giovedì 31 maggio 2012

La Stampa 31.5.12
Fisco. I dati della discordia
Redditi, i gioiellieri sotto i 17 mila euro
Il ministero: per i professionisti una media di 27 mila euro, ristoratori e tassisti dichiarano meno di 15 mila
I negozianti di abbigliamento dicono di guadagnare 8600 euro all’anno
di Rosaria Talarico


ROMA Nessuna sorpresa sulla parte alta della classifica, dove a dichiarare redditi a sei cifre sono in primis i notai (oltre 318.000 euro), seguiti dai farmacisti (109.700 euro) e studi medici (69.800 euro). Anche commercialisti e avvocati non se la passano male, raggranellando rispettivamente 61.300 e 57.600 euro. Sono questi i dati diffusi dal Dipartimento delle finanze del ministero dell'Economia sulle ultime dichiarazioni riguardanti i contribuenti che rispondono agli studi di settore: autonomi, artigiani, commercianti, professionisti. Nelle dichiarazioni fiscali del 2011, queste categorie hanno dichiarato in media 27 mila euro di reddito annuo, il 3,1% in più rispetto al 2009. Ma resta lungo l'elenco di autonomi che guadagnano, o quantomeno dichiarano, redditi molto bassi, inferiori a quelli medi dei lavoratori dipendenti (19.810 euro nelle stesse dichiarazioni del 2011). C'è chi ad esempio rimane sotto la soglia dei 10 mila euro di reddito annuo. È il caso degli istituti di bellezza (6500 euro), dei negozi di abbigliamento (8600 euro) o delle tintorie (9700 euro). Abbondantemente al di sotto dei circa 20 mila euro annui che guadagna in media un lavoratore dipendente ci sono bar (16.800 euro), ristoranti (14.300), taxi (14.800), gioiellerie (17.000) e autosaloni (14.800).
Per quanto riguarda l'Iva, sono circa 5 milioni i contribuenti che nel 2011 hanno presentato la dichiarazione sull'imposta sul valore aggiunto, l'1% in meno rispetto all'anno prima. Ma il dato più significativo è quello relativo all'elevata concentrazione del giro d'affari: i contribuenti con ricavi oltre 7 milioni di euro (circa lo 0,85% del totale, prevalentemente società di capitali) detengono circa il 66% del giro d'affare totale che emerge dalle dichiarazioni Iva. Inoltre le norme più stringenti sulle compensazioni mostrano un calo nelle ultime dichiarazioni del -39,05% (passando da 16,5 a 10,1 miliardi di euro), con una riduzione di credito utilizzato in compensazione con altre imposte di oltre 6 miliardi di euro.
Il reddito dichiarato delle società di persone è di circa 41.960 euro, lo 0,41% in più rispetto all'anno precedente. Mentre sulle società di capitali sono piovuti invece gli strali del presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti, Claudio Siciliotti: «Non ha senso alcuno che nel controllo di legalità dell'amministrazione a cura del collegio sindacale venga prevista l'esclusione di tutte le srl, a prescindere da qualsivoglia valutazione concernente la dimensione aziendale e patrimoniale». Le società a responsabilità limitata sono infatti tutt'altro che utilizzate solo per gestioni di dimensioni ridotte: sono 11.952 le srl con oltre 10 milioni di euro di fatturato; 4502 quelle con oltre 20 milioni; 2560 quelle con oltre 30 milioni; 1268 quelle con oltre 50 milioni; 519 quelle con oltre 100 milioni. «I numeri mettono a nudo l'assoluta incoerenza, irrazionalità ed infine pericolosità sociale della recente riformulazione della disciplina», conclude Siciliotti.
Per quanto riguarda la lotta all'evasione, il direttore dell' Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, all'assemblea dei commercialisti ha detto che «lo Stato questa volta fa sul serio e intende fare sempre più sul serio e ciò sta determinando un fenomeno inedito di insofferenza fiscale. Ci troviamo a valle di un lungo periodo in cui troppi contribuenti hanno disatteso il patto fiscale con lo Stato. È necessario tornare al rispetto delle regole». Che non vuol dire insensibilità verso le singoli situazioni. Il Fisco ha concesso 1,6 milioni di rateazioni per 20 miliardi.

Corriere 31.5.12
Bar, alberghi e gioiellieri: redditi sotto 17 mila euro
Studi di settore: per la prima volta in un anno di crisi salgono, anche se soltanto dell'1%
di Mario Sensini


ROMA — I redditi medi dichiarati nel 2011 dai quasi 3,5 milioni di contribuenti soggetti agli studi di settore sono aumentati dell'1%, ma la spinta all'adeguamento della dichiarazione dei compensi è arrivata prevalentemente dal basso, cioè da chi guadagna, o dice di guadagnare di meno. Tra il 2010 ed il 2009, visto che le dichiarazioni 2011 riguardano l'anno precedente, gli aumenti maggiori delle somme dichiarate si sono registrate per gli istituti di bellezza, i negozi di abbigliamento e di scarpe, i pellicciai, ma soprattutto per i bar, gli alberghi ed i ristoranti. Qualcosa dunque si muove, anche se in molti settori economici i redditi medi dichiarati al fisco restano poco verosimili.
Gli istituti di bellezza, ad esempio, hanno dichiarato al fisco un reddito medio di 6.500 euro, che è sempre qualcosa in più dei 5.300 euro del 2009, ma sembra ancora poco aderente alla realtà. I negozi di abbigliamento e scarpe, nel 2011, hanno dichiarato guadagni medi di 8.600 euro, contro i 7.700 dell'anno precedente, mentre per i pellicciai il reddito medio dichiarato negli studi di settore è passato da 8.800 a 12.200 euro. Niente a che vedere con le performance di bar, ristoranti e alberghi che, nonostante l'aggravamento della crisi, hanno adeguato all'insù, e di parecchio, la propria denuncia dei redditi.
Nei servizi di ristorazione il reddito medio tra il 2009 ed il 2010 è passato da 12.900 a 14.300 euro, per i bar e le gelaterie è salito da 15.800 a 16.800 euro, mentre per gli alberghi si segnala un aumento spettacolare: da 11.900 a 14.700 euro di media. La maggior propensione di ristoratori e albergatori a pagare le tasse è confermata anche dai dati sulle dichiarazioni delle società di persone che per il settore di alberghi e ristoranti è cresciuto in media del 2,9% (contro una media dello 0,41%).
Tornando agli studi di settore, appaiono in crescita anche i guadagni denunciati dalle gioiellerie (da 16 a 17 mila euro) e dai meccanici (da 24.300 a 24.700 euro), ma dichiarano di più anche i notai, che sono di gran lunga la categoria di contribuenti più ricca, con 318.200 euro denunciati nel 2010, contro i 310.800 dell'anno prima. Al contrario, diminuiscono i redditi medi di commercialisti ed esperti contabili (da 65.900 a 61.300 euro) e soprattutto degli avvocati (da 66.100 a 57.600 euro), ma anche quelli di architetti, pasticceri, macellai e negozianti di giocattoli, mentre sostanzialmente invariati sono i redditi dei farmacisti, dei fornai, dei negozi di alimentari, dei fiorai.
Ovviamente si parla di valori medi, perché tra le diverse tipologie di contribuenti soggetti agli studi di settore esistono differenze molto evidenti. Basti pensare, come sottolinea il ministero dell Finanze in una nota che accompagna i dati di ieri, che i contribuenti persone fisiche dichiarano il 26,9% dei ricavi complessivi, ma dichiarano il 57,3% dei redditi. Mentre, al contrario, le società di capitali soggette agli studi di settore, pur dichiarando la metà del totale dei compensi, denuncia solo il 17,8% del totale dei redditi.
Anche l'analisi delle dichiarazioni Iva fornisce indicazioni interessanti sulla struttura dei redditi. In quell'ambito lo 0,85% dei contribuenti, che sono quelli che hanno un giro d'affari superiore a 7 milioni di euro l'anno, detengono circa il 66% del volume d'affari complessivo registrato dai 5,2 milioni di partite Iva attive. Da sottolineare, sempre per quanto riguarda l'Iva, gli effetti della stretta sulle compensazioni tra crediti e debiti, avviata due anni fa con la certificazione obbligatoria del crediti da parte dei commercialisti. Il giro di vite ha prodotto un calo delle compensazioni di quasi il 40%: tra il 2009 ed il 2010 sono scese da 16,5 a 10,1 miliardi di euro. Segno che le nuove norme, dice il ministero, si sono dimostrate efficaci contro le compensazioni indebite, e dunque contro l'evasione fiscale. Un fronte sul quale il governo e le sue agenzie non hanno intenzione di arretrare. «Noi applichiamo la legge, e non possiamo stabilire caso per caso quale sia una sofferenza giusta che si può infliggere, e quale sia una ingiusta che non va inflitta. Se così si facesse, si derogherebbe alla legge. È il Parlamento che deve affrontare questo problema. Essere fermi non vuol dire essere insensibili».

Corriere 31.5.12
Capitali in uscita dal Paese. Dal 2009 saliti a 322 miliardi
di Marco Galluzzo


ROMA — La Banca d'Italia lo chiama in termini statistici contributo italiano alla «posizione di liquidità del sistema bancario dell'area euro». In modo diverso e più semplice, almeno nel caso dell'Italia, è la cifra che riassume quasi tutti i disinvestimenti esteri avvenuti dal nostro Paese negli ultimi due anni e mezzo: oltre 300 miliardi di euro, per l'esattezza, a marzo, 322.
E' un trend di sfiducia, di fuga di capitali, iniziato proprio alla fine del 2009: la crisi dei debiti sovrani aveva appena sfiorato il nostro Paese, ma soprattutto il saldo creditorio fra la Banca d'Italia e la Bce era positivo a nostro favore di 60 miliardi di euro. Si è trasformato in emorragia alla fine dell'estate, con Berlusconi messo sotto accusa dall'impennata dello spread fra i titoli di debito italiano e quelli tedeschi: una «fuga», non fanno mistero di ammettere a Palazzo Koch, ripresa in modo copioso ad aprile di quest'anno, facendo segnare un saldo negativo di 262 miliardi di euro.
Un indicatore meno conosciuto di altri, quelli magari messi sotto osservazione a Bruxelles, ma che non manca di preoccupare sia le istituzioni sia chi ci guarda da fuori, a cominciare da banche d'affari, agenzie di valutazione del debito, ulteriori investitori stranieri. Quelli che sono rimasti «liquidi» nel nostro Paese e non ancora sostituiti, come avvenuto negli ultimi mesi, dal debito delle banche italiane nei confronti della Bce, una cifra non lontana da quella complessiva.
In questi mesi se n'è ovviamente discusso, per le modalità dei degli enormi prestiti veicolati dalla Bce diretta da Mario Draghi alla «zona periferica», per usare un linguaggio delle banche internazionali, della zona euro: Portogallo, Spagna, Irlanda, Grecia e Italia. Ma non con la stessa preoccupazione di oggi.
Secondo uno degli ultimi report di Citigroup rivolto ai propri clienti, la banca americana prevedeva pochi giorni fa che sia dall'Italia che dalla Spagna, a meno di politiche incisive in ambito politico europeo, partiranno altri 200 miliardi di euro, in termini di disinvestimenti dai titoli di Stato e delle imprese (maggiormente Italia) o dai depositi bancari (molto più nel caso della Spagna).
In sostanza dall'estero continua in modo costante la vendita dei nostri titoli pubblici, delle obbligazioni delle nostre imprese, un «saldo negativo» che le ultime emissioni di presiti a basso costo di Francoforte hanno appena tamponato. E si guarda in modo distratto, se non molto scettico, alle misure che si discuteranno a Bruxelles a fine mese, al Consiglio europeo chiamato a rilanciare la crescita, come a discutere dei migliori sistemi per proteggere l'eurozona da un possibile crack.
Sempre secondo la banca americana, il trend spagnolo e italiano di quello che viene definito come «flight from peripherals», nell'ultimo anno, non è molto dissimile da quanto già avvenuto proprio in Grecia, Portogallo e Irlanda. Previsioni che possono anche essere giudicate speculative, ma che non per questo vengono osservate con meno preoccupazione sia nel governo che nel resto del sistema istituzionale.
Si potrebbe dire che si tratta di squilibri di liquidità fra istituzioni «amiche», osservando Bce e Bankitalia come parti di un unico gruppo monetario, un sistema che però, sino a due anni fa, era stato in sostanza in equilibrio, e che periodicamente dovrebbe tornarvi. Ma è la prima volta che la zona euro è sottoposta a squilibri di questa entità, con i risultati che sono già sotto gli occhi di tutti.
Ovviamente la risalita dello spread, negli ultimi giorni, non ha rallegrato chi è abituato a controllare questi numeri: sia che li si veda come debito delle banche nei confronti della Bce (da un punto di vista sostanziale ha sostituito gli investitori esteri); sia che la prospettiva sia il debito della Banca d'Italia nei confronti delle banche centrali nazionali (dov'erano insediate le banche degli investitori che sono usciti dall'Italia), è la velocità dell'allargamento dello sbilancio che viene rimarcato dagli analisti.
Solo nel mese di marzo di quest'anno, ultimo dato disponibile, sempre nei Bollettini statistici emessi dalla Banca centrale, sono divenuti «italiani» 37 miliardi di titoli di Stato che erano sino a febbraio in mano straniera: una categoria che nelle tabelle viene indicata con una spiegazione fredda per quanto eloquente, «non residenti». Gente che non è per nulla sicura di restare «liquida» nel nostro Paese, non importa se il titolo detenuto è arrivato a scadenza o meno.

Youreporte.it

In occasione del VII Incontro Mondiale delle Famiglie, il Pontefice sarà a Milano dall’1 al 3 giugno. Una visita di più giorni. Benedetto XVI andrà prima in Duomo, poi alla Scala, poi a San Siro
Una visita che si preannuncia molto costosa. Una cifra ufficiale non c’è. Ma sul web vari blogger fanno i conti e ipotizzano anche 10 milioni di euro. Alcuni costi, certi e comunque al ribasso, sono già stati ipotizzati. Il Comune di Milano ha stanziato 3 milioni e 100mila euro. E’ questa la spesa ipotizzata solo per rinforzare i mezzi pubblici, per l’acqua potabile e le numerose esigenze legate all’arrivo di un numero impressionante di pellegrini. La Curia parla addirittura di un milione di persone. La macchina organizzativa del Vaticano per portare i fedeli a Bresso sarà enorme. Si parla di almeno 5mila pullman. Nei 3 milioni di euro dovrebbe rientrare anche la finta apertura della linea MM5 della metropolitana. Finta, perché sarà chiusa subito dopo.
Oltre ai costi ipotizzati dal Comune di Milano, si aggiungono i 2 milioni di euro stanziati dalla Regione. Tra i 600mila euro e il milione di euro la spesa del comune di Bresso per la sistemazione della viabilità per opere connesse all’arrivo del Papa.
Non sono noti i costi che invece sosterranno gli altri comuni come Cinisello Balsamo e Nova Milanese. Si ignora il costo anche della costruzione del super palco sulla pista dell’aeroporto di Bresso, su cui fervono grandi polemiche. Parte dei costi dell’allestimento delle strutture al parco Nord saranno sostenute dagli sponsor.
L’anno scorso, ad agosto, in Spagna c’erano state grandissime proteste con scontri tra gli indignados e i papa boys proprio perché le spese per la visita del Pontefice (anche in questo caso in buona parte sulle spalle dei contribuenti e non del Vaticano) erano giudicate eccessive.

I conti per la visita del Papa a Milano per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie nel calcolo dell’UAAR:

3,1 milioni di euro: il costo per il Comune di Milano
    2 milioni di euro:  il costo per la Regione Lombardia che ha messo a disposizione degli organizzatori dell’evento un piano di uffici al grattacielo Pirelli.
    2 milioni di euro: finanziamenti Banca Intesa
    500 mila euro: finanziamenti della Fondazione Cariplo
    500 mila euro: finanziamenti di Eni
    10 milioni di euro: costo che ricadrà sulla stessa Fondazione Family Day, non ancora completamente coperto

La Stampa 31.5.12
In gioco c’è la scelta del suo successore
L’intelligence: guerra tra due fazioni per il dopo-Ratzinger Vecchia guardia contro bertoniani. Il ruolo dei cardinali
Le tensioni si sono scatenate dopo le ultime nomine, favorevoli al segretario di Stato
L’obiettivo è  ottenere o ribaltare una posizione di maggioranza nel prossimo conclave
di Giacomo Galeazzi e Francesco Grignetti


CITTÀ DEL VATICANO In gioco, come è di tutta evidenza, ci sono gli equilibri più delicati del Vaticano. E lo scontro che si va consumando dietro il Portone di Bronzo riguarda la posta più alta che ci possa essere: la scelta del prossimo Papa. Così la leggono, almeno, gli analisti più fini. Secondo una lettura condivisa anche dall’«intelligence» italiana, è in corso una guerra di posizione tra almeno due schieramenti l’un contro l’altro armati. Da una parte la vecchia guardia, la diplomazia della prestigiosa scuola di piazza della Minerva (Sodano, Sandri). Dall’altra il nuovo che avanza: Bertone e i suoi fedelissimi (Versaldi, Calcagno, Coccopalmerio, Bertello). Che le munizioni siano documenti segreti che finiscono ai media, poco conta. Resta il fatto che i vertici della Santa Sede stanno smottando, una casella alla volta. Tutti gli «infedeli» debbono essere cacciati, nessuno deve rimanere in sella. Prima il segretario generale del Governatorato, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò. Poi il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi.
Non è un mistero che nel mirino dei «corvi» ci sia ora il segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Ieri il Pontefice ha esternato pubblica fiducia verso i suoi più «stretti collaboratori» proprio per puntellare la posizione del suo braccio destro. E’ la gestione bertoniana, però, che avrebbe scatenato la faida dentro la Curia vaticana. Un passo, in particolare. La nomina da parte del Papa di 22 nuovi cardinali nel concistoro del 18 febbraio. Erano mesi che se ne parlava nei corridoi del Vaticano. Ma quando si sono conosciuti i nomi, alla corrente ostile a Bertone è parso chiaro che gli equilibri nel Sacro Collegio stavano cambiando perché molti dei nuovi cardinali erano italiani e molti quelli considerati di osservanza bertoniana. E così un intellettuale cattolico che parla chiaro come lo storico Alberto Melloni spiegava fuori dai denti: «Ormai lo hanno capito anche i sassi, è dentro il cuore del potere curiale che si addensa il grosso delle tensioni e delle insoddisfazioni».
Certo, nel collegio cardinalizio la componente italiana è molto forte, ma da che mondo è mondo i cardinali non hanno mai votato guardando alla bandiera. Gli italiani hanno perso il conclave nel ‘78 e nel 2005 non perché fossero pochi ma perché erano divisi. La maggioranza nel prossimo conclave, dunque, è la vera posta in gioco. Ovvero gli equilibri tra le diverse cordate.
Il tutto in vista di una scadenza che è nella natura delle cose, considerando che Benedetto XVI ha compiuto 85 anni. L’accenno di ieri all’adempimento del suo ministero conferma che Benedetto XVI non ha la benché minima intenzione di dimettersi. Una proposta che il direttore del «Foglio» Giuliano Ferrara, tra gli altri, è tornato a prospettare in questi giorni. «Elucubrazioni giornalistiche», l’ha liquidata il portavoce vaticano Federico Lombardi. Lo stesso Ratzinger, peraltro, non aveva escluso l’ipotesi di dimettersi, nel libro-intervista «Luce del mondo», qualora non fosse più in grado di guidare la Chiesa per impossibilità fisica, psicologica o spirituale, ma aveva precisato che un comandante non lascia la nave nei momenti di difficoltà.
Intanto si annuncia ormai un nuovo concistoro, che si dovrebbe tenere a dicembre e che qualcuno Oltretevere chiama «di risarcimento» perché dovrebbe ristabilire gli equilibri destabilizzati dall’ultima infornata di porporati. Anche gli episcopati nazionali manifestano malumore per la sproporzione tra capidicastero premiati con la berretta cardinalizia e Chiese locali sottorappresentate nel Sacro collegio.
La tempistica della fughe di documenti fa pensare ad un piano predefinito, ma resta da vederne gli effetti. Quanto la «guerra dei veleni» all’interno della Curia romana può accrescere o diminuire le chance di ascesa al Soglio di Pietro di un candidato italiano dopo due pontefici stranieri? Uno scenario sotto osservazione dell’«intelligence» soprattutto da quando un papabile italiano (l’arcivescovo di Milano, Angelo Scola) è in pole position per la successione. «Il Papa non è fuori dalla disputa, alla fine farà giustizia ed emergerà chiaramente chi avrà vinto e chi avrà perso in questa contesa», assicura un cardinale «mediano» tra le due fazioni in lotta. La commissione cardinalizia non fa sconti, tiene «audizioni» con monsignori e porporati, riferisce personalmente al Pontefice ciò che di più grave emerge. L’attenzione è focalizzata in particolare su un cardinale di Curia di lungo corso.
«I cardinali rispondono al Papa, se ci sono problemi seri che riguardano un cardinale sicuramente dev’essere coinvolto - spiega padre Lombardi -. Non può dipendere dal capo della Gendarmeria o dal magistrato inquirente se interrogare o meno un cardinale». La commissione d’inchiesta raccoglie testimonianze e informazioni su Vatileaks, ma è tutt’altro che risolta anche la partita-Ior. Nel «direttorio» della banca del Papa, i cardinali Nicora e Tauran hanno chiesto chiarimenti sulla sfiducia a Gotti Tedeschi. «Non poteva restare presidente: faceva scenate in consiglio e trattava male gli altri componenti laici del board», spiega un banchiere vicino a Bertone. Se l’orizzonte ultimo è il conclave, la tappa intermedia è la segreteria di Stato. A dicembre Bertone compie 78 anni e il Papa potrebbe sostituirlo per pacificare la Curia. A seconda se al suo posto andrà il ministro degli Esteri Mamberti (continuità) o Sandri (cambio di direzione) si capirà quale fazione ha avuto la meglio.

