali la Chiesa era ancora capace di trasmettere nel territorio messaggi di ricomposizione, sia pure con la debolezza della sola parola. Ma ora, con lo Stato incapace di unire la società; davanti al pubblico ufficiale sequestratore dei beni che si presenta per conto delle... Cancellerie prussiane, anche il laico magari preferirebbe il parroco! Ma non lo trova più... ».
Se potesse dare un consiglio molto da lontano...
«L’unico atto di autorevolezza e di presa di controllo riformatore dentro la crisi per il Papa sarebbe quello di pubblicare tutti i suoi atti. L’occulto consente alla fantasia, anche la meno spericolata, di immaginare tutto e il suo contrario».

il Fatto 29.5.12
I delusi del papa debole
di Marco Politi


 In un groviglio di veleni, tradimenti e scontri sotterra-nei si avvia al tramonto il pontificato di Benedetto XVI. Perché di questo si tratta. Per la prima volta ci si chiede davvero in Vaticano se è stato giusto eleggerlo. Mai era accaduto che in piazza San Pietro risuonasse il grido “vergogna, vergogna”, lanciato domenica dai dimostranti per Emanuela Orlandi. Mai la tiara papale era stata disegnata, in una vignetta, quale gabbia di lugubri corvi. Mai si era visto in tempi moderni un traditore annidato nel suo appartamento. Non si era mai sentito a Roma, al centro dell’impero cattolico, che uno dei più sfrenati fautori di Ratzinger lo bollasse come “professore tra le nuvole” e ne chiedesse le dimissioni. Segno che Giuliano Ferrara fiuta il vento.
Il Papa impolitico, come lo definì il sociologo cattolico Franco Garelli, assiste impotente alla rivolta di una parte della Curia contro il suo Segretario di Stato ed è costretto a incassare ogni giorno un’ondata mediatica negativa, che finisce per lambire il suo ruolo di pontefice.
LA DIVISIONE di funzioni che Benedetto XVI sembrava vagheggiare all’inizio del suo pontificato – riservando a sé la missione di predicare e ispirare teologicamente i fedeli e lasciando al suo stretto collaboratore Bertone il compito di gestire la macchina curiale – è entrata irrimediabilmente in crisi. Perché un’organizzazione di oltre un miliardo di aderenti come la Chiesa cattolica ha comunque bisogno di un leader dotato di polso geopolitico: e non è nel temperamento di Ratzinger. Di qui le crisi a catena. Con l’Islam, con l’Ebraismo, con il mondo della scienza a proposito dell’Aids e del preservativo, con il mondo cattolico a causa dei ripetuti cedimenti al movimento anti-conciliare di Lefebvfre. Di qui la stasi generale sul fronte dell’ecumenismo.
Assieme alla conclamata sfiducia di Ratzinger nelle riforme strutturali, questa assenza di leadership sta portando alla generale inerzia della Chiesa dinanzi al fenomeno planetario della mancanza di parroci nelle parrocchie e al crollo delle vocazioni negli ordini religiosi femminili. L’accumularsi dei problemi irrisolti rende i problemi sempre più incancreniti. E la situazione è aggravata dal fatto che accanto al pontefice non funziona nessun organo collegiale, nessuna camera di compensazione di analisi, idee, proposte: fosse almeno il collegio cardinalizio.
LA DERIVA odierna (che preoccupa gli ambienti del cattolicesimo italiano e mondiale più fedeli all’istituzione) e l’immagine di caos vaticano che si sta diffondendo sono prodotti di questa assenza di leadership. Mentre il Papa via via rinunciava al contatto diretto e sistematico con i nunzi e i vescovi (a causa della stanchezza li vede solo collettivamente), il Segretario di Stato diventava sempre più accentratore e intollerante verso posizioni diverse dalle sue. Fino al punto da esigere che i cardinali debbano passare attraverso di lui, se vogliono parlare con il pontefice.
Il nocciolo dei conflitti sotterra-nei, deflagrati nella diffusione di documenti segreti all’esterno, si ritrova nell’intreccio tra soldi e potere e sempre lì riappare la figura del cardinale Bertone. Nello scontro con il cardinale Tettamanzi per la presidenza dell’Istituto Toniolo. Nella cacciata di mons. Viganò. Nei conflitti con il cardinale Nicora per la trasparenza dello Ior. Nello scontro sotterraneo con Gotti Tedeschi per le manovre avventurose intorno al San Raffaele.
UN’ASSENZA di leadership si svela paradossalmente anche nella caccia agli autori di Vatileaks, scatenata in queste settimane. Né il Papa né il suo Segretario di Stato sembrano rendersi conto che anche la repressione deve ubbidire a un disegno di governo. La gendarmeria perquisisce e arresta, la commissione cardinalizia interroga: ma con quale obiettivo? Per colpire la piccola manovalanza? Per bloccare le domande scomode che nascono dai documenti stessi? I dissidenti clandestini (che sono ben altro che folcloristici corvi...) hanno portato alla luce del “marcio”. Lo dicono e lo ripetono.
L’IMPRESSIONE, che si sta diffondendo, è che l’azione repressiva nei loro confronti serva per mettere un coperchio e non per ripulire le stanze vaticane dalla sporcizia affaristico-finanziaria, come vorrebbe idealmente Benedetto XVI quando delinea il ritratto puro dei “servitori della Chiesa”. Non sarà la testa di Paolo Gabriele a risollevare le sorti del pontificato. Anzi, i futuri processi sono destinati a disseminare altre rivelazioni esplosive. E ancor più devastanti sarebbero “interrogatori” di prelati e cardinali.
Gotti Tedeschi sta già meditando di chiedere una commissione d’inchiesta sul suo operato per sbugiardare il rozzo comunicato sul suo licenziamento. Un’indagine sulla corruzione negli appalti la potrebbero esigere anche i fautori di mons. Viganò.
E se un guerrigliero del fax “imputato” chiederà domani un giurì d’onore per stabilire chi ha ragione tra Dino Boffo ex direttore dell’Avvenire e Giovanni Ma-ria Vian, direttore dell’Osservatore Romano (accusato da Boffo in una lettera al segretario papale di aver orchestrato ai suoi danni la campagna diffamatoria di Feltri) ?
A ogni passo si aprirà un abisso. Chi osserva le mosse di questa dura lotta per rovesciare il Segretario di Stato, nota che Bertone non fronteggia un’unica fazione.
MOLTI I GRUPPI in Curia sono scontenti della sua gestione. Cardinali come Sodano e Re non condividono l’improvvisazione del suo governo. Personalità come Piacenza credono ci voglia più efficienza. Molti cardinali stranieri guardano esterrefatti alla perdita dello stile di potere soft, che ha sempre caratterizzato la Santa Sede. E tutti – bertoniani e oppositori, i critici e il partito dei neutrali scontenti – proclamano la loro fedeltà al pontefice e il desiderio di salvaguardare la Chiesa.
Ecco perché senza una visione di governo la gogna di possibili “colpevoli” non farà che aumentare la disgregazione. Benedetto XVI ha già detto che non si dimetterà mai per paura. Ma le tensioni possono logorarlo ulteriormente.

il Fatto 29.5.12
Compromesso in Vaticano. L’inchiesta si ferma ai laici
E per chiudere le faide Bertone potrebbe lasciare a dicembre
di Carlo Tecce


Per decifrare le intenzioni, il desiderio di trasparenza e il sentimento di pulizia, va sottolineato un piccolo gesto: Sala stampa Vaticana, un muro per le indiscrezioni, padre Federico Lombardi trasmette un messaggio di Carlo Fusco e Cristiana Arru, estrazione focolarina, cattolici non consacrati, e avvocati di Paolo Gabriele, il presunto traditore che con una mano vestiva Benedetto XVI e con l'altra consegnava documenti riservati ai giornalisti.
Non è naturale che l'accusa e la difesa, quelli che indagano il maggiordomo e quelli che l'assistono per legge, condividano la forma di comunicazione. E quasi, persino le speranze: “Al più presto – dice Fusco – Paolo risponderà e collaborerà. Ha incontrato la moglie: è sereno e tranquillo”. E padre Lombardi: “Può chiedere i domiciliari”, tornare con la moglie e i tre figli.
AVRÀ un processo veloce con l'accusa di furto aggravato senza ulteriori imputazioni: e forse, sensazione crescente, potrà chiedere e ricevere la grazia di Benedetto XVI.
No, non significa che la caccia ai corvi, o al gruppo di talpe, s'interrompe così: continua l'inchiesta per ricostruire il reticolo che aveva in Gabriele un punto di arrivo, non certo di partenza: il braccio operativo, non la mente raffinata.
Forse al maggiordomo seguiranno nuovi laici inquisiti, ora che l'attenzione si concentra verso la Segreteria di Stato: un funzionario, un uomo. Quando padre Lombardi esclude che fra i sospettati (o indagati) ci siano i cardinali, il livello superiore che in tanti scrutano, indica l'orizzonte per il Vaticano che deve assorbire, più che espellere, le tensioni interne. I fedeli non vedranno mai un insigne porporato trascinato in Gendarmeria, interrogato oppure incarcerato, semmai il colpevole verrebbe trasferito fra il silenzio assoluto. Come accaduto a monsignor Carlo Maria Viganò, ex presidente del Governatorato, il luogo dove transitano appalti e milioni, nominato Nunzio apostolico a Washington: denunciava sprechi e complotti, e scriveva numerose lettere, ora tace distante centinaia di chilometri.
Nemmeno vanno sottovalutate le parole di padre Lombardi che descrive il Papa sofferente per una situazione seria: “In tutti c'è l'impegno a cercare di ristabilire un clima di verità e fiducia”.
ECCO, il traguardo più ambizioso: sedare le faide, calmare le fazioni. Non è un mistero che il cardinale Tarcisio Bertone sia un nemico per quel Vaticano legato per 15 anni ad Angelo Sodano, ancora una colonna di piazza San Pietro per l'incarico ricevuto da Benedetto XVI, cioè decano del collegio cardinalizio: ultima poltrona per Joseph Ratzinger prima di indossare la tiara, la corona dei papi. La Santa Sede avverte il timore che le battaglie possano continuare se il Papa protegge a oltranza l'amico Bertone. Il cardinale di Romano Canavese, provincia di Torino, il prossimo 2 dicembre compirà 78 anni, ennesima tappa per un mandato in Segreteria di Stato già prorogato appena raggiunse il limite di 75.
Soltanto il Papa può chiudere l'esperienza di Bertone, il fidato cardinale scelto per gestire quelle materie che vanno oltre la teologia: tanto, o proprio tutto.
La sostituzione del primo ministro potrebbe soddisfare l'opposizione e anche, però, somigliare a una resa. Le condizioni per il cambio sono essenziali, sia per quelli che protestano sia per quelli che resistono.
Bertone potrebbe lasciare se il Papa garantisse per il prossimo Segretario di Stato: non deve rimuovere i suoi uomini né cancellare il suo operato.
Per mesi s'è costruito il profilo corretto intorno al cardinale Mauro Piacenza, attuale prefetto per la Congregazione del Clero.
Ma Bertone potrebbe preferire il suo ministro degli Esteri, l'arcivescovo Dominique Mamberti, 60enne francese di origini marocchine. Qualcuno ha già riassunto in resoconti sommari i cinque giorni che sconvolsero il Vaticano, un titolo che a fatica trattiene la polvere, fra clamorose rivelazioni e tintinnii di manette sante: eppure l'inizio e la fine raramente sono così lontani.