Repubblica 31.5.12
Le piaghe del Vaticano. Un centro di potere fatto di clientele e favori
Lo scandalo dello Ior è soltanto la schiuma che viene a galla, ma le "cinque piaghe della Santa Chiesa" che il beato Antonio Rosmini enumerò quasi due secoli fa hanno prolificato ormai nella Curia romana in una sconfinata "coalizione anticristica di interessi", come la definiscono i cristiani di base.
Dalla P2 agli appalti del G8 ecco la Vatican connection con cardinali, faccendieri e massoni
di Alberto Statera


Ripercorrendo le vicende che hanno segnato l´era Berlusconi, ecco una lista completa degli scandali transitati per San Pietro
I fili delle vicende della casa di Dio, annodano in una trama ferrea gli intrecci politico-affaristici di prima e seconda Repubblica
"Ma perché il Vaticano appoggia sempre i corrotti, i corruttori, i ladri, i manopolatori di coscienze?"
Una Vatican Connection, i cui fili uniscono in una trama ferrea le inverecondie politico-affaristiche della prima e della seconda Repubblica italiana. Senza dover tornare troppo indietro fino a Sindona, all´Ambrosiano, alla P2 o al riciclaggio nel Torrione di Niccolò V della tangente Enimont, madre di tutte le tangenti della prima Repubblica, basta ripercorrere le vicende che hanno segnato i tre lustri del berlusconismo per tracciare un compendio quasi completo degli scandali italici transitati in qualche modo nel Cortile di San Damaso. Dalla Protezione Civile ai Grandi Eventi, dai Furbetti del Quartierino capitanati dal pio legionario di Cristo Antonio Fazio, intimo del cardinal Gian Battista Re, alla P3 e alla P4; dal San Raffaele di don Verzé al grumo di interessi immobiliari di Propaganda Fide. In una folla di cardinali e faccendieri, ministri e affaristi, Gentiluomini di Sua Santità e bancarottieri, opuisdeisti e massoni, cilici e compassi.
«Ma perché - arriva a chiedersi un prete di base come don Paolo Farinella - il Vaticano appoggia sempre i corrotti, i corruttori, i ladri e i manipolatori di coscienze? Perché si affida a Gianni Letta, coordinatore della rete di corruttela?». Sì, Gianni Letta, che il Segretario di Stato Tarcisio Bertone definisce «il nostro ambasciatore presso lo Stato italiano», e la sua corte di disinvolti grand commis, di generali felloni e di spudorati faccendieri. Non solo il ben noto Luigi Bisignani (che ha da poco patteggiato un anno e sette mesi di reclusione per lo scandalo P4), il quale si occupò del lavaggio della maxitangente Enimont e curava il conto "Omissis" di Giulio Andreotti allo Ior, ma anche l´altra eminenza grigia dell´ultimo decennio: il signore degli appalti truccati Angelo Balducci, il Gentiluomo di Sua Santità versato non solo nella corruttela del denaro e del potere, ma anche in quella indotta dalle sue abitudini sessuali, che ha rivelato persino l´onta di un giro di prostituzione maschile all´interno delle mura leonine, quelle che difesero San Pietro dai musulmani. «Angelo - gli sussurrava al telefono (registrato dai magistrati - ndr) il corista vaticano che gli procurava la "merce" tra i seminaristi - non ti dico altro: è alto due metri per 97 chili, 33 anni, completamente attivo»; «Ho un tedesco appena arrivato o vuoi stare col norvegese?». Questo Balducci, presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici prima dell´arresto e dell´espulsione dai Gentiluomini di cui faceva parte già dal 1995, dieci anni prima di Gianni Letta, titolare di un conto assai movimentato allo Ior, assurge definitivamente a fiduciario vaticano in occasione del Giubileo dell´anno 2000 al seguito del cardinale Crescenzio Sepe, oggi arcivescovo di Napoli, indagato per corruzione, che lo nomina supervisore delle ristrutturazioni e delle manutenzioni dell´immenso patrimonio immobiliare di Propaganda Fide. Un centro di potere e di affari opachi senza eguale. Ne fa una sorta di agenzia immobiliare per i potenti a condizioni di favore. Se un ministro come Pietro Lunardi vuole fare un business sicuro, Balducci gli procura un palazzetto di mille metri quadrati in via dei Prefetti a prezzo d´affezione. A chi non compra, Propaganda Fide fornisce appartamenti nelle zone storiche di Roma e Diego Anemone, l´imprenditore protagonista tra l´altro dello scandalo degli appalti del G8 della Maddalena (che comprò l´appartamento del ministro Scajola "a sua insaputa"), costato agli italiani alcune centinaia di milioni di euro, introdotto da anni in Vaticano da Balducci tramite monsignor Francesco Camaldo, ex segretario del cardinale Ugo Poletti e capo del cerimoniale pontificio, li ristruttura gratis et amore Dei. Intorno a lui, un sabba di prelati piuttosto sinistri. Da don Piero Vergari, priore della Basilica di Sant´Apollinare (dove fu sepolto il boss della banda della Magliana Enrico De Pedis) indagato per il rapimento di Emanuela Orlandi, a don Evaldo Biasini, economo dei missionari del Preziosissimo Sangue e gestore della cassaforte nera di Anemone e Balducci.
È in una reggia concessa da Propaganda Fide, residenza di Bruno Vespa e di Augusta Iannini nei pressi di piazza di Spagna, che nel luglio 2010 il cardinal Bertone, ospite con Berlusconi, Gianni Letta e Cesare Geronzi, cerca di convincere Pier Ferdinando Casini a salvare il governo del Cavaliere e con lui gli interessi della Chiesa. Sulla terrazza che guarda Roma c´è anche l´allora governatore della Banca d´Italia Mario Draghi, che forse capisce un po´ tardivamente di cosa si tratta e, con una scusa, lascia il convivio appena può. Gli altri commensali sono più intimi. Col segretario di Stato vaticano, che celebrò le nozze di una delle sue figlie, Geronzi si da del tu. Letta è Gentiluomo di Sua Santità, un´armata di uomini in frac e collare d´oro, già denominati Cavalieri di Spada e Cappa, utili per «tante nascoste mansioni», come disse papa Ratzinger ricevendoli e non cogliendo l´allusione che, visti i fatti, in italiano non risulta molto commendevole. L´ordine riunisce i massimi dignitari laici della "famiglia pontificia", per gran parte italiani, un centinaio, non di rado inseguiti dalla giustizia, come già capitò al massone Umberto Ortolani, gentiluomo - si fa per dire - del Papa e al tempo stesso capo della Loggia massonica P2 in condominio con Licio Gelli. Tre di loro figurano oggi nel solo scandalo degli appalti per i Grandi Eventi. Gli stranieri non elevano peraltro il tasso di moralità del club, visto che vi figura, tra gli altri, Herbert Batliner, il re delle fiduciarie offshore, coinvolto nella storia della Banca Rasini, di cui fu direttore Luigi Berlusconi, papà dell´ex premier, definita lo sportello della mafia e del Vaticano. E poi rilevata da Gianpiero Fiorani, l´ex banchiere che faceva costosi presenti alla consorte dell´ex pio governatore della Banca d´Italia Antonio Fazio e, a suo dire, finanziava in nero il cardinale Castillo Lara, i Legionari di Cristo e la Lega di Bossi impantanata nello scandalo Credieuronord. Quanto a Guido Bertolaso, per anni pilastro vanaglorioso del sistema Letta-Bisignani-Balducci, pare che non figuri nella lista dei pii uomini in frac, ma non aveva comunque problemi, con tutti gli appalti che gestiva senza controlli, a ottenere dal collaboratore Memores Domini del cardinal Sepe il quartierino in via Giulia, ideale per i suoi massaggi alla schiena. Anche lui è uno di famiglia: la sorella Marta è nel Campus biomedico dell´Opus Dei, il fratello Emanuele nel Consiglio regionale per l´Austria della prelatura.
Dagli appalti del G8 della Maddalena alla corruzione internazionale di Finmeccanica. «Ieri sera ho parlato con Bertone, mi ha chiamato lui al telefono», spara il massone Valterino Lavitola, sedicente giornalista ed editore, curatore di dossier diffamatori e faccendiere personale di Berlusconi e dei suoi traffici di letto e di affari sporchi, oggi in galera, al suo sodale "Ciccio" Colucci, ex socialista, questore berlusconiano della Camera. Sostiene che vogliono farlo sottosegretario o commissario straordinario per il terremoto in Abruzzo. Dice che la Santanché «è invisa in Vaticano» e che il Segretario di Stato si sta spendendo per questo a suo favore con il gentiluomo Letta. «Assurdità che rasenta il ridicolo», replica la Segreteria di Stato quando esce l´intercettazione. Ma tutto ormai sembra possibile là oltre il portone di bronzo se è vero che, caduto Berlusconi, la seconda autorità religiosa dopo il Papa propone a Mario Monti come sottosegretario nel governo "strano" dei tecnici Marco Simeon, un giovanotto suo pupillo fin da quando era Arcivescovo Metropolita di Genova. Quando anni fa Capitalia si fonde nell´Unicredito di Alessandro Profumo, il Vaticano si allarma. Geronzi corre allora all´ambasciata d´Italia presso la Santa Sede per rassicurare la Conferenza Episcopale e si prende il figlio del benzinaio sanremese come super-consulente. Sarà poi Simeon, nel frattempo diventato responsabile di Rai Vaticano dopo aver soponsorizzato l´opusdeista Lorenza Lei alla direzione generale, a organizzare il siluramento del cardinale Carlo Maria Viganò, che andava denunciando «una situazione inimmaginabile» di «corruzione ampiamente diffusa» negli appalti e nelle forniture vaticane. Un malaffare «a tutti noto in Curia». Ma il giovanotto è talmente sicuro di sé che poche settimane fa in un´intervista al "Fatto Quotidiano" ha fornito una risposta alquanto ambigua quando gli hanno chiesto se, come dicono incontrollati pettegolezzi, lui del Segretario di Stato è in realtà il figlio.
Il destino di Gotti Tedeschi, cacciato la scorsa settimana dallo Ior con immeritata ignominia, era comunque segnato fin da quando Geronzi, manifestandogli sommo disprezzo, disse di lui in un´intervista al Corriere della Sera: «È un personaggio ritenuto preparato che si è particolarmente esercitato nella demografia», riferendosi ai cinque figli dell´ormai ex banchiere del Papa, che si era opposto al salvataggio del San Raffaele di don Verzé da parte dello Ior, affossando il progetto di un grande polo sanitario vaticano coltivato con determinazione dal cardinal Bertone. E comunque i segreti inconfessabili della prima e della seconda Repubblica e del papato, sigillati nel caveau dello Ior non erano più considerati abbastanza blindati.
Vi risparmieremo i dettagli del romanzo criminale intrecciato al potere politico di don Verzé, che tra l´altro utilizzava l´ex capo dei Servizi segreti italiani Nicolò Pollari per minacciare attentati ai suoi nemici, e anche gli sviluppi quotidiani dello scandalo di cui è protagonista il Memores Domini Roberto Formigoni, con il suo coté di cardinali di Curia, da cui fortunatamente ha tempestivamente preso le distanze l´arcivescovo di Milano Angelo Scola. Ma con la certezza che «appena suona la moneta nella cassa, l´anima salta fuori dal purgatorio», come diceva il predicatore medievale Tetzel, che durante il papato di Giulio II vendeva lettere di indulgenza per la remissione dei peccati in cambio di denaro sonante. Che non olet nella stanze del vicario di Cristo.

Repubblica 31.5.12
"Viganò deve restare a Roma" sul caso del Governatorato lo scontro tra Ruini e Bertone
Il Papa: ho piena fiducia nei miei collaboratori
di Marco Ansaldo


La difesa del Pontefice dei suoi collaboratori segna solo una tregua tra la segreteria di Stato e Padre Georg
I rapporti tra il segretario di Stato e l´ex presidente della Cei si erano già raffreddati sul caso Medjugorie

CITTÀ DEL VATICANO - «Caro Tarcisio, credo che sia più opportuno lasciare monsignor Viganò al suo posto, senza mandarlo via come nunzio a Washington». Nella guerra che si consuma in Vaticano attorno alla figura e all´operato del Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, c´è chi ha sconsigliato il governo della Santa Sede dal compiere mosse giudicate dirompenti. E, in questa storia, un ruolo per nulla secondario spetta al cardinale Camillo Ruini.
Il caso esplose quando lo scorso gennaio emerse sulla stampa la lettera in cui Carlo Maria Viganò, segretario generale del Governatorato vaticano, scrisse al Papa le seguenti parole: «Un mio trasferimento provocherebbe smarrimento in quanti hanno creduto fosse possibile risanare tante situazioni di corruzione e prevaricazione». Ruini aveva a suo tempo già parlato a Bertone, dicendogli di non allontanare il prelato. Consigliandogli, anzi, di staccarsi un po´ di più dalle vicende e di tenere un profilo magari diverso, meno personalmente coinvolto. Ma la decisione venne presa ugualmente. E Viganò, nonostante avesse in buona parte risanato i conti della struttura, si vide costretto a lasciare Roma.
Eppure i rapporti fra il Segretario di Stato e l´ex presidente della Cei si erano raffreddati prima, sul caso del santuario di Medjugorie. Il sito religioso croato ogni anno attira masse di fedeli, con un indotto economico ritenuto formidabile. Bertone voleva mantenerlo. Ruini non era dello stesso avviso. Quest´ultimo, oggi, è a capo della commissione incaricata di verificare l´attendibilità dei miracoli che vi si compirebbero, e Medjugorie potrebbe presto conoscere la sua sorte.
Ruini, benché fuori dalla dirigenza della Cei da cinque anni, mantiene intatti i suoi rapporti intensi con il mondo politico e con quello curiale. Se c´è da esprimersi sulla maggioranza di governo o sulla Rai, la parola del porporato emiliano è sempre molto ascoltata. E così in Vaticano, dove il suo vero ruolo è quello di mediare fra le sensibilità diverse dei cardinali. Benedetto XVI lo tiene sempre in grande considerazione. E pur mantenendo Bertone al suo fianco ormai da moltissimi anni, non dimentica il lungo e fruttuoso lavoro svolto assieme al porporato di Sassuolo. Il suo carisma, il fiuto politico, la finezza intellettuale, sono tutte doti che hanno finito per generare sospetti al vertice della Segreteria di Stato. Difatti, quando il sindaco Gianni Alemanno fu d´accordo nell´organizzare una visita del Papa alla Garbatella per allentare i problemi del quartiere, è a Ruini che si appoggiò volentieri. E quando il professor Giovanni Maria Flick volle lamentarsi per la mancata presidenza dell´Istituto Toniolo, è dall´ex leader della Cei che andò a parlare.
Con i suoi occhi freddi e vigili dietro gli occhiali leggeri, Ruini osserva oggi il marasma vaticano con preoccupazione. L´intesa con il cardinale decano, l´ex Segretario di Stato, Angelo Sodano, è intatta. Così i suoi rapporti con il mondo ebraico e con il presidente della comunità Riccardo Pacifici. Buono il dialogo con don Georg Gaenswein, il segretario personale del Pontefice.
Per il Papa questi sono i giorni più duri. E mentre le fughe di documenti riservati e l´arresto di un membro della Famiglia pontificia, il suo maggiordomo, scuotono la Chiesa, Joseph Ratzinger ieri ha deciso infine di parlarne pubblicamente per la prima volta, rompendo il suo silenzio dopo che martedì lo aveva fatto l´Osservatore Romano con il titolone di prima pagina "Le carte rubate del Papa". Benedetto XVI ha scelto l´udienza del mercoledì, in piazza San Pietro. «Gli avvenimenti successi in questi giorni circa la Curia e i miei collaboratori - ha detto davanti a 15 mila persone che lo ascoltavano in silenzio - hanno recato tristezza nel mio cuore». E ha subito aggiunto: «Desidero, per questo, rinnovare la mia fiducia e il mio incoraggiamento ai miei più stretti collaboratori». Fiducia rinnovata a tutti, dunque, per il momento, tanto al cardinale Bertone, quanto a monsignor Gaenswein. Una tregua. Il loro duello, per ora, è rinviato.
Il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha detto poi che non c´è stato alcun contatto circa nuovi indagati fra la Santa Sede e la Procura di Roma. Confermando però il colloquio fra don Georg Gaenswein e il maggiordomo Paolo Gabriele prima dell´arresto di quest´ultimo, quando il segretario del Papa manifestò i sospetti caduti sul cameriere. I legali dell´uomo presenteranno ora istanza di libertà vigilata o di arresti domiciliari.
Diceva ieri dall´alto del suo incarico di Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, il cardinale Gianfranco Ravasi, commentando lo scandalo: «La Chiesa non è una realtà che decolla dal mondo verso cieli mitici e mistici. E´ una realtà che è impiantata nel terreno. E, qualche volta, il terreno è anche fango, e impolvera le vesti».