il Fatto 29.5.12
Scomparsa. Gregori dimenticata, fu presa 45 giorni prima della Orlandi
Santa Sede e sequestri: Mirella prima di Emanuela
di Rita Di Giovacchino


Nel giugno 1983 le strade di Roma erano tappezzate dai manifesti con la foto di Emanuela Orlandi. Di Mirella Gregori, 15 anni, scomparsa da 45 giorni, invece nessuno parlava. Pochi ricordano l’intreccio tra due vicende che per strade diverse conducono in Vaticano. Con la riapertura della tomba di Enrico De Pedis si è tornato a parlare del caso Gregori e se la storia di Emanuela solleva il velo sugli “intrecci tra Stato, Chiesa e criminalità”, come dice il fratello Pietro, quella di Mirella ci introduce nelle segrete .
Il 7 maggio 1983, giorno della scomparsa, alle 14 suonò il citofono. La madre, la sentì ridacchiare: “Dimmi chi sei... fra un po’ ok? ”. Prima di uscire aveva messo le scarpe con il tacco, alla madre disse che andava a Villa Ada con i compagni di scuola. Alta, tutta ricci, quella figlia la impensieriva: aveva scoperto che da qualche tempo, al bar sotto casa, dove stava sempre a confabulare con Sonia, la figlia dei proprietari, sedeva spesso al tavolo un cliente di 35-40 anni. Uno con giacca e cravatta, fronte stempiata. Cosa ci faceva un uomo adulto con due ragazzine? Mirella non era mai andata a Villa Ada, si scoprì poi, e l’amica Sonia non ha mai rivelato con chi avesse appuntamento sotto la statua del Bersagliere. Come le amiche di Emanuela si mostrò reticente. Chi era l’uomo del bar? Per 16 anni, dal 1985 al ’97 è stato identificato con Raul Bonarelli, alto funzionario della Vigilanza vaticana, unico indagato prima di don Vergari per concorso in sequestro di persona, poi archiviato. Abitava in via Alessandria, sopra il bar De Vito.
A METTERE in relazione la scomparsa di Emanuela e Mirella fu un articolo comparso il 3 luglio su Panorama, seguirono volantini firmati dal sedicente Fronte Turkesh, e perfino papa Wojtyla, da allora, nei suoi appelli per la liberazione di Emanuela aggiungeva il nome di Mirella. Pochi fecero caso che nella foto di Panorama, Mirella appariva radiosa e sorridente accanto a Wojtyla: era a una cerimonia del Papa con gli studenti. Che ruolo ha avuto quella foto nella scomparsa della ragazzina? Nel 2006, quando il pm Capaldo ha riaperto l’inchiesta, sugli scaffali della Mobile c’era soltanto una cartellina vuota. Sappiamo però che la sera del 12 settembre ’83 al bar Volturno, gestito dai genitori, arrivò una telefonata strana. L’anonimo chiese alla sorella un intervento di Pertini per la liberazione di Alì Agca. La novità è che il telefonista di via Volturno, accento romanesco, potrebbe essere lo stesso “Mario”, che telefonò a casa Orlandi dopo la scomparsa di Emanuela. Quel Giuseppe De Tomasi, alias Sergione, l’ex commercialista di De Pedis. Il nastro è ormai rovinato, ma sappiamo anche che la voce di Mario è assai simile a quella del telefonista che nel 2005 chiamò “Chi l’ha visto”, tanto che la polizia l’attribuisce a De To-masi jr, il figlio. Di questa telefonata viene ricordata soltanto la prima frase (“Se volete scoprire chi ha rapito Emanuela Orlandi... ”), ma il seguito riguarda Mirella: “Chiedete al barista di via Montebello, che pure la figlia stava con lei... con l’altra Emanuela”. Il bar di via Montebello è quello dei Gregori, all’angolo con via Volturno. Nel ’93 la madre, Vittoria Arzenton, in un’intervista a il Tempo, lanciò il sasso nello stagno delle indagini, raccontò che non avevano legami in Vaticano, non riuscivano a capire perché i sequestratori mettessero in relazione il rapimento della figlia con il caso Orlandi. “Ma il Signore ha accolto le mie preghiere e mi ha tolto dal buio più profondo il 15 dicembre 1985”. Quel giorno Wojtyla andò in visita alla parrocchia di San Giuseppe per incontrarli e fu lì che Vittoria incrociò Raul Bonarelli, addetto alla tutela del Papa: “Era lo stesso che si intratteneva al bar con mia figlia”. Il funzionario fu messo sotto inchiesta. Dieci anni dopo, il giudice Rando decise di mettere a confronto Bonarelli con la madre di Mirella. La donna, così sicura di rivelare quel nome ai giornali, non lo riconobbe, 10 anni sono tanti. Al giudice Rando non restò che archiviare la sua posizione.
L’agente segreto usciva di scena, ma resta un’intercettazione del 12 ottobre 1993, giorno precedente l’interrogatorio. La telefonata era tra lui e un misterioso “capo”, identificato con Camillo Cibin, il comandante della Vigilanza. Capo: “Che sai diOrlanditu.. niente... nondirlocheèandataallaSegreteriadi Stato eh... È stata la magistratura vaticana, questo dici, tra di loro, ”. RB: “Sapranno chi sono”. Capo: ”Eh, servizi di sicurezza, tutto qua... ok? ”.
La Vigilanza vaticana era stata incaricata dal sottosegretario di Stato Agostino Casaroli di indagare sul caso Orlandi, ma i risultati delle indagini sono sempre stati negati alla magistratura romana. Questo ero lo spirito di collaborazione, intanto si scoprì che l’indagato indagava.

Repubblica 29.5.12
In Vaticano la guerra dello Ior: i big della Chiesa contro Bertone per la scalata alla banca di Dio
I corvi svelano: dopo Gotti Tedeschi due cordate in campo
Bagnasco, Scola, Piacenza, Tettamanzi: con la segreteria di Stato è braccio di ferro
Il presidente licenziato: "Mi sento come Cristo nell´orto degli ulivi"
di Marco Ansaldo


Città del Vaticano Una battaglia sotterranea, decisiva tanto per i flussi di danaro che accorrono nella casse dello Stato, quanto per gli equilibri di potere all´interno della Chiesa». Mentre nella Santa Sede le indagini sui "corvi", gli autori della fuoriuscita dei documenti segreti, proseguono, le spie continuano a parlare. E svelano i retroscena dello scontro in atto dopo la cacciata del presidente della banca del Vaticano, l´economista Ettore Gotti Tedeschi.
IL LITIGIO SULL´IMU Quando lo scorso anno uscì l´iniziativa di far pagare l´Imu, la nuova tassa ex Ici, anche agli edifici ecclesiastici, in Vaticano si cercò qualcuno che potesse affrontare in modo concreto la questione. Fu individuato il nome di Gotti, e il presidente dello Ior avviò uno studio approfondito. Cominciò a settembre, e l´analisi e stesura del documento durò tre-quattro mesi. Dei dettagli e dei capitoli di questa materia delicata l´economista di Piacenza ne parlò a lungo, e più volte, non solo con il Papa, ma anche con il ministro dell´Economia, Giulio Tremonti. Bertone e la Cei, la Conferenza episcopale dei vescovi, rimasero però del tutto fuori dalla partita. Alla fine, a dicembre, a studio ultimato, Gotti Tedeschi rimase molto amareggiato dalla bocciatura della sua proposta. Era stato messo a studiare l´argomento, e si riteneva che l´avesse risolto in modo appropriato. Eppure il suo dossier fu accantonato. I rapporti fra il segretario di Stato vaticano e il presidente dello Ior cominciarono ad allentarsi. «Purtroppo c´è qualcuno che non vuole assegnarmi questo piano», disse il capo della banca vaticana, dovendo abbandonare il progetto.
I FALLIMENTI Banca del Fucino, Ospedale San Raffaele, Istituto Toniolo, legge antiriciclaggio. Il braccio di ferro tra Bertone e Gotti si consuma su altri dossier ritenuti di importanza rilevantissima per la Santa Sede. E l´asse con il segretario di Stato, pur solido all´inizio, si deteriora e si rompe. Fino a quando Gotti decide di parlare direttamente al Papa, a cui invia anche delle relazioni sulla situazione interna allo Ior.
IL MEMORANDUM Da giovedì scorso, da quando Ettore Gotti Tedeschi è stato licenziato da parte del Consiglio di sovrintendenza dell´Istituto, l´ex capo della banca vaticana ha cominciato a stendere un suo memorandum di difesa. Ieri l´economista e banchiere era in ospedale per un´operazione. È rimasto sotto sedativi per tutto il resto della giornata, si è addormentato presto, ma ha fatto in tempo a leggere i giornali e si è informato sulle ultime novità in Vaticano. «Mi sento - ha detto - come Cristo nell´orto degli Ulivi». Un commento l´ha dedicato a Carl Anderson, membro del board dello Ior, autore di una dura critica sulla gestione di Gotti. «Ieri era Pentecoste - ha detto l´ex presidente dello Ior - e ho pregato che lo Spirito Santo possa illuminare anche Carl Anderson, che è una persona che ho sempre stimato».
LA SEGRETERIA SOTTO ASSEDIO Bertone ieri ha avuto una serie di incontri interni, ha parlato molto al telefono, ha mandato dei messaggi. Sottoposto a critiche nonostante la sua fedeltà provata a Benedetto XVI, di cui è da tantissimi anni il primo collaboratore, il segretario di Stato sta provando ad arginare l´ondata di polemiche. Il palazzo del governo vaticano appare come un fortino sotto attacco. Il segretario di Stato ha rinserrato le fila dei suoi fedelissimi, tra cui i cardinali Versaldi e Calcagno, e che annoverano anche le eminenze Bertello e Coccopalmerio. Ma Bertone sa di avere contro avversari di grosso calibro, tra cui quattro big. A Roma il cardinale Piacenza è accreditato da più parti come il suo possibile successore. Sono poi note le diversità di approccio con il presidente della Cei, Bagnasco. Ci sono infine i cardinali lombardi Scola e Tettamanzi. E dopodomani, per l´appunto, il Papa andrà per tre giorni in visita a Milano, dove nei conciliaboli a latere degli incontri ufficiali molte questioni saranno affrontate. Lo scenario più probabile è che Bertone, che a dicembre compirà l´età limite di 78 anni, chieda per quella data al Papa il pensionamento, e toccherà quindi a un nuovo segretario di Stato.
I CANDIDATI ALLA SUCCESSIONE Tra i successore a Gotti spunta ora l´ex governatore della Bundesbank, Hans Tietmayer. Ha 81 anni, ma ha compiuto da giovane studi di teologia, ed è inoltre tedesco. È il nome che piace di più al Papa e al suo segretario, monsignor Georg Gaenswein. Attenzione anche su Hermann Schmitz, che dalla scorsa settimana ha assunto la presidenza ad interim dell´Istituto. C´è poi l´americano Carl Anderson, e tre nomi italiani di tutto rispetto: il notaio torinese Antonio Maria Marocco, il presidente dell´Abi, Giuseppe Mussari, e il manager dell´Apsa, il patrimonio della sede apostolica, Paolo Mennini. Gotti ormai è il passato per lo Ior. Ma c´è chi, per rammentare l´estrema vicinanza fra lui e il Papa, ricorda oggi episodi come questo: «Gotti Tedeschi staccava la sera dal suo ufficio, chiedeva appuntamento al segretario del Papa padre Georg, e raggiungeva lo studio del Pontefice. Si sedevano insieme a parlare, e il banchiere aiutava Benedetto a stendere la sua Enciclica "Caritas in veritate". Ora alle lacrime di Ratzinger per il suo amico si aggiunge la preoccupazione per chi prenderà il suo posto».

Repubblica 29.5.12
Hacker e controlli sulle mail così gli 007 del Vaticano vanno a caccia dei corvi
Nei sotterranei sale hi-tech e centri d’ascolto
La gendarmeria aderisce ai protocolli Interpol e frequenta stage presso l´Fbi Usa
L’intelligence della Santa Sede affidata a Domenico Giani, ex collaboratore del Sisde
di Corrado Zunino


ROMA - Attorno al Colonnato ci sono gli elmi lucidi con il pennacchio di struzzo, come dal gennaio 1506. Sono le guardie svizzere, svizzere e di fede, che prendono 1100 euro al mese esentasse e al comando del colonnello svizzero Mader controllano i cinque varchi d´accesso alla Città del Vaticano. Poi, confusi tra la folla, ci sono i gendarmi, i nuovi gendarmi di Domenico Giani e qui usciamo dalla tradizione e dall´iconografia per entrare nel mondo dell´investigazione. Giani, 50 anni, è un aretino laureato in pedagogia, ovviamente è un cattolico dichiarato, corrente francescana, e nella precedente vita civile è stato finanziere, collaboratore del Sisde, i servizi segreti interni, dirigente dell´amministrazione penitenziaria, addetto alla sicurezza di una presidenza del Consiglio. Tredici anni fa Domenico Giani è entrato nel corpo di vigilanza dello Stato straniero, ha contribuito a trasformarlo nell´attuale Gendarmeria e dal 2006, quando ne è diventato ispettore generale, ha avviato una riforma radicale seguendo due principi: la segretezza necessaria a uno stato così ricco e influente merita una intelligence da nazione evoluta e, secondo, la filiera del controllo deve restare in due sole mani. Le sue.
Come tutti in Vaticano, Giani si muove "sotto protezione". La sua è inattaccabile: Tarcisio Bertone. Lo tutela e gli suggerisce le strategie. Non è un caso che Bertone il 22 giugno 2006, diciannove giorni dopo la promozione del poliziotto di Arezzo a ispettore generale, sia diventato Segretario di Stato. In sei stagioni Giani ha avocato a sé tutti i servigi di sicurezza del governatorato: Protezione civile, vigili del fuoco, le operazioni di gendarmeria. Ha stretto rapporti con i gruppi speciali dei carabinieri, i Gis. Ha iniziato a studiare da vicino l´Fbi americana. Dal 2006 ha fatto sue le linee guida dell´Osce sulla sicurezza e dal 2008 la Gendarmeria vaticana aderisce ai protocolli Interpol. Il comandante Giani ha specializzato le sue squadre nel pedinamento e ha creato sottogruppi come il Gir, intervento rapido, e l´Unità antisabotaggio.
Senza tecnologia l´intelligence moderna è niente e così, individuate due sale nei sotterranei del Palazzo apostolico, il comandante ha fatto costruire un ufficio per le intercettazioni telefoniche e ambientali e un secondo per il monitoraggio della posta elettronica e dei siti internet ostili. Quest´ultimo, lo ha raccontato anche "il Corvo" a Repubblica, è stato affidato a un giovane hacker. Oggi l´insider ha 35 anni e ha convertito le sue "mail bomb" in un servizio a difesa di Sua santità. Domenico Giani è al corrente dei segreti di fondo del Vaticano, collabora con monsignor Novacek che in via dei Cherubini 32 guida l´Istituto gesuitico di studi vaghi, il contro-spionaggio ecclesiale. Ma è anche uomo di azione: fu lui a bloccare il primo dei due attacchi natalizi al Papa dell´italo-svizzera Susanna Maiolo. E sono stati i suoi uomini a scoperchiare, venerdì scorso, la casa in via di Porta Angelica del corvo minore Paoletto Gabriele.
La nuova gendarmeria vaticana si muove con le Ducati 1200 e le Smart elettriche e dentro una monarchia assoluta si muove con poteri assoluti, impensabili di là del Colonnato. Questa capacità inquirente potrà diventare un´arma temibile nelle mani dell´avvocato Nicola Picardi, il pm dello Stato vaticano. D´altronde l´azione penale viene esercitata «in nome del Papa», è regolata da un codice del 1913 e spesso affidata ai consigli dei cardinali più influenti. Durante il processo della scorsa primavera, quello contro monsignor Carlo Maria Viganò, le intercettazioni sono diventate protagoniste inattese dell´accusa, retta da Giani anche nel ruolo di procuratore. In quell´occasione molti prelati scoprirono di essere stati ascoltati e registrati, che le loro mail erano state lette, alcune lettere sequestrate. Brogliacci Telecom, stampate di conversazioni. Sembrava un´udienza italiana di routine sulla pubblica corruzione. Monsignor Viganò, che aveva citato episodi di malversazioni interni alla chiesa, non è stato riconosciuto come "il primo corvo" ed è stato promosso alla nunziatura apostolica di Washington. Troppi pettegolezzi senza riscontri nel mare di carte.

l’Unità 29.5.12
Ecco Todi 2: i cattolici fanno il manifesto, non il partito
Buona politica, valori e patto per la crescita alla base del documento
Legge elettorale: sì alle preferenze