Repubblica 31.5.12
Il corvo
Il simbolo di tutte le trame dentro i palazzi del potere
di Filippo Ceccarelli


La vicenda delle carte trafugate dalle stanze papali è solo l´ultimo caso di una lunga storia di spie e traditori infiltrati al fianco di sovrani e governanti
Il Vaticano ha da sempre ospitato una grande centrale di diffamazione contro il nemico della porta accanto, che produce trappole e cattiverie
La chiusura genera misteri, segreti insinuazioni, allusioni e alimenta spifferi soffiate, veline pacchetti avvelenati e pallottole vaganti
Corvi, d´accordo, ma anche vipere, talpe, sciacalli, avvoltoi. E poi, almeno a Roma, ci sarebbero i sorci, non solo in Vaticano considerati delatori di infimo ordine.
Vasto è infatti lo zoo della denigrazione incognita. Narra la leggenda che un giorno il presidente del Consiglio Spadolini, insigne storico del potere temporale ed ex direttore del Corriere della Sera, sottopose ai suoi più fidati collaboratori un dilemma su una strana figura di ecclesiastico sospettato di passare informazioni all´esterno: «Grande verme – chiese pensoso – o piccolo serpente?».
Si parte dunque da una condizione animale, ma proprio per questo circonfusa da un alone mitico e dotata di notevole carica narrativa. Basti pensare che dieci anni orsono, con l´acclarato pseudonimo di Franco Mauri, l´ex presidente della Repubblica Cossiga scrisse per Libero due racconti di fanta-realtà intitolati l´uno Il giorno del corvo e l´altro Il ritorno del corvo. Potere, quattrini, sesso, malattie, debolezze umane: ci si potrebbe tranquillamente scrivere la storia d´Italia con le false verità e i catastrofici appelli dei corvi, anche se non sempre le semplificazioni giornalistiche rendono giustizia a una categoria così complessa e articolata da sfumare nella caotica calunnia e nell´indistinto mestatorio.
E comunque. Qualsiasi vero romano sa che i sacri palazzi sono la più grande centrale di diffamazione sul nemico della porta accanto, una tale agenzia di trappole e cattiverie da far sembrare la Rai e il Transatlantico come due luoghi quasi innocenti. E questo ben prima dell´epopea truffaldina di monsignor Cippico, detto "Monsignor Cagliostro", che riuscì a evadere dal carcere vaticano della Torre dei venti; ben prima delle stupefacenti rivelazioni del giornalista e falsario Scattolini che fece fesso il capo dell´Oss Angleton; e prima ancora che l´archiatra di Pio XII, Galeazzi Lisi, successivamente detto "il corvo della Leica", si vendesse le foto dell´agonia del suo illustre paziente.
È sempre stato così. Con il grazioso risultato che da Sindona a Calvi fino ad Alì Agca e a Emanuela Orlandi, passando per l´avvelenamento di Papa Luciani, la strage delle guardie svizzere e le perenni disavventure dello Ior, la Santa Maldicenza fornisce ai corvi vaticani la più abbondante razione di polpette di zizzania e crostini scottadito. I quali a loro volta trovano sfogo non solo in un´incessante produzione di lettere anonime per così dire private, ma anche in una fioritura di libelli – una dozzina almeno ne ha pubblicati a partire dal 1998 la casa editrice Kaos, tra i più tosti Via col vento, Bugie di sangue, Fumo di Satana in Vaticano – attraverso cui singoli ecclesiastici o gruppi di prelati in vena di moralizzazione additano al pubblico ludibrio le peculiari perfidie della Santa Sede.
Nel 1999 fu pizzicato come gracchiante autore un anziano monsignore, a nome Marinelli, che si firmava "I Millenari": ma il destino paradossale dei corvi è che una volta scoperti, ritornano nell´anonimato o nell´oblio, e altri neri volatili proseguono la loro opera – non necessariamente inutile, occorre riconoscere, né sempre spregevole – al di qua e al di là del Tevere.
Difficile è capire cosa fa dell´Italia l´ideale patria dei corvi. Se l´idea del nemico in casa accende le menti, e l´ossessione del traditore infiltrato è tra i segni inconfondibile del discorso paranoico, è anche vero che un potere chiuso e incapace di auto-riformarsi genera di per sé misteri, segreti, sospetti, allusioni, insinuazioni, di conseguenza alimentando spifferi, soffiate, veline diffamatorie, pacchetti avvelenati, colpi bassi e pallottole vaganti.
Di solito i potenti adorano gli spioni e i mestatori di razza lo sanno benissimo e ne approfittano. Da questo punto di vista si può dire che la polizia fascista, l´Ovra, mise in piedi una rete eccellente di corvi, ma poi anche i servizi segreti – vedi le denigrazioni mirate dell´affare Montesi o i 157 mila fascicoli raccolti dal Sifar – perfezionarono quei metodi, non di rado facendo sì che documenti e rivelazioni finissero anche sui giornali.
E tuttavia l´epiteto di corvo è abbastanza recente, fine anni 80, e proviene dalla Sicilia dove l´insidia anonima è un arte raffinatissima praticata anche nei caffè o dal barbiere. L´atto fondante della famiglia degli accusatori furono certe lettere in cui si diceva che Falcone aveva in pratica concesso licenza di uccidere ad alcuni pentiti. Fu allora avventurosamente accusato un giudice di averle scritte, ma in seguito venne scagionato. A distanza di 23 anni il dubbio è che le abbia fatte scrivere Totò Riina.
Sta di fatto che da allora i corvi volteggiano sulle procure. Una piccola e sommaria ricerca sulla benemerita banca dati dell´Ansa dal 1995 in poi indica la loro presenza a Brescia (inchiesta Di Pietro), Bologna (caso Uno bianca), La Spezia (vicenda Necci), Napoli (presunti rapporti tra giudici, poliziotti e camorra), Catanzaro (toghe lucane e affini), Bari (impiccio D´Addario), Roma, dove nella missiva era accluso un chiodo di 5 centimetri per inchiodare appunto i suddetti colpevoli e Reggio Calabria, dove nel 2008 l´anonimo si firmò proprio così: "Il Corvo", maiuscolo.
Ma proseguendo la disamina è irresistibile accennare al "corvo a luci rosse" del tribunale di Sondrio, o al "corvo reale" che svolazzava sulle beghe dei Savoia; e quindi al "corvo laziale" che se la prendeva con Eriksson e a un paio di corvi accademici (spese allegre alla Normale, concorsi imbrogliati a Potenza). Più un numero non calcolabile, ma certamente elevato di corvi radiotelevisivi operanti lungo l´asse che idealmente collega viale Mazzini a Saxa Rubra. In tale ambito, secondo una tipica formula delatoria, "i bene informati" segnalano l´assai stravagante, ma ragionevole fenomeno di corvi e contro-corvi in lotta.
Con il che sembra quasi che s´inverino le indimenticabili rime di un antico gioco poetico di Toti Scialoia: «Il sogno segreto/ dei corvi di Orvieto/ è mettere a morte/ i corvi di Orte».

Repubblica 31.5.12
Il mito dell’uccello che provoca disgrazie
Perché Apollo lo condannò
di Maurizio Bettini


Per punirlo della sua delazione, in seguito alla quale aveva perso la donna di cui era innamorato il dio furibondo decise di trasformare il colore delle penne, che fino a quel momento erano bianche

Racconta Ovidio che in origine il corvo aveva le penne bianche. La cosa risulterà sorprendente, perché certo non vi è color nero che sia più nero dell´ala del corvo, eppure quest´uccello aveva un dì il candido piumaggio di una colomba. Salvo che poi, a dispetto dei saggi ammonimenti della cornacchia, il corvo incorse in una colpa fatale: la delazione.
Bisogna sapere che il corvo era molto legato ad Apollo, di cui fungeva da messaggero e da famiglio. Gli dèi Greci avevano spesso al loro fianco uccelli prediletti: se ad Athena si associava la civetta, di Zeus era invece compagna l´aquila (e qualche volta il cuculo, ma solo quando si trattava di questioni d´amore). Apollo invece aveva il corvo per famulus, come dice Ovidio, in un certo senso quest´uccello ero il suo maggiordomo. Ora accadde che il dio si fosse innamorato di Coronide, una ragazza di straordinaria bellezza. Ad Apollo però Coronide preferiva Ischi, un giovane mortale, e con lui si univa segretamente. Un fatto inaudito, quando mai era accaduto che un immortale fosse tradito in amore da un mortale? La norma prevedeva se mai il contrario, erano gli dèi a sedurre le donne dei mortali. Il corvo, sospettoso e solerte, si era accorto della tresca, e nonostante gli ammonimenti della cornacchia – che lo invitava sostanzialmente a occuparsi dei fatti suoi – volò subito dal dio di cui era famulus per raccontargli tutto. Del resto i Greci sapevano che il corvo è un gran chiacchierone, può addirittura imitare il linguaggio degli uomini, proprio come parlante sarà un giorno il corvo di Uccellacci e uccellini di Pasolini. Dunque il corvo fece la sua delazione e a questa notizia Apollo fu preso da tanto dolore e da tanta ira che trafisse la povera Coronide con una freccia, uccidendola. Un attimo prima che fosse troppo tardi, però, ebbe pietà almeno del piccolo che la ragazza portava in grembo e lo estrasse con un taglio di lama: nacque così Asclepio, futuro dio della medicina e (sia detto per inciso) primo esempio di estrazione di un neonato per parto cesareo. Quanto al corvo, invece che premiata, la sua delazione fu punita. Apollo mutò infatti in nero "corvino" le candide penne del suo famiglio. Il fatto è che bisognerebbe dar sempre retta alle sagge cornacchie.
In realtà Apollo si era proprio scelto il famulus sbagliato. Lo si vide anche in un´altra circostanza, in cui il corvo tradì la fiducia del padrone. Un giorno infatti il dio lo mandò a prendere dell´acqua, ma il corvo, vedendo un albero carico di fichi maturi, invece di fare quello che gli era stato richiesto, si mise a beccare i frutti e si scordò del suo incarico. Apollo si arrabbiò un´altra volta e lo punì in questo modo: d´ora in avanti, gli disse, non berrai una goccia d´acqua finché i fichi non saranno maturi! Perennemente assetato, con il suo gracchiare il corvo simula il gocciare della liquida sostanza che tanto vorrebbe inghiottire. Ma dal suo gracchio, dicevano ancora i Greci, bisogna guardarsi, perché in esso si nasconde un presagio di morte: simile al sinistro "nevermore!" del Corvo di Poe.
Eccolo dunque il corvo, maggiordomo traditore di un dio, famiglio sciatto e perennemente assetato, delatore capace di provocare attorno a sé morte e sventura, proprio come il misterioso "corvo" del film di Clouzot. Come se non bastasse, i Greci sostenevano perfino che quest´uccello, peraltro noto mangiatore di carogne, copulasse con la compagna attraverso la bocca - un´ulteriore e sconcia metafora della sua sciagurata loquacità. Chi mai vorrebbe prendere al suo servizio un personaggio del genere?

Repubblica 31.5.12
Complotto, Quegli intrighi della Curia
I precedenti nel Medioevo e nel Rinascimento
di Agostino Paravicini Bagliani


Bonifacio VIII fu accusato di essere eretico Cardinali italiani complottarono per farlo catturare e trasferire in Francia. E tra i cospiratori c´erano anche alcuni domestici

La vita di una corte – nel Medioevo, nel Rinascimento o in età moderna – fu sempre attraversata da intrighi e tradimenti di ogni genere, ed anche per un sovrano come il papa, assicurarsi la fedeltà di un membro della sua corte corrispondeva a una necessità inderogabile. Non a caso, già nel Medioevo, per essere ammessi nella "famiglia" del papa – così veniva definito il gruppo di persone al servizio diretto del pontefice – si doveva pronunciare un giuramento di fedeltà.
Guai a chi si rendeva colpevole di tradimento, soprattutto se al vertice della gerarchia. Ce lo ricordano le vicende di Camillo Astalli, che fu creato cardinale da Innocenzo X nel 1650. Un fratello dell´Astalli aveva sposato una nipote dell´onnipotente cognata di papa Pamphili, donna Olimpia. Camillo era quindi stato autorizzato a usare il nome e lo stemma della famiglia Pamphili. Quando però, nel 1654,proprio donna Olimpia escogitò il disegno di inviare un esercito contro il Regno di Napoli, l´Astalli, molto vicino agli Spagnoli, ne informò Filippo IV che fu così in grado di sventare il pericolo. Scoperto il tradimento, l´Astalli, pur portando allora il titolo di "Cardinale nipote", fu espulso dalla corte e perse ogni sua carica e rendita. Alla morte di Innocenzo X, si vendicò presentandosi ai suoi funerali senza vestirsi da lutto come avrebbe dovuto…
Inimicizie e infedeltà attraversano l´intero pontificato di Bonifacio VIII (1294-1303), il più conflittuale di tutto il Medioevo. Le accuse rivoltegli dal re di Francia Filippo il Bello – di non credere all´eucarestia, alla verginità di Maria o alla risurrezione dei corpi – non furono certo raccolte senza la complicità di uomini di curia oltre che dagli ambienti vicini ai cardinali Colonna, acerrimi nemici del papa. Guglielmo di Plaisians, legista del re, autore di uno dei principali documenti accusatori, disse di essersi convinto dell´eresia di Bonifacio VIII «da ciò che vide e da ciò che sentì da persone degne di fede» durante un suo viaggio a Roma. Persino un cardinale, il francese Giovanni Lemoine, avrebbe asserito «sotto giuramento al re di Francia che Bonifacio era eretico e che questa era la pura verità». Cardinali italiani – il senese Riccardo Petroni e il romano Napoleone Orsini – complottarono con gli abitanti di Anagni per permettere a Sciarra Colonna e a Guglielmo di Nogaret di penetrare ad Anagni per catturare il papa e condurlo a Parigi e lì farlo deporre da un concilio. Dodici persone bandite per la loro partecipazione all´attentato di Anagni (7 settembre 1303) avevano avuto legami stretti con Bonifacio VIII, come donzelli o domestici. Tanti erano i veleni che si erano accumulati durante il suo pontificato.
Conoscere i propri collaboratori fu da sempre una delle principali doti di un sovrano. Ed è proprio alla corte papale che si diffuse (nel Trecento) una nuova scienza, la fisiognomica, che doveva aiutare il sovrano a conoscere le qualità delle persone e potersene fidare. Anche il "segreto dei segreti" – un testo che si credeva fosse stato scritto da Aristotele per Alessandro Magno – circolò dapprima nella corte dei papi oltre che in quella di Federico II (m. 1250). Vi si consigliava al sovrano di farsi curare non da un solo medico. Ed è vero che i papi avranno al loro servizio non un solo archiatra ma due. Lo stesso nepotismo, oggetto di critiche fin dall´inizio – Dante colloca il "cupido" papa Niccolò III Orsini nell´Inferno per aver fatto «avanzar li orsatti» (XIX, 71) – deve la sua espansione anche perché ritenuto strumento valido a garantire al papa sicure reti personali di fedeltà.

il Fatto 31.5.12
Chi specula sulle lacrime
di Pino Corrias


LA RIVOLUZIONE in questo disgraziato Paese si farà quando non saranno più i terremoti a demolire le villette e i capannoni costruiti con il cartone, la tangente, il condono. Quando le ruspe delle amministrazioni andranno a sgomberare le pendici del Vesuvio, dove abitano 750 mila abusivi. Quando da Ventimiglia a La Spezia si cominceranno a demolire le seconde e terze case costruite per i milanesi che hanno devastato la Liguria; quando i contadini torneranno a ripulire le pendici abbandonate, prima che franino alle prossime piogge. Quando invece di costruire il Corridoio 5 bucando la Val Susa per fare correre i treni a 300 all’ora, si cominceranno a chiudere le migliaia di cave abbandonate, le discariche abusive, e pure le parate dove ogni anno sfilano i carri armati e i generali con le medaglie in erezione. Fino ad allora saremo condannati a ripetere questi grotteschi funerali con gli applausi. Ad ascoltare furenti interviste alle vedove. E le promesse degli stessi politici che hanno speculato sulla distruzione del territorio, intascato la tangente, condonato gli abusi, per prendere i voti di quegli stessi cittadini che al prossimo giro parteciperanno ai funerali, dentro le bare.

il Fatto 31.5.12
Il ricatto: “O lavori con le scosse o ti metti in ferie”
I racconti degli operai: “Nelle aziende anche cartelli di avvertimento”
Sotto le lamiere tutti precari
di Emiliano Liuzzi


Medolla (Modena) Vincenzina vuol bene alla fabbrica, canta in uno dei suoi pezzi formidabili Enzo Jannacci, quando smette i panni dello stralunato e folle. E di Vincenzine ce ne sono tante tra Mirandola, Medolla, Cavezzo e San Felice sul Panaro, borghi produttivi della Bassa modenese, il motore di una Emilia che fu rossa, ma è rimasta operaia. Ventiquattro ore dopo la scossa che ha sepolto i lavoratori, distrutto capannoni, viene da chiedersi perché fossero lì dentro a lavorare e non, come tante altre persone all'aperto, a preoccuparsi della loro pellaccia più che dei bilanci da fare, del premio produttivo da raggiungere, dello stipendio. Volontari in barba alle leggi della natura? Manco per idea. In molte aziende, quelle piccole, da dieci, quindici dipendenti, le richieste le ha fatte il direttore generale, il padrone direttamente, il ragioniere dell'amministrazione. “Noi siamo qui”, ha detto il piccolo imprenditore di turno via telefono ai suoi dipendenti. Un “noi siamo qui” che in molti casi ha suonato come “meglio che rientriate, perché se non lavoriamo oggi è un problema mio, domani un problema vostro”. Lo raccontano al Fatto Quotidiano non una, ma diverse persone. Tanti immigrati tunisini, ripresi anche in video. “Evitatemi di finire licenziato, proprio io che sono tornato a lavorare”, dice uno degli ospiti del campo allestito a Cavezzo. “Mi hanno costretto e sono rientrato”. Lo dice anche il marito di una donna che la mattina di lunedì 21 maggio è stata “gentilmente” invitata a rientrare. “E mia moglie è andata. Lavora in un'azienda del settore della meccanica da 20 anni. È tornata in ufficio. Si è salvata per miracolo, è stata l'ultima a uscire dalla porta d'emergenza. Il caso di mio zio – prosegue l'uomo – la dice ancor più lunga. Lo hanno chiamato i colleghi e spiegato che sul cancello della ditta c'era un cartello, che era meglio che passasse a leggerlo. Che cosa c'era scritto? Invito molto armonioso e gentile: c'è stato il terremoto, ma la vita continua. Chi vuole lavora, gli altri possono prendersi le ferie. Liberissimi di farlo”.
ECCO PERCHÉ non c'era nessuno nelle case, ma c'erano molte persone a lavorare. Non è successo niente di diverso. Alla Haemotronic gli operai nella maggior parte dei casi sono assunti con contratto a tempo. In questo caso non c'è stata nessuna pressione per tornare, ma sotto le macerie sono morti i precari. L'azienda è un colosso della biomedica, i problemi non c'erano, ma avevano la certificazione per tornare al lavoro. Nessun rischio, nessun pericolo. Le pareti por-tanti hanno resistito, è il resto che è crollato.
D'altronde avere l'agibilità, anche in casi di massima emergenza, è un gioco da ragazzi. Basta un ingegnere pagato dall'azienda che dice se è possibile rientrare. “Non potevamo prevedere un'altra scossa, non era prevista, eravamo convinti di poter lavorare”, dice uno dei soci della Haemotronic tra le lacrime, Mattia Ravizza. E nessuno mette in dubbio la sua parola. C'era anche lui lì, dentro, ha rischiato come gli altri. E non è un eroe.
Ma quei lavoratori erano dove non dovevano essere. Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Modena, Vito Zincani. E ha fatto capire dove andrà a parare la sua inchiesta. Strutture, progetti, direzione dei lavori. Ma soprattutto dovrà farsi spiegare perché a Medolla gli operai erano in fabbrica mentre il paese era quasi completamente evacuato. Chi ha dato l'agibilità, chi l'ha firmata? E perché tante di quelle carrozzerie che coprono così potenti motori del secondo comparto mondiale per la biomedica, dietro solo a Memphis per produzione, si sono sciolte come panetti di burro.