E’ un manifesto centrato sulla “buona politica” e un “patto per la crescita” quello preparato in questi mesi tra le mura dell’Istituto Sturzo di Roma. E nel quale si propone una nuova legge elettorale che preveda le preferenze. Il Forum delle associazioni cattoliche che organizzò il meeting di Todi nell’ottobre scorso si proietta verso una Todi 2 in autunno.
Ieri è stato reso pubblico un documen-
to firmato da Confartigianato, Confcooperative, Compagnia delle Opere, Cisl, Acli, Mcl e Coldiretti e aperto all'adesione di altri soggetti. Un documento che vuole essere innanzi tutto una base di valori. «Il processo di degenerazione della politica è arrivato a una sfiducia nelle istituzione diffusa che ci preoccupa», dice il portavoce del Forum, Natale Forlani. «Bisogna avviare una fase di ricostruzione sulle macerie in cui il Paese si trova e qualsiasi iniziativa politica deve ripartire dai valori», aggiunge Giorgio Guerrini, presidente di Confartigianato e coordinatore del Forum.
Sul piano politico, l'input che arriva dal manifesto è a ridisegnare l'intero sistema dei rapporti istituzionali, ad attuare il federalismo fiscale, a semplificare i processi amministrativi, a superare il bicameralismo perfetto, e soprattutto a ripristinare il voto di preferenza degli elettori per una selezione democratica dei
candidati. Sul piano economico, si chiede di rimodellare il sistema fiscale, di sostenere l'impresa, di agevolare l'ingresso di giovani e donne nel lavoro, di rilanciare l'impegno per il Sud, di mettere al centro la famiglia. C'è poi una forte spinta europeista. Ma soprattutto, nel complesso, c’è una netta richiesta di rinnovamento che va oltre il governo Monti, che come ha sottolineato il presidente delle Acli, Andrea Olivero, «sta facendo molto, ma non altrettanto stanno facendo i partiti».
Il punto è come passare alla pratica. La parola «partito» circola dietro le quinte, ma pubblicamente intenzioni in questo senso vengono smentite. «Dopo 20 anni di leaderismo dice Olivero oggi non stiamo certo cercando dei leader». Ma alle sigle cattoliche non sfugge che la fetta sempre più ampia del “non voto” è materiale su cui qualcuno dovrà lavorare.

l’Unità 29.5.12
Quel che si dice e quel che si tace
di Domenico Rosati


CON IL LANCIO DEL “MANIFESTO” PER LA SECONDA EDIZIONE DEL CONVEGNO CATTOLICO DI TODI, prende corpo una delle «iniziative provvidenziali per il bene del Paese» alle quali, il cardinale Bagnasco, nella sua ultima prolusione, aveva dedicato un esplicito incoraggiamento. L’anno scorso, il primo incontro ebbe effetti dirompenti sul governo Berlusconi, al quale fu tolto il flusso di energia cattolica del quale, oggettivamente, aveva fruito in uno scambio che metteva a disagio la coscienza dei credenti. L’ingresso nel nuovo governo di alcuni dei relatori aveva in qualche modo reso visibile all’opinione pubblica un nuovo protagonismo cattolico.
Tuttavia non c’è stata una identificazione del movimento con le scelte del governo, il quale ha avuto comprensione e copertura in molti passaggi, ma è stato anche criticato specie dalle componenti sociali e sindacali del Forum per le scelte più gravi e dolorose. Nel frattempo lo si apprende ora la macchina del Forum non si è fermata e si è messa in grado di produrre un documento-appello nel quale, è stato spiegato in sede di presentazione, tutte le parole sono
state «accuratamente pesate». E dunque si tratta di un testo impegnativo, sia per quel che dice sia per quel che tace. Soprattutto è importante comprendere se ad esso si chieda semplicemente di aderire ovvero se si ritenga utile discuterne, come è naturale per un contributo al dibattito pubblico, specie in una fase in cui tutti i soggetti sono in movimento. Senza avventurarsi in una esegesi puntuale, si nota nell’intero impianto la cura assidua di schivare le asperità sia di linguaggio che di contenuto, quasi a voler certificare che la «politica saggia, buona e moderata» debba essere necessariamente indolore anche nei modi di esprimersi. Non che manchino indicazioni significative, ad esempio sul tema del lavoro e dei giovani in particolare ma, almeno sul punto, risulta comparativamente più incisivo il cardinale Bagnasco quando ricorre all’iterazione «il lavoro, il lavoro, il lavoro» per marcare una priorità che non offre subordinate.
L’altra osservazione d’insieme riguarda l’evidente distacco dalla storia e, dunque, il connesso deficit d’analisi che purtroppo è proprio dell’elaborazione cattolica attuale. Non c’è il senso del prima e del poi: tutto si svolge su un fondale indistinto e ciò stempera, necessariamente, i termini del giudizio politico. C’è il catalogo delle cose da fare, in larga
misura condivisibile, ma senza accentuazioni differenziali che permettano di situarsi. Chi ha confidenza con la letteratura politica non può non ravvisare nell’insieme un esercizio di quell’arte di accennare senza dire che ha segnato tante vicende della politica italiana.
Se ci sarà modo di interloquire si potrà concorrere a favorire una navigazione che non badi soltanto ad evitare gli scogli (come è naturale che avvenga tra organizzazioni diverse per storia ed inclinazione) ma anche e soprattutto di fissare e seguire una rotta nella direzione dello sviluppo e di quell’uguaglianza che, per dirla ancora con Bagnasco, «precede la fraternità». Così come qualche precisazione ulteriore potrà ottenersi sul modus operandi del soggetto che si vuole organizzare.
Intanto si è chiarito che «il lavoro di condivisione e coesione all’interno del variegato mondo cattolico su valori, contenuti e modalità di presenza» si svolgerà «sempre nel rispetto della specificità dei ruoli, delle differenti missioni associative e delle opzioni elettorali». Avendo così iscritto il pluralismo nel documento (e non era pacifico in partenza) ne segue che non c’è spazio per la sollecitazione del «partito cattolico». E questo aiuta la ricerca di bene comune che si lascia sfidare dalla misura evangelica.

l’Unità 29.5.12
Burhan Ghalioun, il leader del Consiglio nazionale siriano:
«Appelli e sanzioni sono inefficaci: ormai l’unica strada è quella delle operazioni militari mirate»
«Bisogna fermare i massacri, l’Onu autorizzi l’uso della forza»
di Umberto De Giovannangeli


«Il massacro di Hula rappresenta un punto di non ritorno. Non bastano le parole di condanna per fermare il criminale Assad. Alla Comunità internazionale chiediamo di assumersi le responsabilità contenute nel capitolo VII della Carta costitutiva dell’Onu, ovvero quello che prevede l’uso della forza». A sostenerlo è Burhan Ghalioun, presidente del Consiglio nazionale siriano, l’organismo più rappresentativo dell’opposizione siriana.
Kofi Annan è a Damasco per provare a salvare il suo «piano». Esistono ancora margini di trattativa?
«No, non esistono più, ammesso che lo siano mai stati. Il massacro di Hula rappresenta un punto di non ritorno. Cos’altro deve accadere per trattare Bashar al-Assad per quello che è? Ossia, un dittatore sanguinario, che si è macchiato di crimini contro l’umanità che fanno impallidire quelli perpetrati da Gheddafi. Più volte Assad ha affermato di accettare i piani di pace messi a punto dalla Lega araba e, ultimo, quello predisposto da Kofi Annan. Ma era solo un modo per guadagnar tempo e dividere la Comunità internazionale. La verità è che Bashar al-Assad conosce e pratica un unico linguaggio: quello della forza. Nessuna trattativa è possibile con un dittatore che ha dichiarato guerra al suo popolo. Il suo posto è in un’aula di tribunale per essere giudicati dei crimini contro l’umanità di cui si è macchiato».
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha condannato la strage di Hula. «E il popolo siriano dovrebbe gioire di questo? Dovrebbero gioire le madri dei 32 bambini massacrati a Hula? Il punto è un altro: quali azioni la Comunità internazionale intende intraprendere per fermare la mano al criminale Assad? Le sanzioni si sono rilevate inefficaci, gli appelli alla moderazione ancor meno».
Ed allora?
«Allora non resta che applicare il capitolo VII della Carta costituiva dell’Onu, ovvero quello che prevede l’uso della forza con operazioni militari mirate per fermare i massacri».
Una ipotesi presa in considerazione dal Pentagono, ma decisamente contestata da Russia e CIna.
«E allora che si permetta al popolo siriano di difendersi dalle milizie in divisa e dalle bande armate al servizio di Assad. Lo ripeto: il mondo non può chiudere gli occhi di fronte ai massacri messi in atto dal regime. Se la comunità internazionale non è in grado di difendere il popolo siriano, i Paesi vicini all'opposizione devono fornire mezzi efficaci per proteggere i civili. Solo così si è davvero “Amici della Siria”».
Il neo presidente francese, François Hollande, ha parlato esplicitamente di «follia omicida» di Assad.
«In quella follia c’è una logica: quella di chi è disposto a tutto pur di mantenersi al potere. Ad alimentare questa follia è anche il sostegno fornito ad Basher alAssad dai suoi protettori internazionali...».
Si riferisce a Russia e Cina?
«A loro e non solo. Mi riferisco anche a l’Iran, il cui sostegno al regime non è solo politico ma anche militare».
Mosca insiste: «no a cambio regime».
«Il che significa mantenere al potere Assad. Ciò che chiediamo è mettere il popolo siriano nelle condizioni di potersi espiremere liberamente in elezioni garantite internazionalmente. Non intendiamo abbattere un regime per sostituirlo con un altro. Ma le uniche elezioni che Assad accetta sono quelle truccate, sono le elezioni farsa».
C’è chi sostiene che l’opposizione non è in grado di garantire la transizione. «Che esistono posizioni diverse è noto, ma non esiste tra di noi alcuna divergenza sulla necessità di mantenere unita la resistenza contro il regime».
Il presidente Obama pensa ad una «soluzione yemenita», con l’uscita di scena di Assad ma non del governo.
«Quello di Assad non è un “governo”, è un clan unito nell’esercizio del potere. Non stiamo combattendo perché Assad possa continuare a governare per interposta persona».

Corriere 29.5.12
Il figlio fu ucciso sulla Tienanmen. Il padre si impicca vent'anni dopo
Gesto per chiedere giustizia. In Tibet si immolano due monaci
di Marco Del Corona


PECHINO — Forse davvero Ya Aiguo la sera del 3 giugno 1989 era uscito solo per fare compere con la fidanzata, come dichiarò la madre. Ma anche se fosse andato a unirsi agli studenti e ai cittadini pronti all'avanzata dei militari verso la Tienanmen, non cambierebbe nulla. Ya Aiguo venne inchiodato per sempre ai suoi 22 anni quando i soldati spararono. Cadde dalle parti di Gongzhufen, non troppo lontano dal museo militare e dal ponte di Muxidi, dove la folla tentò di resistere ai carri armati mandati a farla finita con l'occupazione innescata dalla morte dell'ex leader riformista Hu Yaobang, il 15 aprile. Ya Weilin, il padre, e Zhang Zhenxia, la madre, lo trovarono il 5 giugno. Era morto all'ospedale numero 301, lo seppellirono a Tianjin. In fondo, però, Ya Weilin non smise mai di cercare Aiguo, il suo secondogenito, né lo seppellì mai davvero. E così, alle 10 del 24 maggio scorso, l'introverso Weilin, un settantatreenne in buona salute, è sparito. Il pomeriggio del 25 è stato ritrovato impiccato in un parcheggio sotterraneo. Suicidio.
A una settimana dall'anniversario del 4 giugno sono state le Madri della Tienanmen a dare ieri la notizia della morte di Ya Weilin. Un «immenso dolore». L'associazione che riunisce i genitori dei ragazzi falciati dalle truppe perde ogni anno qualcuno: troppo anziani, troppo tempo trascorso. Invece Ya Weilin si è tolto la vita per la «disperazione» provocata da una «richiesta di giustizia che per oltre vent'anni non ha avuto risposta». In una nota che la polizia ha sequestrato aveva scritto: combatterò fino alla morte.
Lo ha fatto a modo suo. Quando Aiguo venne ucciso, con centinaia (o migliaia) di caduti della repressione voluta da Deng Xiaoping, i famigliari gli dissero di lasciar perdere. Lì per lì fu così, poi lui — impiegato del ministero per l'Industria nucleare — si unì alle Madri, guidate dalla professoressa Ding Zilin, che perse il figlio diciassettenne. Ya Weilin divenne un membro attivo, a ogni anniversario ha raccolto le firme per pretendere invano un'ammissione da parte dei leader, ha assistito all'ovvio impantanarsi di una causa intentata contro le autorità e si è lasciato finire da 23 anni di non-risposte.
I «fatti del 1989» restano l'intoccabile tabù di un Partito comunista che il prossimo autunno rinnoverà i propri vertici. È un tema di cui non si parla, una ferita visibile e rimossa. Un'aperta discussione è omessa nel nome di una stabilità contro la quale congiurano sia timori economici (e dunque sociali) sia vecchie piaghe, come il Tibet. Proprio ieri per la prima volta le auto immolazioni sono arrivate al cuore del cuore del Tibet, davanti al tempio Jokhang del capoluogo Lhasa, dove due uomini si sono dati fuoco dopo aver lanciato slogan, in mezzo a pellegrini e turisti. Uno è morto, uno è rimasto ferito. Circa 35 i casi analoghi dal 2011.
Anche il dramma del 1989 è un'ustione per la Cina. Nelle settimane scorse era circolata la voce che il premier Wen Jiabao avesse tentato di aprire una discussione ai massimi livelli del Partito, senza riuscirci. Wen allora era collaboratore strettissimo di Zhao Ziyang, il segretario del Partito rimosso perché troppo dialogante e poco risoluto nel contrastare le proteste. L'anno scorso, poi, le stesse Madri avevano fatto sapere che una famiglia era stata avvicinata da emissari del governo con la promessa di un indennizzo, rifiutato. E l'ex sindaco di Pechino condannato per corruzione, Chen Xitong, avrebbe scritto in un libro in uscita a Hong Kong di non aver sollecitato affatto la linea dura a Deng e al premier Li Peng: «Ho solo eseguito gli ordini». Materia per gli storici, che tuttavia non consola chi perse un figlio. Solo una frase di Chen, forse, potrebbe essere sottoscritta da tutti: «Fu una tragedia che si sarebbe potuta evitare».

il Fatto 29.5.12
I veri eroi italiani nel Cile di Pinochet
di Giuseppe Cassini


Il dramma della storiografia è quello di essere manipolabile. Perciò gli storici seri verificano fonti, incrociano dati, annusano le bufale; e partono dai fatti per giungere alle conclusioni. Molti italiani preferiscono l’approccio inverso: abbracciare una tesi e poi cercar prove a conferma; e se non si trovano, si fabbricano.
Evitiamo dunque che venga fatta la stessa cosa con la bella pagina scritta 40 anni fa dai giovani diplomatici italiani che, senza attendere le tremule direttive da Roma, salvarono vite in Cile e Argentina. È il caso di ricordarlo, perché in questi giorni si fa gran pubblicità a un libro (“Chi ha ucciso Lumi Videla? ”, Mursia) scritto da un diplomatico in pensione, Milo Barbarani, a cui Repubblica dedica un’intera pagina definendolo lo “Schindler italiano”.
Nel dicembre 1974 – 15 mesi dopo il golpe Pinochet – la Farnesina inviò Barbarani all’Ambasciata italiana di Santiago per coadiuvare il capo missione nel compito di intrattenere rapporti col nuovo regime e gestire una sede diplomatica dove erano ancora rifugiati dei cileni scampati ai militari. Se la cavò così bene da poter raccontare, ora con piglio da giallista, le sue avventure cilene inframmezzandole con la storia di Lumi Videla, una ragazza morta sotto tortura e gettata aldiquà del muro dell’Ambasciata nel novembre del ’74. Non era stato Barbarani a raccogliere il cadavere (lui arrivò il mese successivo) né era stato lui ad affrontare i primi 15 mesi della tragedia: frotte di disperati che saltavano il muro di cinta, le schermaglie con i golpisti per ottenere salvacondotti all’espatrio dei rifugiati, le contorte direttive della Farnesina, l’affronto degli italo-cileni tifosi di Pinochet. No, chi visse quel calvario nei primi mesi si chiamava Piero de Masi, rimasto capo missione in assenza dell’ambasciatore (rientrato a Roma) ; e chi lo visse tutto si chiamava Roberto Toscano.
DALLE MEMORIE di Piero de Masi: “Vidi 5 individui salire le scale e ingiungermi di rientrare nel mio ufficio, dove si schierarono anche loro. Quello al centro si mise a leggere un pezzo di carta urlando. Diceva che di fronte alle manchevolezze del Governo italiano... avevano costituito una “Pentarchia d’Emergenza” che assumeva la responsabilità delle relazioni tra Italia e Cile. Con ciò mi si ‘licenziava’ senza troppi complimenti”.
Quanto a Roberto Toscano, così racconta quando raccolse nel giardino il cadavere di Lumi Videla: “Sembrava un bimbo, tanto era piccola e smagrita. Chiesi ai rifugiati di sfilare davanti al corpo. Qualcuno la riconobbe: Lumi Videla, moglie di un dirigente del Mir (...) In seguito all’uccisione del marito la Videla era stata catturata e condotta nel centro di tortura di Villa Grimaldi. Il regime voleva far credere fosse stata uccisa in una rissa dentro l’ambasciata. Smentendo i militari, li accusai implicitamente di esser loro i colpevoli di quell’omicidio”.
Ancora l’anno scorso Toscano e De Masi hanno ricevuto, al Festival del Cinema Latino-Americano di Trieste, il Premio Allende per “il loro coraggioso operato a tutela dei diritti umani e della democrazia”. Purtroppo, nel libro di Milo Barbarani non c’è gran traccia di loro. Forse “Chi ha ucciso Lumi Videla? ” vuol essere solo un giallo, e allora va bene. Però ha l’aspetto di un libro di memorie, e allora va male. Sarà un ircocervo? Siccome l’autore è stato consigliere diplomatico di Formigoni in tempi non lontani, sarebbe meglio facesse chiarezza al più presto, prima di dar adito al sospetto d’aver mutuato dal suo ex-capo il vezzo di dribblare domande troppo spinose.
* ex ambasciatore

Repubblica 29.5.12
Povere e dimenticate la sconfitta delle soldatesse stanche di guerra
È il prodotto della grande crescita del reclutamento femminile nelle Forze armate
Non ci sono reti di sicurezza: e non bastano i 60 milioni di dollari stanziati per loro
Il ritorno nel mondo è devastante: alcune hanno anche subito violenze sessuali
di Vittorio Zucconi


Sono 15 mila le veterane senza casa e lavoro che l’America abbandona dopo le missioni in Iraq o in Afghanistan La maggior parte sono donne di colore, giovani e con bambini: così ora alcune associazioni private cercano di aiutarle