Repubblica 31.5.12
"È meglio rischiare la vita che perdere il posto di lavoro" e gli operai tornano in fabbrica
"Se non ripartiamo subito le aziende vanno all’
di Michele Smargiassi


MEDOLLA - Il presente o il futuro: scegliere. Cosa fa più paura, la scossa che può arrivare adesso, fra un minuto, fra un´ora, oppure la busta paga che può non arrivare più dal mese prossimo? «Non ci sono alternative. Non siamo i tipi che si mettono in fila alla Caritas». Ventiquattr´ore dopo l´ultima scossa paurosa, Mauro Fabbri è di nuovo al suo posto di lavoro: per averne uno anche domani. L´azienda dove lavora, la Tmm marmitte di Finale, ha preso una brutta botta. Nessuna vittima, ma si può entrare solo in qualche capannone per portare via le macchine. Ed è quel che stanno facendo, febbrilmente, gli operai. Le scosse del sisma permanente in questo fondo di pianura padana continuano, perfide. «Ma il futuro fa paura come il terremoto». Bisogna continuare a produrre, da qualche parte. Il mercato non perdona. I clienti non aspettano, Mauro è un dipendente ma queste cose le sa come fosse un dirigente: «Il primo giorno arrivano le pacche sulle spalle, la solidarietà, ma già il secondo ti chiedono quando consegni l´ordine. Il mercato ci morde le caviglie, il mercato governa le nostre vite».
E allora si lavora lo stesso. La Fiom aveva proclamato: in fabbrica per ora non si torna. Ma in molte aziende, quelle che non hanno avuto vittime, quelle non del tutto stremate, dove vedi i piazzali di nuovo pieni di gente, gli stessi delegati Fiom danno una mano a rimediare, a sistemare, per provare a continuare. Mauro e i suoi compagni di lavoro ne hanno discusso molto, martedì, coi calcinacci per terra, e il dilemma impossibile era: «Meglio morire senza lavoro o morire lavorando?». Hanno scelto di provare a vivere lavorando: dovrebbe essere un diritto fondamentale dell´uomo.
Salvare le fabbriche, come in guerra. Anche questi capannoni accartocciati bisogna tenerseli stretti, perché un altro terremoto non se li porti via per sempre: il terremoto della grande crisi, che aleggia come un avvoltoio sulle macerie. «Da mesi girava già la voce che vogliono portare tutto in India», Barbara Anconelli è impiegata alla Cps Color di San Felice, macchine per vernici, proprietà finlandese, «un fondo d´investimento, e quelli badano solo ai conti. Adesso abbiamo paura che, visti i danni del terremoto, lo facciano davvero». Certo, quando i dirigenti hanno richiamato le maestranze al lavoro, dopo la botta del 20, hanno detto «se qualcuno non se la sente...». Ma se la sono sentita tutti.
Eppure si potrebbe dire di no, forse. La legge 81, articolo 44, dà diritto al lavoratore di allontanarsi dal posto di lavoro in caso di «pericolo grave, immediato e che non può essere evitato». Non è chiaro se tuteli anche chi non vuole tornare in fabbrica in mezzo a una tempesta sismica, ma Erminio Veronesi, responsabile di zona della Fiom, è pronto a sostenere chi volesse provarci: «Sono i lavoratori il patrimonio di questa terra, non i capannoni, le fabbriche si ricostruiscono, gli esseri umani no». «Ma è giusto che tocchi a me capire se sto rischiando la vita o no? È la legge che deve salvarci», ragiona Graziella, operaia alla fonderia Scacchetti di San Felice, 200 dipendenti, fabbrica disastrata che lotta per continuare a vivere come un animale ferito, spostando le macchine un po´ qui un po´ là, nel capannone di un fornitore, in una sede trovata in affitto.
Be´, lo decideranno le inchieste aperte sui crolli, se la legge è stata violata, e se era giusto tornare sotto quelle travi solo appoggiate sulle staffe delle colonne, spesso neppure imbullonate, costruzioni fatte come nel gioco di legnetti dei bambini. Il procuratore di Modena Vito Zincani, che ha assegnato il fascicolo sui crolli alla sua vice Lucia Musti, sembra avere opinioni chiare: «Verificheremo se la politica nazionale sulla costruzione di questi capannoni sia stata una politica suicida». Dopo le scosse del 20, i comuni hanno consentito agli ingegneri incaricati dalle singole imprese, «sotto la loro responsabilità civile e penale», di compiere la verifica strutturale dei fabbricati. Bastava depositare la relazione e si poteva rientrare. Ma cos´è una verifica strutturale? È solo controllare che il capannone non abbia crepe? Non si dovrebbe capire se, in presenza di un periodo di scosse fuori dal normale, quelle strutture, per quanto legalmente costruite, possono reggere una botta forte? Quelle che hanno riaperto le fabbriche della Bassa erano perizie sul passato o sul futuro degli edifici? Il sindacato Usb dei vigili del fuoco accusa: leggi a parte, «non si è applicato il principio di precauzione».
Però, chissà se è sempre vero che le fabbriche si ricostruiscono. La struttura produttiva di questa terra di piccole imprese è come una pila di barattoli, ne togli uno e casca tutto. Non una di meno, sembra il passaparola di queste ore angosciate. A Crevalcore, nel bolognese, il piazzale della Magneti Marelli sembra un campo profughi un po´ selvaggio, famiglie con bambini, ragazzi che danno due calci a un pallone, macchine con le coperte dentro. Alcune decine di operai minacciano di dormire qui, un picchetto di sfollati, «tanto già ci dormiamo da dieci giorni, in macchina», perché l´azienda, trecento operai, penserebbe di spostare a Bari, «temporaneamente», cioè fino al 30 agosto, una linea di produzione, causa incertezza sismica. «Sanno già quando finirà il terremoto?», chiedono sarcastici, hanno paura che sia l´avvio della delocalizzazione. L´azienda smentisce, «è solo un´ipotesi di riserva». A sera il picchetto è tolto, l´ansia no.
Davanti alla Haemotronics di Medolla per alcuni lo strazio continua da due giorni. Tre i morti, ma manca ancora un nome all´appello, sotto le macerie non trovano nulla. Parenti accasciati sotto una tenda afosa della protezione civile, disperati: «Non voleva tornare a lavorare, non si sentiva sicuro...», piange un uomo. Obbligati a tornare sotto i capannoni insicuri? Lo hanno denunciato anche i parenti di Mohamed e di Kumar, i due lavoratori stranieri morti nel crollo della Meta di San Felice. Sotto quei calcinacci c´era anche Claudio Bianchini, è vivo perché un compagno gli ha liberato la testa dai detriti, ora è corso via, a dimenticare, al lago di Garda: «Io parlo per me: nessuno mi ha obbligato. Mohamed, è vero, non si sentiva tranquillo, ma chi di noi lo era? C´era però anche la voglia di ricominciare, di far tornare tutto normale». In un mondo del lavoro dove così poche cose sono normali. Claudio ha 56 anni, aveva perso il lavoro quattro anni fa e dopo una serie di contratti precari era stato finalmente assunto in regola dalla Meta, e quando?, proprio dal 23 maggio: con la fabbrica danneggiata da riavviare. «Sarà stata la gioia di aver riconquistato un lavoro stabile, ma quando mi hanno chiamato non ci ho pensato un secondo».
Del resto, all´ospedale era nel letto di fianco al suo padrone. Ci sono le multinazionali senza volto, ma anche le aziendine costruite col sudore. Il padre di Vittorio Razzaboni riparava le giostrine dei bambini, lui ha un´azienda di macchine per le banche (quelle che contano i soldi) con clienti in tutta Europa. «Se restano». Capannone inagibile, le consegne slittano, e i clienti non hanno compassione: «Oggi, tre disdette di ordinativi, e sono clienti che non tornano più», la voce ha un filo d´angoscia. Sotto un tendone montato nel parcheggio, quattro impiegati davanti al computer: i clienti vogliono assistenza o cambiano indirizzo, ed ecco fatto il call center da campo. Anche qui, «nessuno dei ragazzi si è tirato indietro». Non lo ha fatto neppure Mauro Piazzi della Wam di Cavezzo, anche se il 20 maggio due pareti di un capannone della sua azienda meccanica gli sono crollati a terra davanti. Adesso, se l´azienda riaprirà, «chiederò garanzie, ma se mi dicono che è sicuro, ci andrò. E guardi che io tremo ancora, tremo da martedì. Ma il futuro non lo posso fare, lo posso solo subire». Se e quando le aziende riapriranno... Torniamo qui: la paura presente contro la paura futura. Terremoto e disoccupazione, dice Graziella, in fondo hanno la stesso effetto: «Buttano tutta la tua vita dentro una valigia di cartone».

il Fatto 31.5.12
Le sfilate no
di Furio Colombo


Comincerò con un ringraziamento agli Uffici del Quirinale per le spiegazioni e i chiarimenti gentilmente ricevuti. Concluderò con una esortazione convinta e appassionata: il 2 giugno la parata no. Cerco di essere chiaro. Quando, nella rubrica delle lettere di questo giornale, rispondendo a un lettore, ho detto che la celebrazione di una parata militare non avrebbe potuto rappresentare lo stato d’animo di questo Paese troppo provato, troppo colpito, voci autorevoli della Presidenza della Repubblica hanno chiesto di distinguere fra costo ed evento. Il costo, hanno detto, era stato ridotto al minimo. Per esempio, le Frecce tricolori passeranno una sola volta sopra il Monumento al Milite Ignoto.
Ma il simbolo – i soldati italiani che sfilano per rendere omaggio alle vittime del terrorismo e alle missioni italiane nel mondo – “non può essere cancellato”. Precisando: “In caso di necessità, sarebbe l’ultima cosa da fare”. Credo di parlare a nome di molti cittadini italiani, e delle tantissime voci che si raccolgono in rete, se dico: È proprio il simbolo che conta. Il Presidente sta con i cittadini colpiti, spaventati, confusi, che sono abituati a conoscerlo e riconoscerlo, sia nelle situazioni di festa che nei momenti in cui cercano fiducia. Alcuni cittadini italiani e alcuni cittadini immigrati sono morti, in questi giorni e in queste notti, mentre lavoravano in fabbriche già danneggiate, dunque rischiando, consapevoli di quel che vale il lavoro italiano nella situazione di crisi grave che stiamo vivendo. Non saranno le Frecce tricolori a rincuorare le famiglie abbandonate senza casa e senza la persona cara che lavora e sostiene.
Il senso di ciò che dico è che se in certi momenti della Storia sono i soldati a rappresentare un Paese (o così innegabilmente è accaduto, ed è giusto ricordarlo) in altri momenti sono coloro che lavorano, sono operai e tecnici e piccoli imprenditori che, con il lavoro, provvedono a difendere sia l’immagine sia l’economia del Paese.
È a essi che va dedicato il 2 giugno, certamente questo 2 giugno. Non stiamo togliendo una festa ai soldati. La Repubblica è tutti, e questa volta i suoi eroi sono sotto le macerie di un terremoto.

il Fatto 31.5.12
La Repubblica dei terremoti
di Enrico Fierro


Prima e Seconda Repubblica hanno avuto i loro terremoti. Ora tocca alla Terza e al governo dei tecnici decidere come gestire il sisma dell'Emilia, e quindi quale segno lasciare. Perché i terremoti in Italia da catastrofi naturali si sono sempre trasformati in catastrofi politiche. Il sisma abbatte case, distrugge vite e territori, ma segna epoche. Nel bene e nel male. Le parole di Sandro Pertini pronunciate quattro giorni dopo il terremoto che schiacciò Irpinia e Basilicata, rimarranno scolpite sulle macerie di Lioni, Balvano, Laviano. "Non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi". Una sferzata per il governo (a Palazzo Chigi c'era Arnaldo Forlani) e soprattutto per i notabili del Sud. Come saranno scolpite nella lapide delle vergogne nazionali le parole degli imprenditori della cricca Gagliardi e Piscicelli, il giorno dopo il terremoto de L'Aquila. "Occupati di ‘sta roba del terremoto, qui bisogna parti’ in quarta subito. Non è che c'è un terremoto al giorno... Io stamattina alle 3 e mezzo ridevo". Ridevano pensando a come i terremoti made in Italy hanno arricchito specula-tori, mafiosi, politici e sistemi di potere. Sempre.
IL POETA Danilo Dolci nel 1968 consumò una parte della sua vita a lottare contro l'abbandono del Belice. Al governo c'era Aldo Moro, al Quirinale Giuseppe Saragat, il 15 gennaio di quell'anno i paesi della Sicilia occidentale, Gibellina, Santa Ninfa, vennero rasi al suolo da scosse che durarono un mese intero: 370 morti, 70 mila senzatetto. Dolci mise su una radio clandestina per denunciare l'inerzia dello Stato e della Regione Sicilia. "Qui parlano i poveri cristi della Sicilia occidentale", esordiva con la sua voce tuonante. "Siciliani, ascoltate, si sta compiendo un delitto di enorme gravità, si sta spegnendo una popolazione intera". Manifestazioni, proteste, l'impegno di artisti e intellettuali portati in quelle lande per progettare il sogno della città-territorio, servirono a poco. Quel sisma è ancora oggi ricordato come il sacco del Belice. Una ruberia infinita, una pioggia di leggi, leggine e finanziamenti pubblici durata più di 40 anni.
L'ISPETTORATO per le zone terremotate del Belice, istituito nel 1968, fu chiuso nel 1991. Dopo 12 mila miliardi di vecchie lire spesi nel corso dei decenni, un anno fa sono stati chiesti altri 450 milioni di euro. "Per completare la ricostruzione". Ma non è sempre scandalo, sacco, spreco di risorse pubbliche. Perché il sisma che sei anni dopo, maggio 1976, colpì il Friuli (mille morti, 3 mila feriti, 137 comuni colpiti e 75 mila case danneggiate, 18 mi-la distrutte) ebbe una storia diversa. Bastarono dieci anni, infatti, per rimettere in piedi case e paesi. "Facciamo da soli", dissero i friulani. E funzionò perché buona parte degli interventi fu affidato direttamente ai Comuni. Ma bastarono pochi anni, appena quattro, perché di nuovo un terremoto si trasformasse in scandalo. "Irpinia-gate", è questo il marchio che segna il sisma che il 23 novembre del 1980 colpì Campania e Basilicata. Tremila morti, paesi della dorsale meridionale appenninica gravemente colpiti, 362 mila abitazioni distrutte e gravemente danneggiate, l'economia della parte più povera del Sud in ginocchio, migliaia di persone costrette a vivere per anni in containers e baracche prefabbricate.
È STATO l'ultimo, importantissimo esempio di grande solidarietà nazionale. Non c'era la Protezione civile, nelle fasi più drammatiche dell'emergenza c'erano pochi vigili del fuoco con mezzi scarsissimi, e militari dotati di pala e piccone. Ma dal Nord arrivarono migliaia di volontari organizzati. Operai delle fabbriche bresciane, lavoratori delle coop di Emilia e Toscana (tantissimi), esperti e tecnici da Roma. L'Italia decise di unirsi, come per l'alluvione di Firenze. E fu l'ultima volta, perché sei mesi dopo la tragedia, il Parlamento approvò una legge per la ricostruzione modellata più sulle esigenze dei notabili locali, che su quelle dei terremotati. Basta rileggersi i faldoni della Commissione d'inchiesta istituita il 7 aprile 1989 e presieduta da Oscar Luigi Scalfaro, per capire cos'è stato lo spreco di risorse pubbliche. Strade, viadotti, gallerie, 20 aree industriali costruite in zone di montagna e finanziamenti a pioggia a improbabili iniziative. Arrivò anche un imprenditore che voleva costruire barche in alta montagna. Un business da 64 mila miliardi di vecchie lire, che gli italiani pagano ancora oggi, 32 anni dopo, con una accisa sulla benzina di 4 centesimi. L'economia della catastrofe ha prodotto paesi in buona parte ricostruiti ma desertificati (2 mila persone lasciano ogni anno l'Irpinia, secondo l'osservatorio Migrantes) e fabbriche chiuse. Ma è con il sisma de L'Aquila (6 aprile 2009, 308 morti, 1600 feriti, 65 mila sfollati) che si sperimenta la prima gestione televisiva di una tragedia. Al governo c'è Silvio Berlusconi, il suo braccio armato è la Protezione civile di Guido Bertolaso. Berlusconi non vuole container, "non avremo una nuova Irpinia", e la gente è costretta a vivere per mesi nelle tendopoli, con i container della Protezione civile chiusi nei depositi.
BERLUSCONI non vuole sentire parlare di ritardi, e allora si abbandonano i centri storici per costruire le new towns. Un progetto che il capo del governo aveva già nei cassetti, quello delle città satellite. Così a L'Aquila, dove il centro storico è ancora off-limits e transennato, nascono 19 nuove città. Quindicimila aquilani trovano posto in 4449 appartamenti già arredati e con lo spumante nel frigo. A stapparlo, a reti unificate, è Silvio Berlusconi in persona. Dell'abbandono della città e dei paesi, della ricostruzione che ancora non inizia, non se ne parlerà più. L'Aquila non troverà più il suo volto vero. Questa è la storia, come verrà ricordato il terremoto dell'Emilia lo decideranno Monti e i tecnici. Per il momento, il rischio è che il segno di questa tragedia sia quello dell'abbandono (500 milioni di danni, 50 per gli aiuti), di un Paese non più solidale, legato ai pareggi di bilancio e ai vincoli europei. Un Paese che abbandona al suo destino l'Emilia della solidarietà.

La Stampa 31.5.12
Semipresidenzialismo il Pd teme di restare solo
E Napolitano esprime i suoi dubbi: serve una figura imparziale
di Carlo Bertini


ROMA «Negli anni mi sono rafforzato nella convinzione che i nostri costituenti diedero una soluzione profondamente motivata: avere una figura neutra ed imparziale fuori dalle correnti politiche ed ideologiche, una figura di moderazione e garanzia in costante imparzialità. La si vuole ridiscutere, io sarò spettatore». Se non è una bocciatura, di sicuro è un invito alla riflessione quello che Giorgio Napolitano lancia da Pordenone, sollecitato dai cronisti a esprimersi sulla possibilità di un presidente eletto dal popolo, come previsto dalla proposta che il Pdl intende mettere ai voti in Senato. Una proposta che qualche problema non di poco conto lo comporta, se non altro perché interviene in un dibattito che vede la maggioranza bipartisan marciare fin qui senza intoppi sul testo “ABC” votato in Commissione l’altro ieri. Un testo che il Pdl non sconfessa e che prevede però tutt’altro: riduzione del 20% dei parlamentari, sfiducia costruttiva verso il premier e superamento del bicameralismo perfetto; nulla a che vedere con una rivoluzione quale sarebbe un presidente eletto dal popolo e una legge elettorale col doppio turno. Ed è proprio il nodo del sistema di voto a preoccupare il Pd di Bersani, che si sentirebbe il partito maggiormente preso di mira da una resistenza in vita del Porcellum nel caso tutti gli accordi saltassero.
Per questo tra le file del Pd al Senato c’è grande agitazione, in quanto tutti sono consapevoli del maremoto che si scatenerebbe nel caso gli emendamenti sul presidenzialismo del Pdl, sostenuti dalla Lega, fossero approvati: rischio concreto a sentire le parole di Calderoli («non siamo pregiudizialmente contrari»), che si tradurrebbe in un’approvazione a maggioranza semplice Pdl-Carroccio (con l’incognita del Terzo Polo) capace di far saltare l’accordo “ABC”. Portando all’esame della Camera una riforma costituzionale non più bipartisan, ma molto insidiosa per la sinistra. Col paradosso che a molti nel Pd il semipresidenzialismo, se collegato al doppio turno non dispiace affatto. «Se Pdl e Lega votano insieme al Senato questa riforma per noi è un bel problema», ammettono in camera caritatis alcuni esperti della materia del partito di Bersani. Dove si sta diffondendo la consapevolezza del rischio di restare isolati e di vedersi addossare la responsabilità di far saltare il tavolo delle riforme. «Il nostro no non è scontato, le cose potrebbero mutare», è la voce che rimbalza dunque dalle file del Pd di palazzo Madama. E anche alla Camera c’è chi come Parisi porrebbe come condizione l’abrogazione del Porcellum, perché «se è stato il Pd a riaprire seriamente il discorso riproponendo il doppio turno, è necessario che il Pd seriamente lo continui scoprendo il bluff di Berlusconi». E dopo l’apertura della Lega, malgrado lo stop di Napolitano, nel Pdl sembra venuta meno ogni residua titubanza nell’accendere una miccia così esplosiva. Il 7 giugno il testo “ABC” andrà in aula così, ma l’11 giugno scadrà il termine per gli emendamenti; e il Pdl si appresta a riversare la proposta di legge depositata alla Camera sul presidenzialismo come emendamento da votare.
E’ dunque comprensibile il sollievo, pur temporaneo, di Bersani dopo l’uscita del Capo dello Stato. «Si può discutere di come ripensare la figura del presidente della Repubblica, ma bisogna vedere quali equilibri si creano, in luogo di quelli che si superano ed accantonano», ammonisce Napolitano. «Mi sembra molto difficile cambiare 65 anni di tradizione costituzionale con un emendamento presentato in fretta e furia... », è il controcanto del leader Pd. Che pur ripetendo che il tema «non è nè una bestemmia, nè un tabù», spiega di averne parlato con Alfano e di aver invitato il Pdl a riflettere prima di fare una cosa del genere. Con il retropensiero che quella di Berlusconi resti solo una mossa studiata ad arte per far saltare tutto e tenersi il Porcellum."Un voto Pdl-Lega potrebbe lasciare i democratici col cerino acceso Il capo dello Stato: «Si vuole ridiscutere la Carta, io sarò uno spettatore»"

Corriere 31.5.12
Mossa di Bersani, sì alla lista civica di Saviano
La scelta per arginare il fenomeno Grillo Il leader pd pronto a candidarsi a premier Però Renzi e gli ulivisti chiedono primarie
di Maria Teresa Meli


ROMA — Chi pensava che Bersani sarebbe rimasto fermo, ad attendere gli eventi, si è sbagliato, e di grosso. Il segretario ha annusato l'aria, e, visti i pericoli che potevano incombere, ha deciso di agire.
Al leader del Pd non è sfuggito il fatto che ormai anche dentro casa qualche cosa si stava muovendo. Nella pax bersaniana, firmata ormai quasi due mesi fa, si stava per aprire una piccola crepa. Già, perché se alla fine Walter Veltroni scalpita e Massimo D'Alema continua a pensare che anticipare le elezioni sia la migliore soluzione possibile, entrambi hanno comunque siglato quell'armistizio e, almeno per il momento, non intendono romperlo. Il rischio non veniva — e non viene — dai big del partito ma dall'asse che si è creato tra gli ulivisti e il sindaco di Firenze Matteo Renzi.
Parisi e i suoi hanno deciso di chiedere ufficialmente le primarie in Direzione. Erano pronti a farlo martedì scorso, torneranno alla carica lunedì. A questo drappello si è unito un altro gruppo, capeggiato dal consigliere regionale lombardo Giuseppe Civati, che, nonostante i dissapori con il sindaco di Firenze, ritiene, al pari di Renzi, che le primarie siano indispensabili per ridare credibilità al Pd. L'ordine del giorno per chiedere di tornare a utilizzare questo strumento di consultazione era pronto per martedì. La Direzione è poi slittata, causa terremoto, però la questione verrà affrontata nella prossima puntata, lunedì.
Bersani pensa di cogliere alla sprovvista i suoi avversari interni e di rilanciare l'immagine del Pd all'esterno con una mossa a sorpresa. Quale? Si tratta di quella grande iniziativa che era stata preannunciata e che molti credevano si limitasse alla controproposta da opporre a Berlusconi in termini di riforma istituzionale. Non è così: il segretario sta scaldando i motori per un'uscita in grande stile che riguarda non solo il suo partito, ma il centrosinistra tutto. Certo, lo slittamento della Direzione, un «atto dovuto» come lo definiscono gli stessi bersaniani, rischia di attenuare l'effetto sorpresa e di far cambiare i piani al segretario, magari facendo passare qualche giorno ancora, dopo la Direzione. Per il grande annuncio.
Ma la linea ormai è stata decisa e il leader del Pd non ha intenzione di discostarsi dal tracciato. L'idea, per dirla in poche parole, è quella di annunciare la propria candidatura alla premiership e di dire di sì alla presentazione di una lista civica che affianchi il partito alle prossime elezioni. Le due cose insieme dovrebbero servire ad arginare l'astensionismo e il fenomeno Grillo, oltre che a tagliare le unghie agli avversari interni.
La lista civica che dovrebbe coinvolgere un personaggio di grande carisma come Roberto Saviano. Qualche bersaniano ha alzato il sopracciglio, venendo a sapere le intenzioni del capo. E dicono che anche D'Alema mal digerisca la cosa. Ma è anche vero che questo è l'unico modo per fronteggiare la richiesta delle primarie.
Renzi non ha mai fatto mistero con nessuno che, in caso di una sua candidatura alla premiership, andrebbe avanti come un treno. «Il mio programma — ha spiegato il sindaco di Firenze a qualche amico — è quello di rinnovare. E quindi basta deroghe sui mandati: io proporrò che persone come D'Alema e Veltroni non si presentino. Il rinnovamento o lo si fa sul serio o non lo si fa per niente».
E, com'era ovvio, questa confidenza è giunta anche alle orecchie dei diretti interessati. La contromossa di Bersani è l'unico strumento con cui sparigliare e silenziare (se non archiviare) le primarie. Un'operazione gattopardesca secondo Renzi e gli ulivisti. Un'operazione salvezza, se la si guarda dall'altra parte.

l’Unità 31.5.12
Paul Ginsborg
«La lista ci sarà. Non è detto che si allei col Pd»
di Maria Zegarelli


Non sono evasivo, mi creda, ma davvero in questa fase non so dire come ci presenteremo alle elezioni. È prematuro parlarne adesso». Il professor Paul Ginsborg racconta che sono in molti a chiedersi come il nuovo soggetto politico Alba (Alleanza Lavoro Benicomuni Ambiente), creato insieme a Ugo Mattei, Marco Revelli, Paolo Cacciari, Chiara Giunti, Nicoletta Pirotta e Alberto Lucarelli, si stia attrezzando in vista del 2013. Professore, non è ancora il tempo di parlarne? Le elezioni si avvicinano.
«Siamo appena nati, è molto presto per noi prendere una posizione sulle elezioni. Certamente vorremmo fare parte di una cultura di sinistra che contribuisce alla sconfitta del berlusconismo. Ma ci siamo visti solo una volta ad aprile, la prossima sarà alla fine di giugno e lì sperimenteremo una vera forma di democrazia partecipativa e a parlare non saranno solo “i capi”. In quella sede affronteremo anche il tema delle elezioni. Per ora siamo forti di circa 80 gruppi territoriali, cresciuti con grande rapidità, al di là di ogni previsione».
Un altro segnale che i cittadini mandano chiedendo luoghi di rappresentanza diversi dai partiti?
«Ha ragione, è una grande responsabilità quella che sentiamo. Credo che questo interesse dipenda dal fatto che nei cittadini c’è l’esigenza di trovare nuove interlocuzioni. In questi mesi abbiamo visto crescere molto in fretta il Movimento 5 Stelle e noi vorremmo porci come un’alternativa a Beppe Grillo perché ci sono molte persone che chiedono un rinnovamento ma non si riconoscono nel grillismo, fenomeno che va distinto da tanti elettori che hanno votato M5S. Quello che noi rifiutiamo è proprio la figura del capo carismatico, questo Paese ne ha conosciuti diversi, e quando vediamo che ce n’è uno che ha addirittura la proprietà del marchio del suo movimento non possiamo non avvertire un pericolo per la democrazia».
Quindi Alba non avrà capi?
«Alba non avrà capi, meno che mai carismatici, anzi siamo molto sospettosi verso di loro. Sia a destra sia a sinistra ce ne sono troppi. Nel nostro Manifesto quello che vogliamo è che lo spazio della politica in Italia, le sue regole, la sua cultura, il suo genere, troppo maschile rispetto al resto d’Europa, devono cambiare radicalmente. Non diciamo “facciamo un’alleanza con questo o quel partito”, invitiamo alla creazione collettiva di una cultura politica diversa».
Ma per dare un vostro contributo dovrà esserci una forma di partecipazione alla competizione elettorale. Guarderete al Pd, farete una lista civica nazionale o cos’altro?
«Arriveremo ad una decisione in modo democratico, anche se mi rendo conto che interessa sapere con chi ci schiereremo e in che modo. A giugno ci vedremo in Emilia Romagna, anche in segno di solidarietà con i terremotati, e stabiliremo modi, forme e tempi».
Pensate di poter occupare anche una parte dello spazio a cui oggi guarda Grillo?
«È quello che ci auguriamo anche se facciamo fatica a far conoscere il nostro progetto, abbiamo trovato grandi difficoltà ad avere spazi sui quotidiani. Se ci sono professori di destra, rispettabilissimi, forse possono essercene anche di sinistra che hanno qualcosa da dire. Io mi appello anche ai tanti del Pd che sono stufi della vecchia politica di venire con noi e dare il proprio contributo ad un progetto davvero innovativo».
Professore, forse Bersani questo suo appello non lo gradirà...
«Temo proprio che sia così...».

Repubblica 31.5.12
La Terza Repubblica nelle mani dei grillini
di Massimo L. Salvadori


La rachitica Seconda repubblica va disfacendosi mentre la Terza sta nascendo senza neppure una levatrice che ne accompagni la venuta al mondo. Semplicemente nasce nel disordine della politica, tra le paure dei "vecchi" soggetti politici, tutti più o meno traumatizzati, e il trionfalismo dei nuovi salvatori grillini di una Patria che neppure riconoscono. Il quadro è chiaro. Da un lato vi sono clamorosi fallimenti, tutta una messe di grandi ambizioni enfaticamente proclamate e impietosamente frustrate: quelle del Pdl, che poche settimane or sono aveva annunciato di essere portatore di una novità politica destinata a cambiare alla radice il quadro nazionale; quelle del Centro di Casini, Fini e Rutelli, clamorosamente deluso nella sua aspettativa di gonfiarsi con la raccolta dei transfughi del berlusconismo; quelle della Lega, che si presenta come un pallone ridotto a brandelli. Dall´altro si collocano il Pd, l´Idv, la Sel, le componenti dell´incerto schieramento a sinistra degli altri, le quali formano più una figura topografica che un´alleanza politica, poiché in continuazione ora si accostano, ora si discostano. Questo centrosinistra dalle deboli cerniere, grazie alle eclatanti debolezze del Pdl e della Lega, che avevano diviso i loro destini ed erano piombate in processi di dissoluzione interna, ha vinto sì le elezioni amministrative di maggio, ma senza uno slancio innovatore e rinnovatore. Di fronte alle sconfitte degli avversari Bersani ha buone ragioni nel rivendicare il risultato ottenuto dal Pd; però, quando volge lo sguardo dall´esterno all´interno del suo partito e ai risultati delle primarie che nelle ultime e penultime elezioni amministrative hanno provveduto a selezionare i candidati, deve fare conti piuttosto amari.
Ma, al di fuori dei "vecchi" partiti (suona davvero ironico chiamare così soggetti nati tutti da relativamente pochi o pochissimi anni nel tritacarne della politica italiana del passato Ventennio), ecco che è emerso come un sole fulgente il Movimento Cinque Stelle, il quale – dileggiato fino a ieri quale anti-politico, manifestazione di una sfrenata demagogia senza né arte né parte – dopo il trionfo di Parma viene considerato, anzitutto da boccheggianti esponenti del Pdl, come un nuovo modello. Dal dileggio all´acritica ammirazione. La lezione invocata dai delusi di sé è che i partiti non devono essere più partiti, ma piazze aperte animate da arditi Masaniello. Grillo ripete così la parte prestigiosa che era stata di Bossi e il suo Movimento quella che era stata della Lega (anche se con un rovesciamento, nel senso che fino a tempi recentissimi quest´ultima veniva esaltata in quanto "vero" partito, partito cioè radicato nel territorio e tra le masse, con le sue vitali sezioni, insomma una sorta di reincarnazione del Pci nei suoi anni d´oro).
A guardare la scena italiana, vi è davvero da preoccuparsi, a partire dell´ennesima anomalia che essa rappresenta rispetto ai maggiori paesi europei. In questi i partiti durano nel tempo e obbediscono al loro compito; da noi vanno e vengono e causano una permanente instabilità. Mentre nel caos del sistema politico nasce la Terza repubblica, la guida del paese, per sua fortuna, è affidata a due personalità di alto profilo e prestigio personale: il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio affiancato da ministri a loro volta di una qualità quale non si era vista da molto tempo, che hanno riconquistato il rispetto dell´Europa e del mondo. Il loro compito è arduo e ingrato per le durezze che si trovano a dover imporre a un paese in preda a una gravissima crisi economica e per le difficoltà della sua navigazione in Parlamento. Compiono i loro sbagli, ma hanno certo grandi meriti. Quello che non possono fare è apprestare i rimedi alle disastrate condizioni dei partiti.
Il rimedio è affidato a Grillo? Partiamo dal suo successo a Parma. Il nuovo sindaco ha proclamato che nella città hanno vinto i cittadini, essi soli, che hanno riconosciuto nel Movimento Cinque Stelle il motore della rinascita, prima ancora che politica, etica. Peccato per lui e Grillo che in realtà la sua vittoria non sia stata affatto il purificante successo del "nuovo", ma quello di una ibrida, non limpida commistione elettorale del grillismo con il Pdl allo sbando e con quanti si sono stretti in un comune abbraccio allo scopo di sconfiggere il Pd. Proseguiamo con una riflessione sul dato che i sondaggi ci comunicano con una voce univoca: il posizionamento del Movimento Cinque Stelle a seconda formazione politica del paese. È possibile che il dato sia esatto. Ma quale il suo significato? Il grillismo è senza dubbio un fenomeno su cui ragionare assai seriamente. Costituisce lo specchio in cui si riflettono tutti i vizi e le insufficienze dei partiti contro cui è entrato in guerra. Sennonché una cosa è crescere impetuosamente per i difetti altrui, altra farsi carico degli onori e degli oneri del governo, selezionare un ceto politico, passare dall´agitazione scomposta alla gestione responsabile dei comuni, delle regioni, dello Stato, darsi un´organizzazione articolata e strutturata. I nostri partiti versano in uno stato o pietoso o assai affannato, ma senza partiti non vi è vita dello Stato. Al Movimento Cinque Stelle il compito di fornire la prova. Ma chi scrive si permette di esprimere l´opinione che non sarà in grado di farlo. Che esso oggi venga all´improvviso tanto ammirato altro non pare essere se non testimonianza della miseria in cui versa la politica nazionale e di un sonno profondo della ragione.

l’Unità 31.5.12
«Cittadinanza, apriamo la battaglia anche in Europa»
David Sassoli: «Centinaia di migliaia di cittadini hanno chiesto l’approvazione di una legge che introduca lo ius soli. Ora necessarie chiare direttive Ue»
di Ma. Ge.


Centinaia di migliaia di firme per chiedere che si approvi una legge per riconoscere la cittadinanza a chi nasce in Italia. Un fronte dei sostenitori che conta lo stesso presidente della Camera. «Che altro c’è da attendere?», si chiede l’eurodeputato del Pd David Sassoli. In attesa che il parlamento italiano faccia la sua parte, però c’è un altro fronte da aprire, spiega Sassoli: una direttiva che dia indicazioni chiare agli stati membri e che apra la strada alla cittadinanza europea per chi nasce in Europa. Perché «chi nasce qui è di qui», come ripeterà «L’Italia sono anch’io», che oggi si è convocata a Roma, in piazza San Silvestro, a partire dalle 17.
Come fare in modo che l’Europa adotti una direttiva in questo senso?
«A giugno presenterò una dichiarazione al parlamento europeo per chiedere che la Commissione indichi le linee guida agli stati membri per riconoscere la cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Europa. Attualmente i 27 paesi si comportano in maniera molto diversa tra loro. II modelli a cui guardare sono quelli in cui è riconosciuto lo ius soli, come la Francia e la Gran Bretagna». Passare per l’approvazione di una direttiva europea che poi dovrà essere recpita dagli Stati membri non è una via un po’ lunga?
«La via più breve sicuramente è che il parlamento italiano si sbrighi a fare una legge per riconoscere la cittadinanza a chi nasce in Italia. Centinaia di mi-
gliaia di cittadini hanno chiesto che venga approvata una legge che introduca anche in Italia lo ius soli. I tempi sono maturi. Ma contemporaneamente è fondamentale lavorare a una prospettiva di cittadinanza europea per i figli degli immigrati. Ormai le partite non si giocano più solo nei campi nazionali». Restando sul campo nazionale, da un governo “tecnico” ci si potrebbe attendere qualcosa di più su questo fronte?
«I cittadini che hanno firmato la proposta di legge di iniziativa popolare si attendono che il parlamento faccia qualcosa. Gran parte del parlamento, oltretutto, si dice favorevole. Cos’altro c’è da aspettare? Stare a inseguire ancora la Lega davvero non ha più senso. Questa è una battaglia de Pd, che vede unito tutto il fronte progressista. Quindi,
andiamo avanti. Il parlamento faccia una legge per riconoscere la cittadinanza ai nati in Italia. Anche il capo dello Stato ha pronunciato parole molto impegnative in questo senso».
E la partita europea che tempi avrà?
«C’è bisogno della maggioranza più uno delle firme perché il parlamento possa trasmettere la richiesta di una direttiva sulla cittadinanza alla Commissione. Lavoreremo per questo. Abbiamo bisogno di una Europa che sostenga l'idea che chi nasce in Europa è cittadino. È una questione anche di giustizia. I figli di immigrati che vanno a scuola con mio figlio quando vanno a fare una gita fuori dall’Italia hanno grandi difficoltà perché non sono cittadini Schengen. Questo è un vuluns che va sanato».