WASHINGTON Lontana dal tuono glorioso dei reduci sulle loro Harley Davidson che hanno invaso come tutti gli anni la capitale americana nel giorno delle Rimembranze, sta in Virgina la piccola casa silenziosa delle donne dimenticate. Circondata da aiuole di fiori bianchi, rossi e blu, i colori della bandiera, ben accudite da mani femminili, la casa della speranza, come si è fatta chiamare, ospita strette strette dodici donne soldato reduci dall´Iraq e dall´Afghanistan, con i loro bambini. Sono veterane di guerra senza tetto, che la nazione, dopo tanta retorica, e nastri gialli, e adesivi, e discorsi, ha abbandonato al loro destino appena hanno smesso l´uniforme e indossato gli abiti civili.
Sono quasi quindici mila le donne soldato sopravvissute alle guerre «per esportare la democrazia» soltanto per diventare vittime della pace, e di una democrazia indifferente, al ritorno in patria. E se la tragedia del soldato che torna a casa dalla frontiera terribile ma ben regolata della vita militare in conflitto è conosciuta da quando decine di migliaia di reduci maschi dal Vietnam si smarrirono nella vita civile, questo esercito di donne disperse a casa propria è il prodotto della grande crescita del reclutamento femminile alle armi. Il 16% delle uniformi di tutte le forze armate americana, Esercito, Aviazione, Marina, Marines, Guardia Costiera è oggi indossato da femmine e spesso in ruoli di prima linea. Le ausiliarie che parteciparono alla Seconda Guerra Mondiale furono appena il 3 per cento e furono facilmente riassorbite in un´economia in gigantesca espansione, che seppe utilizzare e riciclare in pace quei compiti di segreteria, amministrazione, intelligence, analisi, comunicazioni che avevano svolto in guerra.
Ma le guerriere "usa e getta" che le nuove forze armate utilizzano tornano in un «mondo», come si dice nel gergo degli accampamenti, che non sa bene che fare di loro. Sono spesso donne ancora giovani, tutte sotto i trent´anni, ma non abbastanza per ricominciare da capo una vita, traumatizzate da un fronte nel quale, a differenza delle guerre tradizionali, non ci sono linee di demarcazione e chiunque può essere dilaniato da una mina sotto la jeep o da un razzo piovuto dal cielo. Tre quarti di loro sono afroamericane, ragazze che avevano varcato la soglia degli uffici di reclutamento nei paesi e nei centri commerciali più modesti, per trovare un´occupazione, una paga, come tanti dei loro commilitoni maschi. «Mi ero arruolata per sfuggire alla noia e alla mancanza di futuro nel mio paese in Alabama» dice una delle donne dimenticate e accolte nella casetta in Virginia, finanziata da donazioni private e volontarie.
Il ritorno «nel mondo», spesso dopo due o tre dispiegamenti fra la polvere di Bagdad o le ombre dei monti ostili nel Kandahar è difficile per tutti, e un quarto dei senza tetto negli Usa è un reduce, ma può essere devastante per le donne. Alcune erano già sposate, o madri «single» di bambini accuditi da parenti durante i semestri di guerra. Quelle fortunate, che rientrano tutte intere senza avere lasciato brandelli di sé all´altro capo del mondo, vivono naufragi di matrimoni, di unioni, o di solitudine che la sindrome, lo stress della battaglia accelerano spesso in forme di disturbi psichiatrici. Alcune, come annota in sordina il rapporto della Veteran Administration, hanno subito violenze sessuali. Non dal nemico. Vittime del "fuoco amico".
Non ci sono reti di sicurezza, per fermarne la caduta. L´Amministrazione non è un´agenzia di collocamento per quei 500 mila reduci soltanto di questo decennio di velleitarie e confuse invasioni e di interventi armati a pioggia. Gli ospedali della Veteran Administration curano le ferite, i malanni fisici, ma non sanno, non possono per mancanza di soldi, curare il mal di vivere che risucchia queste donne e che presenta problemi diversi dal reducismo dei maschi.
Nascono organizzazioni private, volontariato come la rete del "Saluto Finale", brutta espressione ma che vuole ricordare l´ultimo saluto militare prima del congedo, che finanzia case come la villetta in Virginia, alle porte di Washington.
Accoglie tremila e quattrocento veterane, su 15 mila, con i loro bambini, quasi tutte divorziate o scaricate da mariti e compagni senza nessun sostegno finanziario. Gratis per due anni, considerato un tempo ragionevole per rimettersi sulle proprie gambe e trovare un lavoro. Se hanno qualche soldo, o quale occupazioni temporanea, le ospiti pagano il 20 per cento delle spese. Ed è toccante vedere come queste soldatesse disarmate organizzino la loro vita comune con criteri ancora militari, usando il vocabolario che i sergenti istruttori gli avevano trapanato in testa. Ci sono il "servizio latrine", naturalmente a turno, ma anche punitivo se una di loro viola le regole delle case, il "servizio rancio", la "pattuglia bambini", quando ci si deve occupare dei figli di chi esce per cercare lavoro, per fare la spesa ("rifornimento") o per concedersi una "libera uscita".
«Stiamo attraversando una rivoluzione demografica alla quale la burocrazia, costruita per maschi, non era pronta» riconosce il direttore dei servizi per reduci disabili del governo, Daniel Bertoni «e ancora non sappiamo come affrontare la disabilità di una donna che non ha bisogno di stampelle o di protesi, ma di una casa per sé e per i suoi figli. I 60 milioni di dollari stanziati per loro sono poca cosa». Eppure, come dice Jas Booth, una donna che era capitano nell´Esercito ed è tra le attiviste e organizzatrici di "Ultimo Saluto", non si trovano rancori, risentimenti, amarezza fra queste soldatesse dimenticate. «Sapevamo a che cosa andavamo incontro» dice Vanessa della casetta in Virginia «sia al fronte che al ritorno e abbiamo accettato di servire il nostro Paese». Un Paese che si è dimenticato di servire loro.

Repubblica 29.5.12
Umberto Eco uomo dell’anno per gli “Amici di Tel Aviv”


MILANO - Umberto Eco ha vinto il premio "Uomo dell´anno 2012" assegnato dagli Amici del Museo d´Arte di Tel Aviv, attivi dal 2001 come sostenitori della diffusione della pace attraverso la cultura. La premiazione è in programma domani a Milano, durante la conferenza e la cena di gala all´Hotel Principe di Savoia (dalle 19.30). A premiare lo scrittore saranno il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai e l´ambasciatrice del Museo d´Arte di Tel Aviv Marty Pazner. Prima, Eco dialogherà con Ugo Volli. L´associazione "Amici del Museo d´Arte di Tel Aviv", presieduta da Anna Sikos, ha assegnato in passato il riconoscimento tra gli altri a Nouriel Roubini, Bernard-Henry Lévy, Arnaldo Pomodoro, Amos Oz, Elie Wiesel, Daniel Libeskind, Emilio Tadini e James Hillman.

Corriere 29.5.12
La modernità inasprì la caccia alle streghe
Spesso a condurla furono intellettuali illuminati
di Paolo Mieli


L a storia delle credenze e delle pratiche atte ad ottenere l'intervento di geni malefici (e, più tardi, del demonio) per compiere sortilegi, risale all'antichità. Marina Montesano in un assai interessante libro che esce domani per l'editore Salerno, Caccia alle streghe (pp. 188, 12,50), dimostra come essa sia indisgiungibile dalle culture pagane. Racconta Tito Livio che, nel 331 a.C., 170 matrone di Roma furono condannate a morte per aver provocato con il veleno il decesso di molti personaggi d'alto rango. Tacito riferisce che la malattia e poi la morte di Germanico vennero attribuite a un maleficio (nella sua stanza furono rinvenute ossa semibruciate assieme a grumi di sangue). In una delle Satire di Orazio, Canidia e Sagana si aggirano sull'Esquilino nell'antico cimitero degli schiavi: lì cercano ossa da mescolare a «erbe che nuocciono», poi seppelliscono vivo un bambino e sbranano a morsi un'agnella bruna, tutto al fine di «rendere folli gli uomini» Anche la Medea di Seneca «sceglie le erbe mortali, spreme e mescola veleno di serpenti e ripugnanti uccelli: cuore di lugubre gufo, viscere strappate alla rauca strige ancora viva». Le streghe di Plinio e di Petronio rubano i corpi dei neonati, li dissanguano, li divorano e li sostituiscono nella culla con dei fantocci. Le strigi, uccelli che stridono e di notte strappano i bambini dai loro piccoli letti per succhiarne il sangue, compaiono anche nei Fasti di Ovidio.
Ancora prima, il Vecchio Testamento è profondamente intriso di «antimagismo», che trae origine dalla lotta di Israele contro i circostanti popoli pagani. Il cristianesimo non sarà da meno. Nella Lettera ai Galati, San Paolo condanna i veneficia. Ma, si apprende da Tertulliano (il quale nell'Apologeticum difese i cristiani da questo genere di calunnie), che i cristiani stessi furono accusati nel mondo antico di omicidi rituali e di pratiche orgiastiche e magiche. Il Concilio di Elvira (306) stabilisce che sia rifiutata la comunione a coloro che si applicano ai maleficia. Tertulliano e, a distanza di oltre un secolo, il vescovo milanese Ambrogio combatteranno le feste pagane che prefigurano i sabba stregoneschi. Costantino nel 331 consentirà di ripudiare la moglie (ma anche il marito) se si scopre che è una «medicamentaria», cioè una persona che abbia avvelenato o violato i sepolcri. Alla metà del V secolo, il Codice di Teodosio, raccogliendo gli editti da Costantino in poi, detta norme imprescindibili, nelle quali si intrecciano la condanna della magia e quella del paganesimo. Vengono mandati a morte incantatori, tempestari, coloro che turbano le menti, divinatori e indovini di vario genere, quelli che celebrano riti notturni nel corso dei quali si invocano i demoni.
All'inizio del V secolo, però, Agostino d'Ippona invita a non confondere tra eresia e magia. E c'è chi, in modi diversi, si oppone a credenze e superstizioni dell'epoca. C'è un capitolare di Carlo Magno del 785 dove, a proposito dei sassoni sconfitti, si stabilisce che «se qualcuno ingannato dal diavolo, avrà creduto secondo la superstizione pagana che un uomo o una donna sia una strega e divori gli uomini e perciò l'abbia bruciata o ne abbia fatto mangiare le carni, o l'abbia mangiata, sarà punito con la sentenza capitale». Man mano che si procede verso l'anno Mille, l'ossessione nei confronti della magia riprende a crescere. Nell'Inghilterra della seconda metà del VII secolo, Teodoro, monaco di Canterbury, infligge tre anni di penitenza a coloro che hanno fatto dei sacrifici in onore dei demoni («intendendo presumibilmente le divinità precristiane»). Il penitenziale francese detto «di Halitgar», agli inizi del IX secolo, condanna ad una pena di cinque anni un uomo che abbia reso pazzo un suo consimile facendo ricorso al demonio. Nell'834, in occasione di un'improvvisa malattia di Ludovico il Pio, suo figlio Lotario I accusa una suora, Gerberga, d'aver fatto ricorso a pratiche «venefiche» e «malefiche»: Gerberga viene uccisa per annegamento. La morte improvvisa del re dei franchi orientali, Arnolfo di Carinzia, nell'899, è attribuita a un uomo e a una donna che avrebbero compiuto atti di magia: vengono entrambi torturati e messi a morte. Nel 970, a Londra, una donna e suo figlio sono accusati di maleficium: avrebbero fabbricato un fantoccio di pezza a immagine di un uomo per poi pungerlo con spilli e provocare così la morte dell'uomo stesso; la donna è condannata e annegata nelle acque del Tamigi.
Le cose non cambiarono granché dopo l'anno Mille. Durante la prima metà dell'XI secolo re Ramiro I d'Aragona ordinò la condanna a morte di numerose «streghe». Nel 1208, in Aquitania, una donna e alcuni suoi complici furono bruciati vivi per aver causato con espedienti magici la malattia di Guglielmo d'Angoulême. La cosa si ripeté un secolo più tardi, nel 1128, per l'infermità del conte Teodorico delle Fiandre. «La lotta condotta dai legislatori e dalle autorità tanto laiche quanto ecclesiastiche contro i culti precristiani», nota Marina Montesano, «aveva lasciato pratiche e credenze legate agli antichi paganesimi spoglie dei contesti che le avevano prodotte». L'unica spiegazione proposta «era la seduzione diabolica che poteva declinarsi tanto nel senso di affermare la totale illusorietà degli effetti, quanto, al contrario, nell'ammetterne la reale minaccia».
Alla svolta dell'anno Mille non era affatto scontato quale direzione avrebbe preso la cristianità e, anzi, ci saremmo potuti attendere «che la crescente razionalità del pensiero bassomedievale portasse al netto prevalere della prima tendenza». Invece accadde l'opposto. Fu la guerra ai catari — secondo quel che ha scritto Malcom Lambert, nel libro I catari (Piemme) — a saldare la caccia alle sette ereticali con quella alle streghe. I catari («puri»), provenienti probabilmente dai Balcani (nei primi decenni dopo l'anno Mille erano definiti «bulgari»), concepivano il mondo come dominato dalla lotta fra due principi, quello dello Spirito, luminoso e benefico, e quello della Materia, oscuro e malefico. La Chiesa li scomunicò nel Concilio di Tolosa (1119). L'imperatore Federico Barbarossa iniziò a combatterli su sollecitazione di Papa Lucio III nel 1184. Nel 1209 la Chiesa scatenò una crociata contro i catari di Linguadoca, che proseguì con ferocia fino al 1244, quando cadde la loro ultima roccaforte, il castello di Montségur, e duecento di quelli tra loro che avevano rifiutato di pentirsi e convertirsi furono bruciati vivi ai piedi della fortezza. Ma la guerra ai catari doveva durare ancora fino ai primi anni del XIV secolo. Fu papa Gregorio IX nel 1233 a descrivere i «comportamenti» che distinguevano queste sette: i membri, secondo il Pontefice, si riunivano in conventicole notturne durante le quali apparivano «uomini misteriosi, rospi e gatti di dimensioni insolite» e ci si dava a «orge nelle quali tutti si accoppiano con tutti, senza distinzioni di genere e di ruolo».
In quel contesto, secondo Marina Montesano, furono ridefiniti, sistemati in un canone e presero definitivamente piede «stereotipi destinati a grande fortuna nella caccia alle streghe». Provarono a stabilire un argine a tali persecuzioni i papi Alessandro IV (1258) e Bonifacio VIII (1298), per i quali la magia non doveva essere materia d'inquisizione, a meno che gli atti presi in esame potessero essere tacciati di eresia. Ma ormai era tardi ed era pressoché impossibile operare distinzioni tra pratiche magiche e comportamenti ereticali. Come dimostrano i processi contro i catari istruiti tra il 1318 e il 1325 dall'inquisitore Jacques Fournier, che in seguito sarebbe diventato Papa con il nome di Benedetto XII. E come dimostrano altresì le imputazioni di negromanzia rivolte, all'inizio del Trecento, dal re di Francia Filippo il Bello contro Bonifacio VIII, poi contro il vescovo di Troyes, accusato di aver ordito un complotto per uccidere la moglie dello stesso re, Giovanna di Navarra, e infine contro i templari.
A seguito della crociata contro i catari ha preso piede l'uso politico dell'accusa di magia. «Se si volesse trovare un momento in cui almeno simbolicamente il problema del rapporto con il diavolo muta in modo sensibile», scrive Montesano sulla scia di un importante studio di Alain Boureau, «bisognerebbe individuarlo negli anni Venti del Trecento, con la bolla Super illius specula di Giovanni XXII, nella quale l'anziano Pontefice stigmatizzava coloro che stipulano un patto "con l'inferno" e all'insegna di questo immolano e adorano i demoni, fabbricano immagini, anelli, specchi e fiale, ossia oggetti atti a compiere malefici». Bolla «rivoluzionaria» che nei fatti equipara magia a eresia. A dispetto delle esortazioni a distinguere tra pratiche superstiziose ed ereticali, formulate dieci secoli prima da Sant'Agostino. Invece magia ed eresia divennero quasi sinonimo lungo il corso della guerra dei Cent'anni (1337-1453), soprattutto verso la fine del Trecento ai tempi della crisi di follia del re di Francia Carlo VI. Agli inizi del Quattrocento il movimento di riforma ecclesiastica guidato in Boemia da Jan Hus viene accusato dalla Chiesa romana d'essere ispirato dal «principe delle tenebre».
A metà del Quattrocento qualcuno mette nuovamente in guardia da questo eccesso di sovrapposizione tra magia ed eresia ed esorta a operare distinzioni: Giordano da Bergamo, Girolamo Visconti e in particolare il canonista senese Mariano Sozzini. In Francia la «grande caccia» nella regione di Arras si trasforma in una psicosi collettiva al punto da costringere il duca Filippo il Buono a porre un freno e il tribunale di Parigi a rivedere alcuni processi. Stava finendo una stagione della caccia alle streghe. Ma se ne stava preparando un'altra, se possibile peggiore, molto peggiore della precedente. Con la bolla Summis desiderantes, promulgata da Innocenzo VII nel 1484 (a cui fece seguito, due anni più tardi, il Malleus maleficarum del domenicano Heinrich Kramer, il primo manuale inquisitoriale interamente dedicato alla stregoneria), nella trattatistica a cavallo tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento si cominciò ad affermare l'idea che «i molteplici crimini commessi dalle streghe in accordo con il demonio fossero fenomeni differenti da quelli che i canonisti avevano registrato in passato». In quegli anni «le streghe avrebbero dato vita ad una vera e propria setta decisa a colpire la cristianità come mai si era verificato prima». L'insistenza sulla «modernità» della setta era importante perché, scrive Montesano, «tracciava una cesura netta rispetto allo scetticismo espresso in passato circa i reali poteri delle streghe». Così la caccia alle streghe «emerge da una parte come un elemento costitutivo della modernità, dall'altra come una risposta a esigenze riaffioranti nella società in epoche diverse». Non solo e non tanto nel «barbaro Medioevo», quanto e soprattutto «in epoche nelle quali ci piace pensare che il trionfo della ragione e del diritto abbiano il sopravvento». Ecco perché, come ha scritto Franco Cardini occupandosi del libro di Colette Arnould La stregoneria. Storia di una follia profondamente umana (Dedalo), si può dire che «la stregoneria moderna sia in realtà un palinsesto di personaggi e di eventi che ha attraversato almeno due successive importanti rotture, il cristianesimo e la modernità». La caccia alle streghe, «fondata», scrive Cardini, «su una rilettura attualizzante di fonti bibliche ed antiche», torna prepotentemente sul proscenio «per razionalizzare una crisi socio-religiosa profonda come quella che l'Europa ha attraversato tra il XIV e il XVII secolo». Tenendo sempre presente che «le streghe sono state bruciate più dai protestanti che dai cattolici e che la famigerata Inquisizione spagnola non ha quasi neppure trattato il problema».