Repubblica 31.5.12
Valanga rosa per la giunta Doria, la maggioranza degli assessori è donna
La svolta del sindaco di Genova: solo 4 politici e 7 tecnici
di Wanda Valli


GENOVA Non per sesso, ma per bravura. Così, Marco Doria, neo sindaco di Genova, ha scelto le donne della sua squadra. E ha trasformato Genova nella prima grande città italiana, ad avere una giunta davvero in rosa. Perché su undici assessori sei sono donne e cinque uomini.
Il professore dai nobili natali, spigoloso di carattere, preciso nel tener fede agli impegni presi, lo aveva anticipato in campagna elettorale: «cercherò di rispettare la parità di genere», aveva detto. Così, senza consultare neppure gli amici più fidati, Marco Doria ha fatto saltare il banco dei pronostici e non solo per le presenze femminili ma anche per il poco spazio concesso ai partiti: solo quattro assessori politici, gli altri sette sono tecnici. Ieri nella sede del Comune, palazzo Tursi che fronteggia uno dei tanti palazzi dei Doria, il sindaco- professore ha presentare così la sua squadra: «Ho dialogato con tutti, società civile e partiti. Non ho avuto imposizioni da nessuno, non le avrei accettate, ho scelto in solitudine, me ne assumo ogni responsabilità». Intorno a lui, per una volta in un classico abito grigio, le sue donne sorridenti, tutte decise a farsi valere. Forse anche loro un po´ stupite, come i colleghi maschi, ma ben consapevoli che tanto onore comporta anche tanti oneri, soprattutto in momenti come questi, dove i binari della politica tradizionale sembrano quasi abbandonati dalla gente. Non è successo al centrosinistra a Genova, città di Beppe Grillo, ma segnali precisi sono arrivati. Per le sue donne, Marco Doria, ha voluto incarichi di spicco, deleghe pesanti. C´è Carla Sibilla, per esempio, 53 anni, che finora si è occupata di gestire, con successo l´Acquario di Genova, nell´Expò di Renzo Piano. Ora molla tutto e va a occuparsi di cultura e turismo, due settori in cui il neo sindaco crede molto pensando a uno sviluppo della città, al di là di porto e imprese. E´ un´altra esperta Paola Dameri, 46 anni, docente alla facoltà di Economia e Commercio, la stessa del sindaco, e presidente di "Sole e Luna" una onlus che fornisce cibo e accoglienza davvero ai più fragili e deboli tra i genovesi. Naturalmente per far parte della squadra Doria, lascerà l´Università, perché l´impegno esclusivo è stata un´altra delle condizioni richieste dal sindaco. A lei si è affidato Doria per le politiche sociosanitarie e la casa, mentre Annamaria Dagnino, una precedente esperienza come assessore in provincia, dovrà mettere ordine nel traffico. Un compito da brivido per Valeria Garotta, anno di nascita 1977, new entry della politica, capolista per il Pd: starà a lei, ingegnere, occuparsi dell´Ambiente, settore cruciale in una città che, a novembre, ha vissuto il dramma di un alluvione con sei morti. C´è l´avvocato Elena Fiorini 47 anni, specializzata in diritto minorile e dell´immigrazione: sarà assessore, naturalmente, a legalità e diritti. Sesta, ma non ultima, Isabella Lanzone, 38 anni, un altro avvocato che addirittura torna a Genova, la sua città, da Udine dove lavorava in un´azienda sociosanitaria. Come a dire che per la sua valanga rosa, Marco Doria non si è fermato davanti a nulla. Chissà se le sue nuove amazzoni lo ripagheranno a dovere. Lui è assolutamente convinto di sì.

Corriere 31.5.12
Pisapia sulle unioni civili: «Sì al registro o decido io»


MILANO — Giuliano Pisapia mette i puntini sulle «i» sul registro delle coppie di fatto. A un anno dall'elezione e alla vigilia dell'arrivo del Papa per l'Incontro mondiale delle famiglie, il sindaco innesca la miccia di un argomento che imbarazza l'ala cattolica della coalizione. «Se entro questo anno il consiglio comunale non deciderà — avverte — assumerò io personalmente e la mia giunta la decisione sul registro delle unioni civili». Messaggio esplicito. Era nel programma elettorale, non resterà lettera morta. Il sindaco ribadisce l'impegno ai microfoni di Radio Popolare: «Dopo il Papa ci sarà il Dalai Lama e tanti altri — scandisce — noi abbiamo attenzione per tanti mondi diversi e poi prendiamo le nostre decisioni. Del registro poteva occuparsene la giunta o il consiglio, la coalizione ha scelto il consiglio. Se entro questo anno non deciderà, lo farò io». Per tanti cattolici del centrosinistra è un pugno nello stomaco. I mediatori della coalizione arancione speravano di essere riusciti a rinviare il dibattito a dopo la visita di Benedetto XVI, ma le parole di Pisapia riportano sotto i riflettori le diverse anime della maggioranza. «Se l'avesse fatto con minor clamore non sarebbe stato male», ammette l'onorevole Mariapia Garavaglia.

Corriere 31.5.12
«Quello che Berlino impone ad Atene non ha senso né politico né economico»
Gerhard Schröder: «Merkel pensa in termini elettorali. E sbaglia»
di Paolo Valentino


ROMA — «Quello che fa il governo tedesco, cioè dire alla Grecia che bisogna fare contemporaneamente le riforme e la politica di austerità, non ha alcun senso né politico, né economico. È chiaro che hanno bisogno di più tempo. Non posso sottoscrivere in toto la poesia di Günter Grass sulla Grecia, ma ha un argomento forte: non abbiamo dato ad Atene molte chance».
Il giardino dell'Hotel de Russie è un luogo speciale per Gerhard Schröder. Fu qui, alle pendici del Pincio nella primavera del 2005, che l'allora cancelliere tedesco rivelò al suo ministro degli Esteri verde, Joschka Fischer, l'intenzione di voler giocare la carta delle elezioni anticipate. Fu l'inizio della fine per la coalizione rosso-verde: «Joschka era molto deluso, ma io non avevo altra scelta». Schröder perse quella scommessa solo in parte: Angela Merkel divenne cancelliera, ma fu costretta per quattro anni a governare insieme alla Spd.
La ragione di quell'azzardo politico ci riporta direttamente all'oggi. Schröder aveva varato la più radicale e dolorosa riforma del welfare tedesco dai tempi di Bismarck. La base socialdemocratica era in rivolta. La Spd veniva punita in ogni elezione regionale. Per di più la Germania e la Francia, con il permesso dell'Italia, avevano ottenuto di poter violare senza pagar dazio i criteri di Maastricht. «Nessun governo in una democrazia può imporre riforme strutturali e allo stesso tempo attuare una politica di austerità, pena gravi tensioni sociali. Questa fu la situazione tedesca nel 2003. Io avevo appena realizzato l'Agenda, oltre 20 miliardi di euro di tagli e una severa riforma del mercato del lavoro. Ma non potevamo strozzare ulteriormente l'economia. Così abbiamo chiesto un margine più ampio nel rispetto dei criteri. Poi ho perso le elezioni, la signora Merkel ne ha approfittato, l'economia è ripartita, ma questa è un'altra storia. La lezione di allora è che un Paese come la Grecia ha bisogno di più tempo».
C'è un reale pericolo che l'euro si disintegri?
«No, non credo. Analizziamo i termini del problema. Abbiamo un fiscal compact sottoscritto dai Paesi dell'eurozona. C'è stata un'elezione in Francia, con la vittoria di Hollande che chiede di rinegoziarlo. C'è qualche passo in direzione della politica economica comune, cioè verso l'unione politica. Cosa può ottenere in più il nuovo presidente francese? Probabilmente un completamento, non formale ma di sostanza, in direzione di un patto per la crescita, senza bisogno di rimettere in discussione il patto fiscale. Con il che potrà dire che la sua rivendicazione è stata recepita. Di questo faranno parte tre elementi: una concentrazione dei fondi strutturali e di coesione verso i Paesi che ne hanno più bisogno: ci sono ancora risorse significative disponibili per infrastrutture, ricerca, sviluppo. L'aumento della dotazione della Bei, attraverso i cosiddetti project bond, oppure l'aumento del suo capitale. Poi verranno gli eurobond, cioè il primo passo verso l'europeizzazione del debito…».
Ma è ciò che la Germania non vuole…
«È vero, la Germania in questo momento non lo vuole. Ma la questione è che contemporaneamente bisogna fare passi concreti verso il coordinamento delle politiche economiche e finanziarie. Non si possono fare gli eurobond, senza portare a termine le riforme strutturali di cui ogni Paese ha bisogno e senza muoversi allo stesso tempo verso l'unione politica. Queste cose devono marciare insieme. E a queste condizioni, la Germania non avrebbe più argomenti per dire di no».
Vuole dire che a queste condizioni, il governo tedesco potrebbe dire sì agli eurobond?
«Non posso affermarlo con certezza. Ma la cancelliera si è mostrata flessibile quando è stato necessario. Il punto è che non avrebbe più argomenti razionali per opporsi»
Però Frau Merkel è sempre apparsa in ritardo sugli avvenimenti. Perché ogni volta ci mette tanto a fare passo in avanti?
«Merkel pensa prima di tutto in categorie elettorali, cioè in termini di potere politico interno. E sbaglia».
Perché sbaglia?
«Io non credo che possa vincere le prossime elezioni in Germania. È possibile che la Cdu resti più forte della Spd. Ma anche se la Fdp superasse di poco la soglia del 5% questo non basterebbe più per governare insieme. Resterebbero per la Cdu la possibilità di una coalizione con i Verdi (che questi non faranno) oppure una Grande Coalizione, che la Spd rifiuterebbe. Quindi l'unica prospettiva rimarrebbe un governo rosso-verde, con una sorta di appoggio della Sinistra o dei Pirati. Non penso cioè che la cancelliera Merkel rimanga al potere dopo il 2013».
Ma alle elezioni manca ancora quasi un anno e mezzo. E l'Europa ha molto meno tempo a disposizione…
«Per questo sostengo che bisogna implementare subito questo pacchetto. Per i mercati è essenziale che i Paesi dell'eurozona indichino con chiarezza la linea e dicano: andiamo verso l'unione politica, con tutto ciò che comporta, indicando i passi concreti a breve, medio e lungo termine. Un commissario deve diventare una sorta di ministro delle Finanze dell'eurozona. O si fa questa riforma istituzionale o la moneta unica è a rischio».
Quindi a suo avviso la crisi è sostanzialmente politica?
«È chiaro. All'inizio abbiamo creduto con l'euro di poter fare un progetto politico, forse anche contro la razionalità economica, sperando che poi questo ci costringesse all'unione politica. Purtroppo non è successo. Adesso o ci arriviamo, o la moneta cadrà. Se la crisi prova qualcosa, è che non si può avere una moneta unica senza una politica economica, finanziaria (e aggiungerei sociale) comuni».
Ma tra la crisi e l'unione politica, c'è un problema immediato da risolvere di nome Grecia. Siamo ancora in tempo per salvarla?
«Sì. Dipende molto da loro, da come voteranno tra due settimane, se vogliono essere salvati. Se ci sarà un governo disposto a fare le riforme necessarie, possiamo salvarla. Come dicevo, occorrerà però dare più tempo al nuovo governo greco. L'errore più grave che abbiamo fatto è aver lasciato in bilico Papandreu. Lui era stato chiaro: datemi più tempo. Ora, i greci devono capire che le riforme strutturali vanno fatte, ma gli europei devono capire che queste cose non si fanno in una notte. Dovremmo dire subito che vogliamo salvare la Grecia, che questo può avvenire solo se loro riformano il Paese, ma anche che devono poterlo fare gradualmente. Al momento purtroppo esercitiamo su Atene soltanto pressione».
Con l'elezione di Hollande il binomio franco-tedesco è in crisi?
«No. Ogni presidente francese e ogni cancelliere tedesco imparano in breve tempo che in Europa nulla avanza se Berlino e Parigi non lavorano insieme. E sarà così anche con Hollande e Merkel, come fu tra me e Chirac, tra Schmidt e Giscard, tra Kohl e Mitterrand. È semplicemente un fatto della costruzione europea, anche se quando interagiscono gli altri si lamentano e parlano di direttorio, ma quando non lo fanno è pericoloso».
Ma un'eventuale uscita della Grecia dalla moneta unica secondo lei causerebbe il crollo dell'intera eurozona?
«Sarebbe una vittoria dei mercati sulla politica».
E sarebbe in grado l'Ue di contenerne gli effetti?
«In generale, non amo discutere situazioni ipotetiche. Sinceramente non credo che Atene uscirà dall'euro. La Grecia rappresenta il 3% del Pil dell'Ue. E a quelli che predicono l'effetto domino, rispondo che basterebbe una forte presa di posizione politica per impedirlo».
Lei comunque non è pessimista. Su quali basi?
«L'Europa è sempre avanzata come la processione del martedì di Pentecoste a Echternach: due passi avanti uno indietro, ogni tanto addirittura uno avanti due indietro. È vero che questa crisi ha una qualità diversa, è probabilmente la più seria che abbiamo mai vissuto, perché a essere minacciata è la base economica. E si può risolvere solamente se ci sarà unità d'intenti e d'azione tra i grandi Paesi, a condizione che capiscano e dicano che la direzione sia quella dell'unione politica».

Repubblica 31.5.12
C’era una volta l’Europa
La distruzione dell’ordine europeo non sarebbe solo una rovina finanziaria ma politica, culturale
Manca la coscienza che il problema non è greco ma dell’intera Unione e per questo il panico regna sinistro
di Barbara Spinelli


È colmo di insidie e doppiezze, il modo in cui un gran numero di politici europei, e di economisti, e di esperti, sta prospettando l’uscita della Grecia dalla moneta unica.
Sembra una preparazione razionale al peggio, ma i presupposti di una vera preparazione sono assenti: è del tutto inaudibile una critica autentica degli errori commessi, che corregga alle radici i vizi dell´euro e dell´Unione. Non vediamo che un vacuo oscillare tra falsi allarmi e false sicumere. A volte la secessione di Atene è temuta, per gli effetti finanziari che avrebbe; altre volte sembra in segreto propiziata, accelerata. Non è interpretabile diversamente, ad esempio, la decisione che il Fondo salva-Stati ha preso all´inizio di maggio, quando gli aiuti a Atene sono passati dai concordati 5,2 miliardi di euro a 4,2 miliardi: «un miliardo di olio bollente su una ferita aperta», scrisse Giuliano Amato sul Sole 24 ore del 13 maggio. Stessa apatica indolenza di fronte a un possibile no irlandese al Patto di bilancio (fiscal compact), nel referendum di oggi. Come sempre si correrà dietro la storia, senza farla.
Chi ha gettato la Grecia nel marasma ha volutamente giocato col fuoco, oltre che con un popolo, e ancora sorprende lo stupore causato dal voto del 6 maggio: una maggioranza parlamentare introvabile, il tracollo dei vecchi partiti, la necessità di indire - il 17 giugno - nuove elezioni. Viste le cose come stanno, si comincia a considerare fatale lo sfascio della moneta, e neanche così nefasto. Senza Atene si potrà forse salvare l´Euro, anche se rattrappendolo un po´. Meglio pochi felici - in un´eurozona ripulita - ben sorretti dal muro antincendio (il famoso firewall) che fermerà l´espandersi del male. Si può fare, dicono a Berlino e a Bruxelles: «È governabile».
Quel che inquieta, nei piani d´emergenza allo studio, non è la volontà di erigere muri. Prepararsi a neri scenari è saggezza, in politica, a condizione però che il male sia riconosciuto, detto, e non circoscritto ma proscritto. Altrimenti avremo barriere di carta, come l´esiziale linea Maginot che doveva immunizzare i francesi da assalti nazisti. Tale è l´odierno muro antincendio, e il motivo è chiaro: manca la coscienza che la crisi non è greca ma dell´intera Unione, e per questo il panico che regna ha qualcosa di sinistro. È un panico fatto di leggerezza, di ignoranza storica, di vuoti di memoria colossali. In cuor loro i capi europei sanno di mentire, quando dicono che non ci sarà contagio. Quando esibiscono tranquillità, come se tutto potesse continuare come prima, dopo il crollo greco o il no irlandese. La leggerezza è funesta, perché non è così che l´Europa ritroverà le forze e i cittadini la fiducia.
Chi prospetta un´uscita sopportabile di Atene sta occultandone il prezzo, e non valuta quel che significherebbe la disgregazione dell´euro. Troppo facilmente ci si consola, credendo nella favola che ci si racconta: l´eurozona che sopravviverebbe, l´Unione che resterebbe quella che conosciamo. Nella migliore delle ipotesi vengono enumerate le perdite finanziarie, alcuni evocano perfino una Banca centrale non più solvibile, ma a quel che sta nel fondo del pozzo non si guarda.
Anche economisti illustri giocano con l´Unione come fosse un algoritmo. Paul Krugman dice giustamente che l´euro s´infrangerà, vista la volontà d´impotenza degli Stati, ma subito aggiunge che non sarà il dramma paventato. L´Argentina nel 2001-2002 si sganciò dal dollaro, svalutò il peso, poi formidabilmente si riprese: perché non potrebbe accadere a Atene, e magari a Madrid, Lisbona, Roma? Dov´è scritto che l´Unione crollerebbe, se finisse un euro fatto così male, non sostenuto dalla fusione dei suoi Stati? Si può tornare allo status quo ante. Lo stesso Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri, spiega che l´euro non era una necessità economica, ma politica: strategicamente non se ne può fare a meno, ma tecnicamente sì.
Affermazioni simili sono un inganno: non dicono le cose come stanno. Proviamo allora a immaginare quel che succederebbe non solo nel medio periodo ma nel breve, se Atene tornasse alla dracma per poi svalutarla massicciamente. Non avremmo uno scenario argentino, perché Atene non dispone più di una moneta nazionale, e perché il mondo industrializzato è oggi in recessione. Un lungo periodo di transizione sarebbe necessario, per passare alla dracma, durante il quale occorrerebbe bloccare le frontiere, la libera circolazione dei capitali e anche delle persone.
Il trattato di Schengen, che abolisce i confini interni sostituendoli con un´unica frontiera esterna, verrebbe sospeso durevolmente. La svalutazione della dracma - domani della moneta spagnola, portoghese - scatenerebbe guerre commerciali. Anche per la Germania sarebbe una calamità: economica, politica, psicologica. Berlino è oggi una potenza perché leader di una moneta con peso mondiale. Ridotta a custodire il marco diverrebbe ininfluente. «Temo molto meno la potenza della Germania che la sua presente inerzia. Dovete diventare la nazione indispensabile d´Europa e non fallire nella leadership», ha detto il ministro degli Esteri polacco Sikorski in un discorso nella capitale tedesca il 28 novembre scorso. Berlino tornerebbe a esser guardata con rancore. Fischer mette in guardia la Merkel, nell´intervista al Corriere del 26 maggio: «Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell´ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è proprio questo». La stessa cosa hanno detto negli ultimi anni due ex cancellieri: Schmidt e Kohl.
La rovina non sarebbe solo finanziaria. Sarebbe politica, culturale. È inutile evocare sessant´anni di storia europea a rischio, se non si specifica in cosa consista precisamente tale storia. Se non si dice la verità ai cittadini, su quel che perderemmo. Non saranno protetti da Stati nazione che recupereranno la sovranità, perché la sovranità è persa dal dopoguerra. L´euro fu necessario economicamente: non fu creato perché urgeva una penitenza politica dei tedeschi. La chiusura delle frontiere ci cambierebbe antropologicamente: ogni nazione rientrerebbe nel suo misero recinto, gli spiriti si rinazionalizzerebbero, la xenofobia diverrebbe un male banale.
La lunga educazione europea alla mescolanza di culture, alla tolleranza, all´apertura al diverso, si prosciugherebbe per decenni. Già sta accadendo, in un´Europa che ritiene patologico il debito greco e perfettamente sana la tirannide di Orban in Ungheria. Già in Francia Sarkozy ha sbandierato la xenofobia in campagna elettorale. In Grecia già cresce un partito nazista che saluta col braccio teso e promette di installare mine anti-uomo lungo i confini. L´Unione fu inventata contro i nazionalismi razzisti: l´invenzione franerebbe. Così come vacillerebbero le nostre costituzioni, figlie del clima che generò anche l´unità europea. A nulla servirebbe la Carta dei diritti che affianca il Trattato di Lisbona. Né i giudici né gli economisti salveranno, al posto dei politici e di ogni cittadino, la civiltà dell´Unione.
È il motivo per cui non credo che Atene uscirà dall´euro, e non solo perché i vecchi partiti greci risalgono nei sondaggi. Anche se vincesse la sinistra radicale, l´Europa non può permettersi disastri che cambierebbero la fisionomia dei suoi popoli. Molti responsabili lo sanno. Perché non parlano? La Germania si dice pronta a una Federazione. Il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, ha scelto la tribuna di Le Monde, il 26 maggio, per dire che se Parigi scegliesse la via federale e nuove deleghe di sovranità molte cose diverrebbero possibili, compresa la messa in comune dei debiti. Il silenzio di Parigi è rovinoso. Le due rigidità, francese e tedesca, congiurano contro la rinascita dell´Europa.