Così il periodo che va dal 1550 al 1660 costituisce l'apice della caccia alle streghe in Europa. Rodney Stark in A gloria di Dio (Lindau) spiega come non vada dato credito a una pubblicistica (Andrea Dworkin, Mary Daly, Pennethorne Hughes) che parla di milioni di vittime. Tra il Quattrocento e la metà del Settecento le condanne alla pena capitale furono tra le 40 e le 60 mila: «La morte di sessantamila persone innocenti», scrive Stark, «è certamente un qualcosa di agghiacciante, ma non giustifica l'esagerazione così inverosimile delle cifre». Il maggior numero di processi (e vittime) si ebbe in Germania, dove nella parte meridionale, cattolica, il fenomeno fu più intenso rispetto all'area settentrionale, protestante. Qualcuno provò a reagire: a Treviri nel 1587 il giudice Dietrich Flade tenne un atteggiamento ipergarantista nei confronti degli imputati per stregoneria trascinati in giudizio dall'arcivescovo Johann von Schönenberg; per questo Flade fu accusato a sua volta, torturato, strangolato e bruciato sul rogo. Poi vennero Polonia e Ungheria. La Savoia, il Friuli — studiato da Carlo Ginzburg nel libro I benandanti: stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento (Einaudi) — i Grigioni, la Navarra pirenaica, le regioni basche. Anche Montesano fa notare che, «nonostante uno stereotipo duro a morire pretenda il contrario», la caccia alle streghe fu di minore intensità nelle aree in cui operavano il Sant'Uffizio o l'Inquisizione spagnola. In Italia «furono celebrati alcuni fra i primi processi per stregoneria… Tuttavia nonostante l'alto numero di accuse mosse fra i secoli XV e XVII, le condanne gravi risultano relativamente poche: merito di dibattimenti più cauti e regolari, dovuti all'istituzione della Santa Inquisizione romana a partire dal 1542, che difficilmente arrivavano alla condanna a morte». A corroborare questa tesi, Montesano cita il Concilio di Granada del 1526, che dichiarò impossibile il volo magico e ribadì — con il conforto della maggior parte dei giuristi dell'epoca — che «le streghe non esistono». E quando nel 1549 a Barcellona l'Inquisizione locale e le autorità civili condannano al rogo alcune streghe, la Suprema (ossia il supremo concilio dell'Inquisizione) reagisce mandando sul luogo un proprio inquisitore, Francisco Vaca, rivedendo il processo da cima a fondo, annullandone la sentenza e, addirittura, punendo i giudici che lo avevano istruito. Brian Levack nel saggio La caccia alle streghe in Europa agli inizi dell'età moderna (Laterza) ha ben analizzato un caso spagnolo assai particolare: furono trascinate in giudizio poco meno di duemila persone, ma ne furono condannate 11. Solo 11. Per di più i tribunali ecclesiastici, scrive Stark, furono «le corti più riluttanti nei confronti della tortura e alla fine furono i primi a proibirne l'uso».
Altro stereotipo è quello della «caccia» come «prodotto dell'ignoranza». Niente di vero. Hugh Trevor-Roper ha ben documentato come i «più feroci persecutori delle streghe» furono «i mecenati più colti del sapere contemporaneo». Portogallo e Irlanda, rispettivamente con 10 e 4 vittime, rimasero praticamente escluse dalla caccia. Notevole fu invece la diffusione del fenomeno nel New England dove, nel 1691, si ebbe il caso di Salem (giovanissime che accusarono donne adulte e le condussero al patibolo). Gli adolescenti furono all'origine, anche in Europa, di importanti ondate persecutorie come quella basco-navarrese del 1525 e quella svedese del 1668; talvolta ne furono travolti come a Würzburg nel 1629, dove furono condannati a morte 119 adulti, ma anche 41 giovanissimi.
L'idea per cui la caccia alle streghe sarebbe stata, scrive Stark, «un movimento reazionario infiammato dalla paura di un'imminente modernizzazione» è «infondata». È vero, riconosce, «che il collegamento tra magia e satanismo fu il prodotto del ragionamento teologico, ma i tentativi di sopprimere la magia e la superstizione difficilmente possono essere considerati degli attacchi all'illuminismo o alla modernità». Tanto più che «le menti più illuminate dell'epoca accettavano l'idea che le streghe fossero in combutta con il diavolo». Basti ricordare che Samuel Sewall, uno dei tre giudici che avevano mandato a morte le «streghe di Salem» fu l'autore poco dopo del primo trattato teologico contro la schiavitù uscito in America.
La caccia alle streghe dei secoli XVI e XVII, ha scritto Trevor-Roper, «è un fenomeno che lascia perplessi: un avvertimento per coloro che vorrebbero semplificare gli stadi del progresso umano». A partire dal XVIII secolo, prosegue, «abbiamo avuto la tendenza a vedere la storia europea, dal Rinascimento in poi, come la storia di un progresso, e quel progresso è sembrato essere costante». Come se, passo dopo passo, Rinascimento, Riforma, Rivoluzione, la luce avesse avuto sempre la meglio sull'oscurità. Invece, sotto la superficie di una società sempre più sofisticata, troviamo «passioni e credulità infiammabili» e la credenza nelle streghe «è una di queste forze». «Una nuova forza esplosiva che, con il passare del tempo, si espandeva costantemente e spaventosamente». «In quegli anni di apparente illuminazione», concludeva Trevor-Roper, «c'era almeno un quarto del cielo nel quale l'oscurità stava vincendo decisamente la sua battaglia a spese della luce».
Dalla prima metà del Cinquecento alla fine del Settecento grande fu la battaglia culturale quantomeno contro gli eccessi della «caccia alle streghe». Reginald Scot nel 1584 si domandò perché mai Satana fosse ricorso a «uno strumento non adatto» come «una donna vecchia senza denti, impotente e impacciata nel volare in aria», dal momento che non avrebbe certo avuto bisogno «di simili strumenti per ottenere i propri scopi». Contro la «caccia alle streghe» si schierarono, già nel Cinquecento, il giurista Andrea Alciati, l'alchimista e filosofo Agrippa di Nettesheim, il medico Johann Wier; poi, nel secolo successivo, il gesuita tedesco Friederich von Spee, i filosofi Pierre Gassendi e il cartesiano Nicolas Malebranche; nel Settecento Ludovico Antonio Muratori, Girolamo Tartarotti, Scipione Maffei, poi ancora Montesquieu e Voltaire, che levò la voce contro la turpe pratica di «mandare al rogo degli imbecilli». In seguito alla pace di Vestfalia (1648) e soprattutto dopo la Rivoluzione francese, le indemoniate andarono scomparendo. Per riapparire di quando in quando, ma senza più provocare reazioni isteriche. Lasciarono però qualcosa di depositato nelle nostre menti. Tant'è che nel Novecento Michail Bulgakov con Il Maestro e Margherita e Arthur Miller con Il crogiuolo — dedicato al processo di Salem — per muovere critiche, rispettivamente, alla società sovietica staliniana e a quella statunitense maccartista, sono ricorsi a quel mondo e al suo sottofondo.
Tutto finito, dunque? No, qualcosa è rimasto tra noi. Nel 1983 a Manhattan Beach, sobborgo bene di Los Angeles, la signora Judy Johnson denunciò Ray Buckey, un insegnante della scuola materna McMartin, per aver abusato sessualmente di suo figlio, un bambino in età prescolare. Secondo la Johnson quel genere di violenze sessuali alla McMartin si sarebbero verificate nell'ambito di riti di stregoneria con la complicità dei proprietari, nonché il coinvolgimento di docenti e personale della scuola. La polizia affrontò il caso con grande determinazione e per prima cosa inviò una lettera alle famiglie di 200 alunni dello stesso istituto, per sapere se i bambini negli ultimi tempi avevano notato (o subìto) qualcosa di insolito. Molti genitori interrogarono i loro figli e si persuasero che erano stati anche loro molestati o peggio; poi li condussero al Children's institute international, una clinica che si occupa di abusi, gestita da Kee MacFarlane, medico specializzato nell'arte di far parlare i giovanissimi di questo drammatico genere di esperienze. Nella primavera del 1984 MacFarlane giunse alla conclusione che ben 360 piccoli avevano subito gravi molestie. Ma non era tutto. Gli allievi della McMartin avevano rivelato anche di essere stati costretti a partecipare a rituali satanici e che, nel corso di quei rituali, avevano visto streghe volare, avevano volato loro stessi in palloni aerostatici, avevano visto gli imputati bere sangue e mutilare animali, erano stati rinchiusi in bare e calati sottoterra, erano stati condotti attraverso un armadio in tunnel sotterranei per poi sbucare in cimiteri nei quali avevano assistito a orge e uccisioni. A quel punto era tornata in campo la polizia, che aveva cercato di individuare i tunnel e i cimiteri di cui avevano parlato i bambini. Ma senza successo. I genitori vollero in ogni caso trascinare in tribunale proprietari e insegnanti della McMartin. Ma, dopo venti mesi di indagini, un procuratore giudicò inconsistente gran parte delle accuse: le testimonianze dei bambini furono reputate deboli e in contraddizione l'una con l'altra. Quasi tutti gli imputati furono prosciolti. Ray Buckey dovette però affrontare ugualmente il processo. Nel 1986 l'accusatrice iniziale, la signora Johnson, venne ritrovata morta nel suo appartamento («complicazioni da alcolismo», fu scritto nel referto medico). Nel 1990 Buckey è stato assolto, sia pure da una giuria divisa. Gli imputati hanno fatto causa allo Stato per i danni subiti, ma la clinica che aveva condotto gli interrogatori dei bambini non poteva, secondo la giurisprudenza locale, essere considerata in alcun modo responsabile, neppure sotto il profilo economico (nonostante le più che esose parcelle per le perizie).
Il processo, che per certi versi ricorda il caso italiano di Rignano Flaminio, il cui giudizio di primo grado si è chiuso ieri con l'assoluzione di tutti gli imputati, fu tra i più lunghi e costosi della storia degli Stati Uniti. E tra i più seguiti dai media i quali, nonostante l'esito giudiziario, hanno continuato, in gran parte, a dar credito alla versione dei bambini. Con grande influenza sull'opinione pubblica. Alla fine degli anni Novanta si contavano 12 mila denunce per abusi connessi al satanismo. Moltissime furono le persone imprigionate e le vite distrutte. Ma neanche una di quelle 12 mila denunce ha retto alle indagini e ai processi.