Corriere 31.5.12
Siria
Le voci dell'orrore «Esecuzioni di bimbi con coltelli e pistole»
E ieri una nuova strage: 13 morti
di Viviana Mazza


Gli occhi socchiusi, le sopracciglia appena corrucciate, le labbra aperte a rivelare i piccoli incisivi. Sulla guancia e la tempia due minuscole gocce di sangue rappreso. Avrà tre anni al massimo, il telo mortuario è aperto a rivelare un volto che non ha commosso il suo carnefice. «Hula, Siria. Uno dei 49», ha titolato il Times di Londra mettendo in prima pagina una foto simile a questa. In Russia, invece, un'immagine analoga è apparsa sulla Komsomolskaya Pravda a suggerire che l'Occidente vuole usare la strage di Hula come pretesto per l'intervento militare in Siria. Secondo l'Onu, nel massacro del 25 maggio, solo 20 delle oltre 108 persone uccise — tra cui 49 bambini e 32 donne — sarebbero morte sotto il fuoco dell'artiglieria. La maggioranza sarebbero state giustiziate da assassini che avrebbero agito in modo metodico, radunando uomini, donne e bambini e falciandoli con colpi ravvicinati di pistola, di armi automatiche e coltellate. Nemici e amici del presidente siriano Bashar Assad procedono sui loro diversi binari, tra accuse reciproche, mentre le stragi continuano — 13 uomini con le mani legate dietro la schiena, fucilati vicino a Deir Ezzor, nell'est della Siria — e decine di nuove testimonianze da Hula raggiungono la stampa internazionale. Sono racconti diffusi attraverso i video su YouTube e facilitati dagli attivisti anti-regime, e non possono essere direttamente verificati. Accusano gli «shabiha», che letteralmente vuol dire «i fantasmi», nome usato per identificare le forze paramilitari fedeli al regime, di essere entrati a Tall Dhau, quartiere meridionale di Hula il cui nome significa «collina della luce», col favore delle tenebre, tra le 6 e le 7 di sera.
«Sapevano i nomi di mio padre, di mio fratello e di mio zio», ha detto un bambino di 11 anni al Guardian. «Erano gli shabiha. Alcuni erano in abiti civili, altri in divisa». Sarebbero arrivati alle 3 del mattino. «Mia madre ha urlato: "Cosa volete da mio marito e da mio figlio?" Un uomo calvo con la barba le ha sparato con un kalashnikov, diversi colpi dal collo in giù. Hanno ucciso mia sorella con la stessa arma: aveva cinque anni. E poi mio fratello Nader, un colpo alla testa, uno dietro. Ho visto la sua anima lasciare il corpo davanti a me. Un proiettile mi ha sfiorato ma non sono stato colpito». Si sarebbe finto morto.
Anche il sottosegretario Onu per le operazioni di peacekeeping Hervé Ladsous ha detto di sospettare che dietro le esecuzioni vi siano miliziani pro-regime, mentre Damasco accusa terroristi islamici che avrebbero eliminato gente che appoggiava Assad. Tra le testimonianze c'è quella di due sopravvissute di una famiglia allargata sunnita, gli Abdul Razaq. Secondo l'attivista Maysara al-Hilawi, 63 membri di quel clan sarebbero stati sterminati alla periferia di Tall Dhau, sulla strada verso Fulla, un villaggio alauita. Gli alauiti sono il gruppo religioso sciita cui appartiene Assad. L'episodio sembra suggerire che si tratti di un attacco a sfondo settario. Rasha Abdul Razaq ha detto alla Bbc che gli «shabiha e la sicurezza con kalashnikov e armi automatiche» avrebbero radunato 15 familiari e vicini in una stanza, e solo lei, la madre e una neonata sarebbero sopravvissute. Sue madre ha raccontato: «L'uomo ha detto: "Veniamo dalle montagne, da Fulla", e io ho risposto: "Allora siamo vicini. Qui non ci sono terroristi". E lui: "Siete voi i terroristi"». Nel quartiere, secondo la ragazza, c'erano 100 case: «Hanno ucciso tutti». Sia Rupert Colville, portavoce dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, che Akrama Bakour, un ribelle dell'Esercito siriano libero, hanno parlato di due principali episodi in cui sarebbero avvenute esecuzioni sommarie. Gli orari delle varie testimonianze non coincidono. Bakour, ad esempio, parla di un primo attacco verso le 2 e 30 del pomeriggio e del secondo verso le 11 di sera all'ingresso di Tall Dhau. Ma anche lui, come molti, fa il nome del villaggio alauita di Fulla.
Le voci dell'orrore. Una nonna paralizzata dietro una porta chiusa sentiva che i nipoti venivano giustiziati nella stanza accanto. L'attivista Hamza Omar ha fotografato bambini con le mani legate. «Quelli che hanno tentato di fuggire sono caduti sotto colpi di armi automatiche: abbiamo trovato i cadaveri nei campi». Gli osservatori Onu hanno diffuso immagini girate sul campo su YouTube, cosa mai fatta prima di questa strage. In un video, un uomo piange, chiede il loro aiuto per trovare i corpi della sorella e dei quattro nipotini di cui non ha notizia, vivono alla periferia di Hula. Gli osservatori vanno nella casa, recuperano i cadaveri.

Corriere 31.5.12
Storia del Birobidžan: una terra per ebrei sovietici
risponde Sergio Romano


Stalin, che pure passa per un antisemita e che viene accusato per la carcerazione e la deportazione di ebrei, tra cui la moglie di Molotov, Polina, aveva creato un embrione di Stato ebraico, il Birobidžan. Non so se sarebbe potuto essere accettabile per un problema di cui tuttora tarda a intravedersi la soluzione, ma anche Teodoro Herzl sulle prime era propenso a che si fondasse uno Stato ebraico anche fuori della terra promessa a Mosé, tanto è vero che aveva preso in considerazione l'Uganda. Come mai non è decollata
la creazione di uno Stato ebraico nel Birobidžan?
Alberto Cotechini

Caro Cotechini,
Sulla nascita di una regione ebraica nell'Estremo Oriente sovietico esistono i reportage di alcuni inviati speciali (Ettore Mo per il Corriere, Ugo Tramballi per Il Giornale) e più recentemente un interessante e utile studio di Alessandro Vitale (La regione ebraica in Russia. Birobidžan) pubblicato dall'editore Casagrande di Lugano nel 2005. L'idea non fu di Stalin, ma di quegli ambienti del regime a cui parve opportuno dimostrare che la patria del socialismo era perfettamente in grado di dare una risposta sovietica e marxista alla soluzione del problema ebraico. Vi erano ebrei che avevano abbandonato il grande spazio russo-polacco per emigrare verso Occidente; e vi erano quelli che stavano cercando di costruire una patria in Palestina. Perché non dimostrare che gli ebrei rimasti (più di un milione) avrebbero potuto realizzare il loro sogno là dove si stava tentando il primo grande esperimento comunista della storia umana? Agli ebrei non sarebbe stata data una «patria» (concetto borghese e potenzialmente reazionario), ma un territorio collocato lungo le rive del fiume Amur, ai confini con la Cina. La scelta presentava per il regime anche un vantaggio strategico: avrebbe permesso la creazione di un utile antemurale contro le ambizioni giapponesi nell'Estremo Oriente cinese e siberiano.
Al momento della decisione, nel 1927, questo grande territorio contava, secondo i rilevamenti sovietici, 1.192 abitanti: kazachi, coreani e membri della tribù siberiana dei tungusi. La creazione di una «unità nazionale ebraica» fu decisa nel marzo del 1928 e i primi coloni (poco più di un migliaio) partirono nei mesi seguenti. Il numero dei residenti crebbe, sia pure lentamente, e la punta più alta venne registrata nel 1932 quando i nuovi coloni furono 14.000. Ma un anno dopo i nuovi arrivati erano 3.005 e nel 1934 5.267. Fu annunciato che la Regione sarebbe diventata Repubblica non appena 100.000 ebrei avessero preso residenza nel territorio, e il numero degli immigrati salì nel 1935 a 8.344, di cui 820 non erano ebrei. Non ho i dati per gli anni successivi, ma il numero sarebbe forse considerevolmente aumentato se Stalin, agli inizi del 1953 quando denunciò l'esistenza di un complotto ebraico, avesse deciso d'imporre agli ebrei dell'Urss una scelta fra il Birobidžan e il gulag. Ma furono salvati dalla sua morte il 5 marzo di quell'anno.
Da allora il numero degli ebrei della regione autonoma è andato progressivamente declinando; erano 9.000 nel 1989, poco più di 2.000 nel 1996. La grande maggioranza è oggi composta da una variopinta popolazione asiatica, ma il Paese conserva tracce interessanti di cultura ebraica fra cui un grande candelabro a sette braccia che sorge in una piazza del capoluogo di fronte all'edificio in cui ha sede la Comunità Freyd (in yiddish: gioia).

il Fatto 31.5.12
La mostra sospesa su Sabra e Chatila: per una didascalia?
Le parole sulla strage a Beirut nell’82 bocciate dal Comune di Roma
di Roberta Zunini


I fantasmi di Sabra e Chatila, a distanza di trent’anni, continuano a pesare sulla coscienza della comunità internazionale e a dividerla, tra pro-palestinesi e pro israeliani, quando si tocca il tasto delle responsabilità. Circa il livello di efferatezza del massacro di centinaia di donne e bambini palestinesi, allora rifugiati nei due campi profughi libanesi, nessuno invece ha da obiettare. Né l'assessore alla Cultura del Comune di Roma, Di-no Gasperini, che ha fatto sospendere la mostra fotografica “Notte molto nera - Sabra e Chatila, una memoria scomoda”, in programma da ieri fino a luglio presso la Casa della Memoria, né il presidente della comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici che “diffiderà chiunque continuerà a sostenere a mezzo stampa e web che la mostra è stata sospesa a causa della pressione della comunità sionista”.
LA VICENDA ha inizio ben due anni fa quando la fotografa antropologa Laura Cusano presentò al comitato di programmazione della Casa della Memoria (un'istituzione animata da varie associazioni tra cui l'Anpi, associazione nazionale partigiani e l'Aned, ex de-portati, ma anche da un rappresentante del Comune di Roma) un progetto per l'allestimento di una rassegna fotografica, corredata da testi e didascalie, sui superstiti della strage compiuta dai falangisti cristiani maroniti nel 1982, mentre i campi erano sotto il controllo dell'esercito israeliano guidato da Ariel Sharon.
“Tutto è andato bene fino al 21 maggio, giorno in cui ho ricevuto una telefonata informale dai curatori della mostra, con cui mi si avvertiva che era stata bloccata. Ho chiesto la motivazione di una decisione che vanificava dall'oggi al domani tutto il nostro lavoro ma nessuno mi ha dato una risposta – dice l'autrice - scritta. Mi domando chi o cosa possa essere intervenuto per bloccare un'iniziativa a cui la Casa della Cultura aveva dato il via libera con una lettera protocollata, che avevo ricevuto il 23 aprile scorso”. A intervenire è stato il rappresentante dell'assessore comunale, stando a quanto afferma lo stesso assessore Gasperini: “Siccome il Comune dà il patrocinio e siccome un rappresentante del mio assessorato fa parte del comitato di gestione della Casa della Memoria ho voluto leggere i testi prima di dare il via libera e ho ritenuto necessario esprimere un dubbio sulla correttezza storica di questi testi, perché in uno l'autrice scriveva che il mandante della strage dei profughi palestinesi era l'esercito israeliano”.
LAURA CUSANO spiega di non essere una storica e di essere disposta a togliere quelle accuse che rappresentano il suo pensiero. “Però nessuno me l'ha chiesto, nessuno finora ha voluto discutere di ciò. Io non ho alcun problema nel togliere quella frase perché il mio lavoro riguarda le sofferenze delle persone, la follia della guerra, non i mandanti o i colpevoli. Era un lavoro sulle vittime. Ho sollecitato l’assessorato ma nessuno mi ha risposto”.
Fino a ieri, quando la fotografa è stata informata dai curatori della mostra che oggi dovrà presentarsi all'assessorato per discutere. “La comunità ebraica non è contraria a che si ricordino i civili innocenti uccisi dai falangisti ma non è tollerabile che si accusi Israele di essere il mandante. Perciò ringrazio l'assessore Gasparini per avermi informato di questa pericolosa iniziativa”, ha sottolineato Pacifici.
L’assessore aveva confermato al Fatto di aver sentito effettivamente la comunità ebraica prima di porre “il dubbio” alla Casa della Memoria. Probabilmente la mostra verrà posticipata.

Repubblica 31.5.12
Londra, sì all’estradizione di Assange in Svezia
Il fondatore di WikiLeaks perde in appello. Ma la difesa si appiglia a un cavillo giuridico
di Enrico Franceschini


 Assente in aula perché "bloccato nel traffico" Ha ancora due settimane di libertà

LONDRA - La primula rossa del web perde un´altra battaglia, ma non ancora la guerra. Per la terza volta consecutiva, le autorità giudiziarie britanniche respingono il ricorso di Julian Assange contro la richiesta di estradizione presentata dalla Svezia, dove il fondatore di WikiLeaks deve rispondere dell´accusa di stupro.
Dopo il giudizio di primo grado e quello di appello, ieri è stata la Corte Suprema di Londra a ritenere valida la richiesta della magistratura svedese. Ma Assange guadagna come minimo altre due settimane di libertà vigilata nel Regno Unito, grazie a un cavillo legale che potrebbe riaprire il processo, in attesa di scoprire se potrà presentare ricorso a un´istanza teoricamente ancora più alta, la Corte Internazionale dei Diritti Umani di Strasburgo.
L´udienza dura pochi minuti. Lord Philips, presidente della Corte Suprema, riassume il caso e accoglie la richiesta di estradizione, pur ammettendo che il verdetto non è unanime, bensì a maggioranza, 5 giudici contro 2. La sentenza era stata consegnata solo mezz´ora prima agli avvocati di Assange, tempo tuttavia sufficiente al capo del suo team forense, Dinah Rose, per individuare un possibile errore tecnico. Infatti i giudici hanno in parte basato la loro decisione sulla definizione di «autorità giudiziaria» data dalla Convenzione di Vienna: «Ma questo aspetto non è mai stato discusso nella precedente udienza del processo», osserva la brillante avvocatessa, come dovrebbe essere per dare alle due parti l´opportunità di fare obiezioni. Il suo intervento prende così di sorpresa il presidente della Corte, che Lord Philips le risponde chiamandola con il nome sbagliato, confondendola con il procuratore dell´accusa. È comunque costretto a concedere alla difesa due settimane di tempo per presentare ricorso su questo cavillo procedurale. Se i giudici lo accoglieranno, dovranno ripetere il processo. Può darsi che alla fine non cambierebbe niente e si arriverebbe lo stesso a un verdetto favorevole all´estradizione, ma intanto passerebbero altri mesi. E ne passerebbero ancora di più, se la Corte riconoscesse ad Assange il diritto di fare ricorso anche al tribunale dei diritti umani di Strasburgo.
Com´è noto, il fondatore di WikiLeaks è ricercato in Svezia per le accuse di violenza sessuale rivoltegli da due donne, entrambe volontarie della sua organizzazione, durante un viaggio che lui fece in Scandinavia nel 2010. Assange ha sempre negato la propria colpevolezza, sostenendo che i rapporti furono consensuali seppure «non protetti». Ma per la legge svedese anche costringere una donna a un rapporto sessuale non protetto costituisce una forma di stupro. In ogni caso le autorità di Stoccolma vogliono interrogarlo per valutare se ci sono gli estremi per un´incriminazione e un processo.
I suoi difensori e sostenitori affermano che si tratta di un complotto, il cui fine ultimo è estradarlo negli Stati Uniti, dove verrebbe incriminato per violazione di segreti di stato e spionaggio, con il rischio - secondo lui almeno - di essere condannato all´ergastolo o addirittura alla pena di morte. La magistratura britannica replica che estradarlo negli Usa dalla Svezia non sarebbe più facile che dal Regno Unito. Come che sia, Assange non ha fatto commenti alla sentenza della Corte Suprema: non era nemmeno in aula, trovandosi, secondo i suoi avvocati, «imbottigliato nel traffico», da qualche parte, a Londra. Inafferrabile primula rossa, fino all´ultimo.

La Stampa TuttoScienze30.5.12
Antropologia

Così il popolo dei semi sconfisse i cacciatori europei
Ricerca svedese: nei geni la prova che l’agricoltura fu portata da gruppi di invasori
di Marta Paterlini


5 mila anni fa Le coltivazioni cominciano ad espandersi in tutta Europa: questa diffusione è stata oggetto di un lungo dibattito

Arriva la prima prova che l'agricoltura si è diffusa in Europa in seguito a una serie di grandi flussi migratori: l’ha scoperta un team poliedrico di archeologi, genetisti e bioinformatici dell' Università di Uppsala, in Svezia, svelando uno scenario inedito.
Secondo la teoria più accreditata, la fase di crescita economica associata al Neolitico prese piede dapprima nelle regioni del Levante (tra l’Anatolia, la Siria e la Palestina), dove i cacciatori si cimentarono nelle prime domesticazioni e, quasi contemporaneamente, nelle prime coltivazioni. Questo avveniva 11 mila anni fa. Poi, intorno a 5 mila anni fa, le coltivazioni cominciano ad espandersi a macchia d'olio nel resto dell'Europa: que-
sta diffusione è stata oggetto di un lungo dibattito, che ha visto contrapposte due ipotesi, quella migratoria, appunto, e quella basata sul «passaparola».
«Adesso, per delineare un quadro il più chiaro possibile, abbiamo sequenziato circa 250 milioni di paia di basi di Dna, tra l'1 e il 3% del Genoma, provenienti dagli scheletri di quattro individui appartenenti a due culture diverse, una donna-agricoltore e tre cacciatori-raccoglitori dello stesso periodo, intorno a 5 mila anni fa - spiega Mattias Jakobsson, professore di genetica delle popolazioni -. Poi abbiamo intersecato i dati ottenuti con il Dna di uomini contemporanei». Mentre la donna proviene da una zona meridionale della Svezia chiamata Gökhem, i tre maschi erano stati sepolti a 400 km di distanza sull'isola di Gotland: questi ultimi sono associati alla cultura della cosiddetta «ceramica bucherellata» («Pitted ware culture»).
«Le due culture non si differenziano solo per il tipo di sepoltura, ma hanno anche una firma genetica diversa - ha aggiunto -. E' stata una sorpresa scoprire che l'agricoltore e i cacciatori-raccoglitori siano così diversi. Mentre il genoma della donna ha una straordinaria somiglianza con gli individui contemporanei dell'Europa meridionale del bacino mediterraneo, per esempio di Cipro e della Sardegna, quello dei cacciatori-raccoglitori è prossimo al Dna dei finlandesi e dei russi. Ed è anche interessante che questi geni antichi non abbiano molto da spartire con quelli degli svedesi contemporanei, nonostante gli scavi siano stati svolti in Svezia».
Già a partire dagli Anni 70 e 80 il genetista delle popolazioni Luigi Cavalli-Sforza aveva ipotizzato una massiccia migrazione di agricoltori, spinti dalla crescita demografica e dalla ricerca di nuove terre coltivabili, che avrebbe respinto e cancellato le precedenti comunità locali mesolitiche. E' sempre mancata, però, una prova sperimentale, che adesso proviene dai laboratori di Uppsala: l'agricoltura si diffuse in Europa attraverso la migrazione piuttosto che di bocca in bocca. Un aspetto interessante della ricerca è costituito dallo sviluppo di algoritmi per escludere ogni possibile contaminazione. «I progressi dell'era della genomica forniscono gli strumenti necessari per affrontare le diverse modalità della “neolitizzazione” in ogni angolo d'Europa, con una precisione estremamente elevata - commenta Jakobsson -. Siamo stati in grado di dimostrare che la variazione

Repubblica 31.5.12
Storia del lato B (e non solo)
Esce un saggio di Martínez de León sulla rappresentazione del nudo e dell’eros tra arte e censura
Da Venere al burlesque come cambia l’oscenità
di Nello Ajello


La "Danae" realizzata da Tiziano per il re Filippo II finirà per essere considerata "pericolo pubblico"
Hedy Lamarr si espose per prima senza veli al cinema, più tardi da noi lo fece Clara Calamai

«Nella Danae, che già inviai a Sua maestà, la figura era rappresentata tutta dal davanti. In questo nuovo dipinto ho voluto variare la visione e mostrarle la contraria parte», perché «risulti più gradevole alla vista». Con queste righe Tiziano preannunziava a Filippo II, sulla metà del Cinquecento, l´invio del quadro, Venere e Adone. È un tentativo di spiegare al castigatissimo monarca di Spagna che cosa lo abbia convinto a mutare la prospettiva assegnata ai nudi: non più frontale, ma orientata su ciò che mezzo millennio più tardi si sarebbe chiamato «il lato B». Trovo la lettera all´inizio della Storia dell´oscenità, scritta dal saggista e narratore uruguaiano Hugo Martínez de León (Odoya, traduzione di Ariase Barretta, pagg. 240, euro 16).
È una ricerca impegnativa. Certo, la prosa adoperata apparirà a tratti maliziosa, ma qualche inclinazione verso un linguaggio "andante" è il minimo prevedibile. Colpisce invece la passione culturale che il volume testimonia. Prima ancora che un trattato, è un "manifesto" a favore della libertà di esporre o rappresentare il sesso – coi pennelli, e via via tramite teatro, stampa, macchina fotografica, cinecamera, telecamera – e contro chiunque tenti di ostacolarla. Si confuta il secolare allarme dei legati pontifici, dei perbenisti e di ogni altra «forza della virtù». Ne vien fuori un conflitto fra crociata e crociata: una "codina", l´altra trasgressiva. Non occorre chiedere da che parte si schieri Martínez de León.
Finiscono al macero quelli che troppo a lungo si sono chiamati «i limiti del pudore», fra l´esultanza dell´autore (e, per lunghi tratti, del lettore). Apprendiamo subito che a Tiziano – almeno con Filippo II e la Danae, contro la quale la persecuzione scatterà in seguito, fino a farla considerare un «pericolo pubblico» – era andata discretamente. Non andò affatto bene a Michelangelo. Un suo discepolo, Daniele da Volterra – passato poi alla storia come "Braghettone" – si impegnò a ricoprire con castigati perizomi i nudi della Sistina, i quali suscitarono l´indignazione, fra gli altri, del licenzioso ma imprevedibile Pietro Aretino. Un destino perfino più severo sarebbe toccato, cento anni dopo, al Giudizio di Paride di Rubens, per iniziativa di prelati e porporati. L´artista si rifiutò di modificare l´opera giudicata troppo naturalista. Sostenne che, che se aveva trattato quel tema, con le nudità che implicava, era per dimostrare «il valore e il coraggio» della sua pittura.
Nel 1700 sempre un re di Spagna, Carlo III, si distinse a sua volta per rigore censorio, elencando le opere più «lascive» della collezione regale per mandarle al rogo. Proposito sventato in extremis, quando quei dipinti-scandalo vennero relegati in un edificio deserto ai margini dell´Alcazar. Fece epoca, tanto per dirne un´altra, l´attacco dell´Inquisizione a Goya. Nel 1815 l´autore delle due Maja, vestida e desnuda, finì in Tribunale.
Veniamo a tempi più vicini. Dalle pagine di Martínez emergono di rado, artisti sublimi, ma ad affacciarsi in massa sono danzatrici e soubrettes, le cui fattezze intime si offrono alla «voracità voyeuristica del maschio». Beati loro. Ma gli ecclesiastici – sorretti dalle consuete pattuglie di borghesi sessuofobi – non paiono d´accordo. La censura non demorde. Dall´operetta al can can, dal burlesque (un termine di recente risuscitato) al café-chantant, fino ai palcoscenici di striptease, straripa il catalogo di dissolutezze esibite dall´autore, e represse dai moralisti. Le notti si popolano di simili «temerità». Eccone i primi ingredienti ed effetti: «tacchi alti, frustini e camicette con volant creano, grazie alla sensazione di movimento, un´euforia di straordinaria trasgressione». Oscenità? Certe cose dipende da come si guardano. Sono comunque stati d´animo o di corpo capaci d´impressionare un letterato insigne, Heinrich Heine, che scrive: «Il can-can è una danza che si esegue solo in posti indecenti. La donna che balla, o il signore per il quale balla, sono spesso accompagnati fuori da un poliziotto». Non si capisce bene se un tale esito indigni Heine o lo entusiasmi.
L´autore non dimentica alcun locale, cognome o indumento che rifletta la mitologia divistico-sessuale legata alla Belle Époque. A gremire le pagine sono lo Chat Noir, le Folies Bergère, il Crazy Horse, il Condor Club. Vi si celebrano donne da leggenda: Isadora Duncan, Louise Weber (detta La Goulue, cioè la ghiotta, l´ingorda), che fece da modella a Tolouse-Lautrec. Rita Renoir, Sally Rand, Bettie Page, Candy Barr, Joséphine Baker fanno scuola a certi «sex symbol seminali» del cinema, come Tedha Bara o Pola Negri fino alla Monroe, passando per Rita Hayworth, titolare di «polpose labbra che implorano di essere baciate», e per Hedy Lamarr, espositrice del primo nudo integrale, una pratica che trovò poco più tardi da noi un´emula volenterosa in Clara Calamai. Non meno memorabile, a suo modo, Jane Russell, la più lesta a indossare il reggiseno a balconcino, «prendendo di petto» le leve maschili. Oggetto di varie dissertazioni è il pelo pubico, la cui ostentazione, sulla scia di benemeriti pionieri, segnò una svolta decisiva negli annali dell´oscenità (il primo a mostrarlo in primo piano in un dipinto fu Gustave Courbet ne L´origine del mondo, 1866). È forse il caso di consigliare agli appassionati di documentarsi.
Sul finire mi pare che il libro inclini a una certa malinconia, approdando a un capitolo, l´oscenità nel terzo Millennio, che, direi, somiglia poco all´autore e non rientra a pennello nella sua sceneggiatura. Le donne si sono evolute. Certi eventi – il femminismo, la pillola, per dire – ne hanno cambiato l´animo. Le doti della pur ammirevole Margaret Thatcher venivano così celebrate dai suoi colleghi di governo: «ecco il miglior uomo politico di cui disponiamo». A farla breve, tutto sembra nuovo. Ma chissà se è un bene.
La domanda aleggia sul trattato composto da Martínez de León. La scrittrice Sharon Goulds, che egli cita, sembra confermare l´accennato disagio: «Le donne che mostrano doti di comando sono solitamente considerate maschili». E gli uomini focosi che dominano negli annali dell´oscenità, che cosa possono fare, adesso: accontentarsi di docili cretine? Poveracci, in fondo.

Repubblica 31.5.12
Il senso del debito
Buona parte del discorso religioso e politico si basa su un linguaggio simile a questo
Peccatori, eroi o insolventi, che succede a chi non paga?
di David Graeber


Nelle diverse tradizioni non si capisce se è peggio il debitore o il creditore avido
Anticipiamo un brano del saggio dell´antropologo che ha insegnato a Yale. Dalle origini della finanza ai suoi rapporti con etica e fedi

Il debito è dibattuto da almeno cinquemila anni. Per gran parte della storia – almeno la storia degli stati e degli imperi – gli esseri umani si sono sentiti dire che devono considerarsi debitori. Gli storici – in particolare gli storici delle idee – stranamente sono stati molto riluttanti ad affrontare le conseguenze di questa situazione, che più di ogni altra ha causato risentimento e sdegno perpetui. Dite alla persone che sono inferiori: sarà poco probabile che ne saranno compiaciute, ma è sorprendente quanto di rado tale asserzione conduca a una rivolta armata. Dite alle persone che potenzialmente sono uguali, ma che hanno fallito e che non si meritano neanche quello che hanno, al punto che non è più nemmeno loro: sarà più facile alimentare la loro rabbia. Ce lo insegna la storia. Da migliaia di anni, la lotta tra ricchi e poveri prende la forma del conflitto tra debitore e creditore: contese tra i pro e i contro del pagamento degli interessi, schiavitù da debito, cancellazione del debito, restituzione, ripresa di possesso, confisca dei greggi, sequestro dei vigneti, riduzione in schiavitù e vendita dei figli del debitore. Analogamente negli ultimi cinquemila anni le insurrezioni popolari sono cominciate regolarmente nella stessa maniera: con la distruzione rituale dei registri del debito, siano stati tavolette, papiri o libri mastri, a seconda del periodo storico (dopodiché, di solito, i ribelli hanno dato la caccia ai registri di proprietà della terra e delle tasse). Come piaceva dire al grande classicista Moses Finley, tutti i movimenti rivoluzionari del mondo antico avevano un unico programma: «Cancellare il debito e redistribuire la terra».
Analizzare questa prospettiva pone in posizione privilegiata perché ci permette di considerare quanto del nostro linguaggio morale e religioso sia originariamente emerso proprio da questi conflitti. Termini come "pagare il fio" o "redenzione" sono i primi che vengono in mente, presi direttamente dal linguaggio dell´antica finanza. In senso più ampio, si possono trovare origini simili per espressioni come "colpevolezza", "libertà", "remissione" e addirittura "peccato". Le ragioni del debito hanno giocato un ruolo centrale nel dare forma al nostro vocabolario elementare di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Il fatto stesso che gran parte di questo linguaggio sia stato plasmato da discussioni sul debito lascia il concetto stranamente incoerente. In fondo, per litigare con il re bisogna usare il suo linguaggio, indipendentemente dal fatto che le premesse del discorso siano ragionevoli.
Se si guarda allora alla storia del debito, quel che si scopre innanzitutto è una profonda confusione morale. Il primo elemento che balza agli occhi è che quasi ovunque la maggior parte delle persone sostiene nello stesso tempo che (I) restituire il denaro che si è preso a prestito è una questione di semplice moralità e (II) chiunque abbia l´abitudine di prestare denaro è empio.
D´altra parte guardando alla letteratura mondiale, è quasi impossibile trovare una sola rappresentazione empatica di un prestatore di denaro, o almeno di un prestatore professionista, ovvero per definizione qualcuno che si fa pagare gli interessi. Non sono sicuro che esista un´altra professione con un´immagine pubblica tanto negativa.
Da un punto di vista storico, ci sono solo due maniere efficaci con cui un prestatore possa cercare di sfuggire al pubblico disprezzo: scaricare la colpa su una terza parte oppure sostenere che il debitore è anche peggio. Nell´Europa medievale, per esempio, i signori sceglievano spesso la prima ipotesi, impiegando gli ebrei come propri delegati. Li chiamavano addirittura "i nostri" ebrei, a indicare che si trovavano sotto la loro personale protezione, sebbene di fatto questo volesse dire soltanto che avevano previamente tolto agli ebrei ogni altro modo per sopravvivere che non fosse la pratica dell´usura (con la garanzia di essere disprezzati da tutti). A ogni modo, periodicamente i signori se la prendevano con gli ebrei e tenevano tutti i loro soldi per sé. La seconda ipotesi è più comune, ma porta a concludere che entrambe le parti contraenti un prestito siano egualmente colpevoli: l´intera faccenda è un business meschino e probabilmente entrambe sono destinate alla dannazione.
Altre tradizioni religiose hanno prospettive diverse. I codici legali del Medioevo indù ammettevano i prestiti a interesse (a condizione che l´interesse non superasse il capitale prestato) e mettevano in rilievo che se un debitore non pagava, alla successiva reincarnazione sarebbe rinato come schiavo del suo creditore (o, secondo i codici posteriori, come il suo cavallo o bue). In molte correnti buddiste riappare lo stesso atteggiamento tollerante verso i prestatori di denaro, con conseguente avviso di karmica vendetta contro i debitori. Ma quando gli usurai si spingono troppo in avanti, appaiono le stesse storie che circolavano in Europa, con punizioni annesse. Ma allora come si risolve la faccenda?
Le grandi tradizioni religiose si trovano in un modo o nell´altro in imbarazzo su questo problema. Da un lato, nella misura in cui tutte le relazioni umane implicano un debito, gli attori coinvolti sono moralmente compromessi, entrambi colpevoli per il fatto stesso di essere entrati in relazione (come minimo corrono il rischio di diventare colpevoli se c´è ritardo nel saldo del debito). D´altro canto, quando diciamo che qualcuno agisce «come se non dovesse niente a nessuno», difficilmente ci riferiamo a un esempio di virtù. Nel mondo secolarizzato, moralità significa adempiere ai propri doveri verso gli altri, e noi abbiamo sviluppato una cocciuta tendenza a immaginarci questi obblighi come debiti. Forse i monaci possono evitare il dilemma separandosi completamente dal mondo secolare, ma noi siamo condannati a vivere in un universo che non ha troppo senso.
Nelle storie tramandate dalle tradizioni ci sono forme di giustizia poetica, in cui il creditore è obbligato a provare le stesse sensazioni che i debitori provano sempre, come la degradazione e la disgrazia. Si tratta di una maniera più viscerale e vivace di porre la solita domanda: «Chi deve cosa e a chi?».

Corriere 31.5.12
Google, patto con l'Unesco per le meraviglie del mondo
Nasce World Wonders, visite virtuali in 132 siti
di Serena Danna


Il nuovo arrivato in casa Google si chiama World Wonders. E le meraviglie del mondo promesse dal nome sono quelle che, da oggi, si potranno visitare online all'indirizzo www.google.it/worldwonders: 132 luoghi di interesse storico-culturale in 18 Paesi diversi.
Il progetto, in collaborazione con l'Unesco, il World Monument Fund e l'agenzia fotografica Getty Images, punta a creare un contenitore virtuale del patrimonio artistico-culturale del mondo. Non ci saranno solo foto a 360 gradi dei megaliti di Stonehenge (nella foto in alto), dei templi di Kyoto o della Reggia di Versailles: ogni immagine verrà accompagnata da una scheda sul luogo a cura dell'Unesco, da immagini d'archivio Getty (unite a quelle degli utenti di Panoramio, il sito di condivisione fotografica di Google) e da video YouTube di approfondimento.
Il Corriere ha visto in anteprima il sito, che in homepage prevede al centro una «vetrina» di presentazione e in alto due menu a tendina: nel primo è possibile scegliere i luoghi per località a partire dai continenti, mentre nel secondo la selezione avviene per tema (luoghi di culto, parchi e giardini e meraviglie della lettura).
Una volta scelto, il posto si potrà visitare virtualmente grazie alla mappatura fotografica di Street View che fornisce immagini a livello stradale a 360 gradi grazie a un triciclo fotografico a pedali.
Alcune meraviglie, come la cattedrale di Avignone o la Reggia di Versailles, dispongono di Sketchup, una tecnologia per la realizzazione di modelli virtuali tridimensionali.
Tra i luoghi italiani visitabili online ci saranno l'area archeologica di Pompei, i centri storici di Firenze, Urbino, Napoli, Pisa, Villa Adriana e le Cinque Terre.
Steve Crossan, direttore del Google Cultural Institute responsabile del progetto (e mente di altre iniziative culturali targate Mountain View come l'archivio di Nelson Mandela e il Google Art Project) ha spiegato: «Il nostro obiettivo è dare nuova vita ai luoghi più significativi del patrimonio culturale mondiale e, soprattutto, di renderli accessibili a un pubblico globale». Siamo abituati ad associare la tecnologia al futuro, dimenticando quanto possa fare invece per la conservazione e la valorizzazione del passato. Ha spiegato Francesco Bandarin, vicedirettore generale della cultura per l'Unesco: «Le nuove tecnologie hanno molto da offrire nella promozione e nella salvaguardia delle bellezze culturali e naturali. Con World Wonders speriamo di riuscire a raggiungere le nuove generazioni, perché sono loro i futuri custodi del patrimonio». D'accordo Bonnie Burnham, presidente del World Monuments Fund: «Molte persone non capiscono l'importanza della tutela storica e geografica, grazie al sito impareranno quanto lavoro c'è dietro la preservazione di quello che amano».
Una grande novità del progetto, che suggerisce la volontà di Google di inserirsi nel business della «Ed-tech» (letteralmente tecnologia dell'educazione), è la sezione «didattica» del sito. Gli insegnanti delle scuole primarie e secondarie potranno, infatti, scaricare kit con guide, manuali e documenti di approfondimento divisi per argomenti storici e aree geografiche. L'idea è quella di utilizzare Wonders Project come sistema di apprendimento puntando, da un lato, sul principio della «gamification», che ha fatto la fortuna di molti siti internet, dall'altro sull'importanza del dibattito.
Tra le proposte didattiche c'è la caccia al tesoro architettonico virtuale, il gioco delle meraviglie del mondo — con domande a risposta multipla riguardanti i siti —, o ancora «Dentro l'immagine», che prevede la scelta e il racconto di un luogo come simbolo della bellezza del mondo. Per ogni posto gli insegnanti dispongono di una presentazione, di una proposta di lezione e degli esercizi per i ragazzi. Aspettiamo la fase «social» della piattaforma — magari integrando il sito con il non fortunatissimo Google+, il social network di Mountain View — con la possibilità di inserire non solo le foto ma anche commenti, recensioni e contributi degli utenti. Nell'attesa abbiamo uno strumento in più per imparare ad amare il nostro patrimonio dal sofa di casa.